Medioevo n. 211, Agosto 2014

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san galgano portogallo cristiano

sesso aquileia catapulta dossier i viaggi di ibn battuta

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

e la leggenda della spada nella roccia

costume e società

Il sesso nell’età di Mezzo mezzo

In viaggio con Ibn Battuta il «Marco Polo arabo»

dossier

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Mens. Anno 18 n. 8 (211) Agosto 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 8 (211) agosto 2014

EDIO VO M E www.medioevo.it

il mistero di san

Galgano

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sommario

Agosto 2014 ANTEPRIMA mostre Sulle ali di una farfalla appuntamenti Quando la devozione è (anche) sofferenza Lacrime miracolose L’Agenda del Mese restauri Una Firenze mai vista Il capolavoro di un genio umile

macchine d’assedio Catapulta 6

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L’arma «invisibile» di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ Sesso Il tempo del piacere di Luca Pesante

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di Furio Cappelli

di Chiara Mercuri e Fabio Giovannini

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CALEIDOSCOPIO 30

Portogallo cristiano di Renata Salvarani

saper vedere La basilica dei patriarchi

storie

Lisbona liberata

luoghi Aquileia

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STORIE misteri Il mistero di san Galgano

70

60

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Dossier

libri Mode e divieti Lo scaffale

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musica Nel segno del liuto Amori a confronto

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quel viaggio lungo una vita

La straordinaria avventura di Ibn Battuta, il «Marco Polo arabo» di Marco Di Branco

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Ante prima

Sulle ali di una farfalla

mostre • Nelle sale

del Magno Palazzo, l’odierno Castello del Buonconsiglio, Trento celebra il genio di Dosso Dossi (e del fratello Battista), ponendo a confronto le sue tele piú celebri con le magnifiche decorazioni realizzate su commissione del principe vescovo Bernardo Cles 6


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ranco Marzatico si congeda dal Castello del Buonconsiglio, dopo esserne stato il direttore per diciannove anni, tenendo a battesimo una mostra di straordinario interesse: le sale di quello che fu il Magno Palazzo del potente principe vescovo Bernardo Cles accolgono infatti una vasta selezione di opere firmate dall’artista che l’allora signore di Trento aveva chiamato nel 1531 a decorare alcune delle sale piú prestigiose della sua residenza, Dosso Dossi (al secolo Giovanni di Nicolò Luteri). Per il pittore, che all’epoca doveva essere poco piú che quarantenne – la sua data di nascita, tuttora incerta, viene comunque collocata nel 1487 – quella commissione costituí una ulteriore e prestigiosa conferma dell’apprezzamento che la sua opera andava riscuotendo e, al tempo stesso, si trasformò in una sorta di ritorno a casa: sebbene fosse originario, probabilmente, di un paese del Mantovano (Tramuschio?), la famiglia del padre Nicolò era infatti di origine trentina. Insieme al fratello Battista, Dosso si trattenne per circa un anno a Trento: al termine del soggiorno, i due avevano lavorato alla decorazione di ben 19 sale del palazzo, sulle quali è stato appunto costruito il percorso dell’esposizione appena inaugurata.

L’esordio è affidato all’andito davanti alla cappella, ambiente che fungeva da ingresso ufficiale al Magno Palazzo. Per il suo soffitto Dosso e Battista realizzarono una serie di lunette con ritratti di divinità dell’Olimpo: una soluzione dettata dallo stesso Bernardo Cles, che si rivela emblematica del personaggio e tutt’altro che isolata.

«Laicità» di un uomo di Chiesa Qui come altrove, infatti, il principe vescovo, che pure era uomo di Chiesa, preferí assecondare la sua natura di uomo colto e amante della tradizione classica. Una scelta che dovette destare non poca sorpresa, se non addirittura un certo imbarazzo in molti contemporanei,

Qui sopra l’allestimento del dipinto Giove pittore di farfalle (a sinistra, proveniente dal Castello reale di Wawel, presso Cracovia) all’interno della Sala del Camin Nero, messo a confronto con uno dei quadri monocromi del soffitto (in alto). Nella pagina accanto, in alto le decorazioni realizzate da Dosso e Battista Dossi per l’andito davanti alla cappella. Nella pagina accanto, in basso il ritratto di Bernardo Cles dipinto da Girolamo Romanino nella Sala delle Udienze. Il principe vescovo chiamò Dosso Dossi a lavorare alla decorazione del suo Magno Palazzo nel 1531.

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Ante prima se pensiamo che il suo medico personale, Pietro Andrea Mattioli, nel poema Il Magno Palazzo del Cardinale di Trento – che descriveva il Castello del Buonconsiglio dopo gli interventi clesiani – scelse di iniziare dall’adiacente cappella e non dall’ingresso. Una decisione che giustificò specificando che le divinità dell’Olimpo dipinte nell’andito erano presenti nel palazzo allo stesso modo in cui, nei trionfi romani, si rappresentavano i vinti per esaltare i vincitori, in questo caso il Cristo e la Madonna del vicino luogo di culto!

Echi dell’antico Nell’attigua Stua della Famea (un vasto ambiente adibito a sala da pranzo, noto anche come «Sala del tribunale», perché, durante la prima guerra mondiale, vi fu processato e condannato a morte l’irredentista trentino Cesare Battisti) è riunito un primo lotto di dipinti, tra i quali spicca Il bagno, una tela verosimilmente databile al 1512, e sulla cui attribuzione a Dosso

Dossi persistono tuttora opinioni divergenti. Non cosí da parte dei curatori della mostra trentina, che offrono il grande quadro all’ammirazione dei visitatori: la scena mostra un gruppo di giovani che si intrattengono sulle rive di un corso d’acqua e molti sono i richiami all’antico, fra i quali si nota, al centro, l’immagine di una giovane donna intenta ad asciugarsi un piede, alla quale il pittore assegna

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Nella pagina accanto Dosso Dossi, L’ebbrezza. Olio su tavola, 1520-1522. Modena, Galleria Estense. A destra il ritratto di Niccolò Leoniceno recentemente attribuito con certezza a Dosso Dossi, dopo aver scoperto che il marchio tipografico che compare nella parte bassa del quadro (foto qui sotto) è, in realtà, la firma dell’artista, formata da una D e un osso. 1521. Como, Museo CIvico.

movenze che evocano il modello dello Spinario, scultura che godette di grande fortuna nel Medioevo e nel Rinascimento, divenendo l’oggetto di molteplici rivisitazioni e citazioni (vedi anche «Medioevo» n. 210, luglio 2014). La Sala del Camin Nero, cosí chiamata per via del monumentale camino cinquecentesco in marmo nero che vi fu collocato, riserva uno dei passaggi di maggior interesse

della mostra: grazie al prestito concesso dal Castello reale di Wawel (Cracovia, Polonia) è stato infatti possibile istituire un confronto diretto tra la tela raffigurante Giove pittore di farfalle e uno dei quadri monocromi del soffitto, nel quale Dosso Dossi aveva già sperimentato il tema. La scena si ispira ancora una volta alla tradizione classica e, come nell’andito davanti alla cappella, ci riporta agli dèi e alle creature dell’Olimpo e dell’universo mitologico greco: protagonista è appunto il padre di tutti gli dèi, che appare totalmente assorbito dalla pittura e, proprio per non turbare la sua concentrazione, Mercurio intima a una figura femminile di fare silenzio per non turbare l’atto creativo. La scena è stata variamente interpretata e, secondo alcuni, potrebbe contenere allusioni di tipo esoterico o rifarsi alle indagini allora assai in voga nel campo dell’alchimia. È però possibile, come ha ipotizzato Vincenzo Farinella – che è tra i agosto

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quale Paolo Giovio – vescovo, storico e grande collezionista comasco – chiedeva ad Alfonso d’Este la tela: un’epistola che porta la data del 1521 e ha dunque permesso di assegnare anche una cronologia certa al ritratto. Quelle che abbiamo scelto di tratteggiare sono solo alcune delle suggestioni offerte dalla rassegna allestita al Buonconsiglio, che definire «da non perdere» non è davvero una formula di routine. Stefano Mammini

curatori dell’esposizione – che la composizione fosse stata concepita come elogio della pittura e dell’otium, in onore di Alfonso d’Este, presso la cui corte Dosso Dossi lavorò, riscuotendo grande apprezzamento.

Un marchio come firma Quasi a fare da contraltare ai dibattiti sull’attribuzione o il significato di alcune delle opere esposte, si colloca il ritratto del grande medico e umanista Niccolò Leoniceno: proveniente dai Musei Civici di Como, il dipinto, infatti, al di là delle affinità stilistiche, reca la firma di Dosso Dossi. Si tratta, a oggi, dell’unico caso noto per l’artista e la scoperta si deve a un editore d’arte il quale, osservando attentamente il marchio tipografico che compare sulla pagina sinistra (destra per chi guarda) del grande volume che Leoniceno ha nelle mani, si è accorto che esso è formato da una grande D,

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Dove e quando

attraversata da un osso e dunque «D+osso = Dosso». L’artista non era nuovo a simili artifici e comunque, sulla scia di questa intuizione, sono state effettuate ricerche nell’archivio estense che hanno portato al ritrovamento della lettera con la

«Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 2 novembre Orario ma-do, 10,00-18,00; lu chiuso Info tel. 0461 233770; e-mail: museo@castellodelbuonconsiglio. tn.it; www.buonconsiglio.it

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Ante prima

EDIO VO M E oggi

L L

a battaglia per Ildegarda di Bingen (1098-1179) e contro le scelte dei distributori cinematografici dilaga sul web. È infatti partita da Facebook (http:// www.facebook.com/events/1495952090618082/) la protesta di un gruppo di studenti dell’Università di Salerno che denuncia il mancato arrivo nel nostro Paese del film Vision (2009), dedicato alla mistica medievale e diretto dalla regista tedesca Margarethe Von Trotta. A cinque anni dall’uscita della pellicola, Barbara Sukowa (in alto) nei panni di Ildegarda di Bingen e altre foto di scena di Vision, il film sulla mistica benedettina diretto da Margarethe von Trotta. i promotori si appellano alle televisioni nazionali, chiedendo che l’opera sia finalmente proposta in Italia. L’iniziativa si sposterà a breve anche in ambiti non telematici, coinvolgendo associazioni culturali, gruppi di rievocazione storica, compagnie teatrali e case editrici: l’appuntamento è fissato per il 4 ottobre prossimo in diverse città della Penisola, con eventi che celebreranno le gesta della religiosa.

Attualità di Ildegarda Vision è comparso fugacemente in Italia nel 2009, in occasione del IV Festival Internazionale del Cinema di Roma, riscuotendo significativi elogi da parte della critica. Nella pellicola, la figura di Ildegarda di Bingen (vedi «Medioevo» n. 159, aprile 2010; anche on line su medioevo.it) – che fu mistica, scrittrice, filosofa, scienziata, musicista, nonché consulente di Federico Barbarossa – ha un profilo rivoluzionario. Interpretata dall’attrice tedesca Barbara Sukowa, la protagonista non appare, infatti, solo come la destinataria di visioni divine, ma si rivela anche una donna determinata, indipendente e a suo modo «moderna», che precorre alcuni temi tipici dell’Umanesimo. «Ho cercato di sottolineare cosa di lei può ancora suscitare interesse – aveva spiegato Margarethe Von Trotta in occasione della kermesse romana –, come la sua passione per la medicina alternativa o per la cura della natura, e naturalmente il suo monito rivolto a Barbarossa, a cui consigliò di diventare un governatore giusto, non solo avido di potere e ricchezza: una frase che oggi andrebbe ripetuta sempre». Francesco Colotta

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Ante prima

Una Firenze mai vista restauri • La piú antica veduta della

città del giglio ritrova la sua originaria vivacità insieme alla colossale e misteriosa figura che la sovrasta

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el 1244, il frate domenicano Pietro da Verona, tenace avversario degli eretici patarini che, nella Firenze medievale, raccoglievano molti seguaci, fondò la compagnia assistenziale di S. Maria del Bigallo, dedita alla carità e alla cura degli ospedali e la confraternita della Misericordia, volta a raccogliere i defunti e a dar loro sepoltura. Tra i due enti passò sempre «una vicendevole et amorevolissima corrispondenza», tanto che, nel 1425, la Signoria fiorentina decretò la fusione delle due Compagnie che rimasero unite per oltre sessant’anni, sebbene complessa risulti l’identificazione delle loro sedi. L’odierno Museo del Bigallo, ubicato in un edificio trecentesco, piú volte modificato, ospita nella Sala dei Capitani o dell’«Udienza Vecchia», la Madonna della Misericordia, un affresco risalente al 1342, come testimonia l’iscrizione leggibile nella parte inferiore, che offre la piú antica descrizione della città e della sua popolazione: un documento prezioso e unico che, grazie a un restauro durato due anni, ha ritrovato la brillantezza originaria e la luminosità delle cromie rosate, finora occultate da una patina di sporco e dai precedenti interventi. Ignoto è l’autore, riconducibile alla cerchia di Bernardo Daddi, raffinato interprete degli stilemi giotteschi attivo nella prima metà del XIV secolo, che ci propone una rara iconografia, tradizionalmente identificata con la Vergine, per la presenza dell’aureola dorata in aggetto, anche se non è da escludere l’ipotesi che si tratti di una raffigurazione allegorica, ovvero una Sacerdotissa justitiae.

La città sotto il mantello La gigantesca figura femminile si staglia, frontale e ieratica, su uno sfondo azzurro, con un copricapo a forma di mitra segnato dal Tau e ricoperta da un ampio manto sul quale si susseguono undici tondi con iscrizioni e scene legate alle Sette opere di Misericordia e di Carità. Nella parte inferiore, sono visibili due ulteriori medaglioni con la sepoltura dei defunti, eseguiti in tempi diversi, vista le differenze nello stile e nella composizione delle azzurriti impiegate per i pigmenti. Al di sotto, emerge l’eccezionale veduta di Firenze, circondata dalla seconda cerchia muraria, entro la quale si distinguono i principali edifici cittadini, tra cui il Duomo e il campanile di Giotto, ancora in costruzione. E adesso, dopo la ripulitura del tessuto pittorico, in

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L’affresco della Madonna della Misericordia dopo il restauro. 1342. Firenze, Museo del Bigallo. mezzo a torri e chiese, appaiono dettagli inediti, come le acque del fiume Arno, la folla di donne e uomini, suddivisi in base al sesso e descritti nelle fisionomie e nell’abbigliamento. Si possono identificare aristocratici, notai, commercianti, nonché eleganti fanciulle o timorate signore, riconoscibili dai loro ornamenti o acconciature, inginocchiati e rivolti verso l’insolita icona. Sulla sinistra della monumentale immagine sono presenti due tabelle con iscrizioni antiche che elencano i Dieci Comandamenti e i Sette Sacramenti, mentro sono andate perdute due porzioni del pannello, in seguito a ristrutturazioni eseguite proprio sulla parete su cui si trova l’affresco che presenta molte rifiniture a secco. Mila Lavorini agosto

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Ante prima

Il capolavoro di un genio umile restauri • Ha

ritrovato lo splendore originario uno dei grandi affreschi commissionati al Beato Angelico per il convento dei Domenicani di S. Marco, a Firenze

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el 1436, Cosimo il Vecchio promosse e finanziò un ampio progetto di riqualificazione e trasformazione del quadrante settentrionale di Firenze, nel quale, tra gli altri, era ubicato il convento di S. Marco, appena ceduto ai Domenicani dall’ordine mendicante dei Silvestrini. La ristrutturazione del complesso religioso fu affidata a Michelozzo, architetto di fiducia della famiglia Medici, che ridisegnò gli spazi in forme rinascimentali, mettendo a disposizione estese superfici parietali, adatte ad accogliere uno dei cicli pittorici piú importanti e vasti mai realizzati per un monastero. Autore della decorazione degli ambienti principali, che doveva indurre nei monaci uno stato di contemplazione, fu il frate domenicano Giovanni da Fiesole, noto come Beato Angelico, il quale, nel pieno della sua maturità espressiva, tratteggiò vividamente episodi biblici, attualizzandone la narrazione con spunti compositivi semplici, ma immediati ed efficaci per una moderna lettura evangelica. Le fonti lo descrivono come un uomo umile e modesto, che non metteva mano ai pennelli senza prima aver

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La Crocifissione e Santi del Beato Angelico dopo il restauro. 1441. Firenze, Museo di San Marco, Sala capitolare. pregato e che, per abitudine, non ritoccava mai le sue opere, perchè ispirate dalla volontà divina.

I dettagli rivelati Risale al 1441, l’affresco appena restaurato raffigurante la Crocifissione e Santi che occupa la parete nord della Sala capitolare del cenobio fiorentino. Rimosse le patine biancastre che alteravano la cromia originaria, è nuovamente possibile leggere in dettaglio il «racconto» del Beato Angelico. Aggiornato al nuovo formalismo rinascimentale, il monaco che, come scrisse Giorgio Vasari nelle Vite, «non fece mai Crucifisso che non si bagnasse le gote di lagrime», seppe ritrarre delicatamente lineamenti, gesti ed emozioni dei personaggi rappresentati, ritmicamente raggruppati sotto le tre figure crocifisse. Nella parte inferiore della scena, è delineato l’albero genealogico dell’ordine domenicano, protagonista di una celebrazione che vede coinvolti anche i fondatori di

altri ordini, presenti sul lato destro, quasi a dialogare con martiri e santi protettori della dinastia medicea sul lato opposto: un equilibrato e armonico coro spirituale che l’arte colta e raffinata di Fra’ Giovanni elaborò, contribuendo a veicolare l’umanesimo cristiano. L’affresco era stato sottoposto a un delicato intervento già nel secolo scorso, quando fu sperimentato un metodo innovativo detto dell’ammonio-bario, capace di trasformare i sali solubili in sostanze inerti. Gli fu restituita cosí la coesione senza dover ricorrere allo «strappo», tecnica considerata all’epoca l’unica in grado di salvare le pitture murali degradate. A distanza di quarant’anni, le indagini eseguite sull’opera avevano evidenziato la necessità di un nuovo trattamento conservativo, per ridare compattezza alla superficie e alla tessitura pittorica. In occasione del restauro della Crocifissione è stata riallestita l’intera Sala capitolare, con la sistemazione definitiva all’interno di tre affreschi e di una sinopia del Beato Angelico, staccati dal chiostro di S. Antonino. M. L. agosto

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Ante prima


il nuovo dossier di medioevo

longobardi La vera storia

di un’identità IN ITALIA GIUNSERO NEL 568. MA CHI ERANO DAVVERO, E DA DOVE VENIVANO, I LONGOBARDI?

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uidati dal re Alboino, nel 568 i Longobardi raggiungono la nostra Penisola e acquisiscono il controllo di molti dei suoi territori. Prende forma, cosí, un regno vasto e solido che, per due secoli, si fa protagonista della storia italiana. Molto di quello che oggi sappiamo sui Longobardi lo dobbiamo all’archeologia e, in particolare, allo scavo delle aree cimiteriali: i corredi funebri, infatti, riflettono l’identità e il rango dei defunti e rivelano preziose informazioni sul modus vivendi del popolo «dalle lunghe barbe». Il nuovo Dossier di «Medioevo» indaga l’affascinante tema dell’identità culturale del popolo longobardo e ne offre una sintesi completa e aggiornatissima: a partire dai piú recenti dati archeologici, dall’analisi delle fonti scritte, dall’esposizione delle straordinarie realizzazioni artistiche e dalle ultime acquisizioni emerse dalla discussione intorno al concetto di «etnogenesi» applicato alla formazione dei popoli «barbari». I capitoli centrali sono dedicati ai simboli del potere longobardo – da ricercare nell’attività edilizia promossa, innanzitutto, da due personaggi illustri, il re Agilulfo e la regina Teodolinda – e al tema fondamentale della conversione dei Longobardi – «portatori di credenze demoniache» – al cristianesimo. Un approfondimento getta luce sulla gloriosa parabola «meridionale» dei Longobardi, il ducato di Benevento. Conclude l’opera una guida alla scoperta di luoghi, monumenti e opere d’arte longobarde in Italia.

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Ante prima

Quando la devozione è (anche) sofferenza appuntamenti •

Pacentro, ai piedi della Maiella, si prepara ad assistere alla tradizionale gara di corsa a piedi nudi, tra rovi e sassi, in onore della Madonna di Loreto

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econdo la tradizione, nel 1291 gli angeli traslarono la Santa Casa della Vergine Maria da Nazareth a Tersatto, presso Fiume nell’attuale Croazia, e da lí a Loreto, nelle Marche. Durante il tragitto, la Casa avrebbe fatto tappa nel centro abruzzese di Pacentro, sulle pendici della Maiella, dove il culto per la Vergine si diffuse velocemente. Ancora oggi nella prima domenica di settembre (quest’anno il 7) il paese in provincia dell’Aquila rende onore alla Madonna di Loreto, nel rispetto del culto di origine medievale. In occasione della festa, migliaia di persone invadono le strade del centro storico, ravvivate dalle bancarelle con i prodotti artigianali della tradizione locale. Al di là degli appuntamenti religiosi e laici, l’evento piú popolare è però la Corsa degli Zingari, una vera e propria prova di sofferenza fisica sospesa fra fede e folklore. Oggi nel dialetto pacentrano il termine zínghere si riferisce a chi cammina scalzo, mentre in epoca medievale indicava soprattutto gli indigenti e i debitori che non rispettavano i loro impegni, i quali venivano costretti dai creditori a correre nudi sulle pietre e additati al pubblico ludibrio. La competizione podistica mantiene anche un antico significato propiziatorio, coincidendo con la

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Due immagini della festa che ogni anno anima le vie di Pacentro, in Abruzzo. conclusione della stagione agricola e la partenza della transumanza pastorizia.

Dal bosco al fiume Nel giorno della festa, attorno alle 18,00, i partecipanti iniziano a salire dal bosco sottostante e si raggruppano nel luogo della partenza: la grande Pietra Spaccata situata lungo le pendici del colle Ardingo. Dopo il fragore dei fuochi artificiali, il via viene dato dalla campana della chiesa di S. Maria Maggiore. I coraggiosi atleti si lanciano giú per il sentiero in discesa, giungendo dopo un paio di minuti sul letto del fiume Vella, con i piedi già segnati dalle ferite prodotte dai rovi e dalle pietre aguzze. La successiva salita si snoda ripida tra due ali di folla: altri tre minuti di sofferenza fino al sagrato della chiesa parrocchiale, nella piazza principale di Pacentro, dove la corsa si conclude. Sfiniti, con i piedi gonfi, sanguinanti e doloranti, i concorrenti si prostrano poi di

fronte all’altare della Madonna, dove vengono soccorsi e medicati. Al vincitore va un premio in denaro e un prezioso pezzo di stoffa, il «Palio». Anticamente vincere la corsa aveva il valore di un riscatto sociale per i giovani delle classi meno abbienti e le origini della gara risalirebbero alla fine del Trecento, ovvero all’epoca dei Caldora, nobile famiglia di cui oggi a Pacentro resta il maestoso castello di forma trapezoidale, con torri a base quadrata negli angoli, svettante sull’intero paese. Tiziano Zaccaria agosto

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Lacrime miracolose appuntamenti • Il villaggio belga di Kalfort rende omaggio a una preziosa

reliquia (di cui oggi si conserva solo il ricordo) del pianto di Gesú Cristo

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alfort è un villaggio rurale belga di 2000 anime, situato in provincia di Anversa, nella regione del Brabante, noto per la storica produzione di asparagi e per la Processione Mariana che si tiene ogni anno, nella domenica successiva al 21 agosto (quest’anno il 24). Il corteo racconta quasi mille anni di storia del villaggio, rifacendosi all’antica venerazione di una reliquia delle lacrime di Cristo del XII secolo. La prima parte della Processione evoca la storia di Kalfort in una cinquantina di scene, animate da centinaia di comparse. La seconda parte è costruita invece intorno a una statua della Madonna retta da otto donne su una grande portantina, fra decine di ragazze in costumi colorati. Quest’anno, inoltre, verrà reso un doveroso

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omaggio alle vittime della prima guerra mondiale: Kalfort, infatti, venne semidistrutta nell’agosto 1914 dalle truppe tedesche durante la battaglia per la conquista di Anversa. La Processione Mariana è il cuore di un programma che, dal 21 al 30 agosto, prevede eventi laici e celebrazioni liturgiche. Venerdí 22, si comincia con una serata dedicata alla Madonna, con canti, musiche, testi e coreografie. Sabato 23, apertura dei riti religiosi, alle 17,00; domenica 24, alle 11,00, partenza della Processione.

La reliquia che guarisce Merita infine un approfondimento l’antica reliquia di Kalfort detta lacrymae Christi Salvatoris. Uno dei primi documenti che la menzionino risale al 1485 ed è il

Novale Sanctorum conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna. La provenienza del cimelio non è certa: alcuni storici sostengono che fosse stato portato da un nobile che rientrava dalle crociate, altri da un monaco dell’abbazia di Hemiksem o, piú semplicemente, da un anonimo pellegrino. Si credeva che esso avesse la proprietà di curare le malattie degli occhi, perciò numerosi pellegrini si recavano a piedi a Kalfort ogni anno. Ma quando scoppiarono le guerre di religione del XVI secolo, il convento e la cappella in cui erano conservate le «lacrime» furono dati alle fiamme e l’oggetto di culto andò distrutto. Piú tardi, nel Seicento a Kalfort fiorí una nuova devozione per una statua di Maria: era l’avvio della Processione attuale. T. Z.

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agenda del mese

Mostre milano IL GIARDINO DEL PARADISO U Museo Poldi Pezzoli fino al 1° settembre

La mostra celebra il ritorno nel museo, dopo un importante restauro, di una delle sue opere d’arte piú straordinarie: il tappeto persiano safavide del XVI secolo detto «delle tigri». L’esposizione presenta il contesto in cui fu realizzato il prestigioso tappeto, acquistato dallo stesso Gian Giacomo Poldi Pezzoli in un’asta privata nel 1855. Prodotto circa 450 anni fa nell’Iran centrale, il manufatto è uno dei rari esemplari oggi in Italia di tappeti creati per la corte reale

di Shah Tahmasp (sovrano della grande dinastia persiana safavide fra il 1525 e il 1576), ma soprattutto è uno dei due esemplari di questo periodo, presenti in musei italiani (ed entrambi nel Museo Poldi Pezzoli), a essere giunto ai giorni nostri completo in tutte le sue parti, nonostante i diversi interventi di restauro subiti nel

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a cura di Stefano Mammini

passato. info tel. 02 794889; museopoldipezzoli.it amsterdam Spedizione via della seta U Hermitage Amsterdam fino al 5 settembre

L’Hermitage di Amsterdam racconta la storia plurisecolare della Via della Seta attraverso una magnifica selezione di opere – pitture murali, sculture, sete, argenti, vetri, oreficerie e ceramiche – provenienti da San Pietroburgo e entrati nelle collezioni del museo russo grazie alle missioni archeologiche condotte tra il XIX e il XX secolo. Il percorso espositivo evoca gli itinerari seguiti dagli esploratori che si misero sulle tracce dei re, dei mercanti e dei monaci che batterono la grande carovaniera e cerca di restituire le atmosfere di quelle antiche spedizioni che non ebbero timore di attraversare terre spesso inospitali per assicurare un collegamento tra l’Oriente e l’Occidente. Merita d’essere segnalata l’esposizione di una grande pittura murale, lunga 9 m, che raffigura il combattimento tra una divinità e un gruppo di predoni: databile al VI-VIII secolo, proviene dal palazzo reale di Varakhsha (nell’odierno Uzbekistan) e mai prima d’ora aveva lasciato le sale dell’Hermitage di San Pietroburgo. info hermitage.nl

roma L’ARTE DEL COMANDO. L’EREDITÀ DI AUGUSTO U Museo dell’Ara Pacis fino al 7 settembre

L’arte di convogliare consenso intorno alla persona di Augusto e al tempo stesso esaltare i destini eroici di Roma fu perseguita con tale successo dall’imperatore da costituire un modello e una fonte di ispirazione nei secoli successivi, fino ai regimi assolutistici del XX secolo. Da questa considerazione prende le mosse questa mostra, che approfondisce le principali politiche culturali e di propaganda messe in atto da Augusto nel suo principato e replicate nei secoli per il loro carattere esemplare. Le 12 sezioni della mostra, articolate per temi ed epoche storiche differenti, illustrano in che modo imperatori come Carlo Magno, Federico II, Carlo V o Napoleone, per citarne solo alcuni, nel corso della storia abbiano reinterpretato «l’arte del comando» di Augusto a volte con formule molto vicine o identiche. info tel. 060608; arapacis.it, museiincomuneroma.it londra creare colore U The National Gallery fino al 7 settembre

La rassegna offre l’opportunità eccezionale di scoprire la vasta gamma di materiali utilizzati per

creare i colori nei dipinti e in altre opere d’arte. Attraverso i dipinti della stessa National Gallery e i prestiti dalle principali istituzioni culturali del Regno Unito, la mostra ripercorre la storia della creazione del colore nella pittura occidentale, dal Medioevo fino alla fine del XIX secolo. La mostra unisce il mondo dell’arte e della scienza per illustrare il modo in cui gli artisti hanno superato le difficoltà tecniche relative alla creazione del colore. «Creare colore» evidenzia i problemi materiali in cui gli artisti si sono imbattuti al momento di raggiungere i loro scopi pittorici, i progressi per cui si sono impegnati e le difficoltà che hanno incontrato volendo creare opere d’arte che fossero sia belle sia durature. info nationalgallery. org.uk Cividale del Friuli FORTINI ANTICHI ERANO ALL’INTORNO DI CIVIDALE U Museo Archeologico Nazionale

fino al 7 settembre Nata all’interno di un progetto volto a promuovere la

comunicazione delle ricerche avviate all’interno del ricco patrimonio di insediamenti fortificati di età medievale del Friuli nord-orientale, l’esposizione offre la possibilità di condividere i piú recenti studi attraverso l’esposizione di materiali conservati nello stesso museo cividalese o provenienti dai Civici Musei di Udine, dal Museo archeologico medievale di Attimis e dall’Antiquarium della Motta e Mostra del Fossile di Povoletto. info tel. 0432 700700 roma 1564-2014, Michelangelo. Incontrare un artista universale U Musei Capitolini fino al 14 settembre

Ideata in occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti, avvenuta proprio nella Capitale il 18 febbraio 1564, la mostra ripercorre la vita e l’opera del maestro. Una mostra che supera l’oggettiva impossibilità di esporre i capolavori «intrasportabili» realizzati da Michelangelo (gli affreschi della Sistina, fra tutti) con agosto

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mostre • Dall’Egitto dei Faraoni al Giappone dei Samurai attraverso il Medio Oriente islamico: recenti restauri del Settore Materiali Tessili dell’Opificio U Firenze – Opificio delle Pietre Dure

fino al 13 settembre info www.opificiodellepietredure.it

È

un viaggio nel tempo, che permette di esplorare mille anni di storia dell’arte tessile, quello proposto dall’OPD di Firenze: reliquie sacre trovano posto accanto a rari pezzi per uso quotidiano o per scopi militari provenienti da varie aree geografiche, incluse Toscana e Marche, in un itinerario che ripercorre il lavoro svolto negli ultimi anni dal prestigioso laboratorio di restauro, arricchito da immagini che illustrano l’intervento di conservazione a cui le opere sono state sottoposte. Tra i manufatti esposti, spicca un nucleo di reperti in fibre vegetali, appartenenti alla cultura egiziana, che comprende un sandalo infradito, una borsa per cementi e un cesto, dalla differente tipologia di intreccio. Luoghi lontani dove da secoli l’abilità di maestri specializzati dà vita a raffinati tessuti e accessori, come un velo e un cuscino in seta, lino e oro di provenienza mediorientale, rinvenuti nel reliquiario del Braccio destro di san Giovanni Battista, realizzato dall’orafo senese Francesco D’Antonio e conservato al museo dell’Opera di Siena. Conclude il percorso della mostra un singolare costume giapponese, chiamato Manchira, parte dell’armatura di un samurai, nobile guerriero di alto rango. L’indumento, composto da cinque strati in damasco bicolore blu e grigio, giuntati da un raffinato bordo in pelle blu e bianca decorato con iris stilizzati, tema caro ai samurai, che costituivano una classe colta, era destinato alla protezione del torace in battaglia oppure ad essere impiegato quale parte di una corazza da parata. Mila Lavorini

l’esposizione di opere che per la prima volta possono essere ammirate le une accanto alle altre. Questi capolavori, infatti, possono essere osservati, in molti casi per la prima volta, affiancati e contrapposti in uno straordinario compendio di una produzione artistica inarrivabile: dalla pittura alla scultura, dalla poesia all’architettura, le quattro arti in cui si espresse Michelangelo,

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che vengono raccontate in nove sezioni espositive, focalizzando cosí i temi cruciali della sua poetica. Un esempio su tutti è la presenza straordinaria del grande capolavoro del Michelangelo politico, il Bruto, che può essere ammirato accanto a precedenti busti classici, il Bruto in bronzo dai Musei Capitolini e il Caracalla dei Musei Vaticani, finalmente esposto in un diretto confronto con due opere che, in modi e circostanze diverse, ne ispirarono la realizzazione. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); museicapitolini.org norwich la meraviglia degli uccelli U Castle Museum fino al 14 settembre

Spaziando dalla preistoria all’età moderna, la mostra allestita nel castello di Norwich analizza il ruolo simbolico degli uccelli presso le piú importanti culture e civiltà della storia. Per farlo, sono stati scelti oggetti e opere

galleria, ricca e variopinta, attraverso la quale si dipana il filo conduttore che lega una scultura babilonese del 2000 a.C. al «ritratto» fotografico di un magnifico esemplare di allocco realizzato negli anni Trenta del Novecento in Gran Bretagna. In mezzo, c’è spazio per testimonianze d’ogni genere, tra cui non mancano materiali d’epoca medievale e rinascimentale, come un pregevole disegno di Andrea Mantegna. info www.museums. norfolk.gov.uk/ londra

d’arte che sono appunto la traduzione visiva e plastica della relazione stabilita dall’uomo con questa classe di animali. Ne scaturisce una

costruire l’immagine: l’architettura nella pittura rinascimentale italiana U National Gallery fino al 21 settembre

L’esposizione documenta e sottolinea l’importanza di alcuni dei piú riusciti dipinti d’ispirazione architettonica firmati da maestri italiani quali Duccio di Boninsegna, Botticelli o Carlo Crivelli e da artisti loro contemporanei. Si vuole indurre a guardare a queste opere con occhio diverso, per scoprire in che modo gli spazi fossero stati concepiti dai pittori e come essi avessero reso la concreta realtà delle materie da costruzione, come i mattoni, la calce o il marmo. L’intento è inoltre quello di sfatare il luogo comune secondo il quale l’architettura, all’interno dei quadri, fosse soltanto uno sfondo, passivo e subordinato alla preminenza delle figure.

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agenda del mese Le opere esposte dimostrano infatti quanto le composizioni potessero essere spesso imperniate sui motivi architettonici e come essi venissero studiati fin dal primo abbozzo. info nationalgallery. org.uk Torino TESORI DAL PORTOGALLO ARCHITETTURE IMMAGINARIE DAL MEDIOEVO AL BAROCCO U Palazzo Madama fino al 28 settembre

Grazie a opere provenienti da musei, chiese e raccolte private portoghesi, la mostra propone un viaggio alla scoperta della civiltà figurativa di una regione europea che, attraverso le sue esplorazioni e la sua

vasta rete commerciale, ha fatto da ponte con le culture del Nord Africa, delle Americhe e dell’Asia. Dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie, disegni e trattati illustrano come i principi dell’architettura abbiano, fin dal Medioevo, accompagnato l’ideazione e la creazione degli oggetti, esaltandone i valori estetici e decorativi e

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Chianciano Terme

sottolineandone i significati simbolici e sociali. info tel. 011 4433501; palazzomadamatorino.it

Petala aurea. Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla Collezione Rovati U Museo Civico Archeologico di Chianciano Terme fino al 28 settembre

Firenze JACOPO LIGOZZI «PITTORE UNIVERSALISSIMO» (VERONA 1547FIRENZE 1627) U Galleria Palatina fino al 28 settembre

Discendente da una famiglia di ricamatori milanesi e figlio del pittore Giovanni Ermanno, Jacopo Ligozzi nacque a Verona nel 1547 e lí svolse una iniziale attività, spostandosi però ben presto a Firenze, dove, nel 1577, è documentata la sua presenza presso la corte granducale di Francesco I e dove rimase stabilmente fino alla morte, nel 1627, impiantando una solida bottega. La mostra illustra per la prima volta in modo organico l’arco di attività dell’artista, mettendo in evidenza i diversi ambiti nei quali operò e la sua poliedrica e versatile fisionomia nel panorama fiorentino. Il percorso si articola in sezioni tematiche, a partire dai primi tempi presso la corte medicea, dalla quale Jacopo si fece apprezzare come disegnatore di naturalia e poi come ritrattista, ma anche sapiente regista di insiemi decorativi. Jacopo fu inoltre pittore di storia, con l’allestimento dei grandi dipinti su lavagna nel soffitto del Salone dei Cinquecento

in Palazzo Vecchio o ancora per gli apparati in occasione delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Ligozzi si distinse infine come sapiente e delicatissimo progettista di abiti e ricami per tessuti, nonché di manufatti in pietre dure. info tel. 055 2388614; unannoadarte.it Bologna Impressioni bizantine. Salonicco attraverso le immagini fotografiche e i disegni della British School at Athens (1888-1910) U Museo Civico Medievale fino al 28 settembre

Uno sguardo su Salonicco tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, con le inconfondibili prospettive su mura, chiese, mosaici, arredi marmorei bizantini: è quello che offrono le fotografie e le illustrazioni eseguite dagli architetti inglesi Robert Weir Schultz e Sidney Howard Barnsley, che visitarono la città greca nel 1888 e nel 1890 per motivi di studio, influenzati dal celebre movimento

artistico Arts and Crafts. Agli inizi del XX secolo il loro lavoro fu continuato dagli allievi inglesi Walter S. George e William Harvey, i quali, grazie alla collaborazione con le autorità turche e ai finanziamenti del Byzantine Research and Publication Fund, poterono arricchire notevolmente la documentazione già raccolta: l’insieme del materiale costituisce una sezione importante nell’archivio della BSA, per la prima volta mostrata al pubblico italiano. Il percorso espositivo si snoda attraverso i principali monumenti bizantini di Salonicco: l’arco di Galerio, la Rotonda, le chiese della Panagia Acheiropoietos, di S. Demetrio e di S. Sofia. Alle immagini fotografiche si accompagnano alcuni oggetti rari – bizantini e ottomani – delle collezioni dei Musei Civici di Bologna: avori, icone e manufatti in metallo. info tel. 051 2193930; comune.bologna.it/ iperbole/MuseiCivici

La mostra propone una raffinata selezione di croci d’ambito longobardo e lamine sagomate di cultura bizantina, prevalentemente databili al VI e VII secolo e realizzate attraverso la lavorazione di sottili lamine e foglie d’oro, quindi utilizzate per decorare manufatti in legno, osso o avorio (come cassette o reliquiari), in cuoio

(come cinture o borse) oppure tessuti (come abiti cerimoniali, coperte di uso liturgico, o infine sudari e veli funebri). Un repertorio iconografico che varia dai semplici motivi geometrici e vegetali, alle figure umane e animali, che perfettamente si raccorda alla collezione del museo e, in particolare, a un corredo funebre longobardo, fino a oggi conservato nei depositi, rinvenuto pochi anni fa agosto

MEDIOEVO


nel territorio di Chianciano Terme. info tel. 0578 30471; e-mail: museoetrusco@ libero.it; petala-aurea.org trento ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre

L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali. All’indomani di quel decreto, furono pubblicati numerosi trattati sulle arti figurative a soggetto sacro, sull’architettura dei luoghi di culto e sulla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la conseguente volontà di riportarla entro i

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parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; museodiocesano tridentino.it

Verona

Palladio), la committenza, i temi allegorici e mitologici, la religiosità, e infine le collaborazioni e la bottega, importanti fin dall’inizio del suo lavoro. Oltre a un’ampia scelta di capolavori dell’artista, la mostra comprende numerosi disegni di eccezionale qualità e varietà tematica e tecnica, con l’obiettivo di testimoniare il ruolo della progettazione e riflessione grafica non solo nel percorso creativo di Paolo ma anche nella dinamica produttiva del suo atelier. info tel. 045 8062611; e-mail: castelvecchio@ comune.verona.it; www.mostraveronese.it

Paolo Veronese. L’illusione della realtà U Palazzo della Gran Guardia fino al 5 ottobre

Mantova

L’arte di Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) torna nella sua città natale con una mostra dedicata alla sua figura e alla sua opera. In mostra sono esposte circa 100 opere, fra dipinti e disegni, provenienti dai piú prestigiosi musei italiani e internazionali. Si tratta della prima rassegna monografica di tale ampiezza in Italia e presenta Paolo Veronese attraverso 6 sezioni espositive: la formazione a Verona, i fondamentali rapporti dell’artista con l’architettura e gli architetti (da Michele Sanmicheli a Jacopo Sansovino ad Andrea

Attraverso reperti storico-artistici di varia natura, (icone, scrigni, reliquiari, manoscritti, statue, troni, sigilli, lastre tombali, codici miniati), l’esposizione illustra la questione templare innanzitutto come eredità storica, partendo dal contesto di questa epoca chiaroscurale sulla quale il visitatore può muoversi in un personale percorso di approfondimento e di scoperta. Il percorso dà particolare rilevanza a due elementi fondamentali della storia dei Templari: il fascino dell’Oriente e il processo contro il Tempio. info fondazionednart.it

Storia e Leggenda dei Cavalieri del Tempio U Fruttiere di Palazzo Te fino al 5 ottobre

cividale del friuli Il Crocifisso di Cividale e la scultura lignea nel Patriarcato di Aquileia al tempo di Pellegrino II (secoli XII e XIII) U Palazzo de Nordis fino al 12 ottobre

Trenta opere, alcune delle quali rarissime e mai esposte prima d’ora, accompagnano il visitatore in un viaggio alla scoperta degli esempi piú significativi di sculture lignee prodotte tra il XII e il XIII secolo nell’area altoadriatica. Simbolo della mostra è il maestoso Crocifisso ligneo tardo-romanico restaurato dalla Soprintendenza tra il 2005 e il 2012: un capolavoro prototipo per altri esemplari

diffusi nelle chiese del patriarcato aquileiese almeno fino dal Duecento. info tel. 0432703070; www.passepartout.coop Pratovecchio Stia Jacopo del Casentino e la pittura a Pratovecchio nel secolo di Giotto U Teatro degli Antei fino al 19 ottobre

Quattordicesima puntata della collana La città degli Uffizi, l’esposizione prende spunto dalla figura mitica del pittore Jacopo di Landino, che una consolidata tradizione vuole originario di Pratovecchio e che Giorgio Vasari identificava con quel Jacopo del Casentino, contemporaneo di Giotto, di cui la Galleria degli Uffizi possiede l’unica opera firmata, il piccolo trittico donato da Guido Cagnola al museo nel 1947. info tel. 055 294883; pratovecchiocitta degliuffizi.it

Leida Medioevo dorato U Rijksmuseum van Oudheden fino al 26 ottobre

Come si viveva ai tempi dei sovrani merovingi (400-700 d.C.), cioè dopo la caduta dell’impero romano e prima dell’ascesa di Carlo Magno? Che non siano stati «secoli bui» è un dato ormai acquisito e, a ulteriore riprova, il Museo di Antichità di Leida presenta una spettacolare selezione di reperti, provenienti perlopiú da necropoli e comprendenti, tra gli altri, oreficerie, manufatti in vetro e armi. Oggetti di pregio, che sono però funzionali alla ricostruzione del contesto nel quale vennero fabbricati e utilizzati e dunque permettono di fare luce sul modus vivendi, sul sentimento religioso e

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agenda del mese sulle attività produttive e commerciali delle genti a cui vanno ascritti. Un panorama che dunque giustifica l’«età dell’oro» evocata dal titolo della mostra. info rmo.nl fiesole Fiesole e i Longobardi U Museo Civico Archeologico fino al 31 ottobre

Fibule, aghi crinali, raffinati manufatti in vetro, gioielli, ma soprattutto armi: spade, cupidi di lance, coltelli e punte di freccia. E poi ornamenti di cinture, vasellame e utensili vari. Questi i reperti, in buona parte mai esposti al pubblico, della mostra allestita nelle sale del Museo Archeologico di Fiesole. Il percorso presenta una sessantina di reperti databili fra gli ultimi decenni del VI e tutto il VII secolo, che sono stati rinvenuti in contesti di sepolture, le cui prime scoperte risalgono alla fine dell’Ottocento. Fra questi si annoverano le crocette, esempio di tecnica orafa, i raffinati calici in vetro soffiato e l’umbone di scudo riccamente decorato. Di

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particolare suggestione sono poi le ricostruzioni delle tombe. Quattro quelle esposte e relative a un guerriero, una donna d’alto lignaggio, un maestro d’ascia e una bambina. All’interno del percorso della mostra sono presenti anche due manichini con ricostruzioni di personaggi in costume longobardo. info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@comune. fiesole.fi.it. firenze SACRI SPLENDORI. IL TESORO DELLA «CAPPELLA DELLE RELIQUIE» IN PALAZZO PITTI U Museo degli Argenti fino al 2 novembre

Nel 1616 veniva consacrata la «Cappella delle Reliquie» in Palazzo Pitti, luogo simbolo della devozione delle granduchesse di Toscana e degli ultimi granduchi della famiglia Medici. Costruita da Cosimo I negli anni Sessanta del Cinquecento, la cappella, a pianta ottagonale, dal 1610 fu oggetto di importanti lavori di abbellimento voluti dall’arciduchessa d’Austria e

granduchessa di Toscana Maria Maddalena d’Asburgo, moglie di Cosimo II de’ Medici, per custodirvi i reliquiari preziosi che costituivano una parte importante delle sue collezioni. Altrettanto decisivo fu il ruolo di Cristina di Lorena, suocera di Maria Maddalena, alla quale si deve la creazione del primo, cospicuo nucleo di reliquiari confluito poi alla sua morte nella raccolta della nuora. Uno straordinario insieme di opere che fu accresciuto ulteriormente dalla granduchessa Vittoria della Rovere e da suo figlio, il granduca Cosimo III, diventando uno dei piú vasti tesori sacri d’Europa. Attraverso un minuzioso lavoro di archivio la mostra restituisce un’immagine di queste preziosissime collezioni, testimonianza della profonda devozione della famiglia granducale e al contempo simbolo di prestigio e di magnificenza, fonte di denaro e coagulo di identità collettiva. info tel. 055 2388709; unannoadarte.it

Bath Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre

Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterono tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org

Nel Medioevo, il possesso di resti mortali appartenenti a una persona venerata, oppure un qualsiasi oggetto che con essa aveva avuto una connessione, diretta o indiretta, rappresentava un tesoro. Resti che per secoli sono stati accuratamente preservati, spesso avvolti in materiali sontuosi che, nel tempo, sono diventati essi stessi reliquie, essendo venuti a contatto proprio con il corpo che proteggevano e adornavano. L’AbeggStiftung di Riggisberg, in Svizzera, istituto specializzato nel restauro e conservazione di tessili antichi, espone un’ampia selezione di queste preziose stoffe. Protagonista dell’evento è san Gottardo, vescovo tedesco, morto nel 1038. Al momento della canonizzazione, avvenuta quasi un secolo dopo, la sua tomba nella cattedrale di Hildesheim fu aperta e il contenuto trasferito in una teca dorata, tempestata di gemme, dischiusa nel 2009 per intenti conservativi. I diversi involucri portati alla luce in quell’occasione, che racchiudevano frammenti tessili e ossei, insieme a terra e sabbia, sono ora esposti per la prima volta. info abegg-stiftung.ch

Riggisberg Velo e ornamento: i tessuti medievali e il culto delle reliquie U Abegg-Stiftung fino al 9 novembre

Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo

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MEDIOEVO


di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe.

La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it

info antikenmuseumbasel.ch

Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella neoclassica e permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro

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fabriano Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», S. Agostino-Cappelle Giottesche, S. DomenicoCappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce fino al 30 novembre

Oltre 100 opere – dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie, miniature, manoscritti, codici – descrivono il contesto culturale nel quale si inscrive il progetto espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. La vicinanza con Assisi e i ripetuti soggiorni di san Francesco contribuirono ad animare una vivace realtà di fede che si avvalse della pittura come di un efficace strumento propagandistico ed educativo. Sul finire del XIII secolo, quando sui ponteggi della Basilica Superiore si affermava un nuovo eloquio pittorico compiutamente occidentale, l’influsso giottesco si propaga anche attraverso i

valichi appenninici fino a Fabriano. L’obiettivo dell’operazione è quello di ritessere la trama di questo complesso periodo, ricco di testimonianze affascinanti, ma note solo o soprattutto agli studiosi e agli appassionati d’arte, al fine di permettere, pur con un approccio di approfondimento, un’ampia divulgazione rivolta a un «pubblico» piú vasto ed eterogeneo. Mentre per gli studiosi e gli addetti ai lavori i confronti proposti dalla mostra fra Giotto, Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi e gli affreschi e le tavole dipinte dagli artisti locali, offriranno lo spunto per elaborare una nuova e piú articolata visione delle vicende della pittura italiana del XIV secolo. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. info mostrafabriano.it

medievale di tre dei piú famosi castelli federiciani. Gli scettri, gli scudi, le lance di luce, le stele, le sfere di Pomodoro, originali declinazioni contemporanee di emblemi antichi, articolano un dialogo ideale con questi luoghi carichi di storia, simbolo dello straordinario connubio di potere e cultura espresso dallo Stupor Mundi. info Bari, tel. 080 5213704; Castel del Monte, tel. 0883 569997; Trani, tel. 080 5286239 ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Appuntamenti fossanova (priverno, lt) festa nova U Borgo e abbazia 9-13 agosto

Durante le cinque giornate della

Le opere di Arnaldo Pomodoro vengono eccezionalmente inserite nella cornice

1274, spirava in questo luogo san Tommaso d’Aquino, uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica, alla cui figura è dedicata anche una tavola totonda. info www.italiamedievale.org

Sarzana Festival della Mente XI edizione 29-31 agosto 2014

bari, castel del monte, trani Arnaldo Pomodoro nei Castelli di Federico II U Castello Svevo di Bari, Castel del Monte, Castello Svevo di Trani fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni dopo, il progetto CEC, Cradles of European Culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename

manifestazione, dalle 18,00 all’1,00, il borgo e l’abbazia di Fossanova tornano alle atmosfere del XIII secolo, al tempo in cui, la mattina del 7 marzo

Attraverso 39 incontri, il Festival della Mente si propone di esplorare la nascita e lo sviluppo dei processi creativi, le trasformazioni in corso nel mondo giovanile, la relazione fra le generazioni e altri temi di attualità sociale e scientifica. Per tre

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agenda del mese giornate scienziati, scrittori, artisti, fotografi, designer, filosofi, psicologi, storici indagheranno i cambiamenti, le energie e le speranze della società di oggi, rivolgendosi con un linguaggio accessibile al pubblico ampio, vario e affezionato che è stato negli ultimi dieci anni la vera anima della rassegna. Tra le novità del 2014, la prima edizione di parallelaMente, un festival off che si svolgerà dal 26 al 31 agosto nelle strade di Sarzana e che vedrà come protagonisti artisti e associazioni culturali del territorio. info festivaldellamente.it Modena, Carpi, Sassuolo FESTIVALFILOSOFIA 2014: DALLA GLORIA ALLA CELEBRITÀ 12-14 settembre

Un termine apparentemente desueto, «gloria», si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità. In 40 luoghi di Modena, Carpi la XIV edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture,

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giochi per bambini e cene filosofiche. Quasi 200 appuntamenti, tutti gratuiti. info tel.059 2033382; festivalfilosofia.it Camogli FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE I edizione 12-14 settembre

Il festival si propone come appuntamento annuale di riflessione e confronto su un tema oggi di estrema attualità e importanza: la comunicazione, che, intesa nell’accezione di trasmissione di messaggi, sarà oggetto di approfondimento in tutti i suoi aspetti culturali, mediatici e tecnologici. In programma conferenze,

mostre, workshop, spettacoli ed escursioni e oltre 60 ospiti per rispondere a interrogativi quali: quando e come cambieranno i modi di inoltrare messaggi e di interagire con gli altri? Quale sarà l’evoluzione dei media? Quali sono le possibilità che la tecnologia ci offre e quali le nuove strade che ci si aprono? Tra i relatori di questa I edizione del festival, Salvatore Settis. info festivalcomunicazione.it

Castelvetro di modena dama vivente 13-14 settembre

Nel borgo medievale di Castelvetro di Modena, sulla piazza centrale a forma di scacchiera, ogni anno si gioca una partita a dama fra pedine viventi vestite in costumi rinascimentali. A corollario dell’evento, centrale si sviluppa la vita di un castello cinquecentesco, con nobili, dame, cavalieri, armigeri, popolani, saltimbanchi, giocolieri e musici. La storia narra che il famoso poeta Torquato Tasso soggiornò a Castelvetro

e, inebriato dal suo dolce paesaggio, sarebbe stato ispirato a comporre Erminia fra i pastori, uno dei brani piú suggestivi della Gerusalemme Liberata. info damavivente. synthasite.com Siena DIVINA BELLEZZA, scopertura del Pavimento del Duomo fino al 27 ottobre (dal 18 agosto)

Corso il Palio dell’Assunta, la cattedrale senese scopre il suo pavimento a commesso marmoreo straordinario, unico, non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla Sapienza. Abitualmente, il prezioso tappeto di marmo è protetto dal calpestio dei visitatori e dei numerosi fedeli. info operalaboratori.com Siena Esposizione della Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti U Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre

Tempera su tavola realizzata da Ambrogio Lorenzetti intorno al 1340, la Madonna del Latte può essere considerata come il paradigma iconografico di questo soggetto. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica

della Madonna del Latte. Durante il periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di Cecco nel Museo dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; operaduomo.siena.it firenze Esposizione straordinaria di tre profeti di Donatello U Battistero di S. Giovanni fino al 30 novembre

Il Battistero fiorentino ospita eccezionalmente tre grandi sculture di Donatello: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto o pensieroso e il Profeta Geremia, scolpiti nel marmo dal maestro tra il 1415 e il 1436, e facenti parte delle sedici figure commissionate a piú artisti dall’Opera di S. Maria del Fiore per ornare il Campanile di Giotto tra il 1330 e il 1430. L’esposizione delle tre statue è resa possibile dalla chiusura temporanea del Museo dell’Opera del Duomo, dove le sculture sono conservate, che riaprirà al pubblico nell’autunno 2015 rinnovato e raddoppiato negli spazi espositivi. info operaduomo.firenze.it agosto

MEDIOEVO



In Toscana, nel Medioevo, esisteva una spada conficcata nella roccia che nessuno fu in grado di estrarre. La misteriosa arma, oggi custodita in una chiesa nei pressi di Siena, apparteneva a Galgano Guidotti,

Il mistero di san Galgano

di Furio Cappelli

un valoroso soldato di Cristo vissuto nel XII secolo. La reale e avventurosa biografia del cavaliere – e futuro santo – consente solo in parte di svelare le chiavi di un enigma che presenta singolari affinità con il mito di re Artú…


misteri san galgano

N

el cuore della Val di Merse, in territorio senese, c’è un luogo in cui sogno e realtà sembrano appartenere alla stessa dimensione. In un paesaggio silente, con vasti campi punteggiati da modeste alture, si conservano due testimonianze sorprendenti di un Medioevo a tutto tondo, che offre cosí, in un colpo solo, una summa di tutte le sue suggestioni. Da un lato c’è Montesiepi, un poggio dal placido declivio, e lassú emerge la chiesa rotonda consacrata al nobile eremita san Galgano. Essa è il luogo della sua sepoltura, e custodisce la spada che Galgano in persona avrebbe confitto nella roccia all’atto della fondazione dell’eremo. Nella pianura sottostante, nel mezzo di una distesa di campi, si staglia invece la potente abbazia che i Cistercensi realizzarono proprio in onore di Galgano.

Un’atmosfera epica

Sembra che ci sia tutto l’occorrente per evocare appieno le atmosfere dell’epoca: un territorio lontano dal brusio della città, che può ben rivestire il ruolo della landa selvaggia, tipico scenario nel quale si muovono i cavalieri dei racconti epici, laddove campi coltivati e paludi sono circondati da fitti boschi; l’eremo abbarbicato su un colle con la sua piccola chiesa; la grande abbazia che appare d’incanto sul fondovalle; il vicino castello di Chiusdino, tipico centro abitato fortificato, arroccato su un punto d’altura ben difendibile, e pomo di discordia tra le città di Siena e di Volterra, che a lungo si contesero il dominio dell’area. Unisce in un solo tratto ogni elemento del quadro la figura stessa di san Galgano, nobile cavaliere di Chiusdino, divenuto eremita a Montesiepi, lí sepolto ed elevato agli altari. A lui sarebbe stata poi intitolata l’abbazia cistercense, ben presto legata alla vigorosa realtà della illustre Siena, in apparenza estranea a un angolo di mondo che ci piace immaginare

MEDIOEVO

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esclusivamente dominato da monaci e da cavalieri. E proprio il culto di Galgano venne fatto proprio dalla repubblica senese, tanto che il santo entrò a far parte del pantheon dei protettori della città, e la sua testa è tuttora conservata a Siena, racchiusa in un fastoso reliquiario istoriato, opera dell’orafo Pace di Valentino (1270-78).

L’eremo e l’abbazia

Mentre la rotonda di Montesiepi era il fulcro di un eremo, in pianura si sviluppò dunque un’istituzione di tutt’altro respiro, assai ben connessa con il vivo dell’economia e della società cittadina. Eppure la sua gotica chiesa, oggi scoperchiata e dal pavimento ricoperto d’erba, finisce inevitabilmente per essere intrisa di un’aura romantica. La piccola rotonda e la grande abbazia, unite dal culto di san Galgano, erano realtà diverse, che rispondevano a diverse motivazioni, tanto che, come vedremo, la nascita del nuovo, vasto complesso dovette scontrarsi con le perplessità, se non con le resistenze della prima comunità religiosa insediatasi a Montesiepi. Ma oggi questa contrapposizione sembra d’incanto svanita. La chiesa monumentale in rovina, immersa nel silenzio dei campi, fa da scenario e da ideale contrappunto alla rotonda che custodisce la spada, e fa di quest’angolo della Toscana un corrispettivo della «celtica» Glastonbury, nel cuore dell’Inghilterra, i ruderi della cui grande chiesa abbaziale gotica Nella pagina accanto il cielo inquadrato dalle murature della chiesa, oggi scoperchiata, di S. Galgano, presso Montesiepi (Siena). A destra l’elsa della spada che, secondo la tradizione, Galgano avrebbe conficcato nella roccia (vedi anche a p. 37).

– immersi anche lí in una natura amena e solitaria –, si ergono a custodire la memoria di re Artú di Bretagna. In quel luogo doveva situarsi la mitica isola di Avalon in cui fu sepolto. Infatti, la spada tuttora custodita a Montesiepi evoca facilmente l’accostamento con la mitica Excalibur, il ferro estratto dalla roccia da Artú in persona. Diversi sono i protagonisti, diverse sono le circostanze, ma il ruolo magico e simbolico della spada corrisponde in modo davvero straordinario. Galgano conficca la spada nel momento in cui abbandona il mondo, e la trasforma cosí in una croce che nessuno è capace di strappar via dal terreno.


Galgano e Guglielmo

Cavalieri, eremiti e il mito di Artú In molte biografie di san Galgano, compresa la Vita Sancti Galgani de Senis, si accenna ai contatti che il santo di Chiusdino avrebbe avuto con l’eremo di S. Guglielmo di Malavalle (Castiglione della Pescaia, Grosseto). Alcune ipotizzano persino una sorta di paternità guglielmita nella conversione dell’eremita chiusdinese. Molte sono le affinità tra i due personaggi: entrambi furono cavalieri, entrambi decisero di abbandonare la milizia terrena per votarsi alla vita eremitica, ma ciò che rende singolare questo legame è il rapporto con la materia arturiana. Infatti, se san Galgano infigge la spada nella roccia, con gesto simile, ma inverso rispetto a quello di Artú che la estrae, Guglielmo, secondo una tradizione popolare molto consolidata nei comuni di cui il santo è patrono – Castiglione della Pescaia, Tirli, Buriano e Vetulonia –, sarebbe in realtà Guglielmo X d’Aquitania, padre di Eleonora alla cui corte operò Chrétien

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de Troyes, l’autore de Le Roman de Perceval ou le conte du Graal nel quale compare per la prima volta il Santo Graal. Comparso come per magia sui monti intorno a Castiglione della Pescaia, san Guglielmo aveva ucciso due draghi, operato qualche miracolo per ritirarsi infine a vita eremitica a Malavalle. Qui era vissuto fino alla morte, avvenuta nel 1157, quando Galgano avrebbe avuto solo nove anni, e, sempre qui, nel luogo in cui venne sepolto, era stato eretto un monastero per opera della comunità di suoi fedeli che dette vita all’ordine dei Guglielmiti, divenuto ben presto diffuso e potente in tutta Europa. Le fonti ci raccontano che Guglielmo X duca d’Aquitania morí nel 1137, mentre stava recandosi in pellegrinaggio a Compostela, ma nessuno ne vide mai la salma e la notizia della sua morte venne diffusa solo dagli uomini che lo agosto

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L’interno della monumentale chiesa abbaziale di S. Galgano, realizzata a partire dal 1218 da monaci cistercensi, nella piana che si estende ai piedi dell’eremo di Montesiepi fondato dal santo cavaliere, morto nel 1181.

Artú, invece, seguendo una delle piú antiche versioni della sua storia, viene consacrato re dopo aver estratto per quattro volte una spada conficcata in un’incudine, misurandosi cosí con una prova che nessun prode era stato capace di compiere. Ed è proprio la consistenza storica di Galgano a fare della sua Avalon (la rotonda di Montesiepi) una realtà senza pari. Quale che sia il suo possibile corrispettivo nelle effettive vicende dell’Inghilterra antica, Artú, infatti, resta in sostanza un personaggio leggendario, come leggendari sono il luogo della sua sepoltura e quelle reliquie, sue e della consorte Ginevra, che i monaci di Glastonbury pretesero di aver riscoperto.

Leggende e realtà

Al contrario, sul conto di Galgano tutto è verificabile e tangibile. Ci troviamo di fronte a un personaggio con una sua concretezza storica. A voler essere scettici, anche se non fosse sua la testa conservata nel reliquiario senese, non abbiamo dubbi su dove si trovasse la sua tomba. Quella spada, poi, conficcata proprio sul luogo dell’antica sepoltura, se non è proprio la stessa

accompagnavano. Di fatto egli scompare, lasciando la figlia Eleonora unica erede del suo vastissimo dominio. Il santo di Malavalle appare in Maremma alcuni anni dopo questi avvenimenti. Niente può confermare che si tratti della stessa persona, ma la tentazione di accreditare questa tesi è forte. Ne fa menzione, per la prima volta, Teobaldo di Canterbury nella Vita S. Guilelmi, scritta dopo il 1210. Una volta l’anno i fedeli, con il vescovo di Grosseto in testa, salgono in processione ai ruderi del monastero di S. Guglielmo e, in questa occasione, avviene anche l’ostensione delle sue reliquie. A Buriano è conservato un braccio, a Vetulonia un dito, a Tirli cranio e costole, a Castiglione della Pescaia l’altro braccio e le gambe. I ruderi imponenti del monastero rendono l’idea di un edificio di notevoli dimensioni, di cui solo la chiesetta è, almeno in parte, conservata. È situata lungo il lato meridionale del monastero e,

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sebbene in buona parte interrata, è tuttora agibile. Risale alla prima metà del XIII secolo e ha una semplice pianta ad aula chiusa da un abside semicircolare. Solo la porta attraverso la quale era possibile raggiungere il chiostro mantiene il suo aspetto originale. Nel 1782, in seguito a un accordo tra il Granduca Leopoldo e gli agostiniani, il convento di San Guglielmo fu soppresso e le sue rendite vennero assegnate al convento di Massa Marittima. Una decina di anni fa, indagini scientifiche eseguite sulle reliquie di san Guglielmo, compresa quella del DNA mitocondriale, non hanno potuto confermare del tutto l’ipotesi sulla presunta identità del santo, ma la sua origine nordica (della Francia sud-occidentale e piú precisamente guascone, come vorrebbero le storie che di lui si raccontano) appare fortemente probabile. Maurizio Calí

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misteri san galgano che compare nel racconto della sua vita, ne «impersona» splendidamente il ruolo. Quanto a Excalibur, la sua «gemella» dei racconti epici, dobbiamo invece affidarci esclusivamente all’immaginazione. Possiamo anche divertirci a credere che sia esistita davvero, ma di essa non c’è traccia. Galgano Guidotti nacque intorno al 1150 nel castello di Chiusdino, all’epoca annoverato tra le giurisdizioni del vescovo di Volterra. Poco sappiamo sulle esperienze che precedettero la sua vocazione. Era di sicuro un cavaliere (miles) e apparteneva a quella piccola nobiltà terriera fedele al presule di Volterra, chiamata all’occorrenza a difendere con le armi i privilegi che egli vantava su questa zona, a lungo contesa con i feudatari piú potenti e poi con la città stessa di Siena. In particolare, i preziosi giacimenti d’argento situati nella vicina zona di Montieri (Grosseto) costituivano una realtà che tutti erano bramosi di controllare. Galgano ambiva al ruolo di cavaliere, e cavaliere era stato il suo defunto padre Guidotto. In età matura, mentre ancora viveva nella sua casa d’origine, a fianco della madre Dionigia, gli comparve in sogno l’arcangelo Michele, il patrono dei guerrieri già venerato dagli stessi Longobardi. L’arcangelo

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A destra cartina della Toscana, con l’ubicazione dell’abbazia di S. Galgano. In basso veduta dell’eremo di Montesiepi, la sede monastica piú antica. La Rotonda, costruita intorno al 1183 dal vescovo Ugo da Volterra nel luogo eletto da san Galgano per ritirarsi a vita eremitica, custodisce, al suo interno, la spada, conficcata in una roccia.

Bologna EMILIA-ROMAGNA LIGURIA

La Spezia

Carrara Massa

Pistoia

MAR

Lucca

LIGURE

Pisa Livorno Arezzo Siena

Isola di Capraia

Lago Trasimeno

MONTESIEPI

Perugia

Arcipelago Isola d’Elba

UMBRIA

To s c a n o

MAR TIRRENO

si rivolse a Dionigia affinché il figlio lasciasse il mondo e si mettesse al suo servizio, scegliendo la via della militia Christi.

L’arcangelo in persona

Galgano, insomma, doveva essere investito cavaliere dal Signore in persona. Dionigia, nel sogno, dette ben volentieri il proprio assenso. Non appena destatosi, Galgano corse dalla madre e le raccontò l’apparizione. Dionigia fu ben lieta,

Viterbo

Isola del Giglio

LAZIO

poiché il defunto padre di Galgano era assai devoto a san Michele, e, secondo la propria interpretazione, il sogno stava a indicare che sia lei che il figlio avevano ereditato la protezione e la benevolenza dell’arcangelo guerriero. Tutto, insomma, sembrò finire lí, ma molto tempo dopo l’arcangelo tornò in scena, e fece capire a Galgano che si trovava in un momento cruciale della sua esistenza. Era stato investito cavaliere, ma

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San Galgano offre la spada nella roccia all’arcangelo Michele, particolare degli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti nella cappelletta laterale aggiunta alla Rotonda di Montesiepi. 1340 circa.

non bastava. Doveva compiere la sua scelta risolutiva, senza alcun tentennamento. Il richiamo alla militia Christi non ammetteva piú alcuna deroga. Se san Michele in persona si era disturbato ad apparire in sogno e a parlamentare con sua madre, anni prima, non era stato per accordare semplicemente la propria protezione. Questa volta, infatti, Galgano non è lo spettatore di un breve sogno, ma è protagonista di un’articolata visione che lo proietta d’incanto nell’aldilà, per poi farlo tornare nel mondo dei vivi. Piombato in una sorta di trance estatica, viene condotto dall’arcangelo fino a un ponte malsicuro che scavalca un fiume assai insidioso, corredato

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da un mulino che sta a raffigurare il flusso continuo e indistinto delle cose terrene. Attraversato questo difficile passaggio, Galgano si ritrova dapprima in un incantevole, smisurato prato fiorito, e poi sprofondato in una sorta di pozzo senza fine; ben presto, però, riemerge, proprio in cima al colle di Montesiepi.

La cerchia degli Apostoli

Lí lo attendono i dodici Apostoli, disposti in cerchio all’interno di una casa rotonda, che lo invitano ad accomodarsi in mezzo a loro. Provano a guidarlo, sottoponendo alla sua attenzione un testo sacro, ma Galgano rinuncia alla lettura, come se non fosse in grado di penetrare fino in fondo il senso della sua esperienza. Lo soccorre allora un’immagine, che lo illumina e lo avvince: proprio sopra di lui compare una scultura che raffigura il Cristo in maestà, seduto sul trono. Galgano percepisce

che la sua vita deve andare in quella direzione. A tal fine, gli Apostoli dettano precise istruzioni: là dove è stato accolto, il cavaliere dovrà costruire una casa rotonda da intitolare alla Madonna, agli stessi Apostoli e a san Michele Arcangelo. Galgano dovrà poi vivere per parecchi anni in quel luogo. Ridestatosi dopo questa ennesima, sconvolgente esperienza, Galgano è subito preso dall’irrequietezza. Deve a ogni costo mettere in pratica ciò che gli Apostoli gli hanno ingiunto. Chiede lumi a taluni religiosi per meglio comprendere i contenuti della sua visione. Cerca di coinvolgere alcuni amici affinché gli diano un sostegno economico per la realizzazione della casa, ma questi, per tutta risposta, pensano che lui voglia truffarli: «Se vuoi mettere assieme un gruzzolo con l’inganno, vattene in Terra Santa» (gli dicono infatti di andare ultra mare, dall’al-

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misteri san galgano tra parte del Mediterraneo: con tutta probabilità, una triste allusione alla crociata come occasione di facile bottino per un cavaliere avido e senza scrupoli). Anche la madre Dionigia non presta attenzione a Galgano. Quando il cavaliere tenta di coinvolgerla nell’impresa, invitandola ad accompagnarlo a Montesiepi con un gruppo di muratori al seguito, la donna accampa tutta una serie di impedimenti: «Fa troppo freddo, la fame è tanta, il luogo è quasi inaccessibile: in che modo andremo là?». Il destino, finalmente, si compie tempo dopo. Galgano si sta recando al castello di Civitella (dove, secondo una fonte agiografica cinquecentesca, viveva Polissena, la sua promessa sposa; la fanciulla compare già in una tavola quattrocentesca di Andrea di Bartolo, nella scena in cui è inutilmente condotta a Montesiepi dai parenti di Galgano, per indurre l’eremita a recedere dalle sue scelte).

Un cavallo bizzoso

Durante il cammino, il cavallo si impunta, rifiutandosi di procedere oltre un certo punto. Galgano decide allora di tornare indietro e di pernottare presso una pieve, per riprendere il cammino l’indomani. Ma la mattina seguente il cavallo si arresta nuovamente, nello stesso punto. Non potendo far altro, Galgano si affida all’animale, lasciandolo andare a briglia sciolta, e viene cosí condotto proprio a Montesiepi. Smontato da cavallo, il sogno finalmente si realizza. Galgano si insedia in cima al colle e fonda il suo eremo. Il momento è siglato proprio dalla spada confitta nel terreno (solo nelle biografie piú tarde si specifica che l’arma fu piantata nella roccia, cosí come si presenta tuttora la spada della rotonda di Montesiepi). In mancanza di un’adeguata croce di legno, che Galgano non era riuscito a fabbricare, l’incrocio tra il pomo e l’elsa dell’arma fungeva infatti da perfetto emblema del Signore. Il gesto, poi, rappresenta-

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va in modo efficacissimo il trapasso dalla militia terrena alla militia di Cristo: la spada non veniva abbandonata o rinnegata, ma veniva offerta in onore di colui che aveva guidato Galgano fin lí, apparendo in maestà davanti ai suoi occhi, durante la visione della casa degli Apostoli.

Prove di santità

Questo racconto è condotto su un prezioso documento tramandatoci da una fonte cinquecentesca, ma che fu steso probabilmente nel 1185, pochi anni dopo la morte dell’eremita, avvenuta il 30 novembre 1181. Si tratta della indagine (inquisitio) svolta su Galgano con l’apporto della viva voce di alcuni testimoni, a partire dalla stessa madre, Dionigia. Il dossier, redatto da una commissione appositamente stabilita, era finalizzato a dimostrare la santità del cavaliere eremita. Ci troviamo quindi di fronte a un vero e proprio processo di canonizzazione, il primo in assoluto di cui sia rimasta testimonianza. Fino a quest’epoca, infatti, i culti locali venivano promossi motu proprio dai vescovi, senza interessare le autorità centrali e senza produrre atti di valore giuridico. Per dare autorità alla memoria di un santo, era solitamente sufficiente fornire un racconto della sua vita, secondo le norme di quella letteratura agiografica che ebbe un enorme sviluppo in tutto il Medioevo. Soprattutto se il santo era vissuto secoli prima, nel presentarne la figura era inevitabile basarsi su immagini e situazioni ricorrenti e su sviluppi narrativi di pura fantasia. La particolarità del caso di Galgano è data dal fatto che i primi atti che lo riguardano sono stati redatti «in tempo reale» e con l’apporto diretto di chi ebbe effettivamente modo di conoscerlo. Già a ridosso della morte di Galgano, il pio vescovo Ugo di Volterra (1171-1184) intraprese una raccolta di testimonianze per favorirne la canonizzazione, e sempre su suo

impulso venne realizzata la chiesa rotonda in muratura che possiamo oggi ammirare a Montesiepi. Il successore Ildebrando Pannocchieschi (1185-1211) era esponente di una potente famiglia aristocratica di fedele orientamento filoimperiale, tanto che il vescovo Galgano, membro anch’egli dei Pannocchieschi, era stato ucciso nel 1168-69 a furor di popolo per la sua ostilità nei confronti del legittimo papa Alessandro III (1159-1181). Uomo risoluto e accorto, Ildebrando avviò una politica di rafforzamento del potere giurisdizionale dell’episcopato di Volterra, minato sul fronte cittadino dall’emergere della borghesia, e, nel contesto territoriale, dalle spinte propulsive della potente città di Siena. Al fine di rafforzare la sua autorità e il suo carisma, pensò bene di proseguire l’impegno profuso dal predecessore Ugo nel promuovere il culto di Galgano. L’eremita, da poco spirato, godeva infatti di una popolarità enorme. La festa a lui dedicata, culminava nell’ostensione della sua testa dai capelli rilucenti, miracolosamente ben conservata, senza evidenti segni di putrefazione, ed era un avvenimento di richiamo non solo per la gente del circondario. L’afflusso delle persone era favorito dalla collocazione di Montesiepi sulla direttrice della via Maremmana, un asse molto frequentato che si riconnetteva, peraltro, alla trama della via Francigena o Romea.

Morte agli invidiosi

Molti pellegrini erano attratti proprio dalla sacra spada. Tutti sapevano che il Signore in persona aveva fornito l’arma di magici poteri, impedendo a chiunque di poterla estrarre dal terreno. Si raccontava che, quando era ancora in vita Galgano, alcuni ignobili malfattori, mossi dall’invidia, approfittarono di una sua temporanea assenza, e, non riuscendo a estrarre l’arma, la ridussero in pezzi. Ma, grazie all’intervento del Signore, Galgano potè nuovamente conficcare la agosto

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A destra la Rotonda di Montesiepi, preceduta da un atrio con arco a tutto sesto, su cui svetta il piccolo campanile a vela. Qui sotto l’interno dell’edificio in cui, al centro del pavimento, si trova la spada (in basso, a destra), conficcata nella roccia da san Galgano a siglare la fondazione dell’eremo e il suo passaggio dalla milizia terrena alla «militia Christi».

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misteri san galgano nascita di un culto 1181, 30 novembre Morte di san Galgano. A sinistra San Galgano, pannello 1184 Morte del vescovo Ugo di della cosiddetta Volterra, in odore di santità, Arliquiera, armadio immediato promotore del culto che custodiva le di san Galgano e committente reliquie, realizzato della rotonda. Gli succede da Lorenzo di Ildebrando Pannocchieschi. Pietro detto il 1185 L’imperatore Federico Vecchietta. Barbarossa visita l’eremo di 1445 circa. Montesiepi e lo pone sotto la Siena, Pinacoteca propria protezione. Tra il 4 e Nazionale. l’8 agosto si tiene l’inchiesta formale (inquisitio) per il processo di canonizzazione di Galgano. 1191 Enrico VI, figlio del Barbarossa, assegna beni a un gruppo di monaci di Clairvaux (Chiaravalle) per un primo tentativo di insediamento cistercense a S. Galgano. 1193 Viene nominato il primo podestà di Volterra. Accordo di pace dopo uno scontro tra Senesi e milizie del vescovo di Volterra. 1196 Bono, già priore dell’eremo di Montesiepi, è probabilmente a capo di una comunità «mista» di eremiti e monaci cistercensi. 1201 Il vescovo Ildebrando concede un privilegio al priore Bono laddove risulta che monaci e conversi di S. Galgano seguono la regola di san Benedetto e si adeguano alle norme dei cistercensi. 1201-03 Abbandono dell’eremo da parte di un gruppo di religiosi fondatori che non si allineano alla nuova gestione. 1205, dicembre Dopo la morte di Bono, la guida del monastero risulta affidata al pisano Galgano Visconti. 1206, 3 luglio Papa Innocenzo III emette una bolla di protezione indirizzata all’abbazia di S. Galgano. Galgano Visconti, già priore, è il primo abate di S. Galgano. 1215 I Senesi conquistano Montieri e mettono sotto assedio Chiusdino. 1218 Iniziano i lavori di costruzione dell’abbazia cistercense. 1223, febbraio L’imperatore Federico II concede un privilegio all’abate Giovanni in cui si conferma quanto già stabilito a favore dell’abbazia da suo padre Enrico VI. 1257-59 Vernaccio è il primo monaco di S. Galgano che risulta eletto Operaio del duomo di Siena. 1257-62 Ugo di Azzolino è il primo monaco di S. Galgano a essere nominato Camerlengo della Biccherna (amministratore dell’erario) presso il comune di Siena. 1270 Nella prima redazione superstite degli Statuti del comune senese, una rubrica è dedicata alla tutela dell’abbazia di S. Galgano e dei suoi possedimenti 1290, 16 giugno Su delibera solenne del Consiglio Generale, il comune di Siena prende sotto la propria protezione l’abbazia di S. Galgano. 1576, 7 luglio Il vescovo Castelli di Rimini, presente a S. Galgano in qualità di visitatore apostolico straordinario, registra il grave stato di fatiscenza e di abbandono del complesso. 1786, 22 gennaio Crollo del campanile dell’abbazia durante l’officiatura di una messa: non si registrano vittime, ma la chiesa, già in cattive condizioni, non è piú praticabile. 1786, 10 giugno Il granduca di Toscana Pietro Leopoldo autorizza il marchese Fabio Feroni, detentore dell’abbazia, a non occuparsi piú del mantenimento delle strutture. 1789, 10 agosto Atto ufficiale di sconsacrazione della chiesa abbaziale. Nella pagina accanto tre monaci invidiosi distruggono la capanna e spezzano la spada, subendo il castigo divino per il loro gesto, particolare della predella del Polittico di San Galgano di Giovanni di Paolo. 1470 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale.

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spada, miracolosamente rinsaldata, e gli «invidiosi» che l’avevano ridotta in pezzi andarono incontro a una morte terribile. Non pochi giovani ardimentosi si cimentavano a Montesiepi nel tentativo di tirar fuori la spada. Erano motivati dall’aura miracolosa dell’arma, ma forse proprio la suggestione dell’epica di re Artú li guidava fin lí. Ogni volta, però, li attendeva un insuccesso clamoroso, di sicuro poco gradito ai prodi sfortunati, ma assai apprezzato dalla gente che assisteva sempre piú numerosa a queste «esibizioni», vere occasioni di divertimento per via delle goffe manifestazioni di forza dei malcapitati attori, ma anche

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puntuali e spettacolari riconferme dei poteri racchiusi nella portentosa reliquia del santo eremita.

Guarigioni a distanza

Già quando era ancora in vita, d’altronde, Galgano dispensava preziose capacità taumaturgiche, e il suo ruolo di guaritore proseguiva anche nel luogo in cui riposavano le sue spoglie. Egli era infatti in grado di guarire bambini che versavano in condizioni disperate (una «specialità» piuttosto rara tra i santi protettori) ed era anche in grado di praticare guarigioni a distanza. A Galgano, poi, si rivolgevano i cavalieri della sua stessa categoria sociale, quando, una volta sconfitti, finiva-

no nelle grinfie di crudeli e venali feudatari, che li costringevano a lunghe e umilianti prigionie in attesa di lauti riscatti. In due casi, Galgano era riuscito a liberarli nonostante si fossero trovati legati mani e piedi, e per giunta rinchiusi in una cassa di legno. La lista dei miracolati affidatisi a lui con successo si allungava sempre di piú, e gli ex voto lasciati nel santuario da ciascuno di loro erano i piú vari: il lebbroso guarito lasciava l’immagine in cera che ne ritraeva il volto deformato dalle piaghe, il cavaliere evaso dalla prigione lasciava invece i legacci da cui si era liberato. Tra le virtú di Galgano c’era an-

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misteri san galgano Il reliquiario della testa di san Galgano in argento dorato, concepito come un tempietto a forma di torre e decorato con immagini a sbalzo raffiguranti episodi della vita del santo, attribuito all’orafo senese Pace di Valentino. 1270-78. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana del Duomo di Siena.

In alto, sulle due pagine la Maestà affrescata da Ambrogio Lorenzetti nella cappelletta laterale della Rotonda. 1340 circa.

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che il raro carisma della precognizione. Egli era in grado di prevedere fatti che si verificavano poi puntualmente.

La visita dell’imperatore

Facendo leva su questi poteri, l’inquisitio del 1185 attesta che il santo avrebbe previsto una visita dell’imperatore in quel di Montesiepi e, guarda caso, nello stesso mese dell’inchiesta, svoltasi tra il 4 e l’8 agosto, Federico Barbarossa in persona, di passaggio a Siena, aveva reso omaggio alla sepoltura del santo e aveva posto l’eremo sotto la propria protezione. Approfittando di un momento di fruttuose e pacifiche relazioni tra la Chiesa di Roma agosto

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e l’impero, il vescovo Ildebrando Pannocchieschi aveva avviato con particolare cura gli atti del processo di canonizzazione, e ne trasse giovamento per manifestare al meglio la sua fedeltà ai reggitori del mondo. Nel gruppo dei tre prelati che conducono l’inchiesta appare infatti l’arcivescovo di Magonza Corrado di Wittelsbach, successore di Cristiano, che aveva assunto la carica di cancelliere imperiale. Corrado aveva accompagnato il Barbarossa in Italia, ed era inoltre in stretti rapporti con Roma, poiché era cardinale della Sabina. Lui e i suoi colleghi, come la stessa inquisitio attesta, furono in ogni caso incaricati espressamente da papa

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Lucio III (1181-1185), che dette cosí seguito alle richieste del presule di Volterra.

Un santo «ghibellino»

Seguendo le approfondite analisi di Eugenio Susi, anche su un piano di politica prettamente locale il culto di san Galgano rivestiva per il vescovo Ildebrando un’importanza strategica. Egli infatti dava lustro alla Chiesa di Volterra, e si ergeva a illustre esponente di un mondo feudale che si contrapponeva sempre piú ai nuovi equilibri della società, imperniati sugli ordinamenti comunali e sul ruolo propulsivo della borghesia. In questa ottica, Galgano, ossia l’eremita cortese,

secondo la definizione dello stesso Susi, è campione di una santità «ghibellina», esponente di un vecchio ceto di cavalieri fedeli al proprio signore (nel caso, il vescovo di Volterra), al proprio sovrano (l’imperatore) e al Re dei Cieli. Le indubbie tangenze tra le leggende arturiane e la vicenda di Galgano traggono risalto, in questa ottica, da un preciso riscontro di premesse storico-culturali. Lo stesso ciclo bretone nasce infatti dal cuore di un mondo feudale in crisi, che vuole tutelarsi di fronte al nascere di un nuovo assetto della società. Ma, a questo punto, viene spontanea piú di una domanda. In quale misura l’operato del vescovo Ildebrando e della commissione inquirente da lui desiderata incide sull’immagine di Galgano? In altri termini, quanto c’è di «vero» e quanto c’è di «costruito» nella storia e nell’identità del santo eremita di Montesiepi? E poi, la spada nella roccia è, in qualche misura, «autentica»? In merito all’ultima questione, si può solo rilevare che l’arma è spezzata in tre tronconi rinsaldati (e tale risultava già nel 1694), in linea con la storia dei «vandali» invidiosi, ed è tipologicamente databile al XII secolo, il che, naturalmente, non esclude la sua apposizione «ad arte». Riguardo poi al peso della rielaborazione agiografica, se si prendono per buone le deposizioni riportate nell’inchiesta, a partire da quanto attestato dalla madre Dionigia, il nucleo della storia e del personaggio di Galgano appartiene alla memoria degli abitanti del luogo, ed è, a suo modo, veritiero. D’altro canto, l’immaginario epicocavalleresco e la dimensione onirico-visionaria del sacro, ossia le due componenti «forti» della memoria di Galgano, non erano appannaggio esclusivo di una élite di chierici, ma rientravano all’interno di atteggiamenti mentali condivisi e di fenomeni culturali di ampia e ramificata diffusione. È ormai accertato, per esempio, che i temi epici arturiani e carolingi vantavano

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misteri san galgano La fortuna di una leggenda

Dalla Bretagna alle viscere dell’Etna Prima ancora che le gesta di re Artú fossero celebrate dalla Storia dei re di Britannia di Goffredo di Monmouth (1137), le vicende, i personaggi e gli elementi narrativi di spicco del cosiddetto «ciclo bretone» erano diffusi anche nella Penisola italica, con tutta probabilità grazie ai rapporti culturali che potevano stabilirsi sull’asse Roma-Canterbury, lungo la direttrice della via Francigena. Pellegrini e viaggiatori di ogni ceto, nobili, prelati, mercanti, i crociati che si imbarcavano per la Terra Santa, o gli stessi poeti girovaghi, potevano rendere noti i contenuti di quei racconti epici, evidentemente già predisposti a una rapidissima popolarità, anche in assenza di uno o piú testi di riferimento universale, come la citata Storia di Goffredo o i poemi di Chrétien de Troyes (attivo negli anni 1160-90). La precocità di questa diffusione si evidenzia in primo luogo nella decorazione di una chiesa situata strategicamente proprio lungo i percorsi della Francigena. È il caso della Porta della Pescheria sul lato settentrionale del duomo di Modena (1110-20), sul cui archivolto Artus de Bretania e suo nipote Galvaginus

(Galvano), insieme ad altri prodi, sono impegnati a liberare una dama (Winlogee), prigioniera nelle mura di un castello o di una città. D’altro canto un Modenese attestato nel 1125 si chiamava proprio Artusius, ma un Artú è presente a Lucca già nel 1114 e un Galvano è presente a Genova nel 1158. Grazie ai Normanni, poi, la notorietà di Artú era giunta sino in Sicilia. Il re, infatti, dopo l’ultima battaglia, si era rifugiato proprio nel profondo dell’Etna: vi aveva scovato un’accogliente prateria, e lí si era stabilito, riponendo le stanche e ferite membra in una bellissima casa. Questo risulta infatti dagli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury (1210), una sorta di manuale a uso dei sovrani dedicato all’imperatore Ottone IV di Brunswick. Lo scrittore si basava sui racconti che poté udire in prima persona durante un viaggio effettuato nell’isola, intorno al 1190. Il retore Boncompagno da Signa, infine, nel suo Cedrus (1201), attesta l’esistenza in Italia, e in modo particolare in Toscana, di varie compagnie di iuvenes (ossia di giovani esponenti del ceto cavalleresco) intitolate in onore della tavola rotonda.

Modena, Duomo. La lunetta che orna la Porta della Pescheria, nella quale sono ritratti, tra gli altri, Artus de Bretania (Artú; riquadro a sinistra) e suo nipote Galvaginus (Galvano; riquadro a destra). 1110-1120.

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Tavoletta raffigurante don Stefano, monaco di S. Galgano, inginocchiato davanti al santo. 1320 circa. Siena, Archivio di Stato di Siena.

un’enorme fortuna su lunghissime distanze ben prima delle elaborazioni letterarie piú rinomate. Le visioni di santi e di mondi ultraterreni, poi, per quanto potessero essere arricchite dalla commissione di inchiesta in sede letteraria, potevano scaturire in prima battuta da un tessuto culturale ben nutrito al riguardo da immagini di vario genere, bibliche ed epiche, desunte da racconti o da sermoni uditi dal vivo, oppure dalle moltitudini di pitture e sculture a soggetto religioso ma anche cavalleresco disponibili nelle chiese, e non solo in esse. Basterebbe poi il facile parallelismo con il caso di san Francesco da Assisi, nato nel 1181(o 1182), e dunque in perfetta successione cronologica rispetto a Galgano, morto nel 1181, per riscontrare un modello di vita eremitica scaturito in un contesto cavalleresco, con una conversione in tutto simile della militia terrena in militia Christi, e con un peso non indifferente degli ideali e delle immagini della letteratura cortese.

Un nome «arturiano»?

D’altra parte, se Francesco doveva il suo nome a quella Francia dalle rinomate manifatture importate dal padre, ma anche terra dei poeti di corte, dei trovatori e dei trovieri, proprio il nome di Galgano, peraltro ben diffuso in Toscana alla sua epoca (è già attestato nel 1127), sembra di chiara matrice arturiana. Potrebbe infatti trattarsi di una variante di Galvano, nome di quel prode che era nipote di Artú in persona. Franco Cardini ha poi rilevato l’importanza dell’immagine di san Michele Arcangelo nella vicenda del santo eremita. Si tratta di una presenza ben radicata nella storia religiosa del territorio sin dall’epoca longobarda. La sua figura unisce già in sé il concetto della militia a servizio di Cristo, in quanto santo

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guerriero. Per giunta, il suo tradizionale ruolo di psicagogo, ossia di colui che guida l’anima nei percorsi dell’aldilà, è riproposto nella testimonianza di Dionigia secondo schemi di lunghissima fortuna, ed è del tutto credibile che una devota di quei tempi lo chiamasse «in scena» in modi cosí vividi e spontanei, come una figura familiare che poteva facilmente prendere corpo nelle visioni del figlio. Le attestazioni dei miracoli attribuiti a Galgano prima e dopo la sua morte, sono tali e tante, poi, da non lasciare dubbi

sulla sua popolarità, conseguita ben prima che venissero redatti gli atti della canonizzazione.

Monaci da Clairvaux

Nel giro di pochi anni, l’ambiente che aveva nutrito le prime manifestazioni del culto di Galgano mutò su molti fronti. Dopo l’assedio di Chiusdino (1215), Siena era ormai divenuta padrona incontrastata del territorio. Di pari passo si affermava la nuova abbazia, avviata nel 1218. La comunità eremitica di Montesiepi, che vantava ancora i

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misteri san galgano

prove iniziatiche

In equilibrio su un capello, verso l’aldilà La visione di Galgano è un viaggio nell’aldilà intessuto di elementi di immediata presa simbolica. È un’esperienza condivisa in modi analoghi da tanti visionari guidati dalla potenza divina, come nella leggenda del Pozzo o Purgatorio di san Patrizio (1190 circa), che ha per protagonista un missionario britanno vissuto tra il IV e il V secolo (vedi «Medioevo» n. 208, maggio 2014), ma un viaggio analogo era già stato effettuato negli inferi dall’Enea di Virgilio, prescelto dagli dèi, e, in quanto tale, in grado di conoscere, da vivo, il mondo dei morti, per poter poi fare ritorno alla sua esistenza terrena riattraversando lo Stige. È un’esperienza che può anche essere letta come una prova iniziatica, tanto che, in prima battuta, Galgano deve attraversare un ponte tutt’altro che confortevole, gettato su un corso d’acqua che non concede speranze di sopravvivenza al malcapitato che cada dagli spalti. Lo stesso Lancillotto, nell’omonimo poema di Chrètien de Troyes, deve attraversare un ponte sottilissimo, a fil di spada, per poter giungere al luogo in cui è imprigionata Ginevra. Il motivo del ponte di difficile attraversamento, comune all’epica cavalleresca e all’aldilà cristiano (lo si ritrova, tra l’altro, nel già citato Purgatorio di san Patrizio), vantava già in precedenza un’ampia fortuna nella Siria ebraico-cristiana, nella Persia mazdea e nell’Islam. Si tratta, dunque, di un tema archetipico ampiamente condiviso, e, come tale, facilmente diffuso e adattato nelle piú svariate circostanze, ma è nell’Avesta, un testo religioso dell’antica Persia, che lo troviamo attentamente descritto come prova cruciale dell’anima al momento di accedere nel mondo dei piú. Il passaggio è comodissimo per le anime elette, che possono cosí giungere agevolmente in cielo, ma, se si presenta un malvagio, si restringe a fil di spada o a capello, al punto tale che chi si accinge a passare cade inevitabilmente negli abissi.

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A sinistra Loreto Aprutino (Pescara), S. Maria in Piano. Il Ponte del Capello, particolare dell’affresco del Giudizio Universale. XV sec. L’attraversamento di un ponte sottilissimo, spesso associato anche a san Galgano, è un motivo ricorrente, scelto per evocare il carattere iniziatico del passaggio nell’aldilà.

confratelli dello stesso Galgano, testimoni dell’inchiesta, sembrò troppo sguarnita agli occhi dell’imperatore Enrico VI. Nel 1191, il sovrano, pensò allora di coinvolgere un gruppo di monaci provenienti da Clairvaux (Chiaravalle), l’abbazia fondata nel 1115 da san Bernardo nella regione francese della Champagne-Ardenne, e ben presto divenuta il cuore stesso del movimento cistercense. I religiosi d’oltralpe dovevano impiantarsi a Montesiepi per porre le premesse di un insediamento piú cospicuo e assai meglio organizzato, che poteva adeguatamente svilupparsi nei terreni di fondovalle.

La croce e la spada

Sulla carta il progetto sembrava funzionare senza intoppi, anche perché san Bernardo teneva in grande riguardo la cavalleria, e, nel De laude novae militiae (1128), per esempio, sosteneva con forza un connubio tra la croce e la spada, tra ideali religiosi e disciplina militare. I suoi seguaci sembravano quindi assai ben indicati come custodi della memoria del santo eremita di Montesiepi. Ma il movimento cistercense richiedeva un’organizagosto

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A destra Chiusdino, oratorio di S. Sebastiano. Bassorilievo di Urbano da Cortona raffigurante san Galgano che conficca la spada nella roccia. 1466.

zazione ferrea e razionale, incardinata su impianti di considerevole sviluppo, in cui schiere di monaci erano affiancate da conversi (laici), per dare corpo a grandi opere di bonifica e di lavoro dei campi, come in una gigantesca azienda agraria. La disciplina della preghiera e delle mansioni manuali mal si conciliava con l’organizzazione libera e spontanea di un piccolo eremo, isolato ma al tempo stesso a contatto con pletore di pellegrini, in nome delle miracolose virtú di Galgano.

Una nuova memoria

I Cistercensi respingevano con forza proprio l’aspetto «spettacolare» del culto religioso. Essi aborrivano le folle dei fedeli incantate dai prodigi, non dalle verità profonde della fede. I pellegrini erano attratti solo dalle sante reliquie, e formavano calche rumorose, che turbavano l’isolamento monastico. Si ebbe cosí un periodo intermedio, in cui la comunità, ancora impiantata a Montesiepi, si adattò all’introduzione dei nuovi usi, ma al costo di una diaspora di quei confratelli che volevano mantenere l’assetto originario della fondazione. Molti eremiti, infatti, portando con sé alcune reliquie del santo, lasciarono Montesiepi e fondarono nuovi eremi in onore di Galgano in varie parti della Toscana. Frattanto, dopo il probabile fallimento della prima missione dei monaci di Clairvaux, l’abbazia iniziava a prendere corpo con l’appoggio della fondazione laziale di Casamari. E quando la grande chiesa era ormai completata, i Cistercensi avevano rimodellato la memoria stessa di Galgano. I nuovi agiografi lasciarono cadere ogni insistenza sui suoi poteri taumaturgici, e anche gli aspetti visionari della sua vocazione persero smalto. Come ideale fondatore dell’abbazia, Galgano fu piuttosto evocato per le sue virtú

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di umile e rigoroso cavaliere-asceta, capace di condurre una vita in piena comunione con Cristo cibandosi esclusivamente di bacche e radici. E mentre l’abbazia di San Galgano collaborava con Siena fornendo personale qualificato per il cantiere del duomo o per l’amministrazione degli affari del Comune, il santo eremita fu annoverato tra i protettori della potente città, fintantoché resisteva il prestigio della fondazione cistercense. Avviatasi questa a un inarrestabile declino, sin dal XV secolo, l’importanza di Galgano come santo cittadino si attenuò rapidamente. Nel giro di qualche secolo la grande chiesa abbaziale si ridusse in rovina, ma la piccola chiesa romanica di Montesiepi resisteva in tutta la sua integrità, custode incancellabile della magica spada del santo eremita. F

Da leggere U Antonio Canestrelli, L’Abbazia di

S. Galgano. Monografia storicoartistica, Alinari, Firenze 1896; Tellini, Pistoia 1993 (ristampa) U Eugenio Susi, L’eremita cortese. San Galgano fra mito e storia nell’agiografia toscana del XII secolo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1993 U Franco Cardini, San Galgano e la spada nella roccia, Cantagalli, Siena 2000 U Anna Benvenuti (a cura di), La spada nella roccia. San Galgano e l’epopea eremitica di Montesiepi, Mandragora, Firenze 2004 U Andrea Conti (a cura di), Speciosa Imago. L’iconografia di san Galgano dal XIII al XVIII secolo, Nuova Immagine, Siena 2014.

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storie il portogallo cristiano

Lisbona liberata di Renata Salvarani

Nel 1147 la città portoghese viene strappata al dominio arabo, segnando una tappa fondamentale nel processo di riconquista della penisola iberica. La vittoriosa impresa crociata non genera, tuttavia, rappresaglie nei riguardi delle comunità islamiche. L’epoca delle espulsioni di massa dei mouros e del massacro dei marrani era ancora lontana‌


La presa di Lisbona da parte di Alfonso re del Portogallo, il 25 ottobre 1147, olio su tela di Auguste-François Desmoulins. 1840. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et de Trianon. Secondo la tradizione, la città fu espugnata grazie all’eroico sacrificio del portoghese Martim Moniz.


storie il portogallo cristiano

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rroccata su un’altura che domina l’estuario del Tago, Lisbona, nel 1147, era una città affollata di persone e di attività. La circondava un sistema di fortificazioni che scendevano quasi fino al fiume e che, alla sommità, avevano al centro un perimetro murario circolare, intervallato da bairros (quartieri) costruiti sulla roccia, torri e castelli. I dintorni, intensamente coltivati, la alimentavano di cereali, mandorle, agrumi, vino. Al suo interno vivevano mercanti provenienti da tutta Europa e dal Nord Africa, musulmani, ebrei, cristiani. Quando vi arrivarono gli armati di Alfonso Henriques, che pochi anni prima aveva sconfitto gli islamici nella battaglia combattuta il 25 giugno 1139 a Ourique (cittadina del Portogallo meridionale, nella provincia di Beja, n.d.r.) attestandosi, di fatto, come sovrano del Portogallo, era considerata una città ricchissima. L’assedio ebbe inizio nel luglio 1147. E, dopo un’estate di attacchi, scaramucce e trattative, il 25 ottobre, Martim Moniz, Portuguez destemido, «Portoghese senza paura», vide che i mori stavano chiudendo la grande porta del castello di S. Giorgio. Per impedirlo, si lanciò in mezzo ai due battenti e si lasciò stritolare, bloccando con il suo corpo la serrata degli assediati e permettendo ai suoi seguaci di entrare, dando il via all’attacco finale e alla caduta della città.

I «crociati» venuti dal Nord

Cosí – almeno – vorrebbe la tradizione locale, basata su un’elaborazione della memoria, che attribuisce ai giovani che accompagnavano Alfonso il merito della vittoria e l’origine della nobiltà urbana. Piú complesso è il racconto del De expugnatione Lyzbonensi, attribuito a Raoul de Glanville, figlio di Hervey, comandante del contingente anglo-normanno che partecipò all’assedio. Quest’ultimo mette in evidenza il peso preponderante della violenza dei «crociati» venuti dal Nord: Anglo-normanni, Fiamminghi, Scandinavi, Tedeschi, messi insieme alla bene meglio nella speranza di un sostanzioso bottino e di nuove terre da spartirsi. Al loro arrivo, il vescovo di Oporto, Pedro Pitoes, aveva pronunciato un sermone che contiene tutti gli elementi della teorizzazione della guerra giusta, orientata al recupero alla cristianità delle terre insediate dagli islamici. Era necessario – aveva sostenuto – che tutti i cristiani si unissero per combattere contro i nemici di Cristo, per la sopravvivenza fisica della cristianità. La Gerusalemme che tutti avrebbero voluto raggiungere non era quella che conservava le testimonianze della vita del Salvatore, ma quella Celeste, alla quale

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In alto la città di Lisbona con l’estuario del Tago, particolare di una carta nautica del XVI sec. Madrid, Museo Navale. Nella pagina accanto l’albero genealogico dei re portoghesi da Alfonso I ad Alfonso II, in una miniatura di Antonio de Hollanda di Lisbona, dalla Genealogia dos Reis de Portugal. 1530-1534. Londra, British Library. Nella

cornice sono raffigurate, dall’alto, due fasi della vittoriosa battaglia combattuta a Ourique nel 1139, all’indomani della quale Alfonso I venne acclamato re del Portogallo, e la città di Lisbona. La successiva presa della stessa Lisbona (1147) viene da alcuni considerata come il «vero atto di nascita della nazione portoghese».

si arriva grazie alle opere buone. Combattere l’Islam, indipendentemente dal luogo in cui ci si trovava, era una di esse. A quegli uomini violenti e rozzi, reduci da infiniti scontri già nelle loro terre di origine ricordò, infine, che il peccato non è combattere, ma usare le armi senza il consenso o l’ordine di chi detiene l’autorità per disporre della forza: la Chiesa. Il presule contribuí, cosí, a indirizzare i loro istinti e la loro sete di bottino su uno degli assedi che piú marcarono gli sviluppi del processo di conquista cristiana della parte di Europa occupata dagli Arabi. agosto

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storie il portogallo cristiano una penisola contesa Santiago de Compostela

Oviedo

Regno León delle Asturie

Pamplona Burgos

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Murcia

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al-Andalus nel 790

Oviedo

Navarra

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Pamplona León Tudela Catalogna Burgos Huesca Saragozza Valladolid Barcellona Lérida Castiglia Aragona Tarragona Salamanca

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Lisbona Cordova

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Siviglia Granada Almeria Cadice Gibilterra

Santiago de Compostela

Alla metà del XII sec. l’impero almoravide si sgretola: Alfonso VII di León e Castiglia ne approfitta, conquistando, tra le altre, Cordova (1144), Coria e, nel 1147, Almeria. Nello stesso anno Alfonso Henriques prende Lisbona.

San Sebastian

Oviedo

Asturie León Galizia

Navarra

Burgos Tudela

Castiglia

Braganza Oporto

Zamora

Coimbra

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Salamanca Madrid

Portogallo

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Huesca Lérida

Aragona

Barcellona Tarragona Palma

Valencia

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Nuova Castiglia Cordova

al-Andalus nel 1150

al-Andalus nel 900

Primi successi di Alfonso III Magno, re delle Asturie, che avanza lungo il Duero, e conquista Zamora e altre roccheforti arabe. di Barcellona Nel 917 Ordoño II, re di León, alleato con ilContea re di Navarra, Sancho I Garcés, ottiene nuove vittorie.

Badajoz

Murcia

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Lisbona

Badajoz

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Siviglia

Al-Andalus è il nome dato dagli Arabi alla provincia dell’impero califfale corrispondente alla Penisola Iberica. Intorno all’anno 700, gli invasori musulmani avevano raggiunto e superato le frontiere del Duero e dell’Ebro.

Portogallo

Barcellona Tarragona

Valencia

Toledo Lisbona

Mérida

Granada

Oporto

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Aragona

Salamanca

Siviglia

Galizia

Andorra

Contea di Barcellona

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Santiago de Compostela

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Zamora

Valencia

Toledo Badajoz

Pamplona Burgos Tudela

Castiglia

Galizia Oporto

Coimbra Lisbona

Oviedo

Asturie

León

Girona Tudela Huesca Saragozza Barcellona Tarragona

Zamora

Oporto

Andorra

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Murcia

Siviglia Granada Almeria Cadice Gibilterra

Possedimenti castigliani Possedimenti aragonesi

Huelva

Granada

Agli inizi del XIV sec. il sultanato di Granada è il solo dominio arabo in Spagna. La città cadde infine, nel 1492, nelle mani delle corone di Castiglia e Aragona e dei rispettivi re, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona.

conquista, reconquista e nascita del regno portoghese 711 Il califfato di Damasco affida un’armata di Arabi e Berberi al capitano musulmano Tariq ibn Ziyad, che, dopo aver attraversato lo stretto di Gibilterra, approda nella penisola iberica presso Tarifa (in Andalusia). Da qui, i «mori» non si spingono oltre il Douro: la regione a nord del fiume, insieme con la Galizia, rimane cristiana e qui prende le mosse la reconquista. La colonia araba di al-Gharb (l’«Ovest», in seguito divenuta l’Algarve), inizialmente dominata da Cordova, viene organizzata secondo sistemi sociali islamici e sfruttata soprattutto per le produzioni agricole (frumento, riso, zafferano, agrumi), ma anche per le miniere di rame e argento.

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868 I cristiani del Nord riconquistano Oporto e, dieci anni piú tardi, Coimbra. Nel frattempo il potere del califfato di Cordova va sfaldandosi, dando origine a molti piccoli regni o taifas, e il vuoto di potere politico centrale viene riempito da frange e movimenti politici fondamentalisti: gli Almoravidi e gli Almohadi. Questi riescono a riunire la parte meridionale della penisola iberica in un dominio basato sulla professione dell’Islam e sull’applicazione della sharia come elementi di coesione e di controllo sociale. 1128 Alfonso Henriques (figlio di Enrico di Borgogna, conte di Portogallo, e nipote di Alfonso VI re agosto

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liturgie mozarabiche e latine

Il Pane spezzato in nove parti Mozarabi (arabizzati) erano i cristiani che vivevano nei domini islamici creati nella penisola iberica fra il VII secolo e la reconquista. Prende il nome di rito «ispanico» o «mozarabico» il modo utilizzato dalla Chiesa di Spagna e di Portogallo per celebrare le azioni liturgiche nei primi dieci secoli della sua storia. Adottato dai cristiani ispano-romani, si conservò anche sotto la dominazione visigoti, epoca in cui fu notevolmente arricchito, e sotto l’occupazione dei musulmani. Quando papa Gregorio VII estese a tutta la cristianità europea il rito romano, i re di Aragona prima e di Castiglia poi e quelli del Portogallo lo accettarono, seppure con qualche resistenza: nei regni cristiani della penisola iberica scomparve cosí il

rito ispanico. Tuttavia, esso persistette nei territori occupati dai musulmani e, da allora, cominciò a essere chiamato mozàrabe, nome che indicava i cristiani sottomessi all’Islam. In Spagna il luogo privilegiato della celebrazione del rito mozarabico divenne Toledo. In Portogallo rimase in uso in Algarve e in alcune comunità, poi andò scomparendo per essere sostituito dal rito latino.

Le differenze piú evidenti nella celebrazione della Messa sono: una serie di orazioni specifiche pronunciate fra la liturgia della parola e la consacrazione eucaristica, la frazione del Pane consacrato in nove pezzi disposti a forma di croce sulla patena, la recita del Padre Nostro solo da parte del celebrante (il populus dei fedeli risponde amen a ogni invocazione).

Miniatura con un episodio avente per protagonista il profeta Elia, dalla Bibbia visigoto-mozarabica di San Isidoro, datata 19 giugno 960. León, Archivo Capitular de la Real Colegiata de San Isidoro.

di Castiglia e di León) assume il controllo del Portucale (inizialmente solo la regione compresa fra i fiumi Lima e Douro). 1139 Dopo la vittoria conseguita a Ourique sui musulmani, il Portucale viene proclamato regno autonomo. Seguono le conquiste di Santarém e di Lisbona (1147). 1185 Morte di Alfonso Henriques. 1249 L’Algarve passa nelle mani di Alfonso III e viene portata a termine la reconquista. 1297 Lo status di capitale viene assegnato definitivamente da Coimbra a Lisbona (dopo una breve parentesi di dipendenza dell’Algarve dal regno di Castiglia).

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La capitolazione della città fu l’effetto finale di un susseguirsi di azioni militari, della morsa della fame su una popolazione molto piú numerosa degli assalitori, di pressioni psicologiche che fecero percepire ai musulmani di non avere alcun futuro politico nella penisola. Durante una breve tregua, il vescovo di Braga, Joao Peculiar – che partecipava all’assedio insieme con quello di Porto – rivolse loro un discorso appassionato, nel tentativo di convincerli alla resa. Affermò che se i Portoghesi erano disposti a tutto pur di espugnare la città, non valeva la pena di versare sangue in un’inutile resistenza: «Noi, da parte nostra, non veniamo né per mandarvi fuori della città, né per spogliarvi dei vostri beni – aggiunse –. Rivendichiamo il territorio di questa città poiché è nostro per diritto. Per

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storie il portogallo cristiano Olisipo-Al-Isbunah-Lisboa

Breve storia di una città Della Olisipo divenuta romana già dal 205 a.C. per opporsi ai Cartaginesi che le contendevano i commerci restano alcuni importanti complessi: un teatro, il foro, terme, necropoli, domus, tratti di vie lastricate. Si estendeva tra il colle del castello di S. Giorgio, e le attuali praça do Rossio e praça do Comercio. La sua società composita e cosmopolita vide la formazione di una comunità cristiana forse già all’inizio del II secolo. Certamente fu vittima di persecuzioni: la litrugia locale ha tramandato la memoria dei martiri Maxima, Verissimus e Iulius. Il primo vescovo fu san Potamio, attestato nel 356. La prima chiesa cattedrale era probabilmente situata nei pressi dell’attuale, sulla stessa altura del castello, che venne insediata e fortificata a piú riprese dai musulmani, dopo la conquista del 714. Di Al-Isbunah restano oggi un inestricabile groviglio di strade, edifici, fasi costruttive diverse e l’impronta araba dell’Alfama, il quartiere che concentra la maggior parte delle testimonianze della vita pre-crociata della città e ne conserva la memoria nei toponimi. L’Alcáçova, recinto fortificato, all’interno del quale erano alloggiati gli alti funzionari e i militari, fu costruita solo nel X secolo, dopo il saccheggio della città da parte di Ordono III, re del León. Nella zona sulla riva del Tejo fiorí la città bassa (Baixa), quartiere di pescatori, artigiani e commercianti. I due nuclei erano uniti da una cinta muraria di 2 km, la Cerca Moura, nella quale si aprivano le porte di Ferro e della Alfofa, che collegavano la Medina con il sobborgo occidentale della Baixa. Verso est la porta del Sol comunicava con l’almocavar (cimitero) musulmano, che si estendeva lungo i pendii vicini di São Vicente. La cittadella includeva, nel settore nord-occidentale, il castello dei Mouros, o Castelejo, dal recinto quadrangolare circondato da mura imponenti e da dieci torri quadrate. Delle porte originarie si conservano solo quelle di São Jorge, del Norte e di Moniz, che prende nome dall’atto d’eroismo compiuto durante l’assedio del 1147. L’enorme complesso fortificato, cosí come lo si vede oggi, è frutto di trasformazioni successive alla conquista cristiana: la Alcáçova e le altre dipendenze militari saracene furono trasformate da re Dinis (1279-1325) in palazzi regi e mantennero questa funzione finché Emanuele I (1495-1521) trasferí la corte al palazzo della Ribeira. Il castello e le vie tortuose dell’Alfama sono gli unici nuclei della città medievale sopravvissuti integralmente al terremoto del 1755 e non interessati dai successivi rifacimenti della città.

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questo se ne farete richiesta potrete partire con le vostre donne e i bambini, gli averi, i greggi, i bagagli per prendere il cammino per la terra dei mori, da dove veniste, lasciando la nostra a noi». Aggiunse che i cristiani non avevano alcuna intenzione di espellerli dalle loro case, a condizione che si arrendessero pacificamente. Avrebbero potuto, persino, mantenere la loro libertà e, se si fossero convertiti, sarebbero stati accolti a braccia aperte «come il figliol prodigo» e avrebbero goduto di molti vantaggi. Il prelato sapeva bene, infatti, che il IV concilio di Toledo aveva espressamente vietato le conversioni forzate e metteva in atto tentativi di persuasione su altri piani. Sempre secondo la cronaca di Glanville, la responsabilità delle conseguenze che seguirono al rifiuto ricadde interamente sui musulmani: essi affidarono la risposta a un anziano saggio, il quale non fece altro che sottomettere se stesso e la sua gente alla volontà di Allah, in piena serenità.

Nuovi equilibri politici

Alcuni aspetti dell’assedio sono emblematici dell’intero processo di reconquista. Da una parte, sul piano teorico e giuridico, si giustificano le operazioni militari come ri(segue a p. 56) A

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il castello di s. giorgio

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In alto mappa della città di Lisbona, disegnata per il Civitates orbis terrarum (1572-1616), raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun. Al centro, in posizione sopraelevata, si riconosce il castello di S. Giorgio (evidenziato dall’area cerchiata in rosso).

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2 1 Qui sopra pianta delle strutture che compongono il complesso del castello di S. Giorgio, del quale sono anche illustrati l’ingresso principale (A, nella pagina accanto) e una delle porte (B, a destra).

1. Arco di S. Giorgio; 2. Casa del Governatore; 3. Piazza d’armi; 4. Resti della cappella reale; 5. Antiche carceri; 6. Sala ogivale,

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sala delle Colonne e sala della Cisterna; 7. Ingresso; 8. Torre di Ulisse; 9. Torre del Palazzo; 10. Torre di S. Lorenzo; 11. Porta del Tradimento; 12. Torri centrali di Nord e Nord-Est; 13. Torre della Cisterna; 14. Torre dell’Omaggio; 15. Porta Nord; 16. Porta di Moniz; 17. Piazza Nuova; 18. Area archeologica; 19. Portale della Santa Croce; 20. Portale dello Spirito Santo.

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storie il portogallo cristiano l’algarve

Tra al-Andalus e Portogallo L’Algarve fu conquistato dai Portoghesi solo nel 1249 e fino ad allora continuò a gravitare nell’ambito politico di al-Andalus. Re Alfonso III e i suoi funzionari si impossessarono delle città della costa, rifortificandole e insediandole con popolazione esterna. Lagos, in particolare, divenne uno dei porti piú importanti sulle rotte per l’Africa e le Americhe. Lí Enrico il Navigatore creò la sua scuola navale e lí, dal XV secolo, sul largo

spiazzo aperto davanti alla chiesa di S. Maria sorse il piú grande mercato di schiavi d’Europa, di cui resta ancora la loggia, nell’edificio dell’Alfandega. I pochi villaggi dell’interno rimasero isolati dagli sviluppi commerciali e coloniali: fino alla grande trasformazione dell’agricoltura negli anni Settanta del secolo scorso sono rimasti legati a sistemi produttivi di origine araba e a forme di organizzazione sociale pressochè inalterate. Fra tutte, è rimasta in uso fino a una cinquantina di anni fa ed è ben testimoniata sia

archeologicamente sia dagli oggetti del Museu Municipal José Formosinho di Lagos, la tecnica di irrigazione della noria mourisca. Serviva per pescare l’acqua dai pozzi o da cisterne per poi alzarla e farla entrare nei canali che la portavano fino agli orti o ai campi. Un meccanismo di ruote e perni di legno era azionato da animali da buoi o altri animali da tiro, che giravano in circolo. Sulla ruota piú esterna erano fissate olle e anfore nelle quali l’acqua entrava per poi essere scaricata. Questo sistema permetteva di coltivare in modo intensivo anche terreni lontani dai corsi d’acqua, quelli piú remoti, fuori dalle vie di comunicazione,

Sulle due pagine Lagos (Algarve). La plaza del Infante con il monumento al principe Enrico di Aviz, detto il Navigatore, promotore di viaggi ed esplorazioni e la chiesa di S. Maria. Nella pagina accanto, in alto la loggia del mercato degli schiavi, attivo a partire dal XV sec.

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garantendo sia la produttività, sia il permanere della popolazione e degli insediamenti sparsi. Qui, nel cuore profondo dell’Algarve, la ricristianizzazione si è sovrapposta

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agli ordinamenti precedenti, senza che né le forme della produzione né quelle dell’insediamento venissero trasformate. Vescovi, abbazie e famiglie della nuova aristocrazia

urbana si sostituirono ai precedenti proprietari terrieri, e per l’esigua popolazione contadina le condizioni di vita rimasero sostanzialmente immutate. Tuttavia, le chiese matrici divennero, poco a poco, il riferimento per la formazione di nuove comunità, che si sostituirono a quelle cristiane originarie dei primi secoli, dopo nuove missioni, affidate al clero secolare, alla presenza dei cistercensi, a nuclei di benedettini. La cattedrale di Evora, le chiese di Vila do Bispo, Silves, Santarem, Castro Verde, San Bartolomeu de Messines, Monchique sono lí a testimoniare, sotto i loro orpelli barocchi, i fondamenti di questa ricristianizzazione.

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storie il portogallo cristiano appropriazioni di aree un tempo cristiane occupate dagli islamici e si assicura il premio eterno a chi combatte; dall’altra, sul campo, si ridisegnano equilibri politici, demografici, linguistici, sociali. Dopo i combattimenti che misero fine all’ultima resistenza, asserragliata nella parte piú alta del castello (al-Qasr), i musulmani non furono cacciati: quelli che non vollero (o non poterono) andarsene continuarono a lavorare nella città, ma in condizioni piú difficili. Espulsi dal nucleo urbano fortificato, si concentrarono nell’area a nord-est, a ridosso del Tago, che andava sempre piú affermandosi come via dei commerci e nella quale si costituí il quartiere della Mouraria, che nel 1170 ottenne forme di autonomia amministrativa.

Rimescolamento etnico

L’Alcáçova, che dominava la città e il fiume, divenne la residenza dei rappresentanti del re. Nella medina, invece, si insediarono i nuovi notabili cristiani. Fra questi, alcuni protagonisti delle campagne di conquista venuti dal Nord Europa riuscirono a crearsi fortune economiche considerevoli e a dare origine a lignaggi legati alla neonata corona, contribuendo cosí al rimescolamento anche etnico della popolazione. Dopo la conquista, infatti gran parte della popolazione cristiana precedente, i mozarabi (che avevano mantenuto un’organizzazione propria riconosciuta dagli islamici; vedi box a p. 51), fu deportata a Coimbra, dopo l’assassinio del suo vescovo per mano dei crociati. Su di loro, infatti, pendeva il sospetto di essere rimasti alleati dei musulmani, i quali avrebbero potuto tornare a riprendere la città, occupata da un numero ridotto di seguaci di Alfonso e di «crociati» del Nord. È significativo che quando la diocesi di Lisbona venne ripristinata, il suo primo vescovo sia stato l’inglese Gilberto di Hastings, al quale si attribuisce l’inizio dei lavori della nuova cattedrale di S. Maria, la creazione delle parrocchie, l’organizzazione del capitolo e l’introduzione di liturgie latine. La conquista della città si inserisce in una dialettica politica e militare piú ampia, all’apice di una lunga fase in cui domini cristiani e islamici si fronteggiano nella penisola iberica, con fortune alterne, sovrapponendo i rispettivi ordinamenti.

La reconquista tra romanico e gotico

Un’arte di transizione La reconquista è raccontata nella pietra delle cattedrali delle città ricristianizzate, veri e propri emblemi del passaggio fra il XII e il XIII secolo, anticipazioni originalissime del gotico europeo. La Sé Velha di Coimbra fu iniziata intorno al 1139, poco dopo la decisiva battaglia di Ourique contro gli islamici almoravidi, quando Alfonso Henriques si dichiarò re del Portogallo e scelse la città come capitale. Voluta come una fortezza, espressione del clima bellicoso della reconquista, è un capolavoro del romanico iberico, anche se si può considerare conclusa nei suoi elementi principali solo intorno alla metà del XIII secolo. La facciata, interamente merlata, è marcata da una sorta di torre centrale, nella quale si apre il portale, preceduto da una scalinata. L’interno, a tre navate, ha le volte a tutto sesto, ma è caratterizzato da una forte elevazione e prelude al passaggio al gotico, che si manifesta gradualmente in alcuni elementi del chiostro attiguo. Capitelli geometrici e maioliche che rivestono le pareti di alcune cappelle sono di evidente impronta araba. Coimbra

Nascono le taifas

L’indebolimento della presenza politica dei musulmani risale all’inizio dell’XI secolo, quando il grande califfato di Cordova, che era riuscito a includere buona parte della penisola iberica, andò sfaldandosi in piccole aggregazioni territoriali, spesso contrapposte le une alle altre, le taifas. Conflittualità, frammentazione etnica dovuta anche alla presenza di gruppi familiari berberi, insicurezza dei commerci e delle attività produttive e perdita di riferimenti politici favorirono la diffusione di movimenti basati sull’Islam come elemento politico di controllo degli individui, anche in contrapposizione con i tentativi di espansione dei regni cristiani della

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Braga

Barcelos Oporto

Mogadouro

Vila Real Viseu

ATLANTICO

Águeda

Guarda Coimbra

Leiria Abrantes Portalegre

Santarém

Estremoz

LISBONA

Évora

OCEANO

Moura Sines

Beja Odemira

Lagos Sagres

Faro

Golfo di Cadice

A sinistra cartina del Portogallo con le principali località citate nel testo. A destra la facciata della Sé, la cattedrale patriarcale di S. Maria Maior a Lisbona, innalzata per volere di Alfonso I a partire dalla riconquista della città e ultimata nel XIV sec. In basso veduta della Sé Velha, antica cattedrale, di Coimbra, edificata tra il XII e XIII sec.

Lisbona

A Lisbona la Sé, S. Maria Maior, è inserita nella cinta muraria del castello. Fu voluta da Alfonso I poco dopo la conquista della città e assegnata al nuovo vescovo della città, l’inglese Gilberto di Hastings. Con ogni probabilità sorge nell’area della precedente chiesa cattedrale, paleocristiana, e nei pressi di una grande moschea, distrutta nel XII secolo, di cui sono stati portati alla luce i resti nel chiostro. La facciata della Sé presenta volutamente l’aspetto di un elemento di fortificazione, nel quale si evidenziano due torri gemelle, con al centro il grande portale, preceduto da una scalinata, a colmare il dislivello fra il piano esterno e la pavimentazione interna, ricavata dentro il perimetro delle mura. Nella parte superiore è aperto un rosone. Le fasi del cantiere, protratto fino oltre il XIV secolo e scandito da due rovinosi terremoti, corrispondono a un processo che ha accentuato la diversificazione degli elementi interni. La pianta è a croce latina, con una profonda abside, che nel Trecento fu circondata da un deambulatorio con cappelle radiali, con un complesso sistema di volte a crociera, un capolavoro di geometrie che riecheggiano elementi moreschi. Lo stesso avviene nel chiostro, irregolare perchè ricavato dentro il perimetro murario. Grandi trifore, arricchite da rosoni intagliati a motivi geometrici, si aprono ai lati del portico voltato, marcato dai giochi volumetrici delle costolonature. Gli scavi mettono in evidenza la storia urbanistica della città romana, islamica e medievale: lastricati romani, fondamenta delle mura, i resti di una moschea, cisterne, sistemi di raccolta delle acque...

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storie il portogallo cristiano

Leiria Vedute della chiesa e del chiostro del complesso del monastero di S. Maria di Alcobaça a Leiria, edificato a partire dal 1153, come dono del re Alfonso I a Bernardo di Chiaravalle, nell’ambito del programma di ricolonizzazione, ricristianizzazione e riorganizzazione del territorio sottratto ai mori.

In ordine cronologico, l’ultima tappa di questo percorso stilistico e politico è il monastero di S. Maria di Alcobaça a Leiria, affidato da re Alfonso I ai Cistercensi nel 1152, dopo la vittoria di Santarém. A loro il nuovo sovrano demandò la coltivazione e l’organizzazione coloniale delle vaste estensioni sottratte ai mori. Divenne ben presto un centro avanzato sia dal punto di vista gestionale che culturale, in grado di influenzare la penisola iberica e di dotarsi di varie dipendenze, insieme con diritti signorili su porti città e castelli. La chiesa dell’abbazia, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, è un maestoso esempio della transizione dal romanico al gotico. Dotata di un’abside semicircolare coperta con voltature a sesto acuto, è dotata di un lungo transetto e di pilastri costolonati che conferiscono all’insieme un marcato slancio verticale.

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penisola. Essi trovarono espressione nelle azioni degli Almoravidi e degli Almohadi, i gruppi ai quali fece capo l’ultima opposizione organizzata alla ricristianizzazione, con scontri frequenti e poche battaglie campali. Per quasi un secolo e mezzo due ordinamenti, due popolazioni e forme di potere politico che facevano capo a due visioni religiose si contrapposero e, al contempo, si sovrapposero, mescolando elementi diversi. Ne derivò un gioco dialettico di forze che si separarono in una dicotomia frontale, che preluse alle vittorie militari dei cristiani, ma non ancora all’uniformazione religiosa e culturale, che divenne un obiettivo dei sovrani solo tre secoli e mezzo piú tardi. La cacciata di Ebrei e mouros attuata da re Manuel I nel 1496 e il massacro di cui nel 1506 furono vittime a Lisbona i marrani (termine che indicava gli Ebrei convertiti, solo in apparenza, alla fede cristiana e che si diffuse tra la fine del XIV e il XV secolo, n.d.r.) ne costituirono il tragico epilogo. F agosto

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costume e società il sesso

Il

tempo del

Secondo un radicato luogo comune, durante il Medioevo la Chiesa dettò severe «leggi» in materia di costumi sessuali, imponendo stili di vita improntati a una rigida morale. Nella quotidianità, però, le cose andavano ben diversamente, soprattutto tra i ceti piú bassi della popolazione...

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iprendendo una felice definizione del grande storico francese Jacques Le Goff (1924-2014), la vita degli uomini del Medioevo oscilla tra la Quaresima e il Carnevale, che Pieter Bruegel il Vecchio immagina in lotta in un celebre dipinto: il primo rappresentato come un grasso signore a cavallo di una botte e la seconda incarnata da una signora pallida e malata, trainata da un frate e da una monaca (vedi foto alle pp. 62-63). Nell’età di Mezzo, pur restando protagonista e metafora di ogni esperienza umana, il corpo cessa di essere celebrato nelle terme e nei teatri, perché ormai considerato dai teologi come prigione ed elemento corruttore dell’anima. Tuttavia, esso appare a lungo come un vero e proprio microcosmo autonomo e dinamico nelle sue pulsioni, che raramemente si piega alla dottrina teologica. Nel Medioevo non si smette mai di assecondare il desiderio carnale e la bellezza del corpo, ma si è costretti a farlo sotto l’onnipresente incombenza della vergogna e della colpa. Nessuna funzione umana è mai stata piú rilevante e vitale della sessualità. Per tale ragione essa ha

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Gabrielle d’Estrées e sua sorella, olio su tavola della Scuola di Fontainebleau, 1594 circa. Parigi, Museo del Louvre. È probabile che il sorprendente gesto della sorella nei riguardi di Gabrielle (che è la giovane di destra), favorita del re Enrico IV di Francia, alluda alla gravidanza di quest’ultima e alla nascita imminente di César de Vendôme, figlio illegittimo del sovrano, nel 1594.

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piacere

di Luca Pesante

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costume e società il sesso

Prima del Medioevo

Il «puritanesimo» di Marco Aurelio È un luogo comune l’idea di un Medioevo in cui si sviluppa per la prima volta una morale sessuale che reprime ogni impulso carnale. Infatti, a fronte di un paganesimo dei Greci e dei Romani caratterizzato dal culto del corpo e dalla libertà sessuale, si guarda comunemente al cristianesimo come a un’epoca di astinenza, mortificazione della carne e difesa morbosa della verginità. In realtà una rinuncia alla carne, una sorta di «puritanesimo della virilità» esiste già nella tarda antichità dall’epoca di Marco Aurelio (121-180 d.C.). La morale sessuale pagana appare in certi aspetti molto simile a quella che il cristianesimo codificò con Agostino, Tommaso d’Aquino e molti altri. Il Medioevo diede una forte accelerazione e caricò di ideologie un impulso già presente secoli prima del suo inizio. In alto una coppia in camera da letto, miniatura dal manoscritto Cent Nouvelles nouvelles, una raccolta di racconti burleschi e licenziosi di autore francese ignoto composta presso la corte di Filippo il Buono. 1461-1462. Glasgow, Glasgow University Library. Nella pagina accanto particolare della Lotta tra Carnevale e Quaresima, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1559. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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subito un continuo processo di normalizzazione, specie da parte delle autorità ecclesiali, che di molto è variato nel corso dei secoli. Prima di approfondire il tema, occorre però sottolineare un problema pratico legato a questo tipo di indagini storiche. Chi – dal Medioevo – ci parla della sessualità fa parte dell’élite della cultura: soprattutto monaci, sacerdoti e chierici, o medici, che detenevano il potere della

scrittura. Proprio coloro che – come nel caso degli uomini di Chiesa –, in teoria, avevano meno familiarità con il sesso, in virtú del voto di castità che regolava le loro vite.

Due giorni al mese

In generale, le pulsioni e il desiderio carnale vengono repressi in tutti quei casi che escludono la procreazione. Oltretutto, come ripete l’Ecclesiaste, «esiste un tempo per ogni agosto

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cosa: un tempo per amare e un tempo per odiare», pertanto è fatto precetto di astinersi dall’accoppiamento nelle principali scadenze liturgiche: la domenica, il mercoledí, il venerdí, ovviamente nei giorni di Quaresima e di Avvento, e durante le numerose feste dei principali santi, oltre che nei giorni in cui la donna ha le mestruazioni, è incinta, e allatta. Ne consegue che per una scrupolosa coppia del Medioevo

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non erano disponibili piú di un paio di giorni al mese – in media – per avere rapporti sessuali.

Unioni «diaboliche»

In realtà, come aveva rimarcato Bernardino da Siena (1380-1444) su 1000 matrimoni, 999 erano orditi dal diavolo, a dimostrazione del fatto che, nella maggior parte dei componenti della società – cioè tra i piú poveri – vigevano consue-

tudini che la dottrina cristiana faticava a sovvertire. Nell’ambito della grande scuola medica salernitana, Costantino l’Africano scrive, tra 1077 e 1087, un trattatello, il De coitu, che è la prima opera latina – fortemente ispirata dal pensiero arabo – sull’atto sessuale tra un uomo e una donna studiato dal punto di vista medico. Riprendendo la teoria di Galeno, Costantino fa del piacere sessuale

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costume e società il sesso l’impulso fondamentale alla procreazione. In seguito si dilunga su consigli di igiene e sull’importanza della moderazione in tale attività. In generale, la tradizione medica occidentale considera l’atto sessuale come indispensabile per conservarsi in buona salute. Il medico Aldobrandino da Siena (vissuto nel XIII secolo) scrive che trattenere lo sperma nuoce oltremodo alla salute e che i religiosi e le vedove muoiono prima degli altri proprio perché non praticano il sesso. Il tentativo di controllo della morale sessuale da parte delle autorità ecclesiali assume connotati diversi nel corso dell’età di Mezzo.

Alcuni Padri della Chiesa vanno ripetendo perfino che «adultero è colui che ama la propria moglie con troppo ardore». La donna deve assumere una posizione passiva nell’atto d’amore, essendo ogni altra giudicata nociva per il corpo e per l’anima. Ogni tentativo di evitare il concepimento è considerato peccato mortale dai teologi, cosí come la sodomia e l’omosessualità.

La morale di Gregorio

La riforma gregoriana, promossa da papa Gregorio VII (1073-1083), offre una prima messa a punto, oltre che un notevole aggiornamento, della morale sessuale, distinguendo

i primi sex toys

Orgasmi procurati contro l’isteria Gli oggetti utilizzati sia per motivi medici che piú verosimilmente per autoerotismo femminile hanno una lunga storia. Nel Penitenziale di Burcardo di Worms (1050-1025) è scritto che se una donna asseconda le proprie voglie con oggetti a forma di membro virile, merita 5 anni di penitenza. Si credeva che, soprattutto all’interno delle comunità monastiche femminili, una certa forma di isteria potesse essere curata mediante l’orgasmo, che nell’impossibilità di incontri maschili le monache si procuravano attraverso diversi strumenti. Dai tempi di Ippocrate si consigliava di curare l’amenorrea (mancanza di mestruazioni) mediante l’introduzione di oggetti di vario tipo. Lo stesso consigliava Trotula (XI secolo), celebre donna-medico a Salerno, che prescriveva l’uso di un pessario: un’oggetto di stoffa imbevuto di unguento. Una raffinata tecnica di autoerotismo monastico è ben descritta da Pietro Aretino: pare infatti che le monache usassero regolarmente dei in vetro – fatti realizzare da artigiani specializzati – cavi all’interno, che era possibile riempire di acqua calda, in modo da renderne ancora piú piacevole l’effetto. Bottiglia in forma di fallo. XVI sec. (?). Parigi, Museé de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

tra chierici e laici: i primi dovranno d’ora in poi evitare la corruzione dell’anima, in primo luogo astenendosi dal versare sperma e sangue; i secondi saranno inquadrati in un modello di società regolata dal matrimonio monogamico e indissolubile. A ciò si deve aggiungere il sistema dei sette peccati capitali, che include quelli di natura sessuale nell’ambito della lussuria, che, per gravità, figura sempre dopo superbia e avarizia. Fin qui, il punto di vista teorico, ma che cosa accadeva realmente nella vita di ogni giorno? Sembra che molte pratiche di vita sessuale ereditate dal mondo pagano grecoromano perdurassero lungo tutto il Medioevo, mentre la castità – invero poco praticata – dei monaci era continuamente oggetto di scherno. La sessualità medievale oscillò senza sosta tra repressione e disinvolta libertà. Nel XIV secolo – ha scritto ancora Jacques Le Goff – si preferí ripopolare la terra piuttosto che il Cielo, in un certo senso naturalizzando i valori sessuali: ora l’ambiguità riguarda non piú il carnale e lo spirituale, ma ciò che è naturale e il suo contrario.

Valori nuovi

Alcuni storici hanno sottolineato come già nel I-II secolo dell’impero romano esistesse in alcuni ambiti della società una sorta di repressione degli impulsi sessuali (vedi box a p. 62), che poi il Medioevo ha accentuato e caricato di implicazioni religiose. Anche in questo ambito dunque la cultura cristiana eredita modelli già sviluppati nell’antichità, ma li arricchisce di nuovi valori e significati. Nel Tesoro dei poveri, il medico portoghese Pietro Ispano (1220 circa-1277) – eletto papa a Viterbo nel settembre del 1276 con il nome di Giovanni XXI – riporta ricette per la cura del corpo, dalla testa fino ai Nella pagina accanto un uomo sodomizzato da una creatura mostruosa, particolare dell’Inferno di Herri met de Bles. XVI sec. Venezia, Palazzo Ducale.

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costume e società il sesso Un’altra miniatura dalle Cent Nouvelles nouvelles raffigurante due uomini e una donna nello stesso letto. 1461-1462. Glasgow, Glasgow University Library.

piedi, che compongono una sorta di manuale per gli indigenti. Al capitolo Come eccitare il coito, vi sono, tra le altre, le seguenti prescrizioni: «Chi vuole sempre praticare il coito beva 1 oncia di midollo di leopardo, lo farà in modo smisurato. Se si spalma il pene con il fiele di verro o di cinghiale, si eccita il desiderio del coito e si provoca piacere alla donna. Ungi il membro virile e le parti genitali della donna con il succo di satirio e cospargi con la sua polvere, ciò fa in modo che chi è sterile possa concepire, rende l’atto piú intenso e aumenta il piacere».

controllo del proprio corpo, anche a letto. La donna passiva deve lasciar fare all’uomo, ma ogni posizione che differisce da quella «classica» del missionario provoca la collera di Dio, come oltraggio all’ordine naturale delle cose, che potrebbe perfino portare alla procreazione di esseri mostruosi, per non parlare della sodomia (considerata da san Tommaso alla pari del cannibalismo) e dei tentativi contraccettivi. Tra le posizioni del sesso condannate dalle autorità ecclesiali si

Il piacere

Sembra dunque esistere un’ampia differenza tra teoria e pratica. L’aspetto piú interessante delle parole del futuro pontefice, derivate in parte dagli antichi trattati di Galeno, Dioscoride, Costantino Africano e altri, risiede nell’attenzione al piacere, che è un elemento fondamentale della sopravvvivenza della specie, ma qui sembra avere dignità propria, soprattutto nel caso di quello della donna. In effetti, nella grande tradizione dei testi medici medievali che dal XIII secolo conosce una grande diffusione anche nelle lingue volgari, il corpo e il piacere sessuale non vengono sempre associati al male e al peccato: semmai gli impulsi della carne, considerati come esito di un furore e una follia incontrollabili, nuocciono prima di tutto alla ragione e allo spirito, prima di essere peccati contro Dio. A livello dottrinale le raccomandazioni per un uso moderato e corretto del sesso non mancano: il consumo eccessivo di carne e di vino infiamma il desiderio carnale e in generale è bene mantenere il pieno

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in posizione nettamente inferiore e sottomessa alle libertà maschili. In materia di stupro, esisteva una forte disparità nella pena a seconda che la donna vittima della violenza fosse onesta o di mala fama, e, in quest’ultimo caso, il reato poteva anche essere depenalizzato. Del resto Isidoro di Siviglia (560 circa-636), nelle Etimologie, aveva chiaramente indicato l’origine della parola mulier (donna) da mollitia, mollezza dei costumi; mentre vir (uomo) deriverebbe dal suo contrario, vis (forza). Una ulteriore differenza opponeva ricchi e poveri nelle società medievali: nelle famiglie grandi e benestanti il concubinato e l’adulterio rientravano nella normalità del vivere quotidiano, mentre sembra che la monogamia fosse praticata in specie dai piú poveri. La castità era invece una virtú estremamente rara, diffusa forse entro una ristretta élite clericale, a fronte di una buona parte dei chierici (circa il 20%) impegnata in continue relazioni amorose. Semplificando i dati, potremmo dire che l’attività sessuale extramatrimoniale appare regolata dal maggiore o minore agio economico dei protagonisti: si trattava in fondo di un lusso che non tutti potevano permettersi.

Anime perdute trova la donna sopra l’uomo, che sembra invece essere tipica dei rapporti con le prostitute, poiché si pensava fosse utile per evitare il concepimento, e ancora peggio l’atto in cui l’uomo possiede la donna da dietro (more canino). Nonostante la morale cristiana non sia sempre la stessa, se il pensiero teologico assegnava pari responsabilità sessuali all’uomo e alla donna, nella pratica la realtà appariva ben diversa, con la donna

Ben maggiori preoccupazioni destavano due comportamenti abbastanza diffusi, perseguiti in modo particolare: l’autoerotismo e l’omosessualità. Per quest’ultima la Chiesa aveva manisfestato fino al XII secolo una certa indulgenza. In seguito la condanna fu tale che chi si macchiava di tale reato non poteva nemmeno aspirare al Purgatorio. Nonostante le decise prese di posizione della Chiesa, i rapporti carnali tra persone dello stesso sesso erano molto diffusi, ma se quelli tra donne costituiscono casi agosto

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eccezionali – alla luce della documentazione disponibile –, è invece piuttosto frequente trovare informazioni sui rapporti tra maschi. La sodomia indica generalmente le relazioni omosessuali (nonostante fosse perseguita anche nei casi di rapporti eterosessuali) e un aspetto interessante e poco noto riguarda l’origine del termine, che deriva dalla città di Sodoma, distrutta da Dio non per le relazioni omosessuali, ma per l’ingratitudine e l’orgoglio del suo popolo, peccati, questi, che comunque derivano da disordini del comportamento sessuale. Solo in seguito la sodomia, da peccato di arroganza e orgoglio, assume esclusive implicazioni sessuali.

Quattro gradi di vizio

San Pier Damiani (1007-1072) identifica quattro tipi di vizio sodomitico: la masturbazione, lo sfregamento dei genitali, la polluzione tra le cosce (inter femora), e il fornicare da dietro (in terga), tutte azioni che, a partire dal Concilio Laterano III (1179), furono definite – insieme ad altre – «contro natura», poiché non destinate a un fine procreativo. Non esiste dunque una corrispondenza diretta tra sodomia e omosessualità prima del XIV secolo, quando gli inquisitori iniziano sempre piú ad accostarne il significato alle relazioni sessuali tra uomini. In ogni caso, in questa analisi è sempre necessario ricordare che per tutto il Medioevo non esiste il concetto di omosessualità (la parola stessa non compare prima della seconda metà del XIX secolo). Il pederasta, l’effeminato, o colui che manifesta un amore virile per un altro uomo, non esprimono necessariamente un orientamento sessuale nei confronti di persone del medesimo sesso (che pure era diffuso), ma, nella maggior parte dei casi, compiono semplicemente un atto carnale. Esistono invece molte notizie su uomini che non amano le donne: il caso piú noto lo racconta Boccaccio nel Decameron, dove Pietro di Vinciolo, uno degli uomini piú ricchi

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Penitenze

Salmi, flessioni e digiuni Per scoprire le abitudini sessuali che piú preoccupavano i sacerdoti nell’Alto Medioevo è molto utile la lettura dei Penitenziali, cioè quei manuali pratici che per ogni peccato prescrivevano precise pene (penitenze) da infliggere. Come nel caso del Decretum di Burcardo di Worms (950-1025). È importante sottolineare come in questo caso, a parlare di sesso nel Medioevo, siano generalmente uomini che hanno rinunciato alla vita sessuale. «Se un vescovo commette adulterio merita 12 anni di digiuno; se si va con una suora 7 anni di digiuno. Se di notte un sacerdote ha polluzioni involontarie deve subito alzarsi e cantare un salmo, e al mattino trenta flessioni (maxillam suam ad terram inclinet). Un bacio a una donna necessita di 20 giorni di digiuno, bacio con eiaculazione 40 giorni. I pensieri lascivi accompagnati da eiaculazione meritano una settimana di digiuno che diventano 3 se il prete si è aiutato con una mano. Una suora colpevole di fornicazione è condannata al digiuno da 3 a 7 anni. Gli incesti con madre o figlia hanno una penitenza di 12 anni, la sodomia tra fratelli 15 anni. Se la donna ha utilzzato oggetti a forma di membro virile, 5 anni. Le penitenze per gli accoppiamenti con gli animali dipendono dall’animale utilizzato: in media varia da 7 a 10 anni, ma se l’animale è poco attraente la pena si riduce di 100 giorni. Per il coito orale si sconta una pena di 7 anni di digiuno; mentre la pedofilia è sanzionata con 5 giorni di digiuno per il puer, 20 giorni se è consenziente, e all’adulto 100 giorni. Se la madre seduce il figlio ancora bambino digiunerà per 3 anni, ma se il marito risulta impotente allora lei può lasciarlo e sposare un altro (come farà secoli dopo Eleonora d’Aquitania)». O ancora: se «hai ingerito lo sperma di tuo marito perché con questa tua diabolica trovata egli fosse piú focoso nell’amarti, sette anni di penitenza nei giorni stabiliti».

Un frate cena con una coppia e poi giace con la donna, mentre il marito fa penitenza per raggiungere il Paradiso, miniature che illustrano la novella di Pinuccio di Rinieri del Decameron di Giovanni Boccaccio, da un manoscritto di scuola francese. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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costume e società il sesso la sifilide

Un terribile «effetto collaterale» delle spedizioni militari Quando il pastore Sifilo offese Apollo, fu da questi colpito da una malattia che ne deturpò per sempre la bellezza. La sifilide fu definita in vari modi – morbo gallico, mal francese, mal napoletano, morbo celtico –, in genere sulla base della provenienza degli infetti. Il grande poeta del Rinascimento Angelo Poliziano, moriva nel 1494, sfinito da un male intollerabile, che aveva cosí descritto: «Una peste ripugnante che si diffonde per le membra dimagrite e lacera i nervi infuocati. La violenza empia e funesta di questo male riempie le vene con le sue fiamme crudeli, beve il sangue in putrefazione e, nel suo furore, cosa raccapricciante, assorbe con il suo avido fuoco le midolla liquefatte (…). Mi sembra di portare nel ventre l’intero Vesuvio e tutte le fucine in cui risuona l’incudine di Vulcano». La diagnosi non lascia scampo: si tratta di sifilide, quel morbo di origine americana che gli uomini di Cristoforo Colombo diffusero inizialmente a Barcellona non appena rientrati dal lungo viaggio di ritorno (1493), poi in tutto il resto d’Europa in una popolazione priva di difese naturali contro il nuovo flagello. Nel 1495 la malattia si diffonde in Italia, soprattutto grazie alla spedizione militare di Carlo VIII, e da qui in tutto il resto d’Europa seguendo le rotte dei soldati che tornavano nei loro Paesi d’origine. Il contagio, infatti, è generalmente trasmesso dalle donne che seguono i soldati durante una guerra.

Dottori curano pazienti affetti da sifilide, incisione dalla copertina di un trattato di scienza medica del XV sec. Introdotta in Europa dagli uomini di Cristoforo Colombo, la sifilide si diffuse durante le guerre, portata dai soldati e dalla donne che li seguivano.

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di Perugia, è spinto a sposarsi per salvare le apparenze, e la moglie insoddisfatta costretta a procurarsi un giovane amante. Alla fine Vinciolo si invaghisce del giovane, che per caso trova nascosto dentro una cesta, e invita la consorte a trovarsi altri amanti da portare in casa.

All’inizio del XIV secolo il processo ai Templari (vedi «Medioevo» n. 183, aprile 2012; anche on line su medioevo.it) mostra la gravità dell’accusa di sodomia a loro rivolta, un peccato pari al rinnegamento di Cristo e all’adorazione degli idoli. Dante li confina nel settimo

girone infernale e progressivamente la sodomia diviene il peccato del nemico e dello straniero (i musulmani ne sono spesso accusati). Dal XV la repressione si intensifica e si acuisce l’attenzione del legislatore e del predicatore: molti processi per reati di natura «omosessuale» finiscono con la condanna a morte degli imputati.

Donne socialmente utili

Piú dei voti poté l’amore Filippo Lippi e la monaca Buti, olio su tela di Gabriele Castagnola. 1860 circa. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna. Il dipinto immagina un momento della storia d’amore tra il carmelitano pittore e la bellissima religiosa, entrata nel convento di S. Margherita di Prato nel 1451, forse per una vocazione forzata. Qui posò come modella per Filippo, che se ne innamorò e la fece fuggire nel 1456, portandola a vivere con sé: la situazione causò uno scandalo enorme e si concluse solo con l’intervento dei Medici, estimatori dell’arte del Lippi, che ottennero da papa Pio II lo scioglimento dei voti per entrambi. Filippo e Lucrezia non si sposarono mai, ma ebbero due figli: Filippino, pittore come il padre, e Alessandra.

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In questo quadro la prostituzione appare in una posizione ambigua. Si tratta di un fenomeno mai contrastato con vigore, in molti casi perfino tollerato dalle autorità urbane (vedi «Medioevo» n. 192, gennaio 2013; anche on line), anche nel tentativo di tenere sotto controllo i frequenti atti di violenza nei confronti delle giovani di umili condizioni. La Chiesa di fatto considerava la prostituzione un male inevitabile, e le prostitute esseri umani moralmente detestabili, ma la loro professione era valutata come un elemento capace di assicurare una certa stabilità sociale. Nel 1170 a Parigi le prostitute riunite in una corporazione proposero al Capitolo di Notre-Dame di pagare una vetrata in onore della Madonna, e, dopo una breve discussione, fu deciso che si poteva accettare il denaro perché in fondo guadagnato onestamente. Per comprendere l’entità del fenomeno basti pensare che a Roma alla fine del Medioevo si contavano circa 5000 prostitute di professione, su una popolazione di 50 000 abitanti. Anche nel Medioevo, insomma, la vita intima di uomini e donne pervade ogni settore della vita sociale e la morale sessuale di una comunità apre un punto di vista su una società intera: nei circa dieci secoli dell’età di Mezzo, la sessualità fa emergere le innumerevoli contraddizioni che regolavano la vita quotidiana. Violenza, prevaricazione, brutalità, sono elementi diffusi, che spesso ne affiancano altri apparentemente contrari come il piacere, il desiderio e perfino l’amore. F

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saper vedere aquileia

La basilica dei patriarchi

di Chiara Mercuri e Fabio Giovannini

Importante centro della regione augustea denominata Venetia et Histria, Aquileia segue le sorti di Roma e imbocca la via del declino nel momento in cui il potere imperiale comincia a sfaldarsi. Per contro, conserva una notevole vivacitĂ in campo religioso e, con l’avvento del cristianesimo, si impone come una delle sedi vescovili piĂş importanti della Penisola. Una vicenda di cui è espressione magnifica il complesso monumentale di S. Maria Assunta, reso celebre dalle eleganti architetture e, soprattutto, da un corpus di mosaici policromi unico al mondo


Aquileia. Il complesso della basilica visto da sud. Da sinistra si riconoscono: i resti del battistero (fine del IV sec.); il portico e la chiesa «dei Pagani» (IX sec.), il campanile (XI sec.) e la chiesa di S. Maria Assunta, fondata nel IX sec. su un preesistente edificio di culto paleocristiano e il cui aspetto attuale è in larga parte il frutto degli interventi operati nell’XI sec.

N

ella fertile pianura friulana, all’incrocio di tre mondi distanti – mediterraneo, slavo e germanico – che qui stabilirono una felice commistione di relazioni e rapporti, sorge il complesso monumentale di S. Maria Assunta. Il grandioso edificio religioso troneggia su una città oggi quasi deserta, che un tempo fu una delle piú importanti metropoli dell’antichità: Aquileia. Il complesso monumentale può essere considerato a buon diritto un vero e proprio palinsesto della storia dell’arte medievale, uno specchio degli interessi artistici e degli avvenimenti storici che interessarono questo territorio tra l’età tardo-antica e il Rinascimento. Aquileia, infatti, è una delle rare metropoli di età romana che dopo la fine del mondo antico si spopolarono quasi totalmente: il suo declino, tuttavia, portò alla propagazione di nuovi centri, che mano a mano si svilupparono fino a dar vita a una delle grandi protagoniste della storia europea, Venezia. Ciononostante, Aquileia mantenne sempre, anche nei secoli del Medioevo, una sua importanza; non piú come centro urbano, ma come sede del patriarcato, una carica religiosa acquisita nel VI secolo dal vescovo cittadino, che dall’età carolingia finí


In alto veduta aerea di Aquileia, dominata dal campanile costruito nel 1031, che supera i 70 m di altezza. AUSTRIA

per rivestire una grande autorità feudale; cosí Aquileia, decaduta per popolazione e ricchezza, nell’Alto Medioevo divenne sede di un vero e proprio Stato autonomo che, sotto l’egida imperiale, governava il territorio a cavallo tra la Pianura Padana orientale e le piú profonde linee montuose del Friuli.

Una diocesi vasta e importante SLOVENIA

Udine

Pordenone Gorizia

AQUILEIA

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Trieste

In origine, come si accennava, la carica di patriarca non fu altro che il riconoscimento al vescovo di Aquileia del ruolo detenuto dalla città come capitale religiosa di una regione vastissima, che andava dal Mincio al Danubio; una diocesi molto estesa, che rifletteva l’intensa attività missionaria promossa dalla Chiesa locale verso oriente e – soprattutto – l’importanza di Aquileia nei secoli centrali e conclusivi dell’impero romano. Già alla fine del IV secolo, infatti, la città era equiparata, per reputazione e potere, alla diocesi metropolitana di Milano, capitale imperiale. Il vescovo locale era quindi diretto superiore di tutti i vescovi della Venezia, dell’Istria, del Norico, della Rezia seconda e forse anche della Pannonia superiore. Nel corso del VI secolo, il metropolita di Aquileia entrò addirittura in contrasto dottrinario con il pontefice agosto

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Dove e quando Basilica, Cripta degli affreschi e Cripta degli scavi Aquileia, piazza Capitolo 1 Orario apr-set: tutti i giorni, 9,00-19,00; mar e ott, 9,00-18,00; nov-feb: tutti i giorni, 9,00-16,30 Campanile Orario tutti i giorni, 9,30-13,30 e 15,30-18,30 (ott: solo sa-do, 10,00-17,00); chiuso da novembre a marzo Info tel. 0431 919719; www.aquileia.net

Info tel. 0431 91131; e-mail: museoarcheoaquileia@ beniculturali.it; www.museoarcheologicoaquileia. beniculturali.it

Museo Paleocristiano di Aquileia Aquileia, piazza Pirano 1, Loc. Monastero Orario gio, 8,30-13,45; il museo è altrimenti visitabile su appuntamento (tel. 0431 91035)

Aree archeologiche (Foro e Porto Fluviale) Orario tutti i giorni, dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto Info www. museoarcheologicoaquileia. beniculturali.it

Museo Archeologico Nazionale Aquileia, via Roma 1 Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0431 91016; www.museoarcheologicoaquileia. beniculturali.it

In basso pianta delle aree archeologiche aquileiesi, con la distribuzione delle strutture piú importanti a tutt’oggi individuate.

le aree archeologiche

Anfiteatro

Sepolcreto

Grandi Terme E RDIN

CA

Circo Grande Mausoleo

O

SIM

MAS

Foro

Case e oratori IMO ASS M E DIN Basilica CAR Patriarcale Mercati

Case e oratori

Porto fluviale

Museo Paleocristiano

Cinta repubblicana Cinta del III sec.

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Cinta della fine del IV sec. Cinta tado-antica

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saper vedere aquileia le molte vite di un capolavoro

Il monumento in sintesi

Una summa dell’arte medievale italiana

Una figura di ariete, particolare mosaico policromo dell’aula teodoriana nord, oggi visibile nella cripta degli Scavi.

di Roma e con l’imperatore bizantino; e proprio in tale occasione egli assunse la carica patriarcale, che portò Aquileia a un’importanza religiosa quasi pari a quella di Roma e Costantinopoli. Dopo la pacifica conclusione della contesa, tale carica venne formalmente riconosciuta alla città e rimase a lungo prerogativa del suo vescovo. Se all’inizio però il patriarcato ebbe un valore piú che altro formale e limitato alla gerarchia religiosa, con il trascorrere dei secoli, soprattutto a partire dall’età carolingia, a esso si collegarono privilegi e possessi feudali che lo tramutarono in una vera e propria potenza temporale. L’importanza raggiunta dal patriarcato nei secoli del Medioevo centrale ha il suo specchio artistico e architettonico nel complesso religioso di S. Maria Assunta che, fondato nel IX secolo su una preesistente chiesa paleocristiana, conobbe una serie di rifacimenti di poco successivi al Mille, ai quali deve, in gran parte, l’aspetto attuale. Il sito, di grande suggestione, è un monumento di centrale importanza per l’arte italiana.

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3 Perché è importante Il santuario di S. Maria Assunta è il simbolo dell’importanza religiosa e politica raggiunta dal patriarcato di Aquileia in età medievale, quando la città divenne centro nevralgico di un esteso territorio che andava dall’Italia nord-orientale al Danubio. 3 S. Maria Assunta nella storia La realizzazione del santuario avvenne nell’ambito di un rilancio della città in età carolingia, dopo che Aquileia – grande capitale in età romana – aveva vissuto una fase di decadenza in età longobarda. Dopo il Mille vi fu un altro grandioso rifacimento – a cui si deve per gran parte l’attuale aspetto del monumento – e ulteriori raffinati interventi minori si succedettero tra il XII e il XIV secolo. 3 S. Maria Assunta nell’arte La basilica medievale era stata realizzata su parte di un grandioso complesso religioso del IV secolo, del cui pavimento musivo si conservano ampi tratti; si tratta di uno dei mosaici pavimentali meglio conservati al mondo ed è un documento di eccezionale valore artistico. La commistione tra decorazioni e architetture che vanno dall’età paleocristiana a quella gotica rendono il santuario una vera e propria summa dell’arte medievale italiana, che si inquadra in un contesto paesaggistico di grande fascino.

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In basso planimetria che mostra le varie fasi del complesso monumentale della basilica: in verde, la cosiddetta «aula gnostica» (1), forse del II sec. d.C.; in marrone, le due aule parallele,

A sinistra un tratto delle fondamenta del campanile del patriarca Poppone, che insistono sui mosaici dell’aula teodoriana nord. Qui sotto due angeli su un’imbarcazione, particolare della Storia di Giona, nel mosaico dell’aula teodoriana sud, interamente inglobata nella basilica attuale (foto in basso).

nord (2) e sud (3), del santuario paleocristiano costruito dal vescovo Teodoro intorno al 314; in beige, la basilica (4) nella forma assunta dopo gli interventi dell’XI sec., il battistero (5) e il campanile (6).

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Dida da fare il cielo inquadrato dall’ottagono del cortile. Nella pagina accanto veduta aerea del castello, la cui pianta si compone di un ottagono perimetrale che fa corpo unico con le torri angolari, a loro volta ottagonali.


saper vedere aquileia

Le vicende che interessarono la città di Aquileia sin dalla sua fondazione costituiscono, infatti, uno spaccato della storia di questi territori: la città nacque come colonia romana nel 181 a.C., in un momento di espansione della repubblica verso l’area del Nord-Est della Penisola, a spese delle locali popolazioni celtiche, in un territorio ricco di pianure fertili, connesse al mare attraverso la laguna che si trova a nord dell’isola di Grado. Grado divenne il porto marittimo della nuova città, a essa collegato da un vasto fiume navigabile, formato dal confluire – poco prima di entrare nel perimetro urbano – del Natisone con il Torre; questo corso d’acqua aveva all’epoca una portata assai maggiore rispetto all’attuale Natissa, suo discendente.

Dall’apogeo all’arrivo di Attila

Aquileia andava a collocarsi sullo snodo viario delle strade che collegavano il mondo romano occidentale con quello balcanico e greco, e presto – alimentata dai commerci – la città crebbe d’importanza e vide aumentare la sua popolazione, fino a raggiungere intorno al III secolo

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d.C. la sua massima espansione. Quando, però, l’impero romano imboccò la via del declino, la sua ricchezza finí con l’attirare conquistatori e razziatori che, dopo aver superato le fortezze poste lungo i valichi alpini, irruppero nella pianura padana orientale, di cui Aquileia era la capitale indiscussa. Una di queste incursioni fu guidata da Attila, il quale, nel 452, portò i suoi temibili guerrieri unni sotto le mura della città. Aquileia resistette al lungo assedio, e solo il crollo improvviso di una porzione delle sue fortificazioni permise agli Unni di entrarvi e metterla a sacco. Per la città fu un colpo durissimo: proprio in quell’occasione una parte della popolazione si spostò verso la piú sicura area portuale di Grado e verso altre isole della laguna veneta, dando vita ai primi nuclei abitativi dai quali, molto tempo dopo, fiorí Venezia. Fu tuttavia l’invasione longobarda del 568 (anch’essa tracimata dalle Alpi Giulie) ad assestare all’antica Aquileia il colpo decisivo: spaventato dalla violenza del primo impatto con i guerrieri germanici, il patriarca Paolino I – insieme a buona parte della popolazione – si rifugiò nell’isola di Grado, portando con sé reliquie, agosto

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A sinistra affresco dell’abside superiore della basilica raffigurante i santi Taziano, Ilario e Marco, con il patriarca Poppone, ritratto con il nimbo (aureola) quadrato e un modellino della chiesa, ed Enrico II. Ante 1031. A destra la cattedra vescovile, posta al centro dell’abside, con i gradini marmorei riccamente decorati. IX sec. In basso il sarcofago del patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) custodito nella cappella dei Torriani, da lui realizzata.

ricchezze e, soprattutto, la sede patriarcale. Nel corso dell’invasione, Grado, come molti centri costieri, rimase bizantina, mentre Aquileia, con la parte della popolazione e del clero che vi erano rimasti, cadde sotto il dominio longobardo. Il clero della città nominò quindi un nuovo patriarca, e cosí il patriarcato si scisse tra quello di Grado, sostenuto dai Bizantini, e quello di Aquileia, soggetto ai Longobardi. Ambedue finirono con l’essere riconosciuti dalla Chiesa di Roma, che non aveva altra scelta. Nonostante fosse riuscita a mantenere – in parte – il prestigioso titolo, la città era ormai tagliata fuori dagli scambi commerciali con il Mediterraneo e sembrava destinata a scomparire. Perfino il patriarca «longobardo» la abbandonò per trasferirsi a Cividale, capitale del nascente ducato.

Una resurrezione insperata

Con l’arrivo di Carlo Magno e la distruzione del regno longobardo si assistette però a un’inaspettata resurrezione. Carlo nominò un nuovo patriarca – Massenzio – al quale affidò il denaro ricavato dagli espropri dei

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saper vedere aquileia i secoli di aquileia 181 a.C. Fondazione della città come colonia romana nel corso delle guerre contro i Celti. 90 a.C. Aquileia, sempre piú importante, diviene municipium. 300 d.C. circa Aquileia è capoluogo della X regione (Venetia et Histria). 314 Poco dopo l’editto di tolleranza di Costantino, il vescovo Teodoro realizza due grandi aule di culto, con uno straordinario pavimento musivo. 390 circa La sede di Aquileia ascende al rango di diocesi metropolitana, equiparandosi a Milano. Nel corso di questi anni vengono effettuati grossi interventi sulle aule teodoriane per migliorarne la funzionalità come edifici religiosi.

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452 Dopo un lungo assedio, gli Unni di Attila saccheggiano la città e distruggono gran parte della basilica paleocristiana. Negli anni successivi ne viene ricostruita una porzione. 554 Nel corso di una disputa religiosa con l’imperatore Giustiniano e papa Vigilio, il metropolita di Aquileia assume il titolo di patriarca, che gli viene successivamente riconosciuto da Roma. 568-569 Gli invasori longobardi costituiscono a Cividale il loro primo ducato. Il patriarca Paolino I – insieme a parte della popolazione – abbandona la città e si rifugia nell’isola di Grado. 811 Il patriarca Massenzio edifica l’attuale chiesa di S. Maria Assunta sui resti della preesistente basilica e riporta la sede del patriarcato ad Aquileia. 1031 Dopo le drammatiche incursioni degli Ungari e il terremoto del 998, il patriarca Poppone ricostruisce la basilica e riorganizza la città, rilanciandola come centro urbano.


1077 l’imperatore Enrico IV concede al patriarca Sigeardo l’investitura feudale sull’intero territorio friulano; nasce lo Stato patriarcale. XII secolo Viene realizzato un ciclo prima metà di affreschi nella cripta massenziana con scene della vita di Ermacora, della Passione di Cristo e altre a carattere allegorico e profano. 1348 Un devastante terremoto scuote l’intero Friuli provocando il crollo di una porzione della basilica. Il patriarca Marquardo di Randeck effettua lavori di restauro. 1421 Venezia assoggetta gran parte del territorio friulano e pone fine allo Stato patriarcale. Aquileia diviene parte dell’impero austriaco. Nella pagina accanto il campanile della basilica. In basso la cripta degli affreschi, realizzata dal patriarca Massenzio nel IX sec. e rivestita dalle pitture murali nel XII sec.

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proprietari longobardi, consegnandogli privilegi e prerogative feudali che tramutarono di colpo il patriarcato in un principato regionale, destinato, nel progetto carolingio, a prendere il posto dell’ormai sconfitto ducato longobardo. Forte dei beni acquisiti, Massenzio riportò la sede del patriarcato ad Aquileia già nell’anno della sua nomina (811), dopo aver ristrutturato completamente la magnifica ma ormai semidiruta basilica cristiana che era stata edificata nel IV secolo. Aquileia fu quindi restituita al prestigio che le competeva e la città conobbe un nuovo sviluppo, diventando il centro di riferimento religioso e feudale per la popolazione della regione, dispersa in piccoli villaggi agricoli.

Espressione del potere patriarcale

Da quel momento, l’autorità del patriarca (divenuto ormai un ministro imperiale, piú che un capo religioso) si fece sempre piú significativa, e la chiesa di S. Maria Assunta divenne l’espressione simbolica del suo potere. Nel 1031, a causa di un terremoto, ma anche delle invasioni ungare, il nuovo patriarca Poppone promosse il rifacimento della basilica, inserendo l’intervento in un programma di vera e propria riorganizzazione della città, che conobbe in quegli anni una ripresa (anche come centro urbano) a scapito dell’odiata rivale, Grado. Quest’ultima inoltre era sempre piú minacciata – sia come centro commerciale che politico – dall’incalzante Venezia. Oltre agli interventi nella basilica, Poppone fece costruire un grande Palazzo Patriarcale – andato poi di-

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saper vedere aquileia strutto – e l’imponente campanile, alto oltre 70 m, che ancora domina la circostante campagna friulana, per il quale furono usati i blocchi marmorei dell’antico anfiteatro. Alcune ulteriori scosse di terremoto, secoli dopo, spinsero infine – alla metà del Quattrocento – l’arcivescovo Marquardo di Randeck a realizzare nuovi restauri. Il centro di tali interventi rimase sempre il complesso religioso di S. Maria Assunta. Intanto, però, col trascorrere dei secoli la città tornava a spopolarsi. Altre aree della regione si stavano sviluppando, gli scambi con l’entroterra languivano e le coltivazioni necessitavano di costanti lavori di manutenzione, per evitare i frequenti impaludamenti. A parte il grande complesso religioso, entro le antiche mura la natura tornava padrona e i piccoli edifici medievali diventarono presto parte del paesaggio agricolo, come era accaduto alle piú consistenti strutture dell’età romana. Anche il mondo feudale, del quale era stato protagonista lo «Stato patriarcale», era destinato a scomparire. Ormai solo due superpotenze si fronteggiavano nella pianura: Austria e Venezia. Cosí, all’inizio del Rinascimento, Aquileia concluse la sua parabola; Venezia era ormai troppo vicina per accettare la presenza della sua antenata, solida alleata dell’impero. Dopo aver ereditato – anzi strappato – a Grado il prestigioso titolo patriarcale, fu proprio la Serenissima a rompere gli indugi e porre fine all’antico Stato feudale, dividendolo con l’Austria. Secoli dopo, ottenne anche la cancellazione del titolo patriarcale per Aquileia, ormai ridotta a un piccolo borgo rurale. C. M.

Il primo santuario

tinuò a essere utilizzato nei primi secoli del Medioevo e a partire da esso fu poi organizzata, in età carolingia, la chiesa attuale. In quell’occasione il pavimento musivo fu coperto, mentre quello dell’aula nord era stato coinvolto nell’abbandono dell’edificio. Ampie porzioni di tale decorazione musiva tornarono alla luce, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, grazie a scavi mirati. Si tratta di un’imponente superficie di circa 700 mq, oggi Patrimonio dell’UNESCO. Le tematiche della decorazione pavimentale, la cui fattura ricorda le piú raffinate decorazioni tardo antiche presenti sia in Italia che in Africa del Nord, sorprendono per il forte simbolismo religioso. Si tratta soprattutto di una serie di immagini impiegate a fini didascalici (cosiddetta Biblia pauperum) tratte dal repertorio pastorale e marino di impronta ellenistica; ma vi sono anche

una storia in cinque tappe Il complesso di S. Maria Assunta ha conosciuto fasi diverse: 3 Il santuario paleocristiano, costruito nel corso del IV secolo dal vescovo Teodoro, in parte ristrutturato tra la fine del IV e il V secolo, forse all’indomani del sacco di Attila del 452. 3 La chiesa carolingia, realizzata dal patriarca Massenzio poco dopo l’811. 3 I rifacimenti della basilica dovuti al patriarca Poppone, conclusi nel 1031. 3 La stesura di un ciclo pittorico nella cripta, nel corso del XII secolo. 3 Gli ultimi restauri della metà del XIV secolo.

Come si è detto, il primo edificio religioso cristiano fu edificato, immediatamente dopo l’editto costantiniano che consentiva la libertà di culto (313), dal vescovo Teodoro. Era formato da due grandi aule rettangolari parallele prive di abside e collegate da un corridoio trasversale, alle quali si aggiungevano un battistero e altri ambienti di servizio. Le due aule parallele (dette «teodoriana sud e teodoriana nord») avevano un pavimento mosaicato del quale restano amplissimi lacerti. La sala trasversale fungeva invece da corridoio di collegamento tra le due, ed era pavimentata in cocciopesto. Verso la metà del IV secolo, l’aula teodoriana nord subí un notevole ampliamento allo scopo di contenere un numero sempre piú grande di fedeli (aula post-teodoriana nord). Accanto a essa venne costruito un nuovo battistero, con vasca esagonale. Questa aula venne distrutta dagli Unni di Attila nel 452 d.C. e mai piú ricostruita. L’aula teodoriana sud, invece, forse proprio dopo la distruzione di Attila, venne trasformata in un edificio a tre navate con un grande battistero di fronte all’ingresso principale (aula post-teodoriana sud). Secondo alcuni studiosi, tale intervento sarebbe stato effettuato prima dell’incursione unna. In ogni caso l’edificio con-

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A destra Deposizione, particolare del ciclo di affreschi del XII sec., che orna la cripta degli Affreschi. In basso Grado. La basilica di S. Eufemia, costruita a partire dal VI sec. su un edificio precedente.

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saper vedere aquileia Sulle due pagine scene delle storie delle origini della Chiesa di Aquileia, dipinte nella cripta degli Affeschi. A sinistra san Pietro invia san Marco a predicare il Vangelo nella Venetia et Histria (la X regione augustea). In basso la decapitazione di Ermacora, primo vescovo della città, e del suo diacono Fortunato. A destra la sepoltura dei due martiri.

raffigurazioni simboliche, alle quali si accompagnano motivi e decorazioni geometriche e immagini tratte dall’iconografia imperiale del trionfo. Attualmente si può scendere in una cripta – detta «degli scavi» – nella quale si notano anche i resti degli edifici preesistenti su cui furono erette le aule teodoriane e si possono vedere alcune porzioni dei mosaici dell’aula nord. L’antico pavimento dell’aula sud è invece oggi visibile nella chiesa attuale.

La chiesa carolingia

Nella prima metà del IX secolo il patriarca Massenzio intervenne nei settori orientale e occidentale del vecchio edificio posteodoriano sud. Nella zona orientale, a ridosso del muro di testata fu costruita l’abside semicircolare. Fuori del perimetro dello stesso, fece costruire due cappelle laterali absidate con funzione di transetto. Anche la cripta posta sotto il presbiterio fa parte del progetto di Massenzio, come è testimoniato dalla presenza di capitelli carolingi, posti su colonne che dividono il vano in tre navate. Il presbiterio, rialzato appunto sopra la cripta, fu circoscritto da una recinzione di cui facevano parte i plutei ora visibili nella cappella meridionale del transetto. Al culmine del giro absidale fu posta la cattedra vescovile, i cui gradini presentano anch’essi decorazioni coeve.

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Massenzio fece anche costruire, a ovest, l’edificio posto tra atrio della basilica e battistero, la cosidetta chiesa dei Pagani, in origine costituita da tre vani, di cui i due al piano terra ancora esistenti.

Gli interventi di Poppone

Dopo il terremoto del 998, la chiesa di Massenzio subí un rifacimento da parte del patriarca Poppone, che riconsacrò l’edificio nel 1031 e conferí alla basilica l’aspetto attuale. Gli interventi riguardarono la sopraelevazione dei muri perimetrali, il rifacimento dei capitelli, la stesura dell’affresco dell’abside e la costruzione dell’imponente campanile, alto 73 m. Le parti alte della basilica, probabilmente le piú danneggiate dal terremoto, furono ricostruite e venne rialzata anche l’abside centrale per cui si rese necessaria una nuova decorazione pittorica. A settentrione della basilica, fu costruito l’attuale maestoso campanile, che andava a insistere sull’antica aula teodoriana nord. All’interno della basilica, nella navata settentrionale, Poppone fece realizzare una piccola struttura architettonica, il Santo Sepolcro, una costruzione a pianta circolare che evoca l’originale di Gerusalemme e aveva funzione liturgica soprattutto in occasione dei riti pasquali. Il restauro di Poppone si completò con la decorazione pittorica dell’abside centrale: nel semica-

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tino venne raffigurata la Madonna in trono, dentro la mandorla, con i simboli degli evangelisti, tra i patroni di Aquileia, Ermacora, Fortunato ed Eufemia da una parte e Taziano, Ilario e Marco dall’altra. Tra i primi tre santi sono dipinte le immagini, piú piccole, dell’intera famiglia imperiale: Enrico III, Corrado II il Salico e sua moglie Gisella; tra gli altri, quelle di Poppone, rappresentato con il nimbo quadrato e il modello della chiesa in mano, e di Enrico II. Le scelte iconografiche mostrano con evidenza come Aquileia fosse legata alla casata imperiale e al mondo germanico. Poppone era d’altra parte di famiglia bavarese, e stretto collaboratore della corte.

Una prigione per i martiri

Come si è detto, la cripta della chiesa era stata ristrutturata dal patriarca Massenzio nel IX secolo. Vuole la tradizione che fosse stata la prigione dei martiri Ermacora e Fortunato, fondatori della Chiesa di Aquileia e ricordati anche negli affreschi del catino absidale. Nel XII secolo, nella cripta fu realizzato un grandioso ciclo di affreschi, che ricopre tutte le pareti dell’ambiente – tranne l’occidentale – e si estende alle volte e ai piedritti degli archi. Sulle volte vennero rappresentate le storie della Chiesa di Aquileia: l’apostolato di san Marco, fonda-

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saper vedere aquileia come a gerusalemme La riproduzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, un piccolo edificio in marmo, a pianta circolare, fatto realizzare dal patriarca Poppone nell’XI sec. e collocato nella navata settentrionale della basilica.

tore leggendario della prima comunità cristiana della città; scene della vita di Ermacora, primo vescovo di Aquileia, e di Fortunato, suo diacono. Sulle pareti furono invece rappresentate la Crocefissione, la Deposizione, la Sepoltura di Cristo e la Morte di Maria. Sui pennacchi vennero infine realizzate figure di santi, mentre sullo zoccolo furono stese scene di contenuto cavalleresco e allegorico.

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Le diciannove scene sulla volta raccontano le origini del cristianesimo ad Aquileia secondo la tradizione: Pietro invia san Marco a predicare il Vangelo nella «Venetia et Histria», di cui Aquileia è il centro piú importante. Giunto in città, Marco converte molte persone, fra cui Ermacora. Questi segue Marco a Roma dove san Pietro, colpito dalla sua fede, lo consacra vescovo di Aquileia. Tornato nella sua città, Ermacora viene denunciato agosto

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Il fonte battesimale esagonale, circondato da fusti di colonne, all’interno del battistero realizzato dal vescovo Cromazio (388-407/8) alla fine del IV sec.

alle autorità, imprigionato e torturato. Nonostante la reclusione, s’impegna per la diffusione del cristianesimo, convertendo, fra gli altri, il carceriere Ponziano, la famiglia di Gregorio, Alessandria e Fortunato, e compiendo numerosi miracoli. Condannato a morte, viene decapitato insieme a Fortunato, divenuto suo diacono. I due martiri vengono sepolti insieme dagli stessi Ponziano, Gregorio e Alessandria. Nelle cinque lunette della parete semicircolare orientale sono rappresentate la Dormizione della Vergine, la Crocifissione, le Storie di San Marco, la Deposizione dalla Croce e il Compianto sul Cristo morto. Al di sotto, corre un velario dipinto, oggi conservato solo sotto le ultime due scene appena citate. La volta della navata centrale presenta al centro la Madonna in trono con il Bambino tra i simboli degli evangelisti e Cristo tra angeli. Seguono, anche sulle altre volte, storie di Ermacora e Fortunato.

Una datazione controversa

Molto si è discusso sulla datazione di questo complesso decorativo, variamente collocata in un arco temporale che oscilla tra gli inizi del XII e gli inizi del XIII secolo. Dal punto di vista artistico ed espressivo, vi si ravvisano una molteplicità di linguaggi. Vi è stato senz’altro riconosciuto un apporto bizantino, forse di natura italo-bizantina, affine, per esempio, a quello usato nei mosaici veneziani, anche se altri studiosi vi hanno invece riconosciuto tipologie derivanti da ambiti piú lontani, come quelli macedoni. Proprio il confronto con tali opere fa ormai orientare l’assegnazione cronologica alla prima

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metà del XII secolo o, al massimo, alla seconda metà dello stesso secolo. È ormai accettato che nella cripta della chiesa di Aquileia lavorarono diversi maestri, e forse proprio a ciò è dovuta l’impossibilità di cogliere un unico e determinato richiamo espressivo. Se alcune scene sono di netta ascendenza bizantina, come quelle della Passione, altri elementi – come le storie di Ermacora e Fortunato – hanno fatto pensare alla presenza di artisti di provenienza occidentale, forse legati al mondo austriaco. Il ciclo di affreschi di Aquileia, dunque, rappresenta ancora una volta la commistione tra elementi bizantini, veneziani e austriaci che segnarono a lungo la vicenda storica di Aquileia e di gran parte del Friuli. Verso la fine del XIV secolo, nella navata meridionale, il patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) fece aprire una cappella, perché fosse adibita a luogo di sepoltura per sé e per i suoi familiari. Ulteriori interventi, probabilmente resisi necessari a seguito del terremoto che sconvolse il Friuli nel 1348, furono effettuati dal patriarca Marquardo di Randeck (1365-1381). Furono sistemati archi a sesto acuto fra le colonne e venne ricostruita tutta la parte alta della basilica, compreso il tetto, che si presenta come una carena di nave rovesciata. F F. G.

Da leggere U Mauro Quercioli, Aquileia, Istituto Poligrafico dello Stato,

Roma 2004

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di Marco Di Branco

quel viaggio lungo una vita

La straordinaria avventura di Ibn Battuta, il «Marco Polo arabo»

Abu ‘Abdallah Muhammad Ibn Battuta nacque a Tangeri nel 1304. Nel 1325 partí alla volta dell’Oriente... Ibn Battuta in Egitto, illustrazione per la Découverte de la terre di Jules Verne. XIX sec.


Dossier

L L

a città di Tangeri si staglia, bianca e ventosa, sulla costa del Marocco, nella punta sud-occidentale dello stretto di Gibilterra, dove la fredda corrente dell’Atlantico confluisce nel braccio di mare per poi incanalarsi verso il Mediterraneo. Secondo la leggenda, sarebbe stata fondata da Ercole in onore di sua moglie, dopo che l’eroe ebbe separato i continenti e costruito le sue celebri «colonne»: la montagna del Jebel Musa, sulla sponda africana, e la roccia di Gibilterra, sul lato europeo. Un luogo ricco di fascino, dunque, che ha però conservato solo in parte il carattere cosmopolita assunto tra il 1925 e il 1956, quando la città fu sottoposta a regime

internazionale per decisione delle maggiori potenze europee del tempo e l’Hotel Continental, all’interno della città vecchia, divenne la dimora di scrittori e artisti come Paul Bowles, Tennessee Williams, Truman Capote, Gore Vidal, Jean Genet e William Burroughs.

I VIAGGI DI IBN BATTUTA 1325-1354 Viaggi 1325-1327 Viaggi 1327-1341 Viaggi presunti Viaggi 1341-1354 Viaggi presunti

Come un labirinto

La Medina di Tangeri, alla quale si accede attraversando la pittoresca piazza del «Grand Socco», si estende a ridosso del porto, dal suo lato occidentale. A differenza di quelle di altre città del Marocco, risulta piuttosto compatta, ma è comunque contraddistinta da un labirintico sistema di vicoli dove un occidentale può facilmente perdere

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A sinistra miniatura raffigurante una carovana di pellegrini in viaggio verso Mecca, da un manoscritto dei Maqamat (I viaggi) di Abu Muhammad al Qasim ibn Ali al-Hariri. 1240 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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I


Mosca

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Bolgar

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KHANATO D E L L’ O R D A D ’ O R O

Nuova Saraj 1330

Karakorum IMPERO DEL GRAN KHAN

Astrakhan r Ca o spi

Tabriz

Balkh Baghdad ILKHANATO Gerusalemme

TIBET Multan

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Mecca PENISOLA ARABICA

Pagan (Bagan) Mar Arabico

Angkor

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Calicut

Malindi

134

1341

Mogadiscio

Quanzhou

132 7-3 8

Nilo N C

Khanbaliq (Pechino)

Samarcanda

6

Antiochia errane o Acri

KHANATO CHAGATAI

Ma

Costantinopoli

O C E A N O

I N D I A N O

Zanzibar Kilwa

l’orientamento. Tra le minuscole stradine di questo dedalo, nella parte piú alta della Medina, la «Rue Ibn Battuta», conduce a una piccola cappella funeraria. All’interno della tomba, copie del Corano sono posate su ripiani e lungo le pareti sono appese collane di giganteschi grani da rosario. Il sepolcro vero e proprio, coperto da un drappo nero ricamato, custodisce le spoglie di colui che viene ritenuto il piú grande viaggiatore dell’epoca pre-moderna, Abu ‘Abdallah Muhammad Ibn Battuta, da molti considerato «il Marco Polo arabo». Tuttavia, Ibn Battuta

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visitò molti piú luoghi del «collega» veneziano e i suoi resoconti offrono informazioni su quasi tutti gli aspetti della vita dell’epoca, dalle cerimonie della corte del sultano di Delhi ai costumi sessuali delle donne delle isole Maldive alla raccolta delle noci di cocco nell’Arabia meridionale.

Una civiltà «globale»

Questo straordinario personaggio trascorse in viaggio una buona metà della sua esistenza. E nessuno meglio di lui potrebbe introdurci nella dimensione «globale» che fu propria della civiltà islamica: le sue

Nota per i lettori U Tutte le citazioni della Rihla

contenute nel presente Dossier sono tratte da: Ibn Battuta, I Viaggi, a cura di Claudia M. Tresso, illustrazioni di Aldo Mondino, traduzione di Claudia M. Tresso, Einaudi, Torino, 2006 (disponibile anche nella versione tascabile pubblicata, per i tipi della stessa Einaudi, nel 2008).

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Dossier

il marocco al tempo di ibn battuta

Abu Inan, sultano e mecenate All’epoca in cui si svolsero i viaggi di Ibn Battuta, il Marocco era governato dalla dinastia berbera dei Merinidi, appartenente al clan degli Zanata, che scelse come suo centro politico e religioso Fes. I Merinidi si erano infatti impadroniti dell’impero conquistato dagli Almohadi, giungendo, nel 1269, a impadronirsi di Marrakech, la loro capitale.

Eredi del titolo califfale almohade, i sovrani merinidi non eguagliarono però le ambizioni religiose e politiche dei predecessori e il loro regno ebbe portata soprattutto regionale, nonostante i frequenti conflitti con i re cristiani di Spagna e i tentativi di ricostituire l’unità dei domini maghrebini, contendendo il territorio delle attuali Tunisia e Algeria alle dinastie degli Hafsidi e degli Abdalwadidi.


eccezionali avventure, infatti, ci offrono una visione chiara e ampia delle forze che fecero della storia dell’Eurasia e dell’Africa del XIV secolo un complesso e unitario sistema di connessioni reciproche. Ibn Battuta, infatti, fu un perfetto rappresentante di quell’élite colta e cosmopolita che cercava ospitalità, onori e impieghi prestigiosi nei centri di civiltà islamica di recente istituzione nelle piú remote regioni dell’Asia e dell’Africa. In tutte queste vesti, tuttavia, egli si considerava non un cittadino di un paese chiamato Marocco, bensí della dar al-Islam, la «Casa dell’I-

slam», cioè la comunità islamica «internazionale» di cui rispettava innanzitutto lo spirito universalista, la morale e i valori sociali.

La Pax Mongolica

La sua vita e la sua carriera sono il portato di una straordinaria circostanza della storia islamica verso la fine del Medioevo: la cosiddetta Pax Mongolica, promossa dai potenti khan mongoli della Persia e dell’Asia centrale. Costoro infatti, convertitisi all’Islam, garantirono per circa un secolo condizioni di ordine e sicurezza che favorirono piú che mai gli spostamenti dei musulmani

in tutta l’Eurasia e l’instaurazione di un ordine mondiale con gli stessi standard economici, sociali, religiosi e perfino culturali. Ibn Battuta nacque a Tangeri nel 1304 da una famiglia di origine berbera ma completamente arabizzata, che apparteneva alla classe colta e che, per tradizione, forniva i piú importanti giudici islamici del Maghreb. Della sua giovinezza non sappiamo nulla, ma è probabile che abbia ricevuto un’istruzione adeguata al suo ceto. All’età di ventuno anni, partí per il tradizionale pellegrinaggio (hajj) a Mecca, uno dei cinque Pilastri dell’Islam. Le uniFes. Resti di una fortezza dell’età dei Merinidi, la dinastia berbera che assunse il controllo del Marocco tra il XIII e il XV sec.

Alla fine del XV secolo, travolti da lotte di successione interne e da un gran numero di rivolte tribali, i Merinidi furono soppiantati dai Wattasidi, loro consanguinei e, per un certo periodo di tempo, loro vizir. La dinastia lasciò una traccia importante soprattutto in campo artistico e architettonico: basti pensare alle opere che abbelliscono la cosidetta Fes al-Jadida

(la «Nuova Fes»), da essi costruita accanto alla precedente città di epoca idriside (IX secolo d.C.). Tra i mecenati merinidi piú celebri va annoverato proprio Abu ‘Inan al-Faris (1348-1358), il sultano che dette a Ibn Juzayy l’incarico di pubblicare la Rihla: la madrasa Bu ‘Inaniya di Fes, da lui fondata nel 1351, è uno dei monumenti piú straordinari dell’architettura islamica maghrebina.


Dossier I Viaggi in Occidente

Dai primi «avvistamenti» alla traduzione integrale La Rihla di Ibn Battuta rimase sconosciuta in Occidente fino all’inizio del XIX secolo, quando due studiosi tedeschi pubblicarono traduzioni di alcune parti del testo, sulla base di manoscritti incompleti reperiti in Oriente. Nel 1829, l’orientalista britannico Samuel Lee ne editò una traduzione inglese basata su versioni ridotte del testo ritrovate in Egitto dall’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, il celebre scopritore di Petra. Verso la metà dell’Ottocento, in Algeria, dopo l’occupazione francese, vennero alla luce cinque manoscritti della Rihla che furono portati alla Bibliothèque nationale di Parigi. Due di essi contengono le versioni piú complete dell’opera finora emerse; gli altri tre

ne riportano invece solo alcune parti. Grazie a questi cinque testimoni, due studiosi francesi, Charles Défrémery e Beniamino Raffaello Sanguinetti, prepararono, tra il 1853 e il 1858, l’edizione a stampa del testo arabo accompagnata da una traduzione francese e da un ricco apparato critico con note e varianti. Da allora, l’opera è stata tradotta in molte lingue: tedesco, russo, polacco, ungherese, persiano, giapponese, tutte basate sul testo arabo di Défrémery e Sanguinetti. Nel 1929, il grande arabista scozzese Sir Hamilton A.R. Gibb curò una traduzione inglese ridotta del testo e cominciò a prepararne una versione integrale commentata, sotto gli auspici della Hakluyt Society, società britannica

specializzata nella pubblicazione di opere di grandi viaggiatori ed esploratori: il primo volume dell’opera uscí nel 1958, il quinto e ultimo, contenente gli indici, nel 2000, ben 29 anni dopo la morte di Gibb. In Italia, alcune sezioni del testo furono tradotte da Francesco Gabrieli, uno dei nostri maggiori arabisti, ma la prima traduzione integrale della Rihla si deve a Claudia M. Tresso (vedi nota bibliografica a p. 89). Questa meritoria edizione permette finalmente anche al lettore italiano di seguire lo svolgimento delle avventure di Ibn Battuta, e di collocarle nella cultura islamica del suo tempo, raffrontandole con quelle del «nostro» viaggiatore per eccellenza: Marco Polo.

Sulle due pagine ancora due miniature dai Maqamat di al-Hariri: a sinistra, il viaggiatore Abu Zays, eroe dei racconti, e il mercante al Harith in navigazione; nella pagina accanto, una tenda di ricchi pellegrini. 1240 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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che informazioni dettagliate su di lui ci sono fornite da uno studioso del XIV secolo, Ibn Hajar, autore di un dizionario biografico intitolato Le perle nascoste, una sorta di Who’s Who islamico del XIV secolo. Scrive dunque Ibn Hajar: «Ibn Battuta possedeva una modesta conoscenza delle scienze; si mise in viaggio verso l’Oriente nel mese di Rajab dell’anno 725 (1325 secondo il calendario gregoriano), ne attraversò le terre, penetrò nell’Iraq, poi passò in India, Sind e Cina, e tornò attraverso lo Yemen. In India il re gli conferí la carica di qadi («giudice»). In seguito, ripartí e tornò nel Maghreb, dove riferí le sue imprese e ciò che gli era accaduto e quanto aveva imparato delle genti di diversi paesi. Il nostro shaykh Abu ’l-Barakat Ibn al-Bafiqi ci raccontò di molte stranezze che Ibn Battuta aveva avuto

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modo di osservare. Tra l’altro, affermava di essere entrato a Costantinopoli e di aver visto nella chiesa di questa città dodicimila vescovi».

«Ricco di virtú»

«In seguito, attraversò lo Stretto della costa spagnola, e visitò le terre dei Negri. Poi il sultano di Fes lo convocò e gli ordinò di mettere per iscritto i suoi viaggi. Ho visto scritta di pugno di Ibn Marzuq l’affermazione che Ibn Battuta visse fino all’anno 770 (1368-69) e morí mentre rivestiva la carica di qadi in una qualche città. Ibn Marzuq scrisse anche: “E non conosco alcuno che abbia attraversato tante terre quante ne vide Ibn Battuta nei suoi viaggi; ed era inoltre generoso e ricco di virtú”». Lo storico Ibn al-Khatib ci ha trasmesso una sua lettera a Ibn Battuta, qadi di Tamasna. Poiché la

capitale della regione di Tamasna era allora Anfa, possiamo concludere che proprio in questa città, che è l’odierna Casablanca, Ibn Battuta abbia ricoperto la carica di giudice fino al momento della morte. Ibn Battuta tornò definitivamente in Marocco nel 1353, su espresso ordine del sultano merinide Abu ‘Inan, il quale, tre anni piú tardi, ordinò a un giovane letterato di origina andalusa, il granadino Abu ‘Abd Allah Ibn Juzayy al-Kalbi, di preparare una vera e propria edizione annotata del «diario» che il viaggiatore aveva tenuto nel corso delle sue lunghe peregrinazioni. Il risultato fu, appunto, una Rihla, cioè una «cronaca di viaggio», terminata, come dice il testo, «nel mese di Safar dell’anno 757», ovvero nel febbraio del 1356, e pubblicata qualche mese piú tardi (segue a p. 96)

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Dossier un incontro straordinario

Giorgio, «imperatore emerito» di Bisanzio A Costantinopoli, nei pressi di S. Sofia, avvenne uno degli incontri piú straordinari di tutta la letteratura di viaggio: quello fra Ibn Battuta e un monaco, che, secondo l’autore, sarebbe stato il padre dell’imperatore allora regnante Andronico III Paleologo. Nonostante alcuni problemi legati alla cronologia del soggiorno costantinopolitano di Ibn Battuta, sembra assai piú probabile che il monaco in questione – che l’autore chiama «Giorgio» (Jirjis), ma che in realtà si chiamava Antonio – fosse Andronico II, il nonno di Andronico III, deposto da quest’ultimo e ritiratosi in monastero. Il re Jirjis che si fece monaco «Questo sovrano lasciò il regno al figlio per consacrarsi al servizio di Dio, e fece costruire un monastero fuori dall’abitato, sulla riva del mare. Un giorno ero con il mio accompagnatore bizantino e lo vedemmo che se ne andava in giro a piedi, con indosso il saio e in testa un cappuccio di feltro: aveva una lunga barba bianca e un bel viso segnato dall’ascesi. Procedeva in mezzo a un gruppo di monaci con in mano un bastone e un rosario appeso al collo e quando il bizantino lo vide smontò da cavallo per andare a rendergli omaggio. Poi mi disse: “Scendi anche tu: è il padre del re!”.

L’ex sovrano gli chiese chi fossi, si fermò e mi fece chiamare. Io gli andai vicino, ed egli, prendendomi per mano, disse al bizantino che conosceva l’arabo: “Dí a questo saraceno (cioè a questo musulmano) che stringo la mano che è entrata a Gerusalemme e il piede che ha camminato all’interno della Cupola della Roccia, nella grande chiesa del Santo Sepolcro e in Betlemme”. Detto questo, mise la mano sul mio piede e poi se la passò sul volto, lasciandomi sorpreso dalla considerazione in cui qui tengono chi è stato in quei posti, anche se non è della loro religione. Quindi mi prese per mano e camminai un po’ con lui, rispondendo alle sue domande a proposito di Gerusalemme e dei cristiani che vi risiedono, finché entrammo insieme nel sagrato della basilica di Santa Sofia. Arrivati al grande portone, un gruppo di sacerdoti uscí fuori a salutarlo, perché era un loro superiore nella vita monastica. Vedendoli, egli mi lasciò la mano. “Vorrei entrare in chiesa con voi”, gli dissi; ma rivolgendosi all’interprete, mi rispose: “Digli che chiunque entra deve prosternarsi davanti alla Somma Croce. È una regola stabilita dai nostri antenati e non può essere trasgredita”. Cosí, lo lasciai. Egli entrò da solo e io non lo rividi mai piú». A sinistra l’Asia Minore e l’Egitto, rappresentati nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una carta del mondo abitabile (ecumene) conosciuto da Roma intorno al IV sec. XII-XIII sec. Vienna, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto miniatura di scuola islamica raffigurante il faro di Alessandria. 1582. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Meraviglie d’Egitto

Nella terra del fiume che chiamano «mare» L’Egitto è una delle prime tappe del peregrinare di Ibn Battuta, che descrive alcuni degli elementi del paesaggio egiziano che ancora oggi attirano i viaggiatori: il faro di Alessandria (trasformato in fortezza dal sultano mamelucco Qayt Bay), le Piramidi e il Nilo. «Andai a vedere il faro: uno dei lati era caduto in rovina, ma lo descriverei comunque come un edificio quadrato che si staglia nel cielo. La porta è in alto rispetto al terreno e di fronte, alla stessa altezza, c’è un edificio quadrato che si staglia nel cielo. La porta è in alto rispetto al terreno e di fronte, alla stessa altezza, c’è un edificio: fra questo e la porta vengono messe delle assi di legno a mo’ di passerella e quando le tolgono non vi è piú modo di entrare. Dentro la porta c’è una nicchia dove il guardiano può starsene seduto e all’interno si aprono diversi locali. Il passaggio di entrata misura 9 spanne, il muro 10 e ognuno dei quattro lati, 140. Sorge su un’alta collina a una parasanga (circa 5 km) da Alessandria, al termine di una lunga striscia di terra che ospita il cimitero, circondata per tre lati dal mare, il quale giunge sino alle mura della città, sicché solo partendo da Alessandria si può arrivare al faro via terra. Quando feci ritorno nel Maghreb, andai a rivederlo e lo trovai in un tale stato di rovina che non si riusciva non solo a entrare ma nemmeno a raggiungere la porta.

cono; non hanno porte e non si sa come siano state erette. Fra quanto si narra a tal proposito c’è che, prima del Diluvio, un certo re egizio fece un sogno spaventoso che lo indusse a costruire le piramidi sulla riva occidentale del Nilo come luogo dove custodire i principi del sapere e le spoglie dei re. Il Nilo dell’Egitto supera tutti i fiumi della terra per la dolcezza delle acque, l’ampiezza dell’alveo e la sua immensa utilità. Città e paesi si succedono ordinatamente sulle sue rive come in nessun altro posto del mondo, né si conosce fiume le cui sponde siano altrettanto coltivate o che, al par di questo, venga detto «mare». In una tradizione autentica si dice (…) che il Nilo, l’Eufrate, il Sayhan e il Jayhan sono tutti fiumi del Paradiso. Il Nilo scorre da Sud a Nord, cioè al contrario rispetto agli altri fiumi, e ha una caratteristica straordinaria: l’inizio della sua piena avviene nella stagione del grande caldo, quando

gli altri fiumi decrescono e vanno in secca, e viceversa comincia a diminuire quando gli altri aumentano e straripano. Il primo inizio della piena del Nilo avviene a giugno: quando il livello dell’acqua raggiunge i sedici cubiti, l’imposta fondiaria dovuta al sultano va pagata per intero, e se poi cresce ancora di un altro cubito, quell’anno sarà fertile e il benessere assicurato; ma se raggiunge i diciotto cubiti, l’acqua danneggia le coltivazioni e causa epidemie. Se invece manca un cubito perché il livello dell’acqua arrivi a sedici, l’imposta fondiaria diminuisce, ma se ne mancano due, la gente implora la pioggia e i danni sono ingenti. Il Nilo è uno dei cinque fiumi piú grandi del mondo, che sono il Nilo, l’Eufrate, il Tigri, il Syr Darya e l’Amu Darya (…)».

Le piramidi sono una delle meraviglie da sempre celebrate nel corso del tempo e le genti ne hanno disquisito a lungo, indagando a fondo le circostanze e l’epoca della loro costruzione (…). Esse sono edifici in pietra dura e ben tagliata. Estremamente alte, hanno pianta circolare e sono ampie alla base e strette alla sommità, a mo’ di

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con il titolo di Tuhfat al-nuzzar fi ghara’ib al-amsar wa-aja’ib al-asfar (Il dono prezioso di chi contempla gli splendori delle città e le meraviglie dei viaggi). Poco dopo, Ibn Juzayy morí e, come si è detto, Ibn Battuta assunse il ruolo di giudice, fino alla fine dei suoi giorni. Come è stato giustamente sottolineato, se per la stesura del libro il sultano decise di rivolgersi a Ibn Juzayy, è probabile che Ibn Battuta non fosse dotato di grandi qualità

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letterarie: ma se forse non fu uno scrittore, egli fu senza dubbio un grande narratore di storie ammalianti. Ed è proprio Ibn Juzayy a mettere l’accento su questo aspetto, quando riferisce del suo primo incontro con il suo «autore», avvenuto in un giardino di Granada: «Eravamo in questo giardino quando lo shaykh Abu ‘Abd Allah Ibn Battuta ci deliziò con il racconto dei suoi viaggi: io annotai dalla sua viva vo-

ce i nomi dei personaggi illustri che aveva incontrato e tutti traemmo grande utilità dalle sue meravigliose storie».

«Sí, viaggiare…»

Come ricorda anche il già citato Ibn Hajar, il suo piú che sintetico biografo, Ibn Battuta partí per il pellegrinaggio a Mecca nel 1325. Per giungere a destinazione, impiegò un anno e mezzo e, durante il traagosto

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Sulle due pagine veduta della piana di Giza, con la Sfinge e le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino. A destra Gerusalemme. La Cupola della Roccia, di cui Ibn Battuta fornisce una descrizione minuziosa e ammirata.

Gerusalemme

Un edificio di «singolarissima forma» Di Gerusalemme, città santa degli Ebrei, dei cristiani e dei musulmani, Ibn Battuta si sofferma in particolare a descrivere la Cupola della Roccia, costruita tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo dai califfi umayyadi ‘Abd al-Malik e al-Walid, menzionando invece con un certo scetticismo alcuni celeberrimi monumenti cristiani.

gitto, visitò il Nordafrica, l’Egitto, la Palestina e la Siria. Compiuto il primo hajj nel 1326, visitò l’Iraq e la Persia e tornò a Mecca. Nel 1328 (o forse 1330), intraprese un viaggio via mare che lo portò lungo la costa orientale dell’Africa fino alla regione dell’odierna Tanzania. Sulla via del ritorno, visitò l’Oman e il Golfo Persico e, questa volta via terra, attraverso l’Asia centrale, tornò (segue a p. 101)

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«Giungemmo a Gerusalemme, che Iddio la onori, terza in grado di eccellenza dopo i due nobili santuari e il luogo donde l’Apostolo di Dio ascese al cielo (…). La Cupola della Roccia è uno degli edifici piú mirabili e meglio costruiti al mondo, di singolarissima forma. È ricco di bellezze e di singolari attrattive. Sorge su un rialzo in mezzo al recinto della Moschea, a cui si ascende per una gradinata di marmo; ha quattro porte, e il pavimento circostante è lastricato di marmo ottimamente lavorato, e cosí pure l’interno (…). La cupola intera rifulge come un blocco d’oro e di lampi di luce, lasciando sbalordito l’occhio di chi la contempla e muta la lingua di chi la vuole raffigurare. Al centro della Cupola è la nobile Roccia, di cui parla la Tradizione, da cui il Profeta ascese al cielo. È una roccia compatta, alta quasi come un uomo, al di sotto della quale vi è una grotta, una piccola stanza della medesima altezza, a cui si discende per dei gradini e dove vi è una sorta di mihrab (…). Altri sono anche i santuari benedetti in Gerusalemme: sul margine della valle nota come Valle della Gheenna (…) c’è un edificio dove si dice che Gesú, sia su di lui la pace, sia asceso al cielo (…). Entro la suddetta valle c’è una chiesa assai venerata dai Cristiani, che dicono contenga la tomba di Maria, sia su di lei la salute (…)».

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Dossier mecca, la ka’ba e la pietra nera

Fedeli di giorno e di notte Mecca è uno dei luoghi-chiave della Rihla di Ibn Battuta, luogo di pellegrinaggio, ma anche base di partenza per ulteriori spedizioni. L’attenzione del nostro viaggiatore è qui particolarmente attirata dal grande santuario della Ka‘ba e dalla sua misteriosa «Pietra nera» e dai riti ancestrali dell’hajj, il pellegrinaggio islamico. «Giungemmo dunque alfine al santuario dell’Altissimo, dimora del Suo Amico Abramo e luogo di missione del Suo eletto Muhammad. Mecca è una grande città fittamente costruita, che si allunga in fondo a un wadi circondato da montagne, sicché chi arriva la vede solo quando ormai vi è giunto (…). Come dice Iddio nel Suo eccelso Libro, Mecca è posta “in una valle deserta”, ma la santa prece di Abramo si è volta in suo favore: vi si importa ogni cosa rara e per lei si raccolgono frutti di ogni specie. Io stesso vi ho gustato uva, fichi, pesche e datteri che non hanno pari al mondo, senza contare i meloni, ineguagliabili per profumo e dolcezza. La carne è bella grassa e mangiarla è una delizia. Insomma, vi si trovano riunite le merci di svariati paesi del mondo, e frutta e ortaggi (…). La Sacra Moschea si trova al centro della città e copre un’area molto estesa, lunga oltre 400 cubiti da est a ovest e larga suppergiú lo stesso (…). In mezzo alla Moschea s’erge la Ka‘ba.

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È un edificio quadrato alto 28 cubiti su tre lati e 29 sul quarto (…). Essa è costruita in dure pietre scure, mirabilmente congiunte l’una all’altra in modo solido e preciso, sí che i giorni non la cambiano e il tempo non vi lascia traccia. La porta della venerabile Ka‘ba si apre sul lato fra la Pietra nera e l’angolo rivolto verso l’Iraq, a dieci spanne dalla prima: questo spazio è chiamato multazam e qui le suppliche vengono esaudite. La porta, che si trova a undici spanne e mezzo dal suolo, è tutta ricoperta di lamine d’argento mirabilmente lavorate. Ha due grandi anelli, anch’essi d’argento, chiusi da un chiavistello, e viene aperta ogni venerdí dopo la preghiera e il giorno dell’anniversario della nascita dell’inviato di Dio.

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Secondo il rituale, quando si apre la porta viene appoggiato al muro dell’insigne Ka‘ba uno scanno con gradini e piedi in legno (…) in modo che lo scalino piú alto sia a livello della nobile soglia. Poi il capo della tribú dei Banu Shayba sale sullo scanno tenendo in mano la nobile chiave insieme ai guardiani della Ka‘ba preposti a reggergli il drappo che la ricopre, mentre apre la porta. Quindi bacia la nobile soglia ed entra da solo nella Ka‘ba, chiude la porta e vi si trattiene il tempo di compiere una preghiera (…). In ultimo, la porta viene di nuovo aperta e la gente si affretta a entrare. L’interno della nobile Ka‘ba è lastricato di marmo venato, lo stesso che riveste anche i muri. Al centro si elevano tre altissime colonne di legno di teck. I velari della nobile Ka‘ba sono di seta nera, con iscrizioni ricamate in bianco che rifulgono splendenti e luminose e la ricoprono per intero, dall’alto fino a terra. Uno dei mirabili segni divini della santa Ka‘ba è che quando se ne apre la porta, la santa moschea è gremita da tanta di quella gente che solo Dio riesce a contarla. Un’altra meraviglia è che notte e giorno c’è sempre almeno un fedele che compie i riti: nessuno ricorda di averla mai vista senza qualcuno che vi girasse intorno. Un’altra ancora è che i numerosissimi colombi e gli altri uccelli di Mecca non vi si posano mai sopra, né passando la sorvolano: si vedono i colombi librarsi in volo sopra la moschea, ma quando arrivano all’altezza della nobile Ka‘ba deviano di lato ed evitano di passarci sopra. La Pietra nera è posta a sei spanne dal suolo sicché, per baciarla, chi è alto deve chinarsi e chi è piccolo deve allungare il collo. Incastonata nell’angolo rivolto a Est, è larga due terzi di spanna e lunga una; è saldamente fissata e non si sa quanto a fondo penetri nel muro. È formata da quattro frammenti uniti insieme: c’è chi dice che l’abbia rotta la setta eretica dei carmati (che Dio la maledica!), ma alcuni dicono invece che l’avrebbe fatta a pezzi qualcun altro colpendola con una mazza, e aggiungono che la gente si sarebbe avventata contro costui per ucciderlo, e che per quel suo gesto sarebbero morti molti maghrebini. I lati della Pietra sono stretti in una piastra d’argento il cui biancore risalta sulla sua nobile nerezza e guardandola, gli occhi s’abbagliano per sí grazioso splendore. Al baciar la Pietra, la bocca gode di una deliziosa sensazione e per via della particolarità conferitale dalla Sollecitudine divina, le labbra non vorrebbero mai lasciare quel bacio». Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante la Ka’ba. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Nella pagina accanto, in basso Pellegrini in viaggio per Mecca, olio su tela di Léon Belly. 1861. Parigi, Musée d’Orsay.

In alto Mecca. Una folla di pellegrini islamici compie i tradizionali sette giri intorno alla Ka’ba.

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Dossier Tesori persiani

La squisita ospitalità degli abitanti di Isfahan e Shiraz Come altri viaggiatori arabi, Ibn Battuta non sfugge al fascino della Persia, e in particolare delle sue città piú famose, Isfahan e Shiraz, a cui dedica pagine traboccanti di ammirazione e curiosità, soffermandosi in particolare sul carattere dei loro abitanti. «Proseguendo tra giardini, corsi d’acqua e bei paeselli con molte colombaie, giungemmo a Isfahan, una fra le piú belle e grandi città del mondo, anche se ormai è mezza in rovina per le faide tra sunniti e sciiti che continuano ancora oggi a combattersi a vicenda. A Isfahan cresce moltissima frutta: un tipo di albicocche eccezionali dette “luna della religione” che racchiudono nel nocciolo una mandorla dolcissima e si conservano secche; mele cotogne impareggiabili per bontà di gusto e dimensioni; un’uva squisita e splendidi meloni dal gusto delizioso, con la buccia verde e la polpa rossa che si conservano secchi come i fichi del Maghreb e se non si è abituati hanno un effetto lassativo, che subii anch’io quando li assaggiai. Gli abitanti di Isfahan sono belli e hanno la pelle bianca e lucente con note di incarnato. Le loro principali virtú sono il coraggio, l’ardimento e la generosità, e sul loro fare a gara per offrirsi l’un l’altro i cibi migliori si raccontano storie straordinarie! Se qualcuno, per esempio, invita un amico, gli dice: “Vieni da me a mangiare pane e latte”, ma se l’altro accetta, gli offre ogni sorta di cibi prelibati e cerca di stupirlo con grande ostentazione. O ancora, ogni categoria di artigiani forma una gilda con un proprio capo eletto tra i suoi membri, e cosí fanno non solo gli

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artigiani, ma anche i notabili della città. C’è addirittura un gruppo dei giovani scapoli! Orbene, i membri dei vari gruppi fanno a gara nell’invitarsi a vicenda ed esibire ciò di cui sono capaci, curando con gran scrupolo le varie portate e tutto il resto. Mi hanno raccontato che una volta un gruppo ne invitò un altro e fece cuocere il cibo al fuoco delle candele, e quando quelli ricambiarono l’invito, alimentarono il fuoco con fili di seta! A Isfahan presi alloggio nel convento dedicato allo shaykh ‘Ali ibn Sahl: un luogo venerato dove gli abitanti si recano per ricevere la benedizione (baraka) e i viandanti trovano di che rifocillarsi, con annesso un hammam («bagno») meraviglioso, dal pavimento in marmo e i muri rivestiti di piastrelle di maiolica, dove non si paga l’ingresso perché si tratta di una fondazione pia. Shaykh del convento, all’epoca, era il devoto e fedele Qutb al-Din Husayn. Rimasi suo ospite quattordici giorni e osservai ammirato il suo zelo nel compiere le pratiche religiose, la sua predilezione per i poveri e l’umiltà che con essi dimostrava. Nei miei confronti usò

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grandi riguardi, trattandomi con ospitalità e donandomi anche un bel vestito. Poi, imboccata la strada della Dasht al-Rum, una piana abitata dai Turchi, giungemmo finalmente a Shiraz. Famosa città di gran rango, ben costruita e molto estesa, Shiraz vanta eleganti giardini, ruscelli gonfi d’acqua, magnifici mercati, strade eccellenti, numerosissimi abitanti e palazzi edificati a regola d’arte secondo un mirabile piano urbanistico. Ogni gilda possiede un suo mercato, in modo da evitare di mischiarsi con le altre, e la gente, bellissima, veste abiti puliti: in tutto l’Oriente Shiraz è l’unica città paragonabile a Damasco per la bellezza non solo dei mercati, dei giardini e dei corsi d’acqua, ma anche della popolazione. Posta in un pianoro e attorniata da giardini, l’attraversano cinque fiumi e possiede acque dolcissime, fresche d’estate e calde d’inverno. Quanto alla moschea principale, dove i notabili della città si riuniscono tutti i giorni per compiere le preghiere del tramonto e quelle della sera, è fra le piú grandi e meglio costruite al mondo e possiede un vasto cortile lastricato in marmo che nella stagione calda viene lavato ogni notte. A nord della moschea, la porta detta “di Hasan” si apre sul mercato della frutta, uno dei piú belli della terra. Gli abitanti di Shiraz sono buoni, pii e virtuosi: soprattutto le donne, le quali non solo calzano stivaletti ed escono di casa avvolte in veli e mantelli che celano agli sguardi, ma danno anche elemosina con gran munificenza e, fatto curioso, tutti i lunedí, i giovedí e i venerdí si ritrovano in gran numero con il ventaglio in mano per rinfrescarsi dal caldo ad ascoltare il predicatore nella grande moschea. In nessun’altra città ho visto riunioni di donne tanto numerose!».

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Isfahan (Iran). La Moschea Masjid-i Shah (Moschea dell’imam), innalzata nel XVII sec. per volere dello shah Abbas I.

nuovamente a Mecca. Nel 1330 (o 1332) si spinse fino in India per cercare un incarico prestigioso presso la corte del sultano di Delhi. Durante questo lungo itinerario, toccò l’Egitto, la Siria, l’Asia Minore, la regione del Mar Nero, Costantinopoli, la Transoxiana, il Khorasan e l’Afghanistan. Raggiunse le sponde del fiume Indo nel settembre del 1333 (o del 1335). In India rimase per otto anni, esercitando a lungo la carica di giudice nel governo di Muhammad Tughluq, sultano di Delhi.

In Cina, finalmente

Nel 1334, il sovrano gli affidò la guida di una missione diplomatica in Cina, ma la nave di Ibn Battuta naufragò sulla costa sud-occidentale dell’India, lasciandolo senza impiego e senza risorse. Per poco piú di due anni, viaggiò attraverso l’India meridionale, Ceylon e le isole Maldive, dove esercitò il mestiere di giudice presso la dinastia musulmana che governava l’arcipelago. Poi, nel 1345, decise di raggiungere ugualmente la Cina a titolo individuale: via mare, raggiunse il Bengala, la costa della Birmania e l’isola di Sumatra, per proseguire alla volta di Canton. Poco o nulla si sa del suo soggiorno cinese, su cui la Rihla non fornisce informazioni. Nel 1346-47 tornò nuovamente a Mecca, passando per l’India meridionale, il Golfo Persico, la Siria e l’Egitto. Dopo aver preso parte, per l’ultima volta, alle cerimonie del pellegrinaggio, si mise in viaggio verso casa. Giunse a Fes verso la fine del 1349, ventiquattro anni dopo la sua partenza. L’anno successivo, attraversò lo stretto di Gibilterra, per una breve visita del regno musulmano di Granada. Infine, nel 1353, intraprese l’ultima spedizione: una traversata del deserto del Sahara con una carovana di cammelli che lo condusse fino al regno del Mali e alla favolosa Timbuctu. Nel 1355 tornò in Marocco per rimanervi. In quasi trent’anni di peregrinazioni aveva attraversato l’intero emisfero orientale, visi-

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Dossier

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una nuova rihla

Sulle orme di Ibn Battuta A circa 650 anni dai viaggi di Ibn Battuta, Tim MackintoshSmith, un giovane orientalista inglese, attratto dal fascino del racconto, ha voluto ripercorrere il cammino dell’autore della Rihla e raccontare la sua eccezionale esperienza. Avventura, cronaca, viaggio, questo libro nasce non solo dal piacere irresistibile di raccontare una grandiosa storia medievale, ma anche dalla necessità di scoprire un mondo per molti aspetti ancora sconosciuto. Cosí La strada di Tangeri (traduzione di L. Lanza e P. Vicentini, Rizzoli, Milano 2002) permette al lettore di incontrare un autore che si inserisce nella brillante tradizione letteraria inglese di viaggi e di conoscere quei paesaggi paralleli, profondi e nostalgici, i molteplici «luoghi di mezzo» che insieme rappresentano l’anima dell’Islam contemporaneo. Miniatura raffigurante un principe che presiede una seduta del tribunale. XV sec. Istanbul, Palazzo Topkapi.

tato territori che oggi costituiscono circa 44 Paesi diversi e percorso oltre 117 000 chilometri.

Opera-mondo

Ci sono tantissimi libri. Ci sono tanti grandi libri. E ci sono poi alcuni libri che vogliono essere un’altra cosa: monumenti, cattedrali letterarie. Testi sacri, se possibile. Opere epiche: enciclopediche, polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili. È senz’altro il caso della Rihla di Ibn Battuta, un libro sul quale molto è stato scritto e molto ancora si dirà. Per esempio, ci si è spesso soffermati sui problemi di datazione e di attendibilità dei fatti narrati, accusando l’autore di aver attinto a relazioni di viaggio del periodo precedente, o di riportare aneddoti falsi e inventati. In effetti, l’opera di Ibn Battuta sembra a prima vista far parte di quel genere di letteratura geografica araba che si sviluppa a partire dall’VIII secolo per poi confluire successivamente nell’adab, la letteratura amena a scopo didattico, che ha il fine di stimolare l’immaginazione dei lettori con dati topografici che si uniscono a racconti su mirabilia e a ogni tipo di aneddoti. Ma gli studiosi piú avvertiti

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hanno da tempo compreso un dato di fatto fondamentale: la Rihla non è una semplice cronaca, né tantomeno un manualetto di geografia commerciale. E Ibn Battuta non è un geografo: non si preoccupa certo di fornire informazioni organiche ed esatte. Come sottolinea giustamente Claudia M. Tresso, Il suo racconto, pur talvolta pedantemente descrittivo, segue un approccio del tutto personale: «Il filo conduttore è l’io narrante, l’itinerario si dipana mediato dai ricordi, e se la memoria fa difetto, o se l’attenzione rischia di smorzarsi, eccolo inserire, attingendo a tradizioni arabe, persiane e indiane a mo’ dei racconti delle Mille e una notte, qui una storia meravigliosa, là un racconto edificante. Sí, probabilmente Ibn Battuta era in grado di stupire i suoi ascoltatori: un po’ per quell’accattivante tendenza a svelarsi che contraddistingue, appunto, la sua opera, e un po’ per quell’insieme di aneddoti, leggende e mirabilia – miscuglio di spezie d’Oriente – che insaporisce le sue storie». Un elemento tipico del viaggiatore Ibn Battuta, che lo rende particolarmente simpatico, è il fatto che, nel corso delle sue peregrinazioni, egli si interessa molto di piú delle persone che dei luoghi che si trova a visitare: egli, in effetti, sembra godere non tanto nello scoprire il mondo quanto piuttosto nell’en-

trare in contatto con i suoi abitanti. A questo proposito, va sottolineato come nei suoi spostamenti egli sia guidato da due «stelle polari»: da un lato, la ricerca di un buon posto di lavoro nelle corti dei grandi sovrani musulmani, sempre desiderosi di avere al proprio servizio uomini di cultura formati nelle piú importanti scuole coraniche del mondo islamico, allo scopo di garantire l’unità religiosa e culturale della comunità (umma) e al tempo stesso di legittimare la loro autorità politica; dall’altro, il pellegrinaggio nei luoghi santi dell’Islam, non solo Mecca, ma anche i siti in cui riposano i piú famosi santi dell’Islam, al fine di ottenere la loro benedizione (baraka) e la loro protezione spirituale.

Sempre in cammino

Un grande viaggiatore contemporaneo, Bruce Chatwin (19401989), diceva che «quelli che presumono di scrivere libri si dividono in due categorie, gli stanziali e gli itineranti. Ci sono scrittori che funzionano soltanto “a domicilio”, con la seggiola giusta, gli scaffali di dizionari ed enciclopedie, e oggi magari un computer. E ci sono quelli come me, che sono paralizzati dal domicilio, e che sono candidamente persuasi che tutto andrebbe bene se solo fossero in qualche altro posto» (Anatomia dell’irrequietezza, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 1996). Come Chatwin, anche Ibn Battuta apparteneva senza dubbio alla categoria degli «itineranti». La chiave del suo grandissimo successo di narratore sta infatti proprio nella sua straordinaria irrequietezza, che ogni volta lo induce a rimettersi in cammino alla ricerca di nuove esperienze umane. V

Da leggere U Ross E. Dunn, Gli Straordinari

viaggi di Ibn Battuta, traduzione di Maria Teresa Marenco, Garzanti, Milano 1998

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macchine d’assedio catapulta

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L’arma «invisibile»

di Flavio Russo

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Nessun esemplare intatto di catapulta medievale, uno dei simboli dell’arte militare, è sopravvissuto al tempo. Provò a colmare la lacuna, nell’Ottocento, l’architetto francese Eugène Viollet-le-Duc, elaborando una ricostruzione dettagliata del modello originale, da molti ritenuta verosimile. Tuttavia, alla prova dei fatti, una macchina da guerra cosí concepita si sarebbe rivelata inutilizzabile

e le raffigurazioni pervenuteci delle macchine da lancio utilizzate dai Romani, e prima ancora, dai Greci, si contano sulle dita di una sola mano, della catapulta medievale non se ne conoscono affatto! Ma che l’arma sia effettivamente esistita non vi è alcun dubbio, tanto che di menzioni se ne trovano sin dal VII secolo. Paolo Diacono, per esempio, nella sua Storia dei Longobardi, rievocando l’uccisione dell’eroico cavaliere Sessualdo nel 633, scrive che la sua «testa fu gettata dentro la città [Benevento] con una catapulta». E che non si tratti di un’illazione è dimostrato dal fatto che la medesima notizia viene cosí tramandata in un’altra cronaca: «Caput ejus, abscissum, atque com belli Machina, quam Petraria vocant, in Urbem projectum est» (Chronicon Episcoporum, 1781, vol. III, p. 52). Tuttavia, che fosse chiamata catapulta o petriera, l’arma, come detto, non ha lasciato di sé immagini di sorta. Tra gli studiosi del Medioevo, invece, le sue connotazioni conobbero varie formulazioni, la piú famosa delle quali è fornita da Eugène Viollet-le-Duc: una ricostruzione grafica talmente suggestiva da essersi trasformata in una sorta di raffigurazione «ufficiale», sulla cui base sono stati realizzati modelli – al naturale e in miniatura –, che hanno finito con il colmare il vuoto iconografico, senza ulteriori riscontri.

In principio fu l’onagro

Miniatura raffigurante l’assedio del castello di Chinon (Francia), da un’edizione illustrata de Les Grandes Chronique de France. XIV sec. Castres, Bibliothèque Municipale. Sulla sinistra, si riconosce un trabucco, un’arma affine alla catapulta, a differenza della quale, però, non sfrutta la propulsione elastica, ma effettua il tiro con il principio della leva.

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Eppure, se analizziamo razionalmente quel superbo disegno, non ne sfuggono le palesi incongruenze, che, in pratica, avrebbero inficiato il funzionamento dell’arma, inducendoci a considerare priva di valore storico la catapulta cosí immaginata, che invece, con alcune modifiche, potrebbe essere considerata, se non vera almeno verosimile. Per meglio valutarle, si impone una breve descrizione della balista romana piú nota come onagro, da cui derivò la catapulta medievale, quale che fosse la sua effettiva connotazione. Le macchine da lancio usate dalle legioni dell’età imperiale possono essere schematicamente suddivise in due tipologie fondamentali: lancia dardi e lancia sassi, definite rispettivamente catapulte e baliste, omicide le prime e demolitrici le seconde. Non mancava, però, una tipologia di sintesi che, grazie al tiro fortemente para-

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macchine d’assedio catapulta bolico di grandi palle, come ricordava Pietro Sardi nel trattato L’artiglieria (stampato a Venezia nel 1621), sormontate le mura, tirava «sopra i tetti delle case della Città, o, Fortezza, facendogli sfondare con ammazzare quegli che dentro si ritrovano, d’onde impauriti, erano forzati ad arrendersi». Si trattava, in pratica, di un antesignano mortaio, capace di effettuare un bombardamento, perlopiú notturno, dagli effetti terroristici, su civili inermi. Un’arma siffatta è ricordata già nel III secolo a.C., da Filone di Bisanzio nella sua Sintassi Meccanica, con la denominazione di monoancon, cioè balista a braccio unico, in grado di scagliare palle di pietra di una trentina di chilogrammi a discreta altezza. In seguito, di tale macchina si perdono le tracce fino alla metà del IV secolo: dedurne dal quel lungo silenzio la scomparsa sarebbe tuttavia azzardato, dal momento che le denominazioni delle artiglierie elastiche potevano mutare.

Legno di quercia o di leccio

Pertanto la descrizione di Ammiano Marcellino (che scrive nel IV secolo d.C.), può ritenersi attendibile sia per il passato, sia, in sostanza, per il futuro. Queste le sue parole: «[L’] onagro, possiede la seguente configurazione. Due travi di legno di quercia, o in alternativa di leccio, vengono sagomati in maniera tale da sembrare sollevarsi con una lieve gobba; quindi vengono congiunti nella stessa maniera dell’attrezzo per segare e, praticati dei larghi fori in entrambe le travi, al loro interno vi si fanno passare delle robuste funi che raccordano la macchina e le impediscono di rompersi. Dal centro In basso la ricostruzione di una catapulta medievale immaginata dall’architetto e storico dell’arte medievale francese Eugène Viollet-le-Duc.

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Nonostante alcune palesi incongruenze, la sua proposta ha finito con l’imporsi come modello per numerose ricostruzioni successive.

di queste [funi] si innalza obliquamente un braccio di legno, dritto come un timone di carro, cosí avvinto nella matassa di nervi da riuscire possibile sollevarlo o abbassarlo; alla sua estremità superiore sono fissati dei ganci di ferro, dai quali pende una fionda di corda o di ferro. Dalla parte opposta del braccio di legno viene collocato un grosso sacco realizzato con ruvidi tessuti caprini, imbottendolo di paglia sminuzzata, e quindi legato con forti nodi è posto [insieme all’arma] sopra un rialzo di zolle o su di un cumulo di mattoni. Infatti una tale massa posizionata sopra un muro compatto di pietre lo sconnette rapidamente e non per il suo peso ma per i suoi scuotimenti». «Ingaggiato il combattimento, nella fionda è collocata una pietra sferica; quattro robusti giovani, disposti da entrambi i lati, fanno ruotare in senso inverso l’albero al quale sono fissate le funi che a loro volta trascinano all’indietro il braccio, fino ad un assetto quasi orizzontale. A questo punto il direttore del tiro, dall’alto della sua posizione, agendo sulla maniglia che vincola l’intera l’arma, la sblocca con un forte colpo di mazzola: il braccio liberato dal ritegno scatta e dopo aver scagliato il sasso che fracasserà qualsiasi ostacolo, percuote il soffice sacco di tessuto caprino (…) di recente, però, ha ricevuto il soprannome di onagro» (Rerum gestarum libri, XXIII, 4). Il curioso nome dell’arma derivò dalla reazione d’arresto, che ne faceva sollevare la parte posteriore in modo simile allo scalciare dell’asino selvatico, obbligando perciò a smontare le ruote prima del tiro. L’onagro, che in breve divenne l’artiglieria principale delle legioni, non scomparve con il dissolversi dell’impero d’Occidente, e, soprattutto, non se ne dimenticò il criterio informatore. È quindi probabile che, fin dall’Alto Medioevo, abbia conosciuto numerose riproposizioni, progressivamente perfezionate, forse anche con l’aggiunta di un robusto arco d’acciaio simile a una moderna balestra, quale il disegno di Viollet-le-Duc suggerisce. Un arco che però, senza la grande matassa nervina – che

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A destra particolari dell’arpionismo per porre in tensione la grande matassa. In basso ricostruzione della catapulta medievale, piú verosimile rispetto all’ipotesi di Viollet-le-Duc.

Spesso rinforzo di legno con imbottitura, per limitare la rotazione del braccio stesso a soli 45°.

Traversa sulla quale il braccio si arresta al termine del lancio.

Matassa nervina che imprime al braccio la velocità per il lancio.

Ruote a raggi per il trasporto della macchina, facilmente sfilabili al momento del tiro.

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macchine d’assedio catapulta

invece propongono numerose ricostruzioni cinematografiche e purtroppo anche quella esposta in Castel S. Angelo, a Roma –, mai avrebbe potuto imprimere al braccio la velocità indispensabile per il lancio, limitandosi a operare, tutt’al piú, come un mero stabilizzatore di rotazione, costringendola nel piano verticale.

Lanci privi di efficacia

Trascurando questa scenografica integrazione e la sostituzione della fionda con il grosso cucchiaio, l’arma che il dotto architetto medievista disegna è comunque l’onagro, inficiata però da due gravi deficienze: una inerente al fermo del braccio, l’altra alle ruote. Nell’onagro, infatti, il braccio, ruotando, faceva aprire la fionda dopo i 45°, scagliando la palla verso l’alto, secondo la tangente, e fermandosi quasi orizzontalmente sull’imbottitura. Nella catapulta di Viollet-le-Duc, invece, il braccio si sarebbe arrestato urtando con violenza contro la traversa superiore perpendicolarmente e scagliando a quel punto la palla non piú verso l’alto, come erroneamente indica in una seconda tavola l’architetto, ma con traiettoria parallela al terreno. Nel primo caso la gittata sarebbe risultata massima, nel secondo minima, senza contare che cozzando il braccio sullo spigolo inferiore della traversa in pochi tiri si sarebbe danneggiato in maniera irreparabile, al pari delle ruote, inadeguate a sostenere lo scalciare della macchina. Non a caso un rarissimo disegno del XIV secolo sembra suggerire l’adozione di una seconda matassa per il fine corsa.

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Roma, Castel Sant’Angelo. Catapulta medievale, ricostruita secondo il modello di Viollet-le-Duc. Rispetto all’arma disegnata dall’autore del presente articolo, si nota, innanzitutto, l’assenza della robusta matassa nervina, senza la quale, non sarebbe stato possibile ottenere la velocità necessaria per il lancio delle palle, pesanti 30 kg circa (e che possiamo immaginare simili a quelle accatastate alle spalle della macchina).

Volendo indicare le opportune modifiche al disegno di Viollet-le-Duc, per renderlo meccanicamente congruo, la traversa avrebbe dovuto montare un forte spessore orizzontale, tale da arrestare il braccio dopo appena 45° di rotazione, con una spessa imbottitura inferiore. Le ruote, a loro volta, avrebbero dovuto essere a raggi – come lo saranno nelle artiglierie fino alla seconda guerra mondiale –, che avrebbero agito come leve nel caso di affondamenti durante il trasporto e, soprattutto, sarebbero state facilmente sfilabili, dal momento che occorreva rimuoverle al momento del tiro. Precisate queste necessarie correzioni, le prestazioni di una catapulta siffatta, se mai esistette davvero, si devono immaginare leggermente maggiori dell’onagro, non fosse altro che per l’adozione del duplice propulsore elastico, a flessione mediante la balestra d’acciaio e a torsione mediante la matassa. Gli impatti non avrebbero sicuramente demolito un castello o una cerchia – un obiettivo irrealizzabile con palle pesanti una trentina di chilogrammi –, ma i tetti delle case presenti al loro interno, con esiti facilmente immaginabili. F agosto

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caleido scopio

Mode e divieti

libri • La pubblicazione delle disposizioni del Comune di Firenze in materia di

abbigliamento e acconciature è la prova di come, anche in quel caso, fatta la legge, si fosse ben presto trovato l’inganno...

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irenze fu forse la città italiana piú rigorosa in materia di legislazione suntuaria – le norme volte a disciplinare il lusso negli abiti, nelle acconciature e negli accessori – anche se poi, di fatto, tali provvedimenti, invece di ostacolare le creazioni della moda, stimolarono fantasiose invenzioni, mirate ad aggirare le restrizioni e a creare un nuovo mercato. Poco prima della metà del Trecento, le donne fiorentine furono costrette a inviare a quattro commissioni nominate dal Comune, le vesti che rientravano nelle tipologie proibite, per farle registrare e bollare, ottenendo il diritto a indossarle (previo esborso pecuniario, ovviamente…). Quattro notai ne stilarono gli inventari (conservati all’Archivio di Stato di Firenze), ora pubblicati insieme a un nutrito gruppo di saggi introduttivi.

solo grazie ad altra ricchezza poteva essere indossato. Straordinario e incredibilmente variopinto è il quadro che emerge da questi inventari. Nei tessuti degli abiti, in lana o seta orientale, dai colori sgargianti in abbinamenti

Smalti e vetri

Colte sul fatto I divieti riguardavano sia i materiali, la seta innanzitutto, ma anche i tessuti di lana particolarmente preziosi perché lavorati in modo raffinato o adorni di ricami, sia la tipologia delle decorazioni, sempre ed esageratamente appariscenti e sontuose. Il rigore di quegli anni era tale che gli incaricati dal Comune arrivarono ad appostarsi davanti alle chiese nei giorni di festa per cogliere in flagrante le malcapitate che avessero indossato abiti non bollati (e per i quali non era stata quindi versata la tassa): l’abbigliamento dunque diveniva il primo e piú evidente simbolo di ricchezza, e

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audaci, predominavano i motivi naturalistici tipici del tardo gotico: tralci d’uva, ghirlande, fiori, fronde, stelle, scoiattoli, leoni, cervi, caprioli, cammelli, e a volte, con reminiscenze araldiche, scacchi, motivi geometrici, e piccoli castelli. La complessità e lo sfarzo di questi manufatti emergono al massimo grado in capi come una sopravveste in seta azzurra ornata da tralci di vite, pampini, foglie, cani gialli, corone rosse, farfalle e scoiattoli bianchi, foderata in taffetà cangiante rigato; oppure in mantelli in seta con tralci di vite in campo rosso, lettere verdi e fodera azzurra a scacchi.

Draghi rossi e querce azzurre Elenchi descrittivi di abiti di lusso (Firenze 1343-1345) trascrizione a cura di Laurence Gérard-Marchant; saggi introduttivi di Laurence Gérard-Marchant, Christiane Klapisch Zuber, Franek Sznura, Giuseppe Biscione, Jöel F. Vaucher-de-la-Croix, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, CLV, 684 pp. 110,00 euro ISBN 978-88-8450-509-5 www.sismel.it

Nelle acconciature e negli accessori (bottoni soprattutto), prevale l’argento dorato abbondantemente decorato con smalti multicolori e vetri, a imitazione delle pietre preziose, secondo una consuetudine già diffusa fin dai tempi di Plinio e descritta da Benvenuto Cellini all’inizio del Cinquecento come tipica degli orafi di Milano. Tra le proprietarie dei preziosi indumenti e accessori figurano le esponenti delle principali famiglie mercantili e bancarie fiorentine: Bardi, Sacchetti, Acciaiuoli, Portinari, Bonaccorsi, Adimari, Albizzi, Strozzi, ma non mancano mogli di tavernieri e di maestri artigiani in genere, di pittori, di fornai. Concludono il volume un prezioso glossario dei termini utilizzati nella trascrizione e l’indice dei nomi di persona. Maria Paola Zanoboni agosto

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Lo scaffale Silvia Diacciati e Lorenzo Tanzini (a cura di) Società e poteri nell’Italia medievale Studi degli allievi per Jean-Claude Maire Vigueur Viella, Roma, 204 pp.

23,00 euro ISBN 9788867282852 viella.it

Dall’iniziativa di alcuni suoi allievi, nasce questa silloge di studi dedicata a Jean-Claude Maire Vigueur, medievista francese che i nostri lettori ben conoscono per essere stato

direttore scientifico di «Medioevo». Diviso tra la Francia e l’Italia e, di quest’ultima, grande studioso del periodo comunale, Maire Vigueur è oggi una figura di spicco nella storiografia medievale e questa raccolta testimonia, seppure in piccola parte, l’impronta da lui lasciata nella generazione di medievisti piú recente. Un liber amicorum,

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dunque, che non solo si inserisce, sviluppandole, nelle tante linee di ricerca intraprese da Maire Vigueur, ma ne propone di nuove, in un proficuo dialogo con quanto già indagato dallo storico francese. Tra le tematiche privilegiate vi sono i molteplici aspetti della vita cittadina tra il XII e il XV secolo, dai pacta turris fiorentini del Duecento, alle manifestazioni della violenza organizzata nelle campagne toscane tra il XII e il XIII secolo, all’uso del vituperium. Se la presenza di studi «toscani» ha un ruolo preponderante – sulla scia di quanto Maire Vigueur ha dedicato a tale ambito geografico – non mancano altri centri di interesse, come Roma, con studi sugli aspetti socioeconomici quali l’allevamento bovino divenuto nel XV secolo monopolio di una ristretta cerchia di nobili romani, ovvero i commenti dei curialisti in seguito alla presa di Roma nel 1413 da parte delle truppe del re di Napoli, evento che segnò una profonda rottura tra Giovanni XXIII e la Curia. Il Mezzogiorno d’Italia è rappresentato da due saggi rispettivamente

dedicati alla Napoli aragonese del XV secolo con uno studio sul ricco cerimoniale che accompagnava la cosiddetta «caccia agli Astroni» (il cratere di un vulcano spento situato nella zona dei Campi Flegrei nel quale Alfonso d’Aragona istituí appuno una riserva di caccia, n.d.r.), e da una riflessione sulla storiografia dedicata agli Aleramici, famiglia appartenente all’aristocrazia militare lombarda, trapiantata in Sicilia a seguito della conquista normanna dell’XI secolo. Franco Bruni Giancarlo Pastura Il territorio di Vasanello in età medievale I. La realtà rupestre

Davide Ghaleb Editore, Acquapendente, 77 pp., ill.

15,00 euro ISBN 978-88-98178-15-5 ghaleb.it Giancarlo Pastura (a cura di) La città sotto la città Ricerche e analisi sulla parte sepolta dell’abitato di Orte

Quaderni del Museo Civico di Orte, 1, Tipografia Ceccarelli, Grotte di Castro, 127 pp., ill. s.i.p.

ISBN 978-889643424-6

Lo stretto rapporto tra le attività dell’uomo e la geomorfologia di un territorio può essere

letto nel lascito storico e monumentale che scaturisce da questa interazione. L’Etruria viterbese, caratterizzata dalla natura vulcanica dei suoi terreni (nei quali abbondano il peperino e il tufo, rocce che sono appunto di origine eruttiva), si distingue monumenti sono per le «architetture solitamente precarie rupestri», testimoniate e richiederebbero in particolare dai adeguate azioni di monumenti di epoca tutela, e ciò amplifica etrusco-romana, il valore degli studi di molto piú noti rispetto ricognizione territoriale. a quelli delle età Ne sono un esempio successive, pure ben questi volumetti presenti nella regione. dedicati alle La continuità d’uso «architetture rupestri» di queste strutture nella loro fase non ha conosciuto medievale, frutto della soluzione, come profonda conoscenza attestano i riusi, in della zona da parte alcuni casi anche dell’autore e della abitativi, delle tombe sua collaborazione antiche nel corso con la cattedra di dell’età di Mezzo, archeologia medievale persistendo in dell’Università della numerosi casi sino Tuscia. all’età contemporanea. Nel caso del territorio Magazzini, pestarole, di Vasanello, Pastura fornaci, tagliate, indaga la realtà colombari, aree rupestre, interna funerarie, torri, castelli, all’abitato e comunque mura, insediamenti limitrofa a esso. ecclesiastici... sono Si tratta di una lettura Dove e quando elementi pregnanti storica e archeologica Marsiglia neldiMedioevo, del Viterbese grande rilevanza Marsiglia, Archives medievale, attestati e nelmunicipales contempo di al 27 novembre pressoché infino ogni estrema fragilità, sia Orario martedí-venerdí, settore del paesaggio per lo stato9,00di incuria non ancora12,00 toccatoe 13,00-17,00; di questesabato, strutture 14,00-18,00 (spesso utilizzate come dall’urbanizzazione Info tel. +0033discariche), 4 91553375 e spesso nascosti sia per la tra la vegetazione necessità di restauri: che lambisce i una situazione che, a centri urbani o nelle oggi, condanna alla aree boschive. Le progressiva scomparsa condizioni di questi i vari contesti.

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caleido scopio

Nel segno del liuto musica • Un abruzzese di genio e il fratello di Galileo Galilei

sono le guide per un viaggio attraverso composizioni che, nel corso del Cinquecento, ribadirono la fortuna di uno strumento a corde apprezzato fin dall’antichità

N Il secondo studio, incentrato sulla parte sotterranea di Orte, si snoda attraverso le labirintiche e ben conservate strutture qui scavate nel corso dei secoli, evidenziando le dinamiche storiche e strutturali che portarono alla realizzazione di ninfei, condotti idrici, colombari e conserve di neve. Tali strutture, lette insieme alle fonti scritte che le riguardano, permettono di cogliere appieno, attraverso un’inedita e intelligente lettura diacronica, la storia millenaria del divenire di una città. Non va infine trascurato l’indotto economico e culturale che quest’ultima operazione ha portato con sé: i percorsi fruibili di Orte sotterranea con la visita al Museo Civico costituiscono un’occasione per far conoscere, apprezzare e proteggere un patrimonio locale altrimenti sconosciuto e privo di tutela. Francesca Ceci

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ei Manoscritti Herwarth, conservati alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, ritroviamo tutto quel che ci è dato oggi conoscere della letteratura liutistica di una figura di spicco del primo Quattrocento, Marco dall’Aquila, le cui musiche sono l’oggetto dell’incisione Dall’Aquila. Music for Lute (BRILL 94805, 1 CD, www.brilliantclassics.com). Nato nei primi anni Ottanta del XV secolo, dall’Aquila, di origini abruzzesi, è, peraltro, un raro caso di compositore/interprete cosciente della propria abilità e con un atteggiamento imprenditoriale piuttosto inusuale per i suoi tempi. Risale infatti al 1505 la richiesta – poi ottenuta – di un privilegio di stampa indirizzato a Venezia per avere il monopolio sulla pubblicazione di intavolature liutistiche. Un privilegio che, però, non sfruttò mai, tanto che i suddetti manoscritti contenenti le sue composizioni, da lui accuratamente predisposti organizzando i brani in previsione della stampa, rimasero lettera morta; come d’altronde non ci sono pervenute altre stampe del genere a testimoniare un suo eventuale impegno in campo editoriale.

Compositore eclettico Tramandateci in forma di intavolatura, un sistema di notazione musicale in cui viene indicata tutta la diteggiatura utilizzata, queste musiche danno la cifra della sua arte, collocandolo tra i migliori rappresentanti della generazione di liutisti attivi tra Quattro e Cinquecento. In questo strumento, Marco dall’Aquila si è cimentato nei piú diffusi generi dell’epoca come i ricercar-fantasia, che occupano la maggior parte dei quattro volumi, ovvero trascrizioni di note

chanson altrui, secondo una moda che si sviluppò considerevolmente nel corso del Cinquecento. L’ascolto si apre con alcune trascrizioni di brani come La traditora, Bragatin, D’una cosa spagnola, i cui titoli rimandano a composizioni concepite per le voci e qui trascritte per il liuto. La seconda parte del disco è dedicata al genere del ricercare, che è anche il piú rappresentato nella sua produzione. Qui si intravede anche il passaggio, di cui dall’Aquila fu testimone eloquente, da una tecnica in cui prevaleva l’uso del plettro (XV secolo) a un’altra in cui si venne perfezionando la diteggiatura della mano destra a favore di una resa polifonica piú elaborata e piú fedele alla polifonia vocale rinascimentale, presa a modello, pur mantenendo in parte quel carattere improvvisativo che distingue la produzione medievale e primo-quattrocentesca. Interprete di questi brani è il liutista Sandro Volta che ci propone una lettura eccellente, fatta di precisione tecnica, gran cura del fraseggio, a evidenziare agosto

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un approccio vissuto profondamente tra l’esecutore e le musiche di chi ha saputo «metter ogni canto in lauto cum summa industria, et arte».

Figlio d’arte Spostandoci in avanti di circa mezzo secolo, la figura di Michelagnolo Galilei, fratello del celebre scienziato e figlio di Vincenzo Galilei, che fu teorico musicale, ci riporta alla letteratura liutistica e alla grande fortuna che questo strumento continuò ad avere per tutto il Cinquecento. Michelagnolo Galilei. Intavolatura di liuto (RAM 1306, 1 CD, www.ramee.org) offre uno squisito assaggio dell’arte di questo illustre fiorentino, dedito particolarmente al genere della sonata; brani in cui

l’evidente ricerca nella descrizione di un affetto, di una dimensione psicologica particolare incidono sul carattere di ogni singola sonata, quasi in un tentativo di «umanizzare» la voce strumentale. Con una tecnica che risente dello stile brisé o arpeggiato, di tradizione francese, le composizioni di Michelagnolo – accompagnate da brani del padre Vincenzo – rivelano un pregevole bagaglio tecnico-compositivo, esaltato dalla superba eleganza dell’interpretazione del liutista inglese Anthony Bailes. Franco Bruni

Amori a confronto musica • Attingendo al Codice di Montpellier, il

gruppo Anonymous 4 si cimenta con le prime forme della polifonia medievale

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rotagonista della polifonia francese trecentesca, il Codice di Montpellier, conservato nella Biblioteca Universitaria dell’omonima città, ma di probabile origine parigina, è una fonte musicale di eccezionale interesse anche per la mole – con i suoi 336 brani polifonici – di musiche e generi rappresentati: un campionario vasto in cui si passa dalla polifonia liturgica alla grande stagione della polifonia profana. A questo repertorio di indubbio fascino è ora dedicata l’antologia Marie et Marion (HMU 807525, 1 CD, www.harmoniamundi. com), interpretata dal quartetto femminile Anonymous 4. Giocata sulla contrapposizione tra amore cortese e amore spirituale, la scelta antologica si concentra sul genere del mottetto con brani in cui ricorrono i personaggi di Marie e Marion, che simboleggiano quelle virtú decantate dalla cultura

MEDIOEVO

agosto

cortese dove la donna è ammirata, venerata, temuta, amata fino alla disperazione, ma, e soprattutto, rispettata come una entità superiore; da qui il frequente paragone con la Vergine Maria.

Un concerto di voci Diversi sono gli stili adottati in questi brani anonimi – alcuni tuttavia attribuibili ai piú noti compositori dell’epoca –, che vanno dal mottetto a una, a due e a tre voci, sempre accompagnate da un tenor che riprende, generalmente, una melodia liturgica sulla quale si intersecano le linee vocali superiori su differenti testi in francese accomunati dallo stesso tema. Una politestualità che connota in particolar modo la musica del periodo, ma non alimenta una confusione nella comprensibilità del messaggio poetico che, anzi, è amplificato attraverso la resa

polifonica e politestuale. Grazie all’avvincente interpretazione dell’Anonymous 4, gruppo newyorchese specializzato in musica medievale, i brani proposti, pur nel loro linguaggio lontano dalla nostra sensibilità tonale, creano un’atmosfera di suggestione e rarefatta bellezza, con una ricercatezza di sonorità di grande eleganza e un approccio vocale lontano dai criteri estetici del tempo, ma egualmente efficace nel riproporre le trame contrappuntistiche di queste prime forme della polifonia medievale. F. B.

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