Medioevo n. 210, Luglio 2014

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Bouvines guglielmo ebreo

leopoli castel del monte dossier cristianizzazione dell’europa

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Il micidiale balestrone

armi

Quando l’Europa divenne cristiana

speciale

Guglielmo Ebreo da Pesaro

protagonisti

www.medioevo.it

ca i pu st m g el ist l de er ia lmid o i nt e

Mens. Anno 18 n. 7 (210) Luglio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 7 (210) luglio 2014

EDIO VO M E www.medioevo.it

luglio 1214

bouvines guerra globale

prove di

€ 5,90



sommario

Luglio 2014 ANTEPRIMA scoperte I leoni dell’imperatore

personaggi

Guglielmo Ebreo da Pesaro

In punta di piedi 6

di Chiara Parente

44

storie Leopoli-Cencelle Il sogno di papa Leone

6

di Letizia Ermini Pani, Maria Carla Somma, Francesca Romana Stasolla

54

macchine d’assedio Balestrone da torno

Arcieri dalle braccia d’acciaio valorizzazione C’è un tesoro all’VIII miglio... appuntamenti Medioevo Oggi Lance in resta contro i mantenitori Per i cavalieri, la birra del re L’Agenda del Mese

di Flavio Russo 9

saper vedere

18 20 22

Nel castello perfetto

Castel del Monte di Furio Cappelli

64

medioevo nascosto Bassano in Teverina

13 14 15

musei Dalle armi ai fondi oro

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STORIE

Campanile con mistero di Roberta Riccobono e Francesca Ceci

Dossier

98

CALEIDOSCOPIO cartoline Viaggiare «alla giornata»

106

libri Quando i mercati si fecero comuni Lo scaffale

107 110

musica Le ore di Ambrogio Musiche per un’apparizione Melodie essenziali

111 112 113

missione europa

grandi battaglie Bouvines

di Federico Marazzi

luoghi

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mostre Medioevomania Fiesole longobarda Le trame della devozione

Prove di guerra globale

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98

32

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La cristianizzazione nei primi secoli dell’età di mezzo di Chiara Mercuri

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Ante prima

I leoni dell’imperatore scoperte • Il sepolcro di Enrico VII

nel Duomo di Pisa è stato aperto: al suo interno, insieme alle preziose insegne del potere appartenute all’imperatore del Sacro Romano Impero, è stato scoperto un raro tessuto ricamato

A

poco meno di un secolo dall’ultima ricognizione, effettuata nel 1921, l’estremo riposo di Enrico VII di Lussemburgo, che fu re di Germania (1308) e poi imperatore del Sacro Romano Impero (1312), è stato nuovamente disturbato. Il monumento funerario del sovrano, che si trova nel transetto destro del Duomo di Pisa, è stato infatti riaperto e le nuove indagini hanno riservato non poche soprerse. L’intervento ha consentito di accertare la reale importanza del tesoro custodito per sette secoli all’interno della cassa – composto dai simboli del potere: corona, scettro e globo in argento dorato – e, soprattutto, ha svelato la presenza di un drappo rettangolare, lungo oltre 3 m, che costituisce una rara testimonianza della produzione aulica di stoffe seriche degli inizi del XIV secolo. Vista l’eccezionalità degli oggetti e considerato il contesto storico di riferimento, si è deciso di

destinare gli elementi del corredo al Museo dell’Opera del Duomo. Rotti i sigilli dell’ultima ricognizione, all’interno della cassa sono apparsi i resti mortali dell’imperatore avvolti in un drappo, sopra il quale erano appoggiati la corona,

lo scettro e il globo. I tre oggetti richiamano con forte immediatezza le immagini dell’imperatore contenute nel resoconto illustrato in 73 miniature del suo viaggio in Italia, commissionato dopo il 1330 dal fratello Baldovino, arcivescovo di

In alto la corona deposta nella tomba di Enrico VII. Qui sopra l’apertura del sepolcro, nel Duomo di Pisa. A sinistra la cassetta contenente le spoglie dell’imperatore, contrassegnata dalla targhetta che ricorda la ricognizione effettuata nel 1921.

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Treviri, e ora conservato a Coblenza, nel Landeshauptarchiv. La cassa custodiva inoltre un contenitore cilindrico di piombo, al cui interno è stata trovata una carta, rivelatasi in seguito settecentesca e riferibile alla ricognizione avvenuta in questo secolo.

Colori simbolici A questo punto ha avuto indizio l’indagine vera e propria, che ha svelato il contenuto in tutta la sua consistenza. Quello che nel verbale del 1921 era sommariamente definito come «un drappo sottile tessuto a fasce» si è rivelato, fin da subito, un documento di grande interesse per peculiarità e consistenza: si tratta infatti di un telo rettangolare di grandi dimensione – oltre 300 cm di lunghezza per 120 di larghezza – realizzato in seta a bande orizzontali alte circa 10 cm, alternate nei colori – particolarmente ricchi di significato simbolico – nocciola rosato (dal rosso originale) e azzurro. Le bande azzurre risultano operate in oro e argento, con coppie di leoni affrontati, emblema per eccellenza della sovranità, mentre una

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Dopo la rottura dei sigilli, si procede all’apertura della cassa lignea che custodisce i resti dell’imperatore Enrico VII.

Le spoglie del sovrano furono deposte con le insegne del potere e con un prezioso telo di stoffa ricamata.

Invocato da Dante come liberatore Figlio del conte Enrico II di Lussemburgo, duca della Bassa Lorena, Enrico VII (1275 circa-1313), venne eletto imperatore nel 1308, alla morte di Alberto d’Asburgo. Nel 1310 assegnò la corona del regno di Boemia e Moravia al figlio Giovanni, togliendola al duca Enrico di Carinzia. La sua fama è legata in particolare alla politica di intervento in Italia. Infatti, i suoi predecessori Rodolfo e Alberto di Asburgo si erano preoccupati soprattutto di consolidare il proprio potere in Germania e in Austria. Inoltre, il trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone a opera del papa francese Clemente V (1309-14) contribuí a convincere i ghibellini italiani che potevano confidare nel suo intervento per restaurare l’autorità imperiale in Italia. Anche Dante Alighieri ne sollecitò l’intervento quale liberatore, sperando tra l’altro con questo di poter fare ritorno a Firenze. Nel 1310 Enrico VII scese in Italia; nel 1311, a Milano (dove nel giorno dell’Epifania ricevette la corona ferrea), coinvolto nelle lotte tra Visconti e Torriani, si schierò dalla parte dei Visconti, ghibellini, concedendo loro la dignità di vicari imperiali. Osteggiato dalle leghe guelfe della Toscana e dell’Umbria, scese fino a Roma, nel frattempo invasa dall’esercito del suo avversario Roberto d’Angiò, re di Napoli; superando molti contrasti riuscí a farsi incoronare imperatore nella basilica del Laterano (1312). Il pontefice Clemente V, che lo aveva inizialmente favorito, si era fatto nel frattempo sostenitore di Filippo il Bello. Successivamente Enrico VII tentò invano di assediare Firenze, difesa dalle leghe guelfe, e di guidare una spedizione contro Roberto d’Angiò, ma morí improvvisamente a Buonconvento, senza aver potuto realizzare il suo programma di pacificazione e di restaurazione del potere imperiale.

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Ante prima

A destra particolare del telo ricamato con figure di leoni, simbolo del potere imperiale. In basso la parte terminale dello scettro del sovrano.

In alto i resti di Enrico VII e gli oggetti deposti al momento dell’inumazione. scacchi, che segnano l’inizio e la fine della pezza: ciò definisce di fatto le dimensioni del drappo e potrà fornire importanti indicazioni utili per definirne la destinazione d’uso.

Gli sviluppi dell’indagine

complessa decorazione monocroma tono su tono – allo stato attuale non ancora decifrabile – è presente nelle fasce rosate. Una fascia di colore rosso violaceo, listata in giallo, posta in alto all’inizio della pezza, reca all’interno tracce d’iscrizione. Elemento che rende peculiare, se non unico, il manufatto, è la presenza, sui lati lunghi delle cimose e sui lati corti, di due bande a piccoli

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Altre rivelazioni sui resti di Enrico VII arriveranno presto da Francesco Mallegni, antropologo dell’Università di Pisa, che ha provveduto alla ricomposizione dello scheletro e del cranio, risultato molto guasto nella zona facciale. Tali operazioni, con i necessari interventi di restauro e l’applicazione di opportune metodologie, hanno consentito per ora di valutare la statura in vita dell’imperatore, pari a circa 1,78 m, e di valutarne l’età alla morte in circa 40 anni. Ulteriori analisi su piccolissimi frammenti inviati a laboratori specializzati potranno offrire nuovi elementi per chiarire lo stato di salute, le cause di morte e il trattamento del cadavere del sovrano, all’indomani del precoce decesso avvenuto nel 1313. (red.) luglio

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C’è un tesoro all’VIII miglio... valorizzazione • Recuperata grazie ai

recenti scavi e al successivo intervento di restauro, la cripta della pieve di S. Giovanni in Ottavo, nel territorio di Brisighella, è ora aperta al pubblico e si offre come testimonianza concreta e vivace di una vicenda storica plurisecolare

L

a pieve di S. Giovanni in Ottavo, o «del Thò», come viene comunemente chiamata, sorge poco fuori Brisighella (Ravenna) ed è una delle pievi romaniche piú suggestive e meglio conservate del territorio ravennate. Dallo scorso

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giugno, la sua cripta e alcuni vani adiacenti – scoperti e indagati a piú riprese nel secolo scorso – sono stati aperti al pubblico, che può cosí fruire di un percorso di visita corredato da pannelli che raccontano la storia di questo

In alto Brisighella (Ravenna). La pieve romanica di S. Giovanni in Ottavo, o «del Thò», fondata all’VIII miglio della strada che da Faenza giungeva a Fiesole. In basso una veduta della cripta della pieve, ora aperta al pubblico.

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Ante prima

In alto ancora una veduta della cripta. Sulla sinistra è un frammento di transenna di epoca romana. A sinistra un mattone romano riutilizzato come tabula lusoria, cioè come tavola da gioco.

monumento straordinario. La pieve deve il nome al fatto di sorgere all’ottavo miglio della via Faventina (oggi Faentina), l’antica strada romana che da Faenza giungeva a Fiesole, lungo la Valle del Lamone. Già menzionata in una pergamena del 909, ha subito varie modifiche, anche se l’impianto principale resta quello della fine dell’XI secolo, come attesta un’iscrizione su un capitello che reca la data del 1100.

Un lungo oblio La cripta, scoperta sotto il presbiterio in occasione dei restauri condotti negli anni Trenta del Novecento, risale alla fase edilizia piú antica della pieve. Durante gli ampliamenti del XVI secolo era stata occultata e riempita dei materiali piú eterogenei, tra cui frammenti di plutei decorati, parte di un ambone e pilastrini. Svuotata tra il 1950 e il 1960, ha restituito reperti ceramici

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MEDIOEVO


e lapidei di età romana e medievale, nonché resti archeologici riferibili sia alla pieve che a una precedente fase di occupazione in epoca romana. Dopo gli ultimi lavori di consolidamento e restauro del complesso effettuati tra gli anni Novanta e il Duemila, le Soprintendenze per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e per i Beni Architettonici delle province di Ravenna, Ferrara, Forlí-Cesena e Rimini hanno promosso, d’intesa con il Comune di Brisighella, un progetto di valorizzazione della cripta e degli ambienti sotterranei, realizzando il percorso di visita appena inaugurato.

I magazzini di una grande villa Gli scavi archeologici effettuati sotto la chiesa hanno fornito informazioni sull’utilizzo del sito zona prima che la pieve fosse costruita. In età romana questa era un’area agricola collegata a una grande villa urbano-rustica posta, come già detto, all’VIII miglio della Faventina. In corrispondenza del luogo di culto, in particolare, si trovavano i magazzini, la cui presenza è indiziata da 12 grandi dolia destinati allo stoccaggio dei prodotti agricoli: si tratta di recipienti di notevoli dimensioni, che potevano contenere fino a 1500-2000 l di olio o vino, ma anche semi o cereali. L’occupazione del territorio in età romana è confermata da elementi architettonici reimpiegati per la costruzione della pieve tra cui epigrafi sepolcrali, capitelli di produzione orientale databili al III e al IV secolo, frammenti lapidei e fusti in granito grigio (uno di questi è un miliario del IV secolo riutilizzato come colonna) e un capitello del I secolo a.C., trasformato in acquasantiera. È assai probabile che l’insediamento rurale sia rimasto in vita dalla fine dell’epoca repubblicana (I secolo a.C.) fino al V secolo d.C., come sembrano testimoniare alcune tombe alla cappuccina rinvenute sotto il pavimento della chiesa, che andarono a occupare l’area

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Formella con figura di cavaliere, recuperata in occasione degli scavi condotti all’interno della cripta. della villa. Le sepolture alla cappuccina erano modeste strutture per inumazione, realizzate con grandi tegole accostate in modo da formare un tetto: utilizzate per tutta l’età romana, persistono fino all’epoca medievale. Tra i materiali ascrivibili all’età medievale e post-medievale, si segnalano un frammento di transenna da finestra, una formella raffigurante un cavaliere, il frammento di uno stemma in calcare raffigurante una torre su un monte, una base tronco-piramidale in pietra per croce astile e piccoli frammenti di affreschi. Lo svuotamento della cripta ha portato al recupero di parte di un ambone, l’elemento da cui il sacerdote o il diacono enunciava le letture durante la liturgia. Spesso di dimensioni ridotte e poco elevato, vi si accedeva da due o tre gradini e poteva ospitare una sola persona.

Materiali di recupero La cripta della pieve del Thò fungeva da oratorio per le funzioni quotidiane del clero. Costruita utilizzando mattoni e laterizi di recupero e blocchi di spungone (un’arenaria calcarea tipica dell’Appennino romagnolo, cosí chiamata per via del suo aspetto spugnoso, n.d.r.), presentava in origine uno spazio suddiviso da tre coppie di pilastrini o colonne (di cui sono visibili attualmente solo alcune basi) che sorreggevano una copertura con volte a crociera. Illuminata da tre monofore poste nell’abside, vi si accedeva dalla navata principale della chiesa tramite una scala centrale, sul cui lato è visibile un mattone di età romana con incisa una tavola da gioco (tabula lusoria). Oltre ai reperti provenienti dagli scavi, all’interno della cripta sono esposti anche materiali in origine conservati all’interno della chiesa.

Dove e quando

Pieve di S. Giovanni in Ottavo (Pieve del Thò) Brisighella (RA), via Faentina Orario domenica, 15,00-18,00; l’accesso alla cripta è gratuito e consentito a gruppi di persone non superiori alle 15 unità, con visita guidata e/o accompagnata Info per aperture a richiesta (minino 10 persone e previa disponibilità): Ufficio Pro Loco, tel. 0546 81166; e-mail: iat.brisighella@racine.ra.it; Ufficio Cultura del Comune di Brisighella, tel. 0546 994415; e-mail: cultura@comune. brisighella.ra.it Tra questi, l’urna o piccolo sarcofago in marmo grigio che, secondo una targhetta marmorea oggi perduta, conteneva le ceneri di san Claro martire. Donata nel 1855 da papa Pio IX a Girolamo Lega e poi ceduta alla pieve, nel 1908, dal nipote Claro Lega, dopo i restauri del 1934 l’urna fu spostata in canonica e quindi, dal 1956, trasferita nel luogo attuale per iniziativa del pievano don Pio Lega, membro della stessa famiglia e promotore degli scavi effettuati nella cripta negli anni Cinquanta, come ricorda l’epigrafe incisa sul cippo che sostiene l’urna. Carla Conti

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Ante prima

EDIO VO M E oggi

S

ono sempre piú diffusi gli esempi di tecnologie digitali applicate ai beni culturali. Che valorizzano l’opera d’arte, con animazioni in 3D e realtà aumentata, puntando al coinvolgimento emotivo del visitatore, al quale viene svelato il dietro le quinte di un dipinto, di un’architettura o di uno scavo archeologico. Vanno in questa direzione due recenti progetti, il primo dei quali avviato a San Gimignano (Siena). In questo caso, indossando ARtGlass, un occhiale dotato di sensori, si ha una visione animata tridimensionale degli affreschi custoditi nel locale Museo Civico. Nel prendere vita, quasi come in un film, rivelano particolari inediti il ciclo cavalleresco dipinto nel tardo Duecento da Azzo di Masetto e quello firmato all’inizio del XIV secolo da Memmo di Filippuccio, il giottesco che nella Camera del Podestà dipinse gli inganni dell’amore. Ma raccontano dettagli nuovi anche le figure della Maestà, affrescata nel 1317 dal figlio di Memmo, Lippo Memmi, al quale si deve un’elegante Madonna in trono, circondata da una schiera di angeli e santi. L’iniziativa sperimentale contempla anche l’aspetto del video racconto: alla fruizione in 3D si accompagna la presenza virtuale di due guide, gli archeologi Dario Ceppatelli e Marco Valenti, che, in costumi cortesi, impersonano l’artista Lippo Memmi e l’armigero di palazzo. In alto San Gimignano. Una delle pitture visibili in 3D con gli occhiali ARTGlass. A destra un’immagine del DOMunder di Utrecht.

Le due figure, che si muovono secondo il principio della realtà aumentata, divulgano in maniera leggera contenuti scientifici, facendo provare al visitatore l’esperienza di entrare nelle scene affrescate (info: tel. 0577 286300; www.sangimignanomusei.it).

L’antico cuore d’Olanda Un altro viaggio multimediale è stato inaugurato nel centro di Utrecht, con DOMunder, un itinerario nei sotterranei della piazza del Duomo, che permette di ripercorrere duemila anni di storia. In tour guidati di 75 minuti, diversi punti del circuito che si snoda sotto terra si illuminano, grazie a una torcia particolare, che fa partire storie e proiezioni animate. I visitatori possono cosí calarsi nell’età romana, seguendo la costruzione del Castellum Trajectum, o compiere una full immersion nel Medioevo, quando Utrecht era il cuore dell’Olanda. E qui si ripercorre la nascita dei luoghi chiave che hanno fatto della città una capitale della cultura e del Gotico. Si seguono quindi la storia della piú importante università olandese, della splendida cattedrale gotica, con il campanile, vertiginosamente alto, che segna lo skyline cittadino, e dei canali trecenteschi, con gli antichi moli (www.domunder.nl). Stefania Romani


Medioevomania

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ella chiesa di S. Francesco, a Cuneo, ospita figure, fotografie e ambienti del neogotico. Come spiega il curatore Enzo Biffi Gentili, la rassegna si inserisce nell’ambito di un progetto triennale che «valorizzerà il neomedievalismo della zona; nel cuneese esiste infatti il patrimonio neogotico piú interessante del nostro Paese, con punte di valore internazionale». Tra gli esempi di rilettura dei secoli bui fatti nell’Ottocento in questo angolo di Piemonte non mancano capolavori assoluti. È il caso degli «interventi di Pelagio Palagi, che ha progettato la Margaria e le Serre di Racconigi», osserva Biffi Gentili, riferendosi ai lavori con i quali Carlo Alberto di Savoia volle improntare il castello di origine trecentesca alle esigenze di una corte. Il maniero, con uno stile eclettico e armonico a un tempo, fu inserito nel circuito delle Reali Villeggiature, e arricchito appunto di serre con vetrate leggerissime, e della Margaria, il complesso rurale di ispirazione inglese che divenne un’azienda modello. Poi, racconta Biffi Gentili, «a Dogliani, c’è un’altra figura fenomenale, anche se locale: è quella di Giovanni Battista Schellino, che firmò opere cose deliranti, eclettiche. Ma è un capolavoro anche il Roccolo,

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un castello che sembra fatato e si deve ai D’Azeglio, una famiglia di ambasciatori che aveva legami con Londra e ne conoscevano il revival medievale». In effetti il cimitero di Dogliani, in Borgo Castello, firmato da Schellino nel 1862, con guglie sottilissime, slanciate, in rosso, declina magistralmente il gusto sabaudo in termini di eclettismo, mentre il Roccolo, costruito dagli anni Trenta del XIX secolo, ha una facciata stretta fra torrioni a pianta circolare con merli ghibellini, che viene alleggerita da un trionfo di bifore, trifore, archi moreschi, rosoni. E nel parco si snodano le serre, restaurate una decina di anni fa.

I legami con la Francia Un altro aspetto valorizzato dalla rassegna è il rapporto stretto con l’eresia occitana. «Nel Cuneese – ricorda Biffi Gentili – ci sono valli che fanno parte dell’Occitania, dove ancora oggi si parla occitano. E con la regione del Sud della Francia ci sono legami storici molto forti. A Monforte d’Alba, prima che esplodesse l’eresia catara, gli abitanti seguivano una sorta di precatarismo e, trasferiti in massa a Milano, furono massacrati e bruciati per aver rifiutato la richiesta di conversione avanzata dal vescovo».

mostre • L’età di

Mezzo ha conosciuto ripetuti recuperi: ne sono prova, per esempio, le creazioni di artisti e architetti attivi nel Cuneese nel XIX secolo, ora al centro di una sorprendente rassegna

A sinistra Daniele Molineris, Central Hall, 2013, fotografia digitale; location: Castello del Roccolo di Busca, realizzato su progetto di progetto di Roberto Taparelli d’Azeglio. Qui sopra Christophe Dessaigne, Futile résistance, 2012, digigrafia fine art su carta cotone; location: castello neogotico abbandonato, Pirenei francesi. Piú tardi nella zona in cui si erano già manifestati i sintomi di un’eresia precatara si stabiliranno diversi eretici francesi. E questo non è l’unico legame fra le due aree, che sono accomunate anche dallo sforzo creativo che nell’Ottocento recupera lo spirito medievale. S. R. Dove e quando

«Le camere oscure. Fotografie, figure e ambienti dell’immaginario neogotico» Cuneo, Complesso Monumentale di S. Francesco fino al 14 settembre Orario ve, 15,30-19,00; sa-do, 10,00-12,30 e 15,30-19,00 Info ilcuneogotico.fondazionecrc.it

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Ante prima

Fiesole longobarda mostre • L’archeologia conferma la presenza del

popolo d’origine germanica nella città toscana. E i corredi funebri a oggi recuperati parlano di una comunità prospera e numerosa

N

on è facile ricostruire gli aspetti della presenza longobarda a Fiesole, anche perché gran parte della città antica, racchiusa entro il recinto delle mura – che si snoda per 2,5 km –, non è conosciuta dal punto di vista archeologico. Tuttavia, da quanto si può ricavare dalle necropoli indagate e dalle tombe finora scoperte è evidente che l’insediamento longobardo fu particolarmente importante dal punto di vista strategico: verso sud a controllo del passaggio sull’Arno, verso nord in direzione dei passi appenninici e dell’asse viario controllato dai Bizantini, che univa Roma a Ravenna. La rilevanza strategica della collina di Fiesole era del resto emersa già in precedenza e si confermò in età tardo-antica e altomedievale, nel V secolo, per rafforzarsi poi nel VI, nel corso della guerra greco-gotica, e quindi nel VII secolo.

significative, soprattutto perché documentano bene non solo le diverse aree di occupazione del centro abitato, ma anche le stratificazioni presenti nella società fiesolana del periodo. Molto chiara è la presenza di un nucleo armato dominante, probabilmente quello definibile

Un insediamento consistente Nella sola area Garibaldi sono state rinvenute circa 40 sepolture che, sommate a quelle recuperate in altre zone della città – in particolare nell’area archeologica e presso la basilica di S. Alessandro – portano a piú di 100 le tombe individuate. L’insediamento longobardo era quindi consistente, anche se larghe aree della città antica dovevano essere abbandonate o parzialmente occupate dalle rovine degli antichi edifici riutilizzati. La quantità e la qualità dei reperti ora in mostra sono particolarmente

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propriamente come longobardo, individuabile nelle aree terrazzate prospicienti il Foro (l’attuale piazza Mino) e che seppelliva i propri morti nel terreno adiacente l’antico decumano in prossimità della chiesa di S. Maria Intemerata (poi Primerana). Le armi che connotano questo gruppo hanno caratteristiche che rimandano propriamente al mondo longobardo, in particolare negli elementi ageminati che ornavano le cinture delle due spathae della tomba XX, nella quale è presente anche un

In alto fibbia di cintura in ferro ageminato. In basso umbone di scudo decorato con borchie in oro e triscele al centro. umbone di scudo decorato con borchie laminate in oro e triscele al centro, anch’essa dorata. Le numerose deposizioni rinvenute, in epoche diverse, in altre zone della città lasciano poi intuire anche la presenza di una società diversificata che comprendeva artigiani, contadini, pastori. Grazie alla mostra, sono stati riuniti a Fiesole, per la prima volta, tutti i corredi funerari di età longobarda (VI-VII secolo d.C.) scoperti in città a partire dal 1879. Materiali che, grazie alla disponibilità della Soprintendenza, in particolare del Soprintendente Andrea Pessina e della Direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Firenze Giuseppina Carlotta Cianferoni, resteranno in deposito e saranno esposti nel Museo fiesolano, che diventerà cosí tra i piú importanti per la documentazione della presenza longobarda in Italia. Marco De Marco Dove e quando

«Fiesole e i Longobardi» Fiesole, Museo Civico Archeologico fino al 31 ottobre Orario fino a settembre: tutti i giorni, 10,00-19,00; ottobre: tutti i giorni, 10,00-18,00 Info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@comune.fiesole.fi.it. luglio

MEDIOEVO


Le trame della devozione mostre • La Fondazione Abegg di Riggisberg

(Svizzera) espone, per la prima volta, i suoi preziosi «reliquiari» in stoffa

N

el Medioevo, il possesso di resti mortali appartenenti a una persona venerata, oppure un qualsiasi oggetto che con essa aveva avuto una connessione, diretta o indiretta, rappresentava un tesoro. Resti che per secoli sono stati accuratamente preservati, spesso avvolti in materiali sontuosi che, nel tempo, sono diventati essi stessi reliquie, essendo venuti a contatto proprio con il corpo che proteggevano e adornavano. L’Abegg-Stiftung di Riggisberg, in Svizzera, istituto specializzato nel restauro e conservazione di tessili antichi, espone un’ampia selezione di queste preziose stoffe. Protagonista dell’evento è san Gottardo, vescovo tedesco, morto nel 1038. Al momento della canonizzazione, avvenuta quasi un secolo dopo, la sua tomba nella cattedrale di Hildesheim fu aperta e il contenuto trasferito in una teca dorata, tempestata di gemme, dischiusa nel 2009 per intenti conservativi. I diversi involucri portati alla luce in quell’occasione, che racchiudevano frammenti tessili e ossei, insieme a terra e sabbia, sono ora esposti per la prima volta. Si tratta di raffinati manufatti in seta o lino, squisitamente cuciti, tra cui un drappo ornato da un pavone, con doppia testa e dall’impressionante ruota inserito su uno sfondo blu scuro. Delicati dettagli gialli sottolineano invece una coppia di uccelli verdi che decorano un telo usato per il tempietto del santo prussiano che salí sulla cattedra di Hildesheim nel 1022, succedendo

MEDIOEVO

luglio

a san Bernoardo, la cui pianeta rappresenta uno degli indumenti piú raffinati del XI secolo. Donata all’abbazia benedettina di S. Michele, fondata dallo stesso vescovo, la serica pianeta, dal giallo intenso, presenta ampi fori rettangolari, a testimonianza della diffusa partica di suddividere le reliquie.

Il martirio di Candido Risalgono invece al VI secolo le piú antiche fibre tessili, dal monastero di Saint-Maurice-en-Valais, nelle cui vicinanze fu martirizzato san Candido, intorno all’anno 302. Nel XII secolo, fu realizzato un reliquiario a forma di testa per il suo teschio, ma durante i lavori di restauro, al suo interno, sono

In alto piccola borsa per reliquie in stoffa ricamata. In basso il pavone a due teste ricamato su un drappo utilizzato per le reliquie di san Gottardo.

stati scoperti anche un cappello blu in seta e dozzine di incarti legati con pergamene che riportavano annotazioni proprio su quei resti. Un eccezionale documento è poi il «Tesoro Guelfo», acquisito dall’Abegg-Stiftung nove anni fa. Appartenuto alla casa dei Braunschweig-Lunenburg, il pesante scrigno in legno di quercia offre un’importante attestazione non soltanto di tessuti e contenitori di reliquie medievali, ma anche del loro storico montaggio, costituito da un insieme intatto di fascicoli in cartone, fasce di carta ed etichette. Mila Lavorini Dove e quando

«Velo e ornamento: i tessuti medievali e il culto delle reliquie» Riggisberg, Abegg-Stiftung fino al 9 novembre Orario tutti i giorni, 14,00-17,30 Info www.abegg-stiftung.ch

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Ante prima

Dalle armi ai fondi oro musei • A Firenze, cinque nuove «salette» degli Uffizi, che un tempo ospitavano

l’Armeria medicea, oggi accolgono importanti dipinti di maestri italiani del XV secolo

L’

avanzamento del progetto Nuovi Uffizi ha salutato la riapertura di cinque «salette» dai soffitti decorati a grottesca, dedicate al primo Rinascimento italiano. I rinnovati ambienti ospitarono per due secoli, l’Armeria medicea, scomparsa nel 1780, in seguito al riordino voluto dai Lorena. L’originaria bicromia di bianco e grigio connota l’attuale allestimento che propone 44 dipinti del XV secolo, suddivisi in base all’area geografica di appartenenza, secondo il criterio che contraddistingue l’intero museo. Il percorso inizia nella sala 19, con la scuola senese del Quattrocento, qui rappresentata dai polittici con fondo oro di Giovanni di Paolo e del Vecchietta e dalle predelle di Neroccio de’ Landi e Sano di Pietro, per proseguire in un ampio spazio intitolato alla pittura veneta. Nelle sale 20 e 21, infatti, trovano posto capolavori come il Compianto su Cristo morto e l’Allegoria sacra di Giovanni Bellini, opera sofisticata, forse identificabile con quella richiesta da Isabella d’Este per il

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suo studiolo a Mantova, città da cui probabilmente proviene anche il trittico con Scene della vita di Gesú di Andrea Mantegna, già appartenuto a don Antonio de’ Medici, figlio di Bianca Cappello e di Francesco I. Linee nette, intenso chiaroscuro e brillantezza cromatica sono alcuni tra i segni distintivi dell’artista padano, al quale si deve l’introduzione delle innovazioni rinascimentali nella pittura di area nordica.

Una rassegna completa Firme eccellenti come quella di Antonello da Messina, presente con due tavole acquistate nel 1997 dallo Stato italiano con l’eredità Bardini, sono affiancate da nomi meno noti, le cui opere finora erano conservate nei depositi, tra cui il veronese Giovan Francesco Caroto. L’Emilia-Romagna è invece la protagonista della sala 22, che mostra una selezione di maestri bolognesi, tra cui emerge Francesco Francia, e di autori di scuola ferarrese, con Lorenzo Costa o Cosmè Tura, originale interprete dai

Un’immagine del nuovo allestimento della saletta 19 della Galleria degli Uffizi, nella quale sono riunite opere di artisti della scuola senese del Quattrocento, tra cui Giovanni di Paolo e il Vecchietta. bagliori luminosi e dai complicati panneggi, uniti a precisone decrittiva, che trascorse la sua vita al servizio della famiglia Este, oltre ai forlivesi Melozzo da Forlí e Marco Palmezzano. L’itinerario si conclude in ambito lombardo, con l’esposizione dei maggiori artisti, la cui attività si sviluppò fino agli inizi del Cinquecento, tra cui spiccano Bernardino Luini e Camillo Boccaccino. M. L. Dove e quando

Galleria degli Uffizi Firenze Orario ma-do, 8,15-18,50; chiuso tutti i lunedí, Capodanno, 1° maggio, Natale Info tel. 055 2388651; polomuseale.firenze.it luglio

MEDIOEVO



Ante prima

Lance in resta contro i mantenitori appuntamenti • Sulmona si prepara ad

applaudire le gesta dei cavalieri che, come ogni anno, rievocano i fasti di una giostra dalla tradizione illustre: si dice infatti che ne sia stato fondatore Federico II di Svevia

A

Sulmona, antico municipio romano nel cuore dell’Abruzzo, a ridosso del Parco nazionale della Majella, è festa ogni anno nell’ultimo week end di luglio, quest’anno il 26 e 27. Nella centrale piazza Garibaldi, l’antica piazza Maggiore, va infatti in scena la Giostra Cavalleresca, che affonda le proprie origini nel Medioevo, quando un cavaliere lanciato al galoppo si scontrava contro un altro cavaliere, detto «mantenitore», armato e protetto da una corazza. La prima attestazione ufficiale della Giostra risale al 1475, ma sicuramente si svolgeva già da tempo, forse già dal XIII secolo, quando Federico II fece di Sulmona il capoluogo dell’Abruzzo. A quei tempi il torneo si teneva due volte all’anno: il 25 marzo per la festa dell’Annunciazione, e il 15 agosto. Il cavaliere poteva colpire con la propria lancia il «mantenitore» al capo, alla parte superiore del busto o alla mano armata, gli unici bersagli utili per conseguire un punteggio assegnato da un Mastrogiurato. Anche il «mantenitore», che attendeva l’assalto immobile sul proprio destriero, sulla parte opposta dello steccato che divideva il campo di gara, poteva ferire o disarcionare il concorrente con la propria lancia. La Giostra moderna viene oggi disputata dai portacolori dei quattro sestieri e dei tre borghi cittadini. I sestieri si sviluppano dentro la

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Sulmona. Due immagini della pista a «8» allestita ogni anno per la disputa della Giostra Cavalleresca.

prima cinta muraria e prendono il nome delle porte d’accesso all’abitato: Porta Manaresca, Porta Japasseri, Porta Bonomini e Porta Filiamabili. I borghi di San Panfilo, Santa Maria della Tomba e Pacentrano sono invece gli agglomerati sorti dopo l’espansione urbanistica quattrocentesca di Sulmona e occupano il territorio fra la prima e la seconda cinta muraria.

Una prova di destrezza In Piazza Maggiore, su una pista a «8», ogni concorrente percorre il tracciato al galoppo, tentando di infilare con la propria lancia degli anelli di diverso diametro (6, 8 e 10 cm) pendenti dalle sagome di tre «mantenitori» di legno dislocati lungo il percorso. Le sfide sono articolate in modo che ciascun

cavaliere affronti quattro avversari scelti mediante sorteggi, per un totale di 14 scontri, al termine dei quali i primi quattro classificati si scontrano in due semifinali e poi nella finale. Nel rispetto della tradizione medievale, al sestiere o al borgo vincitore viene assegnato il «Palio», un dipinto su tela realizzato ogni anno da un artista di fama, mentre il miglior cavaliere si aggiudica una catena d’oro con medaglia raffigurante l’emblema di Sulmona con la sigla ovidiana «Sulmo mihi patria est». Alla competizione fa da cornice un corteo in costumi d’epoca, al quale prendono parte sbandieratori, musici, armigeri, nobili e popolani. La sera, poi, cene, canti e balli nei vicoli del centro storico. Tiziano Zaccaria luglio

MEDIOEVO



Ante prima

Per i cavalieri, la birra del re appuntamenti • Il castello di Kaltenberg, in

Baviera, accoglie, com’è ormai tradizione, un torneo internazionale. Allietato da taverne pronte a servire una versione assai apprezzata della tipica bevanda fermentata

L’

antico castello bavarese di Kaltenberg, a circa 40 km da Monaco, è l’unica residenza reale al mondo dotata di un birrificio nelle proprie cantine. Da qui esce una delle «scure» piú apprezzate e popolari in Germania, la «Re Ludwig neutrale». Ma, oltre al birrificio e a un ristorante ricavato in alcuni suoi ambienti, il maniero è famoso per la sua storia secolare: fu costruito nel 1292 dal duca Rodolfo Wittelsbach, discendente di una dinastia di gloriosi cavalieri. Distrutto nel 1320 a causa di una faida familiare, per decenni il maniero rimase in rovina, finché fu ricostruito nel 1420 da un aristocratico di Augusta. Nei documenti di quell’epoca è menzionata l’esistenza di una «Tafern» (taverna), e forse già allora esisteva una produzione artigianale di birra. Nei secoli successivi il castello passò per le mani di diversi

proprietari (nel 1611 fu preso in consegna dai Gesuiti, a titolo di risarcimento per un vecchio debito, poi nel 1633 subí gravi danni durante la Guerra dei Trent’anni), fino a quando, nel 1979, è stato acquisito dal principe Luitpold di Baviera, noto esponente dalla famiglia Wittelsbach e pronipote dell’ultimo re di Baviera, Ludwig III.

Un torneo in tre tappe Nelle ampie aree verdi attorno al castello lo stesso principe Luitpold organizza annualmente il Kaltenberger Ritterturnier, un grande torneo cavalleresco medievale con la lancia, che coinvolge oltre un centinaio di contendenti provenienti anche da altre nazioni europee come Francia e Inghilterra, e che si svolge nell’arco di tre week end di luglio (quest’anno nelle giornate dell’11-13, 18-20 e 25-27). Ai margini dell’arena per Kaltenberg (Baviera). Due immagini dell’ormai tradizionale Kaltenberger Ritterturnier.

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le disfide – lunga 70 metri, larga 30, con circa 10 000 posti a sedere – si possono incontrare artisti, giocolieri, danzatori, cantastorie, streghe, giullari e altre figure in costumi dell’epoca. Un vivace mercato medievale offre poi decine di laboratori con l’artigianato dell’epoca, dai bottai ai saponari, dai fabbri ai cesellatori. Il grande parco attorno al maniero ospita anche diversi concerti di musica medievale, proposti da gruppi e singoli menestrelli. E in serata, appena il torneo cavalleresco si è concluso, si diffondono i profumi intensi della carne speziata e dell’idromele serviti nelle taverne allestite per l’occasione. Per tradizione, il torneo viene aperto da un saluto ai visitatori del principe Luitpold di Baviera in persona, che ha fatto del castello la sua residenza privata. Kaltenberg si può agevolmente raggiungere da Monaco con la metropolitana S4: si deve scendere alla fermata di Geltendorf e prendere il bus che porta fino al castello. T. Z.

luglio

MEDIOEVO



agenda del mese

Mostre Firenze BACCIO BANDINELLI. SCULTORE E MAESTRO (1493-1560) U Museo Nazionale del Bargello fino al 13 luglio

Prima mostra monografica dedicata a Baccio Bandinelli, «Maestro» di un’intera generazione di artisti e che, insieme a Michelangelo, Raffaello, Vasari e Cellini, ci ha lasciato uno tra i piú estesi carteggi di artefici del Cinquecento. Il Bargello ospita tutte le sue opere di scultura e di pittura il cui trasferimento sia possibile, i disegni e le stampe di sua invenzione, bronzetti, medaglie e un raro modello in cera proveniente da Montpellier. info tel. 055 2388606; unannoadarte.it

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a cura di Stefano Mammini

FERRARA Ferrara al tempo di Ercole I U Museo Archeologico Nazionale fino al 13 luglio

I lavori di riqualificazione del centro storico di Ferrara hanno permesso di effettuare indagini archeologiche che aiutano a comprendere meglio il complesso palinsesto delle residenze estensi. Gli scavi hanno restituito una notevole quantità di oggetti in ceramica, vetro, metallo, alcuni di eccezionale qualità. Reperti che sono ora protagonisti della mostra ospitata al piano nobile del Museo Archeologico Nazionale. I temi della vita a corte e

dell’aspetto del palazzo estense prima della trasformazione avviata da Ercole I, sono illustrati da circa 200 pezzi perlopiú databili alla seconda metà del XV secolo. info tel. 0532 66299; archeobologna. beniculturali.it Milano BERNARDINO LUINI E I SUOI FIGLI U Palazzo Reale fino al 13 luglio

La mostra racconta l’intero percorso di Bernardino Luini, dalle ricerche giovanili ai quadri della maturità, con un occhio costante, da un lato, al lavoro dei suoi contemporanei (Bramantino, Lorenzo Lotto, Andrea Solario, Giovanni Francesco Caroto, Cesare da Sesto e molti altri); dall’altro, alla traiettoria artistica dei figli di Luini, e in particolare del piú piccolo, Aurelio. Un intero secolo di arte lombarda va dunque in scena a Palazzo Reale, attraverso tele, tavole, disegni, affreschi staccati, arazzi, sculture in legno e in marmo, codici miniati, volumi a stampa. info mostraluini.it

Bologna Esposizione della Madonna del Latte U Raccolta Lercaro fino al 13 luglio

L’opera esposta è una replica in gesso del tondo in marmo che, nella basilica bolognese di S. Domenico, orna il monumento funebre del giurista, civilista e canonista imolese Alessandro Tartagni (1424-1477). I suoi figli commissionarono l’altorilevo allo scultore fiesolano Francesco di Simone Ferrucci (14371493), che lo portò a compimento, secondo gli ultimi studi, tra la fine degli anni Settanta del Quattrocento e la metà del decennio successivo. info tel. 051 6566.210-211; e-mail: segreteria@ raccoltalercaro.it Firenze Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della «maniera» U Palazzo Strozzi fino al 20 luglio

Pontormo e Rosso Fiorentino sono i protagonisti piú anticonformisti e spregiudicati del nuovo modo di intendere l’arte in quella stagione del Cinquecento italiano che Giorgio Vasari chiama «maniera moderna». La rassegna rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti, «gemelli diversi» che, alla fine del loro

percorso, arrivarono a un riavvicinamento. Pontormo e Rosso nascono da una costola di Andrea del Sarto e con lui si formano, pur mantenendo entrambi una forte indipendenza e una grande libertà espressiva: uno, Pontormo, fu pittore sempre preferito dai Medici e aperto alla varietà linguistica e al rinnovamento degli schemi compositivi della tradizione, l’altro, Rosso, fu invece legato alla tradizione, pur con aneliti di spregiudicatezza e di originalità. Uno piú naturalista, vicino a Leonardo, l’altro influenzato da suggestioni michelangiolesche. info palazzostrozzi.org padova Padova è le sue mura. Cinquecento anni di storia 1513-2013 U Musei Civici agli Eremitani fino al 20 luglio

Padova riporta al centro dell’attenzione il tema della sua storica cinta muraria – per secoli luglio

MEDIOEVO


mostre • Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento U Fabriano – Pinacoteca Civica «Bruno Molajoli», chiesa di S. Agostino-Cappelle Giottesche, chiesa di S. Domenico-

Cappella di S. Orsola e Sala Capitolare, cattedrale di S. Venanzio-Cappelle di S. Lorenzo e della Santa Croce

fino al 30 novembre (dal 26 luglio) info www.mostrafabriano.it

O

ltre 100 opere – dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie, miniature, manoscritti, codici – descrivono il contesto culturale nel quale si inscrive il progetto espositivo. Consolidatosi il potere longobardo su Fabriano, l’egemonia culturale dell’Umbria vide la sua affermazione nel corso del Trecento, sia dal punto di vista artistico che sotto il profilo dei valori spirituali. La vicinanza con Assisi e i ripetuti soggiorni di san Francesco contribuirono ad animare una vivace realtà di fede che si avvalse della pittura come di un efficace strumento propagandistico ed educativo. Sul finire del XIII secolo, quando sui ponteggi della Basilica Superiore si affermava un nuovo eloquio pittorico compiutamente occidentale, l’influsso giottesco si propaga anche attraverso i valichi appenninici fino a Fabriano. L’obiettivo dell’operazione è quello di ritessere la trama di questo complesso periodo, ricco di testimonianze affascinanti, ma note solo o soprattutto agli studiosi e agli appassionati d’arte, al fine di permettere, pur con un approccio di approfondimento, un’ampia divulgazione rivolta a un «pubblico» piú vasto ed eterogeneo. Mentre per gli studiosi e gli addetti ai lavori i confronti proposti dalla mostra fra Giotto, Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi e gli affreschi e le tavole dipinte dagli artisti locali, offriranno lo spunto per elaborare una nuova e piú articolata visione delle vicende della pittura italiana del XIV secolo. Del percorso espositivo fanno parte alcuni capolavori di Gentile, come la Crocefissione del polittico proveniente da Valleromita di Fabriano, ora nella Pinacoteca di Brera, o la raffinata Madonna dell’Umiltà del Museo Nazionale di San Matteo di Pisa.

info tel. 049 8204551; e-mail: musei@comune. padova.it

norimberga

Ansbach, acquistò una Bibbia illustrata di dimensioni monumentali (67 x 45,5 cm), detta poi

La Gumbertusbibel. L’aureo splendore delle immagini in età romanica U Museo Nazionale Germanico fino al 27 luglio

fortemente identificativa della città – con una mostra che celebra i 500 anni della sua costruzione. Il 1513 può infatti considerarsi l’anno d’inizio dell’edificazione delle nuove mura di Padova – successive a quelle carraresi – sotto la guida di Bartolomeo d’Alviano. La mostra

MEDIOEVO

luglio

ricostruisce mezzo millennio di storia delle mura cittadine attraverso reperti archeologici, manufatti, armi e strumenti bellici, disegni, incisioni, preziosi volumi e dipinti antichi, nonché ricostruzioni appositamente realizzate (fotopiani, modellini, video, ecc.).

Quando, prima del 748, il nobile francone Gumberto fondò una comunità di Benedettini ad Ansbach (40 km a sud-ovest di Norimberga), pose la prima pietra di un’istituzione ecclesiastica che, nel tempo, acquisí fama e potenza economica sovraregionali. Sul finire del XII secolo il decano Goteboldo, con l’aiuto di alcuni cittadini di

istoriati. La mostra di Norimberga è un’occasione rarissima per ammirarla, insieme ad altri importanti manoscritti. info www.gnm.de New york Regni perduti: sculture indobuddhiste dell’asia sud-orientale antica. V-VIII secolo U The Metropolitan Museum of Art fino al 27 luglio

Gumbertusbibel, che contiene non meno di undici pagine miniate con illustrazioni narrative ispirate al Vecchio e al Nuovo Testamento, 37 immagini singole e un gran numero di capilettera, in parte

Dal I millennio, si registra in Estremo Oriente l’avvento di regni potenti, che fanno propria la matrice culturale indiana per esprimere la propria identità politica e religiosa: sono quelli di Pyu, Funan, Zhenla, Champa, Dvaravati, Kedah e Srivijaya, che

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agenda del mese vengono in questa occasione definiti «perduti», perché la loro identità, quando non addirittura la loro esistenza, sono state rivelate in tempi recenti, all’indomani delle prime esplorazioni e dei primi studi epigrafici e archeologici condotti nel XX secolo. Per rappresentarli, il Met ha riunito oltre 150 sculture, in molti casi monumentali, frutto di prestiti concessi da Cambogia, Vietnam, Thailandia, Malesia, Singapore e Myanmar, ai quali si aggiungono quelli del Musée Guimet di Parigi e di altre raccolte statunitensi. info metumuseum.org amsterdam Spedizione via della seta U Hermitage Amsterdam fino al 5 settembre

L’Hermitage di Amsterdam racconta la storia plurisecolare della Via della Seta attraverso una magnifica selezione di opere – pitture murali, sculture, sete, argenti, vetri, oreficerie e ceramiche – provenienti da San Pietroburgo e entrati nelle collezioni del museo russo grazie alle missioni archeologiche condotte tra il XIX e il XX secolo. Il percorso espositivo evoca gli itinerari seguiti dagli esploratori che si misero sulle tracce dei re, dei mercanti e dei monaci che batterono la grande carovaniera e cerca di restituire le

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atmosfere di quelle antiche spedizioni che non ebbero timore di attraversare terre spesso inospitali per assicurare un collegamento tra l’Oriente e l’Occidente. Merita d’essere segnalata l’esposizione di una grande pittura murale, lunga 9 m, che raffigura il combattimento tra una divinità e un gruppo di predoni: databile al VI-VIII secolo, proviene dal palazzo reale di Varakhsha (nell’odierno Uzbekistan) e mai prima d’ora aveva lasciato le sale dell’Hermitage di San Pietroburgo. info hermitage.nl roma L’ARTE DEL COMANDO. L’EREDITÀ DI AUGUSTO U Museo dell’Ara Pacis fino al 7 settembre

L’arte di convogliare consenso intorno alla persona di Augusto e al tempo stesso esaltare i destini eroici di Roma fu perseguita con tale successo dall’imperatore da costituire un modello e una fonte di ispirazione nei secoli successivi, fino ai regimi assolutistici del XX secolo. Da questa

considerazione prende le mosse questa mostra, che approfondisce le principali politiche culturali e di propaganda messe in atto da Augusto nel suo principato e replicate nei secoli per il loro carattere esemplare. Le 12 sezioni della mostra, articolate per temi ed epoche storiche differenti, illustrano in che modo

eccezionale di scoprire la vasta gamma di materiali utilizzati per creare i colori nei dipinti e in altre opere d’arte. Attraverso i dipinti della stessa National Gallery e i prestiti dalle principali istituzioni culturali del Regno Unito, la mostra ripercorre la storia della creazione del colore nella pittura occidentale, dal Medioevo fino alla fine del XIX secolo. La mostra unisce il mondo dell’arte e della scienza per illustrare il

roma

imperatori come Carlo Magno, Federico II, Carlo V o Napoleone, per citarne solo alcuni, nel corso della storia abbiano reinterpretato «l’arte del comando» di Augusto a volte con formule molto vicine o identiche. info tel. 060608; arapacis.it, museiincomuneroma.it

modo in cui gli artisti hanno superato le difficoltà tecniche relative alla creazione del colore. «Creare colore» evidenzia i problemi materiali in cui gli artisti si sono imbattuti al momento di raggiungere i loro scopi pittorici, i progressi per cui si sono impegnati e le difficoltà che hanno incontrato volendo creare opere d’arte che fossero sia belle sia durature. info nationalgallery. org.uk

«intrasportabili» realizzati da Michelangelo (gli affreschi della Sistina, fra tutti) con l’esposizione di opere che per la prima volta possono essere ammirate le une accanto alle altre. Questi capolavori, infatti, possono essere osservati, in molti casi per la prima volta, affiancati e contrapposti in uno straordinario compendio di una produzione artistica inarrivabile, dalla

londra creare colore U The National Gallery fino al 7 settembre

La rassegna offre l’opportunità

1564-2014, Michelangelo. Incontrare un artista universale U Musei Capitolini fino al 14 settembre

Ideata in occasione del 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti, avvenuta proprio nella Capitale il 18 febbraio 1564, la mostra ripercorre la vita e l’opera del maestro. Una mostra che supera l’oggettiva impossibilità di esporre i capolavori

luglio

MEDIOEVO


londra costruire l’immagine: l’architettura nella pittura rinascimentale italiana U National Gallery fino al 21 settembre

pittura alla scultura, dalla poesia all’architettura, le quattro arti in cui si espresse Michelangelo, che vengono raccontate in nove sezioni espositive, focalizzando cosí i temi cruciali della sua poetica. Un esempio su tutti è la presenza straordinaria del grande capolavoro del Michelangelo politico, il Bruto, che può essere ammirato accanto a precedenti busti classici, il Bruto in bronzo dai Musei Capitolini e il Caracalla dei Musei Vaticani, finalmente esposto in un diretto confronto con due opere che, in modi e circostanze diverse, ne ispirarono la realizzazione. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); museicapitolini.org norwich la meraviglia degli uccelli U Castle Museum fino al 14 settembre

Spaziando dalla preistoria all’età

MEDIOEVO

luglio

moderna, la mostra allestita nel castello di Norwich analizza il ruolo simbolico degli uccelli presso le piú importanti culture e civiltà della storia. Per farlo, sono stati scelti oggetti e opere d’arte che sono appunto la traduzione visiva e plastica della relazione stabilita dall’uomo con questa classe di animali. Ne scaturisce una galleria, ricca e variopinta, attraverso la quale si dipana il filo conduttore che lega una scultura babilonese del 2000 a.C. al «ritratto» fotografico di un magnifico esemplare di allocco realizzato negli anni Trenta del Novecento in Gran Bretagna. In mezzo, c’è spazio per testimonianze d’ogni genere, tra cui non mancano materiali d’epoca medievale e rinascimentale, come un pregevole disegno di Andrea Mantegna. info www.museums. norfolk.gov.uk/

L’esposizione documenta e sottolinea l’importanza di alcuni dei piú riusciti dipinti d’ispirazione architettonica firmati da maestri italiani quali Duccio di Boninsegna, Botticelli o Carlo Crivelli e da artisti loro contemporanei. Si vuole indurre a guardare a queste opere con occhio diverso, per scoprire in che modo gli spazi fossero stati concepiti dai pittori e come essi avessero reso la concreta realtà delle

fosse soltanto uno sfondo, passivo e subordinato alla preminenza delle figure. Le opere esposte dimostrano infatti quanto le composizioni potessero essere spesso imperniate sui motivi architettonici e come essi venissero studiati fin dal primo abbozzo. info nationalgallery. org.uk

ha fatto da ponte con le culture del Nord Africa, delle Americhe e dell’Asia. Dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie, disegni e trattati illustrano come i principi dell’architettura abbiano, fin dal

Torino TESORI DAL PORTOGALLO ARCHITETTURE IMMAGINARIE DAL MEDIOEVO AL BAROCCO U Palazzo Madama fino al 28 settembre

Grazie a opere provenienti da musei, chiese e raccolte Medioevo, accompagnato l’ideazione e la creazione degli oggetti, esaltandone i valori estetici e decorativi e sottolineandone i significati simbolici e sociali. info tel. 011 4433501; palazzomadamatorino.it Firenze JACOPO LIGOZZI «PITTORE UNIVERSALISSIMO» (VERONA 1547FIRENZE 1627) U Galleria Palatina fino al 28 settembre

materie da costruzione, come i mattoni, la calce o il marmo. L’intento è inoltre quello di sfatare il luogo comune secondo il quale l’architettura, all’interno dei quadri,

private portoghesi, la mostra propone un viaggio alla scoperta della civiltà figurativa di una regione europea che, attraverso le sue esplorazioni e la sua vasta rete commerciale,

Discendente da una famiglia di ricamatori milanesi e figlio del pittore Giovanni Ermanno, Jacopo Ligozzi nacque a Verona nel 1547 e lí svolse una iniziale attività, spostandosi però ben presto a Firenze, dove, nel 1577, è

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agenda del mese documentata la sua presenza presso la corte granducale di Francesco I e dove rimase stabilmente fino alla morte, nel 1627, impiantando una solida bottega. La mostra illustra per la prima volta in modo organico l’arco di attività dell’artista, mettendo in evidenza i diversi ambiti nei quali operò e la sua poliedrica e versatile fisionomia nel panorama fiorentino. Il percorso si articola in sezioni tematiche, a partire dai primi tempi presso la corte medicea, dalla quale Jacopo si fece apprezzare come disegnatore di naturalia e poi come ritrattista, ma anche sapiente regista di insiemi decorativi. Jacopo fu inoltre pittore di storia, con l’allestimento dei grandi dipinti su lavagna nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio o ancora per gli apparati in occasione delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Ligozzi si distinse infine come sapiente e delicatissimo progettista di abiti e ricami per tessuti, nonché di manufatti in pietre dure. info tel. 055 2388614; unannoadarte.it Bologna Impressioni bizantine. Salonicco attraverso le immagini fotografiche e i disegni della British

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School at Athens (1888-1910) U Museo Civico Medievale fino al 28 settembre

Uno sguardo su Salonicco tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, con le inconfondibili prospettive su mura,

chiese, mosaici, arredi marmorei bizantini: è quello che offrono le fotografie e le illustrazioni eseguite dagli architetti inglesi Robert Weir Schultz e Sidney Howard Barnsley, che visitarono la città greca nel 1888 e nel 1890 per motivi di studio, influenzati dal celebre movimento artistico Arts and Crafts. Agli inizi del XX secolo il loro lavoro fu continuato dagli allievi inglesi Walter S. George e William Harvey, i quali, grazie alla collaborazione con le autorità turche e ai finanziamenti del Byzantine Research and Publication Fund, poterono arricchire notevolmente la documentazione già raccolta: l’insieme del materiale costituisce una sezione importante nell’archivio della BSA, per la prima volta mostrata al pubblico italiano. Il percorso espositivo si snoda

attraverso i principali monumenti bizantini di Salonicco: l’arco di Galerio, la Rotonda, le chiese della Panagia Acheiropoietos, di S. Demetrio e di S. Sofia. Alle immagini fotografiche si accompagnano alcuni oggetti rari – bizantini e ottomani – delle collezioni dei Musei Civici di Bologna: avori, icone e manufatti in metallo. info tel. 051 2193930; comune. bologna.it/iperbole/ MuseiCivici trento ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre

L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali. All’indomani di quel

decreto, furono pubblicati numerosi trattati sulle arti figurative a soggetto sacro, sull’architettura dei luoghi di culto e sulla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la conseguente volontà di riportarla entro i parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; museodiocesano tridentino.it

Verona Paolo Veronese. L’illusione della realtà U Palazzo della Gran Guardia fino al 5 ottobre (dal 5 luglio)

L’arte di Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) torna nella sua città natale

con una mostra dedicata alla sua figura e alla sua opera. In mostra sono esposte circa 100 opere, fra dipinti e disegni, provenienti dai piú prestigiosi musei italiani e internazionali. Si tratta della prima rassegna monografica di tale ampiezza in Italia e presenta Paolo Veronese attraverso 6 sezioni espositive: la formazione a Verona, i fondamentali rapporti dell’artista con l’architettura e gli architetti (da Michele Sanmicheli a Jacopo Sansovino ad Andrea Palladio), la committenza, i temi allegorici e mitologici, la religiosità, e infine le collaborazioni e la bottega, importanti fin dall’inizio del suo lavoro. Oltre a un’ampia scelta di capolavori dell’artista, la mostra comprende numerosi disegni di eccezionale qualità e varietà tematica e tecnica, con l’obiettivo di testimoniare il ruolo

luglio

MEDIOEVO


della progettazione e riflessione grafica non solo nel percorso creativo di Paolo ma anche nella dinamica produttiva del suo atelier. info tel. 045 8062611; e-mail: castelvecchio@ comune.verona.it; www.mostraveronese.it

restaurato dalla Soprintendenza tra il 2005 e il 2012: un capolavoro prototipo per altri esemplari diffusi nelle chiese del patriarcato aquileiese almeno fino dal Duecento. info tel. 0432703070; www.passepartout.coop

cividale del friuli

Leida

Il Crocifisso di Cividale e la scultura lignea nel Patriarcato di Aquileia al tempo di Pellegrino II (secoli XII e XIII) U Palazzo de Nordis fino al 12 ottobre (dal 12 luglio)

Trenta opere, alcune delle quali rarissime e mai esposte prima d’ora, accompagnano il visitatore in un viaggio alla scoperta degli esempi piú significativi di sculture lignee prodotte tra il XII e il XIII secolo nell’area altoadriatica. Simbolo della mostra è il maestoso Crocifisso ligneo tardo-romanico

MEDIOEVO

luglio

Medioevo dorato U Rijksmuseum van Oudheden fino al 26 ottobre

Come si viveva ai tempi dei sovrani merovingi

(400-700 d.C.), cioè dopo la caduta dell’impero romano e prima dell’ascesa di Carlo Magno? Che non siano stati «secoli bui» è un dato ormai

acquisito e, a ulteriore riprova, il Museo di Antichità di Leida presenta una spettacolare selezione di reperti, provenienti perlopiú da necropoli e comprendenti, tra gli altri, oreficerie, manufatti in vetro e armi. Oggetti di pregio, che sono però funzionali alla ricostruzione del contesto nel quale vennero fabbricati e utilizzati e dunque permettono di fare luce sul modus vivendi, sul sentimento religioso e sulle attività produttive e commerciali delle genti a cui vanno ascritti. Un panorama che dunque giustifica l’«età dell’oro» evocata dal titolo della mostra. info rmo.nl

Toscana Maria Maddalena d’Asburgo, moglie di Cosimo II de’ Medici, per custodirvi i reliquiari preziosi che costituivano una parte importante delle sue collezioni. Altrettanto decisivo fu il ruolo di Cristina di Lorena, suocera di Maria Maddalena, alla quale si deve la creazione del primo, cospicuo nucleo di reliquiari confluito poi alla sua morte nella raccolta della nuora. Uno straordinario insieme di opere che fu accresciuto

granducale e al contempo simbolo di prestigio e di magnificenza, fonte di denaro e coagulo di identità collettiva. info tel. 055 2388709; unannoadarte.it

ulteriormente dalla granduchessa Vittoria della Rovere e da suo figlio, il granduca Cosimo III, diventando uno dei piú vasti tesori sacri d’Europa. Attraverso un minuzioso lavoro di archivio la mostra restituisce un’immagine di queste preziosissime collezioni, testimonianza della profonda devozione della famiglia

cita i fratelli Dossi tra i pittori di quai la fama sempre starà fin che si legga e scriva al pari di Leonardo, Mantegna, Bellini, Michelangelo, Raffaello, Sebastiano del Piombo e Tiziano. Dosso, il piú famoso dei fratelli Dossi, raggiunse gloria, fortuna ed ebbe commissioni dalle piú importanti corti rinascimentali italiane.

trento Rinascimenti eccentrici. Dosso Dossi al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 2 novembre (dal 12 luglio)

Ludovico Ariosto, nel XXXIII canto dell’Orlando Furioso,

firenze SACRI SPLENDORI. IL TESORO DELLA «CAPPELLA DELLE RELIQUIE» IN PALAZZO PITTI U Museo degli Argenti fino al 2 novembre

Nel 1616 veniva consacrata la «Cappella delle Reliquie» in Palazzo Pitti, luogo simbolo della devozione delle granduchesse di Toscana e degli ultimi granduchi della famiglia Medici. Costruita da Cosimo I negli anni Sessanta del Cinquecento, la cappella, a pianta ottagonale, dal 1610 fu oggetto di importanti lavori di abbellimento voluti dall’arciduchessa d’Austria e granduchessa di

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agenda del mese permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe. La mostra, allestita in quelle stesse sale che tra il 1531 e il 1532 lo videro protagonista a Trento assieme al fratello Battista nella decorazione del Magno Palazzo del Castello del Buonconsiglio, racconta lo straordinario percorso di questo eccentrico pittore del Rinascimento e propone una trentina di dipinti che mettono a confronto le opere di Dosso e Battista tracciando le tappe artistiche di Dosso alla corte di Alfonso d’ Este a Ferrara, a Pesaro presso la duchessa Eleonora d’Urbino, fino a Trento al servizio del principe vescovo Bernardo Cles. Dipinti magnifici, che dialogano con gli affreschi del castello. info tel. 0461 233770; e-mail: museo@ castellodelbuonconsiglio. tn.it; www.buonconsiglio.it Bath Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre

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Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterono tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

La mostra rientra in un

piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella neoclassica e

info antikenmuseumbasel.ch

ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni dopo, il progetto CEC, Cradles of European Culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename

Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio 2015

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone ceramiche cinquecentesche, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

luglio

MEDIOEVO


Appuntamenti

demonte (cuneo) Demonte 800 anni 2-3 agosto

Gli 800 anni della cittadina piemontese vengono ricordati con una rievocazione storica della costituzione in Comune, nel 1214, su concessione del Marchese di Saluzzo, Manfredo II, e dell’investitura, nel 1376, di Franceschino Bolleris a castellano di Demonte e a feudatario della Regina Giovanna D’Angiò. Il giorno successivo si cambia scenario, passando al 1744, anno in cui il duca Carlo Emanuele I

di Savoia constata i danni subiti dal Forte della Consolata di Demonte dovuti al passaggio dei GalloIspani reduci dal fallito assedio della Città di Cuneo, e ne ordina il ripristino. Viene infine ricordato il conferimento, nel 1838, da parte del Re di Sardegna, Carlo Alberto, al suo validissimo Ministro dell’Interno Conte Giacinto Borelli, di Demonte, dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce e del Cordone dei Santi Maurizio e Lazzaro. info tel. 0171 95127 fossanova (priverno, lt) festa nova U Borgo e abbazia 9-13 agosto

Durante le cinque giornate della manifestazione, dalle 18,00 all’1,00, il borgo e l’abbazia di Fossanova tornano alle atmosfere del XIII secolo, al tempo in cui, la mattina del 7 marzo

1274, spirava in questo luogo san Tommaso d’Aquino, uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica, alla cui figura è dedicata anche una tavola totonda. info www.italiamedievale.org

Latte. Durante il periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di Cecco nel Museo

Siena Esposizione della Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti U Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre

Tempera su tavola realizzata da Ambrogio Lorenzetti intorno al 1340, la Madonna del Latte può essere considerata come il paradigma iconografico di questo soggetto. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica della Madonna del

dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; operaduomo.siena.it firenze Esposizione straordinaria di tre profeti di Donatello U Battistero di S. Giovanni fino al 30 novembre

Il Battistero fiorentino ospita eccezionalmente

tre grandi sculture di Donatello: il Profeta imberbe, il Profeta barbuto o pensieroso e il Profeta Geremia, scolpiti nel marmo dal maestro tra il 1415 e il 1436, e facenti parte delle sedici figure commissionate a piú artisti dall’Opera di S. Maria del Fiore per ornare il Campanile di Giotto tra il 1330 e il 1430. L’esposizione delle tre statue è resa possibile dalla temporanea chiusura del Museo dell’Opera del Duomo, dove le sculture sono conservate, che riaprirà al pubblico nell’autunno 2015 rinnovato e raddoppiato negli spazi espositivi. L’Imberbe è visibile per la prima volta dopo il restauro, condotto dalla Bottega di restauro dell’Opera, attiva dal 1296, che è intervenuta anche su altri due Profeti di Donatello: il Barbuto o pensieroso e Abramo con Isacco. info operaduomo.firenze.it

appuntamenti • 4° Festival Europeo «Via Francigena Collective Project 2014» U Europa - Sedi varie

fino al 30 settembre info francigenafestival@libero.it; www.festival.viefrancigene.org

L

a quarta edizione del Festival europeo«Via Francigena Collective Project 2014» celebra il XX anniversario del conferimento alla Via Francigena della menzione di «Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa». Da qui la scelta del tema Europa: il risveglio-Europe: the awakening-Europe: l’éveil. Ben oltre 300 gli eventi in programma in tutta Europa – volti a valorizzare e a promuovere la via Francigena e i territori attraversati dall’antico percorso – tutti ad accesso gratuito, di diversa natura e tipologia; dai 100 000 pellegrini che cammineranno dal tramonto all’alba da Macerata a Loreto, al Festival dei cortometraggi sulla Via «Segui il tuo passo» presieduto da Marco Muller, dal Giro d’Italia in 80 librerie, staffetta ciclistica, culturale e ambientale lungo la Francigena fino a feste di piazza, rievocazioni, convegni, rassegne enogastronomiche, visite guidate, concerti, teatro, danza e pittura: iniziative finalizzate a conferire visibilità alla diffusa sensibilità che da Canterbury a Gerusalemme lega l’Europa del risveglio, l’Europa di una attualissima civiltà pellegrina. Eventi, quindi, organizzati dal e sul territorio, espressione di civiltà e convivenza nelle specificità locali, sia mitteleuropee che mediterranee.

MEDIOEVO

luglio

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grandi battaglie bouvines

di Federico Marazzi

27 luglio 1214

Prove di

guerra globale

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Ottocento anni fa, nei pressi di un villaggio francese ai confini con il Belgio, si combatté uno scontro decisivo per le sorti dell’Europa: la vittoria di Filippo Augusto sull’imperatore tedesco Ottone IV segnò infatti una svolta epocale, ridisegnando equilibri e rapporti di forza tra le grandi potenze del continente luglio

MEDIOEVO


I

n ogni villaggio francese si trova sempre un monumento dedicato ai soldati del luogo caduti nel corso degli ultimi conflitti mondiali. Difficilmente il turista dedica loro piú di uno sguardo rapido, anche se forse queste memorie meriterebbero maggiore attenzione e un attimo di riflessione sui tempi cupi – e non ancora cosí lontani – in cui le nazioni europee si sono dilaniate ingaggiando fra loro conflitti sanguinosi. Ma nel piccolo villaggio di Bouvines, a due passi da Lille, nell’estremo Nord del Paese, quasi al confine con il Belgio, varrà dav-

MEDIOEVO

luglio

vero la pena fare una sosta presso questi cippi e soffermarsi a leggere cosa vi sia stato scritto. È infatti la storia profonda della Francia, e non solo quella dell’ultimo secolo e delle sue sciagure, a parlarci attraverso quelle pietre.

Una data cruciale

Sulla massiccia stele, circondata di siepi fiorite, che ricorda i morti del primo conflitto mondiale sopra alla scritta «Dieu protège la France», accanto alla data del 1914, anno d’inizio della Grande Guerra, ne appare un’altra che ricorda tempi e memorie lontane: 1214. Set-

tecento anni prima dello scoppio delle ostilità che insanguinarono il Nord-Est francese, presso quel piccolo villaggio, si era combattuta una battaglia che aveva rappresentato, sicuramente in miniatura rispetto alle stragi del 1914-18, la prima prova di «guerra mondiale» combattuta in Europa, nella quale il regno di Francia aveva giocato una partita di vita o di morte. In quei terreni, allora paludosi Filippo Augusto alla battaglia di Bouvines, il 27 luglio 1214, olio su tela di Émile Jean-Horace Vernet. 1827. Versailles, Châteaux de Versailles.

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OCEANO ARTICO

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Penisola Arabica AFRICA

e boscosi, si erano affrontati per la prima volta in battaglia campale e come due potenze apertamente ostili, l’esercito dell’imperatore tedesco Ottone IV di Brunswick e quello del re francese Filippo II Augusto. Il monarca tedesco era spalleggiato e finanziato dal re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra, e schierava sul campo l’infante Ferdinando di Portogallo, che signoreggiava su quelle terre con il titolo di conte delle Fiandre. Se paragonati alle masse in armi mandate a morire nelle trincee della Grande Guerra, poca cosa, in termini numerici, furono gli eserciti in campo: forse poco meno di 50 000 uomini, fra cavalieri e (soprattutto) fanti, si dettero battaglia in quel luogo nell’ultima domenica di luglio (era

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esattamente il giorno 27) e tra loro una paio di migliaia persero la vita sul terreno. Ma, in proporzione alla popolazione dell’Europa medievale e a com’erano organizzati allora gli eserciti, si trattò di uno scontro epico e grandioso.

Nostalgie imperiali

A dire il vero nel villaggio di Bouvines vi è anche un secondo cippo che ricorda la battaglia, eretto esattamente cinquant’anni prima, al tempo in cui la Francia era governata da Luigi Napoleone Bonaparte, proclamatosi imperatore dei Francesi con il nome di Napoleone III. Nella sfida tra le potenze europee accesasi nel corso dell’Ottocento, che portò ai conflitti del secolo successivo, ricordare Bouvines significava lanciare

A

Sultanato selgiuchide di Hamadan

un monito agli irrequieti e irritanti vicini tedeschi, i quali peraltro, qualche anno dopo, nel 1870, inflissero al Bonaparte e ai suoi eserciti la bruciante sconfitta di Sedan, costringendolo ad abdicare e mettendo fine al rinato impero francese. Ma nel 1214 le cose erano andate diversamente. Filippo Augusto aveva trionfato e Ottone IV aveva dovuto vergognosamente battere in ritirata, fuggendo dal campo di battaglia e perdendo, insieme alla battaglia, anche il trono imperiale, spianando cosí la strada al giovane Federico II di Svevia, il cui regno segnò l’Europa del XIII secolo. Ma perché i due maggiori monarchi cristiani e cattolici dell’Occidente erano giunti all’inaudita decisione di incrociare le armi luglio

MEDIOEVO

di


In alto Bouvines. Il monumento ai caduti delle guerre mondiali, che ricorda anche quelli del 1214. A sinistra l’assetto geopolitico dell’Europa e del Mediterraneo tra il XII e il XIII sec.

OCEANO INDIANO

l’uno contro l’altro su un campo di battaglia? In Europa, nel pieno Medioevo la guerra era una cosa frequente, quasi abituale. Ma non si deve credere che gli scontri avvenissero come esplosioni di furia cieca e scriteriata. Un conto erano le scaramucce fra signori locali, un conto le spedizioni condotte dai re contro feudatari ribelli, un altro conto ancora erano le guerre mosse nei confronti di nemici esterni, come potevano essere allora quelle portate in Oriente, in Spagna o nelle lande dell’Europa orientale contro popoli considerati come nemici della vera fede. Tuttavia, nel grande gioco della politica continentale, la diplomazia e le trattative – spesso condotte attraverso alleanze matrimoniali –

MEDIOEVO

luglio

costituivano una modalità tutt’altro che sconosciuta per la regolazione preventiva di potenziali conflitti di portata piú ampia e, in genere, nel corso di quei secoli l’Europa non conobbe mai nulla di simile alle guerre totali che l’hanno insanguinata dall’età moderna in poi. Ma negli anni precedenti a quel fatale 1214 molti fili erano andati annodandosi sullo scacchiere dell’Occidente europeo, molte ambizioni si erano accese e le tensioni erano andate pericolosamente accentuandosi. Lo scontro di Bouvines non nacque dal nulla e fu l’esito di un lungo periodo in cui le maggiori potenze erano andate progressivamente e pericolosamente avvicinando le loro sfere d’influenza sino a raggiungere, quasi inevitabilmente, il punto di collisione.

Gli antefatti

Già dai regni dei diretti predecessori di Filippo II, il nonno Luigi VI (1108-1137) e, soprattutto, il padre Luigi VII, che regnò nei decenni centrali del XII secolo (1137-1180), la monarchia francese aveva iniziato, non senza fatiche, un percorso di consolidamento della propria supremazia nelle aree geografiche piú

prossime a Parigi, divenuta da qualche tempo la residenza abituale dei sovrani. Le cronache francesi dei primi decenni del XII secolo sono ricche di aneddoti sul coraggio con cui Luigi VI, uomo gioviale e incline ai piaceri della tavola (e per questo soprannominato «il Grosso»), aveva affrontato e piegato alcuni dei nobili piú riottosi di fronte alla sua autorità, che spadroneggiavano nei territori sottoposti alla loro signoria e che vengono spesso ritratti come individui moralmente spregevoli e intimamente violenti. In realtà, questi racconti, partoriti dalla penna di autori in genere schierati dalla parte del re, non devono essere sempre necessariamente presi per oro colato. Da oltre un secolo la dinastia a cui apparteneva Luigi era subentrata alla progenie di Carlo Magno sul regno dei Franchi Occidentali, formatosi a sua volta in seguito alla divisione dell’impero carolingio con il trattato di Verdun dell’843. In quell’anno, infatti, i tre nipoti di Carlo Magno, Ludovico il Germanico, Lotario e Carlo il Calvo, dopo alcuni anni di guerre, avevano raggiunto un accordo sulla base del quale l’eredità dell’impero fon-

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grandi battaglie bouvines dato dall’illustre antenato veniva spartita in tre parti: una a oriente, che comprendeva grosso modo i territori dell’odierna Germania; una centrale, detta Lotaringia (dal nome del sovrano a cui era stata attribuita) costituita da una lunga fascia che, partendo dalle coste belghe e olandesi del Mare del Nord, giungeva sino all’Italia attraverso una striscia che includeva, partendo da nord, l’attuale Benelux, l’Alsazia e la Lorena, la Svizzera, la Savoia, la Borgogna sud-orientale e la Provenza; la terza, quella occidentale, comprendeva tutto il resto del territorio francese.

Non c’è quasi bisogno di sottolineare la rilevanza delle conseguenze di lunghissima durata che l’accordo di Verdun ha prodotto sulla storia europea. Oltre a formare gli embrioni di quelli che poi divennero i territori «dei Francesi» e «dei Tedeschi», esso ha creato – con la delineazione del corridoio centrale assegnato a Lotario insieme al titolo imperiale – le premesse per la formazione di nazioni come il Belgio, il Lussemburgo e la Svizzera, che, ancora oggi, sfuggono alla categoria degli «Stati nazionali» costituiti da agglomerazioni omogenee, soprattutto dal punto di vista linguistico.

E la rapida dissoluzione della Lotaringia come entità politica autonoma (di cui il nome dell’attuale regione della Lorena porta ancora il ricordo), ne ha trasformato i territori in un’area di inevitabile contatto e frizione tra Francesi e Tedeschi, dalla quale – almeno dal tempo di Luigi XIV in poi – sono scaturiti i conflitti europei di maggiore rilevanza, sino alle due ultime Guerre Mondiali. Né è un caso che, nel secondo dopoguerra, il processo di formazione dell’Unione Europea abbia attribuito proprio a tre città dislocate in questi territori – Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo – il ruolo di ospiti delle sue istituzioni piú rappresentative, come segno del superamento delle secolari ostilità tra le potenze francesi e tedesche che in quei territori si erano a lungo confrontate. In realtà, nei due regni si formatisi a oriente e a occidente della Lotaringia, dopo la divisione stabilita a Verdun nell’843, non si era automaticamente prodotta una solida e definita struttura politica nazionale in virtú della relativa omogeneità linguistica presente in ciascuno di essi.

Una terra divisa

La storia della Germania (ove l’autorità imperiale rinacque nella seconda metà del X secolo sotto l’egida dei duchi di Sassonia e dove vi rimase a lungo, passando di mano in mano tra le maggiori famiglie aristocratiche), fu quella di una terra divisa fra Stati regionali e signorie locali, la cui suddivisione può essere in parte letta ancora oggi nella struttura federale dell’attuale Repubblica tedesca. Nel regno dei Franchi Occidentali, embrione del regno di Francia, il potere effettivo dei monarchi si era progressivamente eroso, sino a divenire poco piú che un’autorità simbolica all’interno di gran parte dei territori su cui essi avevano teoricamente giurisdizione. Nel 987, quando il conte di Parigi Ugo Capeto, progenitore del re Filippo che combatté a Bouvines,

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luglio

MEDIOEVO


fu incoronato re dei Franchi, la sua effettiva sfera d’influenza si estendeva solo sulle terre direttamente appartenenti alla sua famiglia, concentrate tra l’Île-de-France, la Piccardia, la regione di Orléans e la Champagne occidentale. Ugo era parente diretto per parte di madre dell’imperatore Ottone I (che era suo zio), mentre la sua linea familiare paterna era imparentata con quella degli ultimi esponenti della dinastia carolingia. E proprio l’intreccio delle sue illustri parentele, ma anche l’effettiva debolezza del suo potere, avevano indotto a sceglierlo come candidato al trono francese, poiché egli appariva perfettamente legittimato ad assumere la dignità regia, ma, al contempo, non sembrava in grado di creare problemi di concorrenza nei confronti dell’impero tedesco, il cui trono era allora occupato da un imperatore – Ottone III – ancora fanciullo. Tuttavia, al tempo del trisnipote Luigi VI, le cose erano cambiate. Ugo era riuscito a ottenere il

MEDIOEVO

luglio

In alto particolare della lastra tombale in rame smaltato di Goffredo d’Angiò. 1151-1155 circa. Le Mans, Musée de Tesse. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Matilde, figlia di Enrico I d’Inghilterra, che andò in sposa a Goffredo d’Angiò, da un’edizione della St. Albans Chronicle. XIV sec. Londra, British Library. A destra abbazia di Fontevraud. La tomba di Enrico II Platageneto (1133-1189), figlio di Goffredo d’Angiò e Matilde d’Inghilterra.

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grandi battaglie bouvines

passaggio della carica regia all’interno della propria discendenza familiare e la sua dinastia aveva mantenuto la posizione per tutto l’XI secolo, senza dover affrontare sfide troppo rischiose. I re avevano a poco a poco iniziato a riprendere una certa autorevolezza, almeno nelle aree centro-settentrionali del territorio francese. Si percepiva una certa maggior predisposizione, soprattutto tra il clero, ma anche nelle comunità urbane e di villaggio e perfino in una parte della stessa aristocrazia, ad accettare (e anzi a sollecitare) un ruolo piú attivo e protagonista del monarca co-

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me autorità regolatrice dei conflitti che si accendevano continuamente fra gli esponenti della nobiltà e degli abusi che spesso venivano commessi da questi ultimi nell’esercizio delle loro potestà signorili.

La borghesia si rafforza

Una parte della storiografia ritiene che la crescita del prestigio e dell’autorità regia siano state anche favorite dal progressivo rafforzarsi delle borghesie urbane dedite alla produzione e al commercio, che consideravano positivamente la presenza di un potere in grado di pacificare il territorio, permettendo

una piú agevole circolazione di cose e persone e un piú tranquillo svolgersi di fiere e mercati. Ma l’influsso del sovrano, sebbene progressivamente accresciuto, non poteva ancora estendersi troppo oltre le regioni della Francia centro-settentrionale che costituivano il cuore dei suoi personali domini. I grandi Stati feudali dell’Ovest e del Sud della Francia, come la contea d’Angiò e quella di Tolosa, erano sostanzialmente refrattari ad accoglierne e rispettarne l’autorità, al di là di un riconoscimento formale. Inoltre, a nord, iniziava a evidenziarsi la minaccia luglio

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Miniatura raffigurante la battaglia di Bouvines, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1471 circa. Parigi, Bibliothéque nationale de France.

rappresentata dalle manovre del re d’Inghilterra, il quale, in quanto discendente del duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore, manteneva saldo il dominio su quello strategico lembo di terra francese, controllando ambedue le coste della Manica, cosa che gli permetteva di influire fortemente anche sulla zona delle Fiandre. Ma l’episodio che davvero pose le premesse per lo scontro finale di Bouvines avvenne fra il 1127 e il 1128. In quell’anno, il re d’Inghilterra Enrico I riuscí a combinare il matrimonio tra sua figlia Matilde e il conte Goffredo d’Angiò. Il figlio

MEDIOEVO

luglio

che ne nacque, battezzato anch’egli Enrico, sarebbe diventato al contempo re d’Inghilterra e conte d’Angiò, oltre che duca di Normandia. Questi ultimi due titoli lo avrebbero posto, sul piano formale, nella posizione di feudatario del re di Francia. Ma di fatto, vestendo la corona d’Inghilterra, egli difficilmente si sarebbe inchinato all’autorità di Luigi e dei suoi successori, trasformandosi piuttosto nel piú pericoloso e potente dei concorrenti al potere di quest’ultimo sul suolo francese. Ecco, quindi, che iniziavano a maturare i presupposti per un’osti-

lità che andava ben oltre i confini delle guerre con le signorie aristocratiche locali a cui il re di Francia aveva in genere saputo tenere testa con buoni risultati. La prospettiva sarebbe stata, un giorno o l’altro, quella di uno scontro totale e frontale con un re suo pari, che minacciava direttamente le possibilità di esercizio dei suoi poteri in buona parte del regno.

Chercher la femme...

Le cose per i reali di Francia si aggravarono una trentina di anni piú tardi, e ancora una volta, per comprenderne le cause, dobbiamo «cher-

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grandi battaglie bouvines le fasi dello scontro Bouvines i Parigi FRANCIA

Sulle due pagine le fasi della battaglia di Bouvines: 1. primo contatto tra gli schieramenti, avvenuto verso il mezzogiorno del 27 luglio 1214; 2. la prima reazione dei Francesi: Filippo Augusto affida una parte dell’esercito a Guérin, vescovo di Senlis, coadiuvato dal duca di Borgogna; 3. i due eserciti completano i propri schieramenti; 4. si accende lo scontro: le truppe di Guérin sfondano il fronte avversario e attaccano i nemici alle spalle; negli altri settori prevalgono invece le truppe imperiali, Qui sopra miniatura raffigurante Filippo Augusto e Ottone IV durante la battaglia di Bouvines, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1375-1380 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

cher la femme». Luigi VII, succeduto quindicenne al padre nel 1137, si era poco dopo sposato con Eleonora, duchessa di Aquitania, che quindi portò in dote alla famiglia del re e al suo personale patrimonio un «pezzo pregiato» del mosaico di signorie feudali in cui si articolava il regno. Gli sposi avevano ambedue quindici anni e, all’inizio, fra i due fu apparentemente amore vero, senza però che alla coppia giungesse la benedizione di un erede. Solo nel 1145 la regina rimase incinta, ma partorí una femmina. Nel 1147 la regina decise di accompagnare Luigi in Terra Santa, ma, durante il viaggio, iniziarono i dissapori conditi, secondo i maligni, da ripetuti tradimenti di lei ai danni del marito. Al ritorno dei due anni trascorsi in Oriente, peraltro poco fruttuosi per il re dal punto

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Una nuova Europa

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Filippo è disarcionato e circondato dai nemici, ma viene salvato dalla sua guardia; 5. i Francesi si riorganizzano e attaccano le truppe nemiche, che hanno perduto coesione: Ottone IV viene a sua volta disarcionato e deve darsi alla fuga; Ferdinando si arrende e cade prigioniero; resiste invece Rinaldo, duca di Boulogne, coadiuvato dal conte Gugliemo di Salisbury, ma infine vengono entrambi fatti prigionieri: la vittoria francese è definitiva.

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di vista militare, Luigi ed Eleonora erano in rotta, anche se ciò non impedí che la regina rimanesse incinta una seconda volta, dando alla luce un’altra erede femmina. Poco dopo le cose si deteriorarono ulteriormente e si giunse a una separazione consensuale, a cui seguí, nel 1152, un nuovo matrimonio di Eleonora. La scelta però cadde proprio su quell’Enrico, nipote del re d’Inghilterra, conte d’Angiò e duca di Normandia, che cosí si trovava a ereditare anche l’Aquitania. A questo punto metà del territorio francese cadeva di fatto in mani inglesi. Ciò non impedí che Luigi VII, poi a sua volta risposatosi, riuscisse a proseguire l’opera del padre, rafforzando il regno ed estendendo ulteriormente il proprio controllo sui suoi territori. Tutto sommato, anche i rapporti con Enrico (nel frattempo divenuto re d’Inghilterra con il nome di Enrico II) riuscirono a mantenersi sufficientemente distesi, ma i problemi erano inevitabilmente destinati a riproporsi.

FRANCESI

ALLEATI

Fanteria

Fanteria

Cavalleria

Cavalleria

P

Filippo Augusto

O

Ottone IV di Brunswick

B

Duca di Borgogna

R

Duca di Boulogne

Guérin

F

Conte di Fiandra

G

Filippo II era succeduto al padre nel 1180. Nel 1189 era morto Enrico II. Gli erano subentrati prima suo figlio Riccardo, detto il Cuor di Leone, eroe della terza crociata, e poi il fratello di quest’ultimo, Giovanni, detto il Senza Terra. Il soprannome non gli giunse a caso, ma derivò dal fatto che, mentre il fratello era in Terra Santa, egli aveva cercato di farlo passare per morto, usurpando il potere regio e per questo Riccardo lo aveva deposto e bandito dal regno. Quando nel 1199 questi morí, Giovanni riuscí comunque a ottenere la corona. Il suo potere, non sempre stabile e incontestato anche in Inghilterra, trovava enormi difficoltà ad affermarsi soprattutto sui territori francesi, dato che gli erano ostili sia sua madre, l’ormai anziana Eleonora – che era rientrata in Aquitania –, sia il nipote Arturo di Bretagna, al quale Riccardo Cuor di Leone avrebbe voluto affidare il regno,

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grandi battaglie bouvines che gli contestava il controllo della Normandia e dell’Angiò. Filippo II non mancò di approfittare di questa situazione, con l’obiettivo di indebolire il controllo inglese sui feudi francesi e cercando di staccarli definitivamente dall’obbedienza del re d’Inghilterra. Nel frattempo, Giovanni era entrato in rotta con il papato per aver voluto imporre un proprio candidato come arcivescovo di Canterbury e questo lo portò a rinnovare il proprio appoggio a Ottone IV di Brunswick – che era anche suo nipote –, affinché prevalesse definitivamente sugli Hohenstaufen nella

lotta per il trono imperiale. In ciò era avversato proprio dal pontefice Innocenzo III, il quale poteva a sua volta contare, manco a dirlo, sul sostegno di Filippo II. Ottone ricambiò Giovanni, fornendogli il suo appoggio per contrastare la volontà del re di Francia di riprendere il controllo del ducato di Fiandra, e mise cosí in marcia il proprio esercito verso le terre al confine fra le odierne Francia e Belgio. Giovanni non partecipò direttamente alla spedizione, ma le diede la sua benedizione e sborsò molto denaro per armare gli eserciti di Ottone e dei suoi alleati fiamminghi.

Capolettera miniato raffigurante la cacciata dell’imperatore Ottone IV di Brunswick, deposto da papa Innocenzo III, da un’edizione manoscritta dello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais. XIV sec. Madrid, Biblioteca del Monastero dell’Escorial.

Un passaggio obbligato

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Il passaggio del ponte che scavalcava il piccolo corso d’acqua della Marque, presso il villaggio di Bouvines, costituiva il percorso obbligato che le truppe imperiali avrebbero dovuto seguire per penetrare

nei territori francesi. E fu lí che si diresse allora anche Filippo II, per sbarrare la strada al nemico. Gli eserciti giunsero in contatto il 27 di luglio. Era una domenica, il giorno del Signore, e per questo motivo non si sarebbe dovuto combattere. Ma, forse profittando del fattore sorpresa, sembra che verso la fine della mattinata Filippo abbia forzato la mano, determinando lo scoccare della scintilla che scatenò lo scontro. All’inizio il combattimento aveva preso una piega confusa e incerta. Lo stesso Filippo II, che si era lanciato nella mischia, fu a un certo punto disarcionato da cavallo rischiando di morire. Ma le cose si risolsero grazie alla migliore organizzazione della cavalleria pesante francese, che riuscí ad avere ragione sia di quella avversaria, sia delle numerose truppe appiedate che l’accompagnavano, costringendo l’imperatore – caduto a sua volta da cavallo – a fuggire dal campo scortato da un gruppo di cavalieri sassoni. L’ultimo nucleo di resistenza delle truppe imperiali, comandato dal conte di Boulogne, era costituito da un reparto di fanteria fiamminga armata di picche che riuscí a lungo a tenere testa ai cavalieri francesi, cedendo solo quando ormai cadeva la sera. La vittoria conquistata da Filippo sul campo ebbe conseguenze enormi sullo scacchiere politico europeo. Il re francese ridimensionò enormemente la presenza inglese sul suo territorio e, soprattutto, accrebbe notevolmente la sua personale autorevolezza politica di fronte al resto della nobiltà. Erano stati questi davvero i primi decisivi passi verso la creazione dello Stato francese. Al contrario, Giovanni Senza Terra, oltre ad aver perso buona parte dei propri feudi francesi riconquistati da Filippo, vide pesantemente messa in discussione la sua autorità da parte degli aristocratici inglesi. Essi lo obbligarono, poco dopo, a firmare la luglio

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celebre Magna Charta Libertatum, con cui imponevano al re l’obbligo di consultarsi con l’assemblea dei nobili e degli ecclesiastici del regno prima di deliberare su materie come quelle fiscali, limitandone anche i poteri giudiziari e quelli d’intervento sulle materie ecclesiastiche. Gli Inglesi, tuttavia, non avevano completamente perduto i loro possessi francesi, e quanto loro rimaneva (l’Aquitania e il Pas-de-Calais) costituí la base per lo scoppio delle nuove e lunghe ostilità che opposero i due regni fra XIV e XV secolo (la Guerra dei Cent’Anni). Ottone di Brunswick fu travolto dalla disfatta di Bouvines. L’anno successivo dovette abdicare e a raccogliere le insegne imperiali fu l’erede degli Hohenstaufen, Federico II, che senza la vittoria di Filippo II non avrebbe probabilmente mai raggiunto il trono. Infine il papa: Innocenzo III fu un altro dei vincitori «indiretti» di Bouvines. Anche se in seguito i rapporti con Federico II furono spesso tutt’altro che idilliaci, il suo carisma in quanto «kingmaker» del nuovo imperatore ne uscí significativamente accresciuto e cosí lo fu anche il suo ruolo di sovrano universale della cristianità.

Effetti di lunga durata

Quali mutamenti al corso della storia d’Europa avrebbe potuto apportare la «sliding door» di Bouvines, se il giro delle sue ante avesse lasciato Filippo II dalla parte sbagliata, è difficile dirlo. Conosciamo però bene cosa è accaduto veramente e, quindi, possiamo ancora guardare a quella giornata, ottocento anni dopo, come a uno di quei giri di boa delle vicende politiche del nostro Continente che ne hanno profondamente segnato per lungo tempo i connotati. Oggi i cippi commemorativi della battaglia piantati nelle piazze del villaggio di Bouvines nel 1864 e nel 1918 rimangono testimoni un po’ muti e trascurati. Il grande storico

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Carta del re Giovanni Senza Terra, firmata il 9 maggio 1215, che concede ai Londinesi il diritto di scegliere ogni anno un sindaco «fedele, discreto e adatto a governare la città». Londra, Museum of London. Il 15 giugno dello stesso anno il sovrano fu costretto dagli aristocratici inglesi a firmare la Magna Charta Libertatum.

Georges Duby (1919-1996), che alla battaglia di Bouvines ha dedicato uno dei suoi libri piú belli (La domenica di Bouvines, Einaudi, Torino), conclude la sua narrazione cercando di spiegare perché, in tempi recenti, la memoria dell’evento di cui sta per ricorrere l’ottavo centenario si sia piuttosto sbiadita. Vale la pena riportare per intero le sue parole. «Dopo il 1945 Bouvines è completamente dimenticata. Oggi gli insegnanti non ne parlano piú. Viene loro raccomandato di saltare dalle crociate, dalle signorie, dai castelli, dalle cattedrali a san Luigi, il re buono, l’unico personaggio capetingio offerto al ricordo dei fanciulli. A che servirebbe il racconto di Bouvines ai fanciulli di un’Europa riunita, in nome di una storia che si è a lungo e giustamente battuta per sbarazzarsi dalle pastoie della cronaca? Il nostro tempo scaccia le battaglie dalla

storia, e con ragione. E come potrebbe ricordare che ci fu un’epoca in cui i capi di Stato si misuravano corpo a corpo, affidando la loro potenza alle mani di Dio? Ai nostri tempi non si vede piú il potere di affidarsi alla sorte delle armi, né cercare la propria legittimità in una vittoria. Avviene piuttosto il contrario: la fama, vera o falsa, di dubbio successo, serve di pretesto a capitani grandi o piccoli, per impossessarsi del potere con la forza. Quando l’hanno in mano, si prendono ben guardia di esporlo a qualche rischio. La guerra che essi fanno è tenebrosa, ignora il campo aperto, usa altri mezzi, piú insidiosi e piú efficaci, che hanno lo scopo di distruggere». Le parole di Duby non sono certo un’apologia indiretta in favore delle macellerie consumatesi sui campi di battaglia del Medioevo. Sono semmai la constatazione del fatto che, se nell’Europa di oggi per fortuna non c’è piú bisogno di cantare le lodi delle vittorie in armi di un popolo contro un altro, non per questo siamo autorizzati a pensare che sia davvero cessato il rischio che il potere possa ancora trasformarsi, sotto altre e piú opache spoglie, in una macchina in grado di attentare alla libertà e alla vita delle persone. F

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personaggi guglielmo ebreo da pesaro

In

punta di piedi

di Chiara Parente

Alla metà del XV secolo Guglielmo da Pesaro si afferma come il piú valente ballerino dell’intera Penisola. Ma chi era davvero questo questo illustre personaggio? E quale fu il suo ruolo nel creare un vero e proprio «codice» dell’arte della danza? In alto la punta di una scarpa appartenuta a Francesco I Sforza che possiamo immaginare simile a quelle indossate in occasione dei balli di corte. 1450 circa. Vigevano, Castello Visconteo Sforzesco, Museo della Calzatura e della Tecnica Calzaturiera «Petro Bertolini». A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante una scena di danza in girotondo accompagnata da musica, dalla Bibbia di Borso d’Este, codice miniato che tramanda lo splendore della corte estense e del suo duca. 1455-1461. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

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N

N

el Quattrocento era consuetudine decorare le sale di castelli, palazzi e residenze nobiliari con affreschi, che raffigurano scene di vita cortese. Il fascino delle immagini di «dame, cavalieri, armi ed amori» scaturiva dalla rappresentazione del lusso, dei piaceri dell’esistenza e dal culto dell’eleganza, che emergeva con estrema evidenza dai cicli pittorici. E nei programmi iconografici, tra le occupazioni care all’aristocrazia feudale – il cui scopo principale è quello d’incontrarsi e d’intrattenersi piacevolmente con persone del medesimo rango –, venivano spesso descritti anche il gioco e

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la danza. Nella cultura rinascimentale il ballo aveva un grande sviluppo e raggiunse un elevato grado di raffinatezza ed eleganza. Ma chi insegnava, nel Quattrocento, l’arte della danza? Tra i piú importanti maestri di ballo dell’epoca, Guglielmo da Pesaro occupò un ruolo da protagonista nella storia della danza italiana. Definito come l’uomo che ballava meglio di ogni altro nella Penisola in una lettera di raccomandazione inviata il 1º agosto 1480 dai signori di Pesaro ai duchi di Milano, affinché insegnasse i balli alla giovane generazione della famiglia reggente

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personaggi guglielmo ebreo da pesaro Una convivenza pacifica e rispettosa

Giuseppe e Francesco, una scuola per due Nel Trattato dell’arte del ballo di Guglielmo Ebreo è contenuta una Bassa Danza composta da tal Giuseppe Ebreo. Forse allievo del ben piú famoso Guglielmo da Pesaro, quest’altro maestro di danza e musica, residente prima a Pesaro, poi a Carpi (1466), e a Firenze (1467-1468) è figlio di un Moysè – o Musetto – originario della Sicilia. Lo ritroviamo in un atto rogato dal notaio ser Piero di Antonio da Vinci (padre del grande Leonardo), nel maggio del 1467 a Firenze. Il documento stabilisce le condizioni poste dalle due parti interessate: l’ebreo Giuseppe del fu Mosè e il

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cristiano Francesco del fu Domenico da Venezia. Costoro decidono di costituire una societas in docendo tripudiare sonare ac cantare, ovvero una scuola di danza, indipendente dalla corte. Nel documento Giuseppe è definito magister tripudiandi, mentre Francesco è etiam magister tripudiandi e sonandi. I due maestri, in qualità di liberi professionisti pagati a seconda del tipo di servizio reso, stabiliscono di collaborare attivamente, dividersi equamente i costi per l’affitto di una casa in cui impartire lezioni di musica e danza ad allievi di ambedue i sessi, e far

durare la loro societas un anno, a partire dal 1° giugno seguente. Quella tra Giuseppe, ebreo, e Francesco, cristiano, è dunque una collaborazione paritaria. Se si eccettua la specifica del notaio da Vinci, il quale, seguendo la prassi allora in uso, annota il fatto che uno dei due contraenti è ebreo, per il resto nulla potrebbe far pensare a una condizione subordinata dell’uno nei confronti dell’altro. Anzi, entrambi assumono i medesimi impegni e rivendicano i medesimi diritti. La reciprocità degli accordi è totale e viene piú volte affermata. Nell’Italia tardo-medievale e rinascimentale

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sono del resto frequenti le societas commerciali fra Ebrei e cristiani, anche per la gestione di macellerie, pescherie e altri esercizi. Nel nostro caso la creazione di una societas «intellettuale» contribuisce a testimoniare come nel Quattrocento, anche ai livelli sociali piú alti, i contorni delle differenze religiose tra cristiani ed Ebrei sfumano, dando spesso origine a un clima di rispettosa convivenza, che pone l’Ebreo e il cristiano sullo stesso piano, esattamente come sullo stesso livello si trovano il macellaio e il pescivendolo.

milanese, Guglielmo fu un personaggio controverso ed enigmatico, poco noto oltre i confini della sua arte. Nella missiva risulta nominato con l’appellativo di «Giovanni Ambrosio», che, in realtà, è il nome attribuitogli in un secondo tempo, mentre l’identificazione «da Pesaro» sembrerebbe riferita alla località in cui è nacque o comunque da lui considerata come residenza. Il cambio di denominazione si spiegherebbe con l’abbandono della fede ebraica e la conversione al cristianesimo: una scelta probabilmente dettata dalla volontà di far carriera e ricevere il titolo di cavaliere, conferitogli dall’imperatore Federico III a Venezia, nel 1460. Il mutamento di religione, requisito essenziale per ottenere il cavalierato, sarebbe avvenuto a Milano e ciò giustificherebbe il nome Ambrosio e la presenza di Bianca Maria Sforza come patrona e madrina.

Fuga dalla Spagna

Fra le diverse opinioni sui motivi della conversione, è inclusa l’ipotesi che Guglielmo sia stato vittima di antisemitismo, ma si tratta di un’eventualità piuttosto improbabile. Quando gli Ebrei cominciarono a fuggire dalla Spagna a causa della crescente persecuzione attuata nei loro confronti, ottennero asilo nel regno di Napoli e negli altri Stati della Penisola. L’esodo si protrasse per un’intera generazione dopo la conversione di Guglielmo, e solo agli inizi del XVI secolo, periodo in cui la città partenopea cadde sotto il controllo diretto degli Aragona, gli Ebrei furono espulsi dal Sud Italia. Se si eccettuano episodi isolati, nell’Italia del Quattrocento gli Ebrei avevano cittadinanza italiana e le loro relazioni quotidiane con i cristiani erano cordiali. Papi e

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In alto il Palazzo Ducale di Urbino, voluto dal duca Federico di Montefeltro, presso la cui corte prestò la propria opera il maestro di danza ebreo Guglielmo da Pesaro, convertito al cristianesimo col nome di Giovanni Ambrosio. Nella pagina accanto miniatura del Tacuinum Sanitatis che illustra la pagina dedicata alla pratica musicale e alla danza. Fine del XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

principi come gli Este, i Gonzaga, i Medici e gli Sforza, con i quali Guglielmo si relazionò personalmente, ebbero buoni rapporti con i Giudei e in quel periodo non era raro trovarne in Italia di competenti in danza e musica. L’interesse mostrato nel Rinascimento dalle maggiori famiglie ebraiche verso queste due materie fece sí che esse fossero quasi di norma comprese nel curriculum scolastico dei giovani ebrei, insieme allo studio del latino e della grammatica italiana. L’insegnamento della danza si suddivideva in due livelli: nel primo si apprendevano le nozioni del ballo per stare in società nella comunità ebrea; nel secondo si imparava la danza artistica, per poter interagire con i gentili, ossia con le persone di religione non israelita, durante le manifestazioni e le esibizioni. All’interno delle comunità ebraiche le due discipline non venivano coltivate solo per diletto personale, ma, per molti Ebrei, divennero una professione, esercitata sia tra correligionari, sia, e forse soprattutto, tra cristiani. Tuttavia, se essere un maestro di danza ebreo era piuttosto comune nell’Italia rinascimentale, esistevano non poche restrizioni. Le autorità ducali e papali potevano per esempio proibire ai maestri di ballo ebrei di insegnare agli allievi cristiani o imporre

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personaggi guglielmo ebreo da pesaro tipologie e significati del ballo

Tutti in fila, come in una parata Durante il XV secolo la danza assolve nelle corti a un duplice ruolo. Se eseguita da principi e cortigiani, assume una funzione sociale ed è ritenuta una forma di divertimento domestico. Invece, se creata per essere vista, ma non direttamente partecipata dai membri della corte, acquista una funzione spettacolare. Quest’ultimo aspetto si accentua soprattutto nella seconda metà del Quattrocento, quando i balli mascherati e le moresche diventano gli intrattenimenti piú richiesti dall’aristocrazia, fino a costituire una vera rappresentazione. Tuttavia, la moresca e le danze affini, non comprese nel repertorio del Ballo Nobile, venivano eseguite per la maggior parte da professionisti, baladori, cioè ballerini, o dagli stessi maestri di danza, poiché per il carattere brillante e virtuosistico non si addicevano al contegno dei membri della corte. Il ruolo e l’attività di Guglielmo/Ambrosio appaiono alquanto vicini a tale mutamento di concezione. Infatti non si può negare che anche nel Ballo Nobile vi sia una certa componente di teatralità. Le coreografie dei maestri di danza del Quattrocento sono create per essere viste e ammirate. Nel comporre le loro danze, i precettori tengono presente il principio secondo il quale «tanto si dimostra il danzar esser piú bello, quanto piú piace alla moltitudine dei resguardanti». Talvolta nel De pratica, invece dell’indicazione del numero preciso di danzatori, accanto al titolo della danza compare l’espressione «alla fila». Si tratta di danze relativamente

Ritratti del duca di Milano Francesco Sforza (in alto) e di sua moglie Bianca Maria (nella pagina accanto), attibuiti a Bonifacio Bembo. 1460 circa. Milano, Pinacoteca

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di Brera. Tra il 1450 e il 1466 Guglielmo da Pesaro si occupò dell’allestimento di balli e celebrazioni per i signori di Milano, che furono grandi estimatori del suo operato.

divieti nelle scuole di ballo per le iscrizioni degli studenti gentili e per i non Ebrei. Nei regolamenti ebraici attinenti al ballo, uno dei dettami principali era il divieto di ballare in modo promiscuo tra uomini e donne. Il contatto fisico con l’altro sesso era rigorosamente vietato, eccetto che fra gli esponenti della stessa famiglia. Solo il maestro di ballo poteva toccare una donna, dopo aver indossato i guanti. Lo stesso Guglielmo, sebbene attivo nella sfera gentile e pur essendosi convertitosi al cristianesimo, conservò per tutta la vita la visione ebrea ortodossa della danza, che non trascurava i pericoli morali derivati dal ballo. Nel suo De pratica seu arte tripudii (Trattato dell’arte del ballo), Guglielmo riservò un’ampia sezione agli obblighi morali del ballerino e del maestro di ballo. Questi doveri, molto simili a quelli elencati nei regolamenti della keilot (dall’ebraico keilà, sinagoga), che si presume fossero a lui ben noti, contribuiscono a definire l’arte del ballo come una disciplina rigorosa. Oggi le concezioni di Guglielmo da Pesaro sull’arte della danza appaiono straordinariamente moderne. Da naturalista qual era, nel senso rinascimentale del terluglio

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semplici, che non prevedono grandi virtuosismi nei passi e nelle figurazioni, mentre nell’esecuzione i danzatori procedono principalmente in avanti e indietro. Per le loro caratteristiche, tali balli si prestano a essere eseguiti da un numero illimitato di coppie, disposte appunto «alla fila», cioè posizionate secondo uno schema processionale le une dietro alle altre. Sebbene il numero dei danzatori non sia fisso, la categoria del mostrarsi è attiva. Infatti la disposizione processionale «alla fila» richiama alla mente le immagini del corteo e della parata: si tratta, in altri termini, di una sfilata eseguita dai membri della corte. Questo tipo di disposizione è reso possibile dalla notevole lunghezza delle sale in cui queste danze hanno generalmente luogo, il che permette a numerose coppie di partecipare alla danza, senza che si creino inconvenienti dovuti alla mancanza di spazio. Dame e gentiluomini eseguono i movimenti sotto gli occhi della corte riunita, con la precisa coscienza di volersi mostrare e la consapevolezza di sapersi osservati. Anche la disposizione della sala che ospita la festa tende alla doppia finalità di permettere a tutti di vedere e di essere visti. Per questo motivo le gradinate riservate agli ospiti, fatti accomodare a seconda della posizione nella scala sociale, vengono in genere collocate ai lati del salone, mentre lo spazio centrale del locale rimane «netto per ballare». Tale sistemazione per tribune e panche dà la possibilità a chiunque di osservare gli altri e contemporaneamente di mostrarsi. mine, Guglielmo credeva nella razionalità dell’ordine naturale delle cose ed elesse la natura come criterio di verità. La sua è una concezione filosofica del ballo. Per lui la danza era una scienza e, paragonando le quattro voci musicali ai quattro elementi (Fuoco, Terra, Aria e Acqua) di Empedocle (Agrigento, 490 a.C.), creò un preciso parallelo tra l’armonia musicale e l’armonia della natura. La danza divenne cosí realizzazione dello stesso ordine naturale, soprattutto in quei movimenti che le sono essenziali.

Arti liberali e razionali

Musica e danza sono arti liberali, razionali e, secondo l’ideale neoplatonico dell’unione delle arti perseguito da Guglielmo, sono imparentate fra loro. Al centro delle due sta comunque l’uomo, portato a esprimere col gesto le sensazioni provate dall’ineffabile armonia dei suoni. Al riguardo è estremamente chiarificatore l’esempio di Guglielmo del danzatore senza suono. A suo parere, è spiacevole osservare un gruppo di danzatori che si esibisce senza supporto musicale, anche se danzare senza musica diviene comunque un atto na-

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personaggi guglielmo ebreo da pesaro La pittura di cassone

Cacce, giostre e «novelle d’amore» Nel Quattrocento le danze, usuale coronamento di anniversari e matrimoni, sono uno dei soggetti ricorrenti su cassoni e deschi da parto, destinati alla nobiltà e poi anche alla ricca borghesia. La pittura di cassone – una produzione connessa ai tempi profani, data la destinazione secolare degli oggetti –, offre molteplici esempi per rintracciare un nesso tra pittura e danza e tra pittura e movimento. Sovente le scene dei cicli pittorici illustrano cacce, giostre, «novelle d’amore», episodi tratti dalla storia antica e dalle favole dell’antichità classica. Una delle principali fonti ispiratrici è

senza dubbio il poema di Ovidio Le Metamorfosi. In una continua commistione tra presente e passato, il motivo dell’antico sovente si fonde con il tema matrimoniale, è il caso dei cassoni raffiguranti la Magnanimità di Scipione. Il clemente gesto di Scipione, che, dopo la presa della città spagnola di Cartagena, ricevuta in dono una fanciulla, la riconsegna al promesso sposo, insieme ai ricchi omaggi avuti dai genitori della ragazza, rientra fra i temi prediletti dell’iconografia profana quattrocentesca, in cui, attraverso atmosfere cortesi, vengono evocati motivi di valore e virtú.

A sinistra miniature dall’Ordine delle nozze di Costanzo Sforza e Camilla d’Aragona (1475), manoscritto figurato con la redazione degli apparati nuziali. Seconda metà del XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

turale, quando i ballerini esprimono nei movimenti un preciso ordine ritmico. Di conseguenza, Guglielmo, da un lato assicura alla danza la dignità che le compete come arte liberale, dall’altro vuole ottemperare all’esigenza, tipica dell’uomo del Rinascimento, di un’arte finalizzata al piacere e al porgere diletto. Precursori del successivo sviluppo del balletto classico, Guglielmo e i maestri di ballo ebraici del Quattrocento composero prima di tutto danze dai toni

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contrastanti, basate su temi legati a sensazioni e sentimenti e destinate a riunioni sociali. In particolare, dalle ricostruzioni delle danze di Guglielmo da Pesaro, emerge che egli fu artefice di coreografie molto espressive e spesso drammatiche. Tra il 1450-1466 Guglielmo partecipò a molte feste tenutesi a Milano, quando signore del ducato era Francesco Sforza. Lo troviamo impegnato anche a Pavia, incaricato di preparare una moresca per un intrattenimento dato dal duca e dalla luglio

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moglie Bianca Maria, probabilmente al castello sforzesco. I duchi di Milano lo apprezzavano a tal punto da inviarlo, nel 1465, alla reggia di Napoli, per insegnare a ballare nello stile lombardo alla nuora di Bianca Maria, Madonna Lionora. Complice la situazione politica: Alessandro Sforza era un alleato importante del re di Napoli, e, con il figlio Costanzo, trascorse lunghi periodi a Napoli, tra il 1462 e il 1466.

Alla corte del duca di Montefeltro

Inviare un servitore presso un’altra corte per insegnare ai giovani principi l’arte della danza, collaborare come coreografo nel fornire ballerini e attori per rappresentazioni teatrali o come cerimoniere nell’organizzare eventi speciali era una pratica comune nell’Italia del XV secolo. Non a caso, fra il 1474 e il 1475, Guglielmo

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In alto particolare della decorazione del Cassone Adimari con scena di danza. 1440-1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.

fu impegnato nel predisporre alla corte di Federico di Montefeltro eleganti balli in maschera a Urbino, Pesaro e Rimini, e grandiose celebrazioni, come quelle organizzate per il fidanzamento di Elisabetta Montefeltro con Roberto Malatesta. Nel ricevimento gentilizio che Guglielmo allestí in qualità di coreografo di corte a Pesaro, in occasione del pomposo matrimonio di Costanzo Sforza e Camilla d’Aragona, svoltosi nel 1475, mise in scena un divertissement con scenografie tratte dal Vecchio Testamento. All’ingresso in sala la coppia di sposi fu accolta da un elefante di legno, sul quale sedeva in trono un’attrice, che imperso-

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personaggi guglielmo ebreo da pesaro istruzioni per l’uso

Un «gioco» dalle regole precise Lo scrittore Baldassar Castiglione ne Il Cortegiano, pubblicato nel 1528, sottolinea il succedersi di feste, musiche, danze e giochi, che costituiscono il trait d’union della società colta ed elegante. Nell’opera, l’intrecciarsi dei giochi segna addirittura i tempi dei dialoghi e diviene il metro per le scansioni delle ore, alternandosi alle danze. Di solito gli spazi riservati al gioco e al ballo sono le sale e i giardini; lo stesso Guglielmo Ebreo destina alla danza un luogo preciso. Al pari del gioco, il ballo va al di fuori della «sfera del bisogno e dell’utile», ha regole da rispettare ed è organizzato con leggi basate sull’unità di tempo e di spazio. Inoltre, come nel gioco, anche nella danza il rapporto non è quello di un partecipare a qualcosa, ma di un far parte di qualcosa. Ancora oggi, alcuni passatempi dei bambini, come O mio bel castello, È arrivato l’ambasciatore, Bell’anello, La mutola (o Telefono senza fili), sono sopravvivenze, ormai in via d’estinzione, dei giochi di corte. Il ballo, il gioco e la musica appaiono molto spesso come elementi di un unico insieme. In O mio bel castello, l’azione mimica è data da passi agili, mentre i giovani si tengono per mano formando una catena, di fronte alla quale un corifeo canta, chiamando a sé uno a uno i componenti a creare un cerchio. Invece il girotondo, destinato oggi ai piú piccoli, conserva tre elementi essenziali del gioco: l’azione mimica, la musica e il canto. Ritratto di Baldassarre Castiglione, autore de Il Cortigiano. Olio su tela di Raffaello Sanzio, 1514 circa. Parigi, Museo del Louvre.

nava la regina di Saba. Scesa dal pachiderma, la donna recitò ai nubendi un discorso in ebraico, presentando loro il dono della comunità ebrea. Nel corso della sua vita Guglielmo da Pesaro ottenne lodi e riconoscimenti come maestro di ballo, ma ebbe anche a patire esperienze amare e disillusioni, tanto da chiedersi quale fosse veramente il suo status sociale e professionale. Nella conclusione del De pratica, sostenne che, persino dopo trent’anni trascorsi in varie corti, gli pareva di non sapere ancora ballare degnamente. Motivava l’affermazione spiegando come in molti posti avesse incontrato tante persone che si consideravano esperti di danza, nonostante distinguessero a stento il piede destro dal sinistro. Eppure Guglielmo fu un grande innovatore negli aspetti interpretativi, nei modelli spaziali e nei dispositivi coreutici. Nel repertorio di passi e coreografie che ci ha tramandato compare una meccanica nuova, diversa da quella tardo-medievale descritta dai trattatisti coevi, riferibile alla cosiddetta estetica dell’aeroso. Per lui i passi di danza vanno eseguiti in mezza-punta, ma su di essa il piede si solleva immediatamente, sul battere del tempo e non gradualmente. Il ballerino mantiene l’elevazione durante l’andamento del passo, con una disce-

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sa dei talloni dolce e senza indugio. A ogni passo naturale corrisponde un procedere «alto e aeroso», nell’intera durata della sequenza, infine un soffice abbassarsi. Le movenze devono apparire naturali, senza movimenti bruschi, conferendo al potente moto del corpo un effetto complessivo di notevole leggerezza. Guglielmo, per certi versi piú speculativo rispetto ai suoi contemporanei, rivela la tendenza già neoplatonica a introdurre nella danza quel quid di artificioso che, per contrasto, la eleva a dignità d’arte, intesa come mimesi, come imitazione di una natura trasfigurata e resa perfetta nell’attribuzione di un ordine soprasensibile e universale. F

Da leggere U Trattato dell’arte del ballo, ristampa anastatica, Arnaldo

Forni Editore, Bologna 1969 U Maurizio Padovan (a cura di), Guglielmo ebreo da Pesaro

e la danza nelle corti italiane del XV secolo, Pacini Editore, Pisa 1987 U Dario Oliverio, Guglielmo Ebreo da Pesaro (Giovanni Ambrosio), in Dizionario Biografico degli Italiani, a cura della Fondazione Treccani, vol. 60, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003; anche on line su treccani.it luglio

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storie leopoli-cencelle

Il

di Letizia Ermini Pani, Maria Carla Somma, Francesca Romana Stasolla

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sogno di papa Leone


È l’anno 854: gli abitanti di Centumcellae (l’odierna Civitavecchia), vittime delle incursioni saracene, sono costretti ad abbandonare la città e vagano «come bestie» per le campagne. Interviene allora papa Leone IV, che, ispirato da un’apparizione miracolosa, fonda per loro un nuovo abitato. Comincia cosí la storia di Leopoli-Cencelle, un luogo straordinario che, oggi, rappresenta un osservatorio privilegiato per lo studio del nostro Medioevo

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ra il 15 agosto dell’854, ottavo anno del pontificato di Leone IV. Con litanie e orazioni, il papa fece a piedi, in processione, il giro della città e con tre preghiere la consacrò in eterno alla Trinità, celebrando, come era solito, la messa, e ordinando di aspergere le mura con acqua benedetta. Leopoli, la nuova città a nord-ovest di Roma, veniva ufficialmente inaugurata dopo una fase progettuale che, secondo il Liber Pontificalis della Chiesa romana, l’opera che raccoglie le biografie dei pontefici, aveva visto come principale promotore lo stesso Leone IV. Siamo dunque alla metà del IX secolo, nel pieno di quella rinascita carolingia che ha per attori principali proprio la Chiesa di Roma e Carlo Magno, un momento in cui le città cominciano a mostrare in

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Occidente i primi segni di ripresa urbanistica e monumentale dopo il collasso dell’impero romano e del suo sistema urbano. Nel caso di Leopoli-Cencelle si arriva addirittura a una fondazione «a solo» (dalle fondamenta), alla creazione di una città nuova. Le motivazioni di una simile iniziativa vanno ricercate nell’intreccio tra necessità contingenti e strategie pontificie.

La minaccia saracena

In quel tempo la città romana di Centumcellae (l’attuale Civitavecchia), principale porto a nord di Roma, era oggetto delle scorrerie dei Saraceni che imperversavano nel Tirreno, arrecando gravi danni ai centri costieri. Gli abitanti di Centumcellae furono costretti a rifugiarsi sulle colline dell’entroterra e a vagare «more bestiarum» in cerca

In basso, sulle due pagine i resti della cinta muraria di Leopoli-Cencelle (oggi nel territorio di Tarquinia, VT), città fondata il 15 agosto 854 da papa Leone IV. Nella pagina accanto plastico ricostruttivo dell’insediamento, cosí come doveva presentarsi in età comunale.

di un riparo, come riporta la biografia del papa che rappresenta la principale fonte storica relativa alla fondazione della città. Il racconto è lungo e articolato e fornisce una puntuale descrizione della formulazione e realizzazione del progetto. La ricerca di un luogo adatto alla nuova fondazione, che dovette tener conto delle prescrizioni ormai codificate nei trattati militari bizantini del VI secolo, fu lunga e laboriosa, attribuita direttamente al pontefice, il quale, grazie anche all’ausilio di un sogno ispiratore,

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storie leopoli-cencelle A sinistra Città del Vaticano, Stanza dell’Incendio di Borgo. Leone IV rende grazie a Dio, particolare dell’affresco della Battaglia di Ostia, dipinto da Raffaello. 1514-1517. Eletto papa nell’847, Leone IV si distinse per l’intensa attività edilizia, che lo portò a fortificare molte città contro la minaccia saracena, tra cui Roma, dove restaurò le mura aureliane e realizzò la «città leonina» intorno alla basilica di S. Pietro in Vaticano, e a fondare Leopoli.

giunse finalmente in un luogo «ottimamente» adatto alla fondazione, ben difeso sul piano geomorfologico, essendo in altura. Il papa si avvalse della collaborazione del magister militum Pietro, la cui formazione diveniva garanzia per la sicurezza della città: a lui furono affidati sia l’incarico della costruzione, che quello di guidare il popolo nella nuova sede urbana.

Acqua, pietra e sabbia

In questo luogo erano assicurati tutti i requisiti necessari a che la popolazione, salva, potesse vivere: dall’abbondanza di acqua, che consentiva anche di attivare mulini, alla disponibilità di materiali, pietra e sabbia (lapides et arenae) per i cantieri edilizi. Il progetto comprendeva anche la costruzione di due edifici di culto, uno dedicato a san Pietro, destinato a ereditare la dignità episcopale della sede di Centumcellae, il secondo a san Leone, omonimo predecessore del fondatore. Il racconto storico trova una A destra, sulle due pagine fotomosaico con i frammenti della grande epigrafe di Leone IV e integrazioni grafiche. La monumentale iscrizione (di cui si riportano il testo e la traduzione nella pagina accanto) era inserita nella porta orientale di Leopoli, a celebrarne la fondazione.

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Lago di Bolsena

Rieti

Viterbo Tev ere

Leopoli-Cencelle ROMA

Latina

Frosinone

sua conferma materiale alla fine dell’Ottocento quando su una collina dei Monti della Tolfa, tra gli attuali centri di Civitavecchia e Tarquinia, fu rinvenuta un’epigrafe frammentaria (vedi nell’immagine in basso, sulle due pagine), che doveva in origine essere collocata sopra la porta orientale delle mura con il monogramma papale. Il testo ricostruito si può considerare una sintesi dei caratteri fondativi della città, nella quale vengono puntualizzati i suoi aspetti di centro, non grande, ma in grado di resistere a qualsiasi attacco, efficace monito verso qualsiasi tentativo di violare nuovamente la ricomposta integrità urbana. Il testo in esametri fu composto verosimilmente nello scriptorium pontificio e cosí è stato recentemente integrato «Benché questa città si erga fondata in un piccolo spazio, tuttavia nessuna guerra di uomini sarà in grado di nuocerle; si ritiri di qui il feroce soldato, si ritiri ormai il nemico 
in quanto che nessuno può violare questa città».

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A sinistra cartina del Lazio con la posizione di Leopoli-Cencelle. A destra la tenuta di Cencelle, dal Catasto Cingolani, XVII sec. Roma, Archivio di Stato.

Leonis q(uarti) papae Quamvis in parvo co[ns]stat condita [loco] urbs haec nulla hominum se[d bel]la nocere va[lebunt] desinat hinc bellato[r atr]ox iam desinat hostis non hanc ut [quisquam valea]t urbem violare. «Benché questa città si erga fondata in un piccolo spazio, tuttavia nessuna guerra di uomini sarà in grado di nuocerle; si ritiri di qui il feroce soldato, si ritiri ormai il nemico in quanto che nessuno può violare questa città»

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Area del palazzo pubblico Chiesa di S. Pietro

Fornace per campana Cimitero medievale

Ceramista

Mugnai Fabbri

Fabbri Porta orientale con epigrafe monumentale

A sinistra planimetria del sito di Leopoli-Cencelle, con le principali strutture finora identificate. In basso particolare dell’area presbiteriale della chiesa romanica di S. Pietro, edificata nel XII sec. sull’area di un precedente edificio di culto altomedievale

All’identificazione del sito non seguirono indagini archeologiche fino al 1994, quando fu avviato un progetto di scavo in estensione della collina su cui la città si sviluppava (vedi box a p. 60). I lavori di questi vent’anni hanno permesso di verificare e dare consistenza materiale a quanto tramandato dalle fonti scritte. Della fase altomedievale della città si è ricostruito il circuito murario, i cui resti sono ancora visibili in vari punti del perimetro urbano, in particolare sui versanti occidentale e settentrionale dell’altura. Realizzata probabilmente da maestranze specializzate quale parte integrante del progetto monumentale della

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Veduta aerea di una porzione del sito, con i resti delle mura, del palazzo pubblico, un complesso formato da diversi edifici innalzati a partire forse dal XII sec. e uniti tra loro nel XIV sec., della chiesa di S. Pietro e di strutture abitative e artigianali.

incomplete proprio le strutture di allestimento, che furono portare a termine da papa Benedetto. Soprattutto la documentazione di matrice monastica, rappresentata dal monastero di S. Maria di Farfa, a cui afferiva l’importante cella di S. Maria del Mignone, non lontana dalla città, ci permette di seguire le fasi immediatamente successive alla fondazione che, se da una parte evidenziano la centralità del nuovo abitato nell’assetto territoriale dell’area – grazie a espressioni quali habitator castri Centumcellensis, in comitatu vel territorio Centumcellensis –, dall’altra evidenziano il precoce abbandono della denominazione Leopoli a vantaggio di quella derivata dalla Centumcellae romana, della quale gli abitanti continuavano a sentirsi eredi, tanto da conservarsi fino a oggi. Nel momento in cui l’antico porto tornò a essere polo di aggregazione demica, fu ribattezzato Civitas vetula, visto che la sua antica denominazione era ormai saldamente ancorata alla nuova città.

Fedele al papato città di fondazione papale, questa primitiva cinta muraria in blocchi di tufo costituisce, a oggi, una delle maggiori testimonianze monumentali della prima fase di vita della città. A essa si affiancano i resti della chiesa di S. Pietro e dell’annessa area funeraria collocata sulla cima della collina, che, fin dal momento della fondazione, si configura come fulcro dell’insediamento.

Arredi liturgici

Delle due chiese attestate dal Liber Pontificalis, gli scavi hanno restituito oltre un centinaio di frammenti di sculture, perlopiú in marmo, facenti parte degli arredi liturgici delle due chiese. Si tratta di frammenti di pilastrini e lastre che dovevano costituire le recinzioni utilizzate all’interno degli edifici di culto per separare la zona presbiteriale, riservata al clero, da quella che ospitava i fedeli, e a rivestimenti di impianti liturgici, come altari e amboni. Tutti

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presentano una decorazione caratterizzata dalla presenza di un ornato a nastro vimineo – una costante nella scultura altomedievale –, che presenta caratteri particolarmente ripetitivi proprio nel corso del IX secolo, alla fine della sua diffusione. Fra questi reperti, spicca un frammento di lastra sulla quale si conserva il brano di un’iscrizione che, con ogni probabilità, ricorda il donativo di un papa Benedetto, riferibile senza dubbio al Benedetto III, immediato successore di Leone IV. Il Liber Pontificalis, alla sua biografia, non riporta alcuna notizia di lavori a Leopoli, ma evidentemente egli dovette intervenire a completare l’opera del suo predecessore. In effetti, al momento della solenne inaugurazione, le strutture della città dovevano esser ben lungi dall’essere completate in ogni loro parte e soprattutto in tutti gli arredi. Leone IV muore l’anno successivo, probabilmente lasciando

La «forma urbis» di Cencelle, oggi percepibile e riportata in luce dagli scavi archeologici, è quella che si comincia a delineare a partire dal XII secolo e che trova compimento entro il XIV. In questo periodo la città si trova coinvolta in avvenimenti che, a fasi alterne, la pongono in una posizione oscillante tra l’autorità imperiale e quella pontificia, alla quale però risulta tendenzialmente sempre legata. Questa condizione non le precluse la possibilità di sviluppare un governo autonomo, del quale sono espressione, a partire dal 1222, diverse cariche pubbliche. Forse anche sotto la spinta delle nuove magistrature urbane, si avviano in questo momento importanti interventi di ristrutturazione, che investono tanto le infrastrutture (mura, strade, sistemi di approvvigionamento idrico), quanto il tessuto edilizio, da quello aulico a quello residenziale e produttivo. Pur conservando il suo originario tracciato, il circuito murario vie-

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storie leopoli-cencelle il progetto leopoli-cencelle

Archeologia di una città medievale Le linee guida del progetto Leopoli-Cencelle, una città di fondazione papale, di rilevante interesse per la storia del Medioevo italiano, possono cosí enuclearsi. Sul piano urbanistico la città si rileva come eccezionale «modello» per conoscere sia i criteri ispiratori in età carolingia nella fondazione di una città di committenza aulica, sia per ricostruire l’impianto di una città comunale che non ha subito superfetazioni. Gli scavi hanno fino a oggi riguardato l’area sommitale della collina sulla quale si estende la città, occupata dalla chiesa romanica, con annesso cimitero, e fronteggiata dal polo del potere pubblico cittadino, costituito da diversi edifici, tra i quali spiccano una torre e una casa-torre, e all’interno del quale si sviluppa un articolato impianto per la produzione ceramica. A questa si aggiungono alcuni isolati che si dispongono, a partire dalla porta orientale delle mura, lungo la via principale: si tratta di case a schiera in cui trovavano posto alcuni impianti artigianali, soprattutto legati alla produzione metallurgica, e botteghe. Ricchissima e assai variegata è la tipologia dei materiali rinvenuti, che fornisce un quadro preciso delle attività svolte nella città, ma anche degli ampi rapporti commerciali sia con le zone limitrofe, sia con realtà geograficamente distanti, quali la Spagna e la Francia. Le particolari modalità di formazione del deposito archeologico hanno fatto sí che la fase della città meglio conservata sia quella di età comunale, che ha visto una grande fase di ristrutturazione del tessuto urbano che ha di fatto fortemente compromesso le testimonianze relative alle fasi altomedievali legate al momento della fondazione.

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Promosso e diretto dalla cattedra di archeologia medievale della Sapienza Università di Roma, il progetto Leopoli-Cencelle, una città di fondazione papale è stato avviato nel 1994, dapprima in regime di concessione di scavo da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, tramutatosi poi, dal 2003, in regime di convenzione (stilata fra il MiBAC-Direzione Generale per i Beni Archeologici e Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e il Dipartimento di scienze storiche, archeologiche e antropologiche dell’antichità della Sapienza Università di Roma, rinnovata fra il MiBAC-Direzione Regionale del Lazio e il Dipartimento di Scienze dell’Antichità della medesima Università). Il progetto si è avvalso sin dall’inizio della partecipazione dell’Università «G. D’Annunzio» di Chieti, per i primi anni dell’École Française de Rome e per brevi periodi dell’Università della Tuscia (Viterbo) e dell’Università di Perugia.

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A sinistra un tratto delle mura che cingevano la città fin dalla sua fondazione, in gran parte ristrutturate tra il XII e XIII sec. A destra resti del fonte battesimale collocato in una navata laterale della chiesa di S. Pietro.

ne di fatto ricostruito, inglobando quanto rimaneva delle mura leonine, e potenziandolo con l’aggiunta di torri e di camminamenti di ronda. L’apertura di un’altra porta, probabilmente quella occidentale, che si affianca alle due originarie a est e a sud, oltre ad attestare le aumentate necessità di interrelazione tra la città e il territorio circostante, è forse anche l’indizio del piú generale riassetto della rete stradale interna. Il nuovo impianto si caratterizza per il ridisegno dell’area sommitale della collina, che si configura come spazio centrale, la platea comunis, sulla quale si fronteggiano la principale chiesa urbana e l’isolato destinato ai palazzi del potere civile. Nel XII secolo la chiesa viene integralmente ricostruita, mutandone l’orientamento, in modo da porre la facciata in rapporto diretto con lo spazio pubblico. Il grandioso progetto, sicuramente avviato nel 1108, quando viene fatta dal vescovo di Tuscania un’offerta al capitolo di Cencelle «ad templum edificandum», prevedeva un impianto a tre navate concluse da altrettante absidi, presbiterio rialzato e sottostante cripta, che si estendevano al di fuori del circuito murario, ponendosi come elemento di impatto paesaggistico di particolare rilevanza, ben visibile a chi si avvicinava Nella pagina accanto, in basso la chiesa romanica di S. Pietro in corso di scavo.

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alla città. In questo momento la dignità diocesana di Cencelle non è attestata in modo continuativo, ma è comunque accertata la presenza di un clero stabile, cosí come risulta incrementato il numero degli edifici di culto presenti in città. Alla fine del XII secolo è attestata una chiesa dedicata a sant’Andrea, al momento non localizzata, e una chiesa di S. Giacomo, quest’ultima citata in relazione con particolari avvenimenti pubblici della vita cittadina, e pertanto probabilmente da ricercare non lontano dall’area centrale dell’insediamento. Tra XII e XIII secolo si va configurando anche l’isolato, sul lato opposto alla chiesa di S. Pietro, occupato dagli edifici pubblici.

Potere laico

A partire dal 1220 sono attestate a Cencelle diverse magistrature cittadine, che indicano lo sviluppo di un’autorità civile laica a capo della comunità. Nel 1245 e nel 1264 è ricordato il podestà. Le fonti fanno riferimento a un palatium comunis nel 1360, ma già nel 1290 è documentata in città una platea comunis nella quale si riunisce il consiglio cittadino. La sua ubicazione è stata ipotizzata sulla sommità dell’altura, di fronte alla basilica romanica, secondo modalità piuttosto comuni nelle città medievali. In quest’area gli scavi hanno riportato alla luce un complesso articolato, formato

da diversi corpi di fabbrica, che, tra la metà e la seconda metà XIV secolo, hanno avuto un’ultima fase di ristrutturazione, che ne ha unito le diverse parti, sancendo la fine di un lungo e complesso processo di formazione, avviatosi probabilmente nel XII secolo. Le tipologie architettoniche e le modalità costruttive portano ad attribuire questi interventi a una committenza elevata, che ben si potrebbe riconoscere nella classe che in quel momento riveste un importante ruolo economico e che comincia a gestire politicamente e amministrativamente la città. Questo rende il caso di Cencelle assimilabile a quello di molte altre città medievali nelle quali la sede del potere pubblico si organizza secondo un progressivo aggregarsi di edifici, alcuni anche privati, il cui sviluppo va di pari passo con quello delle istituzioni pubbliche. Nel 1349 Cencelle possiede un catasto urbano, e l’esistenza di questo strumento fiscale, ma in certo qual modo anche urbanistico, è l’indizio di una precisa attenzione posta dall’autorità pubblica alla gestione e al rispetto dello spazio urbano. Anche il sistema di approvvigionamento idrico fu molto probabilmente restaurato e potenziato per rispondere alle aumentate esigenze della popolazione, non solo per l’uso civile, ma anche per le necessità delle attività artigianali

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storie leopoli-cencelle La mostra

Due papi e un sindaco «guidano» la visita Ospitata nella magnifica cornice dei Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali, l’esposizione dedicata a Leopoli-Cencelle coniuga rigore scientifico e fascino della scoperta di una realtà lontana, e ancora in gran parte da svelare. La mostra vuole guidare alla conoscenza della nascita e dello sviluppo di una città medievale attraverso la ricchissima documentazione archeologia di Cencelle, centro altolaziale (Tarquinia, VT) fondato alla metà del IX secolo e sopravvissuto, con alterne vicende, fino al XV secolo. «Guidati» da papa Leone IV, fondatore di Leopoli, e dal suo successore Benedetto III, i visitatori possono vedere i resti della città altomedievale, fondata su un centro etrusco, come testimoniato da un sarcofago recentemente rinvenuto ed esposto in mostra. Nel successivo sviluppo della città comunale, tra il XII e il XIII secolo, è Enricus de Accettante, sindaco di Cencelle – come ora si chiama il centro urbano – l’ospite nel percorso che conduce attraverso le diverse attività che animano il piccolo centro urbano.

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Il ceramista Benencasa; i fabbri Guarnerio e Matteo; i mugnai Martino, Guidetto, Guido e Benencasa; Enrico il calzolaio; gli osti Giovanni, Adamo, Ranaldo; il campanario Guido e il menestrello Ranuccio accompagnano i visitatori nelle loro botteghe e nello loro case, nella ricostruzione del contesto di vita della città e della sua forma urbana. Al termine del Medioevo, la trasformazione in tenuta agricola chiude il ciclo di una città che può essere considerata come un simbolo del Medioevo italiano.

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La mostra si articola in tre sezioni: 1. Leopoli, la città altomedievale; 2. Cencelle, la città comunale; 3. La fine di una città. I materiali esposti vengono presentati, dopo il restauro, per la prima volta: tra di essi spicca la grande iscrizione commissionata da papa Leone IV, che ornava la porta orientale della città e alcuni elementi del ricco arredo liturgico delle chiese altomedievali. Nella sezione della città comunale trovano posto alcuni elementi della decorazione architettonica del palazzo pubblico e alcuni elementi della chiesa romanica, oltre a una ricca esemplificazione dei manufatti legati ai vari aspetti della vita quotidiana del tempo.

Dove e quando «Forma e vita di una città medievale. Leopoli-Cencelle» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 27 luglio Orario tutti i giorni, 9,00-19.00; lu chiuso Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it, www.zetema.it Catalogo Fondazione CISAM, Spoleto

Sulle due pagine, dall’alto, in senso orario un particolare dell’allestimento della mostra allestita presso i Mercati di Traiano; ceramiche, staffe e ferri di cavallo; stoviglie in maiolica arcaica, decorate nei colori blu/verde e bruno.

che si svolgevano in città. L’abitato doveva essere servito da un acquedotto, i cui condotti in pietra sono stati in parte rinvenuti in scavi non controllati al di fuori dell’area urbana. A questo doveva essere connesso un sistema di cisterne a servizio delle diverse aree urbane. Dalle tipologie edilizie documentate archeologicamente in questa fase si evince la diffusione del modello casa-bottega, in cui si coniugano gli spazi destinati alla produzione e/o al commercio dei manufatti con quelli abitativi. Per quanto è possibile rilevare, queste attività si pongono preferibilmente lungo le strade che conducono alle porte urbiche, occupandole, in alcuni casi, anche parzialmente, con strutture destinate alla vendita. Grazie alla documentazione scrit-

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ta, si possono riconoscere i cittadini che dovevano vivere e svolgere le proprie attività in questo «spazio costruito», espressione di una società vivace e socialmente articolata, come ci attestano le diverse sottoscrizioni di atti pubblici del XIII secolo.

Il sindaco e gli artigiani

Tra queste, un vivace spaccato della società di Cencelle è fornito dall’atto di sottomissione della città a Viterbo del 1220. In esso, insieme al syndacus de Accetante, sottoscrivono l’atto due marchesi, un magister, un giudice, ma soprattutto una variegata e multiforme schiera di artigiani e professionisti dal Benencasa scutellarius (fabbricante di scodelle), al calcolarius (calzolaio) Henricus, ai tavernieri Adamus Balsius Iohannis, Ranaldus Iohannis e al padre Iannis, ai fabbri Matheus Alexii e Guarnerius, al campanarius Guido, ai mugnai e a Berte joculator, una sorta di impresario «del tempo libero», che doveva curare l’organizzazione delle feste e dei momenti ludici dei cittadini, i cui luoghi di lavoro e prodotti sono

stati riportati alla luce dagli scavi archeologici. Un quadro sociale e un assetto urbano che resiste e si rinnova dopo il sisma che colpí la città nel 1349, ma che entra in crisi in seguito alle trasformazioni economiche che interessano il suo territorio, soprattutto con l’inizio dello sfruttamento delle miniere di allume a partire dal XV secolo, che portò alla nascita dell’odierno centro di Allumiere. Dopo avere avuto un iniziale ruolo subalterno come tenuta funzionale alla nuova attività, la città progressivamente si spopola, riducendosi a centro di gestione della tenuta agricola che ha la sua sede nella rimodellata chiesa di S. Pietro. Il presbiterio del tempio diviene la residenza del gestore, con i suoi ricchi servizi da tavola e i pregiati pezzi romani recuperati dalle ville circostanti e pronti per essere immessi sul mercato antiquario romano, e la sottostante cripta destinata all’immagazzinamento delle derrate e alle necessità dei contadini che lavoravano nella tenuta. F

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saper vedere castel del monte

castello perfetto Nel

di Furio Cappelli

Con il suo gioco di simmetrie impostate sulla figura dell’ottagono, la «corona di pietra» di Castel del Monte è l’espressione piú felice dell’architettura federiciana. Ma qual era, nelle intenzioni dello stupor mundi, la funzione a cui lo splendido edificio doveva effettivamente assolvere?

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solato su una lieve prominenza, nel mezzo dell’altopiano pugliese delle Murge, Castel del Monte è il piú celebre dei monumenti legati alla figura di Federico II di Svevia (1220-1250; vedi anche «Medioevo» n. 161, giugno 2010; anche on line su medioevo. it). Scarne sono le informazioni sulla sua origine ed è ancora aperto e intenso il dibattito sulle finalità di un edificio cosí singolare. Affascinante per la sua cristallina definizione geometrica e per il legame con un personaggio cosí poliedrico e discusso come lo stupor mundi (celebre appellativo attribuito a Federico II dal cronista coevo Matthew Paris), il castello ha infatti ispirato una lunga e non esaurita sequela di proposte interpretative. Le posizioni piú caute cercano di ricavare quanti piú indizi dalla struttura viva dell’edificio e dalle testimonianze di chi lo ha visitato nei secoli trascorsi, mentre le ipotesi piú impegnative, speculando sui suoi aspetti generali, vi ravvisano esoterici significati nascosti, con inevitabili implicazioni fantascientifiche. Dal castello

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come residenza di lusso, padiglione di caccia o simbolica manifestazione del potere federiciano, si giunge cosí al riconoscimento di una sorta di laboratorio magico, teatro di esperimenti e riti misteriosi.

Imperatore e costruttore

È invece certo che Castel del Monte risponde alla volontà di Federico II e rientra nel sistema di insediamenti fortificati che egli promosse nel suo regno, realizzandoli ex novo (come in questo caso) o rielaborando preesistenze normanne. Con il suo ampio sistema castellare, l’imperatore dette luogo a una variegata fioritura di complessi, le cui esigenze funzionali (sede di rappresentanza, luogo di svago, presidio, magazzino per le merci) si uniscono in misura diversa alla cura degli aspetti estetici. E Castel del Monte ha senza dubbio molti legami con le altre strutture fortificate promosse da Federico II, come Castel Maniace a Siracusa o Lagopesole (Potenza), ma si distingue per la spiccata valenza monumenluglio

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tale, che tuttora si esprime nell’insieme della sua realtà architettonica cosí come nei dettagli residui della sua ornamentazione. Un solo documento ci fornisce alcuni dati sull’origine del castrum di S. Maria del Monte, nome originario del castello, derivante da un vicino monastero benedettino che dovette probabilmente chiudere i battenti quando Federico si stabilí nell’area. Orbene, il 29 gennaio 1240, mentre si trova a Gubbio, l’imperatore impartisce disposizioni straordinarie a un suo funzionario (che non era ufficialmente preposto a queste incombenze), affinché metta a disposizione il materiale edilizio necessario per il castrum «che noi vogliamo realizzare». L’informazione non permette di accertare se in quella fase il cantiere era già avviato o da avviare. La situazione organizzativa sembra comunque difficile, e il sovrano desidera che il cantiere proceda speditamente («sine mora»). Le indagini condotte sulla struttura hanno comunque stabilito che, quantomeno nell’al-

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Una veduta di Castel del Monte (Andria), il piú famoso tra i castelli fatti costruire dall’imperatore Federico II di Svevia. A oggi, non si hanno notizie certe sulla data di realizzazione dell’edificio, ma è probabile che i lavori abbiano avuto inizio nel 1240, come proverebbe la lettera inviata dall’imperatore a un suo funzionario, affinché assicuri la fornitura del materiale necessario.

lestimento degli ambienti, l’opera rimase incompiuta. Alcune pareti delle sale interne, infatti, non conservano tracce di rivestimenti in marmo. Considerando che, nelle intenzioni originarie, nessuna sala doveva mostrare per intero le pareti a facciavista, si desume cosí che il cantiere dovette a un certo punto interrompersi, o comunque tralasciare gli aspetti decorativi. E la circostanza del mancato completamento, seguendo la ricostruzione di Maria Stella Calò Mariani, si colloca bene proprio nel periodo dell’attestazione del 1240, che indicherebbe perciò la conclusione dei lavori. D’altro canto, Hubert Houben ha sottolineato che il

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saper vedere castel del monte Vieste

San Severo

Manfredonia Foggia Bovino

M A R A D R I AT I C O

Barletta Molfetta

Cerignola

Castel del Monte

Venosa

Potenza CAMPANIA

Monopoli

Altamura Matera Stigliano

BASILICATA MAR TIRRENO

Bari

Taranto Policoro

Brindisi Ostuni Grottaglie Lecce Nardò

MAR IONIO

Otranto Gallipoli

CALABRIA

Dove e quando Castel del Monte si trova nell’omonima frazione del Comune di Andria, da cui dista 18 km ed è raggiungibile in auto seguento la SS 180 Orario tutti i giorni, 10,15-19,45 (dal 1° aprile al 30 settembre); 9,00-18,30 (dal 1° ottobre al 31 marzo); chiuso a Natale e a Capodanno Info casteldelmonte.beniculturali.it

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castrum non figura in un elenco di fortificazioni reali steso nell’ottobre 1239, il che lascia bensí supporre che i lavori di costruzione fossero iniziati proprio nel 1240. Il 17 novembre 1239 Federico II aveva ordinato una drastica riduzione dei suoi programmi edilizi in Sicilia. La situazione era estremamente convulsa per via dell’acceso dissidio con le città lombarde e con il papato, che richiedeva un’incessante mobilitazione di truppe su un ampio scacchiere, con impieghi esorbitanti di denaro. L’imperatore è esplicito al riguardo: la riduzione degli impegni di spesa sul fronte dei castelli è dovuta alle numerose faccende che incombono al momento, e «il denaro ci è assai necessario».

Uno strumento di propaganda

Non si dovevano tuttavia trascurare, nelle nuove strutture già avviate, la cura degli apparati difensivi e delle coperture, per evitare i danni che potevano derivare dall’acqua piovana. Né si doveva rinunciare a completare un’opera di altissima propaganda monumentale, la scomparsa Porta di Capua, avviata nel 1234: un vero e proprio arco trionfale rinserrato tra due torri, eretto da Federico II sull’asse della via Appia in onore di se stesso, In basso il cielo inquadrato dall’ottagono del cortile. Nella pagina accanto veduta aerea del castello, la cui pianta

si compone di un ottagono perimetrale che fa corpo unico con le torri angolari, a loro volta ottagonali.

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Il sistema idrico

Acqua a volontà La presenza di un sistema idrico molto articolato, che forse culminava in una splendida vasca monumentale, è un tratto forte nella concezione del castello e non ha confronti per complessità e raffinatezza con gli analoghi sistemi di altre strutture federiciane. Una recente indagine degli architetti Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro (Manoscritto Voynich e Castel del Monte. Nuova chiave interpretativa del documento per inediti percorsi di ricerca, Gangemi, Roma 2013), ha messo in risalto questo aspetto, ravvisandovi nientemeno che la chiave interpretativa del monumento. Castel del Monte si proporrebbe come una sorta di colossale battistero laico, nel quale l’acqua rigeneratrice era in funzione della gloria e del benessere del sovrano. Gli ampi camini potevano funzionare anche come riscaldatori d’acqua associati a tubature pavimentali, e la struttura avrebbe cosí assicurato la disponibilità di acqua calda e vapore (di qui il presumibile motivo degli sfiati delle sale riscaldate, laddove si sarebbero formate in tal modo elevate quantità di umido da smaltire). Federico II si sottoponeva a cure termali e promuoveva lo studio degli effetti benefici dei bagni, ed era dunque sensibile a questi temi. I due autori si sono spinti ben oltre, e hanno proposto il riconoscimento del progetto ideale del castello. Esso sarebbe tramandato da una figura del manoscritto Voynich oggi conservato a Yale, un enigmatico

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codice quattrocentesco di carattere scientifico, che verte su temi di cosmologia, alchimia, biologia, erboristica, riconoscibili dalle immagini, ma non dal contenuto, sinora indecifrato (vedi «Medioevo» n. 168, giugno 2011; anche on line su medioevo.it) Nella figura in questione si osserva una costruzione simbolica ottagonale con torri d’angolo e una vasca centrale, laddove campeggia un sole. Qualora l’origine dell’opera fosse riconducibile all’ambiente di Federico II, per quella particolare attenzione alle scienze matematiche e naturalistiche che lí venne promossa, grazie per esempio a Leonardo Fibonacci, il sole centrale sarebbe riferibile al «Sole della giustizia» (lo stesso Federico, secondo la celebre definizione di Manfredi), e l’intera immagine costituirebbe la base ideale di Castel del Monte. La proposta, come dichiarano gli stessi autori, è del tutto ipotetica, ma la chiave di lettura del monumento, basata sulle sue evidenze, possiede una verificabile concretezza. Anche escludendo l’aggancio al manoscritto Voynich o la funzione termale delle stanze riscaldate, il riconoscimento del ruolo dell’acqua come fonte di vita in chiave laica, sotto l’aspetto medico e sotto l’aspetto trionfale, può essere risolutivo. Il complesso sistema idrico non indica infatti una semplice «esibizione tecnologica», dal momento che è intimamente connesso all’immagine e al concetto della struttura.

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saper vedere castel del monte i secoli di un capolavoro 1239 Papa Gregorio IX commina la seconda scomunica a Federico II. 1240, 29 gennaio Federico II, al momento presente a Gubbio, invia una lettera a Riccardo da Montefuscolo, giustiziere della Capitanata, affinché assicuri la fornitura di materiale per i lavori da effettuare a Castel del Monte.

1241-46 Nello Statutum de reparatione castrorum emanato da Federico II, si dispone che le popolazioni di Monopoli, Bitonto e Bitetto siano tenute alla manutenzione di Castel del Monte. La disposizione viene poi rinnovata da Carlo I d’Angiò. 1245 Rifugiatosi presso la corte di Luigi IX, Innocenzo IV indice un concilio a Lione e riconferma la scomunica a danno di Federico II. 1249 Si celebrano nel castello le nozze del conte di Caserta Riccardo con Violante, figlia naturale di Federico II.

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1250, 13 dicembre Morte in Puglia di Federico II. 1256 circa Manfredi fa incarcerare a Castel del Monte Marino da Eboli e suo figlio Riccardo, funzionari del regno accusati di tradimento, ordinando poi il loro accecamento e la loro uccisione. 1258, 23 agosto Papa Alessandro IV affida il vicino monastero benedettino di S. Maria del Monte Balneoli ai Cistercensi, dopo che l’abate e i confratelli avevano subito la «persecuzione tirannica» del «nemico della Chiesa» Federico II. 1277 Carlo I d’Angiò fa potenziare gli apparati di difesa del castello, disponendo bertesche e guardiole, e fa apporre inferriate a tutte le finestre. 1289, 4 settembre Carlo II d’Angiò dispone che un suo prigioniero recluso a Castel del Monte, il filosvevo Enrico di Castiglia, sia autorizzato a girare ogni tanto a dorso di mulo lungo il circuito murario esterno. 1299 Termina la detenzione nel castello di Enrico, Federico ed Enzo (detto Azzolino), figli di Manfredi, poi trasferiti a Napoli, in Castel dell’Ovo. Statua del re Carlo I d’Angiò, attribuita ad Arnolfo di Cambio. 1275-1277. Roma, Musei Capitolini.


Qui accanto miniatura raffigurante il trionfo di Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo, da un manoscritto latino delle Gesta Ferdinandi regis Aragonum di Lorenzo Valla. 1445-46 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

1308, marzo Il castello fa da scenario alle nozze in pompa magna del cavaliere Bertrando del Balzo con Beatrice, figlia di Carlo II d’Angiò, e vedova del marchese di Ferrara Azzo VIII d’Este. La coppia principesca elegge Castel del Monte a residenza prediletta. 1317 Roberto d’Angiò trasferisce alcuni antichi elementi scultorei di Castel del Monte alla chiesa di S. Chiara di Napoli. 1449 Re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo, prende possesso del castello e vi risiede in seguito per diversi periodi, dando luogo a feste e a ricevimenti ufficiali. 1463 Per la prima volta è attestato il nome oggi in uso di Castel del Monte, in luogo dell’originaria dizione «Castello di S. Maria del Monte». 1507 Il gran capitano Consalvo (Gonzalo) Fernàndez de Còrdoba, al servizio di re Ferdinando il Cattolico, ottiene la signoria di Andria e di Castel del Monte. 1552, 8 settembre Consalvo II, figlio del gran capitano, vende il feudo d’Andria, con l’annesso Castel del Monte, a Fabrizio Carafa conte di Ruvo. 1876 Dopo un lunghissimo periodo di abbandono, i conti Carafa rivendono Castel del Monte allo Stato italiano.

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Nella pagina accanto, a sinistra miniatura raffigurante le nozze tra Federico II e Jolanda di Brienne, da un’edizione illustrata della Nuova Cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

alle soglie del suo regno. Proprio il 17 novembre 1239 lo Svevo dispone che le torri della Porta vengano lastricate sulle terrazze terminali, e richiede la fornitura di tutto il marmo necessario all’apparato decorativo. Il 13 aprile 1240, alcuni mesi dopo l’ordine relativo a Castel del Monte, Federico II prende atto della difficile gestione dei lavori nei castelli di Trani e di Bari, e ordina la messa al riparo delle strutture già edificate. Si configura, insomma, una situazione di crisi, con una selezione degli investimenti, e in un simile scenario un monumento cosí ambizioso e impegnativo come Castel del Monte dovette assorbire energie e denari in grande quantità, a danno degli altri cantieri. E di certo, analogamente alla Porta di Capua, il castello dovette godere di una forte attenzione da parte dell’imperatore, vista la difficile congiuntura, tanto piú che l’opera era effettivamente «eccessiva» da un punto di vista strettamente strategico-militare, e anche piuttosto defilata come strumento di monito o di «propaganda». Si tratta infatti dell’unico castrum federiciano che faccia capo a sé, completamente sganciato da un centro abitato.

Federico a «Bellomonte»

A ogni modo, la prima notizia relativa a un utilizzo del castello risale al 1249, allorché fece da scenario alle nozze di Violante, figlia naturale di Federico II, con il fedele funzionario Riccardo, conte di Caserta, presente al capezzale del sovrano al momento della sua dipartita. Quanto allo stesso Federico, non si dispone di alcuna notizia su una sua permanenza a Castel del Monte, se si eccettua l’attestazione di un soggiorno avvenuto il 28 ottobre 1250 «a lo Castiello di Bellomonte», come riferisce una discussa fonte tre-quattrocentesca. La ricostruzione storica, con tutte le incertezze del caso, non può andare oltre, e solo l’edificio può dunque fornire gli unici suggerimenti sul proprio significato. L’area in cui si inserisce appare oggi brulla, ma potevano esservi aree boscate e sorgenti d’acqua conosciute da tempo, come suggerisce il toponimo Balneoli («piccoli bagni») abbinato al monastero del Monte. L’ingresso principale è perfettamente orientato a est, in direzione del mare, mentre il lato simmetrico ovest, dalla trifora del primo piano, offre una veduta sulla prediletta città di Andria: quella Andria fidelis, per citare lo stesso Federico, che, di ritorno dalla sesta crociata, nel 1229, volle omaggiare per non aver aderito a una ribellione. Nella cattedrale, per giunta, era sepolta la sua seconda

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saper vedere castel del monte In basso, a destra il portale monumentale del castello, in origine corredato sul timpano da un gruppo scultoreo in marmo, con la probabile effigie del sovrano in trono, affiancato da due illustri personaggi della corte.

Qui accanto una delle sale del piano nobile. Al di sotto della cornice, le pareti si mostrano oggi spoglie, con la semplice muratura a vista, poiché sono state private dei rivestimenti in marmo che in origine le impreziosivano.

moglie, Jolanda, figlia del re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, morta proprio ad Andria nel 1228, a cui fece seguito (dopo l’amante Bianca Lancia) Isabella d’Inghilterra, morta nel 1241 a Foggia, ma poi traslata nella stessa Andria. In definitiva, il castello sembra ideato su un asse visivo che lega la vicina città alla costa adriatica, in una sorta di posizione baricentrica, tra la terra e il mare. D’altronde, nel descrivere le coste pugliesi, un portolano (una «guida» alla navigazione) databile agli anni 1275-80 ricorda proprio Castel del Monte come punto osservabile di riferimento. Sulla terraferma, inoltre, la «corona murale» dell’edificio era perfettamente in vista percorrendo la via Traiana, ossia l’antica diramazione della via Appia che congiungeva Benevento a Brindisi, quella stessa via percorsa dal corteo funebre dello Svevo.

L’ora d’aria a dorso di mulo

Il castello, lungo il suo perimetro esterno, non era forse del tutto isolato. Si tramandano notizie di fabbricati a servizio della guarnigione, come per esempio «larghissime Scuderie». Di sicuro tutt’intorno c’era una cinta muraria. Quando, con l’avvento degli Angiò, Castel del Monte fu utilizzato come prigione (ma già Manfredi vi aveva rinchiuso due funzionari accusati di tradimento), un «ospite» ebbe la concessione di galoppare durante «l’ora d’aria» a dorso di mulo proprio lungo il muro di cinta, e alcuni anni dopo un altro carcerato riuscí a evadere, scavalcandolo senza troppi problemi. Ed è significativo che, dopo la disfatta di Manfredi, almeno fino al 1308, il castello sia ricordato esclusivamente come carcere, con particolare riguardo proprio ai figli di Manfredi (che vi soggiornarono per circa trent’anni), in una sorta di crudele nemesi storica, come suggerisce Franco Cardini. Sembra quasi che, in tal modo, già Carlo I d’Angiò volesse cancellare ogni memoria del nemico e ogni valenza trionfale dell’edificio. Ma la sontuosa magnificenza del castello, nonostante le guardiole erette sugli spalti e le grate apposte alle finestre, resisteva indiscussa, se nel 1308 Beatrice figlia di Carlo II d’Angiò, ricevuto in dote il feudo di Andria, si risposò con un certo sfarzo proprio a Castel del Monte, eleggendolo a propria residenza di corte. E un altro momento di splendore, l’ultimo nella storia del castello, si concretizzò a quanto pare nel 1449, quando passò in mano ad Alfonso V d’Aragona. Nonostante diverse vicissitudini, insomma, la struttura si prestava volentieri a essere utilizzata come reggia di lusso, e forse proprio

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nel segno dell’8

In alto uno scorcio del cortile ottagonale, sul quale si affacciano porte-finestre (in alto, a sinistra),

che, in origine, si aprivano su un ballatoio ligneo sporgente, impostato su mensole di pietra.

Il monumento in sintesi

Simbolo di un’epoca irripetibile

Qui sopra la planimetria di Castel del Monte evidenzia il ricorrere della figura dell’ottagono nell’assetto generale e nella articolazione dei diversi elementi.

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3 Perché è importante Castel del Monte è forse l’espressione piú eloquente di un sovrano di vasta cultura e di ampi orizzonti come Federico II di Svevia. È un monumento che unisce suggestioni di ogni genere, dal mondo antico e dall’universo figurativo e architettonico delle cattedrali gotiche, dall’Oriente musulmano e dall’Occidente, in una summa di straordinaria unicità. 3 Castel del Monte nella storia Rimasto incompiuto e forse mai utilizzato a fondo dal suo stesso committente, Castel del Monte è restato a lungo nell’ombra, ma ha custodito con forza la presenza ideale dello Svevo. Nonostante l’abbandono degli ultimi secoli, ha mantenuto intatto il suo fascino, riuscendo a trasmettere la sostanza di un’epoca irripetibile. 3 Castel del Monte nell’arte Castel del Monte rappresenta in modo compiuto la poliedrica ricchezza della stagione federiciana, laddove il recupero del mondo antico, l’apporto dell’arte gotica e la suggestione dell’Oriente vennero chiamati a costituire una trionfale sintesi unitaria, di enorme peso negli sviluppi dell’arte italiana ed europea.

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saper vedere castel del monte A sinistra una sala con camino monumentale, di cui si conserva parte della cappa semiconica che arriva fino alla volta. Il camino è affiancato, in alto, da due monofore e, in basso, da credenze a muro per contenere ampolle con essenze, che il calore diffondeva nell’ambiente. Nella pagina accanto, a sinistra la sala piú importante del castello, detta convenzionalmente «del trono», per via della piccola gradinata, affiancata da due sedute che servivano per ammirare il panorama dalla finestra e che, in effetti, possono ricordare la sagoma di una trono. Nella pagina accanto, a destra uno dei portali che si aprono nel cortile e immettono nelle stanze del piano terra, secondo un assetto che sembra seguire una serie di «percorsi obbligati».

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quella era la sua funzione principale, anche se attuata solo in parte, e tardivamente. Lo sfarzo degli ambienti, oggi solo in parte intuibile, è d’altra parte ancora attestato dai visitatori del Settecento, nonostante i danni e le spoliazioni che già si erano verificati. I pavimenti presentavano una decorazione a intarsio, e le volte del soffitto avevano una foderatura lignea rivestita di mosaici policromi. Gran parte delle pareti era foderata di marmi, tranne le lunette del piano superiore lavorate all’antica, in opus reticulatum, con le finiture dipinte in rosso scuro. Tuttora le riquadrature delle porte sfoggiano parati in rossa breccia corallina di provenienza locale, e si riscontra anche il riutilizzo di lastre antiche di bianco marmo cipollino. Ma, allo stato attuale, il castello è piú che altro uno «scheletro» poderoso, egregiamente realizzato in blocchi di un tipico calcare estratto dalle cave delle Murge, di colore biondo, e punteggiato da inclusi di quarzo. Cosí come nella muratura, anche nella pianta e nell’alzato esso appare rigoroso, compatto e «monolitico». L’ottagono perimetrale fa corpo unico con le otto torri, di otto lati anch’esse, anche se solo sei lati emergono dal volume esterno. Esse sono oggi delimitate sul piano della terrazza, ma forse in origine dovevano essere leggermente piú alte, emergendo cosí dal «blocco» dell’edificio. I due piani del castello, messi in comunicazione dalle scale a chiocciola alloggiate in alcune torri, hanno la

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stessa altezza e la stessa conformazione, con otto sale della medesima foggia che si corrispondono in modo quasi perfetto. Sebbene vi siano percorsi obbligati, come in una sorta di labirinto, tutte le sale sono comunicanti tramite ampie porte di raffinata fattura.

Panche, camini e credenze a muro

Le sale del primo piano (il piano nobile) sono impreziosite lungo le pareti da panche marmoree, che si articolano in gradinate e sedute assai eleganti in corrispondenza delle finestre polifore, in modo da godere comodamente della veduta esterna. I camini monumentali avevano l’alta cappa impostata su colonne, con l’architrave in rossa breccia corallina. Ai lati dei camini, sul piano nobile, si osservano poi raffinatissime credenze a muro, riquadrate in marmo, per contenere ampolle con soluzioni particolari o essenze, che potevano diffondersi nell’ambiente grazie al calore. Ed è interessante che le sale cosí riscaldate, dotate per giunta di toilette, dunque le piú confortevoli, si trovino al termine dei percorsi obbligati. Le feritoie che illuminano le torri, fungendo anche da sistema di aerazione, erano di scarsa utilità da un punto di vista difensivo. La stessa saracinesca azionabile sul grandioso ingresso principale, finiva per avere un significato puramente simbolico. Il portale, d’altronde, è esaltato dalle torri di rinfianco, ed era in origine corredato sul timpano da un gruppo scultoreo in marmo,

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Nella pagina accanto l’interno di una torre del castello, in cui si sviluppa una delle scale a chiocciola che mettono in comunicazione i due piani dell’edificio.

con la probabile effigie classicheggiante del sovrano in trono, affiancato da due illustri personaggi della corte. Assumeva dunque una valenza trionfale, in chiara corrispondenza con la Porta di Capua. E proprio la decorazione scultorea di altissima fattura, ancora oggi riscontrabile su larga parte degli ambienti interni (compresi alcuni vani delle torri), dà la misura della forte componente estetica dell’edificio. Maggiormente elaborato al primo piano, il corredo decorativo si sviluppa lungo i sistemi di copertura a volta, con un’ampia schiera di capitelli e di fioroni variamente elaborati, a cui si affianca un prezioso repertorio di rilievi figurati, sulle chiavi delle volte stesse o sulle mensole di sostegno: maschere e telamoni che attingono al repertorio delle cattedrali gotiche con uno spirito classico tipicamente federiciano, componendo nel loro insieme un vivace gioco di movenze e di espressioni, talvolta con esplicita allusione al riso, come si conviene alla gioia di un ambiente di corte.

La fontana perduta

Impressionante e quasi compiaciuto, poi, è il complesso sistema idrico della struttura, con tubature di carico e scarico in pietra, argilla, rame, sfiati e sgocciolatoi, cisterne pensili sulle torri, cisterne sotterranee, toilette e lavabi (vedi box a p. 67). Il grande apparato di conduzione era visivamente imperniato su una perduta struttura situata al centro del cortile: una grande fontana a getto, alimentata dalle acque che giungevano dalla terrazza o dalle cisterne pensili, tramandata anche come vasca ottagonale, con una panca che correva lungo il suo perimetro interno. Proprio la presenza di un sedile a contatto dell’acqua indicherebbe una struttura di svago, pensata per i bagni degli illustri ospiti del castello, prima ancora che per l’approvvigionamento di una guarnigione. Le porte-finestre che si affacciano sul cortile, di elegante fattura, davano poi su un ballatoio ligneo sporgente, impostato su mensole di pietra. Grazie a questa struttura, accessibile da tre sale, il piano nobile era dotato di un balcone che correva lungo tutto il perimetro, con vista sulla scenografica fontana al centro del cortile. Per tentare una spiegazione di Castel del Monte si è spesso fatto ricorso a confronti del tutto plausibili con esperienze analoghe, vicine e lontane, ma nessun aggancio è apparso mai risolutivo. Ogni volta il castello sfugge a qualsiasi classificazione, visto che è stato realizzato proprio per essere un’opera unica, fascinosa e irripetibile, come unico è il carisma del suo committente. Indubbio è il valore simbolico dell’ottagono, come figura mediatrice tra il cielo (il cerchio) e la terra (il quadrato), secondo un’iconologia architettonica elaborata già nei mausolei imperiali di epoca tardo-antica, e

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in seguito diffusa in edifici di ogni genere, dai battisteri alle torri campanarie o difensive, in Oriente e in Occidente. Elaborato con una simile solennità, l’ottagono rimanda senz’altro alla Cappella palatina di Aquisgrana, dove Federico II fu incoronato re di Germania (1215), o alla Cupola della Roccia di Gerusalemme (vedi «Medioevo» n. 158, marzo 2010; anche on line su medioevo. it), che il sovrano ebbe modo di visitare durante la sesta crociata (1229).

Echi della Baghdad dei califfi

D’altro canto, il concetto della residenza come luogo di benessere e di delizia (solatium), secondo un’antichissima tradizione persiana mediata dal mondo arabo, era già ben presente nella Sicilia normanna, come tuttora ricorda la Zisa di Palermo (1164-1180), con le sue decorazioni musive e i suoi giochi d’acqua. E sono molti gli indizi che suggeriscono un aggancio con i palazzi nordafricani dei secoli X-XII, come, per esempio, il concetto «labirintico» dei percorsi o la rigorosa struttura simmetrica intorno a un cortile, secondo schemi che risalgono in parte all’edilizia residenziale dei califfi abbasidi di Baghdad. È peraltro proverbiale l’apertura di Federico II verso la cultura araba, come pure l’abilità diplomatica con cui strinse l’accordo di pace con il sultano del Cairo al-Kamil (febbraio 1229). Troppo vasto e ridondante per essere una semplice domus dedicata agli svaghi del sovrano, troppo isolato e sontuoso per essere la semplice sede di un presidio militare, Castel del Monte è una residenza fortificata che doveva stare molto a cuore a Federico II, per una serie di componenti simboliche e funzionali intrecciate in modo indissolubile: è, al tempo stesso, luogo di delizie e manifestazione «intima» di potere, in una località isolata tra la terra e il mare, nel cuore dell’amata Puglia. Pensato forse, in prima battuta, per l’otium del sovrano, per fastosi ricevimenti, come pure per mettere in soggezione ambasciatori e prigionieri di lusso, Castel del Monte è comunque, nel suo affascinante ed enigmatico complesso, l’effigie piú potente dello stupor mundi. F

Da leggere U Antonio Cadei, Castel del

U Maria Stella Calò Mariani,

Monte, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993; anche on line su treccani.it U Raffaele Licinio, Federico II e gli impianti castellari, in Aa. Vv., Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, De Luca, Roma 1995; pp. 63-68

Raffaella Cassano (a cura di), Federico II. Immagine e potere, Marsilio, Venezia 1995 U Franco Cardini, Castel del Monte, Il Mulino, Bologna 2000 U Hubert Houben, Castel del Monte, in Federiciana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005; anche on line su treccani.it

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di Chiara Mercuri

Missione

Europa L’editto promulgato da Costantino nel 313 diede un contributo decisivo alla diffusione del cristianesimo. Tuttavia, l’affermazione della nuova fede fu spesso lenta e, in molti casi, venne duramente osteggiata. Ma chi furono i protagonisti di un’opera di evangelizzazione che investí l’intero continente europeo nei primi secoli del Medioevo?

Pannelli in avorio decorati a rilievo facenti parte del rivestimento di un cofanetto. 430 circa. Londra, The British Museum. In alto san Pietro (secondo da destra) resuscita Tabita, che si solleva dal letto e gli afferra la mano. In basso san Paolo conversa con Tecla (a sinistra), una vergine di Iconio che si convertí al cristianesimo grazie alle predicazioni dell’apostolo; nella seconda scena, la lapidazione di san Paolo.


Dossier

L L’

immagine di un Medioevo europeo omogeneo e unitario è da sempre legata a una comune radice religiosa dei popoli del continente. L’Europa medievale appare come un territorio abitato interamente da cristiani, divisi al proprio interno solo dalla tripartizione tradizionale fra oratores, bellatores e laboratores (religiosi, guerrieri e contadini). L’aspetto stesso dei borghi cittadini o rurali dell’epoca rafforza tale impressione: villaggi, piú o meno sviluppati, sempre dominati da una grande chiesa, punto d’aggregazione per eccellenza delle comunità. L’idea che il Medioevo europeo abbia avuto la forma di una distesa di «terra cristiana» è anche frutto dell’omogeneità istituzionale garantita dalla presenza dell’impero – prima carolingio e poi germanico – e del papato di Roma. Ciò ha indubbiamente avuto un riflesso anche sul piano religioso, dando luogo a un’assoluta uniformità confessionale, interrotta, qua e là, solo dalla presenza delle comunità ebraiche (numerose, ma quasi sempre ristrette per numero) e dalla presenza araba, avvertita come una minaccia incombente dal Mediterraneo. Se si escludono gli Ebrei e i musulmani, dunque, l’Europa medievale è costituita da un «universo di cristiani», la cui unità venne spezzata solo dal suo interno, nel 1054, quando Chiesa orientale (ortodossa) e Chiesa occidentale si scissero. Tuttavia, sebbene l’Europa medievale abbia effettivamente conosciuto aspetti culturali e religiosi omogenei, fondati sulla comune religione cristiana, il processo di cristianizzazione del continente fu lento e difficile. Fino agli inizi del XII secolo, per esempio, lungo la frastagliata costa compresa tra la Germania settentrionale e il Golfo di Botnia (tra Finlandia e Svezia) non era ancora stata eretta neppure una singola chiesa; e fino alla metà del XIII secolo diverse popolazioni, dalla Svezia meridionale alle regioni a nord dell’Ucraina, combatterono strenuamente per conservare

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la religione dei loro antenati. La cristianizzazione fu un processo secolare, che conobbe accelerazioni improvvise, ma anche momenti di stasi o di retrocessione. Solo dopo il Mille, il segno della croce riuscí a diffondersi quasi ovunque, dalla Bulgaria alla Finlandia, dagli Urali alle sponde gelate dell’Islanda.

La scelta di Costantino

La prima fase della cristianizzazione in Europa coincise con il declino dell’impero romano. Sin dalla fine del I secolo, il cristianesimo era penetrato all’interno delle comunità giudaiche, per poi allargarsi, nel II,

alle comunità grecofone, soprattutto del Mediterraneo orientale e delle principali città d’Occidente. Conobbe un’intensa fase di espansione nel III secolo, quando fu perseguitato in modo meno sporadico dalle autorità romane e, all’inizio del IV, quando il nuovo imperatore, Costantino, decise di accettarlo tra le religioni tollerate ed emise a tal fine il famoso editto di Milano (313). Solo verso la fine dello stesso IV secolo, però – con l’imperatore Teodosio –, il cristianesimo divenne religione di Stato e le istituzioni pagane iniziarono a essere perseguitate. luglio

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Nella pagina accanto una pagina del Codex Argenteus, un’edizione manoscritta del Nuovo Testamento tradotto in lingua gotica e trascritto su pergamena color porpora in caratteri d’argento e d’oro (crisografia). Inizi del VI sec. Uppsala, Biblioteca Universitaria. Parte della traduzione viene attribuita a Ulfila, sacerdote goto di fede ariana. In basso vetro dorato con i profili di Pietro e Paolo (Concordia Apostolorum). Seconda metà del IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

In questi decenni, ovunque nell’impero, vaste masse si convertirono. Nel IV secolo, infatti, pur essendo molto diffuso in Oriente e nel Nord Africa, il cristianesimo rimaneva minoritario in Occidente; solo nel V secolo, all’incirca cento anni dopo Costantino, esso divenne maggioritario tra tutti gli abitanti dell’impero. La crisi dell’impero occidentale e l’afflusso di nuove popolazioni – germaniche e asiatiche – che immigravano spesso violentemente all’interno dei suoi confini, crearono nuove complicazioni. Alcune di queste genti erano pagane, mentre altre erano già entrate in contatto col cristianesimo. Era il caso, tra gli altri, dei Visigoti, degli Ostrogoti e dei Vandali. I missionari che li avevano convertiti, però, rappresentavano spesso posizioni eterodosse, come quelli che convertirono i Visigoti e le altre popolazioni germaniche. Costoro seguivano la dottrina di Ario, il quale metteva in discussione la divinità della figura di Cristo, considerandolo dotato di sola natura umana. Un sacerdote goto aderente a tale credo, di nome Ulfila, alla metà del IV secolo tradusse per la prima volta la Bibbia in lingua gotica e la dottrina ariana penetrò cosí in

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profondità tra le popolazioni germaniche convertite. Tale conversione, che avrebbe potuto favorire l’integrazione dei nuovi popoli, si rivelò invece un limite, poiché, nel frattempo, il credo ariano (inizialmente diffuso tra il ceto dirigente romano) fu dichiarato eretico. Quando Goti, Vandali e altri popoli ariani si insediarono in seno all’impero, lo fecero dunque come seguaci di un credo ritenuto eretico dalla popolazione a essi soggetta. Quest’ultima infatti era di credo ortodosso o «niceno» (dal concilio tenutosi a Nicea nel 325, duran-

te il quale Ario fu condannato). Il cristianesimo niceno, inoltre, univa il mondo romano orientale e occidentale, e ciò ingenerava, verso i regnanti di stirpe germanica, sospetti e timori. Da ciò derivarono scontri e incomprensioni e perfino – come nel regno vandalo che si stabilí in Africa settentrionale – vere e proprie persecuzioni contro la popolazione romanza. La prima opera di missione e conversione organizzata dalla Chiesa fu quindi diretta nei

confronti degli ariani. Si procedette a una graduale operazione di conversione delle élite germaniche, via via che esse s’integravano con le popolazioni romanze.

Un battesimo eccellente

Ma la stagione delle invasioni aveva portato verso Occidente anche popolazioni del tutto pagane, come per esempio i Franchi: la loro conversione avvenne quindi direttamente dal paganesimo, mediante il battesimo del giovane re Clodoveo (vedi box a p. 81). Grazie al sistema di potere di derivazione tribale, la conversione del capo alla nuova fede determinava quella dell’intero popolo. Una volta abbracciata la fede cristiana, i Franchi, alleati con le armate romane della Gallia, iniziarono a combattere i Visigoti ariani, fino a cacciarli via dalla futura Francia; con il risultato di essere perciò considerati i paladini della nuova religione. Diverso fu il caso di una delle ultime popolazioni germaniche giunte in Occidente: i Longobardi. Sebbene convertiti – formalmente – al credo ariano, essi avevano mantenuto uno stretto rapporto con le divinità del pantheon pagano germanico. L’arianesimo era diventato parte della loro identità e base del loro orgoglio etnico; cosí, quando s’impadronirono di gran parte dell’Italia, nel 568, non si mostrarono affatto interessati alla «nuova» conversione. Alla fine del VI secolo, quando perfino i Visigoti di Spagna avevano abbandonato l’arianesimo con re Reccaredo, papa Gregorio Magno (590-604) sperò invece nel successo di una loro conversione, tramite la regina longobarda Teodolinda, cattolica in quanto bavara di nascita (i Bavari erano un po-

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Dossier Diffusione della Chiesa primitiva Comunità intorno al 600 Adalberto 1049

Oceano Atlantico

Diffusione della Chiesa in Occidente fino al 700 fino all’800 fino al 1054

Vilfrido 678 Willibrord 690 Bonifacio 716

Lago Onega

Colombano 563

fino all’800 fino al 1054 Volga

Missioni B Bizantine Romane R FFranche

Adalberto di Praga 983-997

Patrizio 432

Colombano 590

Diffusione della Chiesa in Oriente

Lago Ladoga

n Do

Canterbury

T Tedesche I Irlandesi Anglosassoni A

Rouen

Treviri

Kijev

Tours Bordeaux

Braga

Milano Aquileia

Metodio 869

Toledo Tarragona

Ravenna Roma

Siviglia

Cagliari

Spalato

Nicomedia Neocesarea

Durazzo

Traianopoli

Mar

Efeso Tunisi

M

Pessinus Tarso Side

Anazarbus Antiochia

ri

Fès

Cherson Mar Nero

Tig

Tangeri

Mar Caspio

Cirillo e Metodio 864

Eufrate

e d i t e r r a n e o

Gerusalemme

Cirene Alessandria

In alto carta della diffusione della religione cristiana e delle principali direttrici seguite dall’attività dei missionari. A sinistra gruppo raffigurante la Crocifissione, dal Balhorner Feld (Paderborn). IX sec. Münster, LWL-Archäologie für Westfalen.

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polo forse discendente dai Marcomanni, che s’insediò nell’odierna Baviera fra il 488 e il 526, n.d.r.). Il processo di conversione però avanzò lentamente, poiché i Longobardi vedevano nella Chiesa di Roma un alleato degli odiati Bizantini, ai quali contendevano la Penisola. Solo tra la seconda metà del VII e l’inizio dell’VIII secolo, essi abbandonarono – per ultimi – la dottrina di Ario, accettando il credo di Roma. In altre regioni d’Europa, intanto, l’afflusso di popolazioni germaniche pagane aveva provocato un processo di vera e propria scristianizzazione. Era il caso della Britannia, invasa nella prima metà del V secolo da Angli e Sassoni. Essi avevano sottomesso la popolazione britanno-romana, cancellando progressivamente la presenza della luglio

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La conversione di Clodoveo

«Rifiutiamo gli dèi mortali!» La conversione al cattolicesimo di Clodoveo, re dei Franchi, rappresenta un evento capitale nella storia della Francia. Nel 496, dopo la caduta dell’impero romano, la Gallia era stata in gran parte occupata dai Visigoti, che aderivano all’eresia ariana. Guidata dai suoi vescovi, la popolazione gallo-romana, maggioritaria, sopportava malvolentieri la dominazione visigota, che spesso reprimeva il clero cattolico. Nel Nord-Est della Gallia si stava sviluppando il regno dei Franchi, una popolazione germanica ancora pagana, propensa all’integrazione con le locali genti gallo-romane. Fu cosí che, secondo il racconto dell’Historia Francorum di Gregorio di Tours, Remigio, vescovo della città di Reims, tentò di avvicinare il giovane re franco, Clodoveo: «Giunto presso di lui, il vescovo cominciò con delicatezza a chiedergli che credesse nel vero Dio, creatore del cielo e della terra, e che abbandonasse gli idoli, i quali non potevano giovare né a lui né ad altri. Ma Clodoveo rispose: “Io ti ascolto volentieri, santo padre; ma l’esercito, che mi segue in tutto, non rinuncerebbe agli dei (...); se vuoi, tuttavia, andrò tra loro e dirò quanto m’hai detto”». «Quando Clodoveo fu tra i suoi, prima ancora che potesse parlare, trovò l’intero esercito che lo acclamava e cosí ripeteva: “Rifiutiamo gli dèi mortali! Siamo pronti a seguire il Dio che Remigio predica come immortale!”. Tutto ciò era avvenuto perché la potenza di Dio lo aveva preceduto (...) Allora il re chiese a Remigio di essere

battezzato per primo. S’avvicinò al lavacro come un nuovo Costantino, per cancellare il morbo della lebbra antica, per sciogliere in un’acqua fresca le macchie createsi lontano nel tempo. E quando il re fu davanti alla vasca battesimale, Remigio gli disse con parole solenni: “Piega tranquillo il tuo capo: adora quello che hai bruciato, brucia quello che hai adorato”». La conversione di Clodoveo e la raggiunta unità d’intenti

Miniatura raffigurante il battesimo di Clodoveo, re dei Franchi, celebrato da san Remigio, vescovo di Tours, da Les Grands Croniques de France. XIV sec. Castres, Bibliothéque municipale.

tra la popolazione gallo-romana e i guerrieri franchi provocarono la sconfitta dei Visigoti, che furono cacciati in Spagna dopo la battaglia di Vouillé, combattuta nel 507. La Gallia finí presto unita sotto lo scettro franco: nasceva cosí la Francia.

La scelta religiosa di Clodoveo diede un contributo decisivo al processo di formazione della Francia MEDIOEVO

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Dossier Il viaggio di Colombano

La peregrinatio pro Christo Colombano nacque intorno all’anno 543 nel Sud-Est dell’Irlanda ed entrò giovane nel monastero di Bangor. Fino ai cinquant’anni praticò una vita di preghiera, ascesi e studio, finché decise di compiere una «peregrinatio pro Christo», diventare cioè pellegrino per Cristo, iniziando con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Si recò innanzitutto nella Francia settentrionale, dove popolazioni un tempo cristianizzate erano scivolate nuovamente nel paganesimo. Intorno al 590, Colombano e i compagni approdarono sulla costa bretone e, spintisi all’interno, ottennero dal re dei Franchi l’antica fortezza romana di Annegray (oggi nell’Alta Saona, Francia nord-orientale), da tempo abbandonata. In pochi mesi v’insediarono un primo eremo, da cui iniziarono l’opera di evangelizzazione, attirando a sé anche numerosi giovani. Per tale ragione fu costruito un vero e proprio monastero, nato presso le rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Esso divenne poi il centro d’irradiazione missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Entrati in contrasto con i re locali, Colombano e i compagni s’imbarcarono sul Reno e, risalendo il fiume, s’impegnarono in nuove missioni. Dopo una prima tappa presso il lago di Zurigo, si recarono nella regione del lago di Costanza per convertire gli Alamanni. Colombano decise poi di attraversare le Alpi, seguito dalla maggior parte dei discepoli. In Svizzera restò solo uno dei suoi monaci, Gallus, dal cui eremo si sviluppò la famosa abbazia di San Gallo. Giunto in Italia settentrionale, Colombano ottenne dal re longobardo Agilulfo – marito della cattolica Teodolinda – un terreno a Bobbio, nella valle del Trebbia, dove, intorno al 612, fondò un monastero che divenne in seguito uno dei piú importanti centri culturali europei. Proprio qui morí il 23 novembre 615. Qui accanto Bobbio (Piacenza), abbazia di S. Colombano. Particolare del rilievo che orna il sarcofago del santo irlandese, scolpito nel 1480 da Giovanni de Patriarcis da Milano, in cui lo si vede con un modellino della cittadina emiliana.

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Chiesa, che intorno al 430, era riuscita – grazie a una missione guidata dal monaco Patrizio – a convertire gran parte della popolazione celtica che abitava l’Irlanda. Un fenomeno simile – di regressione dal cristianesimo – aveva colpito la Gallia settentrionale e l’area tra Belgio e Germania del Nord, presso cui si erano insediate popolazioni germaniche e celtiche in maggioranza pagane.

Lo sconcerto del papa

Le biografie di Gregorio Magno riportano l’episodio secondo il quale il papa fu sconvolto nel vedere, in un mercato romano, giovani anglosassoni venduti come schiavi, in quanto pagani: secondo i biografi, tale evento sarebbe stato all’origine della missione in Britannia. Nel 597, Agostino, con quaranta confratelli, fu inviato nel Kent. La missione portò alla conversione del re Ethelbert, il quale accettò il battesimo nel 601, an-

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A sinistra due pagine dell’Evangeliario di Cadmug, manoscritto d’origine irlandese trasferito a Fulda (Germania) da Vinifredo (poi Bonifacio) del Wessex. 701-715. Fulda, Hessisches Landesbibliothek. In basso placca aurea di produzione merovingia con il Santo Volto. VII-VIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

invece annoverare quei missionari che scelsero di recarsi nelle regioni piú pericolose e inesplorate del continente: Wynfrith (Vinifredo) del Wessex ottenne di recarsi tra i Frisoni, i Turingi e i Sassoni, nel Nord dell’Europa. A Roma lo stesso Vinifredo, nobile per nascita, ricevette la carica di vescovo missionario e, cambiato il suo nome in Bonifacio, nel 726 si recò tra i Turingi. Bonifacio adottò uno stile, per cosí dire, piú sbrigativo di quello che aveva contraddistinto Patrizio in Irlanda o Agostino in Inghilterra. Patrizio aveva combattuto vere e proprie battaglie «magiche» con i druidi celtici per convincerli della potenza del Dio cristiano, mentre Agostino aveva puntato sulla cultura e la pazienza dei monaci per affascinare

che se l’isola – divisa tra piccoli regni in lite tra di loro – si poté dire del tutto cristianizzata solo intorno al 750, grazie alla massiccia opera missionaria dei monaci irlandesi. E proprio tra Irlandesi e Anglosassoni si diffuse in quei secoli una vera e propria febbre missionaria. L’Irlanda divenne la terra d’elezione dei monaci e da essa partirono numerose missioni indirizzate in tutta Europa, tra cui quella di san Colombano, il quale operò sul continente tra 590 e 613, fondando importanti monasteri in aree abitate da pagani: Luxeil, nella Francia orientale; San Gallo, in Svizzera; e Bobbio, nell’Italia settentrionale. Si trattava, nei tre casi citati, di aree in cui ariani e cristiani dovevano essere rievangelizzati (vedi box alla pagina precedente). Tra gli Anglosassoni si devono

i bellicosi ma ingenui re anglosassoni. Bonifacio, invece, s’insediò tra le popolazioni da convertire predicando con veemenza contro la «superstitio»: indomito, fece sradicare alberi sacri, abbattere statue e distruggere idoli (vedi box alle pp. 88-89). Se in alcuni casi ebbe successo, la sua predicazione provocò quasi ovunque reazioni violente, tanto che Bonifacio finí con l’essere ucciso dai Frisoni nel 754. Altre missioni anglosassoni co-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

CLOGHER ARMAGH ARDAGH TRIM KILDARE SLETTY

GLENDALOUGH FERNS

S. ASAPH

AMBURGO

BANGOR

EMLY

LICHFIELD ST DAVIS

HEREFORD

LEICESTER

BREMA VERDEN

ELMHAM

WORCESTER DORCHESTER

DUNWICH

UTRECHT

BARKING ROCHESTER

WINCHESTER

CANTERBURY

Monasteri fondati dal 590 al 640 Dal 641 al 660 Dal 661 al 680 Dal 681 al 730 Vescovadi fondati da Carlo Magno Vescovadi fondati da Ludovico il Pio Vescovadi fondati o riorganizzati da Bonifacio Vescovadi anglosassoni Vescovadi celtici Itinerario di Colombano

MINDEN HILDESHEIM

Gand, St-Pierre

Roermond St. Truiden COLONIA BÜRABURG Nivelles St-Omer Montreuil-sur-Mer Aubigny Andenne St-Riquer St-Amand MAGONZA Stavelot-Malmedy St-Valery Péronne Arras, St-Vaast St-Quentin St-Saëns Fécamp WORMS Barisis-au-Bois TREVIRI Logium Montivillers WÜRZBURG Laon, Ste-Salaberga Noyon S PIRA Soissons Jumièges Coutance Beaulieu Chelles Reuil Jouarre Wissenburg Rebaist STRASBURGO Parigi Breuil Marmoutier St-MaurFaremoutier Orbais Bonmoutier Honau des-Fossès Lagny Senones Montierender Troyes Ebersmüster St Dié Sens Moutiers en Puisaye Remiremont St Pierre St Trudpert Fontaine Basilea Fleury-sur-Loire Bregenz Säckingen Luxeuil Lure Indre St. Ursitz S. Gallo Bourges Noirmoutier Jouet, St-Aubois Bèze Cusance Navence Besançon Grandfelden Nevers St-Cyran Charenton Flavigny Baulmes St-AmandNouaillé Disentis de-Montron St-Benoit-de-Quinçai Mazerolles SELSEY

BODMIN

OSNABRÜCK MÜNSTER

Solignac Royat Brageac

Manglieu

Cahors, St-Amant Moissac

nobbero maggiore fortuna, anche se, in realtà, fu l’espansione militare dei Franchi verso est a costringere, con la forza delle armi, Sassoni e Turingi alla conversione. Per Carlo Magno il rifiuto equivaleva alla morte. Fu cosí che in età carolingia la conversione forzata prese il posto dell’approccio missionario e, di conseguenza, furono frequenti le rivolte pagane in funzione antifranca, come in Carinzia e in Sassonia. Tuttavia, almeno in un secondo tempo, l’impero carolingio si fece

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promotore del riordino delle diocesi e dei riti, stimolando anche la nascita di chiese locali.

Un impero cristiano

Alla fine di tale processo, le regioni che erano state convertite con la sola forza delle armi poterono sviluppare una propria gerarchia religiosa, favorendo, cosí, da un lato, l’unificazione dell’area germanica all’interno dell’impero, e, dall’altro, l’evangelizzazione e l’acculturazione di popolazioni che non avevano

Bobbio Douzère Grasellus

mai conosciuto la cultura cristiana d’impronta greco-romana. Non a caso, di lí a poco, la Sassonia si trasformò nel cuore amministrativo e militare del Sacro Romano Impero. Si assistette cosí alla creazione di un grande impero europeo cristiano in Occidente. Nel continente rimanevano, però, ancora due sterminate aree pagane: l’Oriente slavo e il Nord scandinavo. Gli Slavi, un insieme variegato di popolazioni indoeuropee, si erano messi in movimento verso ovest luglio

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OSTERWIEK

ERFURT

EICHSTÄTT

RATISBONA PASSAU Weltenburg

FRISINGA

In alto Il sermone di san Bonifacio, olio su tela di Alfred Rethel. 1835. Aachen, SuermondtLudwig-Museum. A sinistra le fondazioni missionarie irlandesi e anglosassoni in Europa.

a seguito della pressione esercitata da gruppi di cavalieri nomadi asiatici; la stessa che aveva provocato, molti decenni prima, l’invasione dell’impero romano da parte delle popolazioni germaniche. Gli Slavi avevano preso il posto dei Germani, mano a mano che essi si erano spostati verso occidente, andando cosí a occupare vaste aree dell’Europa orientale. I cavalieri asiatici – guerrieri razziatori – li incalzavano in modo incessante, costringendoli a sot-

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tomettersi, come a lungo avevano fatto con le tribú germaniche. Tale pressione era esercitata in particolare nell’area dei Carpazi, e i movimenti di queste popolazioni sfociarono, alla fine del VI secolo, in una serie d’invasioni: due gruppi di guerrieri asiatici di stirpe turcomongolica – i Bulgari e gli Avari – si spostarono verso sud e verso ovest, occupando, rispettivamente, la Tracia e la Pannonia.

L’ondata slava

Nel corso dello stesso processo, una grande moltitudine di Slavi dilagò verso occidente, giungendo fino alle Alpi orientali e al cuore delle foreste germaniche. A quel punto i villaggi slavi occupavano un’area che si estendeva dalle pianure del Volga e del Don fino alle regioni abitate a Occidente dai Tedeschi e a Nord dagli Scandinavi. Nei Balcani, i cavalieri bulgari stabilirono presto rapporti con i Bizantini e sottomisero parte delle popolazioni slave che si erano appena insediate nell’area.

Il pericolo maggiore era tuttavia costituito dagli Avari, i quali – come già avevano fatto gli Unni di Attila e come poi fecero gli Ungari – si erano insediati nella desolata Pannonia, da cui effettuavano continue scorrerie e spedizioni. Per contrastarli, i Bizantini cercarono di stabilire rapporti con i Bulgari e, soprattutto, favorirono la discesa di alcune tribú slave verso sud, arruolandole in massa in funzione antiavara: da tali gruppi, nacquero i Serbi e i Croati. Con il mondo slavo e con quello bulgaro – che presto finí per integrarsi con esso – i Bizantini stabilirono un rapporto profondo e, di conseguenza, orientarono su di loro un’intensa attività missionaria, dal momento che si trattava di popolazioni politeiste e pagane. Dopo alcuni tentativi, solo in parte coronati da successo e avviati già al momento dell’invasione da parte dell’imperatore Eraclio (610641), i missionari bizantini tornarono a spostarsi in queste zone dalla metà del IX secolo, quando l’impe-

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Dossier ro greco uscí dalla lunga crisi in cui l’aveva gettato l’espansione araba. Le missioni furono soprattutto iniziativa del patriarca di Costantinopoli Fozio, un raffinato intellettuale che per primo teorizzò la completa autonomia della Chiesa orientale da quella di Roma (che poi si formalizzò con lo scisma del 1054). Missionari bizantini furono inviati nelle diverse regioni abitate dagli Slavi, ma l’iniziativa decisiva fu portata avanti dai monaci greci Cirillo e Metodio, i quali inventarono un alfabeto adatto alla lingua dei neofiti, il glagolitico, e convertirono l’intera popolazione della Moravia.

Nuovi alfabeti In alto coppa in oro di produzione avara, facente parte del Tesoro

di Nagyszentmiklós (Romania). VII-IX sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Poco tempo dopo, nell’864, il khan dei Bulgari, Boris, si fece battezzare e prese il nome di Michele I. Da quel momento la Bulgaria, dominata da una casta di guerrieri di stirpe turca, ma abitata da una popolazione in maggioranza slava, divenne il centro propulsore del cristianesimo orientale. A partire dall’alfabeto glagolitico, con il contributo dell’onciale greca (un tipo di scrittura, n.d.r.), si sviluppò un nuovo alfabeto, il cirillico, che si diffuse rapidamente tra i diverA sinistra e in basso vasi dal tempio di Uppåkra (Svezia), un importante centro religioso

e cerimoniale di età vichinga. V-VI sec. Lund, Universitets Historiska Museum.


si gruppi slavi. Il nuovo alfabeto e lo sviluppo di una liturgia slava – anch’essa elaborata in Bulgaria, ma sempre all’interno della liturgia bizantina – favorirono la diffusione del cristianesimo tra la popolazione slava meridionale e orientale. Intorno all’870, infatti, missionari greci avevano completato anche la conversione dei Serbi e dei Croati. Però, l’espansione del cristianesimo bizantino nel mondo slavo conobbe la sua acme un secolo piú tardi, nel 988, quando il principe di Kiev, Vladimir, accettò il battesimo e ricevette in sposa Anna, sorella dell’imperatore bizantino Basilio II. Il principato di Kiev andò a costituire il primo nucleo del-

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la nascente Russia, il potente Stato composto da governanti vareghi, scandinavi, che erano a capo di masse slave ancora indistinte, disperse in territori immensi.

Politica e religione

Alla fine del millennio, dunque, la parte di mondo slavo, da Novgorod alla Macedonia serba, che era entrata in contatto con l’impero bizantino era divenuta cristiana e aveva sviluppato una propria scrittura e una propria liturgia. Dal mondo bizantino aveva mutuato rituali e aspetti esteriori del culto, ma, in particolare, aveva fatto proprio l’elemento piú peculiare della civiltà bizantina: l’identità tra pote-

Il battesimo di Vladimir I, principe di Kiev, in un acquerello di Viktor Vasnetsov. 1890. Mosca, Galleria Tretyakov.

re politico e potere religioso. Quando, di lí a poco, lo scisma del 1054 separò la Chiesa di Roma da quella di Costantinopoli, il mondo slavo si schierò con la seconda, trasformandosi nella spina dorsale della Chiesa ortodossa. Alla metà del XV secolo, poi, un evento all’epoca inimmaginabile cancellò l’impero d’Oriente: la conquista ottomana di Costantinopoli (1453). La Chiesa russa assunse allora su di sé l’eredità spirituale bizantina, trasmettendola ai governanti della nuova capitale, Mosca. L’identità tra la funzione

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Dossier Il paganesimo medievale

Quei miscredenti che adorano gli alberi e le rocce... Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia spiegava l’etimologia del termine paganus attraverso una definizione divenuta poi celebre: «Nelle zone rurali (cioè i pagi), la popolazione venerava idoli e alberi sacri». Nei sermoni di Cesario di Arles e nel trattato De correctione rusticorum di Martino di Braga, si esortava la popolazione contadina ad abbandonare le feste e i sacrifici rituali in onore delle divinità. Tra le superstizioni venivano citate pratiche come l’ululare per aiutare la luna durante l’eclisse, il consulto dei maghi e degli indovini, le preghiere rivolte alle fonti e le promesse votive agli alberi sacri. Si trattava di pratiche tipiche delle zone rurali, retaggio di culti precristiani legati alle attività agricole e al mondo silvo-pastorale. Anche il paganesimo medievale, quello germanico e slavo, fu caratterizzato da riti di derivazione sciamanica, legati al mondo della natura. Il paganesimo con cui si scontrarono i missionari era in effetti una commistione di culti molto diversi fra loro. C’era il druidismo celtico, incontrato per esempio da Patrizio al momento della conversione dell’Irlanda, che si presentava come una religione originale religiosa e la funzione politica, ereditata dalla tradizione bizantina, trovò quindi applicazione nel regno moscovita, i cui principi, un secolo dopo la scomparsa di Costantinopoli, divennero «zar», la versione slava del titolo imperiale di «Caesar». Se tale fu il destino del mondo slavo cristianizzato dai Greci, un’altra parte degli Slavi e delle popolazioni collocate tra Danubio e Mare del Nord guardava invece a occidente, verso la prospiciente Germania e, per via indiretta, verso la lontana Roma. Figura centrale in quest’area fu, in quegli anni, Adalberto di Praga, figlio di un duca boemo. Nel 982, l’imperatore Ottone I lo incaricò di effettuare una missione nell’area danubiana; nominato vescovo di Praga (città appena fondata), Adalberto si recò tra gli Ungari, popolazione ugrofinnica che aveva preso il posto degli Avari in Pannonia, e convertí il principe Varik, il quale prese allora il nome di Stefano I. Quindi attraversò la Polonia, dove il duca Miezsko era riuscito a riu-

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e consolidata, mentre tra le popolazioni germaniche e slave si venerava un pantheon per certi versi affine a quello greco-romano, al quale venivano però tributati rituali diversi. D’altra parte, i missionari non avvertivano differenze tra tali riti e la religione tradizionale di matrice greco-romana. Ogni credenza politeista andava in ogni caso ugualmente combattuta. Agostino le accomunò tutte sotto il termine di superstitio, che indicava sia «le false religioni», sia le sopravvivenze di culti precristiani. Tale termine finí per essere associato – come avviene tuttora – alla magia naturale, come anche all’astrologia e all’uso di amuleti. Particolarmente diffusi, sia tra i Germanici che tra gli Slavi, erano i culti resi agli alberi e ai boschi sacri (come nel caso dell’Yggdrasill, il frassino «magico» venerato dalle popolazioni del Nord Europa: vedi «Medioevo» n. 209, giugno 2014). Tuttavia, il culto piú tenace e difficile da eradicare fu senza dubbio quello tributato agli antenati. Il paganesimo medievale non si espresse quasi mai con veri e propri santuari strutturati. Esistevano tuttavia luoghi di culto: templi lignei o luoghi sacri (di solito

nire le tribú locali, formando uno Stato polacco autonomo. Nel 966, Miezsko si fece convertire, anche per influsso della sua sposa boema. Dalla Polonia, Adalberto raggiunse il Baltico, ma fu alla fine catturato e ucciso dai pagani prussiani nel 997.

Nuove Chiese nazionali

I Tedeschi progettavano di «egemonizzare» gli Slavi e gli Ungari appena convertiti, ma non riuscirono nel loro intento, Di questo loro fallimento fu responsabile la Chiesa di Roma, che, in contrasto con l’impero, preferí favorire lo sviluppo di nuove Chiese nazionali e di gerarchie religiose autonome. Ciò infranse i progetti degli ambiziosi arcivescovi-feudatari tedeschi e consentí il pieno sviluppo delle nuove nazionalità. Un favore, quello reso dalla Chiesa di Roma, che tali popolazioni non dimenticarono, primi fra tutti i Polacchi, che divennero uno degli Stati europei piú legati al papato. Come si è visto nel caso del martirio di Adalberto, ucciso in

Prussia, l’area baltica e scandinava rimase a lungo l’ultima ridotta del paganesimo. In realtà, i gruppi di Scandinavi – chiamati Vichinghi, Vareghi o Normanni – che si erano spinti verso sud, verso la Francia settentrionale, si erano già convertiti. Il capo normanno di origine norvegese Rollone († 931 circa) aveva accettato il battesimo nel 911, al momento di ricevere il feudo e il titolo di duca di Normandia. Come si è scritto poco sopra, Vladimir di Kiev, anch’egli di stirpe vichinga, si era convertito nel 988. Anche in Scandinavia, soprattutto nelle terre danesi e tra i mercanti che abitavano la costa norvegese e svedese, vi erano state numerose conversioni. Gli Inglesi, sottoposti per decenni alle devastanti scorrerie vichinghe, vi avevano sviluppato un’intensa attività missionaria, vissuta con minore sospetto rispetto a quella tedesca, che era percepita come legata agli interessi politici dell’imperatore. Il battesimo di vari sovrani – come il danese Harald nel 960 o i norvegesi Olaf, luglio

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alture sulla cui cima erano sistemate statue devozionali di notevoli dimensioni), contro i quali si scatenò la furia dei cristianizzatori, che ne lasciarono ben poche tracce. In alcuni casi, come tra gli Slavi, esistevano anche strutture cultuali officiate da gerarchie sacerdotali, come a Riedegost, cittadella sacra dei Liutizi, Slavi stanziati nell’attuale Germania nord-orientale. Essa si presentava difesa da un perimetro di mura dall’andamento triangolare, il quale la separava da una parte dalla foresta sacra e dall’altra dal mare. Al suo interno era situato un grande tempio ligneo decorato da rappresentazioni di divinità, tra cui quella di Zuarasici, o da insegne militari. Il luogo era custodito da ministri eletti dalle tribú, incaricati di predire il futuro e amministrare i rituali sacrificali, soprattutto quelli animali. Talvolta, però, venivano effettuati, in genere nei momenti di emergenza militare, anche sacrifici umani; nel 1066 vi fu ucciso il vescovo Giovanni di Maclemburgo, catturato nel corso delle lotte tra Liutizi e Tedeschi, che avevano provato a convertirli. figlio di Trygri (994), e Olaf, figlio di Harald (1014) – non portò tuttavia alla conversione delle popolazioni loro soggette. Vi furono, anzi, intense controreazioni pagane e frequenti rivolte. In Svezia, solo verso la fine dell’XI secolo la diffusione del cristianesimo si fece davvero pervasiva, nonostante le cronache del XII secolo parlino ancora di centri costieri cristiani e villaggi dell’entroterra pagani. Ci vollero secoli per convertire tali popolazioni per intero e ciò avvenne sia per merito dei missionari inglesi, sia grazie all’attivismo della diocesi tedesca di Amburgo-Brema, creata proprio a tale scopo. Solo lo sviluppo di Chiese nazionali stabilizzò la cristianizzazione dell’intera area: nel 1004 si formò la Chiesa danese, nel 1152 quella norvegese, e nel 1164 fu la volta di quella svedese.

Monte Radhošt’ (Repubblica Ceca). Statua moderna (1931) raffigurante Riedegost, divinità pagana venerata dalla popolazione slava dei Liutizi.

I pagani del Baltico

Nel XII secolo, nonostante il cristianesimo fosse penetrato fin nell’area scandinava e imperasse – nella sua forma ortodossa – dalla Crimea a Novgorod, l’area baltica e

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Dossier Le crociate del Nord

Lotta agli infedeli tra fiordi e ghiacci Nei territori che si affacciano sul Mar Baltico, ancora ben oltre il Mille, la popolazione locale resisteva con tenacia alla conversione al cristianesimo. Si trattava di aree abitate perlopiú da popolazioni di ceppo ugrofinnico, alle quali si erano andati sovrapponendo anche gruppi di Slavi. In queste regioni, dalla fine del XII secolo, prese forma l’Ordine religioso militare dei Cavalieri Teutonici, nel quale confluí l’Ordine – anch’esso religioso militare – dei Portaspada. Temprati dalle durissime battaglie combattute in Terra

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Santa durante le crociate, i cavalieri dell’Ordine – in gran parte tedeschi – condussero spedizioni contro Prussiani, Livoni, Lettoni, Lituani ed Estoni. L’espansione in tali aree fu contraddistinta dalla fondazione di cittàfortezze – Elbing, Königsberg, Memel, Riga –, presso le quali venivano attratti coloni tedeschi, al fine di favorire l’adesione al cristianesimo. L’operazione, in realtà, esacerbò gli animi delle popolazioni indigene, favorendo le rivolte. La reazione dell’Ordine fu durissima. Tra la metà del XIII

e i primi anni del XIV secolo, i cavalieri promossero una serie di spedizioni antipagane, definite «crociate del Nord». Completata la conquista dell’area baltica, l’Ordine avviò spedizioni analoghe contro Careli e Finlandesi. Nel 1309, il Gran Maestro dell’Ordine si stabilí nella città di Marienburg (ora Malbork) lungo la Vistola. La città divenne cosí capitale di una nuova entità statale di cultura tedesca, impostata sulla salda unità tra potere feudale e potere militare. Erano i primi passi verso la nascita della moderna Prussia.

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A sinistra veduta del Castello di Marienburg (Polonia), detto di Malbork dal 1945. Realizzato su un monastero fortificato del XIII sec., all’inizio del XIV divenne l’imponente residenza dei Cavalieri Teutonici. In alto Castello di Malbork (Polonia). Bassorilievo raffigurante due cavalieri impegnati in un torneo.

le sponde del Golfo di Botnia (tra Svezia e Finlandia), risultavano ancora pervicacemente pagane. Nei decenni successivi, la lenta penetrazione delle missioni norvegesi e svedesi fece breccia tra Careli e Lapponi, ma un estremo bastione pagano rimase attivo nel cuore dell’area baltica, nella Livonia, territorio oggi appartenente alla Lettonia. Sottoposte alla pressione sempre piú intensa di missionari provenienti dall’area tedesco-prussiana, nei primi anni del secolo XIII, le popolazioni locali – di stirpe finnica – si ribellarono apertamente alla cristianizzazione, che vedevano, a ragione, come un portato dell’egemonia feudale tedesca (vedi box in queste pagine). Molti missionari vennero uc-

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cisi dalle popolazioni pagane: un evento che indusse l’Ordine militare-religioso dei Portaspada a scatenare una spedizione contro i Livoni. Una repressione sanguinosa piegò alla fine l’intera regione, costringendola a entrare nell’orbita tedesca; gli ultimi pagani d’Europa furono costretti a scegliere tra la conversione o la morte. Cosí, in un bagno di sangue, la cristianizzazione del continente poteva dirsi davvero conclusa. V

Da leggere U Andrea Tilatti

(a cura di), La cristianizzazione degli Slavi,

Istituto storico Italiano per Medioevo editore, Roma 2005

U Cristina La Rocca, La

cristianizzazione dei Barbari e la nascita dell’Europa, Firenze University Press, Firenze 2004 U Luciano Valle e Paolo Pulina (a cura di), San Colombano e l’Europa. Religione, cultura, natura, Ibis, Como-Pavia 2001; anche on line su retimedievali.it (con il titolo Colombano europeo?).

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macchine d’assedio balestrone da torno

Arcieri dalle

braccia

di Flavio Russo

d’acciaio

Applicando il principio dell’arco, già all’epoca del tiranno siracusano Dionisio il Vecchio, furono messe a punto grandi armi da difesa, capaci di scagliare dardi e altri proietti con una forza di gran lunga superiore a quella dell’uomo. Ordigni micidiali, che nel Medioevo assunsero la fisionomia del «balestrone da torno»

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iú di un indizio sembra accreditare l’esistenza della balestra già nel II millennio a.C.: l’arma sarebbe nata come meccanizzazione dell’operazione di tiro normalmente compiuta dagli arcieri, che tendevano un braccio per impugnare l’arco medesimo e piegavano l’altro per tenderne la corda con le dita. Un’analogia «antropomorfa» che si può quindi immaginare alle spalle della sua invenzione e che ne assicurò la longevità, protrattasi per quasi tre millenni: imitando il gesto dell’arciere, l’arco fissato a un bastone consentiva di mantenere la punteria senza alcun ulteriore sforzo – peraltro non sostenibile per piú di pochi minuti –, pronto a scoccare persino all’improvviso e fugace apparire di un bersaglio, nel ristretto campo visivo di una sottile feritoia. La balestra, infatti, fu il complemento ideale della fortificazione, tanto che, quando la si utilizzò in fazione campale, le maggiori gittata e forza di penetrazione rispetto all’arco non valsero a compensarne la lentezza di riarmo, relegandola a ruoli marginali. Cina e Grecia se ne contendono la paternità, con una sporadica menzione del XII secolo a.C. la prima, e con un puntuale riscontro tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C. la seconda. A volerla, avviandone cosí l’evoluzione fu Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, dapprima col curioso nome di gastrafete e poi

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di catapulta, ferma restandone la funzione di lancia dardi, capaci di trapassare perfino il piccolo e sfuggente scudo – la pelta – dei cavalieri. Nei decenni successivi se ne realizzarono esemplari via via piú grandi, il cui arco era ottenuto unendo insieme piú strati di materiali organici, in particolare legno per il nocciolo, tendini per l’estradosso e piastre cornee per l’intradosso, una tecnica efficace, ma inadeguata a superare i 3 m di corda. E sebbene esistessero, sin dall’epoca di Assurbanipal (l’ultimo grande re assiro, 688-629 a.C., n.d.r.), piccoli archi di bronzo colato, ottenerne di dimensioni appena superiori si rivelò impraticabile, piú che mai se di acciaio.

Siderurgia celtica

I Celti sapevano forgiare lame di ottimo acciaio partendo da un pacchetto di strati alternati di ghisa e di ferro: ripiegati su se stessi per centinaia di volte, arroventati e martellati per provocarne l’intima coesione, si saldavano fra loro. Delle verghe cosí ottenute erano elevatissime la durezza e l’elasticità, ma proporzionale ne risultava anche il costo, che ne limitò l’adozione ai soli oggetti minuti, perlopiú cuspidi di lance, di frecce o di lame di spade. Senza entrare ulteriormente nei processi siderurgici, solo a partire dal XV secolo si dispose di vero acciaio omogeneo luglio

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A sinistra ricostruzione del gastrafete fatto costruire da Dionisio di Siracusa nel 399 a.C.

In alto ricostruzione del gastrafete di Caria, che, in realtà, era una balista con il trascinamento della slitta in entrambe le direzioni.

Qui accanto ricostruzione del grande gastrafete di Isidoro d’Abido, il piú grande esemplare di questa tipologia d’arma, citato da Bitone, ingegnere greco attivo nel III sec. a.C.

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macchine d’assedio balestrone da torno anteriori durante gli spostamenti, veniva sfilata in fase di punteria e reinserita in direzione ortogonale, agevolando cosí il brandeggio. La si toglieva, però, quando l’elevazione dell’affusto, superata la trentina di gradi, l’avrebbe bloccata, provvedendo i rulli di coda a sostituirla. In fase di caricamento, due lunghe cremagliere longitudinali, impegnate da una coppia di rocchetti – le prime mobili lungo l’affusto, i secondi fissati allo stesso, entrambi solidali ad altrettante grosse manovelle – trascinavano la corda, fino a bloccarla contro una gigantesca noce, comandata da una manetta fuoriuscente dalla coda dell’affusto e bloccata in sicurezza da un anello. È probabile che il meccanismo fosse dotato di un arpionismo di arresto sull’asse delle manovelle, indispensabile per scongiurare pericolosi ritorni accidentali della corda. La rotazione verticale dell’affusto avveniva agendo, tramite una seconda coppia di rocchetti, su una un’altra doppia cremagliera arcuata, fissata saldamente al sottoaffusto. Per evitare che, manovrandoli, si interferisse con le manovelle di caricamento – un’operazione peraltro di gran lunga meno frequente di quella di brandeggio –, questi rocchetti venivano fatti girare con apposite chiavi quadrate, che si provvedeva a rimuovere dopo aver raggiunto l’inclinazione desiderata. In base ai grafici pervenutici, si deve ritenere che

in discrete quantità, anche per oggetti di dimensioni superiori al passato, consentendo finalmente la costruzione di archi per grandi balestre, che, nei modelli maggiori, per esigenze di simmetria di tensione, vennero realizzati in due sezioni, giuntate al centro con varie soluzioni. A fornircene un attendibile ragguaglio contribuisce Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879), che fu tra i massimi studiosi dell’architettura militare medievale, e che nel monumentale Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo, nel capitolo sulle macchine d’assedio, dedica un intero paragrafo alla grande balestra da torno. Il torno, o tornio, era il verricello necessario per fletterne il poderoso arco, che, negli esemplari maggiori, era ottenuto con cremagliere, una tipologia a cui appartiene il balestrone da lui descritto.

Dal puntamento al tiro

L’arma era composta di un affusto, equivalente gigante del teniere (l’impugnatura o anche il fusto della balestra, n.d.r.), incernierato su di un robusto sottoaffusto munito di tre rotelle per gli spostamenti, e di una gamba centrale che, una volta in postazione, fungeva da perno di brandeggio, insistente su uno zoccolo ovoidale di ferro infisso nel pavimento. La rotella posteriore, in asse con le

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Sulle due pagine disegni che illustrano le caratteristiche strutturali e funzionali del balestrone da torno, cosí come raffigurato da Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (nella foto in alto, a sinistra), in base alla sua complessa concezione meccanica di arma a energia potenziale elastica a flesso-torsione e ai criteri attuativi dell’interdizione balistica medievale.

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Assonometria del balestrone. Per agevolare il rapido brandeggio dell’arma, per tiri in depressione in modo di battere qualsiasi bersaglio si presentasse nel suo settore di tiro, si girava di 90° il rotino posteriore, poggiando l’arma sul perno anteriore.

A sinistra prospetto del balestrone. Con il sottoaffusto orizzontale, equivalente all’alzo 0° delle moderne artiglierie, le tre rotelle permettevano l’agevole spostamento dell’arma, dal momento che non toccavano il calpestio né il perno anteriore, né i rulli posteriori. Poiché la precisione del tiro era data dalla perfetta equilibratura della coppia di simmetriche molle d’acciaio, e non riuscendo la siderurgia medievale a garantirne la piena identità, la compensazione fu affidata alle due matasse di funi che le sostenevano, regolandone la torsione con spranghe. In basso pianta del balestrone. I rulli laterali posti sulla coda del sottaffusto in condizioni di tiro difensivo, diretto cioè dall’alto verso il basso, o in depressione, tipico di una fortificazione o di un castello, non venivano utilizzati, poiché era sufficiente agire sull’alzo dell’arma.

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macchine d’assedio balestrone da torno Ricostruzioni moderne di grandi balestre da torno, utilizzate per la difesa dei castelli.

inseriti in grosse matasse nervine, del tutto simili, per criterio e materiale, a quelle delle macchine da lancio a torsione romane. Per ottenerne una tensione identica, si torcevano le matasse con apposite leve, inserite, mediante spessi tubi, nelle relative spire.

Impiego difensivo

il settore di brandeggio avesse un’ampiezza di una sessantina di gradi al massimo e quello dell’alzo una quarantina, una ventina in elevazione e altrettanti in depressione. Come accennato, l’arco era formato in realtà da due semiarchi, ciascuno dei quali composto da un paio di foglie sovrapposte, approssimativamente analoghi fra loro per spessore e resistenza. Tuttavia, per essere esattamente bilanciati nella trazione – presupposto indispensabile per la corretta traiettoria del proietto, esente da deviazioni laterali –, i due semiarchi stavano

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Venendo, infine, alle dimensioni del balestrone, i grafici originali tramandano una corda di circa 4 m, posta in tensione fra due semiarchi, ciascuno di poco meno di 2 m di ampiezza, con l’estremità interna insistente contro due spessi montanti di legno, irrigiditi da robusti controventi, a loro volta fissati sull’affusto, lungo poco piú di 8 m. Un calcolo sommario genera un peso complessivo di circa 20 q, compatibile perciò solo con un impiego difensivo dell’arma. Stando allo studioso, una siffatta balestra da torno poteva scagliare un dardo di circa 5 m a una distanza di un centinaio: una prestazione che lascia facilmente immaginare, quale bersaglio elettivo, le armi d’assedio nemiche, soprattutto quando prossime alle mura, in modo da schiantarle irreparabilmente o incendiarle con appositi proietti simili alle antiche falariche (una sorta di giavellotto che poteva appunto essere rivestito di materiale incendiario, n.d.r.). F luglio

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medioevo nascosto bassano in teverina

Campanile con mistero di Roberta Riccobono e Francesca Ceci

La torre campanaria di Bassano in Teverina, nell’alto Lazio, sembra vegliare sulla tranquillità del borgo grazie a tre «sentinelle» davvero particolari: uomini nudi e seminudi, ritratti in pose boccaccesche, che forse alludono ad arcaici riti e superstizioni. Uno di essi, però, a un’osservazione piú attenta, svela un’ascendenza inaspettata: quella dello Spinario, uno dei capolavori dell’arte di ogni tempo

L L’

Etruria viterbese racchiude veri e propri tesori, legati non soltanto alla fiorente età etrusca e romana, ma anche al ricco e lungo periodo medievale, quando fu terra di confine e di conflitti che videro il papato fronteggiarsi con i Longobardi prima e le potenti famiglie nobili romane poi. I numerosi borghi fortificati, sviluppatisi là dove erano sorti gli abitati antichi, conservano ancora oggi vasta memoria dell’urbanistica medievale. Percorrendo la strada statale «Ortana», che da Viterbo porta a Orte, si incontra Bassano in Teverina, paese di 1300 abitanti che sorge su uno sperone tufaceo, leggermente arretrato rispetto alla valle del Tevere, sulla quale si apre con un vasto panorama. Sono documentate tracce di fortificazioni datate al IV secolo a.C., mentre le prime attestazioni di un impianto urbano si collocano tra il IX e il XII secolo, quando il centro fu dotato di mura, porte d’accesso, di un ponte levatoio, di una torre e venne innalzata la chiesa della Madonna dei Lumi.

La prima trasformazione

Già fra il IX e il X secolo esisteva una torre sorta con la triplice funzione di avvistamento, di comando sulle altre difese presenti lungo la cortina fortificata e di comunicazione con le torri dei centri vicini, in particolare Orte e Soriano. Nella prima metà del XII secolo, fu trasformata nel campanile della chiesa di S. Maria dei Lumi, pur conservando le precedenti funzioni logistiche. Oggi, quando si giunge in vista del borgo medievale di Bassano in Teverina, si notano il retro della chiesa e l’imponente Torre dell’Orologio, costruita intorno al 1520-1550, al tempo del commissario apostolico Felice

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Bassano in Teverina (Viterbo). Uno scorcio del borgo medievale. In secondo piano, si riconosce la Torre dell’Orologio, costruita intorno al 1520-1550, inglobando il campanile duecentesco della chiesa di S. Maria dei Lumi, a sua volta frutto della trasformazione di una torre del IX-X sec.

Leonisco di Cassiano, inglobando il campanile medievale. Questa nuova struttura fu voluta con funzioni di difesa oltre che di controllo: il campanile, infatti, snello e leggero, non sarebbe piú stato in grado di resistere all’urto delle nuovissime artiglierie di campagna. Per ragioni economiche e di tempo – e per nostra fortuna – il campanile medievale non fu demolito come inizialmente si voleva fare, ma si decise di costruirgli la torre intorno, colmandolo con terra di riporto: una soluzione che lo ha conservato pressoché intatto.

Maioliche dipinte per il quadrante

La Torre dell’Orologio, a pianta quadrata, è alta 25 m ed è costruita in peperino. Su una delle facce è murato appunto un grande orologio, con il quadrante in maiolica dipinta a mano, che risale al 1700. All’interno, il campanile medievale raggiunge i 26 m di altezza, ed è stato riportato alla luce durante i lavori di consolidamento della Torre dell’Orologio (1976-1984). È in stile romanico ed è costituito alla base da bifore su tre lati e, dal piano successivo in poi, da trifore su tutti e quattro i lati. È costruito in blocchi di peperino fino all’altezza di 11 m, quota oltre la quale si utilizzarono conci di pietra calcarea detta del «Caio» – proveniente dalla sottostante valle del Tevere –, fino ai 22 m, mentre, per la sezione terminale, fu utilizzato nuovamente il peperino. Quest’ultima parte fu aggiunta proluglio

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medioevo nascosto bassano in teverina Lago di Bolsena

Viterbo

Bassano in Teverina Rieti Tev ere

Lago di Bracciano

ROMA

Latina

Frosinone

babilmente quando il campanile fu adibito a torretta di avvistamento, prima della costruzione della torre esterna. Notevoli sono i capitelli, variamente decorati con motivi floreali o stilizzati e, in un caso, con un giglio, nonché le due colonne a tortiglione, una semplice e una doppia, collocate in due piani diversi; le altre colonne, man mano che si sale, si assottigliano, conferendo maggiore slancio alla struttura.

Il restauro e il recupero

All’indomani del recupero del campanile romanico, è stato realizzato un progetto per migliorarne la coesistenza con la torre e rendere fruibili entrambe le strutture. Grazie al restauro e al successivo allestimento, è stata ottenuta la visibilità completa del campanile, attraverso una scala in legno e pianerottoli che consentono al visitatore di girare al suo interno. Sulle quattro pareti interne della torre sono stati inoltre applicati pannelli riflettenti, che nascondono il cemento armato utilizzato per il consolidamento

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e creano nel contempo un gioco di luci e profondità che rende meno angusto lo spazio. La chiesa della Madonna dei Lumi sorge appena fuori dal borgo medievale, di fronte all’antica porta d’accesso al borgo e alla Torre dell’Orologio. Un tempo l’area era piana, mentre ora la strada che separa le due strutture si trova leggermente in discesa ed è frutto di una ricostruzione moderna, dovuta agli esiti di un’esplosione avvenuta il 25 novembre del 1943, durante la seconda guerra mondiale. Interamente costruita in conci di peperino nel XII secolo e probabilmente sorta su una pieve precedente, la chiesa presenta la tipica facciata romanica, simmetrica, nella quale si apre un portale molto semplice; ai lati vi sono due monofore e una finestra quadrata sovrasta l’ingresso. L’impianto è di tipo basilicale, con la navata centrale piú ampia e le due laterali piú piccole, separate da due file di tre colonne ciascuna, quattro delle quali sono sormontate da capitelli decorati in maniera di(segue a p. 104) luglio

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A destra un torrione circolare innalzato in epoca medievale, quando il borgo fu provvisto di nuove difese. Nella pagina accanto la Torre dell’Orologio e, nel riquadro, cartina del Lazio con la localizzazione di Bassano in Teverina. In basso la facciata (a sinistra) e l’interno della chiesa di S. Maria dei Lumi, costruita nel XII sec. vicino all’antica porta di accesso del borgo fortificato, probabilmente su una pieve preesistente.

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medioevo nascosto bassano in teverina Un curioso (e irriverente) «corpo di guardia» Il campanile originario di S. Maria dei Lumi fu eretto di fronte alla chiesa intorno alla metà del XII secolo, forse su una struttura difensiva precedente. La definizione di «campanile animato» si deve alle figure antropomorfe scolpite su tre

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colonne, sul significato delle quali vi sono soltanto tradizioni orali secondo le quali si tratterebbe di personaggi in pose di «scherno» nei confronti della vicina Orte, da cui Bassano in Teverina dista 9 km, alla quale la cittadina fu sempre legata nel corso dell’età

medievale e moderna, in un alternarsi di libertà e sottomissione. Il campanile è a quattro piani, con trifore su tutti i lati, e le prime colonnine antropomorfe si trovano al primo piano: sul lato a nord, è raffigurato un uomo (h 113 cm, diametro 105,5 cm), di spalle, con il volto girato a sinistra, che abbraccia la colonna ed è vestito di una tunica con cintura e corto gonnellino. I piedi sono posti lateralmente, anch’essi a circondare la colonna. Sullo stesso ripiano, ma sul lato orientale, compare un altro uomo, che pare nudo e di spalle (h 122, diametro 112 cm), con la testa a destra, di profilo. Con la mano sinistra mostra o indica le «terga», mentre l’altra mano va a formare una curva, toccando quello che sembra essere un fallo abnorme e arcuato. Al terzo ripiano, su una colonnina che guarda la chiesa, si staglia l’immagine a tutto tondo di un uomo deforme (h 108 cm, diametro 52 cm) e nudo. È in posizione seduta, con il piede sinistro retto dalla mano sinistra e appoggiato sulla coscia destra, mentre la mano destra, mancante, pare intervenire sul piede dolorante. Tra le due gambe, leggermente divaricate, si nota un lungo e largo fallo pendente, conservato sino a metà gamba, ma che doveva essere certo piú lungo. Il volto è purtroppo perduto, per effetto dell’intervento operato nel XVI secolo, quando la torre campanaria venne inglobata nella massa di pietrame e leganti funzionali alla realizzazione della nuove torre. Il viso è incassato tra le spalle, rivolto con attenzione verso il piede. Il dorso sembra quasi quello di un gobbo, sebbene l’effetto possa essere dovuto solo alla curvatura della schiena connessa all’atto. Accanto alla colonna antropomorfa si trova una colonna a doppio tortiglione, che esalta l’importanza di questa parte del campanile. Ebbene, questo curioso personaggio, a volte identificato come figura zoomorfa, luglio

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ha invece un nobile retaggio, ispirato senza ombra di dubbio alla celebre immagine dello Spinario, un’opera in bronzo di stile eclettico, derivata da un modello greco di età ellenistica e riprodotto poi a Roma in molteplici copie; quella dei Musei Capitolini, la piú bella, si data intorno alla metà del I secolo a.C., seppure la cronologia sia tuttora discussa. Esposta ai Capitolini fin dalla loro istituzione nel 1471, la statua conobbe immediatamente una fortuna eccezionale e venne replicata in numerosi esemplari e varianti, diffusi in tutta Europa. Ma il tipo dello Spinario, ovvero di un leggiadro giovinetto nudo intento a togliersi una spina dal piede, era già noto in età medievale, e veniva usato fondamentalmente quale simbolo del mese di marzo, come testimonia l’eccezionale pavimento musivo della cattedrale di Otranto, completata nel 1165, dove la composizione è chiaramente ispirata al modello antico, sebbene non si possa stabilire se si tratti di quello Capitolino o di un’altra replica. L’iconografia ricorre anche nelle decorazioni della cattedrale di Modena (inizi del XII secolo) e in altri contesti pertinenti a

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In alto la colonna al primo piano del campanile di S. Maria dei Lumi sul cui fusto è scolpita la figura di un uomo nudo, visto di spalle, che, con la mano destra tocca quello che sembra un grande fallo arcuato. A destra una figura umana, vestita di tunica, che «abbraccia» un’altra delle colonne del primo piano del campanile. Nella pagina accanto l’interno della Torre dell’Orologio, dove, grazie ai restauri, è ora possibile vedere la struttura del campanile romanico.

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medioevo nascosto bassano in teverina edifici religiosi. In alcuni casi la sua raffigurazione era connessa, per la nudità, alla stigmatizzazione cristiana della sessualità. Lo Spinario/Marzo è legato al territorio viterbese anche per una tradizione orale diffusa a Vitorchiano, che vede nella statua capitolina l’omaggio fatto dal Senato Romano al valoroso giovinetto vitorchianese Marzio, il quale, nell’ambito delle guerre tra Etruschi e Romani ed essendo Vitorchiano alleata all’Urbe, portò a Roma notizie importanti, correndo a perdifiato e a piedi scalzi. Giunto a destinazione, riferí quanto doveva e spirò. Oltre che con il nome di Marzio, la figura è nota anche come «Il Fedele», con riferimento alla volontaria sottomissione a Roma dei Vitorchianesi intorno alla metà del XIII secolo e alla concessione del titolo, dal 1267, di «Fedelissima», di cui ancora oggi la cittadella si fregia. Nel Viterbese la figura dello Spinario era dunque nota nella sua rappresentazione classica e/o nelle sue derivazioni postantiche. Averla apposta, benché deforme e caratterizzata da un attributo abnorme, sul campanile-torre, a guardia del borgo di Bassano in Teverina nel corso del XII secolo, insieme ad altri personaggi in atteggiamenti particolari, doveva riferirsi a una tradizione figurativa diffusa e comprensibile all’epoca. Nel Viterbese si conoscono solo altre due colonnine simili alla nostra usate nei campanili: una nella chiesa di S. Sisto a Viterbo, databile all’XI secolo, con un personaggio nudo e che sembra

avere anche esso un lungo fallo pendente tra le gambe e una seconda nell’isolata chiesa del Casale di Santa Bruna (XI-XIII secolo), tra Vignanello e Gallese, dove una colonnina del campanile è in forma di personaggio stante nudo. Queste colonnine campanarie antropomorfe sono scarsamente studiate e ancora di non precisa determinazione cronologica, che oscilla tra una proposta di datazione piú «alta», connessa alle murature dell’XI-XII secolo, e una che le vuole redatte agli inizi e comunque nell’ambito del XIII secolo. Ma quale poteva essere la funzione iconografica dello Spinario deforme e dei due uomini di spalle che abbracciano la colonna, uno dei quali con abnorme fallo arcuato e che mostra il deretano? Data l’altezza alla quale erano collocate, le sculture risultavano di difficile lettura, anche se è possibile supporre una decorazione policroma non conservatasi che le rendesse piú evidenti. Inoltre, in riferimento al beffeggiamento nei confronti della rivale Orte, esse non guardano verso la città, bensí verso la vallata del Tevere in direzione Umbria e verso l’esterno della porta d’accesso al paese. È dunque possibile interpretarle come figure ironiche e «oscene» nella loro postura, poste a difesa e a guardia della città (forse simboleggiata dall’abbraccio della colonna?); e l’esposizione deformata e abnorme delle «vergogne» potrebbe simboleggiare la capacità degli abitanti di umiliare i nemici e di ridicolizzare con posizioni apotropaiche di antichissima tradizione ogni tipo di avversari.

A sinistra la colonna del campanile di S. Maria dei Lumi scolpita in forma antropomorfa, con una figura nuda che si ispira al modello dello Spinario.

versa l’uno dall’altro e ispirati al romanico longobardo e al repertorio altomedievale; ogni navata era infine coronata da un’abside. Nel 1500 si volle aumentare la capienza dell’edificio, dismettendo le absidi, aggiungendo due colonne di ordine tuscanico per lato e creando, in posizione sopraelevata di alcuni gradini,

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A destra Otranto, Cattedrale. Particolare del mosaico pavimentale con l’immagine dello Spinario utilizzata come simbolo del mese di marzo. 1163-1165.

A sinistra lo Spinario Capitolino, scultura in bronzo derivata da un originale greco di età ellenistica, forse databile al I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

un’unica abside. Fra la metà del XVI e il XVII secolo (nel 1621 la chiesa divenne parrocchia), la Madonna dei Lumi, oltre a essere ampliata, fu arricchita con varie opere, affreschi e fu rifatto il tetto con pianelle di cotto decorate con rombi e gigli di Firenze, a testimoniare l’influenza dell’arte fiorentina anche oltre i confini del granducato di Toscana. A terra sono visibili alcuni ossari che, esplorati nel 2013, hanno restituito rosari, collane, monete e lacerti di abiti.

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Simili immagini, peraltro note tra l’XI e il XII secolo anche in forme piú esplicite nell’ostentazione del sesso maschile e femminile deformato, sono diffuse in chiese ed edifici religiosi soprattutto dell’Europa settentrionale, con attestazioni in Italia. Forse potrebbero derivare da rituali o rappresentazioni sceniche legate a feste popolari di ascendenza pagana, in occasione delle quali l’esposizione sessuale doveva svolgere un ruolo (si pensi alle numerose figure priapiche presenti all’interno delle chiese medievali e all’ostentazione oscena delle natiche). Queste posture trasgressive e spudorate dovevano essere considerate efficaci, e forse anche ironiche, nei confronti di qualsiasi nemico, nonché capaci di assicurare forza e protezione per la comunità sociale che le adottava, per farsene scudo e orpello. Informazioni sulla visita del campanile sono reperibili sul sito http://comune.bassanoteverina.it. Francesca Ceci

Bassano in Teverina merita dunque una visita, sia per ammirarne la chiesa e l’eccezionale campanile animato (vedi box alle pp. 102-105), sia per godere appieno del silenzio, della pace, del profumo e della bellezza di un borgo che sembra davvero essersi fermato al Medioevo. F Si ringraziano il Comune di Bassano in Teverina, Luigi Cimarra, Fulvio Ricci e Andrea Zolla.

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caleido scopio

Viaggiare alla «giornata»

A sinistra veduta del lago e del Piz Lunghin, una delle mete toccate dall’itinerario Via Sett, che collega l’Italia alla Svizzera. Qui sotto Promontogno. La chiesa di Nossa Donna e la torre di Castelmur. In basso un esempio della segnaletica realizzata per indicare il percorso della Via Sett.

CARTOLINE • Poco

meno di 100 chilometri in 7 giorni: è questa la proposta della Via Sett, un itinerario che si snoda tra l’Italia e la Svizzera, sulle tracce di antichi percorsi, battuti nel Medioevo da pellegrini, mercanti, papi e soldati

S

i chiama «Via Sett» ed è il percorso escursionistico che si snoda per 93 km tagliando l’Engadina, da Thusis a Chiavenna, lungo strade romane e sentieri battuti nel Medioevo. L’itinerario, che collega la Svizzera all’Italia attraverso il Passo Settimo, è suddiviso in «giornate», che comportano un cammino di alcune ore, scandito da soste che ricalcano i ritmi e le fermate medievali. Riscoperto dai primi anni

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Novanta, il circuito è stato in parte ripristinato, segnalato e attrezzato con parcheggi e depositi bagagli, messi a diposizione di quanti vogliano provare l’esperienza di un viaggio a ritroso nei secoli.

La guida dell’abate Alberto Già alla metà del Duecento la via che collegava Coira, capitale della Rezia, e l’area del lago di Como era praticata abitualmente: negli Annales Stadenses – una sorta di guida luglio

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stradale ante litteram –, l’autore, l’abate tedesco Alberto di Santa Maria in Stade, quando descrive i tracciati seguiti dai pellegrini del Nord Europa per andare e tornare da Roma, consiglia il valico alpino del Passo Settimo. Nel Trecento, il tragitto, battuto da devoti, commercianti, pontefici, eserciti e sovrani, viene irrobustito in piú punti per facilitare il passaggio di merci pesanti, che costava un pedaggio doganale da versare al vescovo di Coira. Il fondo stradale, largo e comodo, era adatto anche al trasporto con animali da soma e cadde in declino solo nel XIX secolo, quando altri valichi alternativi furono resi carrozzabili. L’antico cammino, ideale da seguire fra giugno e settembre, parte da un tratto lungo poco piú di 18 km, che da Thusis arriva a Tiefencastel, attraverso il passo dell’Albula, fra altipiani e foreste del tipico panorama engadinese. Sopra la gola, in posizione strategica, svetta la chiesa di St. Peter Mistail,

testimonianza del monastero femminile di età carolingia, già citato nel 926: la struttura, ad aula unica, ha tre absidi a ferro di cavallo e altrettanti altari. Gli affreschi del IX secolo denunciano legami con quelli di St. Johann a Müstair, mentre i successivi sono da attribuire al Maestro di Mistail, esponente del Gotico internazionale che opera attorno al 1400. All’interno del luogo di preghiera si trovano anche dipinti arcaizzanti del 1397 e porzioni di interventi barocchi.

Tra storia e natura La seconda giornata di cammino, di 11 km, giunge in Val Sursette, a Savognin, e tocca il Castello duecentesco di Riom, dalla struttura compatta e slanciata. In estate, gli interni in pietra a vista, con copertura a capriate, fanno da cornice al festival di teatro e musica romancia. Il terzo tratto, di una ventina di chilometri, richiede un giorno di cammino nella natura fino a Bivio, mentre

il quarto segmento, un po’ piú breve, approda a Vicosoprano, in val Bregaglia, attraversando il passo del Settimo. Sulla sua sommità si ergono i resti delle mura dell’ospizio intitolato a St. Peter, un luogo di rifugio costruito attorno al Mille per pellegrini e viandanti. Nel sito sono stati ritrovati anche frammenti di ceramica e monete di età romana. La quinta parte dell’itinerario arriva a Promontogno, in quasi 8 km, con tappe al campanile romanico di Nossa Donna, alla torre di Castelmur, del IX secolo, e a Vicosoprano, dove, accanto al Pretorio – che disponeva anche di una camera di tortura per le streghe –, svetta una torre duecentesca a pianta circolare. L’ultima porzione del tragitto si conclude a Chiavenna dopo quasi 16 km, offrendo due spettacoli naturali come il Parco delle Marmitte dei Giganti e le Cascate dell’Acquafraggia, che affascinarono già Leonardo (per informazioni, www.viasett.ch). Stefania Romani

Quando i mercati si fecero comuni LIBRI • La relazione tra

politica ed economia fu, anche nel Medioevo, uno degli elementi decisivi nelle vicende di città e nazioni. Una questione nevralgica, qui affrontata attraverso le esperienze maturate in Italia e nella penisola iberica

MEDIOEVO

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I

meccanismi di interazione tra economia e politica, sfere intrinsecamente correlate, costituiscono un settore di indagine imprescindibile per poter comprendere la realtà bassomedievale, epoca in cui gli Stati europei cominciarono a estendere il proprio controllo sui principali aspetti della sfera economica (moneta, finanza pubblica, annona, tutela del commercio, promozione di attività manifatturiere). Frutto di un convegno tenutosi a Cagliari nel 2013, il volume prende in esame due ampie aree geopolitiche europee nei

secoli finali del Medioevo: l’Italia e la penisola iberica. Due realtà politiche, economiche e culturali vicine e a tratti sovrapposte e, al tempo stesso, di particolare interesse per la varietà delle compagini statuali in esse esistenti: monarchie e principati feudali, da un lato, stati regionali a matrice cittadina, dall’altro.

Un proficuo ripensamento Dal confronto è emerso un proficuo ripensamento delle relazioni tra poteri pubblici e attività economiche per i secoli XIII-XV, che si è dipanato in molteplici tematiche, quali le

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caleido scopio forme di organizzazione istituzionale delle comunità mercantili; la tutela degli uomini d’affari fuori dal proprio territorio; l’impiego di operatori commerciali e finanziari nelle dinamiche politiche statali; la gestione delle attività manifatturiere negli obiettivi politici di monarchie e regimi cittadini. La consapevolezza dei ceti al governo del fatto che l’apporto dei mercanti (e delle loro risorse patrimoniali) fosse essenziale per il buon funzionamento dello Stato costituiva sicuramente un po’ dovunque una delle linee guida all’agire delle classi dirigenti, che cercavano perciò di prendere provvedimenti favorevoli agli operatori del commercio.

«Sangue e nervi» di Venezia Cosí accadde a Milano, soprattutto sotto i Visconti, cosí a Firenze, dove i mercanti erano definiti «sangue e nervi della Repubblica», cosí a Genova e Venezia, dove l’identificazione tra élite economiche ed élite politiche era pressoché completa. Anche nel regno d’Aragona le interazioni tra economia e politica si concretizzarono sia nello stimolo al commercio e alle manifatture, sia nella creazione di un «mercato comune» mediterraneo, e di un altro «mercato comune», interno alla penisola iberica; misure che, a loro volta, costituivano un presupposto fondamentale alle necessità finanziarie statali a supporto dell’espansione territoriale. Le famiglie mercantili, d’altra parte, rivestivano un ruolo politico determinante sia all’interno degli Stati di appartenenza (come a Milano, dove alcune di loro occuparono ruoli chiave nell’alta burocrazia), sia quando operavano all’estero (come gli Spannocchi, i Chigi e i Medici, attivi sul finire del Quattrocento a Roma presso la corte pontificia). Per non parlare del ruolo cruciale che le compagnie mercantili svolgevano dal punto di vista diplomatico, in quanto detentrici in anteprima di informazioni politiche di primaria importanza i cui effetti

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Lorenzo Tanzini e Sergio Tognetti (a cura di) Il governo dell’economia. Italia e Penisola Iberica nel basso Medioevo Viella, Roma, 364 pp. 32,00 euro ISBN 9788867282128 viella.it potevano riversarsi sia sui loro affari, sia sulle dinamiche degli stati. Il «governo dell’economia» aveva uno dei suoi punti di forza anche negli interventi a favore delle manifatture, che in alcune città e in alcuni settori (quello tessile in primo luogo) costituivano il cardine della ricchezza cittadina.

Il caso di Firenze A Firenze, per esempio, il comparto laniero prima (tra il XIV e il XV secolo) e quello serico poi (dagli anni Venti del Quattrocento) – considerati dai contemporanei i principali settori di impiego per centinaia di persone, nonché le basi fondamentali dell’economia cittadina – rappresentarono i poli che videro convergere, soprattutto nel Quattrocento, i provvedimenti governativi, grazie anche all’identità tra ceto imprenditoriale/bancario/ mercantile e i rappresentanti del potere. Viceversa, nei centri minori della Toscana, proprio la politica fiorentina – che non tollerava la concorrenza delle manifatture delle città soggette – depresse, alla fine del Trecento, le loro attività economiche. Se l’apporto dei mercanti alle necessità economiche degli Stati era cosí importante, appare naturale che si cercasse di tutelarli anche all’estero, mediante l’istituzione di appositi tribunali mercantili

e patrocinando la formazione di comunità di una determinata «nazione» in terra straniera, capace di salvaguardare i singoli operatori economici in caso di necessità. E le «nationes» delle comunità di uomini d’affari delle città toscane, sparse in ogni angolo dell’Europa e delle rive del Mediterraneo, e quelle catalane nell’area tirrenica (Pisa, Genova, Talamone, Sardegna), testimoniano in modo macroscopico tale fenomeno. Un caso a parte è costituito dalla Sardegna, dove l’estrema debolezza del ceto mercantile urbano non fu in grado di ostacolare l’approvazione di una tassazione indiretta che ebbe effetti negativi sulle attività commerciali, in un contesto in cui l’economia era orientata verso attività agricole e pastorali, mentre in una situazione intermedia si trovava la Sicilia, i cui ceti dirigenti erano in parte legati alla grande proprietà fondiaria (Palermo), e in parte rappresentati dall’élite mercantile (Messina). Maria Paola Zanoboni luglio

MEDIOEVO



caleido scopio

Lo scaffale Paolo Piva Chiese ad absidi opposte nell’Italia medievale (secoli XI-XII)

Documenti di Archeologia 54, SAP Società Archeologica, Mantova, 110 pp., ill. b/n e col.

25,00 euro ISBN 978-88-87115-82-6 www.archeologica.it

Il termine «abside opposta» indica quella tipologia che, all’interno di un edificio di culto, vede contrapposte due absidi, normalmente orientate estovest. Quest’ultima impostazione, peraltro, ha sempre rivestito un ruolo simbolico all’interno dell’architettura religiosa, che mostra una certa predilezione per l’«orientazione» dell’altare verso est, simbolo della luce nascente e quindi riconducibile all’elemento divino. D’altronde, a partire dal IV secolo, la tradizione architettonica sviluppatasi con la romana basilica di S. Pietro e quella del Santo Sepolcro di Gerusalemme ha invece prodotto edifici di culto con altari rivolti a ovest (la cosiddetta «occidentazione»), frutto di contingenze particolari, come, per esempio, il posizionamento della tomba di san Pietro nel caso romano. Spesso, inoltre, l’aggiunta di

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una seconda abside è stata motivata da ragioni puramente funzionali alla liturgia, quale può essere, per esempio, la presenza di culti martiriali locali. A queste complesse tematiche è dedicato lo studio di Paolo Piva che offre un quadro di questa tipologia architettonica e del suo sviluppo in ambito italiano tra l’XI e il XII secolo. Ripercorrendo la storia dell’architettura religiosa a partire dalla tarda antichità in Europa come nel

Nord Africa, l’autore si sofferma in particolar modo sulle chiese ad absidi occidentate erette tra il IV e il XII secolo, per concludere infine con il catalogo di 19 edifici di culto italiani, contraddistinti dalla presenza di absidi opposte ripartiti in tre tipologie: absidi opposte coeve, non coeve e/o di incerta datazione. Completano il saggio un ricco apparato iconografico e un’ampia bibliografia. Franco Bruni

Giuseppe Romegialli Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e di Chiavenna Sondrio 1834-1844, ristampa anastatica, Edizioni Orsini De Marzo, Sainkt Moritz Press, 2 voll., 1200 pp.

180,00 euro ISBN 978-88-7531-041-7 orsinidemarzo.ch

I due ponderosi volumi costituiscono la ristampa anastatica dell’opera ormai introvabile dello studioso ottocentesco Giuseppe Romegialli (1779-1861), pietra miliare della storiografia valtellinese, apparsa in fascicoli dal 1834 al 1844. Concepito originariamente in 5 volumi, il lavoro si apre con un excursus sugli aspetti geografici, demografici, climatici, economici e linguistici del territorio valtellinese, per poi ripercorrerne la storia a partire dall’epoca pre-romana e romana, fino alla caduta di Napoleone. Una corposa parte dell’opera è dedicata al periodo medievale, e in particolare all’età dei Comuni (fine del X-XIII secolo), che vide quest’area dilaniata da lotte continue, e agli anni della difficile e contrastata dominazione viscontea e sforzesca (fine del XIII-XV secolo) su una zona di fondamentale importanza strategica,

ma assai difficile – per le sue stesse caratteristiche geografiche – da soggiogare. E proprio i nuclei feudali della Valtellina furono tra i principali avversari di Francesco Sforza nel suo tentativo di costituire, tramite compromessi e patteggiamenti, uno Stato regionale. Romegialli basa la sua narrazione sia su documenti d’archivio, di cui riassume talvolta il contenuto, o riporta l’intera trascrizione, o discute gli aspetti controversi; sia su opere di storici che lo hanno preceduto, anche in questo caso riportandone le diverse tesi e confrontandole fra loro. Maria Paola Zanoboni Luca Frigerio Bestiario medievale. Animali simbolici nell’arte cristiana Àncora Editrice, Milano, 528 pp., ill. col.

59,00 euro ISBN 978-88-514-1215-9 ancoralibri.it

Autore di un celebre Bestiaire in prosa, il francese Pierre de Beauvais (attivo nel

XIII secolo) scrisse, nell’introduzione all’opera, che: «Tutte le creature che Dio ha creato sulla terra, le ha create per l’uomo e affinché l’uomo possa ricavarne esempi di religione e di fede». L’avvertimento, che Luca Frigerio riprende,

a sua volta, nel capitolo introduttivo di questo saggio, è una delle chiavi di lettura della straordinaria e variegata presenza del mondo animale nell’arte medievale: una presenza diffusa soprattutto nell’ambito della produzione legata alla sfera religiosa, dove fu voluta appunto come insegnamento. Ma quale ruolo e quale significato vanno attribuiti ai leoni, alle aquile e alle decine di altri esseri reali e fantastici che affollano sculture e dipinti? Le oltre 500 pagine del libro, forte di un corredo iconografico piú che abbondante, sono pronte a rispondere. Stefano Mammini luglio

MEDIOEVO


Le ore di Ambrogio musica • Al vescovo di Milano si deve un’importante

attività di promozione dell’attività musicale, qui documentata da pregevoli riletture cinquecentesche

N

ella produzione liturgica medievale, un posto di rilievo spetta al canto ambrosiano e a colui che ne fu promotore e creatore, il vescovo di Milano sant’Ambrogio. Del repertorio ambrosiano colpisce la ricchezza melismatica, che lo avvicina a quello bizantino: frutto dell’opera di rinnovamento stimolata da Ambrogio, che portò appunto all’introduzione, nella liturgia milanese, di molti elementi provenienti dalle liturgie orientali, e in particolar modo il ricorso al canto degli inni, alcuni dei quali attribuiti, sia per la parte testuale che musicale, allo stesso vescovo. Ad alcuni di questi inni è dedicato il disco Inni Ambrosiani (Discantica 279, 1 CD, www.discantica.it), che riprende alcuni brani dalla liturgia delle ore, proponendone l’esecuzione ad alternatim con l’organo. Nel corso del XVI secolo, secondo una prassi diffusa, l’antico canto innodico veniva eseguito in alternanza a brani organistici che ne riprendevano la «modalità» in una sorta di ricreazione/continuazione del repertorio monodico, che, nella lettura organistica, riceve nuovo vigore. I dodici inni qui proposti si rifanno, come già detto, alla liturgia delle ore – nella quale si dispongono i vari momenti di preghiera – ovvero la liturgia legata alla celebrazione di alcuni santi come sant’Agnese, gli apostoli Pietro e Paolo, o a singole festività. Brani in origine eseguiti dall’intera comunità dei fedeli e qui riproposti dal gruppo femminile Concentus Monodicus, con una lettura sostenuta da una grande partecipazione e un senso musicale convincente. Le partiture organistiche che si

MEDIOEVO

luglio

alternano all’innodia sono tratte dalla produzione di alcuni grandi compositori del Cinquecento e del primo Seicento, tra cui Hieronimus Praetorius, Thomas Tallis, Giovanni Battista Fasolo e Giovanni Paolo Cima; compositori la cui produzione musicale è profondamente legata alla dimensione liturgica di cui questi brani costituiscono una testimonianza superba, rivelando come l’eredità dell’antica innodia ambrosiana abbia inciso sulla produzione piú tarda. Esegue le composizioni organistiche Edoardo Bellotti, che si cimenta egregiamente al celebre organo Antegnati del 1565 conservato nella basilica mantovana di S. Barbara; un musicista a tutto tondo, che mostra solide conoscenze storiche e una notevole maestria come interprete. Dirige l’ensemble Riccardo Zoja, anch’egli organista nonché specialista di paleografia, semiologia e liturgia gregoriana in un connubio di competenze artistiche e musicologiche che arricchiscono la lettura di questi inni.

Alternanze vincenti Gli stessi interpreti animano una seconda interessante proposta, di cui è ancora una volta protagonista l’organo Antegnati, al quale si alternano da Edoardo Bellotti e l’organista giapponese Marimo Toyoda. Il disco Terra Tremuit (Discantica 280, 1 CD, www.discantica.it) ripropone la pratica dell’alternatim tra la schola cantorum e l’organo, con splendidi brani tratti dal repertorio gregoriano classico, alternati a «versetti»

organistici in cui spiccano i nomi di celebri compositori del Cinquecento, come Johann Stephani, Claudio Merulo, Giovanni Gabrieli, Girolamo Frescobaldi: campioni di un linguaggio polifonico strumentale che, nel servizio liturgico, assume una profondità e una ricchezza musicale di altissimo livello. Anche in questo contesto si apprezzano la delicata purezza delle linee melodiche del canto gregoriano, affidato al Concentus Monodicus, in contrasto con l’elaborazione polifonica dei brani organistici in un confronto di linguaggi che, nonostante le differenze stilistiche e compositive, condividono un comune e intenso afflato spirituale. Franco Bruni

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caleido scopio

Musiche per un’apparizione musica • La vita del Cristo è stata fonte di

ispirazione per ogni forma di espressione artistica, come nel caso di questa suggestiva declinazione dei prodigiosi eventi che ebbero luogo a Emmaus

O

riginati dall’espressione religiosa altomedievale, i drammi liturgici costituiscono le prime manifestazioni di una drammaturgia teatrale legata alla vita del Cristo, in una sorta di ri-creazione di episodi biblici particolarmente significativi e che, per la loro struttura narrativa, si prestavano a una teatralizzazione. A queste primigenie forme di dramma liturgico ci riconduce lo splendido ascolto di Le Jeu des Pèlerins d’Emmaüs (HMA 1951347, 1 CD, www.harmoniamundi. com), una composizione anonima della fine dell’XI secolo, di origine normanna, in cui si narra della celebre apparizione a Emmaus del Cristo risorto: un episodio particolarmente sentito nell’immaginario collettivo e tema iconografico molto fortunato nella pittura occidentale. I testi liturgici utilizzati in questa incisione si riferiscono alla liturgia pasquale che si celebrava dopo il Magnificat, alla fine del ciclo vespertino della domenica di Pasqua, e sono tratti da un manoscritto copiato in Sicilia durante il regno di Ruggero II (1130-1154), oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Madrid. In questo particolare contesto, la liturgia pasquale si arricchisce di pathos drammatico con l’inserimento dell’Officium peregrinorum, che narra la storia

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dei due pellegrini recatisi a Emmaus in Palestina e del loro incontro con il Cristo, preceduto in questa registrazione dai canti processionali dei Vespri pasquali e dalla processione al fonte battesimale.

Dalla monodia alla polifonia Diversi sono gli stili compositivi che ascoltiamo nella splendida esecuzione dell’Ensemble Organum: si passa, infatti, dal canto monodico, eseguito dal solista o dall’insieme della schola cantorum, a forme di

polifonia primitiva, caratterizzate dall’affascinante utilizzo del canto per quinte parallele dal sapore fortemente arcaizzante ma, non di meno, di grande fascino sonoro. Accanto a queste, altre forme polifoniche sono l’uso del bordone, costituito da una nota grave tenuta, e la melodia affidata alla voce superiore (Alleluia Surrexit Dominus, In exitu Israel, Benedicamus Dominus). Anche negli stili vocali risulta particolarmente interessante la scelta di Marcel Pérès di utilizzare in alcuni momenti uno stile di canto che

luglio

MEDIOEVO


risente della tradizione del canto monodico mozarabico (Haec dies), caratterizzato da ricchi melismi e dall’uso di micro-intervalli che risentono, evidentemente, di una forte influenza orientaleggiante.

Un’interpretazione mirabile Straordinaria è l’esecuzione dell’Ensemble Organum, un gruppo francese costituito da voci sopraffine specializzatesi nei repertori monodico-liturgici della tradizione cristiana e nell’esecuzione della polifonia primitiva; un gruppo che associa all’attività concertistica anche quella didattica e musicologica, con pubblicazioni dedicate ai molteplici aspetti dell’espressione musicale medievale. Notevole, d’altronde, è la direzione di Marcel Pérès, organista/cantante/musicologo algerino, fondatore nel 1982 del suddetto ensemble e, nel 2001, del Centre itinérant de recherche sur les musiques anciennes: un artista e studioso a tutto tondo che coniuga una grande sensibilità musicale alla profonda conoscenza e frequentazione di questi repertori. F. B.

Melodie essenziali musica •

Un grande gregorianista e un valente gruppo vocale femminile ci riportano alle origini della cultura musicale occidentale

A

scoltare oggi il canto gregoriano – o, meglio, il canto monodico liturgico – equivale a compiere un viaggio alle radici della cultura musicale occidentale. Sorto come canto spirituale, esso ha costituito la base su cui è andato formandosi il complesso discorso polifonico che, già dall’XI-XII secolo, trova i primi riscontri nelle scuole cattedrali d’Europa, preludio al successivo sviluppo del contrappunto. Alla prima fase del canto liturgico, ancora intatto nella sua raffinatezza melodica, è dedicato il disco Dum clamarem. Dolore e speranza nel Canto Gregoriano (TC 080001, 1 CD, www.tactus.it), con ascolti che ci trasportano in una dimensione sonora connotata dall’essenzialità e da un profondo senso spirituale.

Un salvataggio miracoloso Organizzati secondo la successione liturgica della messa, i brani sono tratti dal Proprium missae (introito, graduale, alleluia, offertorio, ecc.). Si comincia con l’introito Benedictus es Domino, tratto dal Libro di Daniele, che racconta la storia di tre fanciulli ebrei, perseguitati dal re babilonese per la loro fede, i quali, intonando inni al Signore, vengono miracolosamente salvati; un brano di grande bellezza, tratto da un Graduale bresciano del XII secolo, ma di origine piú antica. Le composizioni successive si snodano attraverso melodie suggestive che adottano stili

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compositivi diversi, con passaggi piú ornati, caratterizzati da lunghi melismi, spesso affidati al solista, e passaggi piú pacati, affidati alla «schola». L’alternanza tra momenti in cui è descritta la miseria umana alla ricerca della misericordia divina e il gaudio che deriva dalla celebrazione del Signore è il filo rosso che lega questi brani, lungo un itinerario chiuso da quattro splendide antifone mariane, collocate, liturgicamente parlando, a conclusione – da qui la definizione di antiphonae finales – dell’ufficiatura del giorno. Nato dal connubio tra la grande esperienza del gregorianista Nino Albarosa e l’entusiasmo di alcune studentesse di musicologia dell’Università di Bologna, il gruppo Mediae Aetatis Sodalicium, fondato nel 1991, si rivela all’altezza di questa preziosa incisione. L’amalgama delle voci femminili – a ricreare l’atmosfera di un ambiente monastico – è di rara bellezza; una performance affascinante, il cui slancio mistico si fonde con un approccio filologico, in un ricco scambio di competenze musicologiche, e una sensibilità musicale emotivamente vissuta. F. B.

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