Medioevo n. 212, Settembre 2014

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Mens. Anno 18 n. 9 (212) Settembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 9 (212) settembre 2014

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

un di

dossier

costanza 1414-1418

Seicento anni fa il Concilio che cambiò la cristianità www.medioevo.it

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Venti d’indipendenza

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sommario

Settembre 2014 ANTEPRIMA

macchine d’assedio La torre

mostre «Iacobus me fecit» I magnifici quattro Caccia ai Primitivi

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itinerari Viaggio in Umbria

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appuntamenti La serpe nel brodo Il nobile predicatore L’Agenda del Mese

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Chi troppo in alto sale... di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ la scuola nel medioevo A suon di bacchettate di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

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STORIE

CALEIDOSCOPIO

speciale Un califfo alla conquista di Roma

cartoline Enigma romanico

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libri Lo scaffale

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musica Lunga vita a re Edoardo!

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di Marco Di Branco

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storie L’indipendenza

della Scozia

Nella terra degli uomini dipinti di Francesco Colotta

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Dossier 1414-1418

il concilio di costanza

un re, tre papi e 700 meretrici di Aart Heering

mostre

Da Giotto a Gentile

Miracolo a Fabriano

di Giampiero Donnini

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personaggi

Beatrice Portinari

L’amore di una vita

di Maria Paola Zanoboni

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Ante prima

«Iacobus me fecit» mostre • La

retrospettiva che Pratovecchio dedica a Iacopo di Landino è l’occasione per documentare la fervida stagione artistica di cui il Casentino fu teatro tra Quattro e Cinquecento

L

uogo ricco di storia, oltre che di bellezze naturali, il Casentino conserva molti capolavori d’arte medievale e rinascimentale che attestano gli antichi legami con Firenze in virtú dei floridi commerci e dell’appartenenza dell’intera regione alla vasta diocesi di Fiesole. L’esposizione nel Teatro degli Antei di Pratovecchio rende omaggio alla misteriosa figura del pittore Iacopo di Landino, che la tradizione vuole originario della cittadina e appartenente alla generazione dei giotteschi fiorentini; la documentazione sulla sua nascita e attività è tuttavia molto scarsa, anche se nel 1339 risulta fra i consiglieri fondatori della Compagnia di san Luca e, piú tardi, gli viene commissionata la realizzazione delle Storie del beato Martino in una cappella della chiesa di S.M. Novella. La sola opera firmata è il piccolo trittico Cagnola, che reca in calce alla parte centrale la scritta «Iacobus de Casentino me fecit»: si tratta di un tabernacolo portatile raffigurante la Madonna col Bambino in trono con quattro angeli e santi e la Crocifissione. Testa allungata con la fronte bassa, guancia lunga e liscia, labbra tumide, sguardo languidamente stanco e rassegnato, falce di luce sotto

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l’occhio e panneggi morbidi: cosí la Vergine è rappresentata dall’artista casentinese che, pur aderendo ai dettami giotteschi, aggiunge tocchi gentili e dettagli decorativi, sintetizzando nella raffinatezza cromatica la tendenza alla miniatura e i riflessi di scuola senese che ne determinano il suo personale timbro.

Una vita artistica intensa Iacopo non ha lasciato alcun dipinto nella sua terra natale, che fu, invece, pervasa da una vita artistica intensa fino al Quattrocento. Ne sono testimonianza opere come la tavola della Madonna col Bambino di Romena del Maestro di Varlungo, il Polittico di Poppi rappresentante la Madonna col Bambino e santi dell’elegante Taddeo Gaddi che lavorò con Giotto per 24 anni, nonché il Trittico del Pagliericcio del Maestro di Barberino. Numerose sono anche le testimonianze di pittura tardo-gotica riconducibili ad artisti sofisticati, quali il Maestro della Madonna Straus o il Maestro di Borgo alla Collina, che portarono in Casentino le tendenze piú aggiornate della pittura fiorentina dell’epoca. Tra i protagonisti dell’esposizione troviamo ancora Bicci di Lorenzo, con il polittico commissionato nel 1414 dal conte Neri della casata dei Guidi, signore di Porciano; a

Vir dolorum con i simboli della Passione, tempera su tavola del Maestro della Madonna Straus, Fine del XIV-inizi del XV sec. Valiana, chiesa di S. Romolo. capo di un’attiva bottega, il pittore eseguí molte opere per il contado fiorentino e per le chiese delle zone limitrofe, rimanendo legato al gusto trecentesco, quasi immune alle novità rinascimentali. Aperto agli influssi stilistici dei primi decenni del Quattrocento, fu, invece, Giovanni dal Ponte, autore del finto trittico della badia di Poppiena raffigurante un’Annunciazione fra il Battista e la Maddalena, in cui sperimentò soluzioni di architettura dipinta, nello stesso periodo in cui realizzò la pala d’altare di S. Giovanni Evangelista per la chiesa delle monache camaldolesi di Pratovecchio. Mila Lavorini Dove e quando

«Jacopo del Casentino e la pittura a Pratovecchio nel secolo di Giotto» Pratovecchio, Teatro degli Antei fino al 19 ottobre Orario lu-ve, 15,00-19,00; sa-do, 10,00-13,00 e 15,00-19,00 Info tel. 055 294883; pratovecchiocittadegliuffizi.it settembre

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I magnifici quattro mostre • Il consueto

appuntamento bolognese con Artelibro offre l’opportunità di ammirare alcuni dei massimi capolavori della produzione libraria medievale, autentici «libri d’arte» ante litteram

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ell’ambito dell’XI edizione di Artelibro, il Festival del Libro e della Storia dell’Arte di Bologna, è in programma la mostra «La scrittura splendente», che presenta una selezione di quattro manoscritti straordinari per antichità, rarità di testimonianza storica e preziosità assoluta nel campo della scrittura e della miniatura libraria. Sarà possibile ammirare la cosiddetta Bibbia di Marco Polo, proveniente dalla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, realizzata in Francia nella prima metà del Duecento (1230-1240) e usata per la predicazione dai missionari francescani che nella seconda metà del XIII secolo raggiunsero la Cina. Rimasta in possesso della famiglia di

un eminente personaggio di Cham Xo (oggi Ch’ang-shu, nella provincia di Nanchino), fu infine donata nel Seicento a Cosimo III de’ Medici. La Vita Christi di Ludolfo di Sassonia è il piú bello tra i codici della Biblioteca In alto una pagina della Bibbia di Borso d’Este. 1455-1461. Modena, Biblioteca Estense. A sinistra una pagina della Bibbia di Marco Polo. 1230-1240. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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dell’Archiginnasio grazie alle numerosissime, splendide e delicate miniature, databili alla metà del Quattrocento, attribuite a Cristoforo Cortese, anche per la raffigurazione costante di una fauna variegata (aironi, pavoni conigli, faraone, ecc.), che divenne quasi una sigla di questo miniatore, al quale si deve la decorazione del codice trascritto dal copista Michele Salvatico per la biblioteca dei Gonzaga di Mantova. (segue a p. 8)

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Ante prima Uno dei due volumi della Bibbia eseguita tra il 1455 e il 1461 per Borso d’Este, Duca di Ferrara, detta appunto Bibbia di Borso d’Este, che tra i preziosi codici che la Biblioteca Estense di Modena brilla di luce propria e si segnala per la stupefacente bellezza delle sue «carte ridenti», è un capolavoro assoluto della miniatura italiana del Rinascimento realizzato da grandi nomi, come Taddeo Crivelli e Franco dei Russi, che dipinsero ogni carta del manoscritto nel recto e nel verso, guardando alle nuove regole della prospettiva e creando una eccezionale galleria d’arte rinascimentale, la cui ricchezza non trova paragone in nessun’altra testimonianza artistica coeva.

Anche in versione digitale È inoltre possibile sfogliare virtualmente il Codex Purpureus Rossanensis (presente in versione digitale), in scrittura greca vergata in oro e in argento su pergamena dalla colorazione porpora, datato alla metà del VI secolo e probabilmente originario della Siria. L’originale è conservato al Museo Diocesano di Rossano. A corollario dell’evento, Artelibro sono in programma tre conferenze sulla storia dei manoscritti: sabato 20 settembre, ore 10,00-11,00, Nel crepuscolo del tardogotico: La Vita Christi di Ludulfo di Sassonia all’Archiginnasio; sabato 20 settembre, ore 15,0016,00, La leggenda della Bibbia di Marco Polo; domenica 21 settembre, ore 17,00-18,00; «Bibbia bela» di Borso D’Este, il capolavoro assoluto della miniatura rinascimentale. Vicende storiche ed esegesi artistica. (red.) Dove e quando

«La scrittura splendente. Tesori manoscritti dalle biblioteche italiane» Bologna, Sala dello Stabat Mater Biblioteca dell’Archiginnasio 19-25 settembre 2014 Orario lu-do, 10,00-19,00 Info tel. 051 276811; artelibro.it

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Caccia ai Primitivi mostre • Dalla metà del

Settecento illustri collezionisti italiani si contendono le opere dei precursori di Raffaello e Michelangelo. Un «corsa all’oro» raccontata ora a Firenze

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edicata alla storia del collezionismo, la mostra allestita alla Galleria dell’Accademia indaga il contesto storico e sociale che ne favorí la nascita e analizza le singole racccolte per spiegare l’interesse che, due secoli fa, dette vita al recupero dei cosiddetti «Primitivi», cioè quei pittori che avevano preceduto Michelangelo, Raffaello e i grandi maestri che la storiografia vasariana considerava modelli insuperabili. Questo fenomeno culturale investí l’Italia dalla metà del Settecento fino all’incirca al primo ventennio dell’Ottocento, inizialmente con carattere pioneristico e occasionale, ma poi con connotazioni piú sistematiche, soprattutto all’indomani delle requisizioni e delle soppressioni di chiese e conventi da parte del governo napoleonico, che favorirono la circolazione delle opere sul mercato.

Un «contagio» inarrestabile Il percorso espositivo è suddiviso in sezioni introdotte dal ritratto e da una sintetica biografia di ognuno dei 42 collezionisti presenti nella retrospettiva, al quale le opere erano appartenute, con un allestimento studiato per ricreare il luogo di conservazione originariario. Fu Roma il centro propulsore di questa «febbre», che contagiò poi il resto del Paese, coinvolgendo

In alto Cristo in pietà sorretto dagli angeli, olio su tavola di Antonello da Messina. 1475 circa. Venezia, Museo Correr. personaggi di diversa estrazione sociale, tra cui membri del clero, intellettuali e bibliofili, come Agostino Mariotti, Angiolo Maria Bandini o Padre Raimondo Adami, sensibili al richiamo di quei preziosi lavori e che, in taluni casi, ebbero contatti fra di loro, influenzandosi reciprocamente. Tra gli artisti in mostra, figurano pittori, scultori e miniatori di Firenze e di altri centri italiani quali Arnolfo di Cambio, Bernardo Daddi, Taddeo Gaddi, Nardo di Cione, Lippo Memmi, Vitale da Bologna, Ambrogio Lorenzetti, Matteo Giovannetti, Beato Angelico, Andrea Mantegna, Cosmè Tura e Giovanni Bellini M. L. Dove e quando

«La fortuna dei Primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento» Firenze, Galleria dell’Accademia fino all’ 8 dicembre Orario ma-do, 8,15-18,50; lu chiuso Info tel. 055 2388612; unannoadarte.it settembre

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Box titolo box titolo

Nel segno delle novità

Testo Box 2009 l’Assessorato all’Istruzione, formazione e lavoro della Regione Lombardia ha avviato in Valtellina l’iniziativa sperimentale Learning Week, proponendo alle scuole settimane di iniziative culturali extracurricolari. Nel panorama scolastico e formativo italiano i a XVII Borsa Mediterranea del Turismo nuove imprese culturali e progetti innovativi; percorsi Learning Week, caratterizzati da una forte valenza esperienziale Archeologico, sotto l’Alto Patronato delsul Presidente il Concorso Fotografico «La BMTA porta a territorio e da una modalità «full immersion», sono unici tiper lo schema della Repubblica e con il patrocinio di Expoattuativo Milano e per la possibilità Paestum!» pagina Facebook: in palio una notte per datasulla a ogni destinatario di poter partecipare 2015, UNESCO e UNWTO, torna a svolgersialnell’area 2 persone a Paestum alle durante la Borsa per l’autore percorso formativo ritenuto in piúhotel corrispondente proprie esigenze. archeologica della città antica di Paestum: l’area della«L’Orlando foto che otterrà «mi piace»; per partecipare, All’interno del progetto Furiosopiú in Valtellina» è stata quindi inserita adiacente al tempio di Cerere (Salone Espositivo, inviare, entroariostesco il 31 agosto, a info@bmta.it le foto dei la Learning Week «L’immaginario negli affreschi valtellinesi», che, Laboratori di Archeologia Sperimentale, propri viaggi nel mondo alla scoperta del patrimonio organizzata dal Centro di Formazione Professionale e dal Liceo Scientifico ArcheoIncontri), il Museo Archeologico Nazionale archeologico: intende cosí promuovere anche Donegani di Sondrio, oltre a offrirel’iniziativa agli studenti un momento di formazione (ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop culturale con i buyer i siti e le destinazioni inoltre, per chi ama tipicamente scolastico, permettemeno loro ilnote; positivo inserimento in un esteri) e la Basilica Paleocristiana (Conferenza scrivere, è possibile pubblicare la proprio foto con il contesto sociale e lavorativo.

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di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti) sono le suggestive sedi dell’evento. La prima novità della nuova edizione riguarda il periodo di svolgimento: la Borsa, infatti, solitamente collocata alla metà di novembre, nel 2014 avrà luogo nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre, in un fine settimana che comprende 2 giorni festivi, al fine di incrementare il numero dei visitatori e dare agli albergatori l’opportunità di offrire pacchetti ad hoc. La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti, destinati a trasformarsi in altrettanti appuntamenti fissi: Social Media & Archaeological Heritage Forum, giovedí 30 ottobre, che ospiterà «Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web», il secondo incontro nazionale dei blogger culturali: l’obiettivo è promuovere lo sviluppo dei beni culturali sempre piú attraverso i social network; ArcheOpenData Forum. Trasparenza dell’informazione in archeologia, venerdí 31 ottobre, momento di discussione dedicato agli open data; ArcheoStartUp, sabato 1° novembre, presentazione di Paestum. Il tempio di Cerere.

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informazione pubblicitaria

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racconto della visita sul blog del sito www.bmta.it la mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la piú importante Rete di ricerca Europea sui Musei Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, ospiterà «Digital Museum Expo» esposizione delle tecnologie piú recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre che a Paestum in 4 prestigiosi sedi: Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano (Roma), Biblioteca Alessandrina (Alessandria D’Egitto), Museo Allard Pierson (Amsterdam), City Hall (Sarajevo). La Borsa si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone Internazionale di Archeologia; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per gli addetti ai lavori, per gli operatori turistici e culturali, per i viaggiatori, per gli appassionati; opportunità di business nella suggestiva sede del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera e l’offerta del turismo culturale e archeologico (sabato 1° novembre). Nel sottolineare l’importanza che il patrimonio culturale riveste come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: il Paese Ospite Ufficiale nel 2014 sarà l’Azerbaijan. Negli Incontri con i Protagonisti, sabato 1° novembre, si succederanno, tra gli altri, Alberto Angela, Roberto Giacobbo, Mario Tozzi, Eva Cantarella e la blogger Galatea. Altra novità è data dall’attenzione dei media internazionali, che quest’anno si traduce nella presenza quali media partner di Antike Welt, AS., Clio, Current Archaeology, Dossiers d’archéologie, Rutas del Mundo. Infine, la Borsa da questa edizione diventa l’evento ufficiale di «Archeo», il piú importante mensile di archeologia. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it


Ante prima

Viaggio in Umbria itinerari • Tra acque limpide e boschi secolari, un percorso alla

scoperta di alcune delle gemme del «cuore verde» d’Italia

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embra che il tempo non voglia scorrere, a Isola Maggiore (Perugia), che, vista dal battello di linea del Lago Trasimeno, dà l’impressione di un fermo immagine: dal verde spuntano strutture in pietra a vista, mentre in alto fa capolino il campanile a vela della pieve di S. Michele Arcangelo. Niente auto, solo un lungo silenzio, interrotto dallo sciabordio dell’acqua e dalle sirene delle imbarcazioni. Ma Isola Maggiore non è sempre stata cosí. Nel Medioevo era molto ricca, perché centro principale di pesca di tutto il lago: secondo le cronache del tempo in un giorno si prendevano dai 150 ai 200 q di pesce, che veniva venduto nel raggio di centinaia di chilometri. Gli introiti maggiori legati all’attività, svolta dall’inizio di novembre al Sabato Santo, arrivavano durante la Quaresima, quando vigeva la proibizione di mangiare carne.

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Nel 1282, stando ai dati del censimento, vivevano sull’isola 70 famiglie, per un totale di 300 persone, ma il momento di massimo splendore si registra alle soglie dell’età moderna, quando la popolazione tocca i 600 residenti (oggi sono rimasti in 17) e nel lago sono disseminati 2000 impianti a trappola, i «tuori», costruiti con legno, canne e reti che attiravano la fauna lacustre.

Artisti di primo piano

In alto Castiglione del Lago (Perugia). La fortificazione localmente detta «castello». Qui sopra Sano di Pietro, Madonna col Bambino. 1465 circa. Isola Maggiore (Perugia), Centro di Documentazione.

Un indice dell’antica ricchezza è il fatto che i Francescani, presenti dalla metà del Duecento, abbiano sempre affidato le committenze isolane ad artisti di una certa levatura, che hanno lasciato affreschi dietro ai quali si coglie una cultura figurativa complessa, frutto della conoscenza dei principali cantieri del tempo, Assisi su tutti. Nel Cinquecento l’isola contava otto edifici religiosi, la Casa settembre

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Veduta dell’abbazia di S. Pietro in Valle (sulla destra), presso Ferentillo (Terni). del Capitano del Popolo, quella delle Opere Pie e l’Ospedale dei Disciplinati, ai quali vanno aggiunti gli stabili che facevano capo a cinque confraternite. Una delle prime strutture che si incontrano è la Casa del Capitano del Popolo, con le bifore e lo slancio tipicamente gotico che rimandano al Trecento. Vicino alla chiesa del Buon Gesú, l’architettura ospita il centro di documentazione sulla storia del Trasimeno e dei suoi territori. Alle stesso periodo risale Casa Bartocci, un altro palazzetto medievale, costruito su tre piani e aperto da un elegante porticato. Dalla parte bassa dell’abitato si dipanano sentieri sterrati, con una splendida vista sulle acque, fra profumi, aromi, piante della macchia mediterranea. Un tratto in salita fra i prati raggiunge la chiesa di S. Salvatore, a navata unica, con transetto e abside semicircolare del XII secolo, che conserva tracce di decorazione pittorica nel catino presbiteriale. Il luogo di culto, circondato dagli ulivi, era un tempo affiancato dall’ospedale gestito dalla confraternita di Santa Maria dei Disciplinati, operativa dal 1341, anche nel distribuire alimenti. Ma a sorprendere, soprattutto per l’interno, è la pieve di S. Michele Arcangelo, collocata sul punto piú alto dell’isola, a 308 m d’altitudine.

Eretta nel XII secolo, è una semplice aula con campanile a vela sulla facciata, visitata già da san Francesco, che nel 1211 sbarca a Isola Maggiore per trascorrere tutta la Quaresima in eremitaggio, lasciando testimonianze del suo soggiorno, che vanno dallo scoglio presso il quale pregava a una cappella con il giaciglio. Nella pieve, lungo le pareti della navata, scorrono tre secoli di pittura, ancora ben leggibile. A partire da una Madonna con il Bambino, dipinta nel 1280 sulla destra, con un impaginato bidimensionale, legato al gusto bizantino che vuole i personaggi

Una regione nel «mirino» di un grande fotografo Con la mostra fotografica di Steve McCurry, «Sensational Umbria», nelle due sedi dell’ex Fatebenefratelli e di Palazzo della Penna, a Perugia, la Regione Umbria ha avviato una campagna per valorizzare patrimoni e circuiti di segno diverso, promuovendo l’immagine del territorio. La rassegna è allestita in un ambiente buio, con le immagini di grande formato, collocate a terra e illuminate. McCurry, esponente di punta del panorama americano e internazionale, è rimasto incantato da persone, paesaggi, storia, poesia della regione. E nelle sue foto, che sono legate ai filoni di arte, natura, centri storici, spiritualità, emerge un mix affascinante fra passato e presente. «Sensational Umbria», Perugia, fino al 5 ottobre Orario ma-ve, 10,30-19,00 sa e prefestivi, 10,30-23,00; lu chiuso Info tel. 199.151.123, www.sensationalumbria.eu

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in posizione ieratica. Di fronte, un’Assunzione di Maria fra quattro angeli, con la Madonna e Gesú che si tengono per mano, rivela, per l’impostazione plastica, un retroterra figurativo diverso, che guarda a Giotto e ai suoi collaboratori. Gli artisti chiamati sull’isola, infatti, sperimentavano spesso nuove soluzioni formali alla luce di quanto vedevano nel cantiere di Assisi. Sempre all’interno, figurano l’affresco trecentesco in cui compare il vescovo Ercolano e quello con sant’Antonio abate, realizzato nel secolo successivo, quando viene dipinto anche l’intero ciclo del catino absidale, nel quale troneggia un Crocefisso di Bartolomeo Caporali (1420-1503).

Un «castello» per Federico Isola Maggiore è collegata con i battelli di linea a Castiglione del Lago (Perugia), sul quale svetta quello che gli abitanti chiamano «castello», ma che, in realtà, è una struttura fortificata costituita solo dalle mura pentagonali alle quali sono addossate le torri d’angolo e un mastio. Eretta a scopo difensivo nel 1247 per volere di Federico II, la fortezza è stata progettata da Frate Elia da Cortona, l’autore della prima

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Ante prima

Bevagna (Perugia). La piazza medievale, il cui assetto risale al XII-XIII sec. basilica del Santo ad Assisi, che l’ha voluta nel punto in cui si gode di una visione del Trasimeno a 360 gradi. E per costruirla ha ridisegnato tutto il centro abitato. All’interno della rocca si arriva dallo studio di Ascanio, un saloncino di Palazzo della Corgna: un passaggio coperto, che a luci spente è illuminato solo dalle rare feritoie, sbuca in una sorta di guscio vuoto, con le mura che racchiudono un tratto di prato digradante; quest’area, dove crescono anche degli ulivi, viene usata in estate come teatro per proiezioni, festival, jazz, spettacoli, concerti. Merita comunque una tappa anche il resto del Palazzo rinascimentale, residenza della casata che ha avuto in Ascanio l’esponente piú ambizioso sul piano politico, nonché un committente di opere maestose.

Nella cripta delle mummie Ferentillo (Terni), avamposto dei duchi longobardi dal VI secolo, sorge invece tra paesini arroccati sulle colline. Nell’accostarsi al borgo, colpiscono le mura che abbracciano lungo il fianco di Monte Sant’Angelo un abitato con piccole strutture in pietra, collegate le une alle altre, sotto la torre di avvistamento. Percorrendo le stradine gradinate, si ha la sensazione che le casette siano

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un tutt’uno con la roccia, circondata da un bosco fitto. E dopo un paio di rampe, il Museo delle Mummie, allestito in una cripta del XIII secolo, poi inglobata nella chiesa di S. Stefano, apre uno scenario completamente nuovo. In teche poco illuminate, sono esposte circa trenta salme, alcune di bambini e addirittura di neonati vicino alla mamma, nelle posizioni piú diverse. Si tratta di corpi ritrovati all’inizio dell’Ottocento, dopo l’editto napoleonico di Saint-Cloud, perfettamente mummificati. Il fenomeno è dovuto alla particolare composizione del terreno, ricco di carbonato di calcio, che drena l’acqua e, essendo privo di batteri, non favorisce la decomposizione. Il risultato è che le mummie, tutte senza abiti, hanno conservato pelle, capelli, barba.

Dagli eremiti ai Benedettini A pochi chilometri, s’incontra la splendida abbazia di S. Pietro in Valle, di fondazione longobarda, voluta nel VI secolo dai cugini eremiti Lazzaro e Giovanni. Il centro benedettino, sulla via di comunicazione per Spoleto, rientrava nel sistema difensivo che contava torri verso Ferentillo e Norcia. È un gioiello la chiesa romanica, con facciata a capanna e torre campanaria, costruita sui resti di una struttura romana, come testimonia il materiale riutilizzato

nella zona presbiteriale. L’interno, a navata unica e copertura a capriate, conserva plutei longobardi e affreschi da non mancare. Lungo la parete di sinistra sfilano episodi dell’Antico Testamento, ben conservati, in quella di destra scene del Nuovo Testamento. Sono pitture di scuola romanica, con una prospettiva pregiottesca che ha già superato l’impostazione bizantina. Vale infine una tappa Bevagna (Perugia), legata a doppio filo con il Medioevo: ogni anno vi si svolge il Mercato delle Gaite, una rievocazione storica portata avanti secondo un criterio filologico. E le architetture dell’età di Mezzo, come l’urbanistica del tempo, sono cosí ben conservate da sembrare una quinta teatrale. Quindi non è un caso che qui siano stati girati film e sceneggiati televisivi. Stefania Romani Dove e quando

• Isola Maggiore è collegata con battelli giornalieri a Passignano sul Trasimeno, Tuoro Navaccia, Castiglione del Lago, Isola Polvese. Nel circuito museale dell’isola sono inclusi il Museo del Merletto, la pieve di S. Michele Arcangelo, la Casa del Capitano Info tel. 075 9652484, www. lagotrasimeno.net • A Castiglione del Lago (Pg) si possono visitare Palazzo della Corgna e la Rocca (tutti i giorni, 9,30-19,30) Info tel. 075.951099; www. comune.castiglione-del-lago.pg.it • Il Museo delle Mummie di Ferentillo (Tr) osserva il seguente orario: apr-set: 9,0012,30 e 14,30-19,30; ott-mar: 9,30-12,30 e 14,30-18,00 Info tel. 335.6543008. • L’abbazia di S. Pietro in Valle è oggi una residenza d’epoca, in cui è possibile soggiornare. La chiesa si può visitare tutti i giorni, con orario 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info sanpietroinvalle.com settembre

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Ante prima

La serpe nel brodo appuntamenti • Il paese emiliano di Medicina si appresta a rievocare la

guarigione miracolosa di Federico Barbarossa (gravemente ammalatosi), favorita dall’assunzione di un «farmaco» decisamente particolare...

S

econdo un racconto popolare, nel 1154, Federico I Hohenstaufen, il Barbarossa, di passaggio nella cittadina emiliana di Medicina, si ammalò gravemente. L’imperatore avrebbe riacquistato la salute grazie a un brodo preparato dagli abitanti locali in una pentola nella quale

Italia e, con la dieta di Roncaglia, vietò l’alienazione dei feudi senza l’assenso del signore locale, dichiarando nulle, con efficacia retroattiva, tutte quelle avvenute in precedenza. Accampato per qualche tempo nei pressi di Bologna, Federico I accolse una

quest’anno in programma dal 18 al 21 settembre. Medicina si immerge nelle atmosfere dell’età di Mezzo, grazie a centinaia di figuranti e artisti. I visitatori possono gustare le specialità del territorio nei numerosi punti di ristoro allestiti nel centro storico, oppure osservare mestieri

Due immagini della rievocazione storica di Medicina (Bologna), della quale è protagonista l’imperatore Federico Barbarossa (foto a sinistra).

delegazione di Medicinesi che gli espose i torti patiti dai Bolognesi. E il 13 maggio 1155 emanò un editto in virtú del quale disponeva la ricostruzione del paese e ne proclamava l’indipendenza, assegnando al suo territorio nuovi e piú allargati confini. Per la cronaca Medicina mantenne la propria indipendenza fino al 1745, quando una bolla di papa Benedetto XIV ne sancí il passaggio sotto il controllo politico-amministrativo del Senato bolognese.

antichi e gli spettatoli offerti da musici, giocolieri, tamburi, streghe e cantastorie. Il sabato sera si tiene il tradizionale Palio della Serpe, conteso attraverso prove di abilità fra le cinque torri del paese: Oca, Porco, Cavallo, Uva e Maniscalco. Domenica sera il corteo del popolo sfila lungo le vie del centro, festeggiando e salutando il leggendario arrivo a Medicina dell’imperatore Barbarossa, con la sua armata e il suo seguito, omaggiato dai notabili e dal rappresentante del popolo che gli consegnano le chiavi della città. Fin dai primi giorni di settembre si tengono incontri pubblici ed eventi preparatori alla rievocazione. Tiziano Zaccaria

era caduta una serpe: in segno di riconoscenza avrebbe cosí chiamato quel luogo «Medicina», rendendolo autonomo dal dominio di Bologna. Leggende a parte, è certo che a quell’epoca l’attuale capoluogo emiliano, dopo la caduta dell’autorità imperiale, tentò di inglobare terre e comuni vicini. Per non aver voluto sottostare al dominio felsineo, nel 1151 Medicina venne distrutta e quasi tutta la popolazione locale fu costretta a emigrare. Ma tre anni piú tardi il Barbarossa calò in

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Ritorno al Medioevo Ancora oggi le vicende accadute nel XII secolo in questa cittadina emiliana vengono ricordate con la Rievocazione Storica del Barbarossa,

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MEDIOEVO



Ante prima

Il nobile predicatore appuntamenti •

Ruperto di Salisburgo fondò, nell’VIII secolo, il primo monastero austriaco. E la sua città, come ogni anno, lo ricorda con grandi feste

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el XIV secolo a Salisburgo si sviluppò la tradizione di due fiere annuali, una in occasione del «carnevale di Quaresima», l’altra in autunno, per la Festa di San Ruperto. Quest’ultima fu voluta per commemorare la traslazione nella cattedrale cittadina delle reliquie del santo, avvenuta il 24 settembre 774 per opera del vescovo Virgilio. Ancora oggi, in occasione del Giorno di San Ruperto, fissato appunto al 24 settembre, nelle piazze e nelle strade intorno alla Cattedrale si celebra ogni anno una grande festa con giostre, rievocazioni storiche, concerti, spettacoli e mercatini.

Nel nome di san Pietro Ruperto di Salisburgo visse fra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo. Discendente dal casato dei Rupertini, Ruperto si recò intorno al 700 in Baviera, dedicandosi alla predicazione itinerante. Ottenuta la protezione del duca Teodone II di Baviera, fondò dapprima una chiesa dedicata a san Pietro sul lago Waller, poi un monastero con lo stesso nome Alcune immagini dei festeggiamenti che Salisburgo organizza in onore di san Ruperto.

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nei pressi dell’antica Juvavum, sul fiume Salzach. Questo monastero, il piú antico d’Austria, costituí il nucleo intorno al quale venne successivamente fondata Salisburgo. San Ruperto morí il 27 marzo 718 e le sue spoglie sono tuttora conservate nella cattedrale salisburghese. Quest’anno la festa in suo onore inizierà nella tarda mattinata di venerdí 19, con la tradizionale processione solenne per le vie della Città Vecchia, a cui seguirà il saluto del sindaco, a mezzogiorno, nella piazza del Duomo. In seguito, il regista teatrale e attore Peter Blaikner reciterà la Rupertiade: le vicende politiche e sociali del passato, legate al santo. Nei cinque giorni successivi, in piazza del Duomo vari gruppi in costumi tradizionali proporranno danze popolari e cortei folcloristici. Ogni giorno in piazza Mozart bancarelle di agricoltori offriranno i loro prodotti freschi, mentre in piazza del Mercato Vecchio verrà dato spazio all’artigianato locale. Nella serata di mercoledí 24, gran finale con i fuochi d’artificio. T. Z. settembre

MEDIOEVO



agenda del mese

a cura di Stefano Mammini

Mostre

d’epoca medievale e rinascimentale, come un pregevole disegno di Andrea Mantegna. info www.museums. norfolk.gov.uk/

firenze Dall’Egitto dei Faraoni al Giappone dei Samurai attraverso il Medio Oriente islamico: recenti restauri del Settore Materiali Tessili dell’Opificio U Opificio delle Pietre Dure fino al 13 settembre

Reliquie sacre trovano posto accanto a rari pezzi per uso quotidiano o per scopi militari provenienti da varie aree geografiche,

incluse Toscana e Marche, in un itinerario che ripercorre il lavoro svolto negli ultimi anni dal prestigioso laboratorio di restauro. Tra i manufatti esposti, possiamo segnalare un nucleo di reperti in fibre vegetali, appartenenti alla cultura egiziana, oppure un velo e un cuscino in seta, lino e oro di provenienza mediorientale, rinvenuti nel reliquiario del Braccio destro di san Giovanni Battista, realizzato dall’orafo senese Francesco D’Antonio. info opificiodellepietredure.it

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londra costruire l’immagine: l’architettura nella pittura rinascimentale italiana U National Gallery fino al 21 settembre

roma

norwich

1564-2014, Michelangelo. Incontrare un artista universale U Musei Capitolini fino al 14 settembre

la meraviglia degli uccelli U Castle Museum fino al 14 settembre

Ideata in occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti, avvenuta proprio nella Capitale il 18 febbraio 1564, la mostra ripercorre la vita e l’opera del maestro. Una mostra che supera l’oggettiva impossibilità di presentare i capolavori «intrasportabili» realizzati da Michelangelo (gli affreschi della Sistina, fra tutti) con l’esposizione di opere che per la prima volta si possono ammirate le une accanto alle altre. Le arti in cui si espresse Michelangelo vengono raccontate in nove sezioni espositive, focalizzando i temi cruciali della sua poetica. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); museicapitolini.org

Spaziando dalla preistoria all’età moderna, la mostra allestita nel castello di Norwich analizza il ruolo simbolico degli uccelli presso le piú importanti culture e civiltà della storia. Per farlo, sono stati scelti oggetti e opere d’arte che sono appunto la traduzione visiva e plastica della relazione stabilita dall’uomo con questa classe di animali. Ne scaturisce una galleria, ricca e variopinta, attraverso la quale si dipana il filo conduttore che lega una scultura babilonese del 2000 a.C. al «ritratto» fotografico di un magnifico esemplare di allocco realizzato negli anni Trenta del Novecento in Gran Bretagna. In mezzo, c’è spazio per testimonianze d’ogni genere, tra cui non mancano materiali

L’esposizione documenta e sottolinea l’importanza di alcuni dei piú riusciti dipinti d’ispirazione architettonica firmati da maestri italiani quali Duccio di Boninsegna, Botticelli o Carlo Crivelli e da artisti loro contemporanei. Si vuole indurre a guardare a queste opere con occhio diverso, per scoprire in che modo gli spazi fossero stati concepiti dai pittori e come essi avessero reso la concreta realtà delle materie da costruzione, come i mattoni, la calce o il marmo. L’intento è inoltre quello di sfatare il luogo comune secondo il quale l’architettura, all’interno dei quadri, fosse soltanto uno sfondo, passivo e subordinato alla preminenza delle figure. Le opere esposte dimostrano infatti quanto le composizioni potessero essere spesso imperniate sui motivi architettonici e come essi venissero studiati fin dal primo abbozzo. info nationalgallery. org.uk

Torino TESORI DAL PORTOGALLO ARCHITETTURE IMMAGINARIE DAL MEDIOEVO AL BAROCCO U Palazzo Madama fino al 28 settembre

Grazie a opere provenienti da musei, chiese e raccolte private portoghesi, la mostra propone un viaggio alla scoperta della civiltà figurativa di una regione europea che, attraverso le sue esplorazioni e la sua vasta rete commerciale, ha fatto da ponte con le culture del Nord Africa, delle Americhe e dell’Asia. Dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie, disegni e trattati illustrano come i principi dell’architettura

abbiano, fin dal Medioevo, accompagnato l’ideazione e la creazione degli oggetti, esaltandone i valori estetici e decorativi e sottolineandone i significati simbolici e sociali. info tel. 011 4433501; palazzomadamatorino.it settembre

MEDIOEVO


Firenze

Bologna

JACOPO LIGOZZI «PITTORE UNIVERSALISSIMO» (VERONA 1547FIRENZE 1627) U Galleria Palatina fino al 28 settembre

Impressioni bizantine. Salonicco attraverso le immagini fotografiche e i disegni della British School at Athens (1888-1910) U Museo Civico Medievale fino al 28 settembre

Discendente da una famiglia di ricamatori milanesi e figlio del pittore Giovanni Ermanno, Jacopo Ligozzi nacque a Verona nel 1547 e lí svolse un’iniziale attività, spostandosi però ben presto a Firenze, dove, nel 1577, è documentata la sua presenza presso la corte granducale di Francesco I e dove rimase stabilmente fino alla morte, nel 1627, impiantando una solida bottega. Il percorso si articola in sezioni tematiche, a partire dai primi tempi presso la corte medicea, dalla quale Jacopo si fece apprezzare come disegnatore di naturalia e poi come ritrattista, ma anche sapiente regista di insiemi decorativi. Jacopo fu inoltre pittore di storia, con l’allestimento dei grandi dipinti su lavagna nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio o ancora per gli apparati in occasione delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Ligozzi si distinse infine come sapiente e delicatissimo progettista di abiti e ricami per tessuti, nonché di manufatti in pietre dure. info tel. 055 2388614; unannoadarte.it

MEDIOEVO

settembre

Uno sguardo su Salonicco tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, con le inconfondibili prospettive su mura, chiese, mosaici, arredi marmorei bizantini: è quello che offrono le fotografie e le illustrazioni eseguite dagli architetti inglesi Robert Weir Schultz e Sidney Howard Barnsley, che visitarono la città greca nel 1888 e nel 1890 per motivi di studio, influenzati dal celebre movimento artistico Arts and Crafts. Agli inizi del XX secolo il loro lavoro fu continuato dagli allievi inglesi Walter S. George e William Harvey, i quali, grazie alla collaborazione con le autorità turche e ai finanziamenti del

mostre • IMPERIITURO. Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana U Ravenna – Museo TAMO e Biblioteca Classense

fino al 6 gennaio 2015 (dal 4 ottobre) info Museo TAMO: tel. 0544 213371, www.ravennantica.it Biblioteca Classense: tel. 0544 482116, e-mail: segreteriaclas@classense.ra

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200 anni fa, il 28 gennaio 814, moriva Carlo Magno, da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. Sul tema della Renovatio Imperii, cioè appunto la trasmissione dell’idea imperiale, è stata organizzata una mostra didattica, che ha per fulcro Ravenna ed è ospitata nelle due sedi del museo TAMO e della Biblioteca Classense, articolandosi in diverse sezioni. «Carlo Magno e l’Italia, Gli Ottoni, Ravenna e l’Italia. Il ruolo della tradizione classica e la circolazione dei modelli in epoca ottoniana a TAMO», illustra il ruolo di Ravenna come punto di riferimento culturale per Carlo Magno nella sua impresa di trasformare Aquisgrana nella Roma secunda e poi per gli Ottoni, come dimostra il sito archeologico di S. Severo a Classe. Alla Biblioteca Classense, con il titolo «Da Carlo Magno agli Ottoni, testimonianze documentarie, storiografiche, iconografiche», attorniate dalle immagini dei rappresentanti imperiali di età ottoniana, arrivate a noi attraverso grandi esempi di miniatura provenienti dalle niblioteche d’Europa, si espongono nell’Aula Magna dell’antico monastero camaldolese, importanti e vetusti documenti della politica degli Ottoni a Ravenna. Byzantine Research and Publication Fund, poterono arricchire notevolmente la documentazione già raccolta: l’insieme del materiale costituisce una sezione importante nell’archivio della BSA, per la prima volta mostrata al pubblico italiano. Il percorso espositivo si snoda attraverso i principali monumenti bizantini di Salonicco: l’arco di Galerio, la Rotonda, le chiese della Panagia Acheiropoietos, di S.

Demetrio e di S. Sofia. Alle immagini fotografiche si accompagnano alcuni oggetti rari – bizantini e ottomani – delle collezioni dei Musei Civici di Bologna: avori, icone e manufatti in metallo. info tel. 051 2193930; comune.bologna.it/ iperbole/MuseiCivici Chianciano Terme Petala aurea. Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla

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agenda del mese Collezione Rovati U Museo Civico Archeologico di Chianciano Terme fino al 28 settembre

La mostra propone una raffinata selezione di croci d’ambito longobardo e lamine sagomate di cultura bizantina, prevalentemente databili al VI e VII secolo e realizzate attraverso la lavorazione di sottili lamine e foglie d’oro, quindi utilizzate per decorare manufatti in legno, osso o avorio (come cassette o reliquiari), in cuoio (come cinture o borse) oppure tessuti (come abiti cerimoniali, coperte di uso liturgico, o infine sudari e veli funebri). Un repertorio iconografico che varia dai semplici motivi geometrici e vegetali, alle figure umane e animali, che perfettamente si raccorda alla collezione del museo e, in particolare, a un corredo funebre longobardo, fino a oggi conservato nei depositi, rinvenuto pochi anni fa nel territorio di Chianciano Terme. info tel. 0578 30471; e-mail: museoetrusco@ libero.it; petala-aurea.org

in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali. All’indomani di quel decreto, furono pubblicati numerosi trattati sulle arti figurative a soggetto sacro, sull’architettura dei luoghi di culto e sulla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la

preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la conseguente volontà di riportarla entro i parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; museodiocesano tridentino.it

Verona Paolo Veronese. L’illusione della realtà U Palazzo della Gran Guardia fino al 5 ottobre

L’arte di Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) torna nella sua città natale con una mostra dedicata alla sua figura e alla sua opera. In mostra sono esposte circa 100 opere, fra dipinti e disegni, provenienti dai piú

prestigiosi musei italiani e internazionali. Si tratta della prima rassegna monografica di tale ampiezza in Italia e presenta Paolo Veronese attraverso 6 sezioni espositive: la formazione a Verona, i fondamentali rapporti dell’artista con l’architettura e gli architetti (da Michele Sanmicheli a Jacopo Sansovino ad Andrea Palladio), la committenza, i temi allegorici e mitologici, la religiosità, e infine le collaborazioni e la bottega, importanti fin dall’inizio del suo lavoro. Oltre a un’ampia scelta di capolavori dell’artista, la mostra comprende numerosi disegni di eccezionale qualità e varietà tematica e tecnica, con l’obiettivo di testimoniare il ruolo della progettazione e riflessione grafica non

solo nel percorso creativo di Paolo ma anche nella dinamica produttiva del suo atelier. info tel. 045 8062611; e-mail: castelvecchio@ comune.verona.it; www.mostraveronese.it Mantova Storia e Leggenda dei Cavalieri del Tempio U Fruttiere di Palazzo Te fino al 5 ottobre

Attraverso reperti storico-artistici di varia natura, (icone, scrigni, reliquiari, manoscritti, statue, troni, sigilli, lastre tombali, codici miniati), l’esposizione illustra la questione templare innanzitutto come eredità storica, partendo dal contesto di questa epoca chiaroscurale sulla quale il visitatore può muoversi in un personale percorso di approfondimento e di scoperta. Il percorso dà particolare rilevanza a due elementi fondamentali della storia dei Templari: il fascino dell’Oriente e il processo contro il Tempio. info fondazionednart.it cividale del friuli

ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre

Il Crocifisso di Cividale e la scultura lignea nel Patriarcato di Aquileia al tempo di Pellegrino II (secoli XII e XIII) U Palazzo de Nordis fino al 12 ottobre

L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative

Trenta opere, alcune delle quali rarissime e mai esposte prima d’ora, accompagnano il visitatore in un viaggio alla scoperta degli

trento

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esempi piú significativi di sculture lignee prodotte tra il XII e il XIII secolo nell’area altoadriatica. Simbolo della mostra è il maestoso Crocifisso ligneo tardo-romanico restaurato dalla Soprintendenza tra il 2005 e il 2012: un capolavoro prototipo per altri esemplari

diffusi nelle chiese del patriarcato aquileiese almeno fino dal Duecento. info tel. 0432703070; www.passepartout.coop Leida Medioevo dorato U Rijksmuseum van Oudheden fino al 26 ottobre

Come si viveva ai tempi dei sovrani merovingi (400-700 d.C.), cioè dopo la caduta dell’impero romano e prima dell’ascesa di Carlo Magno? Che non siano stati «secoli bui» è un dato ormai acquisito e, a ulteriore riprova, il Museo di Antichità di Leida presenta una spettacolare selezione di reperti, provenienti

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Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 2 novembre

perlopiú da necropoli e comprendenti, tra gli altri, oreficerie, manufatti in vetro e armi. Oggetti di pregio, che sono però funzionali alla ricostruzione del contesto nel quale vennero fabbricati e utilizzati e dunque permettono di fare luce sul modus vivendi, sul sentimento religioso e sulle attività produttive e commerciali delle genti a cui vanno ascritti. Un panorama che dunque giustifica l’«età dell’oro» evocata dal titolo della mostra. info rmo.nl fiesole Fiesole e i Longobardi U Museo Civico Archeologico fino al 31 ottobre

Fibule, aghi crinali, raffinati manufatti in vetro, gioielli, ma soprattutto armi: spade, cupidi di lance, coltelli e punte di freccia. E poi ornamenti di cinture, vasellame e utensili vari. Questi i reperti, in buona parte mai esposti al pubblico, della mostra allestita nelle sale del

Museo Archeologico di Fiesole. Il percorso presenta una sessantina di reperti databili fra gli ultimi decenni del VI e tutto il VII secolo, che sono stati rinvenuti in contesti di sepolture, le cui prime scoperte risalgono alla fine dell’Ottocento. Fra questi si annoverano le crocette, esempio di tecnica orafa, i raffinati calici in vetro soffiato e l’umbone di scudo riccamente decorato. Di particolare suggestione sono poi le ricostruzioni delle tombe. Quattro quelle esposte e relative a un guerriero, una donna d’alto lignaggio, un maestro d’ascia e una bambina. All’interno del percorso della mostra sono presenti anche due manichini con ricostruzioni di personaggi in costume longobardo. info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@comune. fiesole.fi.it. trento Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al

Quello che fu il Magno Palazzo del potente principe vescovo Bernardo Cles accoglie una vasta selezione di opere firmate dall’artista che l’allora signore di Trento aveva chiamato nel 1531 a decorare alcune delle sale piú prestigiose della sua residenza, Dosso Dossi (al secolo Giovanni di Nicolò Luteri). Per il pittore, all’epoca poco piú che quarantenne, quella commissione costituí una ulteriore e prestigiosa conferma dell’apprezzamento che la sua opera andava riscuotendo. Insieme al fratello Battista, Dosso si trattenne per circa un anno a Trento: al termine del soggiorno, i

due avevano lavorato alla decorazione di ben 19 sale del palazzo, sulle quali è stato appunto costruito il percorso dell’esposizione, che presenta una quarantina di tele, fra cui un ritratto del grande medico e umanista Niccolò Leoniceno che, sotto forma di marchio

tipografico, reca la firma dello stesso Dosso Dossi. info tel. 0461 233770; e-mail: museo@castello delbuonconsiglio.tn.it; buonconsiglio.it firenze SACRI SPLENDORI. IL TESORO DELLA «CAPPELLA DELLE RELIQUIE» IN PALAZZO PITTI U Museo degli Argenti fino al 2 novembre

Nel 1616 veniva consacrata la «Cappella delle Reliquie» in Palazzo Pitti, luogo simbolo della devozione delle granduchesse di Toscana e degli ultimi granduchi della famiglia Medici. Costruita da Cosimo I negli anni Sessanta del Cinquecento, la cappella, a pianta ottagonale, dal 1610 fu

oggetto di importanti lavori di abbellimento voluti dall’arciduchessa d’Austria e granduchessa di Toscana Maria Maddalena d’Asburgo, moglie di Cosimo II de’ Medici, per custodirvi i reliquiari preziosi che costituivano una parte importante delle sue collezioni. Altrettanto decisivo fu il ruolo di

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agenda del mese Cristina di Lorena, suocera di Maria Maddalena, alla quale si deve la creazione del primo, cospicuo nucleo di reliquiari confluito poi alla sua morte nella raccolta della nuora. Uno straordinario insieme di opere che fu accresciuto ulteriormente dalla granduchessa Vittoria della Rovere e da suo figlio, il granduca Cosimo III, diventando uno dei piú vasti tesori sacri d’Europa. Attraverso un minuzioso lavoro di archivio la mostra restituisce un’immagine di queste preziosissime collezioni, testimonianza della profonda devozione della famiglia granducale e al contempo simbolo di prestigio e di magnificenza, fonte di denaro e coagulo di identità collettiva. info tel. 055 2388709; unannoadarte.it

ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterono tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org

Bath

Nel Medioevo, il possesso di resti mortali appartenenti a una persona venerata, oppure un qualsiasi oggetto che con essa aveva avuto una connessione, diretta o indiretta, rappresentava

Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre

Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo

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Riggisberg Velo e ornamento: i tessuti medievali e il culto delle reliquie U Abegg-Stiftung fino al 9 novembre

del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre

un tesoro. Resti che per secoli sono stati accuratamente preservati, spesso avvolti in materiali sontuosi che, nel tempo, sono diventati essi stessi reliquie, essendo venuti a contatto proprio con il corpo che proteggevano e adornavano. L’AbeggStiftung di Riggisberg, in Svizzera, istituto specializzato nel restauro e conservazione di tessili antichi, espone un’ampia selezione di queste preziose stoffe. Protagonista dell’evento è san Gottardo, vescovo tedesco, morto nel 1038. Al momento della canonizzazione, avvenuta quasi un secolo dopo, la sua tomba nella cattedrale di Hildesheim fu aperta e il contenuto trasferito

in una teca dorata, tempestata di gemme, dischiusa nel 2009 per intenti conservativi.Gli involucri portati alla luce in quell’occasione, che racchiudevano frammenti tessili e ossei, insieme a terra e sabbia, sono esposti per la prima volta. info abegg-stiftung.ch

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella neoclassica e permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle

Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale settembre

MEDIOEVO


nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe. info antikenmuseumbasel.ch

ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni dopo, il progetto CEC, Cradles of European Culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename berlino I vichinghi U Martin Gropius Bau fino al 4 gennaio 2015 (dal 10 settembre)

Presentata a Copenaghen e poi a Londra, fa tappa a Berlino una delle piú

MEDIOEVO

settembre

ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava. Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. info smb.museum

tuttora conservano; una nuova classe di funzionari statali si sostituí ai comandanti militari nelle gerarchie di governo; il ruolo stesso dell’imperatore subí un mutamento significativo, facendo del sovrano una sorta di icona; e, infine, venne dato un impulso decisivo alla centralizzazione dell’autorità. info britishmuseum.org San Gimignano Pintoricchio. La Pala dell’Assunta di San Gimignano e gli anni senesi U Palazzo Comunale, Pinacoteca fino al 6 gennaio 2015 (dal 6 settembre)

Con questa iniziativa prende avvio un piú ampio progetto che,

Londra Ming: 50 anni che hanno cambiato la Cina U The British Museum fino al 4 gennaio 2015 (dal 18 settembre)

Nelle nuove gallerie dell’ala Sainsbury, il British Museum racconta una fase cruciale della storia cinese. Nel periodo compreso tra il 1400 e il 1450, sotto la dinastia Ming, l’impero visse infatti una stagione di grandi trasformazioni: Pechino divenne capitale; i confini del Paese assunsero il tracciato che, grosso modo,

2015 su Filippino Lippi e i suoi meravigliosi tondi, ogni mostra è costruita con prestiti importanti, anche se numericamente limitati per le esigenze dello spazio espositivo, scelti per raccontare una vicenda artistica che ha lasciato una testimonianza di grande rilievo nel patrimonio storico e artistico di San Gimignano. info tel. 0577 286300; sangimignanomusei.it Padova

con cadenza annuale, intende proporre un approfondimento critico e storico intorno ai capolavori e ai maestri presenti nelle collezioni civiche. Come questa che ora si apre su Pintoricchio e quella che è in preparazione per il

VERONESE E PADOVA. l’artista, la committenza e la sua fortuna U Musei Civici agli Eremitani fino all’11 gennaio 2015 (dal 7 settembre)

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità

nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato a operare. Fu cosí anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale. La mostra prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli Eremitani, con la sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina. Nell’insieme, si possono ammirare circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori

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agenda del mese del pittore.

info padovacultura. padovanet.it

castelfranco veneto Villa Soranzo. Una storia dimenticata U Museo Casa Giorgione fino all’11 gennaio 2015 (dal 12 settembre)

Un fil rouge sottile ma intrigante lega Giorgione e Paolo Veronese, due dei principali protagonisti del Rinascimento: un filo fatto di patrizi veneti amanti dell arte – i Soranzo – di decorazioni pittoriche d’interni, di vita in villa, di temi profani e mitologici e – infine – di giovani, giovanissimi pittori, alla ribalta della scena artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento. Un filo rievocato anche in questa piccola ma preziosa mostra, a cui fa da corollario un itinerario in tema dedicato al «Trionfo della decorazione in Villa», che conduce a Villa Maser, Villa Emo e Villa Corner Chiminelli. Al centro del percorso vi sono le vicende degli affreschi realizzati da Paolo Veronese, sul volgere degli anni Quaranta del Cinquecento, nella dimora progettata da Michele Sanmicheli e costruita, poco dopo il 1540, a Treville di Castelfranco Veneto per il patrizio veneziano Piero Soranzo. info tel 0423 735626; e-mail: info@ museocasagiorgione.it REGGIO EMILIA L’ORLANDO FURIOSO:

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INCANTAMENTI, PASSIONI E FOLLIE. L’ARTE CONTEMPORANEA LEGGE L’ARIOSTO U Palazzo Magnani fino all’11 gennaio 2015 (dal 4 ottobre)

specifici episodi del poema su alcuni tra i più importanti artisti contemporanei, italiani e stranieri. info palazzomagnani.it

I personaggi de L’Orlando Furioso, le imprese di valorosi cavalieri, la passione per Angelica che diverrà poi follia d’amore rivivono in una rassegna che legge e reinterpreta in chiave contemporanea

Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio 2015

tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di

Appuntamenti

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato

Modena, Carpi, Sassuolo FESTIVALFILOSOFIA 2014: DALLA GLORIA ALLA CELEBRITÀ 12-14 settembre

l’immaginario ariostesco, carico di suggestioni e connessioni di evidente attualità. L’esposizione rivisita la fortuna dell’Ariosto nel passato, partendo dalla preziosa collezione delle edizioni del Furioso di proprietà della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e propone le suggestioni esercitate dalla sua figura e dall’atmosfera, e soprattutto da

colore giallo/arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da

Un termine apparentemente desueto, «gloria», si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità. In 40 luoghi di Modena, Carpi la XIV edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Quasi 200 appuntamenti, tutti gratuiti. info tel.059 2033382; festivalfilosofia.it Camogli FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE I edizione 12-14 settembre

Il festival si propone come appuntamento annuale di riflessione e confronto su un tema oggi di estrema

attualità e importanza: la comunicazione, che, intesa nell’accezione di trasmissione di messaggi, sarà oggetto di approfondimento in tutti i suoi aspetti culturali, mediatici e tecnologici. In programma conferenze, mostre, workshop, spettacoli ed escursioni e oltre 60 ospiti per

rispondere a interrogativi quali: quando e come cambieranno i modi di inoltrare messaggi e di interagire con gli altri? Quale sarà l’evoluzione dei media? Quali sono le possibilità che la tecnologia ci offre e quali le nuove strade che ci si aprono? Tra i relatori di questa I edizione del festival, Salvatore Settis. info festivalcomunicazione.it

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Castelvetro di modena dama vivente 13-14 settembre

Nel borgo medievale di Castelvetro di Modena, sulla piazza centrale a forma di scacchiera, ogni anno si gioca una partita a dama fra pedine viventi vestite in costumi rinascimentali. A corollario dell’evento centrale si sviluppa la vita di un castello cinquecentesco, con nobili, dame, cavalieri, armigeri, popolani, saltimbanchi, giocolieri e musici. La storia narra che il famoso poeta Torquato Tasso soggiornò a Castelvetro e, inebriato dal suo dolce paesaggio, sarebbe stato ispirato a comporre Erminia fra i pastori, uno dei brani piú suggestivi della Gerusalemme Liberata. info damavivente. synthasite.com volpiano (TO) De Bello Canepiciano. Ricostruzione della guerra del Canavese del XIV secolo III edizione 20 e 21 settembre

Filo conduttore della rievocazione è la storia del marchese Giovanni II Paleologo di Monferrato, grande condottiero del suo tempo, conquistatore del Canavese proprio a partire da Volpiano nel 1339, di quello stesso castello volpianese nel quale morí nel 1372. Questa edizione vedrà impegnate 30 compagnie d’arme e gruppi storici arrivati da tutta Italia per un totale di oltre 300

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rievocatori tra armati, dame e popolani, una sessantina di attendamenti e aree didattiche con antichi mestieri, cavalli e cavalieri in assetto da parata e da guerra. info Circolo Culturale Tavola di Smeraldo, e-mail: tavoladismeraldo@msn. com; tavoladismeraldo.it

bergamo BERGAMOSCIENZA XII edizione

3-19 ottobre Come ogni anno conferenze, laboratori, open day, mostre, spettacoli e incontri con Premi Nobel e scienziati di fama mondiale, proporranno temi complessi con un linguaggio semplice e divulgativo. Oltre 150 eventi gratuiti indagheranno ambiti diversi: medicina, biologia, energia, neuroscienze, chimica, ma anche archeologia, sociologia, scienze naturali, tecnologia, robotica, informatica e ancora matematica, fisica, astrofisica, ingegneria e architettura. Arricchiranno inoltre il programma

appuntamenti di filosofia, cinema e arte. info bergamoscienza.it Siena DIVINA BELLEZZA, scopertura del Pavimento del Duomo fino al 27 ottobre

Corso il Palio dell’Assunta, la cattedrale senese

scopre il suo pavimento a commesso marmoreo straordinario, unico, non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla Sapienza. Abitualmente, il prezioso tappeto di marmo è protetto dal calpestio dei visitatori e dei numerosi fedeli. info operalaboratori.com Siena Esposizione della Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti U Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre

Tempera su tavola realizzata da Ambrogio Lorenzetti intorno al 1340, la Madonna del Latte può essere considerata come il paradigma

iconografico di questo soggetto. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica della Madonna del Latte. Nel periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di Cecco nel Museo dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; operaduomo.siena.it firenze Esposizione straordinaria di tre profeti di Donatello U Battistero di S. Giovanni fino al 30 novembre

Il Battistero fiorentino ospita eccezionalmente tre grandi sculture di

Donatello: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto o pensieroso e il Profeta Geremia, scolpiti nel marmo dal maestro tra il 1415 e il 1436, e facenti parte delle sedici figure commissionate a piú artisti dall’Opera di S. Maria del Fiore per ornare il Campanile di Giotto tra il 1330 e il 1430. L’esposizione delle tre statue è resa possibile dalla temporanea chiusura del Museo dell’Opera del Duomo, dove le sculture sono conservate, che riaprirà al pubblico nell’autunno 2015 rinnovato e raddoppiato negli spazi espositivi. L’Imberbe è visibile per la prima volta dopo il restauro, condotto dalla Bottega di restauro dell’Opera, attiva dal 1296, che è intervenuta anche su altri due Profeti di Donatello: il Barbuto o pensieroso e Abramo con Isacco. info operaduomo.firenze.it

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speciale il califfato

Un califfo di Marco Di Branco

alla conquista di Roma La Battaglia di Ostia, affresco di Raffaello e della sua scuola nella Stanza dell’Incendio di Borgo, Musei Vaticani. 1514-1517


«Questo è il mio consiglio per voi. Se lo seguirete, conquisterete Roma e diventerete padroni del mondo, con la volontà di Allah». L’appello, dall’inequivocabile sapore medievale, è stato pronunciato lo scorso luglio, da un contemporaneo, autoproclamato «califfo» di Baghdad. Si tratta di una minaccia certo inaspettata, ma non nuova: esortazioni simili furono proclamate, effettivamente, durante l’età di Mezzo. Ma, a quell’epoca, le mire dei signori d’Oriente erano davvero dirette alla Città Eterna?


speciale il califfato

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o scorso 5 luglio il mondo ha potuto assistere all’apparizione in video del «califfo» dello «Stato islamico tra Iraq e Siria» (ISIS), Abu Bakr alBaghdadi. Si tratta dell’astro nascente del jihad (la «guerra santa» musulmana) globale, il nuovo leader dei combattenti sunniti radicali. Le sue milizie controllano parte della Siria orientale e la zona nord-ovest dell’Iraq. Nel video, al-Baghdadi appare vestito di nero – il colore cerimoniale dei califfi abbasidi, che governarono l’Iraq dal 750 al 1258 d.C. – su un pulpito (minbar) della moschea congregazionale di Mosul, la seconda città irachena, caduta il 9 giugno nelle mani dei guerriglieri sunniti (sono dello scorso 24 e 27 luglio le notizie della distruzione, da parte dei guerriglieri dell’ISIS, di due importanti monumenti medievali di Mosul, rispettivamente la Moschea di Yunis, Giona – costruita sulla presunta tomba del profeta venerato da musulmani e cristiani – e quella, trecentesca, del Profeta Jirgi, Giorgio, n.d.r.). Dopo aver guidato la preghiera del venerdí, il leader pronuncia la tradizionale khutba, una sorta di «predica» a carattere politico-religioso, affermando di essere il wali (termine arabo indicante un ministro, ma anche un santo o l’erede designato al califfato) che governa sui musulmani, incitando i fedeli di tutto il mondo islamico a schierarsi dalla sua parte e a dichiarare il jihad sulla via di Dio, al fine di restituire dignità, diritti e autorità all’Islam, e lodando la vittoria che ha permesso, dopo secoli, di restaurare il califfato: «Dio ha dato a voi fratelli guerriglieri del jihad (mujahidun) la vittoria dopo lunghi anni di sforzi e di pazienza» – dichiara nel video al-Baghdadi – «Per questo, è stato proclamato il califfato, e il califfo è tornato a esercitare la sua carica: un dovere per i musulmani, che si era perduto per secoli». Il discorso di Mosul era stato preceduto, alcuni giorni prima da un altro appello, in cui al-Baghdadi invitava a «immigrare» nel nuovo Stato islamico, «perché l’immigrazione nella casa dell’Islam (dar al-Islam) è un dovere per tutti i musulmani». Ma l’elemento piú suggestivo di questo primo messaggio del «califfo» è certamente costituito dalla sua chiusa, in cui si annuncia la possibile conquista islamica della capitale della cristianità: «Questo è il mio consiglio per voi. Se lo seguirete, conquisterete Roma e diventerete padroni del mondo, con la volontà di Allah».

Combattere «sulla via di Dio»

Al di là dei loro risvolti legati all’attualità politica, su cui si avrà modo di tornare, i due discorsi di al-Baghdadi rivestono un interesse particolare anche per gli appassionati di storia, perché essi impongono di riflettere su alcuni elementi fondamentali dell’Islam medievale: il problema del jihad, l’istituzione del califfato e il tema dell’immagine di Roma nella cultura islamica. Il termine jihad, piú volte utilizzato nel Corano, deriva dalla radice araba jahada, che ha il senso di «esercitare uno sforzo». La parola esprime un ampio spettro di significati, dalla lotta interiore attuata dal mistico per

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attingere una perfetta fede fino al combattimento difensivo o offensivo «sulla via di Dio». Il concetto di jihad è comunque indissolubilmente legato a quello di umma, l’insieme dei credenti nel messaggio profetico. Ciò che distingueva il jihad dalla classica solidarietà tribale vigente fra gli Arabi non era l’idea di combattere per la comunità, ma piuttosto la natura della comunità per la quale si combatteva. Ovviamente, il jihad facilitava l’espansione e forse anche la coesione della comunità islamica, ma si trattava comunque di un prodotto della nascita dell’Islam, non di una causa di essa; e, piú precisamente, di un prodotto dell’impatto del nuovo concetto di comunità sulla vecchia idea del combattere fino alla morte per la comunità stessa. Va tuttavia rilevato che, sino alla fine dell’VIII secolo, fra gli intellettuali dei maggiori centri del mondo musulmano si registra un notevole disaccordo sull’idea di jihad: se tale dissonanza concerne fondamentalmente il problema della natura del dovere stabilito dal jihad (è un dovere che spetta a tutti? Spetta a ciascun individuo?), essa, tuttavia, coinvolge anche la questione della sua essenza (guerra offensiva o solo difensiva?). Al contrario, dall’inizio del IX secolo, il jihad può essere senz’altro definito come la forma assunta dalla guerra di conquista agli occhi della comunità musulmana: un’azione bellica diretta contro gli «infedeli» (e settembre

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Regno degli Avari

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Cirenaica Medina

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Impero bizantino Impero sasanide Regno dei Franchi Regno dei Longobardi

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1 Regno degli Avari

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2 Regno degli Avari

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Mar Nero Costantinopoli

Toledo Cordova

Mar Mediterraneo Tripoli

Damasco

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Impero dei Turchi Syr Darya Oghuz Samarcanda

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Baghdad Tig ri

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Le conquiste del califfato abbaside (750-1258)

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Siria

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Impero dei Syr Darya Turchi Oghuz

Mar Nero

Impero islamico

Nella pagina accanto miniatura di scuola turca raffigurante Abu Bakr, successore e suocero di Maometto e primo dei quattro «califfi ben guidati», per il Siyer-i Nebi (Vita del Profeta) di Mustafa ibn Yusuf. Copia del XVIII sec. di una miniatura della fine del XVI sec. Istanbul, Museo di arte turca e islamica. A destra, dall’alto cartine geopolitiche dell’area mediterranea e vicino-orientale: 1. I territori assoggettati sotto i primi quattro califfi islamici (632-661). 2. L’espansione dell’Islam nel periodo umayyade (661-750). 3. Le conquiste islamiche durante il califfato abbaside (750-1258).

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Questioni semantiche Nel Corano, sparsi in varie sure («capitoli»), vi sono 75 versetti che parlano della «guerra santa» o incitano a essa (vedi box a p. 33). Il termine arabo è jihad, «sforzo», in genere seguito dall’espressione «sulla via di Dio» (fi sabil Allah). La resa di jihad con «guerra santa», comune a tutte le lingue occidentali, non rende giustizia alle sfumature semantiche della parola araba. I giurisperiti dei primi secoli dell’Islam non inclusero il jihad tra i cinque pilastri dell’Islam – la professione di fede, le preghiere giornaliere, la decima, il pellegrinaggio a Mecca e il digiuno del mese di Ramadan – anche se proprio i trattati di diritto musulmano si diffondono largamente su tutti i particolari della «guerra santa»: come e contro chi si debba intraprendere, se si possano o meno accettare le proposte di pace degli avversari, ecc. E, come sempre accade, nella letteratura giuridica il testo coranico si presta alle interpretazioni piú varie.

Regno dei Chazari

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il jihad nel corano

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speciale il califfato Miniatura raffigurante la morte in battaglia di ‘Abd Allah, figlio del califfo ‘Umar. 1820-25. Londra, British Library.

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non contro altri musulmani), sentita e/o presentata dai suoi promotori e partecipanti come un combattimento «sulla via di Dio», finalizzato a estirpare l’empietà dal mondo e favorire l’espansione della comunità dei credenti, dai cui rappresentanti – che si tratti del califfo di Baghdad o del comandante di un reparto militare in una remota provincia di frontiera, piú o meno autorizzato dall’autorità centrale – esso è portato avanti. Un contributo decisivo a questa evoluzione dell’idea di jihad è stato dato dai cosiddetti «studiosi guerrieri», esperti di religione che si impegnarono in prima persona nella guerra contro gli «infedeli» nelle zone di frontiera del mondo islamico fra il VII e l’VIII secolo, la cui attività militare, unita alla speculazione giuridicoreligiosa, costituí un vero e proprio atto fondante del jihad. A partire da questa nuova elaborazione, che ebbe un ruolo chiave nella sistematizzazione della dottrina del jihad come «obbligo collettivo» (fard ‘alà ’l-kifaya), dall’inizio del IX secolo si procedette a una rilettura complessiva della storia islamica sotto il segno del jihad. Ovviamente, ciò non significa che, prima del IX secolo,

I versetti del jihad

In campo per la causa di Dio «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono ma non oltrepassate i limiti, che Dio non ama gli eccessivi (II 190)». « Combatteteli dunque finché non vi sia piú scandalo e il culto tutto sia reso solo a Dio. Se desistono, ebbene Dio scorge acuto quel ch’essi fanno (VIII 40)». « Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati, per terrorizzare il nemico di Dio e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Dio conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Dio vi sarà restituito e non sarete danneggiati» (VIII 60). « Combatteteli finché Dio li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro, guarisca i petti dei credenti ed espella la collera dai loro cuori. Dio accoglie il pentimento di chi Egli vuole. Dio è sapiente, saggio (IX 14-15)». « O voi che credete! Perché quando vi si dice: “Lanciatevi in campo per la causa di Dio”, siete come inchiodati alla terra? La vita terrena vi attira di piú di quella ultima? Di fronte all’altra vita, il godimento di quella terrena è ben poca cosa. Se non vi lancerete nella lotta, vi castigherà con doloroso castigo e vi sostituirà con un altro popolo, mentre voi non potrete nuocerGli in nessun modo. Dio è onnipotente» (IX 38-39).

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il jihad non fosse un elemento centrale della prassi politica isamica (le prime conquiste arabe sono inseparabili dal tema del jihad), ma è solo da questo momento in poi che esso viene storicizzato e inserito in un quadro concettuale preciso e congruente. Punto di partenza di una simile analisi furono da un lato le imprese militari del Profeta Muhammad (Maometto), considerate, da ora in poi, come veri e propri esempi prototipici di pratiche del jihad da tutta la tradizione storica e giuridica islamica (sebbene mai definite come tali nelle fonti piú antiche), dall’altro le grandi campagne del VII-VIII secolo, modello ineludibile di ogni futura guerra di conquista della comunità musulmana. L’ascesa del fondamentalismo islamico nel secondo dopoguerra ha riportato prepotentemente in auge il concetto di jihad, che tuttavia è stato utilizzato nei circoli «jihadisti» solo ed esclusivamente nella sua dimensione militare, con una significativa sottovalutazione (e distorsione) degli aspetti mistici e spirituali a esso inerenti.

L’età dei «ben guidati»

Il secondo elemento fondamentale del discorso del «califfo» al-Baghdadi riguarda proprio l’istituzione del califfato che egli si mostra intenzionato a restaurare. Alla sua morte, Muhammad non aveva indicato il suo successore alla guida della comunità. La scelta cadde su Abu Bakr, un anziano compagno del Profeta che fu nominato califfo (in arabo khalifa, cioè «successore», «vicario»). Il breve califfato di Abu Bakr (632-634) diede avvio al periodo dei cosidetti «califfi ben guidati» (rashidun), comprendente lo stesso Abu Bakr, ‘Umar (634-644), ‘Uthman (644656) e ‘Ali (656-660). Oltre a garantire l’integrità della comunità, essi organizzarono il nuovo Stato dal punto di vista amministrativo, militare e giuridico. Nel 661 salí al potere la famiglia degli Umayyadi, che instaurò un califfato dinastico spostandone la capitale da Medina a Damasco. L’impero umayyade giunse a inglobare la Spagna (711), la Transoxiana (l’attuale Uzbekistan) e il Sind (Pakistan). Gli Umayyadi fecero costruire alcuni capolavori dell’arte islamica, come la moschea della Cupola della Roccia a Gerusalemme, la grande moschea di Damasco e i cosiddetti «castelli del deserto» nella regione siro-palestinese (odierna Giordania; vedi «Medioevo» n. 178, novembre 2011; anche on line su medioevo.it). Nel 749 i membri della famiglia degli Abbasidi, imparentati con il Profeta, guidarono un’insurrezione che sterminò tutti i rappresentanti degli Umayyadi (con l’esclusione di quello a cui piú tardi diede vita a Cordoba l’emirato umayyade di Spagna, poi anch’esso trasformatosi in califfato) e fondarono una nuova dinastia. I califfi abbasidi spostarono la capitale da Damasco a Baghdad, che diventò uno dei maggiori centri culturali e politici dell’epoca. Essi governarono fino al 1258, anno in cui i Mongoli conquistarono Baghdad, mettendo fine alla dinastia. Il califfato abbaside fu riconosciuto dalla maggioranza dei musul-

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speciale il califfato mani, ma a esso si opposero due entità separate, che costituirono veri e propri anti-califfati: i già menzionati Umayyadi dell’Andalusia (X-XI secolo) e i Fatimidi del Cairo (X-XII secolo). Dopo il 1258, alcuni membri di un ramo secondario degli Abbasidi trovarono rifugio al Cairo, ponendosi sotto la tutela dei potenti sultani mamelucchi. Nel 1517, quando il sultano ottomano Selim II si impadroní dell’Egitto, tutti gli emblemi del potere califfale abbaside, tra i quali il mantello e la spada del Profeta, furono portati a Istanbul nella residenza del Topkapi, e il sultano stesso assunse i titolo di califfo. A livello internazionale il titolo califfale fu usato ufficialmente (e di fatto accettato anche dalle cancellerie europee) solo a partire dalla firma del Trattato di Küçük Kaynarca del 1774.

Un titolo vacante

Il califfato ottomano fu abolito nel 1924 nell’ambito delle riforme promosse da Mustafà Kemal Pascià, detto Atatürk, diventato Presidente della Turchia repubblicana. Il titolo fu poi rivendicato dal re dell’Hijaz Husayn bin ‘Ali, leader della rivolta araba resa celebre in Occidente dalle gesta di Thomas Edward Lawrence, meglio noto come «Lawrence d’Arabia», ma da quando (1925) il suo regno fu conquistato da ‘Abd al-’Aziz ibn Sa‘ud, fondatore e primo sovrano del moderno regno dell’Arabia Saudita, il titolo è rimasto vacante, trasferendosi sul piano dell’utopia politica.

la minaccia saracena

Quell’appello inascoltato... Secondo il Liber Pontificalis, il 10 agosto 846 il comes Adelvertus, marcensis et tutor Corsicanae insulae, inviò una lettera al papa Sergio II (844-847), avvertendolo dell’approssimarsi di un’imponente armata «saracena». Tuttavia, l’appello di Adelvertus non fu preso seriamente in considerazione, e il 23 agosto i Saraceni giunsero ad littus Romanum senza incontrare ostacoli. Appresa la notizia dello sbarco e della presa di Ostia e di Porto (abbandonate senza che i loro abitanti opponessero alcuna resistenza), i Romani decisero di inviare nell’area effettivi sassoni, frisoni e franchi appartenenti alle scholae peregrinorum (associazioni di pellegrini residenti nel Borgo vaticano con funzioni civili e militari), ma, dopo una prima scaramuccia, resisi conto dell’effettiva portata della minaccia musulmana, molti di essi rientrarono a Roma per rafforzare le difese della città. Cosí, il 26 agosto, i «Saraceni», dopo aver attaccato e ucciso i soldati di guardia presso Porto e inseguito i sopravvissuti fino a ponte Galeria, poterono iniziare indisturbati la loro marcia verso la Città Eterna, investendo la chiesa di S. Pietro. In seguito, saccheggiarono anche la basilica di S. Paolo, per poi ritirarsi nella zona di Gaeta. A proteggere i

Gerico. Rosone in pietra facente parte della decorazione nel complesso palaziale di Hisham, costruito nella prima metà dell’VIII sec., probabilmente per volere del califfo umayyade Walid ibn Yazid.

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Città del Vaticano, Stanza dell’Incendio di Borgo. Particolare dell’affresco di Raffaello raffigurante la battaglia di Ostia, combattuta nell’agosto dell’846. 1514-1517.

Gaetani intervenne allora una squadra navale, inviata da Napoletani e Amalfitani e guidata da Cesario, figlio del duca di Napoli Sergio I. La situazione si sarebbe risolta grazie a una tempesta che avrebbe spinto i musulmani ad accordarsi con Cesario: questi avrebbe consentito a che le navi «saracene» venissero tirate in secco, evitando il naufragio, a patto che la flotta, una volta tornato il bel tempo, fosse ripartita. I musulmani avrebbero rispettato i patti, ma le loro navi sarebbero state quasi totalmente distrutte da un vento «divino».

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speciale il califfato Nella visione musulmana, il califfato non è comunque un sistema da costruire nel futuro, ma quello storicamente determinatosi dopo la morte del Profeta, modello eterno di una forma perfetta di Stato che Dio ha voluto si attuasse nel tempo della storia. Sono state soprattutto le correnti di pensiero del «fondamentalismo»contemporaneo, dai «Fratelli musulmani», ai «salafiti» («coloro che ripercorrono le tracce degli antichi») a riproporre una teoria della ricostituzione di califfato, adeguato alle esigenze della modernità e interprete delle tendenze piú radicate del pensiero islamico. Come appare evidente da quanto fin qui esposto, il discorso di Mosul si pone dunque sulla linea del fondamentalismo islamico di stampo salafita, che enfatizza nuclei politico-religiosi come il jihad e il califfato, a scapito di altri elementi altrettanto fondamentali della dottrina musulmana, quali, per esempio, il misticismo o il forte spirito egualitario dell’Islam piú antico, condensato nel celebre versetto coranico XLIX 13: «O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina. Presso Dio, il piú nobile di voi è colui che piú Lo teme». Il tentativo messo in atto dalla leadership di al-Baghdadi è insomma quello di un ritorno a una presunta condizione primigenia dell’Islam che però appare tale solo agli occhi dei suoi fautori, non essendo in realtà che il frutto di una ricostruzione archeologica, filologica e stoIl Qusayr Amra, uno dei «castelli del deserto» edificati nei territori siro-palestinesi (nell’odierna Giordania) dai califfi umayyadi.

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rica totalmente artificiosa e ideologica. A chiarire meglio il senso di queste considerazioni, provvederà l’analisi dell’ultimo motivo presente nei discorsi del «califfo» al-Baghdadi, quello della conquista di Roma.

Quale Roma?

In effetti, per quanto strano possa sembrare, l’incitamento alla conquista di Roma è un argomento quasi totalmente estraneo alla tradizione retorica dell’Islam medievale. In questo periodo, la città al centro delle brame dei califfi e dei sultani musulmani è un’altra Roma: la seconda, cioè Costantinopoli, non solo in quanto metropoli cristiana, ma soprattutto in quanto capitale di un impero nemico. Tra il 674 e il 678 la capitale bizantina fu piú volte assediata da una grande flotta araba, ma riuscí a resistere anche grazie al famoso «fuoco greco» (una miscela di di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, n.d.r.). Un nuovo attacco contro la «Seconda Roma» fu sferrato dagli Umayyadi tra il 717 e il 718, sotto la guida del comandante Maslama ibn ‘Abd al-Malik, figlio del Califfo ‘Abd al-Malik ibn Marwan e di una sua schiava, ma, come quarant’anni prima, i Bizantini riuscirono a vincere la battaglia decisiva e i tentativi degli Arabi di espugnare Costantinopoli si infransero contro la saldezza delle mura della città. Con questo ulteriore fallimento, si chiude una fase importante della lotta arabo-bizantina. Costantinopoli non subí piú un assedio arabo, e l’Asia Minore restò a lungo parte integrante dell’im-

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pero bizantino. Furono infatti i Turchi, e non gli Arabi, a impadronirsi della città nel 1453 e a farne la splendida capitale di un nuovo impero: quello ottomano. La «prima Roma», che nel periodo medievale era ben lontana dal raggiungere i fasti costantinopolitani, suscitò l’interesse dei musulmani solo in due casi. Il primo fu l’attacco alla città da parte di milizie islamiche nell’agosto dell’846, che si risolse unicamente nel saccheggio delle basiliche di S. Pietro e S. Paolo, ambedue fuori dalle Mura Aureliane. D’altra parte, le coste laziali, dall’inizio del IX secolo erano divenute obiettivo di incursioni musulmane provenienti dal Marocco, dall’Algeria e dall’Andalusia. Proprio per proteggere Roma da tali raid, Gregorio IV (827-844) aveva fondato una nuova città fortificata presso Ostia, dotandola di strutture necessarie alla difesa e dandole il nome di Gregoriopoli. Il secondo caso è costituito da una dichiarazione di intenti: quella dell’emiro aghlabita Ibrahim II (sovrano del grande emirato islamico di Qayrawan, in Tunisia dall’875 al 902), che nel 902 indisse il jihad contro le popolazioni cristiane confinanti (Bizantini e Longobardi), affermando che non si sarebbe fermato fino alla conquista di Costantinopoli e della città «del vecchio Pietro», cioè, appunto, di Roma. In ogni caso, sia quest’ultimo evento sia il precedente riguardano un’area periferica dell’Islam, quella dell’estremo occidente. Il cuore del mondo islamico mostra scarsissimo interesse per l’antica capitale dell’impero romano. Ciò si riflette anche nelle opere dei

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geografi arabi orientali, i cui capitoli dedicati a «Roma» contengono in realtà quasi sempre descrizioni della Seconda Roma, cioè della capitale bizantina.

A chi giova?

Proprio l’accenno del «califfo» al-Baghdadi alla conquista di Roma, un motivo essenzialmente estraneo alla tradizione classica – alla quale tuttavia la dottrina salafita afferma di volersi rigorosamente uniformare –, mostra tutta l’artificiosità e l’infondatezza storica della costruzione operata dai fondamentalisti, che, peraltro, appare priva di realistiche prospettive di successo politico. Il loro progetto, ha scritto uno dei maggiori intellettuali contemporanei, Hans Magnus Enzensberger, «consiste, come attualmente in Iraq e in Afghanistan, nell’organizzare il suicidio di un’intera civiltà» (Il Perdente radicale, traduzione di Emilio Picco, Einaudi, Torino 2007). Tuttavia, Enzensberger tralascia di porsi il problema di chi trarrebbe vantaggio da tale suicidio. Una questione affrontata invece molto efficacemente dal politologo francese Gilles Kepel, il quale, non a caso, ha indagato a lungo sui rapporti piú o meno confessabili tra fondamentalismi islamici e servizi segreti occidentali. Negli ultimi decenni, infatti, è accaduto spesso che l’Occidente abbia soffiato sul fuoco dell’estremismo salafita per contrastare regimi «laici» invisi alle cancellerie europee e nordamericane. D’altro canto, in Medio Oriente nulla è come sembra: tantomeno un sedicente «califfo» riesumato in tutta fretta dagli abissi della storia. F

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storie l’indipendenza della scozia

Nella terra degli uomini dipinti di Francesco Colotta

A giorni gli Scozzesi dovranno scegliere se rendersi nuovamente indipendenti. Un appuntamento che fa tornare d’attualità le tormentate vicende di cui il Paese dei Pitti e degli Scoti fu teatro già al tempo della dominazione romana e poi, in un succedersi di continui rovesciamenti di fronte, nei secoli del Medioevo

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l mito pone le radici della disputa tra indipendentisti scozzesi e filo-britannici nel Mediterraneo e in Asia: alcune cronache medievali, infatti, definivano gli abitanti della Scozia come i diretti discendenti della figlia di un faraone egizio o della popolazione iranica degli Sciti, mentre altre narrazioni descrivevano quell’avamposto settentrionale come uno dei regni che gli Inglesi avevano ricevuto in dote dal nipote

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di Enea, dopo la presunta colonizzazione troiana dell’antica Britannia. In realtà, l’odierna battaglia tra autonomisti e sostenitori dello United Kingdom ha origini piú profonde e complesse: la vertenza sull’indipendenza della Scozia, in questi giorni oggetto di referendum, è il frutto di una lunga evoluzione politica, che, fin dall’età di Mezzo, ha coinvolto innumerevoli attori, tra regni, etnie e condottieri di varia provenienza, in un succedersi di guerre, alleanze e intrighi. La schematica distinzione tra Highlanders (gli abitanti del Settentrione della Scozia, di lontana origine celtico-scandinava) e Lowlanders (i residenti nel Sud della nazione, culturalmente piú vicini agli Inglesi) non ritrae in modo compiuto il quadro delle identità in gioco. Per raffigurarlo con maggiore precisione occorre risalire ai primi secoli dell’era cristiana, al periodo in cui il

territorio scozzese era occupato da una popolazione definita dalle fonti latine Pitti (Picti), «i dipinti», per la loro abitudine a tatuarsi il corpo. Queste genti avevano ripetutamente impegnato le truppe di Roma di stanza in Britannia, permettendogli di varcare raramente il Vallo di Antonino, la fortificazione che divideva la provincia dell’impero dalla regione piú settentrionale dell’isola, chiamata all’epoca Caledonia o Alba.

Una convivenza difficile

I Pitti non erano soli in quell’avamposto dalle dure condizioni climatiche. Convivevano, non proprio pacificamente, con gli Scoti di Dalriada, genti di stirpe celtica emigrate dall’Irlanda, che avevano trovato il proprio habitat ideale nell’Argyll, piú a sud, sulla costa occidentale. All’incirca alle stesse latitudini, nell’entroterra, era

stanziata invece una popolazione di origine bretone, i cui territori confinavano, a loro volta, con i domini dei germanici Angli. I Pitti risultavano il soggetto dominante e respinsero piú volte gli attacchi degli Scoti di Dalriada, subendone, tuttavia, l’influenza politica e linguistica. Gli assediati, infatti, riformarono le proprie istituzioni, optando per le forme di governo monarchiche in uso presso i loro aggressori e ne adottarono anche l’idioma, il celtico. Grazie ad alcuni predicatori attivi presso gli Scoti, i Pitti, inoltre, furono cristianizzati, forse dal monaco irlandese Columba (leader della comunità dell’isola di Iona, il luogo sacro oggi piú venerato del Paese) o, piú verosimilmente, da altri due religiosi di medesima provenienza, Donnano e Niniano. I Bretoni, invece, fondarono un potente regno nello Strathclyde, nell’attuale Scozia sud-occidentale, Il maestoso castello di Edimburgo, posto a dominio della capitale scozzese. Importante simbolo dell’identità nazionale, la fortezza nei secoli ha ospitato diversi sovrani, tra cui la regina Margaret (poi santa) e Maria Stuarda, che qui diede alla luce il figlio Giacomo VI.

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storie l’indipendenza della scozia Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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e dovettero spesso fronteggiare gli attacchi delle comunità vicine. In particolare quelli degli Angli, che in Northumbria (nell’odierna Inghilterra del Nord) avevano dato vita ai regni di Bernicia e di Deira. I piccoli potentati tribali di Rheged e di Gododdin cercarono di contrastare l’ascesa dei Northumbriani, ma furono i Pitti a frenarne l’avanzata nel 685, prevalendo nella battaglia di Dunnichen. Da quel momento in poi, si disse che, «nessun re anglo in Britannia osò mai piú muovere guerra contro i Pitti». All’indomani di quello scontro cominciò a

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scavarsi un solco geografico e culturale tra le Highlands e le Lowlands: nell’area del Nord, con la diffusione sempre piú capillare delle tradizioni celtiche, si creò un’affinità tra Pitti e Scoti, mentre nel Meridione le genti di origine anglosassone presentavano elementi in comune tra loro e con le altre popolazioni inglesi.

Selvaggi e Sassoni

Le tradizioni celtiche risultavano, di fatto, difficilmente conciliabili con le usanze britanno-germaniche e questa incompatibilità generò una forma di reciproco di-

sprezzo, destinato a durare nei secoli. Tanto che, fino all’Ottocento, i Lowlanders erano soliti definire gli abitanti del Settentrione savages («selvaggi»), mentre questi ultimi chiamavano i loro dirimpettai del Sud Sassenachs («Sassoni», inteso nel senso di genti che parlavano una lingua d’origine germanica). Nell’Alto Medioevo, l’integrazione delle comunità delle Highlands venne favorita dalla facoltà accordata alle donne dei Pitti di sposare uomini stranieri di un certo rango. Emblematica, in questo senso, si rivelò l’ascesettembre

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co ti

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Mare del Nord

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Inverness

SCOZIA

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Dundee Perth

Dumbarton

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Glasgow

Rosyth Edimburgo Berwick Melrose

Lanark

Newcastle Derry

IRLANDA

Vallo di A d r i a no Carlisle

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INGHILTERRA

Quando la pietra inizia a cantare... Alla Pietra del Destino, nel villaggio di Scone, furono attribuiti nel Medioevo poteri sovrannaturali e, fin dal periodo di Kenneth MacAlpin (810-858), venne utilizzata per ufficializzare l’incoronazione dei sovrani scozzesi. Una leggenda narra che se il monarca scelto era l’uomo giusto, la pietra iniziava a cantare. Requisita dagli Inglesi come bottino di guerra nel XIII secolo, fu trafugata da alcuni nazionalisti scozzesi nel 1950. Ritrovata dalla polizia, tornò di nuovo a Londra per essere poi riportata definitivamente in Scozia nel 1996. Oggi è esposta nel castello di Edimburgo. Sulle due pagine disegno ricostruttivo di un villaggio dei Pitti. Dimore tipiche erano le Wheelhouses (case a ruota, 1), strutture circolari in pietra, con tetti in legno e paglia o zolle di torba. Erano raggruppate in villaggi, talvolta fortificati (2). Diffusi erano anche i Picts castles o Brochs (3), torrioni aventi funzioni difensive o forse eretti come una sorta di status symbol. In alto, a destra cartina della Scozia negli ultimi secoli del Medioevo. Qui accanto Scone Palace (Perthshire, Scozia). Una replica della Pietra del Destino, il cui originale è conservato nel castello di Edimburgo.

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storie l’indipendenza della scozia

Macbeth

Un re accecato dall’ambizione Il ritratto piú celebre del re scozzese Macbeth (1005-1057) è quello offerto dall’omonima tragedia di William Shakespeare, che lo dipinge come un cospiratore sanguinario, aizzato dalle ambizioni della moglie. Macbeth, al quale tre streghe avevano predetto l’ascesa al trono, uccide il re di Scozia, Duncan. Divenuto

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monarca, fa uccidere anche l’amico Banquo, che un’altra profezia indicava come il progenitore di una futura stirpe reale. Col tempo, però, comincia a essere perseguitato dalle apparizioni delle sue vittime. Impaurito, interroga di nuovo le streghe, che lo tranquillizzano: avrebbe corso rischi solo se la foresta di Birnam si fosse settembre

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Macbeth e le tre streghe, olio su tavola di Théodore Chassériau. 1855 Parigi, Musée d’Orsay.

sa dello scoto Kenneth MacAlpin nell’841. Sotto il suo governo le due principali genti del Nord furono unificate in un unico regno, chiamato Scotia, che si estendeva a nord delle insenature del Firth of Forth e del Firth of Clyde. Risultò, tuttavia, difficile plasmare un’unitaria identità culturale tra i due gruppi, mentre all’orizzonte stava per materializzarsi una minacciosa ondata immigratoria. Nel IX secolo le regioni settentrionali della Scozia furono infatti investite dalle invasioni vichinghe, in particolare le isole Orcadi e Shetland, che divennero in breve tempo colonie scandinave.

Il regno di Alba

I nuovi occupanti, in gran parte norvegesi, irruppero nel territorio dei Pitti e li decimarono. Ma furono gli stessi Scoti, piú tardi, ad annientare il «popolo dipinto», cancellandone la cultura e le comunità. Non è un caso che in quel periodo compaia la denominazione «regno di Alba», in riferimento alla Scozia: Alba (Yr Alban) era il nome gaelico del territorio scozzese e l’adozione del termine rispecchiava l’ormai totale predominio celtico-scoto. Dopo le invasioni vichinghe, la Scozia risultava divisa in tre grandi aree etnico-politiche: le isole e i territori dell’estremo Nord rimasero a lungo in mano norvegese; il regno di Alba controllava la zona centrale dell’antica Caledonia; mentre nel Meridione, il Lothian e la futura

mossa. Ma l’inverosimile accade. Il figlio del vecchio re Duncan con i suoi alleati attaccano il castello di Macbeth mimetizzandosi proprio con la vegetazione tagliata da quella foresta e uccidono il tiranno. Metafora del lato perverso del potere, l’opera di Shakespeare si ispira alla rielaborazione tardo medievale della biografia di Macbeth.

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capitale Edimburgo erano sotto il dominio degli Anglosassoni. L’ascesa di Alba, culminata nell’XI secolo con le gesta del sovrano Malcolm II MacCineada, venne subito dopo frenata dalle mire espansionistiche del monarca inglese Canuto il Grande. E l’integrità del regno venne anche minata dalle lotte interne tra pretendenti al trono, scatenatesi per la mancanza di una normativa in grado di regolare le successioni.

La congiura

Tra i nipoti di Malcolm II che aspiravano alla corona, prevalse, grazie a una congiura, Macbeth, il tenebroso sovrano reso celebre da William Shakespeare. Anche lo stesso Macbeth cadde vittima di un complotto e morí per mano del re Malcolm III, detto «Testa Grossa», che tentò senza fortuna di allargare i confini del regno. Secondo alcuni storici, le sue sconfitte militari, rappresentarono la prima, concreta avvisaglia del declino della Scozia. Le scelte matrimoniali di Malcolm III contribuirono a indebolire ulteriormente l’autonomia delle terre del Nord. Nel 1069 il monarca sposò Margaret, sorella di Edgardo Atheling, proclamato sovrano d’Inghilterra prima dell’invasione normanna dell’isola britannica. La donna, futura santa, introdusse in Scozia alcune usanze inglesi e favorí anche l’ingresso di numerosi suoi connazionali negli ambienti politici piú influenti. Una delle conseguenze di questa sorta di «contaminazione» culturale fu la progressiva perdita dell’egemonia celtica, con il declino delle usan-

Nel XIV secolo il cronista John Fordon definí quel re un usurpatore, mentre già nel Quattrocento si diceva che fosse un assassino. Nel Rinascimento lo storico Ettore Boezio introdusse la figura della crudele Lady Macbeth, e l’ipotesi della cospirazione rivestí contorni ancor piú sinistri. Cosí Macbeth divenne la personificazione del male, nonostante esistesse una testimonianza di segno opposto sul sovrano, contenuta in un’opera precedente: «Colma di cibo era la Scozia, a est e a ovest. Durante il regno del florido e prode re».

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storie l’indipendenza della scozia sempre in lotta per la libertà 121-129 d.C. Costruzione del Vallo di Adriano. 139 Costruzione del Vallo di Antonino. Fine del III sec. Prime menzioni della popolazione dei Pitti in fonti letterarie latine. 410 circa I Romani abbandonano le Isole Britanniche. 501-503 Gli Scoti di Dalriada, cristiani di ceppo gaelico provenienti dall’Irlanda, si stabiliscono nell’Argyll, sulla costa occidentale della Scozia.

Nella pagina accanto Edimburgo, Castello. La statua di Robert I Bruce posta all’ingresso della fortezza. A sinistra la piú antica rappresentazione della battaglia di Bannockburn, tratta da una delle edizioni a oggi conservate dello Scotichronicon (Cronache degli Scoti). 1440 circa. Cambridge, Corpus Christi College. Al centro della scena è Robert Bruce che combatte impugnando una grande ascia, mentre Edoardo II fugge verso Stirling Bridge.

843 Kenneth MacAlpin riunisce Scoti e Pitti sotto il proprio potere. 986 Ultima attestazione di una scorreria di Vichinghi norvegesi sull’isola di lona (Ebridi). 1014 Battaglia di Mortlach. Gli Scozzesi, guidati dal loro re, Malcolm II, sconfiggono i Vichinghi di Danimarca. 1018 Alla morte di Owen il Calvo, re di Strathclyde, Duncan, nipote di Malcolm II, annette defrnitivamente quel regno alla corona di Scozia.

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1040 Macbeth, signore di Moray e pretendente al trono di Scozia, uccide Duncan e diviene sovrano. 1057 Battaglia di Lumphanan. Macbeth viene sconfitto e ucciso da Malcolm III Canmore. 1107 Alla morte di re Edgar, il regno viene momentaneamente smembrato. Alessandro l diviene sovrano degli Scoti, ma David I regna sulle regioni di Lothian e Strathclyde. 1124 Alla morte di Alessandro I, il regno torna unito nelle mani di David I. 1174 Trattato di Falaise. Guglielrno il Leone, sia pure in forma ambigua, dichiara la propria sottomissione alla corona inglese. 1286 Alla morte di Alessandro III, gli succede la nipote Margherita, una bambina che muore dopo pochi anni. II trono scozzese è ora ambito da dozzine di pretendenti. 1292 Re Edoardo I d’Inghilterra favorisce l’ascesa al trono di Giovanni Balliol. 1296 Edoardo I invade la Scozia. Cominciano le Guerre di Indipendenza. 1306 Robert Bruce diviene re di Scozia. 1314 Battaglia di Bannockburn. Gli Scozzesi sbaragliano l’esercito inglese. Il Paese è di nuovo indipendente. 1320 Dichiarazione di Arbroath con cui gli Scozzesi si dichiarano indipendenti dall’Inghilterra. Il papa la riconosce. 1326 Prima convocazione di un Parlamento scozzese. 1328 Trattato di Northampton. Anche il re inglese Edoardo III riconosce l’indipendenza della Scozia. 1406 Re Giacomo l viene catturato dagli Inglesi; sarà liberato solo nel 1424. 1412 Viene fondata l’Università di St. Andrews. 1427 Giacomo I viene assassinato a Perth. 1468-69 La corona scozzese, in cambio di denaro, riceve da quella norvegese le isole Orcadi e Shetland. L’unità territoriale del Paese è ora completata.

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ze fondate sulla consanguineità dei clan e la diffusione, al loro posto, di dinamiche feudali di modello inglese. Nelle Highlands le tradizioni celtiche resistevano, ma l’epicentro del potere si stava trasferendo rapidamente nelle Lowlands, e nelle sue regioni ormai gravitanti nell’orbita culturale dell’Inghilterra. Quando il dominio inglese sembrava ormai sancito, si verificò un episodio destinato a modificare per un lungo periodo gli equilibri politici del settentrione britannico. Nel 1168 il sovrano scoto Guglielmo il Leone, ribellatosi alla condizione

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storie l’indipendenza della scozia di sudditanza in cui ormai versava il suo regno, strinse un accordo con la Francia di Luigi VII. Fidando nell’alleanza, Guglielmo attaccò l’Inghilterra, ma venne sconfitto e dovette sottoscrivere le pesanti condizioni del trattato di Falaise (1174), con il quale la Scozia diveniva ufficialmente feudo dei sovrani di Londra.

Accordo privato

Tuttavia, il documento non si tradusse in un atto tale da vincolare un regno alla sottomissione a un’altra corona, ma in un accordo privato tra due monarchi, estinguibile con la dipartita del beneficiario. Le condizioni di Falaise, per esempio, non furono rinnovate da Riccardo I Cuor di Leone, che preferí riscuotere un indennizzo di 10 000 marchi dalla controparte e non impegnarsi in altri, gravosi impegni bellici. Fallito il tentativo di espansione a sud, la Scozia riacquistò la titolarità di parte dell’arcipelago occidentale (le Ebridi e l’isola di Man)

strappandola ai Norvegesi, ma visse un momento travagliato, a causa di questioni dinastiche. Alla fine del Duecento, infatti, dopo il decesso di Alessandro III e dell’erede designata, la giovanissima nipote Margherita, la vacanza del trono determinò una situazione di stallo: ne approfittò il monarca inglese Edoardo I, investito del ruolo di arbitro nell’elezione del nuovo sovrano, scegliendo il fidato nobile anglo-normanno Giovanni Balliol, con la certezza di poterlo facilmente manovrare. L’eletto si mostrò inizialmente remissivo e fedele al suo referente politico, meritandosi il soprannome di Empty Jacket («Giacca vuota»), ma poi, sobillato dal malcontento popolare, decise di ribellarsi. Balliol si rivolse subito ai Francesi con i quali siglò un accordo storico, la Auld Alliance (1295), e invase la Cambria. Gli Inglesi, che nel frattempo avevano invaso la Guascogna, reagirono immediatamente, costringendo gli Scozzesi alla resa. La rivolta, però, non si spense e venne portata avanti da uno dei luogotenenti di Balliol, William Wallace, il quale ottenne nel 1297 una decisiva affermazione a Stirling Bridge. «Un geniale animatore di azioni di guerriglia – cosí lo storico britannico George Macaulay Trevelyan (1876-1962) descrive Wallace – un

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Icona dell’indipendentismo scozzese, William Wallace ha spesso assunto i tratti di un eroe leggendario Un crogiolo di espressioni La Scozia manifesta le sue molte anime anche in ambito linguistico. L’inglese è parlato dalla maggioranza della popolazione, ma diffusi sono anche lo Scots o il Lallans (idioma di origine germanica, del ramo frisone) in alcune regioni delle Lowlands e il gaelico scozzese o Gàidhlig, invece, nelle Highlands. Fino al XIX secolo diverse comunità delle Orcadi e delle Shetland, invece, parlavano ancora il norreno (l’antico idioma vichingo), oggi ormai scomparso.

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braveheart

Una rilettura con qualche «licenza poetica»... La vicenda di William Wallace (1270-1305) è stata portata sul grande schermo nel 1995 da Mel Gibson con il film Braveheart, una pellicola che oscilla tra storia e leggenda. La fedeltà delle ricostruzioni, talvolta, risulta trascurata, anche se la trama fornisce un’immagine dell’eroe scozzese non lontana da quella dell’attendibile poema quattrocentesco Wallace, attribuito a Blind Harry. Nel film Wallace appare perlopiú come un rude guerriero, sebbene le cronache lo descrivano come un uomo dotato di un livello culturale molto elevato. Non ha fondamento storico, poi, la presunta relazione tra il condottiero e Isabella di Francia, moglie del delfino inglese Edoardo II, che è solo un espediente degli sceneggiatori. Anche alcuni particolari dello scontro di Stirling Bridge non corrispondono alle descrizioni delle cronache, e desta perplessità anche la raffigurazione di Robert Bruce, il futuro leader degli indipendentisti, dipinto come un opportunista che briga con gli Inglesi.

A sinistra Stirling. Il Monumento Nazionale dedicato a William Wallace (a destra, la statua), eretto sull’Abbey Carig, da dove, l’11 settembre 1297, il leader scozzese mosse contro gli Inglesi di Edoardo I, battendoli a Stirling Bridge. Nella pagina accanto un suonatore di cornamusa scozzese, con il suo costume tradizionale.

gigante dai muscoli di ferro, apparso improvvisamente nel libro della storia, quasi provenisse dal nulla»: nel tempo, questo ritratto è stato oggetto di vari adattamenti letterari e cinematografici, con sfumature leggendarie.

Un leader popolare

La storiografia, in ogni caso, concorda sulla raffigurazione di Wallace come di un «leader popolare», nelle cui vene non scorreva sangue aristocratico: la sua ascesa introdusse in Scozia una forma di indipendentismo che si articolava dal basso, e perciò ribattezzato in età contemporanea come una sor-

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ta di «nazionalismo democratico». L’insurrezione si profilò in effetti come un fenomeno popolare, visto che inizialmente i nobili mantennero una posizione neutrale e in prima linea combatterono perlopiú i piccoli proprietari terrieri insieme ai contadini. Le fortune di Wallace declinarono appena un anno dopo, a Falkrirk (1298), dove il condottiero sopravvisse per miracolo al massacro del proprio esercito. Gli Inglesi riuscirono a catturarlo nel 1305 e lo condannarono a morte. Dopo l’esecuzione, la testa di Wallace venne esposta come trofeo sul

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storie l’indipendenza della scozia Simboli nazionali

Il cardo e la croce La bandiera scozzese contiene una croce bianca in campo blu e rievoca un prodigio che avrebbe avuto luogo nel IX secolo. Al re Angus apparve sant’Andrea, predicendogli la vittoria nella battaglia che stava combattendo contro gli Angli. Il giorno dopo comparve in cielo un’enorme croce bianca decussata (con i bracci in diagonale, come la croce sulla quale fu martirizzato il santo), che galvanizzò le truppe e le spinse alla vittoria. L’altro emblema nazionale della Scozia è la pianta del cardo. Anche questo simbolo si lega a un fatto d’armi, avvenuto nel X o nel XIII secolo. Gli Scozzesi stavano per essere sorpresi nel sonno dalle truppe scandinave, ma gli assalitori, che erano scalzi, calpestarono le spine dei cardi e urlarono per il dolore. In questo modo gli assaliti si svegliarono e l’imboscata fallí. London Bridge: uno sfregio che indignò il nobile scozzese Robert Bruce, allora amico dei governanti di Londra, ma destinato a guidare la lotta per l’indipendenza. In realtà, a suscitare le ire di Bruce, spingendolo a voltare le spalle agli alleati, avevano contribuito alcuni impopolari provvedimenti con cui i reali inglesi intendevano estirpare le antiche tradizioni della Scozia (sul modello dello statuto di Rhuddlan adottato per il Galles nel 1284). Conquistata la corona scozzese nel 1306 grazie a un colpo di Stato, il nuovo sovrano impegnò a piú riprese l’esercito inglese, fino a ottenere una clamorosa vittoria a Bannockburn, il 24 giugno del 1314, nonostante avesse combattuto in condizioni di pesante inferiorità numerica.

Sogni panceltici

Bruce, però, coltivava progetti ancora piú ambiziosi e arrivò a costituire una seppur sterile «internazionale panceltica», siglando un patto di ferro con l’Irlanda, allora governata dal fratello Edward. Conquistata la piena indipendenza, la Scozia si rivolse quindi alle grandi potenze occidentali per ottenere il riconoscimento del proprio status costituzionale. Tra i destinatari della richiesta figurava anche papa Giovanni XXII,

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al quale venne recapitata la celebre Dichiarazione di Arbroath del 1320, che conteneva riferimenti a un’origine euro-asiatica degli Scozzesi. Al di là delle leggende sulle presunte discendenze esotiche ricordate in apertura, la vera identità nazionale andava formandosi intorno alle memorie delle imprese della guerra d’indipendenza ed ebbe il suo imprimatur nel grande poema Brus di John Barbour, composto intorno al 1375 e dedicato al trionfatore della battaglia di Bannockburn. A consolidare lo spirito indipendentista contribuirono, poi, alcuni atti autenticamente politici, primo fra tutti il trattato di EdimburgoNorthampton (1328), che sanciva in modo solenne l’uscita di scena degli Inglesi dalla Scozia. Nel nuovo regno indipendente, inoltre, andava affermandosi una tradizione giuridica autonoma rispetto al modello britannico costituito dal trattato trecentesco On the Laws and Customs of England di Enrico di Bracton, che aveva riordinato il sistema consuetudinario, il cosiddetto common law. Alla fine del Medioevo, la giovane identità nazionale scozzese venne minata dalle faide interne. Soprattutto nelle Highlands, cresceva il potere dei clan, in particolare quello di due grandi famiglie rivali, i MacDonald e i Campbell,

A destra il castello di Eilean Donan, situato sull’omonima isoletta alla confluenza tra tre laghi, nelle Highlands occidentali. Fu edificato a partire dal XIII sec., per proteggere le terre di Kintail dai Vichinghi.

divise anche da scelte politico-religiose opposte: i primi si dichiararono depositari della tradizione gaelico-cattolica, mentre i secondi si schierarono con il blocco protestante filo-inglese.

Un dissidio insanabile

Questa spaccatura si accentuò proprio quando, con l’avvento al trono di Enrico VIII, riprese vigore l’espansionismo inglese: il monarca aveva attaccato la Francia e, in virtú dell’Auld Alliance, si trovò in conflitto anche con gli Scozzesi, che sconfisse a Flodden nel 1513. Enrico piegò anche la Chiesa cattolica locale, che fin dall’Alto Medioevo aveva rappresentato una delle colonne dell’indipendentismo e favorí la nascita di un forte partito filosettembre

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Da leggere U Norman Davies, Isole. Storia

protestante capeggiato dal teologo John Knox. La reazione dei cattolici scozzesi non tardò a manifestarsi e fu messa in atto dalla giovane regina Maria Stuarda, che si trovò a combattere contro un presbiterianesimo (una particolare forma di calvinismo protestante) ormai dominante e una classe nobiliare asservita agli Inglesi. Uccisa, dopo una cospirazione, Maria lasciò il regno al figlio Giacomo VI, che assunse successivamente anche il titolo di sovrano d’Inghilterra, in virtú dell’unione delle due corone. Era il preludio dell’Act of Union del 1707, con il quale Scozia e Inghilterra si fusero in una sola entità. A partire dalla seconda metà del Settecento le rivendicazioni autonomiste riemersero prepotente-

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mente, anche se solo nella ristretta cerchia degli ambienti intellettuali che si nutrivano dei richiami all’epica medievale scozzese contenuti nei preromantici Canti di Ossian e in alcuni romanzi di Walter Scott. Solo in seguito il movimento indipendentista riacquistò consensi anche nei ceti popolari, ispirandosi alle rivolte contadine irlandesi della National Land League e generando una ripresa delle suggestioni panceltiche.

Verso il referendum

Nelle fila del nazionalismo scozzese, tuttavia, convivevano anime diverse: su un versante si costituirono partiti di ispirazione cattolica che promuovevano la riscoperta delle radici celtiche della Scozia e

dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Bruno Mondadori, Milano 2004 U Paolo Gulisano, Il cardo e la croce. La Scozia: una storia di fede e di libertà, Il Cerchio, Rimini 2003. U Kenneth O. Morgan (a cura di) , Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai nostri giorni, Bompiani, Milano 2007

dall’altra, invece, formazioni di matrice protestante, che teorizzavano la superiorità della componente etnica anglo-sassone. Alla vigilia della seconda guerra mondiale i due schieramenti si fusero, dando vita allo Scottish National Party. La radicalizzazione politica ha infine premiato gli indipendentisti, almeno sul terreno delle devolution portando al varo, nel 1998, del primo parlamento autonomo. F

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mostre da giotto a gentile

Miracolo a Fabriano

di Giampiero Donnini

La città marchigiana rende omaggio al suo artista piú famoso, dimostrando come Gentile non sia stato uno straordinario genio isolato, ma l’esponente di punta di una vera e propria scuola, animata da personalità di primissimo piano

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viluppatasi dal seme romanico e dalla grande rivoluzione giottesca, la produzione artistica della vasta area che si estende tra l’Umbria e le Marche giunse a lambire le soglie del gotico di corte, ed ebbe in Gentile da Fabriano il suo piú celebrato protagonista. Al ricco patrimonio che ne è testimonianza viene dedicata la mostra in corso a Fabriano, forte di opere di Giotto e dello stesso Gentile, che costituiscono la cerniera di un grande contenitore figurativo, arricchito dalla presenza di maestri toscani, umbri e riminesi: da Pietro Lorenzetti a Bernardo Daddi, da Puccio di Simone al Baronzio e a Giuliano da Rimini. La rassegna indaga sui precedenti duecenteschi di questa straor-

Madonna col Bambino in trono e Angeli tra i santi Caterina d’Alessandria, Paolo, Ludovico da Tolosa, Pietro, Giovanni Evangelista, Francesco, Michele Arcangelo, Chiara, tempera e oro su tavola di Giovanni Baronzio. 1345-1350 circa. Mercatello sul Metauro (PU), Museo Civico Ecclesiastico di San Francesco.

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dinaria fioritura, quando Fabriano deve considerarsi umbra a tutti gli effetti, in virtú della sua appartenenza alla diocesi di Nocera Umbra e degli stretti legami con l’area di influenza longobarda, che vide in Spoleto la splendida capitale del Ducato.

La lezione dei maestri umbri

Non a caso, la maggioranza delle opere del XIII secolo presenti nel territorio derivano dalla matrice culturale umbra e spoletina. Ne è un esempio emblematico la Croce dipinta di Rinaldo di Ranuccio da Spoleto, artista sviluppatosi nel secondo Duecento dal rigoglioso ceppo ducale, che rimedita sulla lezione divulgata in Assisi da Giunta Pisano. Di censo superiore si qualifica l’autore della grande Croce dipinta del Museo di Camerino, documentata sino agli anni Trenta del secolo scorso nella Collezione del conte Augusto Fornari di Fabriano. Aveva di sicuro varcato l’Appennino anche l’ignoto autore degli affreschi della Pinacoteca fabrianese, distaccati dalla chiesa di S. Agostino. Le espressioni dei personaggi cedono alla mimica melodrammatica dei pittori umbri e riportano alla mente la schiera di artisti ruotanti attorno al perno linguistico del Maestro di San Francesco, nei decenni conclusivi del XIII secolo.

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Consolidatosi il potere comunale sulla città con l’affermarsi della famiglia magnatizia dei Chiavelli, l’egemonia culturale umbra vide la sua completa affermazione nel corso del Trecento, sia sotto il profilo artistico che dal punto di vista dei valori spirituali. La vicinanza di Assisi e i ripetuti soggiorni di san Francesco contribuirono ad animare una vivace realtà di fede, che si avvalse della pittura come di un efficace strumento educativo e propagandistico. Allo scadere del Trecento, in quell’incommensurabile sacrario d’arte e di fede costituito dalla basilica di Assisi, Giotto dava un volto nuovo alla pittura rimutandola «di greco in latino», come scrisse, nel suo Libro d’arte, intorno al 1390, il pittore e teorico Cennino Cennini. Del grande fiorentino sono presenti in mostra la Testa di pastore della Galleria dell’Accademia di Firenze e i due tondi su tavola con San Francesco e il Battista concessi in prestito dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Sin dal primo Trecento dilaga la severa lucidità del pensiero giottesco e i piú dotati artisti umbri, marchigiani e di Romagna si inseriscono con prontezza nel vivo di quella rivoluzione formale. I pittori di Rimini furono tra i primi a divulgare nelle Marche la loro colorita sintassi: dal Montefeltro a Jesi, da Fabriano a Tolentino le chiese francescane e degli

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A sinistra Maestà, Madonna in trono allattante il Bambino con i santi Lucia, Caterina d’Alessandria ed Emiliano, affresco del Maestro di Sant’Emiliano, staccato dall’abbazia di S. Emiliano in Congiuntoli (nei pressi di Scheggia, oggi in territorio umbro). Secondo decennio del XIV sec. Fabriano, Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli».

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ordini mendicanti si ornarono di vasti cicli a fresco, dai quali trassero linfa vitale le maestranze locali. Il prezioso polittico di Giuliano da Rimini e quello di Giovanni Baronzio consentono di valutare appieno il grado di autonomia linguistica toccato dalla cultura romagnola, la sua pittura limpida e spontaneamente popolare nelle invenzioni cromatiche come nelle espressioni siglate dei personaggi. Dotato di una formula di stile uniformata ai modelli di Giuliano è il Maestro di Sant’Emiliano, cosí definito dall’elegante Maestà affrescata nella badia eponima, ai confini con l’Umbria. Distaccato nel secolo scorso, esso rappresenta il numero piú alto e intrigante del primo Trecento marchigiano, nel quale eleganza, misura

e spazialità si congegnano abilmente. A lui e a un gruppo di aiuti si riferiscono le pitture murali che impegnano le cappelle gotiche della chiesa fabrianese di S. Agostino. Di verbo diverso si rivela invece il Maestro dell’Incoronazione di Urbino, che attinge alla corrente di Rimini, ma ne semplifica le cadenze e gli accenti, traducendoli in chiave discorsiva e feriale. Egli è l’autore di una serie di Storie della vita del Battista eseguite nella chiesa di S. Domenico, strappate e disperse nel Novecento e riapparse nei Musei di Boston, di Rochester e in quello di Palazzo Venezia a Roma. Prima della metà del secolo irrompe sulla ribalta fabrianese un altro protagonista senza nome, il piú grande di tutti:

Sulle due pagine il gruppo dell’Epifania in legno policromo, attribuito a Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Seconda metà del XIV sec. Fabriano, Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli». Da sinistra: san Giuseppe, Melchiorre, Baldassarre e Gaspare.

Qui sopra uno scorcio del chiostro della chiesa del Sacro Cuore o del Gesú, facente parte del complesso dello Spedale di S. Maria del Buon Gesú, oggi sede della Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», nelle cui sale è allestita la mostra «Da Giotto a Gentile».

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mostre da giotto a gentile il Maestro di Campodonico, autore di affreschi nella badia di S. Biagio in Caprile (oggi nella Galleria Nazionale di Urbino). La mostra riunisce il raro catalogo del poderoso artista, sulla cui sigla espressiva grava ancora qualche mistero. In ogni caso, dopo che Federico Zeri ne aveva disegnato un acuto profilo, la delucidazione della sua cifra stilistica è giunta ormai a soddisfare i conoscitori, sempre ansiosi di scoprire intrecci di cultura inavvertiti, specie tra le pieghe di quelle opere che nascondono, e forse sempre nasconderanno, gli enigmi piú oscuri. Chi era l’ignoto Maestro, un umbro o un marchigiano? Oppure un romagnolo? L’ipotesi che meglio si attaglia alla sua persona artistica è, a nostro avviso, quella che vedrebbe in lui un umbro. Non solo per il pathos sovraccarico che agita le sue figure, ma anche per una certa consanguineità con i pittori di Gubbio e con gli esponenti piú evoluti della nuova generazione assisiate ruotanti nell’orbita di Puccio Capanna. La posizione isolata del Maestro di Campodonico è convalidata anche dalle prime prove del giovane Allegretto Nuzi, il caposcuola locale, documentato nel 1346 a Firenze. In Toscana egli mise a punto la propria sintassi, sviluppando la pratica pittorica a fianco di personalità quali Bernardo Daddi, Maso di Banco e Puccio di Simone. Ciò non toglie che, nato attorno al 1320, Allegretto dovette accingersi al viaggio in età adulta e perciò con le prove di una sua collaudata vocazione artistica. Certo non affinò con il Maestro di Campodonico la Madonna col Bambino tra i santi Maria Maddalena, Giovanni Evangelista, Bartolomeo e Venanzio, tempera su tavola di Allegretto Nuzi. 1350 circa. Fabriano, Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli».

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Didascalia troppo aliquatur arduo adi odisera queseguirvero ent sua indole mite e riflessiva: qui doloreium conectuespressionismo rehendebis eatur ne l’indirizzo sul metro del marcato tendamusam consent, perspiti conseque e delle intuizioni spaziali di quella singolare persona. nis maxim earuntia cones apienda. Ma un segno eloquente del eaquis suo fresco coinvolgimento con le maestranze giottesche operose a Fabriano in S. Domenico e in S. Agostino emerge nei suoi primi lavori. Dopo Firenze e dopo un’esperienza diretta con Puccio di Simone (anch’egli a Fabriano nei primi anni Cinquanta), il Nuzi afferma il suo primato locale.

Allegretto, pittore di corte

A lui si affidarono i Chiavelli, signori della città, eleggendolo a pittore di corte. A lui furono commissionati i cicli murali che decorano le chiese maggiori e nella sua bottega attecchirono i primi innesti della scuola fabrianese. Nel corso della sua parabola finale, l’artista perviene a un’astrazione formale sempre piú marcata, alla quale contribuiscono gli smaglianti broccati trapunti d’oro, le fantastiche decorazioni e l’uso magistrale del bulino. Tra i suoi allievi, spicca Francescuccio Ghissi, autore di preziose Madonne dell’Umiltà e di fondi oro di destinazione pubblica e privata. Alla sua mano vanno anche ricondotti alcuni affreschi, tra i quali la Dormitio Virginis in S. Domenico di Fabriano e quella in S. Agostino di Perugia. In parallelo con la fioritura della scuola pittorica, nella seconda metà del Trecento si sviluppa a Fabriano una corrente di scultura lignea di grande vitalità e autonomia espressiva. Si contano sulle dita i centri di cultura in Italia che vantano scuole di pittura affiancate da manifestazioni parallele di produzione plastica. La città marchigiana va pertanto iscritta in questo contesto elitario, forte di un patrimonio artistico di assoluto rilievo che vede all’opera Al-

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Qui sotto Madonna dell’Umiltà, tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1420-22 circa. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.

legretto Nuzi, pittore, e Fra’ Giovanni di Bartolomeo, scultore. Era costui un frate olivetano che aveva la bottega nel convento di S. Caterina, da dove invò, nel 1384, un presepe ligneo nell’Ascolano.

Una stagione felicissima

Spetta alla sua mano lo straordinario gruppo dell’Epifania, composto dai tre Magi e da san Giuseppe, nei quali l’autore denuncia i segni di una forte attrazione formale per le correnti di gusto circolanti fra la Toscana e Orvieto e per l’attività di Andrea e Nino Pisano nel cantiere del Duomo. Nelle sculture di Fra’ Giovanni, alla valentia dell’intaglio si sovrappone la preziosità dell’ornamentazione pittorica dei manufatti, giunta a noi nella sua integrità e per la quale si è pensato al diretto intervento di Nuzi o Ghissi. La felice stagione della scultura trecentesca umbro-marchigiana è supportata nell’esposizione da altri legni giunti da Roma, da Perugia e dalle chiese fabrianesi. Cosí si presentava la temperie artistica diffusa a Fabriano allo scadere del XIV secolo, epoca climaterica in cui si colloca la genesi di Gentile. La sua presenza è stata a lungo riguardata come una sorta di fiore esotico sbocciato tra i falaschi dell’Appennino per uno di quei misteriosi accadimenti della natura. Quando invece occorre tenere nel debito conto la vitalità e la ricchezza del contesto culturale in cui il pittore aveva iniziato le sue giovanili ricerche: un contesto che stava attraversando una fase di inusitato progresso sociale e artistico. Dopo aver diffuso le prove del suo genio nelle corti piú prestigiose d’Italia, da Pavia a Milano a Venezia, da Brescia a Firenze a Siena, il maestro giunge a Roma, invitato da papa Martino V ad affrescare in S. Giovanni in Laterano. E qui, nel 1427, Gentile trova una morte prematura. Chiudono il percorso quattro sue tavole, per due delle quali la presenza in mostra è un ritorno nella città che le aveva tenute a battesimo: sono il San Francesco stimmatizzato della Collezione Magnani-Rocca e la Crocifissione ricomposta di recente al polittico di Val di Sasso, oggi a Brera. Ai quali sono affiancate la fragile, dolcissima Madonna di Perugia e quella del Museo di Pisa, cosí preziosa da sembrar profana. F

Dove e quando

Qui sopra Crocifissione, affresco del Maestro di Campodonico strappato dall’abbazia di S. Biagio in Caprile. 1345. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

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«Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano tra Due e Trecento» Fabriano, Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli» fino al 30 novembre Orario fino al 30 set: ma-ve, 10,00-21,00; prefestivi e festivi, 10,00-23,00; lu, 16,00-21,00; 1° ott-30 nov: ma-ve, 9,00-19,00; prefestivi e festivi, 9,00-20,00; lu, 15,00-19,00 Info Numero Verde 800 001 346; mostrafabriano.it

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personaggi beatrice portinari

L’ amore di una

di Maria Paola Zanoboni

vita

Quando s’incontrarono, lei aveva meno di dieci anni: eppure Dante ne rimase affascinato, tanto da elevarla, per sempre, a suo modello ideale di donna. Ma chi fu, veramente, Beatrice Portinari, la figlia di uno dei piú ricchi mercanti di Firenze?


Dante e Beatrice, olio su tela di Henry Holiday. 1882-1884. Liverpool, Walker Art Gallery.


personaggi beatrice portinari « Sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva» [Purgatorio, canto XXX]

S S

u Beatrice Portinari, la Beatrice di Dante Alighieri, sono stati scritti fiumi di inchiostro, ma la sua realtà storica, e la sua identificazione con la figlia di Folco Portinari, ricco uomo d’affari fondatore dell’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, si basano soltanto su due testimonianze, entrambe successive di una generazione al Sommo Poeta: quella del Boccaccio, e quella, resa negli stessi anni, dal figlio di Dante, Pietro Alighieri. «Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de’ suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de’ fiori mescolati fra le verdi frondi fa ridente, era usanza della nostra città – narra Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (opera nota anche come Vita di Dante) – e degli uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco Portinari, uomo assai orrevole [onorevole] in que’ tempi tra’ cittadini, il primo dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propria casa a festeggiare, infra li quali era già il nominato Alighieri. Al quale, sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a’ luoghi festevoli, sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora

finito, seguíto avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua età, (…) puerilmente si diede con gli altri a trastullare. Era intra la turba de’ giovinetti una figliuola del sopradetto Folco, il cui nome era Bice, come che egli sempre dal suo primitivo, cioè Beatrice, la nominasse, la cui età era forse d’otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne’ suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso delicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale e quale io la disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima possente a innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancora che fanciul fosse, con tanta affezione la bella immagine di lei nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne dipartí».

Testimoni illustri

Cosí, dunque, l’autore del Decameron descrisse l’incontro tra Dante e Beatrice, e su questa descrizione è basata l’identificazione tra la protagonista della Divina Commedia e la

donna reale, sulla quale le notizie storiche mancano quasi completamente. Secondo lo scrittore, ella aveva dunque un anno meno di Dante (sarebbe nata perciò intorno al 1266), e sarebbe morta alla fine del suo ventiquattresimo anno (quindi nel 1290, come asserito anche da Dante nella Vita Nova, il 19 giugno, secondo il nostro calendario, ovvero il 9 giugno, secondo quello musulmano). La testimonianza del Boccaccio, resa non piú tardi del 1363-64, è stata universalmente ritenuta degna di fede, anche perché lo scrittore stesso aveva lavorato, dal 1327-28, come fattore nel banco dei Bardi (cioè della famiglia del marito di Beatrice), dei quali suo padre era socio, e aveva avuto contatti diretti anche con i Portinari, in rapporti d’affari coi Bardi. Da un parente strettissimo della Beatrice dantesca, il BoccacA destra acquerello di Marie Spartali Stillman nel quale si immagina il secondo incontro tra Dante e Beatrice, avvenuto nella chiesa di S. Margherita dei Cerchi a Firenze. 1880. Collezione privata. In basso Firenze, chiesa di S. Egidio. La tomba di Folco Portinari, padre di Beatrice, morto il 31 dicembre 1289.

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Miniatura di scuola veneta raffigurante Beatrice che guida Dante, dal Paradiso della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

cio dichiara appunto di aver avuto l’identificazione con Beatrice Portinari. Non gli mancarono contatti diretti neppure con i discendenti dell’Alighieri: nel 1350, infatti, lo scrittore fu inviato dal Comune fiorentino a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, suor Beatrice (al secolo Antonia Alighieri), un simbolico riconoscimento in memoria del padre, assegnatole dalla città del giglio. Una seconda testimonianza, del tutto indipendente dalla precedente, resa intorno al 1360 da Pietro Alighieri, figlio di Dante e di Gemma Donati, e autore di un commento alla Divina Commedia, conferma l’identificazione con Beatrice Portinari: «Poiché qui per la prima volta viene nominata Beatrice, di cui si parla tanto soprattutto nella terza cantica dedicata al Paradiso, bisogna premettere che viveva a Firenze al tempo dell’Autore [Dante] una donna di nome Beatrice, insigne per i suoi costumi e per la sua bellezza, nata nella famiglia dei Portinari, e della quale Dante fu innamorato, e finchè lei visse le dedicò molte poesie, mentre, dopo la morte, per elevarne il nome alle stelle, volle accoglierla nel suo poema sotto le sembianze allegoriche della Teologia» .

Quell’uomo orrevole...

Il padre di Beatrice, Folco di Ricovero Portinari, che, come già ricordato, nella Vita di Dante Boccaccio definisce «uomo assai orrevole», e al quale si deve la fondazione, tra il 1285 e il 1286, dell’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova (tuttora esistente e funzionante nel centro della città, alle spalle del Duomo), apparteneva a un’importante famiglia mercantile che occupava una posizione di notevole rilievo nella vita politica ed economica della città già durante il XIII secolo. Fece parte del gruppo politico dirigente fin dalla fase iniziale del governo popolare, ottenendo la carica di pri-

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ore nel sestiere di Porta San Piero nel 1282, nel 1285 e nel 1287. Folco cioè occupò questo importante incarico in un momento particolarmente significativo per la storia di Firenze: quello dell’istituzione del Priorato delle Arti (1282), espressione del governo popolare di parte guelfa, formato da mercanti, artigiani e banchieri, la cui ascesa economica, rafforzatasi dopo la morte di Federico II (1250) e ancor piú dopo quella di Manfredi (1266) e Corradino di Svevia (1268) e la messa al bando dei ghibellini, li aveva portati a occupare le cariche piú alte dell’organismo comunale, da cui erano fino ad allora stati esclusi. Mercanti, artigiani e banchieri venivano a trovarsi cosí equiparati politicamente alla nobiltà inurbata che da sempre teneva le redini del potere.

Fazioni in lotta

Altro elemento di notevole rilievo è il fatto che Folco – almeno dagli anni Ottanta del Duecento – fosse socio dei Cerchi (in particolare di Oliviero, di Bindo e di Giovanni) cioè della potente consorteria che in quegli anni guidava le sorti di Firenze e che all’inizio del Trecento, alla testa della fazione dei guelfi bianchi (rappresentanti gli interessi del ceto medio), si sarebbe opposta ai Neri (esponenti del ceto nobiliare), capeggiati invece dai Donati. Quelle lotte si conclusero nel 1302, con la cacciata dei Cerchi dalla città. Oliviero Cerchi, in particolare nell’ultimo ventennio del XIII secolo, era alla guida della consorteria e del banco di famiglia, e, dopo la vittoria sugli Aretini a Campaldino (11 giugno 1289), divenne l’uomo piú in vista di Firenze, nonché il rappresentante del popolo grasso e medio di cui sosteneva gli interessi, in opposizione alle famiglie di antica nobiltà. Anche Giovanni Cerchi, cugino di Oliviero, fino al 1287-88 occupava un posto di rilievo nel banco di famiglia e non meno importante era il suo ruolo all’interno della consorteria. E proprio a queste persone, nel

suo testamento (1288), Folco affidava completamente le sorti dei suoi 11 figli, del loro patrimonio e della società commerciale, puntando sulla mercatura il totale delle proprie rendite immobiliari e sulla lealtà e abilità dei suoi soci il futuro economico della famiglia. Accordava la piú totale fiducia a Oliviero, Bindo e Giovanni Cerchi nella gestione della società e nella ripartizione dei crediti, e, in particolare, affidava a Oliviero e Bindo (oltre che ai due figli maggiorenni e ad altri due parenti) la tutela delle figlie e dei figli minorenni, esentando i due soci dall’incombenza di render ragione della propria amministrazione. Va sottolineato che, proprio in quest’epoca, i Cerchi, soci del Portinari, oltre a essere titolari di un banco che figurava tra i finanziatori ufficiali della curia pontificia, e tra gli incaricati dal papa (Gregorio IX, 1227-1241) per la riscossione delle decime, erano tra i mercanti che, essendosi già affermati sia in Inghilterra che nelle Fiandre, poterono approfittare delle rivalità sorte nella seconda metà del Duecento tra questi due Paesi (rivalità che ebbero come conseguenza la cessazione delle esportazioni di lana inglese verso le Fiandre). I Cerchi, quindi, subentrarono ai Fiamminghi, sottraendo loro il monopolio del commercio della lana inglese e acquistandola direttamente dai produttori, ottenendo cosí una posizione di privilegio che mantennero per circa vent’anni, negli ultimi due decenni del XIII secolo.

Commerci e prestiti

In tale contesto appunto, cioè nel momento di massima affermazione dei mercanti toscani nel monopolio della lana inglese, si pongono le ultime volontà del Portinari con l’esplicita indicazione di investire nella società con i Cerchi tutti i proventi derivanti dai beni immobili di proprietà della famiglia. Questo sodalizio pose probabilmente le basi per l’affermazione autonoma della compagnia dei Portinari che si svi-

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personaggi beatrice portinari Il sogno di Dante al momento della morte di Beatrice, acquerello di Dante Gabriel Rossetti. 1856. Londra, Tate Gallery. Secondo notizie tramandateci dal Boccaccio e dallo stesso Dante, Beatrice Portinari sarebbe morta il 19 giugno 1290, a soli 24 anni.

luppò dai primi anni del Trecento grazie al commercio della lana e ai prestiti alla Corona inglese. All’epoca di Folco, la società con i Cerchi doveva aver prodotto profitti notevolissimi, come emerge chiaramente dall’entità della quota destinata ai due figli maggiorenni (1500 lire di fiorini piccoli ciascuno) e dall’ammontare delle doti da erogare alle quattro figlie non ancora sposate (800 lire di fiorini piccoli ciascuna), e probabilmente per questo il Portinari stabilí di investirvi anche le rendite degli immobili, per garantire un futuro di agiatezza ai numerosi discendenti.

I beni di famiglia

A Firenze, nei rioni di San Procolo e di Santa Margherita, la famiglia possedeva beni immobili di una certa entità, minuziosamente elencati nel testamento del padre di Beatrice: cinque case, tra cui la domus vetus Portinariorum e la domus nova, sede della famiglia, fatta edificare dal testatore dietro la torre del palazzo avito nel rione di Santa Margherita; il citato palazzo con torre; due casolari, su uno dei quali era stata costruita un’altra torre; un forno; un’altra domus, affittata a un orefice. Come accennato, proprio sulle rendite degli immobili, da investire completamente nella società con i Cerchi alla cui gestione venivano affidate, avrebbero basato la propria sopravvivenza la moglie di Folco, le figlie nubili e i figli non ancora maggiorenni. Tra le strategie imprenditoriali del padre di Beatrice, va probabilmente inserita, in qualche misura, anche la fondazione dell’ospedale di S. Maria Nuova, da lui dotato abbondantemente di beni mobili e immobili, ma di cui volle mantenere a ogni costo il diritto di patronato

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per la sua famiglia, nonostante la personalità ecclesiastica dell’istituto. In questo modo, cioè, i Portinari si assicuravano poteri assai ampi nelle gestione dell’ente assistenziale, e, soprattutto, il completo controllo della sua amministrazione finanziaria. Folco morí il 31 dicembre 1289 e venne tumulato, secondo le sue disposizioni testamentarie, nella chiesa di S. Egidio, presso l’ospedale di S. Maria Nuova, dove le sue spoglie riposano ancora, dietro una lapide marmorea (che oggi si trova entrando in chiesa sulla sinistra) sulla

quale è scolpito lo stemma dei Portinari, recante l’iscrizione «Hic iacet Folchus de Portinariis, qui fuit fondator et edificator huius ecclesie et hospitalis S. M. Nove et decessit anno MCCLXXXVIIII die XXXI decembris, cuius anima pro Dei misericordia, requiescat in pace». Dal testamento di Folco, rogato dal notaio fiorentino Tedaldo Rustichello il 15 gennaio 1288, si hanno le scarsissime notizie storiche su Beatrice: in quell’epoca, secondo le parole del padre, era già sposata con Simone de’ Bardi, per cui Folco le lasciò soltanto 50 lire di fiorini piccoli, diversamente dalle altre fisettembre

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Da leggere U Giovanni Boccaccio, Vita di Dante, a cura di Paolo Baldan,

Moretti e Vitali, Bergamo 1991; pp. 78-81 e pp. 217-220 U Isidoro Del Lungo, Beatrice nella vita e nella poesia del

XIII secolo, Ulrico Hoepli, Milano 1891 U Guido Pampaloni, Lo spedale di Santa Maria Nuova e la

costruzione del loggiato di Bernardo Buontalenti, Cassa di Risparmio, Firenze 1961 U Arnaldo D’Addario, Alighieri, Pietro, Paolo Nardi, Caponsacchi, Gherardo, Franco Cardini, Cerchi, Giovanni, Franco Cardini, Cerchi Vieri, (Oliviero), in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; anche on line su treccani.it U Arnaldo D’Addario, Bardi, Simone, in Enciclopedia Dantesca, a cura della Fondazione Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; anche on line su treccani.it U Alighieri, Antonia (suor Beatrice), in Enciclopedia Dantesca, a cura della Fondazione Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; anche on line su treccani.it U Maria Paola Zanoboni, Portinari, Folco, in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana (in corso di stampa)

glie (Vanna, Fia, Margherita e Castoria), alle quali, come già detto, aveva destinato la dote di 800 lire di fiorini piccoli ciascuna.

A nozze con Simone

La data del matrimonio tra Beatrice e Simone de’ Bardi sembra debba risalire al 1280 almeno, come testimonia un atto notarile di recentissima scoperta, in cui Monna Bice, appunto in quell’anno acconsentiva a una cessione di terre effettuata dal marito. Finora non sono stati trovati documenti che attestino la nascita di figli di Beatrice.

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Simone de’ Bardi, tra i numerosi membri della famiglia con questo nome, è stato identificato dallo studioso di Dante Isidoro Del Lungo come Simone figlio di Geri, che ricoprí piú volte la carica di podestà (per esempio a Volterra nel 1288), e di capitano del popolo (a Prato nel 1290, a Orvieto nel 1310), e che fu coinvolto in numerose missioni militari e di pace. Anch’egli apparteneva a un’importante famiglia di mercanti-banchieri: la compagnia dei Bardi, insieme a quella dei Peruzzi, aveva filiali in tutta Europa, ed era deputata alla riscossione

delle decime pontificie dell’intera cristianità. Il suo fallimento, avvenuto nel 1345 a causa della mancata restituzione da parte del re d’Inghilterra Edoardo III dei debiti contratti per la Guerra dei Cent’anni, innescò una reazione a catena che danneggiò gravemente l’economia fiorentina nel periodo immediatamente precedente l’epidemia di peste del 1348. Anche la madre di Beatrice, Cilia di Gherardo Caponsacchi, faceva parte di una delle piú antiche e illustri famiglie del ceto dirigente fiorentino. Secondo la tradizione, Beatrice sarebbe stata sepolta nella chiesa di S. Margherita dei Cerchi (luogo presunto del suo secondo incontro con Dante), nella quale i Portinari avevano una cappella, ultima dimora di tutti i membri della famiglia fino alla costruzione di S. Egidio e dove esiste tuttora una lapide moderna non attendibile. Secondo teorie recenti, le sue spoglie sarebbero state tumulate invece in S. Croce, nella cappella dei Bardi, con la famiglia del marito. F

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costume e societĂ la scuola

A suon di

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bacchettate

di Roberto Roveda, con la collaborazione di Francesca Saporiti

Chi si occupava dell’istruzione dei giovani? In quale considerazione erano tenuti i maestri? E che cosa voleva dire essere studenti nel Medioevo? Saggi, cronache e semplici epistole permettono di definire un quadro preciso e articolato. Nel quale non mancano elementi sorprendenti e, in molti casi, straordinariamente attuali...

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Miniatura raffigurante una lezione, da un manoscritto francese del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico. Primo quarto del XV sec. Londra, British Library.

«C

osa c’è di piú sconveniente che rivolgere il tuo ingegno singolarissimo ed eccellente all’ultimo e piú ripugnante mestiere tra quelli che io abbia mai visto?». Cosí nel 1371 chiede indignato il notaio e umanista Paolo de Bernardo (1331 circa-1393) all’amico Giovanni Coversini in una lettera giunta fino a noi. Ma qual è la tanto indegna occupazione di cui si parla? Non si tratta di loschi traffici, né di malaffare, ma del mestiere del maestro. Ebbene sí, è proprio l’insegnamento a causare tanto disprezzo, ossia «l’istruzione di fanciulli lattanti che ogni giorno ti fracassano il capo con le loro grida e i loro schiamazzi. E quando dovresti, se ce ne fosse la possibilità, spendere sudore in una piú alta occupazione, all’ultimo sarai ridotto a battere le loro natiche con la frusta». Un quadro decisamente poco edificante che segna – vogliamo ben sperarlo ! – la distanza con la realtà attuale. Ma qual era la reale situazione della scuola nel Medioevo? Da quali premesse si è formata e come è cambiata nel tempo? La parola alla storia.

Un nuovo sistema educativo

Impegnate a progettare e realizzare grandi opere pubbliche, né la Roma repubblicana, né quella imperiale si preoccuparono di costruire un’efficace rete per la formazione scolastica. L’istruzione elementare non venne, di fatto, supportata e organizzata a livello statale, ma fu lasciata all’iniziativa privata. Solo in epoca tardo-imperiale iniziò a formarsi, in ambito urbano un sistema scolastico pubblico. Un’organizzazione tardiva, dunque, ben presto spazzata via con la caduta di Roma. Caratterizzati da una cultura prettamente orale e da una concezione della formazione che riguardava esclusivamente la preparazione militare, i popoli germanici che si riversarono entro i confini dell’impero e diedero vita ai nuovi Stati romano-barbarici erano piú attratti

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costume e società la scuola

dalla spada che dai libri e non si curarono di predisporre un nuovo apparato scolastico. Una testimonianza, certo di parte, viene dallo storico bizantino Procopio di Cesarea, il quale, attraverso le vicende del VI secolo della regina degli Ostrogoti Amalasunta e del figlio Atalarico, racconta dell’avversione dei «barbari» per la letteratura e di come a corte si disapprovasse il fatto che la sovrana avesse scelto anziani insegnanti di storia e letteratura per il futuro re: irati, sostenevano «che neppur Teodorico avea permesso che alcun goto mandasse i figli alla scuola di lettere (…) colui adunque che abbia un dí a dar prova di coraggio nelle imprese e acquistarsi gloria, dover essere allontanato dal timore de’ precettore ed esercitato invece nelle armi». Ciò che non poté essere annientato dalla furia degli invasori, fu sistematicamente rimosso dal fervore cristiano, deciso a cancellare qualsiasi traccia di paganesimo. Le grandi scuole filosofiche pagane furono prese di mira fin dal V secolo d.C.: in molti casi lo scontro non rimase confinato al piano speculativo e dottrinale, ma sfociò in gravi episodi di violenza, come l’attacco

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Foligno, Palazzo Trinci, Sala delle Arti Liberali e dei Pianeti (detta anche Camera delle Rose). Particolari del ciclo affrescato attribuito a Gentile da Fabriano e ai suoi collaboratori raffiguranti l’Artimetica (in alto) e la Grammatica (a destra), che, seduta in trono con un libro aperto, insegna a un ragazzo. 1411-1412.

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costume e società la scuola Il mestiere dell’insegnante

Paghe scarse e precarietà

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque Allora come oggi, il mestiere dell’insegnante nis maxim eaquis era earuntia precario cones e non apienda.

figurava tra i meglio pagati. Disordini, carestie o guerre potevano drasticamente ridurre gli introiti, decimando il numero degli studenti. In base ai contratti piú diffusi, infatti, in caso di malattia grave o morte di uno scolaro «il pagamento non sarà effettuato se non per il periodo in cui avrà frequentato la scuola». Secondo le fonti dell’epoca, la peste del 1348, per esempio, si trasformò in un pessimo affare per i professionisti dell’educazione, come lamentava a Lucca il maestro Filippo, che rimase con un numero di alunni talmente esiguo da non permettergli neppure di sfamarsi. Stessa sorte, nella medesima città, toccò qualche anno dopo al maestro Corrado per il rinfocolarsi della peste nel 1374. Se la vita degli insegnanti cittadini era difficile, nelle campagne le cose erano ancora piú complicate, sia per la difficoltà di radunare gli studenti dispersi

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tra villaggi e cascine, sia per i tempi imposti dai lavori dei campi. Durante l’inverno le classi erano al completo, ma con l’arrivo della primavera e dell’estate – e delle attività di mietitura, battitura o vendemmia –, gli scolari iniziavano a disertare i banchi di scuola fino a lasciare l’aula quasi deserta e le tasche dell’insegnante quasi vuote. Mandare a scuola un ragazzo aveva per i genitori un doppio costo: non solo, infatti, si doveva sostenere la retta per pagare il maestro, ma il tempo stesso passato sui libri aveva un costo, perché erano ore sottratte al lavoro – nei campi o in bottega – durante le quali lo scolaro consumava senza produrre alcunché di tangibile. Laddove erano previste forme di educazione anche per le ragazze, in generale la frequenza di queste ultime era mediamente molto meno assidua di quella dei coetanei maschi, perché le fanciulle erano spesso trattenute in casa a tessere e filare, d’estate come d’inverno. Per quanto fluttuante, la percentuale di ragazzi con accesso alla scuola andò aumentando nel corso di tutto il Medioevo e dell’età moderna, per poi calare bruscamente con l’avvio della Rivoluzione Industriale, quando si moltiplicarono le opportunità di impiego dei giovani durante l’intero anno. alla scuola neoplatonica di Alessandria, durante il quale fu linciata la filosofa e matematica Ipazia. Un editto dell’imperatore bizantino Giustiniano, nel 529, decretò infine l’abolizione di tutte le scuole pagane dell’impero d’Oriente, condannando alla chiusura anche l’Accademia di Atene con i suoi otto secoli di storia e mettendo a rischio l’eredità dei padri del pensiero filosofico occidentale, primo tra tutti Platone.

Regole per l’istruzione dei fanciulli

La Chiesa nemica della scolarizzazione, dunque? Tutt’altro: l’importante era che l’insegnamento fosse controllato dal clero. Fu proprio l’organizzazione ecclesiastica a farsi carico di ripristinare e mantenere viva una rete di strutture per la formazione primaria e di piú alto livello. Con i Concili di Toledo del 527 e Vaison del 529 si stabilí che presso le sedi vescovili e nelle pievi rurali dovessero essere attivate scuole per istruire i fanciulli. Sempre Giustiniano, su invito di papa Vigilio, emanò nel 554 disposizioni relative ai territori bizantini in Italia – si tratta della Prammatica Sanzione – in cui sono stabiliti anche i criteri per la retribuzione dei maestri di grammatica, di retorica, di medicina e di diritto: «Ordiniamo che le annone, che precedentemente si solevano dare ai grammatici e agli oratori, e anche ai medici e ai giurisperiti, continuino a essere erogate, naturalmente a quelli fra loro che esercitano la loro professione, affinché i giovani eruditi negli studi liberali possano fiorire nel nostro stato». Alla possibilità di studiare, quindi, veniva già allora riconosciuto un alto valore non solo per l’individuo, ma anche per la collettività. Tuttavia, dalla teoria alla pratica è possibile rilevare le difficoltà a mantenere un impianto scolastico statale, che, di fatto, fu invece quasi completamente demandato all’iniziativa ecclesiastica, con la creazione di scuole vescovili, monastiche e ple-

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Nella pagina accanto ritratto del maestro di scuola di Esslingen, miniatura dal Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

bane, dedicate sia all’insegnamento elementare, sia a studi di piú alto livello. L’istruzione è un impegno che la Chiesa assolveva in modo indipendente, ma la cui importanza era riconosciuta anche dal potere temporale. Ai vescovi riuniti in sinodo ad Aquisgrana nel 789, il re dei Franchi e dei Longobardi Carlo Magno – non ancora consacrato imperatore – invitava a porre particolare cura all’organizzazione del servizio scolastico, raccomandando in particolare di far sí che fosse aperto ai ragazzi appartenenti ai diversi ceti sociali. Esortava i pastori della Chiesa affinché riunissero e tenessero presso di sé non solo i bambini di condizione servile, ma anche i figli dei liberi, e organizzassero scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si potessero apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica e trovare i libri canonici accuratamente corretti: «Poiché spesso molti, desiderosi di pregare Dio rettamente, lo pregano male a causa della scorrettezza dei testi. Non permettete che i fanciulli a voi affidati, leggendoli o copiandoli, ne traggano danno. E se è necessario copiare un messale o un salterio, siano incaricati uomini esperti, che si dedichino al lavoro con ogni cura».

La grammatica «umiliata» dalla fede...

Una vera e propria delega dello Stato alla Chiesa, che mette in evidenza, però, quanto l’aspetto della formazione sia avvertito come fondamentale. Una delega che non risparmiava, comunque, critiche e richiami, come quello che Carlo Magno fece qualche anno dopo ai vescovadi e i monasteri che, «per volere di Dio», erano stati affidati alla sua guida. Ribadendo che tra i doveri di questi vi è il «preoccuparsi che sia insegnato, a coloro che per dono di Dio sono in grado di apprendere, e secondo la capacità di ciascuno, l’esercizio delle lettere», l’imperatore si lagnava del fatto che da molti monasteri gli fossero indirizzate a

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costume e società la scuola A sinistra una bottega di tessuti e sartoria, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. Seconda metà del XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella parte bassa della scena si riconoscono due apprendisti. Nella pagina accanto penne e portapenne. XV sec. Parigi, Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge

l’istruzione femminile

Non è una scuola per ragazze Far studiare un ragazzo era un investimento per il suo futuro e per quello di tutta la sua famiglia. Nel caso delle famiglie meno abbienti era un vero e proprio azzardo, perché non si poteva sapere fino in fondo se l’oneroso impegno economico sarebbe stato ripagato.

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Far studiare una ragazza, invece, era un investimento generalmente considerato inutile, se non addirittura pericoloso, come ben sintetizza il mercante fiorentino Paolo de Certaldo: «E s’ell’è fanciulla femina, polla a cuscire e none a leggere, ché non istà troppo bene a una femina saper

leggere, se già no la volessi fare monaca». Erano dunque pochissime le fanciulle non destinate alla vita ecclesiastica che potevano imparare a leggere e a scrivere e, nella maggior parte dei casi, non potevano apprendere piú che i primi rudimenti. E se erano rare le

donne tra i banchi di scuola, ancor di piú lo erano in cattedra. Una delle poche eccezioni è quello della fiorentina Clemenza, doctrix puerorum (insegnante di fanciulli), moglie di Marchese del fu Benci della parrocchia di S. Maria Maggiore, alla settembre

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piú riprese lettere «per comunicarci che coloro che li abitano fanno a gara nell’elevare sante e devote preghiere per noi: ebbene, in piú d’uno di questi scritti noi abbiamo trovato espressioni incolte: e questo perché ciò che una pia devozione rettamente dettava all’animo, il linguaggio, non esercitato, non era in grado di esprimere senza errori, a causa dell’abbandono in cui sono stati lasciati gli studi».

Analfabetismo... di sangue blu

Monaci e prelati, dunque, venivano bacchettati per i loro errori di grammatica, anche se non possiamo certo immaginare Carlo Magno impegnato a correggere gli strafalcioni delle missive a lui indirizzate con il lapis rosso e blu. Nonostante fosse stato il promotore della riforma della scrittura con l’introduzione della minuscola carolina, il sovrano carolingio, infatti, era praticamente analfabeta e firmava i documenti ufficiali vergando una croce personalizzata dal monogramma del proprio nome, una versione leggermente piú evoluta della semplice croce che utilizzava il padre, Pipino il Breve. Nulla di cui stupirsi, poiché all’epoca la lista degli analfabeti illustri era assai lunga: erano totalmente il-

letterati grandi condottieri del calibro di Guglielmo il Conquistatore e Guglielmo II d’Inghilterra detto il Rosso, cosí come ignoravano i rudimenti dell’ortografia tutti i re di Francia dal X secolo in avanti, a partire dal capostipite Ugo Capeto. Dalla Francia al Sacro Romano Impero le cose non differivano di molto: pare che Enrico I di Sassonia fosse completamente analfabeta, mentre il figlio Ottone il Grande non imparò a leggere e scrivere se non nella piena maturità. L’analfabetismo «vip» non era però prerogativa esclusiva del potere laico: era, anzi, un fenomeno diffuso anche tra vescovi e abati che, come nobili e sovrani, si avvalevano dei servigi di mercenarii literati, ingaggiati per leggere e scrivere per loro conto. Immaginando di scivolare silenziosamente tra i banchi in legno di queste semplici e severe scuole, del periodo altomedievale, chi avremmo potuto incontrare e che cosa vi si poteva imparare? Annesse alle canoniche o comprese nei complessi degli edifici ecclesiastici, si trattava di scuole formalmente dedicate a tutti quei fanciulli che genitori e parenti avevano destinato alla carriera ecclesiastica. Vi si forniva una formazione prevalentemente letteraria – con rudimenti di grammatica e retorica – orientata principalmente alla conoscenza e alla corretta interpretazione dei testi sacri.

Gli intellettuali, una specie rara quale, nel 1304, con il consenso del marito e per 40 fiorini piccoli, fu chiesto di istruire un certo Andrea di Casino a leggere e scrivere «cosí da saper leggere convenientemente il Salterio». L’emarginazione delle ragazze dalla scuola non fu una prerogativa

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del periodo medievale, ma si protrasse senza sensibili miglioramenti per tutta l’età moderna: ancora nell’Ottocento, a Napoli, sulle oltre 2000 ragazze che frequentavano le 23 scuole femminili presenti nel capoluogo partenopeo meno di un quinto imparava a leggere.

Non vi erano norme che stabilissero l’età di accesso a un corso di studi predefinito, ma generalmente i ragazzi iniziavano a sedersi ai banchi di scuola intorno ai 7-8 anni. La norma prevedeva poi che, arrivati ai 18 anni, gli studenti potessero scegliere eventualmente di rinunciare alla carriera ecclesiastica. Le figure di intellettuali laici nei primi secoli del Medioevo erano però assai rare, a dimostrazione del fatto che la cultura era sotto la piena egemonia della Chiesa. Un’egemonia che l’imperatore Lotario provò a spezzare, cercando di promuovere una cultura laica, non tanto dal punto di vista dei contenuti, quanto soprattutto da quello delle istituzioni, con la creazione di una scuola di Stato.

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costume e società la scuola Con il capitolare dell’825, venne sancita l’istituzione di nove grandi scuole sul territorio italico: «A Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. A Ivrea il vescovo provvederà egli stesso alle scuole. A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia, Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena. Firenze raccoglierà quelli della Tuscia. A Fermo converranno anche gli studenti delle città del ducato di Spoleto. A Verona si recheranno da Mantova, da Trento. A Vicenza, da Padova, Treviso, Feltre, Ceneda, Asolo. Gli studenti delle rimanenti città si raduneranno a Forlí». Una vera e propria rete distribuita in modo strategico sul territorio cosí che «l’impedimento della distanza e la mancanza di mezzi non siano di scusa per nessuno». Non si trattava qui di istruzione elementare, ma di scuole superiori presso le quali era possibile apprendere le arti liberali – del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) – e le scienze religiose. La maggior parte dei maestri che insegnavano in queste scuole era reclutata fra i membri del clero – la figura dell’insegnante di professione fu una delle rivoluzioni culturali del XII secolo – cosí come il destino di molti tra gli scolari era la carriera ecclesiastica, ma la matrice statale dell’organizzazione rappresenta un primo importante passo verso la scuola pubblica.

Un modello di eccellenza

La decisione di Lotario rafforzò il sistema scolastico della Penisola italiana che divenne in breve un modello di eccellenza in tutta Europa, tanto che nell’XI secolo il poeta e cronista teutonico Wipo, arrivò a scrivere a Enrico III, di cui fu precettore, per sollecitarlo a prendersi cura delle scuole laiche in Germania, adottando l’esempio italico, dove i giovani hanno numerose opportunità di istruzione anche in ambito laico, in particolare negli studi giuridici: «A questa disciplina fin dalla prima fanciullezza crescono gli Italiani, là dove tutta

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Pedagogia

Una didattica... «violenta» La linea pedagogica della scuola occidentale rimase per secoli incentrata sul ricorso alle punizioni corporali per mantenere la disciplina e inculcare le nozioni a suon di bacchettate: fin dall’antica Roma, infatti, il bastone era il principale strumento didattico, come testimoniano alcuni caustici versi di Marziale nei quali il poeta immagina le lamentele dei vicini di casa di un insegnante che non li lascia dormire per il continuo gridare e percuotere con la verga i poveri alunni. Qualche secolo piú tardi le cose non dovevano essere molto cambiate se il re longobardo Cuniperto (688-700 d.C.) fece dono al grammatico di corte Felice di una verga in argento rivestita d’oro come riconoscimento delle Capolettera miniato raffigurante un insegnante che percuote i suoi allievi. 1309-1316. Londra, British Library.

la gioventú è costretta a sudar nelle scuole. Ai Tedeschi soltanto par vergognoso, o vano, insegnare a colui che non sia chiamato alla vita ecclesiastica. Ma tu, dottissimo re, comanda che tutti i giovani nel tuo regno siano istruiti: con loro, accanto a te, regnerà la sapienza». Con la sua missiva, il monaco Wipo sollevava un ulteriore problema che caratterizzava la formazione organizzata e promossa dalla Chiesa. Le scuole ecclesiastiche erano spesso lontane anni luce dalle concrete esigenze della vita reale. Da un lato le scuole vescovili non potevano soddisfare il desiderio di approfondire gli studi e condurli a un livello piú alto, dall’altro non fornivano alcuno strumento utile al nuovo ceto cittadino e mercantile che andava crescendo nel tessuto urbano comunale. Nelle scuole religiose si parlava latino e vi si cantavano inni, quando invece i bisogni concreti erano di saper far bene di conto e raccapezzarsi tra le diverse monete e misure. settembre

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sue doti di maestro. E cosí nel corso del Medioevo l’espressione sub virga magistri degenere – «sottostare alla bacchetta del maestro» – rimase a lungo sinonimo di andare a scuola. Una tale violenza era accettata e, anzi, giustificata anche dalla morale cristiana: già la Regola benedettina prescriveva per fanciulli e adolescenti punizioni con «digiuni prolungati o con gravi battiture, dimodoché si correggano»; mentre il vescovo Raterio di Verona, nel X secolo, invitava i docenti a prendere esempio e imparare «da Dio che è maestro di tutti e che fustiga e castiga coloro che ama». A poco valsero le (poche) voci fuori dal coro, che invocavano un trattamento piú umano per gli studenti. La linea dura continuò a prevalere, tanto che, ancora alla fine del Trecento, il cardinale fiorentino Giovanni Dominici, beatificato dalla Chiesa cattolica, ribadiva la regola d’oro: «L’infanti van battuti con notevole frequenza, siano essi in colpa o meno. O son battuti che l’hanno meritato, o che non l’hanno. Nel primo caso, ringrazino di giustizia. Nel secondo, meritano avendo pazienza. E però sempre e in ogni caso sono loro utili le busse e le battiture». Maria Montessori era decisamente di là da venire! A partire dall’XI secolo, in un quadro di generale fermento sociale ed economico, nelle Fiandre e in Italia, poi gradatamente in tutta Europa, presero piede nuove scuole, gestite da fondazioni private o municipali, dove i figli di artigiani o mercanti potevano acquisire gli strumenti utili a portare avanti con profitto l’impresa paterna. L’istruzione privata poteva assumere forme diverse, ma ruotava intorno alla figura di un insegnante professionista che trasmetteva il suo sapere non piú per «vocazione», ma dietro compenso.

Valutazioni arbitrarie

Nello svolgimento della didattica non esistevano standard definiti, ma solo alcune linee guida costituitesi attraverso la tradizione. Allora come oggi, per accedere all’università, erano previsti tre differenti gradi di istruzione, dalla suddivisione un po’ precaria e dai contenuti quasi magmatici: la scuola di base, la scuola di grammatica e la scuola delle arti liberali. Ciascuna prevedeva differenti livelli, della durata media di un anno, ma l’avanzamento dello studente negli studi era in realtà stabilito dall’insegnante, che ne valutava arbitrariamente i progressi. Non erano rare le elargizioni da parte di genitori ambiziosi con figli un po’ ottusi di vere e proprie bustarelle ai docenti per «oliare» la carriera scolastica della prole. Nel dettaglio, la scuola di base prevedeva due-tre livelli, necessari per apprendere i rudimenti di scrittura e lettura. Il metodo di insegnamento non lasciava alcuno

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spazio all’espressione dell’individuo, ma era completamente basato sull’apprendimento a memoria. Con il costante leggere e ripetere a gran voce le lezioni, le scuole erano i peggiori vicini di casa possibili per il chiasso incessante che producevano. Nella scuola di base gli alunni erano i pueri de tabula, cosí chiamati perché si esercitavano alla lettura con una tavola alfabetica affissa alla parete; i pueri de quaterno iniziavano a tracciare le prime lettere su quaderni realizzati con tavolette in legno ricoperte da un morbido strato di cera. Al terzo e ultimo livello della scuola elementare vi erano gli psalmisti, che imparavano le basi della lingua latina leggendo, ripetendo e trascrivendo salmi e semplici testi sacri. Completato questo primo ciclo, chi ne aveva la possibilità proseguiva con la scuola di grammatica, che prevedeva un percorso di quattro livelli e i cui studenti erano detti lantinantes, perché negli anni successivi avrebbero approfondito e affinato la conoscenza della lingua latina. Sui banchi di questa scuola «secondaria» i ragazzi si esercitavano in grammatica e ortografia e negli anni imparavano non solo a comporre testi di retorica e dialettica, ma anche a utilizzare formulari notarili e trattati giuridici. Soldi e ambizione potevano a questo punto aprire le porte della scuola delle arti liberali: un percorso formativo «preuniversitario», quasi un antenato del nostro liceo, dove venivano formati i funzionari di alto livello e la classe dirigente della società dell’epoca. Sette erano le arti liberali sulle quali si concentrava l’insegnamento: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia.

I primi istituti professionali

Chi non sceglieva la carriera universitaria, per ottenere una maggiore specializzazione, poteva frequentare le scuole d’abaco, veri e propri istituti professionali ante litteram, nei quali l’insegnamento era basato sulla matematica, spiegata con metodi applicativi, tratti dall’esperienza quotidiana. L’alunno, o meglio l’apprendista, imparava attraverso il ricorso ai metodi dell’osservazione e dell’esercitazione su problemi inerenti al mestiere che stava imparando, disponendo in alcuni rari casi anche di manuali scritti redatti in lingua volgare. Sembrava avere poco o nulla da invidiare ai moderni istituti tecnici di ragioneria la scuola appositamente concepita per la formazione della classe mercantile a Bruges, che già nel 1370 prevedeva corsi di contabilità e lingue moderne. L’importanza di una buona istruzione poteva rivelarsi decisiva anche sul campo di battaglia: a partire dal XV secolo, il progresso della tecnologia bellica – con l’introduzione delle armi da fuoco come schioppi, archibugi e cannoni – impose la necessità di soldati ben istruiti, guidati da ufficiali in grado di consultare e comprendere manuali di balistica e capaci di fare calcoli per valutare gittata e potenza di fuoco. L’alfabetismo tra i

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costume e società la scuola Ritratto di Fra’ Luca Pacioli con un allievo, olio su tavola attribuito a Jacopo de’ Barbari. 1495. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Pacioli, un celebre matematico, affiancato da un giovane identificabile con Guidobaldo da Montefeltro, appare intento allo studio degli Elementi di Euclide

militari poteva fare la differenza tra una vittoria e una sconfitta, tanto da far scrivere al capitano Pantero Pantera: «Il bombardiero dovrebbe essere abachista». In piú, per un sapere ancora piú pragmatico, nel corso del XII secolo prese avvio la pratica di apprendistato, vero e proprio contratto antesignano dell’odierno stage, grazie al quale i giovani potevano imparare un mestiere collocandosi come apprendisti presso una bottega, alle dipendenze di un maestro d’arte. Calzolai, fabbri, calderai, panettieri o sarti: in qualsiasi attività artigianale c’era la possibilità di inserirsi per un apprendistato, ma la pratica era regolata da regole rigide e aveva una durata molto lunga, variabile tra i 4 e i 6 anni, durante i quali l’apprendista non poteva abbandonare la casa del proprio maestro, ma doveva impegnarsi a servirlo in tutte le mansioni richieste e ripagare eventuali danni procurati. Abbandonare prima del tempo l’apprendistato poteva richiedere il pagamento di penali salate o costare addirittura la galera.

La dura vita degli apprendisti

Per parte sua l’artigiano si impegnava a insegnare all’apprendista il suo mestiere «in buona fede», a fornirgli vitto, alloggio e un vestito all’anno – ma non per il primo anno! – e, in alcuni casi, ad assegnargli, al termine del periodo di apprendistato, un vero e proprio kit che gli avrebbe consentito di svolgere l’attività in modo autonomo. Sfruttati, sottopagati e spesso maltrattati, per gli apprendisti, la vita era tutt’altro che rosea; nel 1371 due fratelli inglesi furono costretti a ricorrere al tribunale per svincolarsi dal contratto e abbandonare la bottega di un maestro sadico e violento con una dolce metà sua pari: nella denuncia giunta fino a noi leggiamo che le percosse della donna erano costate un occhio a uno dei due malcapitati fratelli. La reazione della Chiesa allo svilupparsi una rete scolastica laica e alternativa a quella ecclesiastica fu duplice: da un lato, infatti, si scelse la linea dell’apertura rendendo accessibili le scuole vescovili anche a coloro che non avevano intenzione di intraprendere la carriera religiosa e agli studenti meno abbienti, cosí come stabilito dal Concilio Lateranense III del 1179 voluto da papa Alessandro III. Gli stessi Ordini Mendicanti furono molto attivi nell’ambito dell’insegnamento, a tutti i livelli. D’altro canto, però, non mancarono occasioni di conflitto, anche violente, con scomuniche comminate anche a intere città in risposta alle lamentele di frati o vescovi contro lezioni tenute da istituzioni laiche. Di fatto la Chiesa riuscí a mantenere il primato dell’istruzione, ma dal XII secolo non poté piú ripristinare un vero e proprio monopolio in questo ambito.

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costume e società la scuola non gettino pietre, non dicano male parole, non giurino, non Lungo tutto il Medioevo e nel corso dei secoli successivi, almeno fino al XIX, coesistevano due principali bestemmino, non evochino il diavolo, non facciano altre cose tipologie di insegnanti: quelli informali – ossia preti, sconvenienti». Di quanto doveva avvenire in aula ci si premonaci, missionari e docenti volontari – e gli insegnan- occupava invece poco. ti formali, ai quali venivano riconosciuti una precisa funzione sociale e un salario, spesso commisurato al Le aule: un’area di contagio prestigio di cui godevano. Inizialmente i docenti erano Le stesse aule scolastiche, purtroppo, erano luoghi nei pagati dagli studenti stessi, mentre nella maggior parte quali si coltivavano non solo giovani menti, ma anche dei casi le autorità locali si limitavano a provvedere ai contagio ed epidemie. Gli alunni stipati in spazi angusti, sporchi, fumosi e mal aerati – gelidi e umidi d’inverno e locali per l’insegnamento e per l’alloggio. Nel corso del XIII secolo però sempre piú si affer- soffocanti in estate – si trovavano troppo spesso a conmarono le scuole comunali – Firenze fu tra le prime vivere con cimici e pidocchi, divenendo facili vittime di città italiane – ampliando cosí ulteriormente le pos- infezioni e malattie varie. Se, infatti, togliendo i ragazzi sibilità di istruzione anche per i ceti meno abbien- dalla strada o dal lavoro nei campi o in bottega si sconti. Secondo il poeta Bonvesin de la Riva (1240 cir- giurava il pericolo di una morte violenta per incidenti o ca-1313/1315), nella Milano del Duecento vi erano piú risse, tra i banchi di scuola dovevano fronteggiare il ridi 120 dottori in diritto civile e canonico, 8 professori schio di contrarre morbi quali vaiolo, eczemi e malattie di grammatica, oltre a maestri elementari, che si pro- della pelle, infezioni oftalmiche. In alcuni casi, sopravvidigavano per insegnare a leggere e a scrivere, mentre i vere era piú impegnativo che progredire negli studi. Nei secoli successivi la scuola copisti – sebbene in città non vi fosse conobbe un’evoluzione dal punto di uno studio generale – superavano la Il progresso non vista organizzativo – che muoveva quarantina. Nell’arco del Trecento la cultura migliorò piú di tanto in direzione di una standardizzazione sempre piú marcata – e degli si diffuse sempre piú a fondo nella il «ripugnante» strumenti didattici: l’invenzione società medievale, raggiungendo mestiere della stampa a caratteri mobili porampi strati di popolazione prima tò, infatti, alla graduale diffusione esclusi. Ai chierici si va ad affiandell’insegnante dei libri di testo, diminuendone il care un numero sempre piú ampio di giuristi e notai, insegnanti, cortigiani letterati e costo. Il progresso dal punto di vista didattico e pedamercanti alfabetizzati secondo un percorso ormai gogico non fu però lineare, né uniforme nelle diverse inarrestabile di apertura e laicizzazione della cultu- regioni europee. Il bastone rimase a lungo il prinra. Nel XIV secolo si è ormai consolidata la situazione cipale mezzo di insegnamento e la preparazione dei scolastica frutto delle evoluzioni precedenti: le scuole maestri subí un generale diffuso declino. Sembra incredibile, ma in occasione di un censipotevano essere comunali o private e si suddividevano in elementari – frequentate da bambini e bambine mento effettuato a Londra nel 1851 oltre 700 insegnanti delle scuole femminili e quasi una quarantia partire dai 6-7 anni di età – e superiori. Generalmente, al termine delle scuole elementari, na tra i docenti di istituti statali firmarono il proprio modulo con una croce. Davvero allora l’insegnamento le femmine erano costrette ad abbandonare la scuola può diventare «l’ultimo e piú ripugnante mestiere», quan(vedi box alle pp. 70-71), mentre i ragazzi trovavano un posto come apprendista o completavano le scuole su- do rappresenta un’occasione mancata per formare i ragazzi e trasmettere il valore della cultura di generaperiori, secondo specializzazioni diverse: le scuole di zione in generazione. F grammatica, logica e retorica erano destinate ai giovani che avrebbero poi proseguito gli studi, mentre le scuole di «abbaco e logaritmo» formavano i ragazzi che volevano Da leggere cimentarsi nella mercatura. Dal quadro fin qui tracciato non è forse chiaro il perU Antonio Ivan Pini, Scuole e università, in La società ché nel Trecento l’insegnamento potesse essere consimedievale, a cura di Silvana Collodo e Giuliano Pinto, derato «l’ultimo e piú ripugnante mestiere». In realtà, al di Monduzzi, Bologna 1999; pp. 481-529 là delle teorie e dei piani di studio, nel Basso Medioevo i U Carlo M. Cipolla, Istruzione e sviluppo, UTET, Torino 1969 maestri erano mal pagati e poco motivati. La didattica si U Pierre Riché, Le scuole e l’insegnamento nell’Occidente riduceva troppo spesso a ripetitivi esercizi mnemonici, cristiano dalla fine del V secolo alla metà dell’XI secolo, mentre l’unica pedagogia conosciuta e applicata semJouvence, Roma 1984. brava essere quella del bastone. Gli stessi «contratti» di U Giuseppe Manacorda, Storia della scuola in Italia, I, Il impiego che i Comuni estendevano ai docenti riguarMedioevo, R. Sandron, Milano-Napoli, 1913 davano questioni di carattere economico e disciplinaU Carla Frova, Istruzione e educazione nel medioevo, re piú che formativo. Compito del maestro era infatti: Loescher, Torino 1974. «Ammonire gli scolari che non giochino né cantino per strada,

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di FlaviodiRusso Aart Heering

1414 -1418, Il concilio di Costanza

Un re, tre papi e 700 meretrici

Papa Giovanni XXIII impartisce la sua benedizione ai partecipanti al Concilio di Costanza, che si tenne nella città tedesca dal 5 novembre 1414 al 22 aprile 1418.

Da trent’anni ormai la Chiesa è lacerata dallo Scisma d’Occidente. Nel 1409, un concilio indetto a Pisa cerca di porvi rimedio e, invece, peggiora la situazione: ora a contendersi il seggio di Pietro sono in tre. Accade cosí che un re, dotato di autorevolezza e senso di diplomazia, convoca nella città di Costanza una nuova assise tra i potenti religiosi e secolari di tutt’Europa: l’incontro si apre nel novembre del 1414, esattamente seicento anni fa...

Salvo diversa indicazione, questa e le altre illustrazioni riprodotte nel Dossier sono tratte dalla ristampa in facsimile del Manoscritto di Costanza, una delle copie della Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich Richental, eseguita nel 1464-65 e oggi consevate Rosengartenmuseum della stessa città tedesca. Gli oggetti e le opere d’arte sono, invece, esposti nella grande mostra «Il Concilio di Costanza. Un evento mondiale del Medioevo, 1414-1418» in corso a Costanza fino al 21 settembre.


Dossier

I

l 5 novembre 1414, l’allora papa Giovanni XXIII inaugurò il Concilio di Costanza: da quel giorno, e per tre anni e mezzo, l’intera Europa guardò a questa piccola città sulla sponda meridionale dell’omonimo lago. Convocata dal sovrano tedesco Sigismondo, l’assise aveva tre compiti difficilissimi.

Doveva porre fine a uno scisma che da decenni stava lacerando la Santa Romana Chiesa (causa unionis), dare una risposta severa ai movimenti eretici (causa fidei) e rinnovare e riformare la Chiesa stessa (causa reformationis). Il Concilio – un evento epocale le cui conseguenze si percepiscono


ancora oggi – trasformò Costanza in un centro mondano, teatro di intrighi internazionali e meta per ogni tipo di cercatori di fortuna. Il XIV secolo era stato durissimo. Guerra, peste, rivolte e declino economico avevano impoverito, spopolato e demoralizzato gran parte del continente europeo. An-

I prelati che parteciparono al Concilio di Costanza nel corso di una delle riunioni dell’assise, che si svolsero nel Mßnster, il Duomo cittadino.


Dossier Le aree di distribuzione delle due obbedienze (in alto), tra il 1378 e il 1409, e delle tre obbedienze (in basso), tra il 1414 e il 1417.

Londra Londra

Praga

Parigi

Praga Costanza

Parigi

Costanza Avignone Avignone

Roma Roma

Lisbona Lisbona

Obbedienza romana sotto il pontificato di Urbano VI eObbedienza successori romana sotto il pontificato di Urbano VI e successori

Obbedienza avignonese sotto il pontificato di Clemente VII eObbedienza successori avignonese sotto il pontificato di Clemente VII e successori

Londra Londra Parigi Parigi

Territori contesi neutrali Territori contesi Territori neutrali

Praga Praga Costanza Costanza

Avignone Avignone

Roma Roma

Lisbona Lisbona

Obbedienza romana sotto il pontificato di Urbano VI e successori Obbedienza romana sotto il pontificato Obbedienza pisana sotto papa Alessandro V di Urbano VI e successori e successori Obbedienza pisana sotto papa Alessandro V e successori

che la Chiesa aveva risentito della crisi: dal 1307 i papi non risiedevano piú a Roma, ma ad Avignone, di fatto sotto la tutela dei re di Francia, e avevano lasciato la diocesi del successore di Pietro in balia di signorotti locali e avventurieri. I decenni avignonesi furono poi stigmatizzati come una sorta di «cattività babilonese», anche se

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Obbedienza avignonese sotto il pontificato di Clemente VII e successori Obbedienza avignonese sotto il pontificato Territori neutrali di Clemente VII e successori Territori neutrali

le strutture della Chiesa rimasero sostanzialmente intatte. Il mantenimento di una sontuosa corte ad Avignone, però, insieme alla difesa, soprattutto militare, dello Stato e dei beni pontifici, comportava costi altissimi. Per affrontarli, i papi diedero prova di notevole inventiva e spregiudicatezza, vendendo indulgenze ai comuni

mortali e uffici e prebende agli aristocratici, i quali, per rientrare delle spese, si rifecero poi sui propri sudditi. L’avarizia della curia, la simonia e il nepotismo suscitarono critiche sempre piú aspre e diffuse da parte di studiosi e predicatori erranti, sfociando in alcuni casi in aperta eresia. Nel 1377, papa Gregorio XI cercò di porre rimedio alla situazione, e si fece convincere da Caterina da Siena (la futura santa) a rientrare a Roma. Prese alloggio in Vaticano, che da allora sostituí il Laterano come sede principale del papato, ma la sua mossa non ebbe molto successo. Gregorio, infatti, dovette fronteggiare varie rivolte a Roma e nello Stato pontificio e morí pochi mesi dopo, quando già stava preparando il suo ritorno ad Avignone.

Eletto e poi deposto

Due settimane piú tardi, il 7 aprile 1378, fu eletto come suo successore l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI. Sotto la pressione del popolo romano, i sedici cardinali del conclave, tra cui nove francesi, avevano approvato la scelta di quest’italiano, che sembrava loro assai malleabile. Urbano, invece, si rivelò ben presto un uomo autocratico e severo, che non esitò a criticare severamente il comportamento dei cardinali, minacciando di privarli di privilegi e salari. Per i porporati, si trattava di una presa di posizione inaccettabile e, appena qualche mese dopo, decisero di invalidare la loro stessa scelta e di deporre Urbano. Elessero quindi il cardinale Roberto di Ginevra, un parente del re francese Carlo V, il quale, con il nome di Clemente VII, tornò ad Avignone. Dal canto suo, Urbano non riconobbe la legittimità della decisione assunta dai cardinali e mantenne la sua posizione, militare piú che spirituale, a settembre

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Roma, dando inizio in questo modo al grande Scisma d’Occidente. Venne a crearsi una situazione paradossale. La Chiesa, detentrice della verità unica e guidata dal solo successore di Pietro, si ritrovava con due papi, ognuno con la sua verità, e ambedue soggetti ai poteri politici. Infatti, il sostegno dato a un pontefice o all’altro rispecchiava esattamente la mappa politica dell’Europa di allora: la Francia si schierò con Clemente e altrettanto fecero i regni iberici e la Scozia, alleata della Francia; la Germania e l’Inghilterra invece, nemici tradizionali della Francia – era in pieno svolgimento la Guerra dei Cent’Anni –, presero le parti di Urbano, cosí come fecero i vari sovrani e signori italiani, pur riservandosi di cambiare casacca in caso di necessità o per garantirsi maggiori profitti. Con la morte di Urbano, nel 1389, e quella di Clemente, nel 1394, nulla cambiò. Due conclavi elessero altrettanti successori e la situazione divenne sempre piú imbarazzante. La linea di rottura tra le due obbedienze divideva anche i grandi ordini monastici e persino singoli conventi, diocesi, parrocchie e famiglie. La crisi ecclesiastica si traduceva poi in una crisi del sentimento religioso generale. Nella loro lotta per la supremazia, i due papi non esitarono a usare la scomunica e l’interdizione come arma contro i loro avversari, suscitando in questo modo seri dubbi tra i credenti, che non erano piú sicuri di quale papa avrebbe garantito loro la salvezza piuttosto che la dannazione eterna.

Pala d’altare che ritrae Benedetto XIII come san Pietro, attorniato da cardinali. Fine del XIV-inizi del XV sec. Cinctorres (Spagna), Municipio.

I dubbi dei clerici

Non meno combattuti erano i clerici e gli studiosi, che dipendevano economicamente dal papa e rischiavano di perdere tutto se avessero optato per quello sbagliato. Infine, poiché due Curie costano piú di una, la spregiudicata ricerca di danaro liquido, con tutti i mali che comportava, si fece ancor piú sfrenata. Lo scisma, quindi, minò seriamente il prestigio del papa e quello della Chiesa in quanto istituzione. Il risultato fu

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A destra veduta della città di Costanza, realizzata per l’opera Civitates orbis terrarum di Franz Hogenberg e Georg Braun. 1572-1616. In basso statua di giovane donna. Seconda metà del XIV sec. Strasburgo, Musée de l’Oeuvre Notre-Dame. Il fatto che la ragazza abbia le braccia scoperte e mostri i seni suggerisce che possa trattarsi di una delle prostitute che esercitavano la professione nei dintorni del duomo e note come Münsterschwalben, le «rondini della cattedrale».

il diffondersi di una diffidenza cosí espressa da un cavaliere inglese dell’epoca: «Oggigiorno il papa è l’anticristo. I vostri vescovi e prelati sono le membra della bestia e i frati sono la sua coda!» Nel 1400 la Chiesa occidentale, divisa, in preda al degrado morale e in alcune zone – in particolare l’Inghilterra e la Boemia – minacciata dall’eresia, si trovava in una situazione deplorevole. Tutti i presupposti per una rottura definitiva sembravano già presenti, eppure la Riforma protestante si realizzò soltanto un secolo piú tardi, proprio grazie al Concilio di Costanza e al movimento conciliare in generale. Quando i due papi – l’aragonese Benedetto XIII e l’italiano Gregorio XII – continuarono a rifiutare qualsiasi compromesso per ricucire lo strappo, tra teologi e cardinali di ambedue le obbedienze si fece sempre piú forte la volontà di una «terza via», quella del Concilio ecumenico. La riunio-

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ne plenaria di cardinali, arcivescovi, vescovi e abati di tutta la cristianità avrebbe dovuto risolvere la questione, come era già successo in altre occasioni, dal Concilio di Nicea del 325 fino a quello di Vienne del 1311.

La moltiplicazione dei papi

Nel marzo del 1409, malgrado l’opposizione dei due pontefici, si incontrarono a Pisa rappresentanti del clero di tutta l’Europa, eccetto la Spagna, intenzionati a porre fine una volta per sempre allo scisma occidentale. Accadde invece l’esatto contrario: di fronte ai rifiuti di Benedetto e Gregorio a partecipare all’incontro e poi a dimettersi, il concilio li depose entrambi, con la motivazione che, ostacolando l’unità della Chiesa universale, erano caduti in eresia, uno dei pochissimi motivi per cui un papa poteva (e può) essere deposto. A quel punto, le cose si complicarono ulteriormente: infatti, mentre i 23 cardinali presenti eleggevano un nuovo papa (che avrebbe scelto il nome di Alessettembre

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sandro V), gli altri due pontefici si guardarono bene dall’arretrare dalle proprie posizioni. Di conseguenza, la Chiesa cattolica si ritrovò addirittura con tre papi in carica!

Una situazione grottesca

La situazione era ormai insostenibile, per non dire ridicola. Si levò allora una voce autorevole, quella di Sigismondo di Lussemburgo (vedi box a p. 89). Dopo il fallimento del «Concilio dei cardinali» toccò a lui, massimo rappresentante del potere temporale, risolvere la delicata questione. Re dell’Ungheria e marchese del Brandeburgo, Sigismondo era stato eletto re della Germania nel 1410 e aspirava al titolo di imperatore. Aveva dunque bisogno del papa, l’unico che avrebbe potuto incoronarlo. Ma a chi si sarebbe dovuto rivolgere? Il titolo imperiale valeva soltanto se consacrato da un’autorità incontestata. Era perciò nell’interesse di Sigismondo tornare a una situazione in cui vi fosse un uomo solo alla testa della Chiesa.

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A destra gruppo ligneo raffigurante un papa e un vescovo in trono, dalla chiesa di S. Ruperto a Wagrain (Austria). 1400-1425. Salisburgo, Museo del Duomo.

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Dossier Al di là dell’interesse personale, sembra che il re fosse mosso anche dal sincero desiderio di ristabilire l’ordine nella Chiesa e, con ciò, nella società. Messa al sicuro la sua posizione in Germania, Sigismondo avviò contatti con il papa «pisano», Giovanni XXIII, succeduto nel 1410 ad Alessandro V, morto dopo neanche un anno di pontificato. Giovanni (al secolo Baldassare Cossa; vedi box a p. 88), divenne in seguito uno dei protagonisti del Concilio di Costanza, pur non essendo (come si vedrà) un modello di santità. Era tuttavia ben disposto nei confronti di un protettore importante e potente come Sigismondo, che avrebbe potuto aiutarlo contro gli altri papi e contro i suoi avversari italiani. Dopo una serie di trattative preliminari, nel novembre del 1413 i due si incontrarono a Lodi, dove decisero che Giovanni avrebbe convocato un nuovo Concilio a Costanza per l’anno successivo.

Perché Costanza?

La cittadina di Costanza – che all’epoca contava 6-8000 abitanti – possedeva varie caratteristiche che la rendevano adatta a ospitare il Concilio: situata all’estremo sud della Germania, appena a nord delle Alpi, era facilmente raggiungibile; era una sede vescovile dotata di una chiesa (il Münster) abbastanza grande per accogliere i partecipanti delle riunioni, con sei abbazie nelle quali essi potevano pernottare e con un grande magazzino, costruito nel 1388 sulla riva del lago (e ora noto come «das Konzil», «il Concilio»), dove nel 1417 si tenne il conclave per l’elezione del nuovo papa. Inoltre, era uno snodo commerciale ben collegato via terra e acqua, facile da rifornire di viveri: pesce di lago e di mare, grano della Svevia, carne della Turgovia e vino del Reno o importato dall’Italia, generalmente piú apprezzato di quello lo-

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Una mitra riccamente decorata con parti in argento, smalti, perle e paste vitree dall’area del lago di Costanza. XV-XVIII sec. Frauenfeld, Historisches Museum Thurgau. È stato ipotizzato che possa trattarsi di un manufatto di produzione italiana, giunto nella zona di Costanza al seguito di Giovanni XXIII.

cale, cosí aspro da essere conosciuto come Dreimännerwein («vino da tre uomini»: i primi due dovevano tener fermo il consumatore, mentre il terzo lo obbligava a trangugiarlo...). Ma la scelta fu soprattutto politica. Costanza era una Reichsstadt, una «città del regno», sottoposta direttamente al sovrano che cosí divenne il vero ospite, e controllore, del Concilio. Giovanni, dal canto suo, avrebbe preferito la città papale di Bologna, ma l’opzione era inaccettabile per Sigismondo: raggiungerla avrebbe significato attraversare il territorio di Venezia con la quale, come re dell’Ungheria, era coinvolto in una dura lotta per il controllo della costa dalmata e il pericolo di un’imboscata era troppo grande. Giovanni, invece, non aveva molta scelta. L’anno

Nel viaggio verso Costanza, Giovanni XXIII incappò in incidenti che interpretò come foschi presagi settembre

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precedente re Ladislao di Napoli aveva dichiarato guerra allo Stato pontificio, occupato Roma, cacciato la Curia e parcheggiato i suoi cavalli in S. Pietro. Bisognoso dell’aiuto di Sigismondo contro la minaccia napoletana, il papa non poteva pretendere piú di tanto e cosí, in autunno, si incamminò verso nord. Lungo la strada, a Merano, si assicurò un alleato importante, il duca Federico IV d’Austria, nominandolo capitano generale delle truppe papali, con un ingaggio di 6000 gulden (fiorini) all’anno. Un buon affare sia per il duca, soprannominato Federico dalle Tasche Vuote, sia per il papa, che a Costanza avrebbe fatto buon uso dei suoi servigi.

Una trappola per volpi

Non sappiamo se Giovanni XXIII fosse consapevole di aver convocato la riunione che avrebbe determinato la propria fine politica. Secondo il cronista Ulrich Richental, che ci ha

lasciato un eccellente resoconto del Concilio (vedi box a p. 90), durante la lunga e difficoltosa traversata delle Alpi il papa era in preda a cattivi presentimenti. Una volta, caduto nella neve dalla sua carrozza papale, avrebbe esclamato: «Jacio hic, in nomine diaboli!» («Giaccio qui per terra, in nome del diavolo!»). E dopo la discesa, guardando per la prima volta la città di Costanza, stretta tra il lago e le montagne, avrebbe borbottato: «Una bella trappola per volpi». Comunque sia, il 5 novembre 1414, con una messa solenne nel Münster, Giovanni XXIII dichiarò aperto il Concilio. Secondo Richental, alla cerimonia assistettero 15 cardinali, 2 patriarchi, 23 arcivescovi e 37 vescovi. Quasi tutti erano rappresentanti dell’obbedienza pisana, cioè quella di Giovanni. Gli altri due papi, Gregorio e Benedetto, sebbene invitati, non si erano presentati. (segue a p. 90)

In basso la carrozza che trasporta Giovanni XXIII nel suo tentativo di fuga da Costanza si rovescia, dalla Cronaca di Ulrich Richental.

Qui sopra la terminazione dello scettro dell’Università di Heidelberg, la virga dorata citata dalle fonti come attributo del rettore dell’ateneo e simbolo di indipendenza. 1387. Heidelberg, Universitätmuseum.

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Dossier Giovanni XXIII, antipapa e condottiero Giovanni XXIII nacque nel 1370 come Baldassare, figlio di Giovanni Cossa, signore di Ischia. Studiò legge a Bologna e fece quindi una rapida carriera ecclesiastica grazie alle sue conoscenze altolocate. Aveva la fama di donnaiolo e opportunista gaudente, piú bravo con le armi che con il breviario. Ciononostante, o forse proprio per quello, nel 1402 papa

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Benedetto IX lo fece cardinale e l’anno successivo lo nominò legato papale a Bologna e nella Romagna. Con grande fermezza, sottomise i signorotti locali e ristabilí l’autorità papale, senza dimenticare i propri interessi. Insieme al Comune di Firenze, fu uno dei finanziatori del Concilio di Pisa del 1409. L’investimento fruttò l’anno successivo, quando, dopo la morte di Alessandro V, i cardinali dell’obbedienza pisana lo elessero papa e lui scelse il nome di suo padre. Forte dei rapporti con i Medici, nominò la loro banca esattrice delle decime nello Stato pontificio, trattenendo una percentuale per se stesso. Grazie alle sue capacità militari, riuscí a cacciare il papa rivale da Roma, ma continuò a subire le minacce dal re di Napoli, Ladislao d’Angiò, contro il quale indisse addirittura una crociata. Questa e altre bolle papali spinsero Jan Hus ad attaccare il papa di Roma, che si vendicò del predicatore boemo facendolo arrestare a Costanza. Nell’estate del 1413, Giovanni fu cacciato da Roma dal re napoletano. Chiese allora aiuto a re Sigismondo, il quale, a sua volta, lo indusse a convocare il Concilio di Costanza. Dopo la sua deposizione, l’ex papa fu rinchiuso a Heidelberg, fino a quando, nel 1419, Martino V lo perdonò e gli consegno la diocesi di Tuscolo. Pochi mesi dopo morí a Firenze. Fu sepolto nel Battistero della città, e i Medici commisionarono a Donatello e Michelozzo il suo monumento funebre. La storiografia ufficiale lo classifica come antipapa.

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Sigismondo, spiritus rector del Concilio di Costanza Sigismondo, quarto e ultimo Re dei Romani del casato di Lussemburgo, è stato il protagonista assoluto del Concilio. Quest’uomo colto e poliglotta – cresciuto parlando il ceco e il tedesco, sapeva esprimersi anche in francese, latino, polacco, italiano e ungherese –, di statura alta e con una folta barba rossa (ma già tendente al bianco ai tempi del Concilio), fu il vero artefice dell’assemblea. Figlio dell’imperatore Carlo IV, nacque nel 1368 e, ancora bambino, ricevette in feudo la marca di Brandenburgo. Grazie a un primo matrimonio con la figlia di re Lodovico I di Polonia e Ungheria, nel 1387 fu incoronato re dell’Ungheria. Nel 1410 i grandi elettori tedeschi lo elessero re (in verità solo tre su sette, perché gli altri preferirono suo cugino Giobbe di Moravia, il quale però morí l’anno successivo). Infine, era l’uomo forte della Boemia, di cui ereditò la corona nel 1419, dopo la morte del fratellastro Venceslao. Nella vita politica, Sigismondo si dimostrò intelligente, infaticabile e scaltro, ma non sempre affidabile, come dimostra, per esempio, la vicenda di Jan Hus. Corse, inoltre, molti pericoli: nel 1396 fuggí a malapena dal campo di battaglia di Nicopoli (oggi in Bulgaria), dopo un tentativo, fallito, di cacciare i Turchi dai Balcani. Per ben tre volte scampò a un tentativo di avvelenamento, l’ultimo nel 1415, sulla strada per Perpignan, probabilmente su commissione di Federico d’Austria, contro il quale il re aveva pronunciato il Reichsacht (la scomunica reale) dopo la fuga del papa.

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Il secondo matrimonio, con la ricchissima contessa Barbara di Cilli (1405), gli diede la possibilità materiale di lavorare al suo grande disegno: la riunificazione della Chiesa cattolica, seguita dall’unione con gli ortodossi e da una nuova crociata contro i Turchi. Con il Concilio, solo la prima parte gli riuscí. In seguito, fu trattenuto in Boemia per oltre dieci anni dalle guerre ussite (1419-36). Soltanto nel 1433 ricevette la tanto agognata corona imperiale dalle mani di papa Eugenio IV in S. Pietro. Quattro anni dopo morí. Sulle due pagine una seduta del Concilio di Costanza, alla presenza del re Sigismondo (in questa pagina) e di Giovanni XXIII, dalla Cronaca di Ulrich Richental.

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Dossier ulrich richental

Un cronista attento e affidabile Chiunque si occupi del Concilio di Costanza non può fare a meno della Cronaca redatta dall’agiato commerciante Ulrich Richental (1360-1437). Si tratta di un resoconto minuzioso delle delibere del Concilio e della vita quotidiana della sua città, illustrato da splendidi acquerelli. Richental fu un vero giornalista nel senso moderno della parola. Osservava, ascoltava, intervistava i partecipanti, si serviva di una rete di informatori (anche pagandoli) e annotava ogni cosa. Da cronista scrupoloso, raccoglieva le sue informazioni «di casa in casa», cercando sempre di avere notizie di prima mano. E quando non riusciva ad avere informazioni dirette, rendeva partecipe il lettore dei suoi dubbi. Cosí menziona la presenza di una delegazione tartara in città, ma aggiunge subito: «Non so se è vero perché non li ho visti di persona». Richental fornisce spesso statistiche precise, per esempio quella degli stranieri presenti in città: 23 cardinali, 27 arcivescovi, 106 vescovi, 103 abati, 344 dottori e magistri, 28 re e sovrani, 78 conti, 676 cavalieri, 350 mercanti, 220 calzolai, 75 osti, 72 cambiavalute fiorentini, 516 musici, ecc. In un certo senso, Richental era anche una sorta di giornalista embedded. Non partecipava in prima persona al Concilio, ma era in stretto contatto con i protagonisti, come risulta dalla sua descrizione di una cena in onore di re Sigismondo, tenuta proprio in casa sua. Richental eseguiva anche lavori in margine al Concilio. Fu lui, insieme a un aiutante, a censire le «donne pubbliche» nella città, su incarico del duca Rodolfo di Sassonia, responsabile del buon costume durante il Concilio. Richental elaborò i suoi appunti tra il 1420-30, probabilmente come omaggio alla sua città. Il manoscritto originale non è sopravvissuto, ma ne esistono In alto i cardinali escono dal conclave dopo aver eletto papa, l’11 novembre 1417, Oddone Colonna (Martino V), dalla Cronaca di Ulrich Richental.

Anche la maggior parte delle delegazioni internazionali non era ancora arrivata e, soprattutto, non si era ancora visto Sigismondo, il vero iniziatore del Concilio. Il re che dopo la sua elezione nel 1410 non aveva mai trovato tempo per la sua incoronazione ufficiale, aveva preferito recarsi prima ad Aquisgrana dove l’8 novembre, nel Duomo, lui e la moglie Barbara avevano ricevuto

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a tutt’oggi 16 copie, leggermente diverse fra di loro. Le versioni piú antiche sono del 1460-70. Le illustrazioni riprodotte in questo Dossier sono tratte dal cosiddetto Manoscritto di Costanza, del 1464-65, che ora si trova nel Rosengartenmuseum della città e del quale è stata recentemente pubblicata l’edizione in facsimile.

le corone di Re e Regina della Germania. Soltanto dopo la cerimonia la coppia partí per Costanza. Arrivò alla vigilia di Natale, con un seguito imponente e una guardia composta da soldati ungheresi. Entrato in chiesa, il re in persona intonò il Vangelo di Natale, facendo cosí intendere che da quel momento avrebbe condotto lui le danze. Nel frattempo, il Münster era stato trasformato in aula conciliare. Nella navata centrale erano state costruite tribune per i prelati e le varie delegazioni laiche (che per mesi discussero sulla disposi-

zione dei posti): il papa troneggiava sull’altare, il re davanti a lui e i relatori parlavano dal pulpito. Dopo la prima seduta, il 16 novembre, apparve chiaro che, nelle intenzioni di Giovanni, il Concilio doveva essere poco piú di una formalità, una conferma delle decisioni prese a Pisa, quindi una condanna dei suoi rivali.

D’Ailly contro gli Italiani

Contando sulla loro superiorità numerica, già il 7 dicembre, alcuni cardinali italiani avanzarono una proposta in tal senso, esortando i sovrani laici a procedere militarsettembre

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mente contro gli altri pretendenti. La mozione, tuttavia, provocò la violenta reazione del cardinale di Cambrai, Pierre d’Ailly, secondo il quale non si poteva pensare di chiudere lo scisma senza almeno aver ascoltato i rappresentanti delle altre obbedienze. Nell’impasse che seguí al suo intervento, si decise di affrontare dapprima argomenti meno scottanti, come la necessità di combattere l’eresia e quella, assai meno sentita, di trovare un’intesa con la Chiesa dell’Est. Con l’arrivo del re e di molte altre delegazioni da tutta l’Europa e oltre – le cronache parlano di religiosi, nobili e diplomatici venuti da Riga, Londra, Portogallo e addirittura da Costantinopoli e dall’Etiopia – la natura del Concilio cambiò rapidamente. Non era piú un’assemblea di soli prelati, ma un congresso europeo nel quale i rappresentanti di re e principi avevano la stessa influenza di vescovi e dottori della Chiesa. Si trattò, di fatto, del drammatico tentativo congiunto di salvare la Chiesa medievale, ma fu anche l’inizio della fine per Giovanni.

tento di vanificare la prevalenza dei prelati italiani. Cosí i partecipanti si divisero tra quattro naciones: gallica, anglica, italica e germanica, con quest’ultima che comprendeva anche la Scandinavia, l’Ungheria e la Polonia. Solo nel 1416, dopo che il John Wycliffe in un’incisione settecentesca. Già prima di Jan Hus, condannato a Costanza, il riformatore religioso inglese aveva criticato duramente la Chiesa di Roma.

Le nazioni al voto

Entrato a Costanza come vincitore designato, a capo di una delegazione maggioritaria, da lui stesso rafforzata con varie nomine ad hoc, in poche settimane Giovanni vide svanire la sua posizione di forza. Prima con l’arrivo di cardinali e delegati dei suoi concorrenti, accolti con benevolenza dal re; e poi con la decisione, presa all’inizio di febbraio del 1415, di non concedere il diritto di voto a ogni singolo delegato, ma di votare per nazione, con il chiaro in-

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re aragonese aveva preso le distanze dal suo protetto Benedetto XIII, si aggiunse anche la nazione iberica. L’effetto di questa scelta non si fece attendere e già il 15 febbraio il Concilio decise, con il sostegno di tutte le nazioni – e inizialmente con il voto contrario della delegazione italiana – che, vista l’impossibilità di arrivare a un compromesso, la migliore soluzione era la rinuncia

collettiva dei tre papi. Solo Gregorio XII, la cui obbedienza era ormai limitata alla zona intorno a Rimini, si dimostrò disposto a seguire tale risoluzione. Non raggiunse Costanza, ma, dopo una breve trattativa, acconsentí e il 4 luglio il suo procuratore, Carlo Malatesta, lesse davanti al Concilio la rinuncia del papa di Rimini. Fu un bel gesto che ha salvato il nome di Gregorio per la posterità: è infatti l’unico dei tre contendenti che figuri ancora sulla lista ufficiale vaticana dei pontefici romani, dalla quale gli altri due sono espunti, in quanto antipapi. Benedetto XIII invece, partito da Avignone – dove non poteva piú contare sull’appoggio del re francese, favorevole al Concilio – e arroccatosi nel castello di Peñíscola nel regno di Valencia, non rispose nemmeno. Giovanni XXIII, infine, fece inizialmente credere d’essere d’accordo, ma stava, in realtà, cercando una soluzione disperata. Nella notte del 20 marzo, il papa fuggí da Costanza, travestito da garzone. Indossando un umile mantello grigio, prima su un piccolo cavallo e poi in barca, raggiunse la città di Sciaffusa. Proseguí poi per Friburgo, nel tentativo di attraversare il Reno per arrivare in Borgogna, dove poteva contare sul sostegno del duca Giovanni senza Paura. La sortita di Giovanni fu possibile grazie alla complicità del suo capitano generale, Federico d’Austria, il quale, come signore delle terre intorno a Costanza, poteva garantirgli una libera via di fuga. In piú, per distrarre l’attenzione dai preparativi per la partenza, Federico, pochi giorni prima, aveva organizzato un grande torneo cavalleresco in città. Giovanni sperava che con l’u-

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Dossier Jan Hus

La vittima eccellente del Concilio Il teologo boemo Jan Hus, ora considerato uno dei primi riformatori della Chiesa, nacque nel 1370 a Husinec, un villaggio alla frontiera con la Baviera. Di origine modesta, a 23 anni era già dottore in lettere e sei anni dopo divenne rettore dell’Università di Praga. Hus è noto come l’inventore dell’alfabeto ceco e come difensore della causa del proprio popolo contro i Tedeschi. Protestò contro la germanizzazione della Boemia, tradusse la Bibbia in ceco e fece del ceco la lingua principale dell’Università praghese,

provocando la partenza della maggior parte dei professori e studenti di lingua tedesca. Nel 1398, Hus prese i voti e nel 1402 cominciò a predicare. Con il suo carisma, affascinò i cittadini di tutti i ceti sociali, anche perché scelse di parlare in ceco. Lui e Girolamo di Praga, mandato anch’egli al rogo a Costanza, furono tra i principali conoscitori in Europa delle opere di John Wycliffe (vedi a p. 95), da loro introdotte e divulgate in Boemia. Per contrastare l’«eresia» di Hus e la sua popolarità tra la gente

comune, l’arcivescovo di Praga lo scomunicò nel 1409. Nel 1412 seguí il Grande Anatema, pronunciato da papa Giovanni XXIII. Ai cittadini di Praga e dintorni fu proibito comunicare con Hus, dargli da mangiare e ospitarlo. Re Venceslao si rifiutò tuttavia di arrestarlo, temendo una rivolta popolare. Tre anni dopo, il fratellastro Sigismondo, malgrado il salvacondotto concessogli, si dimostrò assai meno benevolente nei confronti di Hus. Nella Repubblica Ceca, Jan Hus è oggi considerato un eroe nazionale.

Jan Hus viene invitato ad abiurare le proprie tesi, dalla Cronaca di Ulrich Richental.

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Condannato a morte, Jan Hus viene condotto al rogo, dopo averlo obbligato a indossare un copricapo con le figure di tre diavoli, dalla Cronaca di Ulrich Richental.

scita di scena di colui che lo aveva indetto il Concilio si sarebbe concluso, e si sarebbe tornati allo status quo ante. Ma non aveva tenuto conto della reazione di Sigismondo, che fu rapida ed efficace. Per evitare l’esodo dei congressisti e del loro seguito, il sovrano fece chiudere le porte della città e bloccare i conti dei banchieri. Ciononostante, alcuni seguaci di Giovanni, tra cui il suo segretario particolare, l’umanista fiorentino Poggio Bracciolini, riuscirono a raggiungere il fuggiasco nella vicina Sciaffusa. Inoltre, Sigismondo promulgò la Reichsacht, la scomunica reale, ai danni di Federico d’Austria, un atto per effetto del quale chiunque si sarebbe potuto appropriare delle sue terre per poi restituirle alla Corona. Secondo Richental, ben 350 sovrani e città tedeschi offrirono il loro aiuto per la nobile impresa. Lo fecero anche i cittadini della giovane

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Confederazione svizzera che colsero l’occasione per occupare la fertile regione dell’Argovia, dove si trovava (e si trova tuttora) l’Habsburg, il castello di famiglia di Federico.

Il duca chiede perdono

In seguito gli Elvetici si guardarono bene dal restituire il bottino alla Corona tedesca e da allora il luogo d’origine degli Asburgo rimase alla Svizzera. Tuttavia, il giovane duca, consapevole dell’azzardo compiuto, cercò di riparare, chiedendo perdono al re e offrendogli in cambio il papa latitante. Sigismondo si dimostrò comprensivo – ma il perdono formale giunse solo nel 1418 – e agli inizi di maggio Giovanni fu arrestato a Friburgo e poi rinchiuso a Radolfzell, vicino a Costanza. Nel frattempo, il 6 aprile del 1415, il Concilio, ora presieduto dal cardinale vescovo di Ostia, aveva approvato il decreto Haec Sancta, con il

quale il pontefice assente veniva di fatto esautorato. In questo importantissimo documento, in seguito oggetto di dibattiti teologici estenuanti, il Concilio si autoproclamò assemblea plenipotenziaria di Cristo, alle cui decisioni tutti erano tenuti a obbedire, incluso il papa. Si erano cosí create le premesse per deporre Giovanni XXIII, che fu sottoposto a processo, accusato di aver favorito lo scisma con la sua fuga ed essersi dunque reso colpevole di eresia. Fu istituita una commissione d’inchiesta, presieduta dal cardinale francese Guillaume Filastre, che addebitò a Giovanni una serie impressionante di crimini: già da giovane, avrebbe avuto una condotta discutibile; la sua carriera ecclesiastica sarebbe stata frutto della simonia; avrebbe avvelenato il suo predecessore Alessandro V; si sarebbe macchiato del peccato di sodomia e avrebbe praticato atti osceni con sua cognata e non meno di trecento monache; avrebbe negato la resurrezione di Cristo e la vita eterna; sperperato i beni della Chiesa e ridotto il clero alla povertà. Vere o false che fossero, simili accuse erano piú che sufficienti perché il 29 maggio il Concilio, all’unanimità, dichiarasse deposto il papa. Ritornato Baldassare Cossa, Giovanni XXIII fu incarcerato, i suoi assistenti congedati e il suo anello papale distrutto. Ottenne poi il perdono da Martino V, il suo successore, nel 1419, ma morí nello stesso anno. Per secoli il suo nome fu dimenticato, fino a quando, nel 1958, un altro papa osò ripristinarlo, scegliendo di chiamarsi Giovanni XXIII, poiché gli antipapi non sono inclusi nella cronotassi vaticana. Risolto l’«affaire Giovanni», il Concilio poteva dedicarsi alla lotta all’eresia. E lo fece, con grande determinazione.

L’eretico al rogo!

Sul pavimento della navata centrale del Münster di Costanza, davanti al portone, c’è una macchia nera: lí stava il predicatore boemo Jan Hus, la mattina del 6 luglio del 1415,

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

quando, davanti a una platea foltissima, fu condannato al rogo per eresia (vedi box a p. 92; e «Medioevo» n. 165, ottobre 2010, anche on line su medioevo.it). Poco prima, il vescovo di Lodi aveva aperto la sessione con una predica dal titolo ominoso di Destruatur Corpus Peccati (Che sia distrutto il corpo del peccato). Dopo la lettura della condanna sette vescovi portarono a Hus le sue vesti sacerdotali, per vestirlo e poi togliergliele, fino a lasciargli soltanto una sottana nera. A ogni fase della svestizione, i vescovi lo maledissero solennemente. Gli furono poi tagliati i capelli intorno alla tonsura e messo in testa un cappello di carta con un disegno raffiguran-

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te tre diavoli e la scritta Heresiarcha, ossia «arci-eretico». Degradato cosí allo stato laico, fu portato fuori dalla chiesa dove il re lo consegnò al conte palatino Ludovico, il giudice del Concilio. A sua volta, questi lo passò al giudice di Costanza, che lo fece scortare verso il rogo.

Una folla oceanica

La notizia della sua condanna si era sparsa velocemente e intorno al luogo del supplizio si era raccolta una folla cosí grande che le guardie dovettero fermare i passanti per impedire il crollo del ponte sul fossato cittadino. Dopo un ultimo tentativo, fallito, di ottenere il pentimento, il boia appiccò il fuoco al fieno am-

massato intorno al condannato, che intonò l’inno Cristo abbi pietà di me. Quando il rogo si spense, il boia e i suoi aiutanti sbriciolarono le ossa di Hus e bruciarono i resti dei suoi vestiti, gettando poi tutto nel Reno per non lasciare possibili reliquie. L’esecuzione di Jan Hus fu la conclusione (provvisoria) di una lunga disputa, iniziata mezzo secolo prima in Inghilterra. Lí, John Wycliffe (1330 circa-1384), teologo di Oxford, aveva formulato tesi pericolosamente critiche nei confronti della Chiesa e, soprattutto, del clero. Per Wycliffe l’unica misura era la Bibbia e i soli esempi l’umiltà e la povertà di Cristo. La Chiesa ufficiale si era allontanata da questi ideali e settembre

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il singolo non poteva e non doveva obbedire a prelati che vivevano in aperto contrasto con quei precetti. Wycliffe, inoltre, mise in discussione pratiche che non trovavano riscontro nelle Sacre Scritture, come le indulgenze, il culto dei santi e il celibato dei preti. Inoltre, respinse la dottrina cattolica della transustanziazione, secondo la quale il sacerdote «forza» lo Spirito Santo a entrare nel vino e nel pane e dove il vino è destinato ai soli sacerdoti, allontanandoli dai credenti comuni. Secondo Wycliffe, ogni fedele doveva avere la possibilità di avvicinarsi direttamente al messaggio di Dio e

a tal fine trascorse molti anni a tradurre la Bibbia in inglese. Le idee di Wycliffe, che non visse abbastanza a lungo per assistere alla persecuzione dei suoi seguaci, trovarono terreno fertile in varie parti dell’Europa. Soprattutto in Boemia, dove predicatori popolari, come Jan Milic, non esitarono a bollare il papa come anticristo e la Curia romana come sinagoga di Satana.

Sulle orme di Wycliffe

La protesta religiosa si fuse con il movimento della resistenza popolare ceca contro la crescente influenza dei Tedeschi, che dal 1200 erano

immigrati in massa in Boemia. Il principale divulgatore delle idee di Wycliffe fu proprio Jan Hus, il quale, grazie alle sue doti retoriche e in virtú del suo ruolo di rettore dell’Università di Praga, ebbe presto un largo seguito tra la popolazione. Con le sue prediche per una radicale riforma e contro il potere temporale della Chiesa, la vendita di indulgenze e di mansioni ecclesiastiche, Hus si fece anche molti nemici. Nel 1412 venne scomunicato, ma, protetto dai suoi seguaci, non smise di predicare. Fu Sigismondo a invitare Hus a Costanza, rilasciandogli un salvacondotto, per motivi innanzitutto

Nella pagina accanto Jan Hus muore sul rogo, dalla Cronaca di Ulrich Richental. Sul copricapo si legge la scritta Heresiarcha, «arci-eretico». In questa pagina dopo la morte, i resti di Jan Hus vengono sbriciolati per poi essere portati al Reno e dispersi nelle acque del fiume, dalla Cronaca di Ulrich Richental.

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Dossier quarant’anni tumultuosi 1378 Inizio dello scisma d’Occidente. Dopo l’elezione di papa Urbano VI (9 agosto), il 20 settembre una parte dei cardinali elegge papa Clemente VII. 1409 Il Concilio di Pisa non riesce a porre fine allo scisma. Ora i papi sono tre: Gregorio XII (Roma), Benedetto XIII (Avignone) e Alessandro V (Pisa), al quale succede, nel 1410, Giovanni XXIII. 1413 A Lodi, Giovanni XXIII e re Sigismondo decidono di convocare il Concilio di Costanza. 5 novembre 1414 Papa Giovanni apre il Concilio. Il 24 dicembre arriva Sigismondo. Gli altri due papi non si presentano. Febbraio 1415 Il Concilio decide di non votare pro capite, ma per nazione. Sei sono le nazioni presenti. 20 marzo 1415 Giovanni XXIII fugge con l’aiuto del duca Federico IV d’Austria. A sinistra terminale del pastorale di Benedetto XIII. Manufatto prodotto ad Avignone nel 1342-1352, e rilavorato per il pontefice nel 1392. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

Una delle pagine meno gloriose del Concilio di Costanza fu senza dubbio la condanna al rogo di Jan Hus

Pietà, piccolo gruppo scultoreo in pietra calcarea, da Praga. 1395 circa. Olomuc (Repubblica Ceca), Museo dell’Arcidiocesi.

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Nella pagina accanto, in basso icona con l’immagine del Cristo Pantocratore. XV sec. Valencia, Tesoro della Cattedrale.

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6 aprile 1415 Il decreto Haec Sancta stablisce la superiorità del Concilio sull’autorità del papa. 4 maggio 1415 Il riformatore inglese John Wycliffe viene dichiarato eretico. 29 maggio 1415 Deposizione di Giovanni XXIII. 4 luglio 1415 Gregorio XII, assente, dà mandato di annunciare la sua rinuncia al soglio papale. 6 luglio 1415 Condanna ed esecuzione di Jan Hus. 30 maggio 1416 Anche Girolamo da Praga, allievo di Hus, viene condannato al rogo. 26 luglio 1417 Il Concilio depone Benedetto XIII. 9 ottobre 1417 L’editto Frequens obbliga il papa a convocare regolamente il Concilio. 11 novembre 1417 Il conclave elegge Oddone Colonna, che prende il nome di Martino V. 22 aprile 1418 Papa Martino dichiara chiuso il Concilio. A destra presunta reliquia del mantello di Jan Hus. XV sec. (?). Colmar, Musée Unterlinden.

politici. Come erede al trono boemo era preoccupato della ribellione che stava covando nei suoi futuri territori, mentre i principi germanici erano infastiditi dal carattere antitedesco della protesta. Il re sperava che nel caso del Concilio si sarebbe potuti giungere a un compromesso, mentre Hus credeva di poter esporre e difendere le sue idee davanti a una platea di teologi. Invece, poche settimane dopo il suo arrivo nella città, fu arrestato e incarcerato nel locale convento domenicano. Nei mesi successivi venne portato tre volte davanti al Concilio, non per sostenere una dotta discussione come aveva sperato, ma per sentirsi chiedere il disconoscimento di tutti i suoi scritti. Un assaggio della sorte che lo attendeva fu dato il 4 maggio 1415, quando il Concilio ordinò di bruciare tutti i libri di Wycliffe e di esumarne il suo cadavere per condurlo al rogo ex post. Dal canto suo, anche Hus si dimostrò inflessibile, preferendo il martirio alla rinuncia. Continuava a criticare i religiosi peccatori, a negare la posizione speciale dei sacerdoti e la leadership del papa e a porre la legge di Dio davanti a quella

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temporale. Per il tribunale del Concilio, presieduto ancora una volta da D’Ailly, era la prova che Hus era un eretico incorreggibile. Il re, malgrado il salvacondotto, non si adoperò in alcun modo per salvarlo: anche per lui era meglio che questo agitatore incontrollabile non tornasse in Boemia.

Urla terrificanti

Questo «tradimento» fu una delle cause scatenanti delle guerre ussite, scoppiate dopo l’arrivo di Sigismondo sul trono boemo nel 1419. E non era finita: un anno piú tardi, la stessa triste sorte di Hus toccò al suo studente Girolamo da Praga, che in un primo tempo aveva ritrattato, salvo poi negare la ritrattazione. «Essendo un uomo grosso e forte, egli visse piú a lungo di Hus ed emanò urla terrificanti», scrive Richental. Sul luogo del martirio di Hus e Girolamo, dove nel frattempo è sorto un quartiere moderno a pochi metri dalla frontiera svizzera, ora si trova un masso enorme con un’iscrizione che porta i loro nomi, la Hussenstein (Pietra di Hus): è un blocco di origine morenica trovato nel 1862 durante la costruzione della

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Dossier Costanza

Cinque anni di celebrazioni

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Costanza (Konstanz in tedesco) è oggi una tranquilla e piacevole città universitaria di 80 000 abitanti (11 000 dei quali sono studenti), bagnata dalle acque del Bodensee (Lago di Costanza) e del fiume Reno. Non essendo stata bombardata nella seconda guerra mondiale – situata a sud del lago fu confusa dagli aviatori alleati con una città della neutrale Svizzera, un’impressione rafforzata dalla scelta degli abitanti che volutamente non oscuravano le finestre – ha conservato il suo carattere medievale e molti dei luoghi del Concilio sono rimasti intatti. Come il Münster, la cattedrale romanica iniziata nell’XI secolo e ampliata nel XIV, nella quale si svolsero le sedute. Il Konzil, il magazzino che nel 1417 ospitò il conclave, è ora un ristorante e una sala espositiva. Il convento domenicano sull’isola nel Reno nel centro della città, dove fu incarcerato Jan Hus, è ora un albergo. Si conserva il chiostro del XIII secolo, impreziosito da affreschi neogotici con immagini romanticheggianti della storia della città, mentre la chiesa è stata trasformata in una sala per banchetti. Nel centro, sulla Hussenstrasse, si trovano ancora le case in cui alloggiarono Hus e Girolamo prima dell’arresto. La prima è diventata un museo dedicato al riformatore boemo. Costanza celebra il sesto centenario del Concilio, con un ricco calendario di manifestazioni, programmate dal 2014 al 2018. Per ogni anno è stato scelto un tema centrale. L’anno in corso è dedicato agli Incontri Europei, nel segno di re Sigismondo. Il 2015 sarà l’Anno della Giustizia, incentrato sulla figura di Jan Hus. Il Medio Evo dal Vivo, nel 2016, avrà per oggetto la vita quotidiana, di cui sarà testimonial la cortigiana Imperia. Segue l’Anno delle Religioni, il 2017, dedicato a papa Martino V, ma anche al quinto centenario della Riforma protestante. Il 2018 sarà l’Anno della Cultura, simboleggiata dal menestrello e cavaliere di Bressanone, Oswald von Wolkenstein. Il programma, regolarmente aggiornato, si trova (anche in italiano) sul sito www.konstanzer-konzil.de ferrovia che porta verso la Svizzera. In quell’anno un gruppo di privati cittadini la scelse come monumento per le due vittime, poiché il consiglio comunale dell’allora cattolicissima città vietava ogni rappresentazione figurata. Solo in questi ultimi tempi si sta valutando l’opportunità di erigere una vera statua in onore dello sfortunato riformatore. Dopo la deposizione di Giovanni XXIII, la rinuncia di Gregorio XII e la risoluzione della questione Hus, rimaneva aperto il problema di Benedetto XIII, al secolo Pedro de Luna.

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L’anziano pontefice (morí nel 1423 all’età di 95 anni) non riconosceva il Concilio e godeva ancora del sostegno dei reali spagnoli. Per risolvere la questione, alla metà di luglio del 1415, re Sigismondo affrontò un viaggio alla volta delle corti europee che durò un anno e mezzo.

Questioni secondarie...

Durante la sua assenza, e, di conseguenza, di molte altre personalità importanti, il Concilio non si fermò. Sigismondo aveva dato ordine di non occuparsi delle questioni

piú delicate fino al suo ritorno, ma c’erano molti altri argomenti sul tappeto. Gli Svedesi chiesero, e ottennero, la santificazione della loro religiosa Brigida. Il gran maestro dell’Ordine Teutonico ebbe una disputa con i rappresentanti del re di Polonia e Lituania: a giudizio dei secondi la Lituania era completamente cristianizzata, un’affermazione che i cavalieri tedeschi contestavano, per non vedersi negata la possibilità di ulteriori conquiste nell’Est. Un tiepido tentativo di avvicinamento alla Chiesa orientale non settembre

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konzil

ebbe esito, per la morte improvvisa del principale rappresentante greco a Costanza, lo studioso e diplomatico Manuele Crisolora (1350 circa-1415), che negli anni precedenti aveva reintrodotto la lingua e la letteratura greche in Italia. Una lunga discussione si sviluppò poi sul magister Jean Petit, che, in un famoso trattato, aveva difeso l’uccisione, nel 1407, del duca Lodovico di Orléans da parte di Giovanni senza Paura di Borgogna, come un atto legittimo di tirannicidio. La tesi di Petit fu ferocemente, e con

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MÜnster

successo, attaccata da un altro francese, il teologo e poeta Jean de Gerson, il quale, dopo il Concilio, non poté perciò tornare alla sua Parigi, nel frattempo occupata dallo stesso Giovanni senza Paura.

...e delitti eccellenti

Inoltre il Concilio rischiò di diventare il teatro di un delitto eccellente, quando nel 1417, in un viottolo del centro, il duca bavarese Lodovico VII fu pugnalato da suo cugino Enrico XIII. Quest’ultimo, colpevole di aver rotto la Konzilsfrieden (la pace

Veduta di Costanza, sull’omonimo lago. Sono indicati il duomo (Münster) e il deposito (Konzil) adibito a conclave in occasione del Concilio e attualmente sede della mostra dedicata all’evento.

conciliare) fuggí, ma venne perdonato dal re in cambio di un lauto risarcimento in favore della vittima e dell’impegno a intraprendere un pellegrinaggio in Terra Santa. Alla fine dello stesso anno, sul ponte che portava al convento dominicano, il preposto di Lucerna venne ucciso in pieno giorno da un suo concitta-

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Dossier dino. L’assassino fu catturato dagli astanti e giustiziato. Nel complesso, nei tre anni e mezzo del Concilio, a Costanza furono eseguite 22 esecuzioni capitali «per furto, omicidio e altre cose», come scrive Richental, che non considera il numero particolarmente alto, data la quantità di gente presente in città. Una città che, nel frattempo, prosperava. Costanza, dove nel 1183 era stata firmata la pace tra Federico Barbarossa e la Lega Lombarda, era da sempre un luogo d’incontro tra Nord e Sud, pertanto ricca, indipendente e da decenni immune da tumulti sociali. Ma era comunque piccola e questo creò seri problemi ai partecipanti al Concilio.

Belle di notte

Basti pensare che ospiti illustri come il duca della Baviera e il conte di Norimberga avevano portato con sé dai 400 ai 600 cavalieri e altrettanti cavalli! Si sviluppò quindi un florido mercato di affitti, in cui gli abitanti di Costanza non esitarono a mettere a disposizione le proprie stanze, stalle e cantine. A peso d’oro, ovviamente, anche se le autorità cittadine tentarono piú volte di limitare gli abusi. Le piazze della città si erano

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trasformate in una fiera permanente, in cui i viveri non mancavano, ma erano altrettanto costosi, come testimoniò il cavalieretrovatore tirolese Oswald von Wolkenstein, arrivato a Costanza al seguito di Federico d’Austria: «Denk ich an den Bodensee, tut mir sogleich der Beutel weh» («Se penso al lago di Costanza, mi duole subito il portafoglio»). Durante il Concilio, Costanza divenne una piccola Babele, nella quale Richental registra 17 lingue parlate, con una presenza diffusa dell’italiano: il cronista conta 72 cambiavalute fiorentini e 330 panettieri italiani, che con piccoli forni ambulanti servivano pagnotte e pasticci ripieni di carne o pesce «non cari e ben speziati». Il numero totale dei partecipanti al Concilio è stato stimato in circa 2300, tra prelati, scribi, avvocati, studiosi, re e nobili. A essi si deve aggiungere un numero molto maggiore – si parla di 15 000 nei giorni di maggiore affollamento e di un totale di 70 000 visitatori durante tutto il Concilio – di diplomatici, osservatori, cortigiani, militari, commercianti, banchieri, avventurieri e... meretrici. La consistenza di quest’ultima categoria è sorpren-

A destra la curiosa statua dedicata dallo scultore Peter Lenk, a Imperia, scelta come rappresentante delle 700 meretrici che, secondo Ulrich Richental, avrebbero offerto i propri servigi nel corso del Concilio di Costanza. Il monumento è stato inaugurato nel 1993 e domina il porto della città tedesca. In basso veduta di Costanza, con, in primo piano la facciata del Münster, la cattedrale cittadina, nella quale si tennero le sedute del Concilio.

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dente. Richental menziona un censimento nel quale furono contate non meno di 700 Hübschlerinnen (belle di notte), in parte attive in case di tolleranza, altre in viottoli, capanne o addirittura in botti da vino. Non contando, aggiunge, le non professioniste e quante si dedicavano saltuariamente al meretricio. È interessante osservare come un cronista contemporaneo quale è Richental non veda quell’afflusso di prostitute come un pericolo morale, bensí come una prova dell’importanza della sua città. E qualcosa di simile deve aver pensato lo scultore locale Peter Lenk, il quale ha voluto onorare le Hübschlerinnen con una statua che dal 1993 orna il porto di Costanza. La figura di

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Imperia (il nome di una cortigiana protagonista di un racconto di Balzac ambientato nella Costanza del Concilio), una dama prosperosa e discinta, che nelle mani alzate tiene le figure nude di un papa e di un re, ha suscitato non pochi dissensi e il vescovo di Friburgo l’ha bollata addirittura come un attacco alla pace religiosa. Imperia, tuttavia, ha resistito ed è diventata il monumento piú fotografato della città.

Il rifiuto di Benedetto

Partito da Costanza e accompagnato da un grande seguito, nel settembre del 1415 Sigismondo raggiunse Perpignan, città ai piedi dei Pirenei allora appartenente alla corona di Aragona. Qui trattò con re Ferdinando I

e papa Benedetto XIII, ottenendo un parziale successo: gli Stati iberici assicurarono la loro partecipazione al Concilio, mentre Benedetto si rifiutò ancora una volta di deporre la tiara papale, a meno di non vedersi accordare il diritto di scegliere il nuovo papa, una condizione giudicata ovviamente inaccettabile. Il viaggio di Sigismondo continuò tra le corti francesi e inglesi, nel tentativo di risolvere il conflitto che le opponeva (la Guerra dei Cent’Anni) e di convincerle a partecipare all’impresa che piú di ogni altra gli stava al cuore: una nuova crociata per liberare i Balcani dai Turchi. Non se ne fece nulla, ma sulla via del ritorno, a Narbonne, ottenne un altro successo. Il 13 dicembre del 1416 i sovrani di Aragona, Castiglia e Navarra ritirarono l’appoggio dato a Benedetto, e Sigismondo poté tornare a Costanza per la fase finale del Concilio. Arrivato in città alla fine di gennaio del 1417, il re dovette dapprima occuparsi di una questione personale. In aprile concesse la marca di Brandeburgo in feudo al conte di Norimberga, Federico IV di Hohenzollern, premiandolo cosí per il lavoro svolto nella gestione del Concilio durante la sua assenza. In cambio ottenne una consistente somma di danaro, molto gradita per un re da sempre alle prese con problemi di natura finanziaria. Cosí, con la creazione di un nuovo centro di potere degli Hohenzollern nell’Est della Germania, fu gettata la base dinastica per la creazione prima della Prussia e poi del Secondo Reich tedesco. Il Concilio poteva dunque dedicarsi alle due grandi questioni ancora irrisolte: l’elezione del nuovo papa e la riforma della Chiesa. Per l’elezione furono stabilite modalità ad hoc: oltre ai 23 cardinali presenti, nel conclave ciascuna delle cinque nazioni avrebbe avuto sei voti, e sarebbe stata necessaria una maggioranza pari ai due terzi dei votanti. Sulla riforma la discussione si fece piú difficile. Il re, e con lui la nazione tedesca e inizial-

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Dossier Ritratto di Papa Martino V Colonna, copia dal Pisanello (al secolo Antonio Pisani), XVII sec. Roma, Galleria Colonna.

mente anche quella inglese, voleva affrontare prima la riforma e dopo l’elezione del nuovo papa. Ma fu ostacolato dalla maggioranza dei prelati che preferiva procedere prima all’elezione e dopo – chissà quando – alla riforma.

Un solo pontefice, finalmente!

Fu quindi indetto il conclave. L’8 novembre una lunga processione, guidata da re Sigismondo, si recò dal Münster al grande magazzino del porto (il Kaufhaus), dove erano state in precedenza approntate le celle per i 53 conclavisti. Il conclave si svolse con una velocità sorprendente: dopo soli tre giorni, fu eletto l’aristocratico romano Oddone Colonna, che prese il nome del santo del giorno, Martino V. Dopo 39 anni, due dei quali senza papa, la Chiesa d’Occidente aveva ritrovato la sua unità sotto un solo pontefice. Il resto è cronaca. Sotto la presidenza del neoeletto Martino V, il Concilio avrebbe dovuto affrontare la questione della riforma, che però si rivelò troppo spinosa: ci si limitò alla prescrizione del giusto abito ecclesiastico, mentre l’editto Frequens, adottato prima del conclave, avrebbe obbligato il papa a convocare nuovi concili a intervalli regolari. Furono firmati trattati di natura fiscale tra la Santa Sede e diversi Stati europei; stabilite le norme sulla composizione del collegio dei cardinali e si riaffermò il primato papale nelle questioni dogmatiche. Niente di piú, anche perché era in arrivo la peste: l’epidemia stava avvicinandosi a Costanza, dove fece le prime vittime all’inizio del 1418. Il 22 aprile, nella sua XLV sessione, Martino chiuse i lavori del Concilio e i partecipanti rimasti partirono in fretta, lasciando nella città tedesca una montagna di debiti, che solo in parte sarebbero poi stati onorati. Il Concilio di Costanza, il ca-

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L’elezione di Martino V pose fine a una lacerazione protrattasi per ben 39 anni polavoro di re Sigismondo, riuscí a risolvere almeno una delle tre grandi questioni che si era posto: la causa unionis. Nei sei secoli successivi, infatti, la Chiesa di Roma rimase sostanzialmente unita. Ma l’assemblea ebbe meno fortuna nel trattare le altre due, la causa fidei e la causa reformationis. La semplice eliminazione fisica degli eretici e dei loro scritti non bastò a fermarne le idee, come dimostrò il caso della Boemia, dove il martirio di Hus fu una delle cause principali del lungo conflitto sociale e religioso tra i Boemi e il loro re tedesco. Anche in seguito, i rapporti tra Cechi e Tedeschi furono spesso difficili, e la situazione mutò soltanto nel 1945, con l’espulsione dei secondi dalla Boemia. Proprio la mancata riforma, però, alimentò la protesta contro la Chiesa. Non aver risposto alla

principale accusa degli «eretici», l’allontanamento della Chiesa dalla Bibbia, diede forza a quel movimento critico che un secolo piú tardi, come Riforma protestante, trionfò in gran parte d’Europa. Per Sigismondo infine, la gloria durò poco. Solo nel 1433 ottenne la corona imperiale. Quattro anno dopo morí e con lui si estinse il casato di Lussemburgo. V

Dove e quando «Il Concilio di Costanza. Un evento mondiale del Medioevo, 1414-1418» Costanza, Konzil fino al 21 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (venerdí, apertura serale fino alle 21,00); lunedí chiuso Info www.landesmuseum.de settembre

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macchine d’assedio la torre

Chi

di Flavio Russo

troppo in alto sale...

Nel corso del Medioevo l’antica tradizione delle torri d’assedio sembra essere stata in larga parte dimenticata, con ogni probabilità per effetto del prevalere della guerra di difesa su quella di offesa. Stando alle cronache, il ricorso a quegli enormi apparati si fece dunque sporadico, per scomparire del tutto con l’avvento delle artiglierie a polvere, che li rese totalmente inadeguati, fino a trasformarli in facili bersagli...

F F

ino all’avvento dell’artiglieria a polvere, le macchine d’assedio medievali mostrano un netto arretramento tecnologico rispetto a quelle dell’età classica, eccezion fatta per il trabucco, che surclassò tutte le antiche artiglierie a torsione grazie alla potenza dei suoi tiri. La regressione è particolarmente evidente nelle armi avanzate azionate da congegni complessi o da meccanismi di accurata costruzione, comunque frutto di indubbie conoscenze tecniche: competenze che si persero quasi del tutto con il dissolversi dell’impero d’Occidente e furono parzialmente e lentamente recuperate solo dopo il Mille, spesso traendo spunto dalle raffigurazioni dei codici miniati.

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E se la caratteristica architettonica piú vistosa del Medioevo fu la proliferazione dei castelli, moltiplicatisi a dismisura soprattutto fra il XIII e il XV secolo, quella singolare manifestazione deve essere addebitata proprio alla perdita delle procedure ossidionali e, per conseguenza, all’incapacità d’espugnarli.

Un caso singolare, ma non isolato

Un prevalere della difesa sull’offesa, non rarissimo nella storia, che in seguito all’adozione dei lanci piombanti – ovvero il rilascio di massi e liquidi ustori sugli attaccanti –, rese progressivamente piú letale l’investimento ossidionale e, per contro, sempre piú alte le fortifisettembre

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cazioni. Non a caso, «altezza» divenne nel linguaggio corrente sinonimo di inviolabilità e, pertanto, il miglior attributo regale. In pratica, però, grazie a quel facile espediente anche il maniero piú vulnerabile poneva gli assedianti di fronte a un drammatico dilemma: avviarne l’assedio, ben sapendo che, esauritasi la buona stagione, le operazioni si sarebbero dovute interrompere, vanificando gli sforzi e le spese profusi, oppure desistere persino dal provarci, una soluzione che fu di gran lunga preferita e contribuí all’anzidetta proliferazione dei fortilizi. Tuttavia, ogni volta che, potendo contare su maggiori risorse e fidando in un esito certo, si volle ridurre alla resa un castello, la

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Miniatura raffigurante l’assedio della città di Belina, da un’edizione manoscritta della Gran conquista de Ultramar. 1295. Madrid, Biblioteca Nazionale di Spagna. Sulla sinistra, si riconosce una rudimentale torre impiegata dagli assedianti.

tattica restò per secoli invariata quanto banale: assodato che il numero degli assediati era sempre inferiore a quello degli assedianti, sarebbe bastato violare l’edificio per annientarne la resistenza. Prima, però, con lanci continui di ogni specie – cadaveri e teste comprese –, si tentava di fiaccare la saldezza dei difensori, atterrendoli con la macabra anticipazione della sorte a loro riservata nel caso di una resa troppo tardiva...

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macchine d’assedio la torre Piú articolata, invece, era la modalità di attuazione dell’espugnazione, poiché obbligava a scegliere tra il passare sotto le mura, con insidiosi cunicoli, o al di sopra, scavalcandole con scale d’assalto e, soprattutto con torri ambulatorie. Tenendo conto che le fondazioni della maggior parte dei castelli insistevano su rocce compatte, la torre mobile divenne la soluzione per antonomasia, a patto che la si costruisse significativamente piú alta delle mura assediate. Ne conseguiva una macchina molto pesante e dalla stabilità precaria, dal momento che il suo baricentro veniva a trovarsi distante da terra e su di una base inevitabilmente ridotta: e possiamo immaginare gli sforzi massacranti che dovevano essere necessari per manovrarla, nonché la rilevante perizia richiesta ai conduttori, poiché bastava uno scarto di pochi gradi dalla verticale per provocarne l’abbattimento. L’operazione, quindi, era delicata e lenta, compiuta per giunta sotto la gragnuola dei dardi nemici, che decimavano gli addetti al rischioso compito, a cui non di rado si costrinsero i prigionieri. E non stupisce, pertanto, il sistematico e inumano espediente di legarne altri dinanzi alle torri, per far desistere i difensori dal tirare sulle stesse. Raramente, però, quell’espediente ottenne la sospensione dei tiri che, anzi, spesso si intensificarono per abbreviare le sofferenze degli ostaggi. Durante l’assedio di Crema, nel 1159, Federico Barbarossa fece incatenare dinnanzi a una torre numerosi suoi abitanti da lui catturati: gli sventurati, tuttavia, non solo non mostrarono alcun segno di panico, ma addirittura incitarono i concittadini a tirare: morirono quasi tutti, confortati dalle commosse grida che esaltavano il loro sacrificio!

Il primato macedone

Sotto il profilo storico, la torre ambulatoria aveva raggiunto forse il vertice delle sue potenzialità in età ellenistica, sviluppando oltre alla protezione metallica integrale a base di piastre di ferro e a un dispositivo antincendio, embrionali sistemi di autolocomozione, elaborati dagli ingegneri di Alessandro Magno. Fu perciò considerata la risolutrice degli assedi, tanto da essere ribattezzata «elepoli», ovvero conquistatrice di città. I Romani la perfezionarono ulteriormente, e, senza raggiungere gli oltre 40 m di altezza delle torri del Macedone, ne fecero un’enorme macchina semovente, compatta e valida in qualsiasi assedio. Ma, come accennato, agli albori dell’XI secolo, di quella sua avanzata concezione sopravviveva soltanto la ricerca della preminenza verticale sulle mura assediate. L’esigenza scaturiva dalla necessità di eliminare i difensori dagli spalti, con tiri provenienti dalla piattaforma sommitale della torre mobile. Diveniva a quel punto possibile l’assalto in massa, in un primo tempo condotto con le scale e quindi accostando la stessa torre, in modo che il ponte levatoio di

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A destra xilografia ottocentesca nella quale si immagina l’assalto alle mura di una città portato con una torre mobile d’assedio. In basso la ricostruzione di una torre mobile d’assedio proposta dall’architetto e storico dell’arte medievale Eguène Viollet-le-Duc nel suo Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo, pubblicato tra il 1854 e il 1868.


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macchine d’assedio la torre Una torre mobile d’assedio ricostruita dall’autore dell’articolo secondo criteri che avrebbero potuto renderne possibile l’effettivo impiego.

cui la si dotò, abbattendosi sulle merlature come un antico corvo, consentisse l’irrompere degli assedianti. Tale piattaforma, che nelle torri piú arcaiche, per contenerne l’altezza, era la stessa a cui era incernierato il ponte, in quelle piú recenti lo sovrastava di diversi metri, simile in sostanza a un’altana. Schermata con un parapetto scandito da una fuga di sottili saettiere, restò adibita al solo tiro d’interdizione, effettuato dai suoi arcieri, che non l’abbandonavano mai per tutta la durata dell’assalto. Dal punto di vista strutturale, la torre d’assedio medievale non differiva granché dalle varie costruzioni a forte sviluppo verticali erette, e spesso strasportate anche a braccia, per devozione, nelle numerose celebrazioni religiose dell’epoca, alcune tutt’oggi praticate e propriamente definite «macchine votive a spalla». Spiccano fra le maggiori i «gigli di Nola» che superano i 25 m di altezza e tramandano un evento accaduto nel 431 in seguito all’invasione dei Goti. Nell’esposizione delle macchine d’assedio, l’architetto e medievista francese Eugéne Viollet-le-Duc prende in esame anche una torre ambulatoria tipo, alta una quindicina di metri e suddivisa in quattro piani, oltre alla copertura. A consentirle di accostarsi alle mura provvedevano verricelli collocati al suo interno, che alando le gomene fissate alla base della mura, ne provocavano il lento avanzare. Stando alle sue deduzioni, la manovra era agevolata da un pagliolato, ottenuto affiancando tavoloni di legno posati su robusti travi sottostanti, a loro volta collocati sulla colmata del fossato.

Legno verde per resistere alle fiamme

Una manovra squisitamente navale, come non manca di farci cosí osservare: «Queste torri, erano in genere costruite con legno verde, appena tagliato nelle foreste vicine all’assedio, per renderne piú difficile l’incendio. Di solito venivano collocate su quattro ruote e munite di verricelli fissati al loro interno, al piano terra. Con pali di ancoraggio e cavi, si facevano avanzare queste pesanti macchine, nella stessa maniera con cui si ormeggia una nave». In altre circostanze a quella pista lignea si dava una discreta pendenza verso le mura, per cui la torre avanzava spinta dal suo stesso peso, arrestandosi alla giusta distanza per l’impiego del ponte, come cosí ancora ci precisa: «Il terreno su cui muove era stato livellato in precedenza e coperto con tavoloni dal bordo della controscarpa del fossato, colmato con una lieve pendenza fino al piede delle mura. Anche l’argine del fossato era stato rivestito di tavoloni, e su questi è condotta la torre, che da lí scende per il proprio peso fino ad arrestarsi vicino alle mura». Il rapido perfezionamento dell’artiglieria a polvere, fornendo la potenza distruttiva necessaria per aprire ampie brecce nelle cerchie assediate, alle due modalità di violazione delle mura (al di sotto o al di sopra), ne aggiunse una terza – il passaggio attraverso –, segnando la fine irreversibile delle torri mobili, divenute esse stesse un facile bersaglio per i cannoni della difesa. F

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caleido scopio

Enigma romanico

cartoline • Nella cittadina piemontese di Cavour sorge un’abbazia benedettina

dalla storia complessa. Frutto di una vicenda architettonica plurisecolare, le cui prime tappe si dipanano all’epoca della dominazione romana del territorio

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nnalzata lungo un percorso da sempre sfruttato per i commerci e l’approvvigionamento di materie prime tra le Gallie e Augusta Taurinorum (l’odierno capoluogo piemontese), l’abbazia benedettina di S. Maria a Cavour (Torino) sorse nel sito di un probabile tempietto pagano. Nel I secolo a.C., in quest’area si estendeva infatti il municipio romano di Forum Vibii Caburrum, fondato dal luogotenente di Cesare Caio Vibio Pansa, governatore della Gallia Cisalpina tra il 45 e il 44 a.C. e console nel 43 a.C. Testimone di una vicenda religiosa antichissima, il monastero fu eretto nel 1037 per volontà del vescovo di Torino Landolfo. Nella «terra Sancte Marie de Caburo», tra il VII e l’VIII era già stata edificata una chiesetta agostiniana, distrutta dai Saraceni nel X secolo. Su quest’architettura religiosa, poco documentata, gettano luce i capitelli della cripta dell’abbazia di

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S. Maria. Nel XV secolo il complesso religioso, dopo alterne vicissitudini, fu ridotto a commenda da Amedeo VIII e unito alla Mensa Arcivescovile di Torino dal cardinale Domenico della Rovere nel 1482. Trasformato in tenuta agricola, fu soppresso da papa Pio VII nel 1803, in accordo con le disposizioni napoleoniche.

Il recupero e la valorizzazione Da allora per il fabbricato iniziò un lento declino, protrattosi fino al 1949, quando la chiesa fu donata dal proprietario al Comune di Cavour, che, negli anni, ha restituito al sito coerenza e dignità, anche valorizzando e tutelando l’abbazia all’interno della Riserva Naturale Speciale della Rocca di Cavour, compresa nel Parco del Po Cuneese. Del millenario luogo di culto, voluto dal vescovo Landolfo nell’XI secolo, rimangono oggi alcune strutture delle absidi e della navata centrale, inglobate nella settecentesca chiesa

In alto Cavour (Torino). Veduta dell’abbazia benedettina di S. Maria. Nella pagina accanto uno scorcio della cripta dell’abbazia. barocca oppure trasformate, a occidente, in nartece, e la cripta. Questo piccolo gioiello d’arte sacra, considerato tra le parti meglio leggibili dell’impianto di fondazione, è esemplare per giudicare lo stile architettonico di Landolfo, che voleva differenziare il nuovo edificio da quelli quasi coevi, eretti nelle diocesi limitrofe. Ritenuta uno degli esempi piú belli del romanico in Piemonte, la cripta di Cavour presenta significativi richiami alla cultura architettonica europea. La sua interpretazione è piuttosto complessa. Inoltre, i parziali interventi edilizi degli anni Sessanta del Novecento, che hanno «liberato» alcuni spazi delle navate, formando nuovi accessi all’area sottostante, ne rendono ancor piú difficoltosa settembre

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la lettura. Di norma la cripta, centro spirituale dell’intero edificio religioso, era il punto focale della liturgia monastica e della devozione popolare, rappresentata dalle reliquie del santo in essa custodite. La sua sommità emergeva rispetto al pavimento della chiesa, in modo da servire come basamento del presbiterio dove i monaci officiavano i sacri riti. A Cavour la cripta landolfiana riprende in modo analogo l’impianto architettonico superiore. Caratterizzato da una pianta triabsidata, lo spazio sacro sotterraneo è costituito da un’aula centrale, articolata in tre piccole navate con sette campate da colonnine, che reggono volte a crociera su archi. Il vano centrale è affiancato ai lati da due ambienti, con quattro campate di volte a crociera, che poggiano su lesene addossate alle pareti. Per il numero inferiore delle campate, questi due spazi risultano piú corti rispetto all’aula centrale. In asse alla navatella al centro della cripta, sulla parete ovest, è stata ricavata una nicchia a pianta semicircolare, al di sotto della gradinata che saliva dalla navata al presbiterio.

Reperti al posto dell’uva L’ex monastero benedettino, posto nelle immediate vicinanze della chiesa, ospita al piano terreno il Museo Caburrum, che accompagna il visitatore alla scoperta della millenaria storia di Cavour e dell’abbazia di S. Maria. Il percorso espositivo, che si snoda nei locali dell’antico tinaggio – l’ambiente coperto in cui venivano depositati i tini per la pigiatura delle uve –, segue un criterio cronologico, suddiviso in tre grandi fasi: preistoria e protostoria, età romana ed età tardo-antica, Alto Medioevo. La raccolta comprende soprattutto reperti provenienti da corredi tombali, da strutture insediative extraurbane esplorate di recente e da un ampio lapidarium con iscrizioni pubbliche e private comprese tra l’età romana e l’Alto Medioevo (I-VI/VII secolo d.C.). Durante il rifacimento della pavimentazione nell’ex tinaggio sono anche riemerse numerose sepolture di probabile epoca medievale ed è stato scoperto un tratto di strada romana, lasciato parzialmente visibile attraverso una teca di vetro.

Le ristrutturazioni dei Benedettini Non è semplice ricostruire la configurazione dei piani e degli spazi di navate e presbiterio nella chiesa e il sistema degli accessi nella cripta. Inoltre, per quanto riguarda la struttura della chiesa, non si sa se quella antecedente all’edificio landolfiano avesse una sola navata sovrastante la cripta. Se i Benedettini trovarono tale stato di fatto, per fabbricare il luogo di culto su tre navate, abbassarono il piano di fondazione dei muri settentrionale e meridionale al piano di pavimento della cripta, costruendo i due corridoi laterali a essa, tuttora agibili. Il nuovo tempio risultò cosí articolato su due diversi piani di pavimento: quello superiore del presbiterio e quello a livello di campagna delle prime tre campate a occidente. Ma c’è dell’altro. L’asse della chiesa, con l’abside

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rivolta a oriente, risulta inclinato di pochi gradi a nord-ovest. Esso pare prolungare l’allineamento tra la cima piú alta della vicina Rocca (462 m slm) e il punto dell’orizzonte oltre il quale il sole tramonta nel solstizio d’estate, come per captare con oscuri significati rituali il primo apparire dell’ombra. Certo è che le dimensioni della cripta e, di conseguenza, quelle del presbiterio sono considerevoli in rapporto a quelle dell’attuale chiesa, in quanto il piano sostenuto dalle sue volte avanza per almeno due delle campate (sei?) di cui si componeva l’edificio. Quanto si può ora osservare, lascia ipotizzare che il

presbiterio, fortemente sopraelevato rispetto alla navata, fosse accessibile con una gradinata centrale. Nel passato, invece, l’accesso alla cripta era forse assicurato da due scalinate, tali da consentire un andamento circolatorio dei numerosi fedeli, giunti a Cavour per venerare le reliquie di san Proietto (IV-V secolo). Posta al centro della penultima campata orientale, la mensa sacra è formata dalla sovrapposizione di tre basi di colonne romane, ed è considerata l’altare cristiano piú antico del Piemonte. Info: tel. 0121 6114, Comune di Cavour; e-mail: info.Cavour@fassi.it Chiara Parente

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Lo scaffale Mariano Boschi Grosseto e le sue mura

Felici Editore, Ghezzano, 430 pp., ill. col.

26,00 euro ISBN 978-88-6019-708-5 felicieditore.it

Un tracciato esagonale che si snoda per tre chilometri cinge Grosseto: è il circuito murario d’origine medievale che, caso non raro in Italia, ma comunque significativo, si è conservato nella sua interezza. A questo patrimonio, interessato negli ultimi anni

da vari interventi di restauro e al quale, soprattutto, si sta cercando di assicurare una doverosa riqualificazione, è dedicato questo studio ampio e articolato, che ripercorre la vicenda della fortificazione e ne analizza le caratteristiche architettoniche. Le prime due parti del volume sono dunque dedicate all’inquadramento storico delle mura grossetane, affidandosi alle

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testimonianze degli storici e alle fonti archivistiche. Un repertorio ricco, che offre indicazioni decisive sia sulla cronologia dell’opera – l’esistenza di un sistema di fortificazioni è attestato con certezza già nel X secolo –, sia sul suo ruolo nell’ambito di alcuni degli eventi che maggiormente segnarono la vita della città maremmana, come nel caso del lungo conflitto con Siena (infine risoltosi con la conquista da parte di quest’ultima), nel corso del quale i bastioni si opposero piú volte all’assedio del nemico. Nelle sezioni successive, rispettivamente dedicate all’iconografia e alla cartografia, Mariano Boschi presenta il catalogo ragionato della corposa documentazione grafica e topografica relativa alle mura grossetane: materiali di estremo interesse, il cui valore appare evidente anche in funzione degli interventi di restauro ai quali si accennava in apertura. Romano Nanni Leonardo e le arti meccaniche Skira, Milano, 320 pp., ill. col.

59,00 euro ISBN: 978-88-7624-573-2 skira.net

Diciotto interventi – in occasione dei quali i relatori sono stati affiancati da attori che hanno contribuito a vivacizzare l’esposizione degli argomenti di volta in volta presentati –, attraverso i quali la straordinaria vicenda, umana e artistica, di Michelangelo Buonarroti è stata L’eclettismo di Leonardo da Vinci è un dato di fatto analizzato e celebrato in innumerevoli occasioni. Ma l’operazione qui compiuta da Romano Nanni, come si può leggere in sede di Premessa, mira a un obiettivo ben preciso: quello di «cogliere il senso storico dell’operato del Vinci nell’ambito che (…) gli fu piú proprio, quello (…) delle arti meccaniche». L’intento, insomma, è quello di documentare l’importanza del ruolo di inventore, al quale lo stesso Leonardo attribuiva una superiore dignità, senza considerare riduttiva quella sua natura di «omo sanza lettere», com’ebbe egli stesso a definirsi con un’espressione divenuta celebre. I primi due capitoli del volume sono dunque dedicati al rapporto tra il genio vinciano e le arti meccaniche

e alla trasmissione della conoscenza delle seconde, mentre nelle sezioni successive si lascia spazio alla ricchissima documentazione che tutt’oggi possediamo degli studi e delle osservazioni di Leonardo. E, ancora una volta, al di là della retorica, diviene difficile non meravigliarsi della capacità di quell’uomo «illetterato» di cimentarsi con ogni possibile applicazione dell’ingegneria e della tecnologia. Patrizio Aiello (a cura di) Michelangelo. Una vita

Officina Libraria, Milano, 286 pp., ill. b/n

15,00 euro ISBN: 978-88-97737-38-4 officinalibraria.com

Il volume curato da Patrizio Aiello è il frutto di un ciclo di lezioni promosso dal FAI e svoltosi tra il 2013 e il 2014 all’Università Statale di Milano.

ripercorsa in maniera pressoché integrale. E il semplice indice delle lezioni (ora capitoli), già da solo, dà la misura di quanto grande sia stato il contributo del maestro toscano alla pittura, alla scultura, all’architettura e, piú in generale, allo sviluppo della cultura rinascimentale nel suo insieme. Una lettura che si offre come una sorta di «ripasso», ma che, a differenza di un manuale scolastico o universitario, è resa accattivante dal taglio narrativo e spesso «recitato» adottato dagli autori. (a cura di Stefano Mammini) settembre

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Lunga vita a re Edoardo! musica • Brani composti in occasione di eventi speciali, quale poteva essere

l’incoronazione di un sovrano, i tropi sono protagonisti di una ricca antologia

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l Tropario di Winchester è noto per essere la testimonianza scritta piú antica di musica polifonica. Compilato agli inizi dell’XI secolo nell’omonima abbazia benedettina, è una fonte ricchissima per lo studio dell’evoluzione del contrappunto nella sua fase nascente. Intorno al Mille, l’esigenza di arricchire e valorizzare sempre piú il canto liturgico, sino ad allora strutturato su una singola linea melodica, spinse anonimi monaci a sperimentare nuove soluzioni, tra cui l’aggiunta alla voce del canto tradizionale (vox principalis) di una seconda, denominata vox organalis, con un andamento melodico a intervalli di quarta, quinta o ottava: un’invenzione straordinaria che è poi il presupposto del successivo e complesso linguaggio polifonico. Seguendo un movimento parallelo, le due voci, in una sorta di punctum contra punctum – espressione da cui deriva il termine «contrappunto» per intendere un’esecuzione a piú voci –, hanno dato vita a quelle che possiamo considerare come le piú primitive forme improvvisative di contrappunto che, nel caso del Tropario di Winchester, hanno avuto la fortuna di essere tramandate sino a noi nel suddetto codice oggi conservato al Corpus Christi College di Cambridge.

Manifestazioni straordinarie A questo raro e affascinante repertorio è dedicata l’antologia Music for a King. The Winchester Troper (AECD 1436, 1 CD, www.outheremusic.com), in cui, accanto a brani monodici della tradizione liturgica

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gallico-romana, si ascoltano alcuni tropi, ossia testi e melodie inseriti in brani della tradizione monodica, a due voci. Si tratta di manifestazioni straordinarie, pensate per celebrare occasioni altrettanto importanti, in cui l’uso dei tropi concorre a celebrare i momenti piú salienti dell’anno liturgico e ad accompagnare eventi come l’elezione di un re. Ispirata idealmente all’incoronazione del re Edoardo

il Confessore, celebrata nell’aprile del 1043 nella cattedrale di Winchester, l’antologia ripropone dunque l’apparato musicale che presumibilmente accompagnò l’evento, in occasione del quale, per rimarcarne l’eccezionalità, furono senz’altro eseguite le musiche polifoniche tratte da questo tropario. Particolarmente suggestivi sono i passaggi a due voci, a tratti caratterizzati da andamenti melismatici, che quasi rievocano un atteggiamento orientaleggiante

di grande fascino; questi ultimi si alternano a passaggi monodici, in un contrasto continuo, dove il canto a voce sola trova una sua naturale predisposizione nello sdoppiarsi in due, creando un intreccio polifonico primitivo, ma al tempo stesso di grande modernità.

Un contrasto suggestivo A rendere ancor piú peculiare questa antologia, è la scelta di inframezzare i tropi dell’XI secolo con brani liturgici del XXI secolo appositamente commissionati al francese Pierre Chépélov (O qui perpetua) e all’inglese Joel Rust (Sunt etenim pennae). Entrambe ispirate alla Consolatio philosophiae di Severino Boezio (480 circa-526), le partiture di questi due giovani compositori si rifanno in maniera palese alla pratica del discantus ascoltata nei brani del tropario, in una sorprendente continuità stilistica che azzera, pur nei suoi passaggi piú moderni e dissonanti, i mille anni che separano questi repertori lontani nel tempo, ma vicini nello spirito che li animano. Artefice di questo sofisticato progetto discografico è il gruppo francese Discantus, composto da quattro voci dirette da Brigitte Lesne, in un’impresa tutta al femminile, con soliste che si esibiscono con grazia raffinata, sia nei delicati contrappunti di un repertorio che è alle origini stesse del linguaggio musicale occidentale, sia nella modernità del linguaggio contemporaneo. Franco Bruni

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