Medioevo n. 209, Giugno 2014

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MEDIOEVO n. 6 (209) giugno 2014

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sommario

Giugno 2014 ANTEPRIMA mostre Dodici talenti per un libro «elefantiaco»

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celebrazioni Una storia da sfogliare

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musei L’antico dormitorio per un grande ritorno

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appuntamenti Siena segreta Carte colorate per il santo patrono C’è una Madonna nel bosco... L’Agenda del Mese

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46 COSTUME E SOCIETÀ il culto dei santi In odore di santità di Maria Paola Zanoboni

immaginario Yggdrasill

Tutto l’universo in un albero di Domenico Sebastiani

STORIE

luoghi

protagonisti

saper vedere I miracoli di Pisa

Jacques Le Goff

Un altro Medioevo

a colloquio con Franco Cardini, a cura di Alessandro Bedini

personaggi L’affaire «Godiva» di Francesco Colotta

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di Furio Cappelli

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36

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66 CALEIDOSCOPIO cartoline Sul golfo incantato

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libri Il potere dei soldi

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musica Armonie per voce e liuto Incontri impossibili

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Dossier Firenze

vivere all’ombra delle torri testi di Renato Stopani e Timothy Verdon; tavole e ricostruzioni di Massimo Tosi

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Ante prima

12 talenti per un libro «elefantiaco» mostre • È esposta a Norimberga la Gumbertusbibel,

una monumentale Bibbia riccamente illustrata della fine del XII secolo, acquistata ad Ansbach grazie a una... «sottoscrizione popolare»

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uando, prima del 748, il nobile francone Gumberto fondò una comunità di Benedettini ad Ansbach (40 km a sud-ovest di Norimberga), pose la prima pietra di un’istituzione ecclesiastica che, nel tempo, acquisí fama e potenza economica sovraregionali. Di quel monastero sappiamo pochissimo e persino i contorni della figura del fondatore ci sfuggono quasi completamente. In una carta del 786 Carlo Magno pose l’abbazia sotto la sua protezione e attribuí a Gumberto il titolo onorifico di episcopus, ma questi, in realtà, era un laico, ricco e influente, che, con la fondazione dell’abbazia, voleva garantire alla propria anima le preghiere eterne della Chiesa e che in seguito fu all’origine di un modesto culto locale. Fin dagli inizi la comunità, che verso il 1000 fu trasformata in un collegio di canonici, dispose certamente di una biblioteca, anche se poco o nulla ne sappiamo. Vi si conservavano, però, forse già dal IX secolo, codici come i preziosi Evangeli illustrati scritti e decorati a Fulda verso l’825-850 (ora custoditi a Erlangen, presso l’Universitätsbibliothek).

L’intraprendenza di un canonico

Qui sopra la pagina iniziale, riccamente miniata, della sezione della Gumbertusbibel che contiene la trascrizione del Vangelo di Luca. Fine del XII sec. Erlangen, Biblioteca Universitaria.

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Sul finire del XII secolo il decano Goteboldo, con l’aiuto di alcuni cittadini di Ansbach, acquistò una Bibbia illustrata di dimensioni monumentali (67 x 45,5 cm), detta poi Gumbertusbibel. Canonico e copista al servizio anche del vescovo di Würzburg, Goteboldo fece trascrivere una nota nel manoscritto appena arrivato ad Ansbach, in cui si legge tra l’altro che egli stesso e il giugno

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Dove e quando

«La Gumbertusbibel. L’aureo splendore delle immagini in età romanica» Norimberga, Museo Nazionale Germanico fino al 27 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (mercoledí apertura serale fino alle 21,00); lu chiuso Info www.gnm.de

Qui sopra una pagina miniata della Gumbertusbibel con una teoria di scene raffiguranti episodi della Creazione del mondo. Fine del XII sec. Erlangen, Biblioteca Universitaria. Nella pagina accanto, in alto la nota sull’acquisto della Gumbertusbibel. L’opera fu comprata verso la fine del XII sec. dal decano Goteboldo con l’aiuto di alcuni cittadini di Ansbach. coriarius (cioè conciatore) Sigelous donarono ciascuno un talento, Sigefrido (un altro canonico) tre, mentre i cittadini misero a disposizione gli altri sette. La loro menzione nel «libro tangibile» (in hoc materiali libro) doveva contribuire alla salvezza della loro anima. La Gumbertusbibel è un raro esempio documentato di iniziativa collettiva per l’acquisto di un codice inteso come elemento di identificazione civica. È difficile dire a quanto corripondessero 12 talenti a quell’epoca, ma dovette trattarsi di una somma assai ingente. Si consideri che, nello stesso periodo, il ricco abate di Michaelbeuern, nei pressi di Salisburgo, pagò per una Bibbia atlantica paragonabile alla Gumbertusbibel solo 10 talenti.

Un ottimo affare In realtà, ad Ansbach fecero un ottimo affare, perché per soli due talenti in piú venne comprato un manoscritto della vulgata sontuosamente illustrato. La Gumbertusbibel contiene non meno di undici pagine miniate con illustrazioni narrative ispirate al Vecchio e al Nuovo Testamento, 37 immagini singole e un gran numero di capilettera, in parte istoriati. Nessun altro manoscritto

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romanico della Bibbia supera la Gumbertusbibel per quantità e complessità dell’illustrazione. Non è infatti la qualità intrinseca dell’esecuzione a renderla tanto preziosa quanto l’arte suprema del «raccontare per immagini» in composizioni dalla struttura raffinata in cui rappresentazione e riferimenti allegorici si fondono in unità di forte impatto visivo. Il manoscritto fu concepito in modo omogeneo. Vi lavorarono diversi artisti e non meno di dodici copisti, tre dei quali si sobbarcarono l’onere di scrivere gran parte del testo. Un simile codice presuppone l’esistenza di un’officina di primo piano, in grado non solo di garantirne l’esecuzione materiale, ma anche di concepirlo nel suo assieme. Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire con certezza dove si trovasse lo scriptorium in cui venne realizzata la Gumbertusbibel. Inizialmente gli storici dell’arte hanno creduto di riconoscere influenze di origine salisburghese nella fattura del manoscritto, mentre lavori piú recenti optano per la città di Ratisbona.

Le traversie moderne di un capolavoro L’analisi della scrittura condotta dalla paleografa Rosa Marulo e da chi scrive rimescola le carte, perché mette in rilievo la formazione salisburghese di almeno due dei copisti cui si deve la Gumbertusbibel. Il codice venne conservato ad Ansbach anche dopo la Riforma, che portò allo scioglimento della collegiata, e costituí per lungo tempo una delle attrazioni locali, come testimoniano rendiconti di viaggio. Le dimensioni «elefantiache», come le definí un bibliotecario a Erlangen ancora nel 1829, e la ricchezza delle illustrazioni impressionarono generazioni di visitatori. Ma il territorio passò nel 1791 sotto controllo della Prussia quando il margravio, spaventato dalla Rivoluzione francese, fuggí in Inghilterra con l’amante, e, nel 1805, la Gumbertusbibel venne incorporata nei fondi della Biblioteca Universitaria di Erlangen. La mostra di Norimberga costitusce un’occasione rarissima di vedere l’originale della Gumbertusbibel e di altri importanti manoscritti come la Bibbia detta «di Alcuino» del IX secolo ora a Bamberga, la Bibbia atlantica scritta probabilmente a Roma che l’imperatore Enrico IV donò nel 1075 all’abbazia di Hirsau, proveniente da Monaco, o l’imponente Bibbia di Echternach della seconda metà dell’XI secolo, oltre ad altri codici, manufatti e documenti che permettono di collocare la Bibbia di Gumberto nel contesto culturale del suo tempo. Michele C. Ferrari

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Ante prima

Una storia da sfogliare

celebrazioni • La carta di Fabriano festeggia i suoi 750 anni: una ricorrenza

importante, salutata da iniziative che permettono di ripercorrere un’avventura straordinaria, iniziata, forse nel II secolo prima di Cristo, nella lontana Cina

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ra gli articoli di cancelleria, acquistati e annotati nel registro comunale di Matelica da un notaio, figura la «carta bambagina». È il 1264 e la carta proviene da Fabriano. La storia della manifattura affonda quindi le radici nel Medioevo. E i suoi 750 anni di vita vengono festeggiati con numerose iniziative. Il Museo della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci» di Milano ha allestito l’Area Carta, un nuovo spazio con attrezzature storiche usate per la produzione dei fogli, che arricchisce il percorso legato ai Materiali. Al centro della sezione espositiva c’è la pila a magli multipli del XVIII secolo, una macchina idraulica in legno e metallo che veniva usata per triturare stracci vecchi e preparare la pasta di carta. Dopo queste due fasi venivano realizzati, con il torchio, strati sottili, che dovevano essiccare

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ed essere sottoposti a collatura, per poi essiccare di nuovo. A Milano sono esposti anche esemplari in pergamena, papiri e filigrane, oltre agli strumenti di corredo alla pila: dal tino alle forme al torchio a vite.

Acqua, fibre naturali e colla Un altro appuntamento interessante è la mostra presentata all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi: Fabriano, maestri cartai da 750 anni. Grazie a video e postazioni tattili, l’esposizione permette di entrare in un mondo affascinante, nato da una ricetta fatta di acqua, fibre naturali e colla. Oltre a raccontare come nascono i celebri fogli marchigiani, la rassegna propone documenti antichi, pagine originali, filigrane medievali, illustrando poi le tecniche di produzione di banconote e filigrane 3D. Ma il sottotitolo Artisti, tecnologie e storie straordinarie specifica giugno

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Qui sopra la pila idraulica a magli multipli esposta nell’Area Carta del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci» di Milano. XVIII sec. Nella pagina accanto, in alto la cartiera di Fabriano nel 1950. Nella pagina accanto, in basso pagina con la riproduzione del motto delle cartiere di Fabriano. Dove e quando

Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci» Milano, via San Vittore 21 Orario ma-ve, 9,30-17,00; sa e fe, 9,30-18,30; lu chiuso Info tel. 02.485551; www.museoscienza.org

«Fabriano, 750 anni di storia» Parigi, Istituto Italiano di Cultura fino al 21 giugno Orario lu-ve, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info www.iicparigi.esteri.it

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che i riflettori sono puntati anche sulle opere studiate, progettate o schizzate su carta da grandi come Michelangelo, Francis Bacon e Roy Lichtenstein, e poi Beethoven e Fellini. Un altro focus è dedicato alle tecniche di disegno e pittura usate sul cartaceo, e tra le attrazioni principali vi è il Manuale tipografico di Giambattista Bodoni, che si può sfogliare attraverso un’installazione interattiva.

L’invenzione di un ministro Per il compleanno di Fabriano è stato anche pubblicato Cotone, Conigli e invisibili segni d’Acqua. Il testo ripercorre la nascita del supporto cartaceo, che avviene probabilmente nel II secolo a.C., in Cina, nell’ambito della ricerca di un’alternativa al foglio di seta, troppo costoso per l’uso comune. La leggenda attribuisce l’invenzione della carta a Ts’ai Lun, ministro dell’agricoltura alla corte degli Han Orientali, che, in realtà, ne perfeziona la tecnica produttiva nel 105 d.C. Nel VII secolo la carta esce dai confini della Cina, per arrivare in Corea e quindi in Giappone. Poi giunge attraverso un lungo viaggio a Samarcanda, a Baghdad e a Damasco, toccando in seguito il Cairo e Tunisi. Quando dalle coste africane sbarca in Sicilia seguirà rotte diverse. Ma è a Fabriano che, come si legge nel volume, le tecniche di produzione si affinano, tanto che

Autori Vari Cotone, Conigli e invisibili segni d’Acqua. 750 anni di storia della carta a Fabriano Corraini Edizioni, Mantova, 144 pp., ill. col. 29,50 euro ISBN 978-88-7570-418-6 corraini.com ben presto le risme delle Marche vengono inviate in diverse città italiane, in Provenza, Medio Oriente e Nord Europa. I cartai fabrianesi si costituiscono in corporazione nel 1326, mentre prima facevano capo agli artigiani della lana, con i quali condividono i metodi di lavorazione. Infatti la carta bambagina è fatta con il cotone degli stracci, con il lino, o con la canapa, ed è diversa dalla pecorina, una pergamena di pelle di pecora o agnello poi conciata per diventare membrana. Il testo affronta anche i secoli successivi, con la diffusione a livello mondiale dei prodotti fabrianesi, con le innovazioni e le infinite varianti introdotte negli stabilimenti italiani. Altri capitoli toccano la carta come sinonimo di sicurezza, alla quale vengono consegnati documenti ufficiali, filigrane e banconote. Per il calendario completo delle iniziative legate ai 750 anni della carta di Fabriano, si può consultare il sito: www.fabriano.com Stefania Romani

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Ante prima

L’antico dormitorio per un grande ritorno musei •

San Gimignano saluta la riapertura del Museo di Arte Sacra. Una collezione di grande valore, con opere in larga parte comprese tra Medioevo e Rinascimento e in molti casi firmate da alcuni dei piú insigni maestri del tempo

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bicata in posizione strategica lungo la via Francigena, la principale direttrice di comunicazione tra l’Europa settentrionale e Roma, San Gimignano contava in età medievale ben 76 case-torri, costruite dalle famiglie nobili all’interno della sua cerchia muraria. Alcune delle tredici rimaste affacciano sulla piazza del Duomo romanico, consacrato nel XII secolo, la cui Sacrestia, nel 1915, ospitò la prima collezione di quella pinacoteca che, trent’anni piú tardi, si trasformò nel Museo di Arte Sacra. Attualmente allestito nella sezione principale del Palazzo dell’antico dormitorio dei Cappellani, a lato della Collegiata, il museo è stato recentemente interessato da lavori

Qui accanto Bartolo di Fredi, Madonna della Rosa. Tempera su tavola, seconda metà del XIV sec. Tutte le opere riprodotte sono esposte nel Museo d’Arte Sacra di San Gimignano.

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di ampliamento e riordino per una migliore fruibilità delle opere, provenienti dalle chiese e dai conventi del territorio circostante. Sono circa 390 i pezzi esposti: dipinti su tavola e su tela, sculture, resti di monumenti funerari, arredi sacri, oreficerie di fine lavorazione, paramenti sacri, come paliotti o pianete, e corali miniati di Niccolò di Ser Sozzo e Lippo Vanni, databili a partire dal 1200.

Quaranta colombe Nelle sale, disposte su due piani, trovano posto, tra l’altro, lastre tombali e frammenti marmorei risalenti al XIV e XV secolo, un altare in pietra del X-XI secolo, oltre a un rarissimo esempio di arte tessile del Quattrocento, il Paliotto delle Colombe d’Oro, cosí chiamato perché vi sono appunto rappresentate quaranta colombe, dodici delle quali allineate nel fregio ai lati di un’anfora con fiori e le rimanenti nel campo inferiore intorno al monogramma bernardiniano (YHS). Il pannello, realizzato in velluto e seta color vermiglio con ricami d’oro e d’argento per l’altare maggiore della Collegiata, fu commissionato da ser Francesco d’Antonio e Agostino di ser Niccolaio, alle monache benedettine del monastero delle Murate di Firenze ed è considerato un’opera fondamentale per lo studio dei tessuti antichi. Tra i manufatti scolpiti, spiccano due Crocifissi in legno policromo; uno fu eseguito da Benedetto da Maiano, mentre ignota è la paternità dell’altro, risalente al XIII secolo. Simbolo della raccolta museale è, però, la tavola trecentesca rappresentante la Madonna della Rosa di Bartolo di Fredi, che faceva parte di un trittico, originariamente collocato nella pieve di S. Biagio a Cusona. Allievo di Ambrogio Lorenzetti, la cui bottega si avvicinò alle innovative tendenze fiorentine, Bartolo sviluppò un raffinato linguaggio pittorico che rivela un approccio naturalistico, seppur tradotto in un’espressione stilistica tendenzialmente decorativa. Attivo in tutto il comprensorio di

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A destra Vincenzo Tamagni, San Martino di Tours dona il suo mantello a un povero. Tempera su tavola, inizi del XVI sec. In basso copia da Andrea del Sarto, Madonna col Bambino, Santa Elisabetta e San Giovannino. Tempera su tavola. Nella pagina accanto, in alto una sala del Museo d’Arte Sacra.

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Ante prima Dove e quando

Museo d’arte sacra San Gimignano Orario 01.04-31.10: lu-ve, 10,00-19,30; sa, 10,00-17,30; do, 12,30-19,30; 01.11-31.03: lu-sa, 10,00-17,00; do, 12,30-17,00; chiuso dal 15 al 31 gennaio, il 12 marzo, dal 15 al 30 novembre, il 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0577 286300; e-mail: prenotazioni@ duomosangimignano.it

In alto ancora una veduta del nuovo allestimento del museo di San Gimignano. In basso Fra Paolino da Pistoia, Madonna col Bambino e Santi Gimignano, Domenico, Antonino, Girolamo, Caterina d’Alessandria e Lucia. Tempera su tavola, 1525.

Siena, firmando anche le Storie del Vecchio Testamento, proprio nel Duomo di San Gimignano, preferí una gamma cromatica caratterizzata da morbidi passaggi, rimanendo legato all’astratto mondo della sua città natale, lontana da quella fertile sintesi tra le arti che si era instaurata nella vicina Firenze.

Tra devozione e giochi ottici Accanto all’artista senese, è stata sistemata le pala di Fra Paolino da Pistoia che torna dopo un’assenza di oltre un decennio. Il restauro ha ridato splendore non solo al dipinto, eseguito nel 1525 e raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, ma anche alla cornice. Importante testimonianza della grande devozione privata nei confronti della Vergine è data, invece, da un altarolo di scuola fiorentina, della fine del XIV secolo, con Madonna e Bambino, concesso in deposito permanente al Museo da una famiglia senese. Dopo quindici anni, tornano visibili, infine, due originali quadri di Matteo Rosselli del 1600 che creano suggestivi giochi ottici: a seconda di come ci si pone, raffigurano un doppio ritratto del Redentore o della Santa Maria Maddalena, San Francesco o Santa Chiara. Il nuovo allestimento può essere visitato con l’ausilio dell’audioguida gratuita che illustra anche i capolavori custoditi nella Collegiata e nella cappella di S. Fina. Mila Lavorini

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Siena segreta appuntamenti • Per soli due giorni, il 21 e 22

giugno, il Palazzo Pubblico della città toscana apre alcuni dei suoi spazi normalmente preclusi alla visita. Un’occasione davvero imperdibile...

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iena festeggia il solstizio d’estate con la riapertura al pubblico delle Stanze segrete del Palazzo Pubblico. Il 21 e 22 giugno si potranno infatti visitare ambienti normalmente non visibili, poiché utilizzati come uffici comunali, ma che custodiscono capolavori che sono al contempo importanti spunti di riflessione sulla storia civile e politica della città e delle sue strutture di giustizia. Costruito per ospitare il Consiglio dei Nove, il piú famoso organo del governo oligarchico senese, il Palazzo Comunale è un elegante esempio di architettura gotica, nonché uno dei primi edifici civici, in Italia, ad ammorbidire le proprie linee, allontanandosi dal possente aspetto delle fortezze. I nove componenti a capo dell’amministrazione, dal 1287 al 1355, pur restando in carica per due mesi, durante i quali potevano uscire solo per le festività, ebbero il tempo, a turno, di commissionare affreschi, come le Allegorie del Buono e Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti o la Maestà di Simone Martini, a sostegno del proprio programma politico, opere poi divenute capisaldi dell’arte internazionale.

Sei secoli di capolavori Sei stanze e due atri saranno rivelati, in un percorso guidato che svela un tesoro comprendente opere che vanno dal XIV al XX secolo, in una parabola che termina con l’Ufficio di Gabella, dal soffitto decorato con tempere e stucchi nel 1922.

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Protagonista di questo esclusivo viaggio è la Sala delle Lupe che deve il suo nome proprio alle due lupe marmoree trecentesche poste sulla parete di sinistra, attribuite a Giovanni Pisano e che, in origine, servivano come gocciolatoi esterni alla facciata del palazzo. La lupa che allatta Romolo e Remo è il simbolo di Siena, che la leggenda vuole fondata da Aschio e Senio,

Siena, Palazzo Pubblico, Sala delle Lupe. Sano di Pietro, San Pietro Alessandrino tra i beati Andrea Gallegani e Antonio Sansedoni. Affresco, 1446. figli di Remo, i quali, fuggendo da Roma e dalle ire dello zio, portarono con loro un’effigie della lupa romana, a ricordo della loro terra perduta. Formatosi presso il padre Nicola il cui stile fu orientato all’impostazione classica ma con accenti legati al realismo gotico, Giovanni si accostò all’arte francese, armonizzando le sue composizioni con l’esaltazione del dinamismo

delle figure, enfatizzandone la resa espressiva, raggiungendo una raffinata elaborazione formale. Passando nella Stanza del Sale, si può ammirare il quattrocentesco San Martino e il povero e San Bernardino, affrescato da Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, artista melanconico e solitario, le cui immagini furono caratterizzate da grazia e proporzione.

Le storie di Taddeo di Bartolo Una lunga sosta merita quindi la Cappella dei Priori, impreziosita dalla mano di Taddeo di Bartolo che, agli inizi del Quattrocento, vi realizzò cinque storie mariane: Annunciazione, Congedo dagli Apostoli, Morte della Vergine, Funerale di Maria e Assunzione. Questa commissione contribuí ad aumentare la sua fama che si spostò ben oltre i confini del suo luogo natale, permettendogli di diffondere l’aristocratico linguaggio pittorico senese. Artista dotato di una salda padronanza dei mezzi tecnici, Taddeo sviluppò una discreta propensione verso volumetrie piene e ben modellate e tratti stilistici piú forti rispetto alla leggerezza tipica delle linee di scuola senese. Pur non discostandosi dai dettami giotteschi, gli episodi sono resi in modo vivido, come il corteo funebre, sottolineando la spiritualità dell’ambiente il cui soffitto è abbellito da trentadue angeli musicanti, ognuno dei quali suona uno strumento diverso, raffigurato con una precisione tale da permetterci di ricostruire la struttura di un’orchestra medievale. Svariati, invece, sono i soggetti dipinti sulle pareti degli atri, dell’ex sala della Giunta che propone, tra l’altro, anche due vedute di piazza del Campo, della Cancelleria e della Bilanceria di Biccherna, dove campeggiano due cicli pittorici eseguiti tra il Cinquecento e il Seicento. M. L.

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Ante prima

Carte colorate per il santo patrono appuntamenti • Palazzolo Acreide rende

omaggio a san Paolo con una festa che ha il suo culmine in una tempesta chiassosa e variopinta

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alazzolo Acreide, perla della provincia di Siracusa e degli Iblei, custodisce molti tesori, tra cui il teatro greco, il poggio medievale, la basilica di S. Paolo, la chiesa di S. Sebastiano e il quartiere dell’Orologio: non stupisce, quindi, che l’UNESCO l’abbia inserita nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Questo antico centro siculo ha il suo momento di maggiore fervore religioso nella festa di san Paolo, celebrata ogni anno dal 26 giugno al 6 luglio, che affonda le sue radici in epoca precristiana, nelle grandi feste stagionali legate al ciclo della natura. Il culto di san Paolo è molto antico:

già nella Palatiolum medievale esistevano una chiesa e un’autorevole confraternita dedicate al santo, anche se la sua elezione a patrono principale di Palazzolo avvenne solo nel 1688, «per la gran devozione de’ populi di detta terra e delle terre convicine». La festa ruota attorno ad alcuni momenti di grande partecipazione popolare. Il primo è la svelata, che si svolge la sera del 28 giugno, quando nella basilica di S. Paolo la cinquecentesca statua del santo compare fra le colonne tortili dell’altar maggiore, accolta dalle acclamazioni di giubilo della folla. Il santo incede lentamente con l’aureola argentea, la spada bianca, il prezioso diadema e lo sguardo serio.

La benedizione degli animali Di particolare interesse etnoantropologico sono le cuddure, grandi pani votivi con figure a rilievo di uno o piú serpenti, raccolte la mattina del giorno successivo per le vie del paese con l’aiuto di un carretto trainato a mano, e poi vendute all’incanto. Questo rito evidenzia il legame della festa col mondo contadino, rappresentato anche dalla benedizione degli animali, condotti sul sagrato della chiesa sempre la mattina del 29 giugno. Ma il momento principale delle celebrazioni è la successiva sciuta dei fercoli delle reliquie e della statua di san Paolo. Alle 13,00, decine di cannoncini sistemati sulla facciata della chiesa sparano un nugolo di strisce di carta colorata, dette

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In alto Palazzolo Acreide. Il momento della festa in cui due bambini denudati vengono «offerti» a san Paolo. In basso la pioggia degli nzareddi, strisce di carta colorata sparate da cannoncini sistemati sulla facciata della chiesa. nzareddi, mescolate a variopinti volantini, che si innalzano fin sopra il campanile prima di cadere sul simulacro e sui portatori, nascondendoli per qualche istante alla vista dei fedeli assiepati nello spazio antistante e nei balconi dei palazzi settecenteschi. Il tutto nel frastuono dei fuochi d’artificio, al quale si mescola il suono della banda musicale. Subito dopo, parte la processione con la statua del santo. La festa continua in serata con una seconda processione lungo le strade illuminate da artistiche arcate di lampade, con uno spettacolo pirotecnico e un concerto musicale finale. Negli otto giorni successivi si susseguono solenni funzioni religiose, che terminano la sera del 6 luglio con un’altra processione e con la velata della statua del Santo nella chiesa a lui dedicata. Tiziano Zaccaria giugno

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Ante prima

C’è una Madonna nel bosco... appuntamenti •

Il villaggio andaluso di El Rocío si appresta ad accogliere, come ogni anno, le migliaia di pellegrini che vi si recano per rendere omaggio a un’immagine di Maria scoperta, perduta e ritrovata da un cacciatore

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in dal Medioevo la Vergine del Rocío è la patrona di Almonte, antico centro situato nella comunità autonoma dell’Andalusia, a un centinaio di chilometri da Siviglia. La tradizione religiosa ebbe inizio quando, secondo una leggenda locale, in una data imprecisata del XV secolo, un cacciatore scoprí un’effigie della Vergine vicino a un bosco paludoso, a 17 km da Almonte. In mezzo a un folta e incolta vegetazione che rendeva quel luogo accessibile solo agli uccelli e agli animali selvatici, i cani del cacciatore iniziarono ad abbaiare con veemenza, trovando il sacro simulacro sul tronco di un albero, straordinariamente intatto e luminoso, nonostante fosse alla mercè delle intemperie e della natura. L’uomo prese sulle sue spalle il dipinto con l’intenzione di portarlo nella città di Almonte, ma durante il tragitto si addormentò per la stanchezza e la fatica. Al suo risveglio, si ritrovò privo dell’immagine sacra, che poi rintracciò proprio lò dove l’aveva trovata. Cosí il clero locale decise di costruire in quel luogo un eremo dedicato a questa Vergine, alla quale

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Due momenti della festa in onore della Vergine del Rocío, ad Almonte.

fu da subito attribuito un potere taumaturgico per la cura di febbri, sterilità e malattie mentali.

Quattro cammini per i pellegrini Nei secoli successivi attorno all’eremo prese forma il villaggio di El Rocío, oggi meta del pellegrinaggio annuale che si celebra in occasione della Pentecoste, cinquanta giorni dopo Pasqua (quest’anno sarà il 9 giugno). Nella settimana precedente, dalle

vicine città di Huelva, Siviglia e Cadice, ma anche da altre regioni della Spagna, decine di confraternite partono in direzione di El Rocío. Esistono quattro itinerari fondamentali: il cammino di Sanlúcar, che attraversa il parco nazionale di Doñana, utilizzato da chi proviene da Cadice; il cammino di Los Llanos, che parte dalla stessa Almonte, e che è il piú antico; quello di Moguer, utilizzato da chi arriva da Huelva; infine il cammino sivigliano, dove si ritrovano generalmente le confraternite provenienti dal resto della Spagna. Al loro arrivo nel villaggio di El Rocío, i pellegrini si accampano in attesa dell’arrivo delle altre confraternite. Il sabato sfilano per presentarsi alla Vergine con il loro simpecado, lo stendardo dell’associazione. La domenica è il giorno degli uffici religiosi. E il lunedí mattina avviene il momento finale e piú commovente: l’effigie dalla Vergine viene portata in processione per tutto il villaggio fra migliaia di fedeli. T. Z. giugno

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Ante prima

101 castelli

d’Italia

DALLA VALLE D’AOSTA ALLA SICILIA, UN AVVENTUROSO VIAGGIO ALLA RISCOPERTA DEI LUOGHI SIMBOLO DELL’ ETÀ DI MEZZO

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l castello medievale appartiene al nostro paesaggio immaginario, ma rappresenta, al contempo, un elemento del paesaggio reale di oggi, sia esso in rovina, trasformato in un museo oppure sede di un’istituzione pubblica. Salvo rari casi, i castelli hanno subíto molti cambiamenti nel corso dei secoli, sia nella forma che nella funzione: basti pensare alle numerose prigioni che, fino a pochi anni fa, erano ospitate proprio all’interno di imponenti strutture fortificate medievali. Nell’accezione piú comune del termine, il castello è innanzitutto un luogo in cui si abita: la casa che un signore condivide con i suoi familiari e i suoi domestici, ma non si tratta di una semplice – seppure ricca – dimora.

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Esso rappresenta il simbolo del potere, della ricchezza e del prestigio di chi vi risiede. Nel Medioevo quasi tutto si esprimeva attraverso dei simboli – è in questo periodo, del resto, che viene inventata l’araldica – ed è pertanto necessario approssimarsi alla scoperta dei castelli d’Italia anche attraverso questa chiave di lettura. I 101 castelli raccolti nel nuovo Dossier di «Medioevo» rappresentano, inevitabilmente, una scelta limitata, se messi a confronto con le migliaia di capolavori che l’architettura militare italiana può vantare. Ma è anche una scelta ragionata, una guida attraverso l’Italia del Medioevo e un invito ai nostri lettori a crearsi un personale atlante dei «castelli nascosti»... giugno

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il nuovo dossier di medioevo li argomenti g del dossier U Valle

d’Aosta Fénis. La forza di una visione U Piemonte Manta. I prodi, le eroine, l’arme e gli amori... U Liguria Dolceacqua. Il gigante del Nervia U Lombardia Milano e Vigevano. Costruire per intimidire U Veneto Malcesine. Sentinella del lago U Trentino-Alto Adige Avio. Amore fatale U Friuli-Venezia Giulia Trieste. Tra Venezia e gli Asburgo U Emilia-Romagna Torrechiara. Sublime armonia U Toscana Fosdinovo. Bianca, il cane e il cinghiale U Marche Gradara. Nella rocca di Paolo e Francesca U Umbria Spoleto. Qui comanda la Chiesa U Lazio Ostia. Il bastione del papa U Abruzzo Roccascalegna. Tra pietra e cielo U Molise Campobasso. La fortezza del conte Nicola U Campania Salerno. Imprendibile! U Puglia Castel del Monte. La corona di pietra U Basilicata Lagopesole. Un reale buen retiro U Calabria Santa Severina. Il diavolo fa le travi... U Sicilia Erice. Nel segno di Venere U Sardegna Burgos. Goceano senza pace

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Mostre Conegliano Un CinQuecento inQuieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo U Palazzo Sarcinelli fino all’8 giugno

Nel XVI secolo Conegliano vive un’eccezionale esperienza di cultura e si impone come uno dei cuori culturalmente piú dinamici del territorio veneto. La città, con i suoi dintorni, per circostanze storiche e territoriali e per la sua qualità ambientale e paesaggistica, è stata un centro di interessi culturali e testimonianze artistiche e letterarie di singolare ricchezza, luogo di incontri e convergenze dei protagonisti della storia dell’arte: da Cima a Pordenone, da Lotto a Tiziano. Di questo affascinante

a cura di Stefano Mammini

e inquieto momento storico l’esposizione percorre i tratti salienti, soprattutto negli esiti pittorici, documentando la presenza e gli influssi di alcuni dei protagonisti di una stagione d’arte manifestata in dipinti di ufficiale e di pubblica devozione, opere piú sommesse e private, decorazioni e prodotti d’arte applicata, stoffe e suppellettili religiose e profane. info uncinquecentoinquieto.it

Ravenna L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo U Museo d’Arte della città fino al 15 giugno

Risalgono ai tempi di Vitruvio e di Plinio le prime operazioni di distacco, secondo una

Londra Il Veronese: splendore nella Venezia del Rinascimento U The National Gallery fino al 15 giugno

tecnica che prevedeva la rimozione delle opere con l’intonaco e il muro che le ospitava. Il cosiddetto «massello», che favorí il trasporto a Roma di dipinti provenienti dalle terre conquistate altrimenti inamovibili, dopo secoli di oblio trovò nuova fortuna a partire dal Rinascimento – nel Nord come nel Centro della Penisola – favorendo la conservazione di

porzioni di affreschi che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre. Cosí, in un arco temporale compreso fra il XVI e il XVIII secolo, vennero traslate, tra le altre, alcune delle opere piú importanti presenti in mostra: la Maddalena piangente di Ercole de’ Roberti e il gruppo di angioletti di Melozzo da Forlí. info tel. 0544 482477 oppure 482356; e-mail: info@museocitta.ra.it; mar.ra.it

Conosciuto come il Veronese, Paolo Caliari (1528-1588) fu uno degli artisti piú rinomati e ambiti che operavano nella Venezia del XVI secolo. Le sue opere decoravano chiese, palazzi patrizi, ville ed edifici pubblici in tutto il Veneto e sono legati all’idea di fasto e splendore che abbiamo della Repubblica di Venezia di quel tempo. La mostra allestita alla National Gallery (che sarà poi ripresentata in Italia, a Verona, dal 5 luglio) riunisce le opere provenienti da ogni aspetto dell’attività dell’artista: ritratti, pale d’altare, allegorie e scene mitologiche, che rappresentano il picco della sua produzione

mostre • Impressioni bizantine. Salonicco attraverso le immagini fotografiche e i disegni U Bologna – Museo Civico Medievale

fino al 28 settmebre info tel. 051 2193930; comune.bologna.it/iperbole/MuseiCivici

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no sguardo su Salonicco tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, con le inconfondibili prospettive su mura, chiese, mosaici, arredi marmorei bizantini: è quello che offrono le fotografie e le illustrazioni eseguite dagli architetti inglesi Robert Weir Schultz e Sidney Howard Barnsley, che visitarono la città greca nel 1888 e nel 1890 per motivi di studio, influenzati dal celebre movimento artistico Arts and Crafts. Agli inizi del XX secolo il loro lavoro fu continuato dagli allievi inglesi Walter S. George e William Harvey, i quali, grazie alla collaborazione con le autorità turche e ai finanziamenti del Byzantine Research and Publication Fund, poterono arricchire notevolmente la documentazione già raccolta: l’insieme del materiale costituisce una sezione importante nell’archivio della BSA, per la prima volta mostrata al pubblico italiano. Il percorso espositivo si snoda attraverso i principali monumenti bizantini di Salonicco: l’arco di Galerio, la Rotonda, le chiese della Panagia Acheiropoietos, di S. Demetrio e di S. Sofia. Alle immagini fotografiche si accompagnano alcuni oggetti rari – bizantini e ottomani – delle collezioni dei Musei Civici di Bologna: avori, icone e manufatti in metallo. La mostra propone un viaggio all’interno della città prima dell’incendio del 1917, che ne modificò profondamente l’immagine, offrendo anche uno spunto di riflessione sul contesto culturale che portò i giovani intellettuali britannici del periodo a farne una tappa importante del proprio itinerario di formazione.

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per ogni fase della carriera. info nationalgallery. org.uk Milano Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo U Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno

Il percorso espositivo illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. La mostra si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi

importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche, l’Egitto tra antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultimo tema chiude idealmente il

cardine della Chiesa locale. info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); comune.milano.it/ museoarcheologico; e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it londra vichinghi: vita e leggenda U The British Museum fino al 22 giugno

percorso nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura

Dopo essere stata presentata a Copenaghen, giunge a Londra una delle piú ricche esposizioni sulla storia dei navigatori scandinavi. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato, erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione

della British School at Athens (1888-1910)

di isolamento della penisola scandinava. Oltre a oggetti d’arte e manufatti artigianali di notevole pregio, la mostra propone la ricostruzione integrale della piú grande nave vichinga a oggi nota. Si tratta dell’imbarcazione scoperta nel 1997 a Roskilde, in Danimarca, e databile agli inizi dell’XI secolo: un legno possente, che misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. Degni di nota sono inoltre il tesoro scoperto nel 2007 a Harrogate, nello Yorkshire, e reperti inediti provenienti dalla Norvegia e dalla Russia. info britishmuseum.org

attraverso un suggestivo percorso tra reperti archeologici e opere d’arte del patrimonio abruzzese. Anche nel Medioevo la Madre Terra rappresenta la principale sorgente di vita in questa regione impervia, di montagne, di valli e di orridi, dove è la donna il porto sicuro, il punto fermo di un’umanità in perenne cammino con l’alternanza delle lunghe, silenziose e operose tappe di pellegrini, uomini d’arme, mercanti e pastori. info tel. 085 60391; casadannunzio. beniculturali.it milano Giovanni Bellini. La pittura devozionale umanistica U Pinacoteca di Brera fino al 6 luglio

Il restauro della Pietà di Giovanni Bellini, appartenente alla Pinacoteca di Brera, è l’occasione per ripercorrere la prima carriera del pittore

Pescara GRANDI MADRI GRANDI DONNE. Percorsi d’Arte dalla Preistoria al Rinascimento U Casa natale di Gabriele d’Annunzio fino al 30 giugno

La mostra rende omaggio al ruolo della donna come madre,

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agenda del mese mostre • Forma e vita di una città medievale. Leopoli-Cencelle U Roma – Mercati di Traiano - Museo dei Fori Imperiali

fino al 27 luglio info tel. 060608; mercatiditraiano.it, www.zetema.it

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lla metà del IX secolo, quando si rivolsero a papa Leone IV per chiedergli aiuto contro le incursioni saracene, gli abitanti di Centumcellae (odierna Civitavecchia, lungo il litorale laziale a nord di Roma) non immaginavano di promuovere una delle rare città di fondazione altomedievale in Italia, che ben si inseriva nei programmi dei vescovi di Roma di organizzazione del territorio del Ducato Romano. L’espansione e la fisionomia urbana del sito, che rappresenta l’anima di Civitavecchia, sono stati restituiti dalla ricerca archeologica, in straordinaria sintonia con le abbondanti fonti documentarie. Dell’intera vicenda dà conto la mostra allestita nei Mercati di Traiano, ricostruendo lo sviluppo di Leopoli-Cencelle dalla sua consacrazione, il 15 agosto dell’854, fino (almeno) al XVII secolo. Il percorso espositivo permette di leggere archeologicamente la nascita e lo sviluppo di un sito urbano, attraverso tre diverse fasi: da centro di tradizione classica – sede vescovile al momento del suo impianto – a realtà comunale stabile, fino alla riconversione in azienda agricola, legata all’economia di indotto della produzione di allume, alla metà del XV secolo.

veneziano, grande protagonista dell’arte rinascimentale italiana, attraverso il particolare angolo di visuale offerto dal suo modo di affrontare il tema del Cristo in pietà, che ricorre con frequenza nella produzione dell’artista e della sua efficientissima bottega. Tra i temi dominanti che come un fil rouge unisce tutte le 26 sceltissime opere della mostra – evidente nel distico di grande commozione della Pietà di Brera – vi è il legame dell’artista con gli ambienti umanistici veneziani, attraverso i quali egli conobbe e sviluppò gradualmente la sua propensione per

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la rappresentazione degli affetti, della natura, del sentimento, della devozione e della commozione. info tel. 02 72263.257; e-mail: sbsae-mi.brera@ beniculturali.it; brera. beniculturali.it Firenze BACCIO BANDINELLI. SCULTORE E MAESTRO (1493-1560) U Museo Nazionale del Bargello fino al 13 luglio

Per la prima volta, una mostra monografica viene dedicata a Baccio Bandinelli, «Maestro» di un’intera generazione di artisti e che, insieme a Michelangelo, Raffaello, Vasari e Cellini, ci ha lasciato tra i piú estesi

carteggi di artefici del Cinquecento. Le sale del Bargello ospitano tutte le sue opere di scultura e di pittura il cui trasferimento sia possibile, i disegni e le stampe di sua invenzione, bronzetti, medaglie e un raro modello in cera proveniente da Montpellier. Accanto ai capolavori come il Bacco di Palazzo Pitti, figurano, tra gli altri, i busti-ritratto di Cosimo I e il magnifico Mercurio giovanile del Louvre; in pittura, la Leda e il cigno (da Parigi), unico dipinto del Bandinelli sicuramente autografo e mai presentato in una mostra, e il celebre Ritratto di Baccio

Bandinelli dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Sono inoltre esposti i rilievi (in marmo, stucco e bronzo, provenienti da vari musei esteri) che gli sono riferiti con

certezza, o che direttamente derivano da suoi originali, a confronto con studi grafici preparatori. info tel. 055 2388606; unannoadarte.it FERRARA Ferrara al tempo di Ercole I U Museo Archeologico Nazionale fino al 13 luglio

I lavori di riqualificazione del centro storico di Ferrara hanno permesso di effettuare indagini archeologiche che aiutano a comprendere meglio il complesso palinsesto delle residenze estensi. Gli scavi hanno interessato la piazza Municipale, il retrostante Giardino delle Duchesse e la parte interna del Castello Estense, inclusa l’area dei «Camerini d’alabastro», restituendo una notevole quantità di oggetti in ceramica, vetro, metallo, alcuni di eccezionale qualità. Reperti che sono ora protagonisti della mostra ospitata al piano nobile del Museo Archeologico Nazionale.

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I temi della vita a corte e dell’aspetto del palazzo estense prima della trasformazione avviata da Ercole I, sono illustrati da circa 200 pezzi per lo piú della seconda metà del XV secolo tra cui spiccano, per bellezza e rarità, un’eccezionale coppa su alto piede in vetro, probabilmente usata come fruttiera, e una seconda coppa in vetro verde smeraldo, realizzata a Murano. Notevoli, per numero e qualità, le ceramiche graffite e smaltate che si sommano ad altre importate dall’area mediorientale e dalla Spagna; molto interessanti le mattonelle pavimentali in ceramica smaltata, una serie di frammenti architettonici decorati e numerosi elementi pertinenti a una stufa in ceramica di grandi dimensioni. info tel. 0532 66299; archeobologna. beniculturali.it

artistica dei figli di Luini, e in particolare del piú piccolo Aurelio. Un intero secolo di arte lombarda va dunque in scena a Palazzo Reale, attraverso tele, tavole, disegni, affreschi staccati, arazzi, sculture in legno e in marmo, codici miniati, volumi a stampa. info mostraluini.it

Settanta del Quattrocento e la metà del decennio successivo. info tel. 051 6566.210211; e-mail: segreteria@ raccoltalercaro.it

Bologna

Pontormo e Rosso Fiorentino sono i protagonisti piú anticonformisti e spregiudicati del nuovo modo di intendere

Esposizione della Madonna del Latte U Raccolta Lercaro fino al 13 luglio

L’opera esposta è una

Firenze Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della «maniera» U Palazzo Strozzi fino al 20 luglio

padova Padova è le sue mura. Cinquecento anni di storia 1513-2013 U Musei Civici agli Eremitani fino al 20 luglio

Milano BERNARDINO LUINI E I SUOI FIGLI U Palazzo Reale fino al 13 luglio

La mostra racconta l’intero percorso di Bernardino Luini, dalle ricerche giovanili ai quadri della maturità, con un occhio costante, da un lato, al lavoro dei suoi contemporanei (Bramantino, Lorenzo Lotto, Andrea Solario, Giovanni Francesco Caroto, Cesare da Sesto e molti altri); dall’altro, alla traiettoria

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nascono da una costola di Andrea del Sarto e con lui si formano, pur mantenendo entrambi una forte indipendenza e una grande libertà espressiva: uno, Pontormo, fu pittore sempre preferito dai Medici e aperto alla varietà linguistica e al rinnovamento degli schemi compositivi della tradizione, l’altro, Rosso, fu invece legato alla tradizione, pur con aneliti di spregiudicatezza e di originalità. Uno piú naturalista, vicino a Leonardo, l’altro influenzato da suggestioni michelangiolesche. info palazzostrozzi.org

replica in gesso del tondo in marmo che, nella basilica bolognese di S. Domenico, orna il monumento funebre del giurista, civilista e canonista imolese Alessandro Tartagni (1424-1477). I suoi figli commissionarono l’altorilevo allo scultore fiesolano Francesco di Simone Ferrucci (1437-1493), che lo portò a compimento, secondo gli ultimi studi, tra la fine degli anni

l’arte in quella stagione del Cinquecento italiano che Giorgio Vasari chiama «maniera moderna». La rassegna a loro dedicata rappresenta anche un viaggio attraverso le vite parallele di questi artisti, «gemelli diversi» che, alla fine del loro percorso, arrivarono a un riavvicinamento. Pontormo e Rosso, che hanno reso straordinaria con il loro tratto artistico la prima metà del Cinquecento,

Padova riporta al centro di una doverosa attenzione il tema della sua storica cinta muraria – per secoli fortemente identificativa della città – con una mostra che

celebra i 500 anni della sua costruzione. Il 1513 può infatti considerarsi l’anno d’inizio dell’edificazione delle nuove mura di Padova – successive a quelle carraresi – sotto la guida di Bartolomeo d’Alviano. La città aveva da poco sostenuto con successo l’ultimo degli assedi conseguenti alla sconfitta di Agnadello (1509) contro le forze della Lega di Cambrai. In quell’occasione le mura carraresi erano state riadattate alla meglio grazie al coraggio e all’ingegno di molti, ma, con la conclusione del conflitto sul campo, si erano create le condizioni per dare forma definitiva, in muratura, alle difese apprestate in forma provvisoria, con opere in terrapieno, nel corso dei quattro anni di guerra. Molto di quanto s’iniziò a realizzare in quell’anno è giunto fino a noi, integrato dalle aggiunte e modifiche apportate nei quattro decenni successivi. La mostra ricostruisce mezzo millennio di storia delle mura cittadine attraverso

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agenda del mese reperti archeologici, manufatti, armi e strumenti bellici, disegni, incisioni, preziosi volumi e dipinti antichi, nonché ricostruzioni appositamente realizzate (fotopiani, modellini, video, ecc.). info tel. 049 8204551; e-mail: musei@comune. padova.it New york Regni perduti: sculture indobuddhiste dell’asia sud-orientale antica. V-VIII secolo U The Metropolitan Museum of Art fino al 27 luglio

Dal I millennio, si registra in Estremo Oriente l’avvento di regni potenti, che fanno propria la matrice culturale indiana per esprimere la propria identità politica e religiosa: sono quelli di Pyu, Funan, Zhenla, Champa, Dvaravati, Kedah e Srivijaya, che vengono in questa occasione definiti

«perduti», perché la loro identità, quando non addirittura la loro esistenza, sono state rivelate in tempi recenti, all’indomani delle prime esplorazioni e dei primi studi epigrafici e archeologici condotti nel XX secolo. Per rappresentarli, il Met ha riunito oltre 150 sculture, in molti casi monumentali, frutto di prestiti concessi da Cambogia, Vietnam, Thailandia, Malesia, Singapore e Myanmar, ai quali si aggiungono quelli del Musée Guimet di Parigi e di altre raccolte statunitensi. info metumuseum.org amsterdam Spedizione via della seta U Hermitage Amsterdam fino al 5 settembre

L’Hermitage di Amsterdam racconta la storia plurisecolare della Via della Seta attraverso una magnifica selezione di opere – pitture murali, sculture, sete, argenti, vetri, oreficerie e ceramiche – provenienti da San Pietroburgo e entrati nelle collezioni del museo russo grazie alle

abbiano reinterpretato «l’arte del comando» di Augusto a volte con formule molto vicine o identiche. info tel. 060608; arapacis.it, museiincomuneroma.it norwich

missioni archeologiche condotte tra il XIX e il XX secolo. Il percorso espositivo evoca gli itinerari seguiti dagli esploratori che si misero sulle tracce dei re, dei mercanti e dei monaci che batterono la grande carovaniera e cerca di restituire le atmosfere di quelle antiche spedizioni che non ebbero timore di attraversare terre spesso inospitali per assicurare un collegamento tra l’Oriente e l’Occidente. Merita d’essere segnalata l’esposizione di una grande pittura murale, lunga 9 m, che raffigura il combattimento tra una divinità e un gruppo di predoni: databile al VI-VIII secolo, proviene dal palazzo reale di Varakhsha (nell’odierno Uzbekistan) e mai prima d’ora aveva lasciato le sale dell’Hermitage di San Pietroburgo. info hermitage.nl roma L’ARTE DEL COMANDO. L’EREDITÀ DI AUGUSTO U Museo dell’Ara Pacis fino al 7 settembre

L’arte di convogliare consenso intorno alla persona di Augusto e al tempo stesso esaltare i

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la meraviglia degli uccelli U Castle Museum fino al 14 settembre

Spaziando dalla preistoria all’età moderna, la mostra allestita nel castello di Norwich analizza il ruolo simbolico degli uccelli presso le piú importanti culture e civiltà della storia. Per farlo, sono stati scelti oggetti e opere d’arte che sono appunto la traduzione visiva e plastica della destini eroici di Roma fu perseguita con tale successo dall’imperatore da costituire un modello e una fonte di ispirazione nei secoli successivi, fino ai regimi assolutistici del XX secolo. Da questa considerazione prende le mosse questa mostra, che approfondisce le principali politiche culturali e di propaganda messe in atto da Augusto nel suo principato e replicate nei secoli per il loro carattere esemplare. Le 12 sezioni della mostra, articolate per temi ed epoche storiche differenti, illustrano in che modo imperatori come Carlo Magno, Federico II, Carlo V o Napoleone, per citarne solo alcuni, nel corso della storia

relazione stabilita dall’uomo con questa classe di animali. Ne scaturisce una galleria, ricca e variopinta, attraverso la quale si dipana il filo conduttore che lega una scultura babilonese del 2000 a.C. al «ritratto» fotografico di un magnifico esemplare di allocco realizzato negli anni Trenta del Novecento in Gran Bretagna. In mezzo, c’è spazio per giugno

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testimonianze d’ogni genere, tra cui non mancano materiali d’epoca medievale e rinascimentale, come un pregevole disegno di Andrea Mantegna. info www.museums. norfolk.gov.uk/ londra costruire l’immagine: l’architettura nella pittura rinascimentale italiana U National Gallery fino al 21 setembre

L’esposizione documenta e sottolinea l’importanza di alcuni dei piú riusciti dipinti d’ispirazione architettonica firmati da maestri italiani quali Duccio di Boninsegna, Botticelli o Carlo Crivelli e da artisti loro contemporanei. Si vuole indurre a guardare a queste opere con occhio diverso, per scoprire in che modo gli spazi fossero stati concepiti dai pittori e come essi avessero reso la concreta realtà delle materie da costruzione, come i mattoni, la calce o il marmo. L’intento è inoltre quello di sfatare il luogo comune secondo il quale l’architettura, all’interno dei quadri, fosse soltanto uno sfondo, passivo e subordinato alla preminenza delle figure. Le opere esposte dimostrano infatti quanto le composizioni potessero essere spesso imperniate sui motivi architettonici e come essi venissero studiati fin dal primo abbozzo. info nationalgallery. org.uk

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Torino TESORI DAL PORTOGALLO ARCHITETTURE IMMAGINARIE DAL MEDIOEVO AL BAROCCO U Palazzo Madama fino al 28 settembre

Grazie a opere provenienti da musei, chiese e raccolte private portoghesi, la mostra propone un viaggio alla scoperta della civiltà figurativa di una regione europea che, attraverso le sue esplorazioni e la sua vasta rete commerciale, ha fatto da ponte con le culture del Nord Africa, delle Americhe e dell’Asia. Dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie, disegni e trattati illustrano come i principi dell’architettura abbiano, fin dal Medioevo, accompagnato l’ideazione e la creazione degli oggetti, esaltandone i valori estetici e decorativi e sottolineandone i

significati simbolici e sociali. info tel. 011 4433501; palazzomadamatorino.it Firenze JACOPO LIGOZZI «PITTORE UNIVERSALISSIMO» (VERONA 1547FIRENZE 1627) U Galleria Palatina fino al 28 settembre

dell’artista, mettendo in evidenza i diversi ambiti nei quali operò e la sua poliedrica e versatile fisionomia nel panorama fiorentino. Il percorso si articola in sezioni tematiche, a partire dai primi tempi presso la corte medicea, dalla quale Jacopo si fece apprezzare come disegnatore di naturalia e poi come ritrattista, ma anche sapiente regista di insiemi decorativi. Jacopo fu inoltre pittore di storia, con l’allestimento dei grandi dipinti su lavagna nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio o ancora per gli apparati in occasione delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Ligozzi si distinse infine come sapiente e delicatissimo progettista di abiti e ricami per tessuti, nonché di manufatti in pietre dure. info tel. 055 2388614; unannoadarte.it

trento ARTE E PERSUASIONE. LA STRATEGIA DELLE IMMAGINI DOPO IL CONCILIO DI TRENTO U Museo Diocesano Tridentino fino al 29 settembre

L’esposizione analizza, per la prima volta, il rapporto tra le decisioni assunte dal concilio in materia di immagini sacre e le arti figurative in uno specifico contesto territoriale. In una delle ultime sessioni dell’assise tridentina, la XXV del 3 dicembre 1563, fu infatti promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini, con il quale la Chiesa assolveva l’uso delle immagini sacre. Richiamandosi alla tradizione, la norma esaltava la funzione didattica delle immagini e stabiliva alcuni principi generali. All’indomani di quel decreto, furono

Discendente da una famiglia di ricamatori milanesi e figlio del pittore Giovanni Ermanno, Jacopo Ligozzi nacque a Verona nel 1547 e lí svolse una iniziale attività, spostandosi però ben presto a Firenze, dove, nel 1577, è documentata la sua presenza presso la corte granducale di Francesco I e dove rimase stabilmente fino alla morte, nel 1627, impiantando una solida bottega. La mostra illustra per la prima volta in modo organico l’arco di attività

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agenda del mese pubblicati numerosi trattati sulle arti figurative a soggetto sacro, sull’architettura dei luoghi di culto e sulla suppellettile liturgica, testi a prevalente carattere precettistico che svelano la preoccupazione della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’attività artistica e la conseguente volontà di riportarla entro i parametri precostituiti e codificati da una superiore autorità religiosa. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it;

comprendenti, tra gli altri, oreficerie, manufatti in vetro e armi. Oggetti di pregio, che sono però funzionali alla ricostruzione del contesto nel quale vennero fabbricati e utilizzati e dunque permettono di fare luce sul modus vivendi, sul sentimento religioso e sulle attività produttive e commerciali delle genti a cui vanno ascritti. Un panorama che dunque giustifica l’«età dell’oro» evocata dal titolo della mostra. info rmo.nl

museodiocesano tridentino.it

SACRI SPLENDORI. IL TESORO DELLA «CAPPELLA DELLE RELIQUIE» IN PALAZZO PITTI U Museo degli Argenti fino al 2 novembre (dal 10 giugno)

Leida Medioevo dorato U Rijksmuseum van Oudheden fino al 26 ottobre

Come si viveva ai tempi dei sovrani merovingi (400-700 d.C.), cioè dopo la caduta dell’impero romano e prima dell’ascesa di Carlo Magno? Che non siano stati «secoli bui» è un dato ormai acquisito e, a ulteriore riprova, il Museo di Antichità di Leida presenta una spettacolare selezione di reperti, provenienti perlopiú da necropoli e

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firenze

Nel 1616 veniva consacrata con cerimonia solenne la «Cappella delle Reliquie» in Palazzo Pitti, luogo simbolo della devozione delle granduchesse di Toscana e degli ultimi granduchi della famiglia Medici. Costruita da Cosimo I negli anni Sessanta del

Cinquecento, la cappella, a pianta ottagonale, dal 1610 fu oggetto di importanti lavori di abbellimento voluti dall’arciduchessa d’Austria e granduchessa di Toscana Maria Maddalena d’Asburgo, moglie di Cosimo II de’ Medici, per custodirvi i reliquiari preziosi che costituivano una parte importante delle sue collezioni. Altrettanto decisivo fu il ruolo di Cristina di Lorena, suocera di Maria Maddalena, alla quale si deve la creazione del primo, cospicuo nucleo di reliquiari confluito poi alla sua morte nella raccolta della nuora. Uno straordinario insieme di opere che fu accresciuto ulteriormente dalla granduchessa Vittoria della Rovere e da suo figlio, il granduca Cosimo III, diventando uno dei piú vasti tesori sacri d’Europa. Attraverso un minuzioso lavoro di archivio la mostra intende restituire un’immagine di queste preziosissime collezioni, testimonianza della profonda devozione della famiglia

granducale e al contempo simbolo di prestigio e di magnificenza, fonte di denaro e coagulo di identità collettiva. info tel. 055 2388709; unannoadarte.it Bath Nuovo Mondo, antiche mappe U American Museum in Britain fino al 2 novembre

Organizzata per salutare la pubblicazione del relativo catalogo ragionato, la mostra si basa sui documenti che fanno parte della collezione di mappe storiche di Dallas Pratt, uno dei fondatori dell’American Museum in Britain di Bath. Le carte documentano il mutare e l’arricchirsi delle conoscenze geografiche, resi possibili dal susseguirsi dei grandi viaggi di scoperta e di esplorazione alla volta delle Americhe. Tra il XV e il XVII secolo il «volto» del Nuovo Mondo cambiò piú volte e, grazie alle informazioni ricevute dai navigatori, geografi e disegnatori poterono tempestivamente aggiornarne le cartografie. info americanmuseum.org Artegna (UD) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii U Castello Savorgnan fino al 13 novembre

La mostra rientra in un piú ampio progetto di valorizzazione del territorio e degli insediamenti castrensi

altomedievali della regione, un progetto collegato ai programmi di sviluppo del sito UNESCO di Cividale del Friuli. Oltre a presentare i risultati delle ricerche archeologiche sul colle di San Martino, viene sottolineata la centralità dei siti castrensi nelle dinamiche di sviluppo del ducato del Friuli nell’Alto Medioevo. info tel. 0432 977811; e-mail: info@com-artegna. regione.fvg.it

Basilea ROMA ETERNA U Antikenmuseum fino al 16 novembre (dal 5 giugno)

Il progetto espositivo è imperniato su una settantina di sculture provenienti dalle collezioni italiane della famiglia Santarelli e del critico e storico dell’arte Federico Zeri: opere che comprendono sculture dall’età imperiale romana fino a quella giugno

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neoclassica e permettono dunque di evidenziare l’eterno fascino di Roma, con la sua capacità di assimilare e rielaborare sempre nuove correnti artistiche e integrarle nel suo ineguagliabile patrimonio culturale. Il dialogo con l’eredità classica è evidenziato tramite la comparazione di motivi ed elementi stilistici diversi, ma sempre legati l’un l’altro e inseriti nel proficuo solco della tradizione artistica dell’Urbe. info antikenmuseumbasel.ch

ename (belgio) L’eredità di Carlo Magno U Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30 novembre

Carlo Magno è da molti considerato come uno degli antesignani dell’unità europea, perché artefice di quel Sacro Romano Impero che si poneva in ideale continuità con l’impero romano. In realtà, la sua costruzione politica fu da subito incrinata da divisioni che si prolungarono nei secoli, sul piano politico e religioso. 1200 anni

dopo, il progetto CEC, Cradles of european culture, e la mostra internazionale allestita a Ename propongono la storia dell’eredità di quell’impero, a partire dall’epoca immediatamente successiva, quella degli Ottoni, fino al secondo dopoguerra e al crollo del Muro di Berlino. info pam-ov.be/ename Gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone. Storie di Gambettola U Biblioteca Comunale fino al 3 maggio 2015

La costruzione di un parcheggio nella cittadina romagnola ha recentemente portato alla scoperta dei resti di un’antica fattoria costruita alla metà del Quattrocento, raro caso di edificio rurale di età rinascimentale sopravissuto al tempo e anche uno dei meglio documentati. Dal suo scavo nasce questa mostra che espone una ventina di ceramiche cinquecentesche utilizzate nella fattoria, rinvenute perlopiú in una piccola cisterna utilizzata prima per la

raccolta dell’acqua piovana e poi come discarica. Piatti, ciotole e boccali facevano parte del servizio da tavola mentre le pentole e i coperchi in ceramica grezza erano usati in cucina per la cottura e preparazione dei cibi. Le porcellane da mensa hanno decori brillanti di colore giallo/arancio e azzurro/blu, con fogliame su fondo berettino o repertori di candelabri e robbiane. info tel. 0547 45338; e-mail: biblioteca@comune. gambettola.fc.it

Siena

Cecco nel Museo dell’Opera, Altare Piccolomini in Duomo). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; operaduomo.siena.it

Appuntamenti ferrara summer school: SCRIVERE, DIVULGARE E COMUNICARE L’ANTICHITÀ ED I BENI CULTURALI U Università di Ferrara 12-13-14 giugno

La Summer School è rivolta a diplomati e laureati che intendano approfondire specifiche competenze nella divulgazione e comunicazione dell’antichità, della storia e dei beni culturali, focalizzando l’attenzione sull’editoria (giornali, riviste e libri), sulla documentaristica e divulgazione televisiva e sui nuovi media. Partner della Summer School sono le riviste «Archeo», «Medioevo», Forma Urbis e gli editori UTET, Rubbettino, Odoya, Newton Compton e RAI. Il programma comprende attività laboratoriali, per complessive 30 ore, corrispondenti a 6 CFU

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formativi. I migliori progetti verranno pubblicati o realizzati.. info tel. 0532 455236; e-mail: lac@unife.it firenze Esposizione della Tavola Doria U Galleria degli Uffizi, Sala delle Carte Geografiche fino al 29 giugno

La cosiddetta Tavola Doria, copia dalla Battaglia di Anghiari, di Leonardo da Vinci, viene esposta con altre tre tavole dipinte del XVI secolo appartenenti alle raccolte delle gallerie fiorentine e raffiguranti copie o derivazioni da

invenzioni originali del maestro: Leda col cigno, Sant’Anna Metterza e un’altra versione dell’episodio della lotta per lo stendardo tratto dalla pittura murale con la Battaglia d’Anghiari. L’iniziativa è stata organizzata in concomitanza con il rientro in Italia dell’opera (uscita illegalmente e restituita nel 2012 dal Fuji Art Museum di Tokyo), che il MiBACT ha deciso di assegnare in via definitiva alla Galleria degli Uffizi. info tel. 055 2388651; polomuseale.firenze.it

Esposizione della Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti U Cripta sotto il Duomo fino al 31 ottobre

Tempera su tavola realizzata da Ambrogio Lorenzetti intorno al 1340, la Madonna del Latte può essere considerata come il paradigma iconografico di questo soggetto. L’esposizione della tavola nella Cripta è stata l’occasione per realizzare un percorso all’interno del Complesso monumentale del Duomo (Museo e Cattedrale) al fine di illustrare la tematica della Madonna del Latte. Durante il periodo dell’esposizione sono inoltre organizzate visite guidate lungo l’itinerario mariano (Madonna del Latte di Paolo di Giovanni Fei e Polittico di Gregorio di

Siena Porta del cielo U Duomo fino al 6 gennaio 2015

Il Duomo di Siena riapre la sua «Porta del Cielo». Il percorso permette di accedere a una serie di locali mai aperti al pubblico e utilizzati solo dalle maestranze dirette dai grandi architetti che si sono avvicendati nei secoli. Grazie al suggestivo itinerario si può camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche «dentro»e «fuori» della cattedrale. info tel. 0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00); e-mail: opasiena@ operalaboratori.com

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protagonisti jacques le goff

Un altro

a colloquio con Franco Cardini, a cura di Alessandro Bedini

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o scorso 1° aprile si è spento a Parigi Jacques Le Goff, uno dei piú grandi studiosi del Medioevo. Era nato novant’anni fa a Tolone, il 1° gennaio 1924. Professore alla facoltà di lettere dell’Università di Lille (1954-58), nel Nord della Francia, fu, dal 1962, direttore di ricerche all’École pratique des hautes études, e, dieci anni piú tardi, nel 1972, venne eletto alla direzione della sesta sezione di quello stesso prestigioso istituto, a Parigi, che, nel 1975, assunse la denominazione di École des hautes études en sciences sociales. Dalla fine degli anni Sessanta Le Goff è stato anche condirettore della rivista Annales. Nel 2000 ricevette la laurea honoris causa in Filosofia dall’Università di Pavia. È stato uno dei padri della Nouvelle Histoire e a lui si devono moltissimi saggi, tra i quali ci limitiamo qui a ricordare Gli intellettuali del Medioevo (1957), Il Basso Medioevo (1967), La civiltà dell’Occidente medievale (1964), Mercanti e banchieri del Medioevo (1976), Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale (1983). Grande divulgatore oltre che storico di altissimo livello, nel 1993 venne incaricato da cinque editori europei di dirigere una collana, Fare l’Europa, pubblicata in Italia da Laterza, proprio per presentare in modo diverso, accattivante la «scienza del passato». La sua passione per la storia delle mentalità, sulla scorta della braudeliana Nouvelle Histoire, lo ha portato a scrivere un libro di grande fascino quale è La nascita del purgatorio, ma anche Uomini e donne del Medioevo, una grande raccolta, molto ben illustrata: una sorta di galleria enciclopedica di brevi biografie di personaggi famosi. Niente di veramente nuovo o di originale a tutti i costi. Ma basta leggerlo: semplice, lineare, piacevole. È grande storia. Franco Cardini, anch’egli famoso storico del Medioevo, ha conosciuto Jacques Le Goff e ha lavorato con lui a piú riprese. Gli abbiamo chiesto di tracciare il profilo non solo scientifico dello storico francese.

Jacques Le Goff (1924-2014). Lo storico francese è stato uno dei massimi studiosi del Medioevo e uno dei padri della Nouvelle Histoire.

La fama di Jacques Le Goff, uno dei massimi storici dell’età di Mezzo, si è diffusa ben oltre i confini del mondo accademico. È possibile riassumere i caratteri principali della sua attività di studioso? E quale eredità lascia a quanti continueranno a indagare sui fatti e i personaggi che hanno segnato lo svolgersi dei «secoli bui»? Ce ne parla Franco Cardini, a sua volta insigne medievista, che del maestro francese è stato allievo e collega MEDIOEVO

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protagonisti jacques le goff Una vita per la storia Franco Cardini è nato a Firenze il 5 agosto del 1940. Nel 1966 si laurea in storia medievale, a pieni voti, all’Università di Firenze. Dal 1971 al 1985 insegna storia medievale nell’ateneo fiorentino, alternando tale impegno con corsi presso università straniere. Nel 1976 diviene fellow della Harvard University. Nel 1978-79 insegna storia medievale nell’Università di Paris VIII-Vincennes. Nel 1989 è professore ordinario di storia medievale all’Università di Firenze. Nel 2006 diventa professore ordinario di storia medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane/ Istituto di Studi Umanistici di Firenze, incarico che ricopre attualmente. Nel 2007 è nominato directeur d’études nell’École d’hautes études en sciences sociales (EHESS), di Parigi.

◆ Professor Cardini, Jacques Le Goff ha raccontato un Medioevo ben diverso da quello conosciuto classicamente dalla storiografia. Di che genere di Medioevo si tratta? «Le Goff ha innanzitutto raccontato un Medioevo che, secondo lui, è “lungo” e usa questo termine per indicare un periodo che va dalla tarda antichità fino addirittura alla fine del Settecento e quindi comprende anche una parte dell’età moderna. Personalmente sono d’accordo con la sua tesi. Questo perché, secondo lui, se, con le grandi scoperte, le istituzioni medievali – il papato, l’impero, le corporazioni cittadine – sono mutate, cosí come gli orizzonti geografici e scientifici, c’è, tuttavia, un atteggiamento profondo nel modo di vivere quotidiano e di pensare della gente – che si vede e si può anche studiare –, ci sono tradizioni e stili di vita che praticamente non cambiano fino alle grandi innovazioni sette-ottocentesche. Il lungo Medioevo è ispirato alla longue durée di Fernand Braudel (1902-1985), di cui Le Goff è allievo e lui applica questo criterio per indica32

In basso capolettera miniato raffigurante un insegnante con i suoi allievi, da un manoscritto di scuola francese dell’Apparatus in quinque libros decretalium di papa Innocenzo IV. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Clemente IV che incorona Carlo I d’Angiò, da un’edizione del De casibus virorum illustrium del Boccaccio. XV sec. Ginevra, Biblioteca Pubblica e Universitaria.

re anche la pluralità dei livelli temporali a cui si può accedere studiando il Medioevo.Vi è una vita intensa ma breve di certe istituzioni, come le università, che sopravviveranno ma cambieranno connotati, oppure il Sacro Romano Impero, che arriverà fino alla fine dell’Ottocento e che però muterà quando diventerà elettivo con gli Asburgo. Oppure la limitatezza delle terre conosciute durante il Medioevo. Tutti questi aspetti ci riportano a un Medioevo comune, tradizionale, che noi conosciamo. Le Goff però insiste sul lungo Medioevo perché usa strumenti che non sono solo storiografici, ma anche antropologici».

◆ Dunque la famosa scuola delle Annales deve a lui il suo impulso? Che cosa ha realmente innovato nella metodologia storica? «Non del tutto. La scuola delle Annales ha un forte legame con quella di Strasburgo: quella di Marc Bloch (1886-1944) e Lucien Febvre (1878-1956) insomma, che poneva l’antropologia al centro della ricerca storica. E la prima fase della rivista di studi, quando ancora si chiamava Annales. Économies, Sociétés, Civilisations, è questa. Le Goff l’ha innovata profondamente ed è quella che ci permette di parlare di Nouvelle Histoire, in cui la storia è strettamente collegata alle scienze umane soprattutto l’antropologia culturale. Il fare storia diventa dunque piú articolato, nasce una sorta di nuova materia, che è il risultato delle sintesi precedenti. Secondo Le Goff e alcuni altri, la Nouvelle Histoire è quindi anche iconologia, storia delle religioni, archeologia, e tutto questo nell’ambito di una ricerca che deve tener presente tutti gli aspetti del passato. La potremmo definire una storia globale, anche se questa è un po’ un’utopia, perché una persona sola non può fare tutto. La Nouvelle Histoire è infatti pensata per lavorare in équipe e le due dimensioni classiche fin da quando si è affermata negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono la storia delle mentalità – che può essere considerata quanto di piú fumoso si possa immaginare, ma che era portata avanti anche con l’aiuto della psicanalisi, della giugno

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psicologia del profondo –, e la storia della vita materiale, che invece è la storia delle cose, degli oggetti, dei mezzi di produzione, ma anche la storia dell’immaginario che si accompagnava a questi processi di produzione».

◆ Al di là dell’aspetto accademico, chi era Jacques Le Goff? Lei lo ha conosciuto bene... «È sempre stato un grande studioso di un qualcosa che per lui era molto preciso. Noi parliamo di Medioevo lungo, di Nouvelle Histoire come di una sintesi di discipline, e questo potrebbe darci l’impressione di un personaggio che ha orizzonti amplissimi ma sfumati, talvolta persino sfocati, perché l’ansia di voler sintetizzare e comprendere tutto a volte si traduce anche in un difetto di precisione. Invece Le Goff era un esploratore accurato, attentissimo e molto rigoroso, i suoi orizzonti erano molto piú limitati di quanto non si pensi. In realtà è stato un grande ricostruttore della storia europea centro-occidentale – sí anche di qualche cosa di italia-

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no se si vuole, qualche elemento centro-orientale, come per esempio la storia polacca che conosceva bene anche perché aveva sposato una polacca –, tuttavia Le Goff è stato principalmente uno studioso di quella che noi consideriamo la parte centrale del Medioevo: in fondo, quasi tutti i suoi libri, pur con qualche eccezione, riguardano il periodo che va dal IX al XIII secolo, con qualche squarcio verso il prima e il dopo, comunque sono incentrati su quel periodo. Ma ora che se n’è andato, a parte il vuoto che lascia, una domanda forse s’impone, anche se occorrerà ancora qualche anno per rispondere in maniera adeguata. Che cosa ci lascia, quanto alla sua visione del Medioevo? Per dirla alla maniera dei vecchi accademici: che cosa resterà vivo e che cosa morrà della sua opera? Credo che non sarà facile aggirare la sua idea di “lungo Medioevo”, che è molto piú rivoluzionaria di quanto qualcuno non abbia creduto. Non si tratta di modificare una periodizzazione tradizionale. Il punto è che Le Goff ha dimostrato che molto di quel che noi

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protagonisti jacques le goff Nancy, chiesa dei Francescani. Gruppo scultoreo in stile romanico tradizionalmente detto il Ritorno del crociato. XII sec.

L’opera proviene dal priorato di Belval e faceva parte del monumento funebre forse realizzato per il conte Gerardo I (o Ugo I) di Vaudemont.

abbiamo ritenuto frutto della “rivoluzione rinascimentale” – dalle cognizioni cartografiche a quelle astronomiche, dalle esplorazioni oceaniche alle sperimentazioni meccaniche – era già stato anticipato per molti versi fra il IX e il XIII secolo, soprattutto in quel momento straordinario della nostra storia culturale e scientifica che va dalla metà del XII a quella del XIII secolo».

◆ Secondo lei qual è il capolavoro di questo straordinario studioso? «È difficile dirlo, non solo perché ha scritto molto, ma anche perché è difficile fare una classifica tra libri che sono diversi per taglio, per obiettivo e anche per il periodo in cui li ha scritti. Ma le sue cose piú importanti sono innanzitutto un libretto, perché è molto piccolo, che lo ha rivelato al mondo accademico: Il genio del Medioevo, titolo con il quale venne tradotto per la prima volta in italiano negli anni Sessanta del secolo scorso, poi ripubblicato con un titolo piú appropiato: Gli intellettuali nel Medioevo. È un libro sulla storia della cultura medievale, sulle istituzioni, sulla figura dell’intellettuale nell’età di Mezzo. Le Goff parla delle università e questa dimensione della cultura trattata come fosse quasi una merce, perché i maestri erano pagati dagli allievi, e che ha ampliato gli orizzonti del sapere, a differenza di quello che accadeva, per esempio, nelle scuole del mondo romano, è di fatto una grande novità». ◆ Può raccontarci un ricordo personale del suo rapporto con Le Goff? «Ci sono molti ricordi personali, anche perché ho lavorato molto con lui, soprattutto nel 1979, quando ero a Parigi e insegnavo all’Università di Paris VIII Vincennes, quella di Foucault e della contestazione, ed ero anche scolaro di Le Goff all’École des hautes études. Quello che resta di lui in tutti i suoi allievi e in tutti coloro che lo hanno avvicinato, è la non distanza, la non differenza tra lo studioso e l’uomo. Io non ho mai conosciuto un Le Goff che per un attimo staccasse la spina, smettesse di lavorare, di studiare, di insegnare. Tutto questo pur non essendo affatto un uomo monocorde, noioso o peggio pedante, anzi, quando parlava con gli allievi, con gli amici – al di fuori dell’ufficialità di un convegno o di una lezione –, parlava relativamente poco di argomenti di studio. Ma la sua vita, il suo modo di pensare erano cosí imperniati sull’oggetto dei suoi studi che finiva poi per metterlo dappertutto ed era sempre difficile distinguere l’uomo dallo studioso, c’era una commistione continua di questi due aspetti. È anche per questo che resta un personaggio davvero straordinario». F 34

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personaggi lady godiva

L’affaire «Godiva»

di Francesco Colotta

Forse tutto è nato da un banale errore di traduzione... Ma quanto c’è di vero nel tradizionale racconto della nobildonna altomedievale che attraversò a cavallo le vie della sua città, vestita unicamente della sua fluente chioma bionda? Ecco la storia di una singolare paladina della giustizia sociale, tra cristianesimo e... psicanalisi

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hi fu, veramente, Lady Godiva? La sua cavalcata «senza veli», che fece scalpore nell’Inghilterra dell’Alto Medioevo, fu solo frutto della fantasia popolare oppure accadde realmente? L’episodio venne ritenuto credibile dai cronisti dell’epoca e, con il passare dei secoli, assunse la veste di simbolo del coraggio femminile, profilandosi anche come una sorta di archetipo della rivolta degli oppressi contro l’eccessiva pressione fiscale. La nobildonna aveva cavalcato nuda per le vie di Coventry per adempiere a una condizione imposta dal marito, il conte Leofric (o, italianizzandolo, Leofrico), che governava la città: solo compiendo quell’atto trasgressivo e umiliante, infatti la bella Godiva poté ottenere la riduzione delle imposte per i suoi concittadini, dei quali era divenuta paladina.

Lady Godiva, olio su tela del pittore fiammingo Adam Van Noort. 1586. Coventry, Herbert Art Gallery & Museum. Secondo la leggenda, la nobildonna aveva cavalcato nuda tra le vie di Coventry per ottenere un taglio delle imposte per i cittadini. Sulla destra si nota Peeping Tom, il «guardone», che spia da una finestra.

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Il resto della biografia dell’aristocratica si rivela meno spettacolare del controverso episodio della cavalcata, ma ne riecheggia in parte i contorni. Godiva – versione latinizzata dell’anglosassone Godgifu («regalo di Dio») – fu una donna battagliera, indipendente e generosa, oltre che devota alla religione cattolica. Proveniva da una famiglia facoltosa e si ipotizza che fosse la figlia di Thorold, sceriffo di Lincoln.

L’inettitudine al potere

La data di nascita di Lady Godiva viene comunemente collocata intorno al 990, al tempo in cui sull’Inghilterra regnava Etelredo II, detto lo Sconsigliato, per l’influenza dei suoi cattivi consiglieri e per l’inefficacia dell’azione di contrasto delle incursioni vichighe. Queste ultime furono tali che, nel 1013, Sweyn di Danimarca riuscí a impossessarsi del regno inglese e lo stesso Etelredo dovette fuggire in Normandia. Il sovrano nordico non decapitò la classe dirigente locale e strinse un patto con i vari earls (i nobili e i capi militari), lasciando loro un certo margine di manovra nell’amministrazione dei singoli territori.

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personaggi lady godiva A sinistra Coventry. I resti della cattedrale di S. Michele. Edificata nel XIV sec., la chiesa fu quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale. Nella pagina accanto l’assetto geopolitico dell’Inghilterra nell’XI sec., epoca in cui visse Godiva.

Quello di Lady Godiva è un esempio del ruolo riconosciuto alle donne dalle antiche leggi inglesi

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Bamburgh

Il «Danelaw»

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Territori controllati dai Celti Durham

MARE DEL NORD

York

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MARE D’IRLANDA

Una donna libera

Quello tra Godgifu e Leofrico era un matrimonio dinastico: lui, influente capo politico, e lei, proprietaria di vasti possedimenti, avevano unito le forze per meglio competere con i rivali degli altri distretti del regno inglese. Nel Medioevo i matrimoni dinastici comportavano, spesso, un’imposizione per la

Territori controllati dai Sassoni

M HU RT NO

Tra gli aristocratici inglesi piú in vista figurava il marito di Godgifu, il conte (earl) di Mercia Leofrico, il quale, come si legge nell’Anglo Saxon Chronicle (una collezione di manoscritti sulla storia anglosassone che danno conto degli eventi accaduti tra la fine del IX secolo e il 1154, n.d.r.), divenne in seguito uno dei principali alleati di Edoardo il Confessore, primo monarca dell’Inghilterra liberata dalla dominazione danese. Leofrico era anche un fervente cristiano e intrattenne stretti rapporti con le autorità ecclesiastiche, in particolare con l’arcivescovo di Canterbury Aethelnoth.

Lichfield

Coventry GALLES

Leicester

MERCIA Wantage Chippenham Edington

Londra

SUSSEX

Winchester

WESSEX

Rochester Canterbury

Wareham

Exeter

LA MANICA

Statua bronzea moderna di Lady Godiva nel centro di Coventry.

sposa, la quale si trovava costretta a convolare a nozze con un uomo sgradito, anche se potente. Questa forzosa consuetudine, nell’XI secolo, non si verificava nel regno anglosassone. In base alle disposizioni delle Laws of Cnut (Le Leggi di Cnut, 1020), infatti, le donne potevano rifiutare il matrimonio, se indesiderato, e il loro consenso era tenuto in grande considerazione anche negli anni successivi. Le citate normative dimostrano quanto fosse significativo il ruolo delle donne nella società anglosassone. E non deve trarre in inganno la pratica che impediva alle nobili coniugate con gli earl di assumere qualsivoglia titolo, né countess, per esempio, né, tantomeno, quello di lady, riservato solo alla regina. Tuttavia, l’assenza di legittimazione formale non si tra-

duceva in una condizione di anonimato: al contrario, la mancanza di un titolo era il segno di un’evidente indipendenza, che non costringeva le consorti dei nobili a vivere della luce riflessa dei piú potenti mariti. Godgifu, per esempio, gestí in piena autonomia alcune competenze in materia economica e fiscale, oltre ai lasciti alle istituzioni religiose, dei quali beneficiarono i monasteri di Coventry, Evesham, Leominster, Chester, Worcester e Much Wenlock.

D’amore e d’accordo

Secondo il poema anglosassone The Vision of Leofric (XI-XII secolo), la coppia abitò in prevalenza a Coventry, città compresa nei vasti possedimenti della famiglia di Godgifu. Le relazioni tra i due coniugi furono quasi sempre improntate alla concordia e alla collaborazione nelle

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personaggi lady godiva

In alto particolare del telo ricamato di Bayeux (comunemente detto «arazzo») raffigurante Edoardo il Confessore, figlio di Etelredo II lo Sconsigliato,

responsabilità di governo, come risulta dai numerosi viaggi di rappresentanza compiuti nel regno. Ebbero un figlio, Aelfgar, che si impose ben presto sulla scena politica per le sue qualità militari. Alla morte del padre, nel 1057, il giovane ereditò il titolo di earl di Mercia e la stessa carica sarebbe stata rivestita a sua volta da uno dei suoi figli, Edwin. Godgifu sopravvisse al marito e poté cosí assistere all’invasione normanna dell’isola britannica avvenuta nell’ottobre del 1066. Morí negli anni successivi, dopo

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e primo sovrano dell’Inghilterra liberata dalla dominazione danese. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

un’appagante esistenza trascorsa tra gli agi, la politica e le attività benefiche.

La cavalcata

Godgifu/Godiva risultava una delle piú ricche proprietarie terriere anche nel periodo dell’invasione normanna, secondo il Domesday Book (il Libro del giorno del giudizio è il piú antico catasto inglese, compilato forse nel 1086 per ordine di Guglielmo il Conquistatore, n.d.r.). E si narra che in punto di morte avesse donato un rosario alla chiesa di

Coventry, che, da quel momento, divenne meta di pellegrinaggi. Nel XIII secolo, sotto l’influenza di una preesistente tradizione orale, si diffuse il racconto della cavalcata senza vestiti di Godgifu/Godiva. La piú antica versione della vicenda comparve nelle pagine del Flores historiarum (una storia dell’Inghilterra scritta in lingua latina da vari autori, la cui parte piú significativa è quella redatta da Ruggero di Wendover, n.d.r.). La donna avrebbe esercitato continue pressioni sul consorte affinché concedesse giugno

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uno sgravio fiscale agli abitanti di Coventry e Leofrico, esasperato, si dichiarò disposto ad abolire un pedaggio solo se la moglie avesse attraversato nuda la strada piú affollata della città, quella del mercato. Godiva non batté ciglio e decise di sacrificare il proprio decoro per una giusta causa, adottando, però, uno stratagemma. Si coprí le parti intime con la lunghissima chioma e passò per la via piú frequentata del centro sul suo cavallo, riuscendo, stranamente, a non essere notata. Una volta a casa, ottenne lo sperato

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provvedimento. La stesso resoconto venne riportato dal cronista Matteo Paris nella duecentesca Chronica Majora, con una sola differenza relativa al «premio» fiscale guadagnato: non l’abolizione di un semplice pedaggio, ma di gran parte dell’imposizione tributaria.

Una contessa al governo

L’inconsistenza storica di entrambe le ipotesi è dimostrata dal fatto che proprio Godiva amministrava la fiscalità locale e quindi avrebbe potuto, d’autorità, adottare il prov-

Lady Godiva, olio su tela di Edmund Blair Leighton. 1892. Leeds, Leeds Art Gallery. La giovane donna è immaginata durante la discussione con il marito Leofrico.

vedimento auspicato dai suoi concittadini. A un’analisi piú attenta, la cavalcata si delineava dunque come una narrazione leggendaria. Il già citato Domesday Book, addirittura, suppone che la sposa di Leofrico avesse pieni poteri sulla città: «The Countess herself (Godgifu) held Coventry» («La stessa contessa governava su Coventry»). Forse voleva far

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personaggi lady godiva A sinistra stampa ottocentesca del dipinto di George Jones (1786‑1869) raffigurante Lady Godiva che si prepara a cavalcare per Coventry. Nella pagina accanto Lady Godiva in una stampa di Thomas Lewis Atkinson ispirata a un dipinto di Jan van Lerius. 1873. In basso litografia raffigurante i funzionari dello Scacchiere (l’erario del regno), che ricevono e pesano danari versati per il pagamento delle imposte, da A short History of the English People, pubblicato da John R. Green nel 1874.

abrogare una tassa «nazionale», ma in quel caso avrebbe dovuto rivolgersi al sovrano, non certo al marito. Inoltre, della cavalcata non si trova traccia nelle cronache piú attendibili dell’epoca, tra cui la History of English Kings (La storia dei re inglesi, 1126) di Guglielmo di Malmesbury, che cita Godiva solo come modello di santità per le sue donazioni in favore dei monasteri. Alcuni studiosi, poi, dubitano perfino che, nella stessa leggenda, la donna si fosse «denudata» nel

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significato letterale del termine: l’espressione sarebbe stata interpretata in modo erroneo, nel senso materiale dello «spogliarsi dei vestiti», quando, invece, andava intesa solo come «perdita di rango» o di ricchezza.

Un’origine letteraria?

Il profilo di Godiva, insomma, cosí come emerge dagli scritti di Ruggero di Wendover e Matteo Paris, può far pensare a un’origine letteraria della tradizione. La nobile,

raffigurata come astuta, testarda e risoluta nell’ottenere quel che voleva, somiglia a un topos ricorrente dei fabliaux (i poemi a sfondo erotico-satirico in voga nella Francia di fine XII secolo), nei quali spesso le protagoniste femminili non esitavano ad attuare piani scabrosi per mettere in trappola i mariti. Nel caso di Godiva, dunque, si sarebbe trattato di una rielaborazione in chiave edificante di quello stereotipo, visto che in tutte le prime edizioni del racconto l’atto del denudarsi appare come un’umiliazione da sopportare per il bene dei propri concittadini. Non tutti i particolari della vicenda, però, suggeriscono che dietro l’atto sfrontato di Godiva si celassero propositi virtuosi. A sollevare dubbi sulla moralità del suo

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Godiva sul lettino di Freud Sigmund Freud (1856-1939) analizzò la leggenda di Lady Godiva provando un particolare interesse per la figura del voyeur. Il padre della psicanalisi associò l’accecamento di Peeping Tom alla castrazione che caratterizza il mito del complesso di Edipo. Come quest’ultimo, anche Peeping Tom subisce la mutilazione degli organi (in questo caso gli occhi) che lo hanno spinto a commettere un atto trasgressivo, contrario alle consuetudinarie norme sociali. Entrambi i racconti simboleggiano il rapporto che, secondo una dinamica inconscia, lega la libido (la pulsione sessuale) alla paura di subire una punizione.

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personaggi lady godiva Il festival

Un messaggio di pace Nel Seicento la popolazione e i governanti di Coventry decisero di dedicare una processione alla loro illustre antenata. Salvo qualche interruzione verificatasi nell’Ottocento, la festa continuò a essere celebrata fino al XXI secolo. Nel corso di una delle prime edizioni, l’attore che impersonava Peeping Tom morí in circostanze misteriose e da quel momento, si dice, che nessuno abbia piú voluto vestire i panni del guardone. Si spiegherebbe cosí la nascita dell’usanza di rappresentare Peeping Tom soltanto con una statuetta di legno. Oggi la città inglese organizza ogni anno un festival, dal titolo Godiva Sisters, dedicato alla pace nel mondo. Lo allestisce in occasione della ricorrenza della morte della nobile anglosassone, nel mese di settembre. Godiva è ricordata anche nelle facoltà scientifiche di alcune università del mondo (in particolare in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Canada), in quanto musa dell’ingegneria.

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atteggiamento contribuisce, innanzitutto, il dettaglio dei capelli lunghi, tenuti sciolti per nascondere le pudende, un gesto ambivalente, interpretabile come casto e, allo stesso tempo, peccaminoso. D’altra parte, però, basandosi su celebri iconografie medievali femminili a sfondo religioso, come la raffigurazione di Maria Maddalena e della martire romana Agnese, i dubbi sulla purezza della cavalcata potrebbero essere dissipati con facilità: le due sante portano spesso lunghe chiome che coprono i loro corpi. Tuttavia, lo sciogliersi i capelli era un atto che, per esempio, le donne sposate potevano permettersi solo nei momenti di intimità con il coniuge, in quanto simbolo della

loro disponibilità sessuale. Portavano i capelli sciolti anche le prostitute, dando credito alle illustrazioni che documentano le consuetudini della Londra medievale, nelle quali vengono poi ritratte rasate al momento dell’espiazione delle loro colpe, davanti alla gogna.

Passione senza briglie

Anche il cavallo costituisce un elemento ambiguo, dalle vaghe allegorie sessuali; il termine inglese che esprime il concetto di desiderio sfrenato presenta una precisa metafora equestre: «unbridled passion» («passione senza briglie»), si riferisce a quei casi in cui un’irresistibile attrazione fisica spinge a compiere atti... audaci.

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Nel Medioevo, a ogni modo, la nudità di Godiva ispirò meno allusioni all’eros, quanto, piuttosto, un senso di pathos, con chiari accenti religiosi. Il fatto che la nobile non fosse stata notata nella strada del mercato veniva, a tutti gli effetti, interpretato come un miracolo, come una manifestazione di santità. Un’altra lettura ancora, anch’essa di segno religioso, associò la leggenda di Godiva a un rito propiziatorio di fertilità per la popolazione, in accordo con un’antica tradizione pagana legata alla bellissima dea celtico-romana Epona, la quale, con i capelli sciolti e in sella a un destriero, dispensava benessere e fortune. La cavalcata dell’aristocratica anglosassone potrebbe, perLa processione di Lady Godiva del 1829, olio su tela di David Gee raffigurante la rievocazione istituita il 31 maggio 1678 a Coventry e celebrata quasi ogni anno fino al XXI sec., per commemorare la leggendaria cavalcata. 1867. Coventry, Herbert Art Gallery & Museum.

ciò, avere assunto in seguito una valenza cristiana. Agli inizi del Rinascimento, con l’affinarsi delle tecniche narrative, la vicenda di Godiva si arricchisce di elementi voyeuristici, perdendo parte del significato morale-religioso che aveva rivestito in precedenza. Una prima svolta si verifica nel 1569 con la pubblicazione delle Chronicle at Large England di Richard Grafton, nei cui capitoli compare un’importante modifica alla tradizionale versione della leggenda: la moglie di Leofrico, disposta a mostrarsi in pubblico svestita per ottenere benefici tributari in favore della popolazione, intimava a tutti i cittadini di Coventry di non uscire di casa e di tenere chiuse le finestre in rispetto del comune senso del pudore.

Il sarto scostumato

Con l’opera di Grafton si prepara il terreno alla comparsa della figura del «guardone», il cui nome – Peeping Tom (letteralmente, «Tommaso che guarda di nascosto»)– fu reso noto soltanto nel XVII secolo. Un primo vago accenno al nuovo personaggio lo tratteggiarono, nel 1634, alcuni soldati di Norwich nel resoconto di un loro viaggio a Coventry, in cui si fa riferimento alla presenza di un occhio indiscreto durante il passaggio di Godiva nelle strade della città. In realtà, l’enigmatica figura era già apparsa in un dipinto del 1586 del fiammingo Adam Van Noort, che si trovava esposto nella St. Mary’s Hall di Coventry. I militari potrebbero aver tratto ispirazione proprio da quell’opera: nel quadro si nota, dietro una finestra, un volto barbuto intento a spiare il corpo nudo della nobildonna a cavallo. In base alla tradizione, Peeping Tom era un sarto, che, per il suo voyeurismo nei riguardi di Godiva, venne accecato o ucciso, a seconda delle varie versioni. La spropositata sanzione lo trasformò nel classico «capro espiatorio» in un clima culturale non certo morigerato. Nel XIX secolo, nella castigata epoca vittoriana, l’interesse per Go-

diva esplose come mai era accaduto in precedenza, forse come risposta all’eccesso di moralismo, ma, piú probabilmente, come espressione del «medievalismo» che andava allora diffondendosi.

Eroina o esibizionista?

Nell’Ottocento Godiva tornò a rivestire i panni dell’eroina che lottava per difendere i diritti dei piú deboli, grazie alla reinterpretazione della leggenda rappresentata dal poema The Princess; A Medley (1847) di Alfred Tennyson. I temi della sensualità e del voyeurismo passarono momentaneamente in secondo piano, tornando in auge, dopo poco, in alcune correnti della letteratura femminile che perseguivano l’intento di esaltare il ruolo attivo della donna nella società, non piú confinata all’interno della mura domestiche. Si delineò, di conseguenza, il ritratto di una Godiva esibizionista, che non aveva timore di mostrare la propria sfrontata bellezza in pubblico. Questa rilettura un po’ licenziosa della cavalcata e le successive versioni di stampo satirico comportarono la definitiva desacralizzazione del mito medievale. Ma anche il nuovo profilo meramente trasgressivo ed esibizionista della nobile anglosassone, con il trascorrere degli anni, perse mordente e non fece piú scandalo, contribuendo al parziale oblio della leggenda. F

Da leggere U Daniel Donoghue, Lady Godiva.

A Literary History of the Legend, Blackwell Publishing, Ofxord 2003 U Roger of Wendover, Rogeri de Wendover Liber Qui Dicitur Flores Historiarum AB Anno Domini MCLIV Annoque Henrici Anglorum Regis Secundi Primo, Cambridge University Press, 2012 U Robert Lacey, Great Tales from English History: The Truth About King Arthur, Lady Godiva, Richard the Lionheart, and More, Little, Brown and Company, New York 2004

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costume e società culto dei santi

In odore di santità di Maria Paola Zanoboni

Nei giorni che hanno accompagnato la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II si è molto parlato dell’iter che ha condotto la Chiesa a dichiararli santi. Ma quando e come furono codificate le norme che regolano l’attribuzione di questa specialissima «patente»? Tutto ebbe inizio nel Medioevo quando, alle soglie dell’anno Mille...

I

l concetto di santità come punto di contatto tra l’uomo e Dio, e di mediazione tra la terra e il cielo, caratteristico di un individuo al tempo stesso totalmente diverso ma estremamente vicino agli uomini, non appartiene soltanto al cristianesimo, ma affonda le sue radici nell’antichità. Nelle religioni antropomorfe dell’età classica (greca soprattutto) esistevano veri e propri «professionisti della mediazione», interpreti della volontà divina tramite segni presenti negli eventi naturali o storici. Nel mondo romano, in cui il termine sanctus (analogo a quello ebraico adottato per esprimere lo stesso concetto) aveva il significato di «degno di venerazione», anche gli imperatori e le anime dei defunti vennero ritenuti adatti a svolgere questa funzione di intermediari: da qui la nascita del culto degli antenati e del rituale di onorare le tombe, che tanta importanza ebbe poi nel cristianesimo. Ponendosi al di sopra delle religioni classiche, l’ebraismo connotò la santità di valori morali e spirituali, attribuendola inizialmente solo a Yahvè, poi anche a uomini da Lui scelti e dotati di spirito profetico e poteri taumaturgici, e, come tali, mediatori della parola e del potere di Dio nei confronti degli uomini. Nel mondo islamico, al concetto di santo inteso come «amico di Dio» aspirante all’ascesi, dotato di poteri soprannaturali e caratterizzato da una vita esemplare (con evidenti analogie con il cristianesimo), si uní, fin dal IX secolo, anche un’elaborazione dottrinale che portò alla redazione del Libro del sigillo dei santi, contenente la teorizzazione della santità islamica che distingueva due tipologie: il

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico con una teoria di santi martiri raffigurante (da sinistra) san Clemente, san Sisto e san Lorenzo. Fine del V sec.



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«santo osservante» (degno di venerazione per il suo modello di vita), e il santo come luogo privilegiato della teofania (colui che si esprime, ascolta, vede e agisce per conto di Dio). In assenza di un’istituzione preposta alla sanzione ufficiale della santità, il riconoscimento sociale, attraverso le pratiche devozionali tributate sulla tomba, e i miracoli, del tutto simili a quelli narrati nell’agiografia cristiana, permettono alla comunità islamica di riconoscere i santi.

In alto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Particolare della canonizzazione di san Francesco, proclamata nel 1228 da papa Gregorio IX, dalle Storie di San Francesco, ciclo affrescato attribuito a Giotto. Fine del XIII sec.

Testimoni della fede fino al sacrificio

antonomasia contro un potere regio incline ad abusare della propria forza), che venivano venerati spontaneamente dalla comunità di appartenenza, senza la necessità di alcun intervento della gerarchia ecclesiastica per ratificare quanto notorio. Soltanto a partire dall’età carolingia (VIII-IX secolo), di fronte a una proliferazione anarchica dei culti, vennero stabilite le prime norme per il riconoscimento ufficiale della santità di un defunto, fissate dai vescovi e confluite in molti capitolari emanati da Carlo Magno e Ludovico il Pio. Fu proibito venerare nuove reliquie senza il consenso della gerarchia ecclesiastica, e si decretò che la cerimonia solenne per il riconoscimento della santità (consistente nella traslazione del corpo del candidato), avesse valore unicamente se celebrata alla presenza di un vescovo.

Se dunque la nozione di santità esisteva nella maggior parte delle culture, il cristianesimo seppe integrare le esperienze religiose e le pratiche rituali presenti nel mondo classico e nell’ebraismo, promuovendo esperienze spirituali ed esistenziali caratterizzate dall’eccezionalità, e improntate in primo luogo sul percorso biografico di Gesú, itinerario ideale di ricongiungimento dell’uomo con Dio e modello permanente di santità. Santi furono perciò in primo luogo coloro che avevano testimoniato la fede fino allo spargimento di sangue (i martiri, dal greco marturion= testimonianza), alla cui intercessione bisognava raccomandarsi, secondo la pratica introdotta e sancita da sant’Agostino († 430): quindi eremiti, monaci e vescovi (questi ultimi divenuti, almeno tra il V e l’VIII secolo i defensores civitatis per

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A destra Duomo di Siena, Libreria Piccolomini. La canonizzazione di santa Caterina da Siena, avvenuta nel 1461, affresco delle Storie della Vita di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), dipinte dal Pitturicchio tra il 1503 e il 1508.

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costume e società culto dei santi In età carolingia venne fatto divieto di venerare reliquie senza che vi fosse stato in proposito il consenso della Chiesa

Sacre spoglie Due preziosi busti reliquiari conservati presso la chiesa di S. Adalberto ad Aquisgrana. Il primo (in alto), databile al XIV sec. contiene il cranio di sant’Ermete, liberto romano che morí martirizzato nel 120 e venne sepolto nel cimitero di Basilla, sulla via Salaria; il secondo (qui accanto), che è invece databile alla fine del XV sec., contiene la testa di sant’Adalberto, vescovo di Praga e martire, canonizzato da papa Silvestro II nel 999.

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Tutto questo portò progressivamente, in modo del tutto spontaneo, a chiamare in causa il papa in quanto autorità superiore in grado di dissipare eventuali dubbi. La prima canonizzazione pontificia (anche se il termine non esisteva ancora) viene fatta risalire al 993, quando fu proclamato santo a Roma il vescovo di Augusta, nel senso che, per la prima volta, il papa (Giovanni XV) intervenne fuori dalla penisola italiana in una questione riguardante il culto dei santi, facendo redigere la bolla con cui si ordinava ai vescovi di Francia e Germania di onorare la memoria del santo. Tuttavia, ancora non si trattava di un’innovazione giuridica.

La prima canonizzazione

La prassi del ricorso al pontefice si consolidò durante l’XI secolo, in concomitanza con il rafforzamento dell’autorità del vescovo di Roma sulla Chiesa universale e nei confronti del potere temporale, fatto che stimolò sempre di piú l’episcopato locale a chiedere al papa la ratifica di iniziative già avviate, sebbene questo non costituisse ancora un obbligo. Benedetto VIII (nella prima metà dell’XI secolo) utilizzò per prima volta il termine «canonizare», mentre, a partire dall’epoca di Gregorio VII (1073-1085), quando, con il Dictatus papae, la teorizzazione del primato del romano pontefice raggiunse il suo apogeo, venne riconosciuta di fatto nel papa la sola autorità a cui spettasse pronunciarsi sulla santità, anche se tale persuasione non aveva ancora alcun fondamento giuridico. Solo nel 1234 Gregorio IX sancí definitivamente il diritto di riserva pontificia nella canonizzazione dei santi, enunciato pochi anni prima da Innocenzo III (1198-1216). Già dalla fine del XII secolo il processo di canonizzazione (il piú antico rimastoci risale al 1181) conteneva gli elementi fondamentali che si sarebbero tramandati nel tempo, il suo articolarsi su due livelli: il primo, spontaneo, di percezione sociale della straordinarietà spirituale di un individuo e del suo rapporto privilegiato col soprannaturale, tanto da provocare un’emozione popolare straordinaria soprattutto nel momento della morte e delle esequie; il secondo consistente nel riconoscimento di tale eccezionalità da parte della comunità ecclesiastica, in seguito alla postulazione dei patrocinatori del santo, riconoscimento effettuato mediante il procedimento dell’inquisitio, cioè dell’interrogatorio dei testimoni (convalidato con atto notarile), teso in un primo tempo soprattutto all’accertamento dei miracoli compiuti dal candidato. Proprio in tale processo di valutazione introdusse una svolta decisiva Innocenzo III (1198-1216) affermando l’importanza di sottoporre a un esame meticoloso non solo i miracoli, ma anche l’intera vita del «servo di Dio», allentando il nesso tra santità e manifestazioni soprannaturali: la Chiesa romana ammetteva cioè di non poter canonizzare se non coloro che la vox populi designava come santi, ma si arrogava il diritto di valutare la credenza popolare con una vera e propria

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procedura giudiziaria volta a presentare il miracolo come l’effetto di un’esistenza virtuosa. L’iniziativa della canonizzazione (allora come oggi) partiva in genere dal vescovo del luogo in cui il candidato era morto, dove venivano svolte inchieste preliminari per informare il papa (prassi comune dal 1230), che dava inizio, entro poco tempo dal ricevimento della richiesta, al processo vero e proprio, destinato a durare qualche giorno o parecchi mesi. Queste procedure rigorose (nella prima metà del Duecento, con Gregorio IX, venne addirittura introdotto un abbozzo di inchiesta medico-legale per l’accertamento dei miracoli), segno di un culto prodotto non soltanto da esigenze popolari, ma promosso anche da grandi intellettuali che seppero interpretare dal punto di vista teologico tali necessità, erano però ancora limitate in buona parte all’esame critico dei fenomeni soprannaturali concernenti il candidato, dal momento che, fino a tutto il XIII secolo venivano elevati agli altari prevalentemente martiri, vescovi, fondatori di ordini religiosi, l’esemplarità della cui vita non dava adito a dubbi. La situazione mutò all’inizio del Trecento, a causa del gran numero di mistici e visionari la cui reputazione di santità era dovuta non tanto alle opere di misericordia o alle esperienze ascetiche, quanto a misteriosi doni divini che andavano dall’estasi alle stimmate, manifestazioni la cui realtà risultava alquanto difficile da accertare. Malgrado la prudenza della Chiesa nella valutazione di tali fenomeni, a partire dalla fine del XV secolo il culto dei santi rappresentò il principale bersaglio dapprima di Erasmo da Rotterdam (1467-1536), che contrapponeva all’agiografia fantastica la biografia storicamente documentata, asserendo che nessun miracolo può essere piú grande della spiritualità e della cultura trasmesse dai santi; poi di Lutero e della Riforma protestante, che ne rifiutarono globalmente la possibilità di intercessione, scagliandosi in particolare contro il culto delle immagini e delle reliquie, considerate idolatria.

L’agiografia come disciplina storica

Tali critiche stimolarono la cultura cattolica del Concilio di Trento (1545-1563) a reagire impegnandosi a dare un saldo fondamento storico all’identità di ciascuno di coloro che venivano elevati alla gloria degli altari, vagliando la veridicità delle testimonianze, l’antichità del culto, l’autenticità delle reliquie. Questo processo di revisione portò, tra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento, a concepire l’agiografia come disciplina storico-critica, sfociando nella pubblicazione degli Acta Sanctorum di Jean Bolland (1643) e della sua scuola («bollandista»), pietra miliare nella storia della storiografia europea, comprendente le principali fonti agiografiche precedute da un commentario storico-critico sulle fonti stesse (autori, datazione, attendibilità) e sui santi (dati biografici, morte e sepoltura, culto, reliquie).

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Roma, 27 aprile 2014. Piazza San Pietro e via della Conciliazione gremite di fedeli in occasione della cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, proclamati santi da papa Francesco.

Contemporaneamente, veniva in parte modificato anche dal punto di vista istituzionale il processo di canonizzazione, creando la Congregazione dei Riti (Sisto V, 1588) per dare forma giuridica stabile all’iter processuale. Tra il 1625 e il 1634 Urbano VIII introdusse la distinzione tra santi e beati, l’indagine preliminare sull’ortodossia del candidato mediante l’analisi dei suoi scritti, e quella sull’esistenza di una «fama di santità» universalmente riconosciuta; proibí inoltre il culto pubblico in assenza dell’approvazione pontificia, e stabilí che non si potesse procedere alla beatificazione o alla canonizzazione prima di 50 anni dalla morte del «servo di Dio».

Una distinzione fondamentale

Ma fu Benedetto XIV, con la fondamentale De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-1738) – in cui, facendo propria la metodologia bollandista, sostanziava la riflessione teologica con l’indagine storico-critica sulle fonti relative alla santità –, a fissare le norme rimaste in vigore senza sostanziali modifiche fino al XX secolo, stabilendo la definitiva distinzione tra processo di beatificazione e processo di canonizzazione, con le relative procedure. Qualche variazione fu apportata da Pio XII, che introdusse l’indagine scientifica e medica dei miracoli (1948), e da Paolo VI, che istituí la Congregazione per le cause dei Santi (1969), distaccandola dalla Congregazione dei Riti. Nel frattempo, il Concilio Vaticano II (1962-1965), trattando sistematicamente la teologia dei santi e del loro culto, aveva ribadito il valore della santità come testimonianza del soprannaturale e come modello di vita, piú che la sua funzione taumaturgica. Una revisione globale di tutto il complesso giuridico di beatificazione e canonizzazione venne elaborata nel 1983 da Giovanni Paolo II, il quale ridusse il termine per l’apertura del processo di beatificazione, portandolo da 50 anni a 5, in modo da permettere di interrogare tempestivamente i testimoni, evitando la perdita delle prove. Papa Wojtyla attribuí inoltre nuovamente al vescovo del luogo in cui il candidato era morto il compito dell’indagine su vita, scritti e miracoli, cosa che Paolo VI aveva parzialmente avocato a Roma. F

Da leggere U André Vauchez, Santità,

in Enciclopedia Einaudi, vol. XII, Torino 1981; pp. 441-453 U Giuseppe Dalla Torre, Processo di beatificazione e di canonizzazione, in Enciclopedia del diritto Giuffrè, vol. XXXVI, Milano 1987; pp. 932-943 U Anna Benvenuti (a cura di), Storia della santità nel Cristianesimo occidentale, Viella, Roma 2005

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U André Vauchez, La santità nel

Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989 U Giuseppe Dalla Torre, Santità ed

economia processuale. L’esperienza giuridica da Urbano VIII a Benedetto XIV, in Finzione e santità tra medioevo ed età moderna (a cura di Gabriella Zarri), Rosenberg & Sellier, Torino 1991; pp. 231-263 U Sofia Boesch Gajano, La santità, Laterza, Roma-Bari 1999

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Tutto l’universo in un albero di Domenico Sebastiani

L’attribuzione di poteri magici e valori simbolici a piante e animali è un fenomeno che caratterizza tutte le culture umane, sin dalle fasi piú antiche della preistoria. Nelle pagine che seguono analizziamo lo straordinario corpus di credenze e leggende legate all’Yggdrasill, il frassino «magico» venerato e celebrato dalle popolazioni del Nord Europa 54

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immaginario yggdrasill

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a sempre, esiste uno stretto legame tra la vita dell’uomo e la figura dell’albero. Tutti i popoli, in ogni epoca, hanno attribuito «sacralità» a questa o a quella pianta anche se, come ha osservato il grande storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986),

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«mai un albero fu adorato unicamente per se stesso, ma sempre per quello che, per suo tramite, si rivelava, per ciò che esso implicava o significava». Il motivo iconografico e simbolico dell’albero ebbe molta fortuna nel Medioevo nell’ambito della

Goslar (Germania), Palazzo Imperiale. Affresco raffigurante Carlo Magno che fa abbattere l’Irminsul, il gigantesco tronco venerato dagli Angrivari (popolazione sassone) come «pilastro cosmico», asse che sorreggeva la volta celeste. 1885.

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immaginario yggdrasill Tutti gli «abitanti» dell’Yggdrasill aquila L’aquila appollaiata in cima al frassino Yggdrasill, con il falco Vedrfolnir in mezzo agli occhi. La sua presenza fa da contraltare al drago e ai serpenti che rosicchiano le radici dell’albero.

cervi Dáinn, Dvalinn, Duneyrr e Duraþrór, i quattro cervi che corrono tra i rami, brucandone le foglie.

scoiattolo Lo scoiattolo Ratatoskr (dente che perfora), che corre su e giú per il tronco riferendo all’aquila e al drago le reciproche maldicenze e accuse, rinnovando così l’eterna lotta tra cielo e terra, spirituale e materiale, bene e male.

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Miniatura raffigurante l’Yggdrasill, il frassino cosmico, e gli animali che vi dimorano, dall’Edda Oblongata, manoscritto islandese del 1680 circa. Reykjavík, Istituto Árni Magnússon.

cultura giudaico-cristiana: si può pensare all’Albero della Vita – che finisce per identificarsi con l’Albero della Croce il cui frutto è Cristo stesso –, all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male nel giardino dell’Eden, all’Albero Secco e all’Albero Verde, a quello della Sephirot, all’Albero di Jesse e via dicendo. Vista la molteplicità dei significati assunti dall’albero presso le varie culture, l’indagine è qui limitata alla dimensione dell’albero come «specchio» o «immagine» del cosmo. Infatti, come riferisce nel saggio Mitologia degli alberi lo specialista di botanica e di religioni Jacques Brosse (1922-2008), la mitologia vuole che in un remoto passato, prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla terra, un albero gigantesco s’innalzasse fino al cielo, attraversando i tre mondi (sotterraneo, terreno e celeste). L’acqua attinta dalla terra rappresentava la sua linfa, grazie ai raggi del sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti. Attraverso l’albero, il fuoco scendeva dal cielo, la sua cima raccoglieva le nuvole e faceva cadere le piogge fecondatrici. Fonte di ogni vita, l’albero dava riparo e nutrimento a migliaia di esseri e persino gli dei sceglievano di dimorare nei suoi pressi. La caratteristica precipua di questa pianta era peraltro rappresentata dalla sua verticalità, quale Axis Mundi o Imago Mundi, pilastro di un cosmo in continua evoluzione. Tale immagine, comune

drago Il drago (o serpente) Nidhoggr, dimorante insieme a molti altri serpenti presso la fonte Hvergelmirm nel Nilflheim (il regno dei morti), rode le radici dell’albero attentando cosí alla sua sopravvivenza.

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alla tradizione di diverse parti del mondo, non si diffuse granché nel bacino del Mediterraneo; divenne invece molto significativa e popolare sia nelle terre del Nord Europa che tra le popolazioni uralo altaiche. L’esempio piú suggestivo si ritrova nei testi trascritti nel Medioevo dai poeti scandinavi. Ci si riferisce infatti a quello che Eliade ha definito l’albero «cosmico per eccellenza»: il frassino Yggdrasill della mitologia norrena. Indicazioni basilari sulla ricostruzione di tale immagine della tradizione nordica figurano nell’Edda poetica o antica, raccolta di canti mitici ed eroici raccolti per iscritto attorno al X secolo, e nell’Edda in prosa, opera dello statista e letterato islandese Snorri Sturluson (1178-1241).

so e lo sorregge. I suoi rami sempreverdi, simbolo di eternità, si stendono su tutto il mondo e coprono il cielo, dai suoi rami cadono sulla terra stille di miele come gocce di rugiada, mentre le sue tre radici si spingono verso differenti direzioni: la prima si dirige ad Asgard, il mondo inferiore degli Asi, gli dèi; la seconda verso Jotunheim, il mondo dei giganti di ghiaccio che precedettero gli uomini; mentre la terza si inoltra verso Niflheim o Niflhel, la tenebrosa dimora dei morti, o meglio di coloro che in vita si erano macchiati di colpe e meritevoli di orribili punizioni. A ogni radice corrisponde una sorgente: presso

Niflheim si trova Hvergelmir, dalla quale si originano tutti i fiumi del mondo e che è fonte di distruzione e di morte, in quanto nutre il serpente (o drago) Nidhoggr, il quale, insieme ad altri rettili, attenta alla vita dell’albero. Presso la seconda si trova, prendendo il nome dal suo custode, la sorgente di Mimir, fonte di inesauribile saggezza: il suo accesso è vietato dal suo possessore, che significa «Meditazione», il quale è colmo di conoscenza in quanto ogni giorno beve le sue acque con il corno Gjallarhorn. Lo stesso Odino, per poterne avere un sorso, dovette lasciare in pegno il suo occhio. Sotto la terza, in prossimità della dimora degli dèi, esiste la

Le tre radici

Innanzitutto nella Volupsa (La predizione dell’indovina), in cui si narra dell’origine del mondo, si parla di un «grande frassino che penetra la terra. (…) Yggdrasill lo chiamano, // alto tronco lambito da limpide acque; // di là vengono le rugiade che piovono nelle valli. // Sempre s’erge, verde, sopra la sorgente di Urdhr». Yggdrasill è il piú grande e il migliore degli alberi, è al tempo stesso centro, supporto, perno e immagine del mondo: con le sue radici piantate nella terra raggiunge il polo ctonio, con le sue fronde tocca il polo uranio, mettendo in correlazione le tre regioni cosmiche: terra, cielo e oltretomba. Esso stesso è cosmo vivente in perpetua rigenerazione, si trova al centro dell’univerScultura raffigurante Garuda, dio-uccello indiano abitante del cielo e nemico dei rettili, che cavalca il serpente, suo nemico, dalla Cambogia. XII sec. Parigi, Musée naitonal des arts asiatique-Guimet.

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immaginario yggdrasill Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Iscrizione runica e motivi serpentiformi incisi sulla pietra runica denominata Nä 34 del sito vichingo di Nasta, nella contea di Örebro (Svezia centrale)-

fontana piú sacra e preziosa: essa è Urdhr (il Passato), dal nome della piú anziana delle tre Norne che vegliano sulla stessa. Le altre sono Verdandi (il Presente) e Skuld (il Futuro): filatrici, cosí come le Moire e le Parche della mitologia greca e latina, decidono le sorti degli umani e anche degli dèi, dato che gli stessi non sono immortali. Nello stesso tempo le tre attingono quotidianamente dalla fonte acqua e argilla e ne aspergono il frassino, affinché questo non secchi e marcisca: tutto ciò che cade nella fonte ritrova la purezza originaria, simboleggiata dal candore dei cigni che vi nuotano. Perciò Urdhr rappresenta contemporaneamente la fontana del destino e dell’eterna giovinezza. Nelle sue vicinanze gli dèi si riuniscono, per discutere, risolvere i conflitti e rendere giustizia. Lo studioso di tradizioni popolari Ignazio Buttitta osserva che ciò richiama il concetto di thing, l’assemblea scandinava degli uomini liberi che tenevano consiglio sotto un albero per decidere le sorti della comunità: «la presenza dell’asse, del palo, replica dell’Albero cosmico, mette in comunicazione con il divino e legittima le decisioni dell’assemblea».

La fauna di Yggdrasill

Quale Albero della Vita, Yggdrasill ospita lungo il tronco e sui rami un fauna vasta e composita, non sempre benevola, elencata nel Grimnismal dell’Edda poetica e nel Gylfaginning di quella di Snorri. Vi sono quattro cervi che brucano le foglie e, in alcune versioni, compaiono un gallo e la capra Heidhrun, che nutre con il suo latte i guerrieri di Odino. La valenza simbolica maggiore è data dalla presenza di un’aquila appollaiata in cima all’albero, a cui fa da contraltare, alla base, quella di numerosi serpenti che, assieme al gigantesco drago Nidhoggr, rosic-

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chiano le radici del frassino. Lo scoiattolo, Ratatoskr, percorre su e giú la corteccia riportando all’uccello e al rettile le reciproche maldicenze e accuse che si scambiano. La germanista Gianna Chiesa Isnardi osserva che allo scoiattolo Ratatoskr («dente che perfora») «è affidato il compito di far sí che l’antagonismo fra cielo e terra, fra spirituale e materiale, tra bene e male

abbia corso ininterrotto». Già Eliade aveva evidenziato la centralità della continua lotta tra l’aquila e il serpente, avvicinando il mitema ai tipi presenti non nell’Antico Testamento, ma nella cosmologia nord-asiatica e indiana (la lotta di Garuda con il rettile) e, comunque sia, alla simbologia della contrapposizione tra il motivo solare e quello sotterraneo. L’azione combinata di tali animagiugno

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li, che continuamente mangiano, brucano e rodono il frassino a tutti i livelli, riflette la precarietà e l’instabilità dell’ordine cosmogonico della mitologia germanica, tale che la conseguenza sarà l’ineluttabile deflagrazione verso il Ragnarök, il cataclisma finale. All’indomani di questo «crepuscolo degli dèi», Yggdrasill, pur vacillando dalle fondamenta, sarà l’unico a resistere. La terra si mostrerà verde e bella, un nuovo sole apparirà nel cielo popolato da nuovi dèi, e resusciterà Baldr, il dio buono la cui morte aveva dato avvio alla catastrofe. In un mondo rinnovato, una nuova umanità discenderà da Lif e Lifthrasir, un uomo e una donna (unici sopravvissuti) che avevano trovato riparo all’interno della corteccia dell’albero, cibandosi solo della rugiada mattutina. Ma Yggdrasill si pone anche come Albero della Conoscenza. Nel canto eddico Havamal (La canzone dell’Eccelso) si narra l’autosacrificio di Odino, che si impicca all’albero per conquistare il segreto delle rune, ossia la conoscenza. Il primo e piú antico degli Asi, infatti, oltre

a essere dio della guerra, diventa maestro di saggezza e conoscenza occulta: per ottenerla, dopo aver già lasciato in pegno l’occhio a Mimir e aver sottratto il divino idromele al gigante Suttungr, si sottopone a una prova iniziatica proprio sul frassino del mondo.

Il «cavallo di Odino»

In questa circostanza, l’albero cosmico appare come una forca, strumento di quel sacrificio tramite impiccagione con il quale il dio era solitamente onorato presso gli scandinavi. Da ciò deriva anche il nome del frassino Yggdrasill, ossia «cavallo di Yggr» (Yggr è uno degli appellativi di Odino), mentre la metafora del cavallo corrispondente a «forca» è molto diffusa nelle fonti nordiche. Il dio, privato della vista, vede ormai con gli occhi dello spirito: è diventato veggente, motivo questo comune a piú di una tradizione, basti pensare a Omero, Tiresia o Edipo. Ormai sovrano della conoscenza, Odino insegna le rune agli uomini e grazie al loro potere acquisisce la facol-

tà di guarire i dolori o di provocarli, di placare l’odio o di fomentarlo, di dominare le forze della natura, di parlare con i morti, di distribuire saggezza, vittoria o fortuna. Piú di uno studioso ha osservato che la figura del dio impiccato all’albero e ferito da una lancia ricorda, di primo acchito, Gesú appeso al legno della croce e trafitto dalla lancia del centurione. Teoricamente, infatti, i carmi eddici che raccontano le vicende sono stati messi per iscritto in epoca già cristiana. L’ipotesi di una derivazione del mito di Yggdrasill dall’Albero della Vita del Vecchio Testamento e del sacrificio di Odino dalla Croce di Cristo è stata sostenuta in passato rispettivamente dal folclorista finnico Kaarle Krohn (1863-1933) e dal norvegese Sophus Bugge (1833-1907): a queste tesi si è contrapposto fermamente Eliade, definendole inaccettabili in quanto «Odino lega il suo cavallo

Secondo la mitologia scandinva, l’Yggdrasill, pur vacillando dalle fondamenta, sarebbe riuscito a sopravvivere al Ragnarök, la battaglia finale tra le forze oscure e quelle della luce

Odino, particolare di una miniatura di scuola islandese del XVIII sec. Copenhagen, Biblioteca Reale. Divinità suprema e dio della guerra, Odino divenne maestro di saggezza e conoscenza attraverso l’apprendimento delle rune, dopo essersi impiccato ritualmente all’Yggdrasill per nove giorni.

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immaginario yggdrasill Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

a Yggdrasill, ed è difficile credere che questo motivo – centrale nella mitologia scandinava – sia tanto tardo». Egli prosegue affermando che «è difficile dire se elementi giudeo-cristiani siano intervenuti nella concezione di Yggdrasill» dal momento che «la fusione dell’Albero Cosmico con l’Albero della Vita si trova anche presso i Germani», per cui ciò può dimostrare ampiamente l’autoctonia del concetto. Tornando all’impiccagione di Odino, è piú facile ricondurre la figura alle pratiche degli sciama-

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ni presenti in Irlanda o ancor piú a quelli siberiani. Motivo, questo, perfettamente coerente con la natura sciamanica del dio scandinavo stesso. È stato anche osservato che il motivo della sofferenza collegato a un albero ricorre persino nelle prove dei guerrieri indiani del Nord America, i quali praticavano attorno a un palo sacro la danza del Sole, legati a esso con cinghie che straziavano le loro carni. Alla medesima funzione simbolica di Yggdrasill, tanto da far pensare a una coincidenza assoluta con

lo stesso, vanno ricondotti altri due alberi di cui parla l’Edda: il primo si chiama Léradr (la cui etimologia è incerta), che si erge di fronte alle porte della Valhalla, il secondo è Mimameidr, «pianta inattaccabile dal ferro e dal fuoco, produttrice di frutti medicamentosi e sulla quale è appollaiato un gallo d’oro». Ancora Isnardi afferma che l’esistenza di un culto dell’albero nelle antiche regioni germaniche è desumibile dalla testimonianza di Adamo, canonico e magister scholarum di Brema, nel passo in cui parla di un giugno

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Il frassino presso i Celti

Una lancia per i giovani guerrieri L’albero del frassino era carico di significati anche presso le popolazioni celtiche. Il suo legno flessibile e al contempo robusto era molto adatto per fabbricare remi, manici per asce, martelli e vanghe, ma era considerato soprattutto il legno migliore per le armi dei guerrieri, in particolare per i bastoni da combattimento e per le aste delle lance. Simbolo di rinascita, trasformazione e di iniziazione (come la betulla), sembra che fosse usato dai Druidi, sotto forma di bacchette, per alcuni rituali. Allo stesso tempo, bacchette di frassino venivano usate per riconoscere se nei corpi dei nemici uccisi in battaglia si annidassero i demoni. Presso i Celti, il frassino era associato principalmente ai giovani guerrieri: la consegna di una lancia, con cui il giovane avrebbe superato una serie di prove, segnava la fine della fanciullezza e del forestage, cioè l’affidamento dei bambini a genitori adottivi che li allevavano ed educavano fino alla maggiore età. Il giovane guerriero veniva presentato da una donna a suo padre, il quale, a sua volta, lo introduceva agli altri guerrieri e, quindi, al mondo degli adulti. Il legno di frassino era altresí apprezzato per le sue proprietà magiche e miracolose. Sotto il primo aspetto veniva considerato dagli uomini un rimedio contro il malaugurio scagliato dalle donne, e dai pastori quale antidoto (sotto forma di bastone) per tenere alla larga i serpenti dalle greggi. Sotto il secondo,

albero sempreverde che cresceva presso il tempio di Uppsala, ai cui piedi si trovava una fonte sacrificale dalla quale si traevano oracoli. Tale passo è riportato nelle Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum, scritte tra il 1072 e il 1076, in particolare nella Descriptio Insularum Aquilonis (capitolo XXVII del IV libro, Scolio 134): «In prossimità del tempio c’è un enorme albero che allarga i suoi rami ed è verde d’inverno come d’estate. Nessuno sa di che specie di albero si tratti. Nello stesso luogo c’è anche un pantano, vicino al quale i

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si riteneva che potesse operare guarigioni miracolose nei confronti dei bambini affetti da ernia o rachitismo: a questo proposito, i fanciulli venivano fatti passare tre o nove volte, nudi e prima dell’alba, attraverso una fenditura o spaccatura prodotta su un giovane frassino. La fenditura dell’albero veniva quindi richiusa con argilla e poi fasciata: da quel momento la salute dell’albero e del bambino sarebbero state legate, in quanto se il frassino fosse guarito anche la malattia del fanciullo sarebbe scomparsa e viceversa. In Irlanda la leggenda vuole che Fintan Mac Bochra, druido primordiale che giunse nell’isola con la prima invasione mitica e unico a sopravvivere al Diluvio trasformandosi in salmone, piantasse cinque alberi magici che avevano il compito di segnare i confini delle province (Leinster, Munster, Connaught, Ulster e Meath): tre erano frassini, ovvero il Frassino di Tortu, quello di Dathi e quello di Uisnech, che furono abbattuti nel 665 d.C., segnando il trionfo del cristianesimo. Gli altri due erano la Quercia di Munga e il Tasso di Ross. Per i guerrieri celti il frassino era il pilastro al centro dell’Irlanda e in ciò si può chiaramente ritrovare il medesimo simbolismo cosmico di Yggdrasill, l’Albero del Mondo della mitologia scandinava.

A sinistra il bosco sacro dei druidi in una incisione ottocentesca. Parigi, Bibliothèque de l’Opéra Garnier. A destra Urnes (Norvegia). Rilievo sul portale di una chiesa lignea raffigurante un animale che morde un serpente, forse una rappresentazione della lotta tra il bene e il male o della fine del mondo secondo la mitologia norrena. XI sec.

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immaginario yggdrasill lotta al paganesimo

Il cristianesimo contro gli alberi sacri Intorno ai secoli IV-V, pratiche religiose, prevalentemente celtiche e precedenti all’introduzione della religione romana, trovarono nuova linfa e vigore. I vescovi e i chierici cominciarono a denunciare la sopravvivenza di «superstizioni» pagane, radicate soprattutto nelle campagne: d’altra parte, per gli stessi non vi era grande differenza tra superstizioni e paganesimo. I pagani dovevano essere convertiti, le superstizioni estirpate e questo era compito dei «santi». L’agiografia ci consegna perciò tutta una serie di imprese di vescovi ed evangelizzatori che si impegnarono innanzitutto per distruggere con violenza templi e idoli pagani. Piú ostico, tuttavia, era sradicare l’adorazione pagana degli elementi naturali: fiumi, fonti, laghi, animali, ma soprattutto piante. A tal proposito numerose sono le attestazioni medievali della persistenza di un immaginario simbolico tradizionale attraverso il perpetuarsi di pratiche rituali non cristiane, o comunque non ortodosse, legate agli alberi. Per esempio, in una lettera indirizzata alla regina Brunilde nel 597, papa Gregorio I faceva divieto alle popolazioni rurali di «fare sacrifici nei boschetti o sotto particolari alberi, di pronunziare o sciogliere dei

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voti, di accendere candele o di appendere agli alberi simulacri di arti malati nella speranza di una loro guarigione». Attestazioni circa la venerazione di boschi sacri posti in cima a colline ci provengono dagli atti del Concilio Cartaginiense del 397 e delle Costituzioni del re Childeberto del 550 e numerosi concili provinciali legiferarono contro le superstizioni e l’adorazione di alberi, pietre e fontane, come quello di Arles (452), quello di Tours (567) e quello di Nantes (568). Si può ricordare ancora

la vicenda narrata da Rodolfo di Fulda secondo la quale, quando nel 772 Carlo Magno effettuò una spedizione punitiva contro il popolo sassone degli Angari che aveva invaso l’Assia, fece distruggere il santuario in cui era venerato Irminsul, gigantesco tronco d’albero cui si attribuiva la proprietà di reggere la volta celeste. Numerosi missionari si impegnarono in prima persona: sant’Amandus, nel VII secolo, tagliò un albero sacro nella Bassa Franconia, allo stesso modo si comportarono san Barbatus con un albero

venerato dai Longobardi e san Bonifacio con una quercia sacra a Donar-Thor (robur Jovis) a Geismar, presso Fritzlar in Assia. Concili, editti e sinodi regionali continuarono a disporre la distruzione di boschi sacri fino a tutto l’XI secolo, particolarmente nelle regioni germaniche e dell’Europa settentrionale. D’altra parte, Burcardo di Worms nel suo Decretum, scritto attorno al 1010, richiamava l’attenzione dei vescovi su «gli alberi consacrati ai demoni, ai quali il popolo dedica un culto e venera a tal punto da non osare

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tagliare né fronde né rami» e ordinava di «scalzarli dalle radici e di bruciarli». Non sempre, però, questa sorta di «crociata» contro gli alberi e le foreste andava a buon fine. Emblematico è il caso di Adalberto vescovo di Praga, cosí come riferito nelle Cronache dell’anno mille da Rodolfo il Glabro: nel 997 Adalberto, durante la celebrazione della prima messa presso l’altare appena costruito con cui aveva cercato di rivalorizzare in chiave cristiana l’antico oggetto di culto delle popolazioni locali di Elbing, nella Prussia orientale, fu trucidato da un mortale lancio di giavellotti da parte degli abitanti della regione. Scontri tra evangelizzatori e rustici non erano rari, quindi. Vito Fumagalli (1938-1997) ci riporta il caso accaduto nel periodo in

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In alto Gniezno cui Atala, successore di san (Polonia), Colombano, era abate presso Cattedrale. il monastero di Bobbio: un Rilievo del monaco fu preso duramente portale bronzeo a bastonate e gettato in un con il martirio fiume in quanto aveva osato di Adalberto bruciare un tempio pagano, vescovo di Praga. costruito con tronchi. 1175 circa. In alcune regioni Nella pagina del Nord Europa, accanto soprattutto in Deposizione del Germania, persistette Cristo scolpita una legislazione atta a su una delle punire chi avesse osato rocce del sito commettere crimini contro megalitico di gli alberi, con pene molto Externsteine dure: dalla decapitazione (Germania). all’amputazione della XII sec. Il tronco mano, fino ad arrivare, piegato che si per chi avesse abbattuto vede sulla destra o tolto la corteccia a un è probabilemente albero da frutto, anche allo l’albero cosmico sventramento. La severità Irminsul, di tali pene, evidentemente, schiacciato non si legava al valore dal trionfo del economico degli alberi, ma cristianesimo. alla loro sacralità, al fatto che essi fossero considerati degli organismi viventi.

pagani hanno l’abitudine di eseguire i loro sacrifici e nel quale gettano un uomo vivo. Se questi non ritorna alla superficie, significa che gli dèi hanno gradito il sacrificio e che si realizzerà il desiderio del popolo». Il pantano, formato da una fonte, appare come una chiara reminiscenza di Yggdrasill.

Altri alberi cosmici

Mentre il mitema dell’albero cosmico non risulta molto diffuso tra le popolazioni indoeuropee, presso i Germani assumeva la veste di elemento cosmogonico di straordinaria importanza. Oltre a Yggdrasill, infatti, si possono citare ulteriori esempi. In primo luogo la colonna Irminsul venerata dai Sassoni, posta nella foresta di Teutoburgo, asse portante dell’universo (Rodolfo di Fulda, nella sua cronaca, la ricorda come fanum et lucum famosum Irminsul), tanto da essere considerata una universalis columna quasi sustinens omnia. L’altro esempio ci proviene dalla quercia «funesta» del Kalevala, epopea composta nel XIX secolo

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In alto litografia ottocentesca che riproduce il particolare di un affresco della basilica di S. Bonifacio a Monaco raffigurante il trionfo del cristianesimo sui culti druidici, simboleggiato dall’abbattimento di un albero sacro.

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dal poeta Elias Lönnrot attingendo al patrimonio leggendario di poemi e canti popolari finnici. Nell’opera si narra di una quercia malefica, carica di un simbolismo ambiguo e ambivalente: da una ghianda magica seminata dall’eroe e bardo Väinämöinen, si sviluppa un albero cosí immenso che ben presto comincia a vietare il corso delle nubi, al sole impedisce di riscaldare

e alla luna di brillare. La quercia, sempre simbolo cosmico, in questo caso ha una valenza nociva e pericolosa, tanto da mettere in pericolo la sopravvivenza del genere umano e da richiedere il suo abbattimento. L’oceano, supplicato da Väinämöinen, invia uno gnomo che, crescendo, riesce ad abbattere la pianta con tre colpi di scure. A questo punto la quercia mo-

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A destra il taglio della grande quercia in una illustrazione di Joseph Alanen per una edizione del Kalevala, poema epico ottocentesco di Elias Lonnrot basato sulla mitologia finlandese. 1915-1920. Collezione privata.

stra tutta la sua ambivalenza: ormai abbattuta, il sole e la luna possono di nuovo risplendere nel cielo, allo stesso tempo la stessa si mostra ora come benefica e quale potente talismano. Chi ne prende un ramo, ha in eredità una fortuna eterna, chi ne spezza una cima, acquista la scienza della magia, chi ne taglia il fogliame, acquista l’amore eterno. Pertanto la figura della quercia funesta del Kalevala, ricondotta entro un contesto agricolo e legato ai riti di fertilità, lascia intravedere elementi riconducibili all’Albero del Mondo, all’Albero della Vita e a quello del Bene e del Male.

Benessere e fecondità

Il già citato Ignazio Buttitta, riportando le parole dell’antropologo e storico delle religioni Alfonso Di Nola (1926-1997), evidenzia come il frassino cosmico risulti la trasposizione mitica dell’albero che si ergeva nei luoghi di culto e che assicurava il benessere del gruppo. Nella pagina accanto, in basso veduta delle Externsteine (le «Rocce di Exetern»), una formazione rocciosa nella foresta di Teutoburgo e sede di un santuario pagano in cui si venerava l’Irminsul.

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Nello stesso ordine di idee vanno inquadrati il vardträd svedese e il tuntre norvegese, un esempio del quale può essere rintracciato nella Saga dei Volsunghi: in questo caso il re Völsungr fa costruire una splendida dimora in modo tale che essa abbia al centro una quercia enorme, denominata poi Barnstokkr, il cui tronco affonda nella sala e i cui rami rigogliosi e fioriti fuoriescono dal tetto. Per Buttitta «fondamento e centro della reggia, cioè del cosmos, l’albero si fa a un tempo segno inequivocabile della sovranità e della fecondità. Albero della vita-fertilità e albero axis mundi, lungi dall’escludersi si pongono come significati complementari. La reggia di Völsungr viene costruita intorno a un’enorme quercia che ne indica la natura di centro cosmico, e la quercia stessa è rigogliosa, fiorita come a segnalare la potenza fecondatrice del luogo e di chi vi abita».

Un tema simile era già presente nell’Odissea, nel passo in cui Ulisse mura la propria stanza da letto attorno a un tronco d’ulivo dalle ricche fronde, florido, rigoglioso e grosso come una colonna, solido e inamovibile. Poi tronca la chioma fronzuta dell’albero, sgrossa e squadra col bronzo il fusto, termina il letto e lo adorna d’oro, d’argento e d’avorio. Anche in questo caso pertanto, secondo Buttitta, il simbolismo assiale e di fecondità della pianta vengono a riunirsi e coincidere. F

Da leggere U Piergiuseppe Scarmigli, Marcello Meli

(a cura di), Il canzoniere eddico, Garzanti, Milano 2009 U Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano 2006. U Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2009 U Gianna Chiesa Isnardi, I Miti Nordici, Longanesi, Milano 2006 U Gabriella Agrati, Maria LetiziaMagini, Miti e saghe vichinghi, Mondadori, Milano 1990 U Georges Dumézil, Gli dei dei germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava, Adelphi, Milano 2002 U Jean-Claude Schmitt, Medioevo superstizioso, Laterza, Roma-Bari 2005

U Brian Branston, Gli dei del nord,

Mondatori, Milano 1991 U Ignazio E. Buttitta, «Desuz un pin…».

La lunga strada dell’albero, in Verità e menzogna dei simboli, Meltemi, Roma 2008 U Dieter Werkmüller, Gli alberi come segno di confine e luogo di giudizio nel diritto germanico medievale, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Atti della XXXVII Settimana di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 30 Marzo-5 Aprile 1989, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1990 U Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, L’Età dell’Acquario, Torino 2001 U Tiziano Daniotti, Jól. Le origini nordiche del Natale, Herrenhaus, Seregno 2000

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I miracoli di Pisa di Furio Cappelli

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dispetto della mutezza di molti monumenti del Medioevo, il duomo di Pisa sembra volerci raccontare ogni particolare della sua storia, «in prima persona». Le epigrafi che ne arricchiscono la facciata non tralasciano alcunché, e compongono nel loro insieme un lungo carme trionfale in onore della città. In esso si legge che, al momento della fondazione, sono «trascorsi 1063 anni dalla nascita di Cristo»: nel marzo del 1064, dunque, i Pisani pongono la prima pietra della loro nuova chiesa. Alcuni mesi dopo, in agosto, un buon numero di cittadini di ogni ceto si imbarca alla volta della Sicilia e spezza la catena che chiude il porto di Palermo, in mano ai musulmani. I Pisani riescono a catturare «sei grandi navi colme di ricchezze». Cinque vengono date alle fiamme, ma di una si recupera tutto il carico, e con il bottino cosí ottenuto si finanzia l’erezione delle stesse mura della chiesa. Ma non finisce qui. I nostri prodi fanno tappa alla foce del fiume Oreto, vicino a Palermo, e vedono pararsi il nemico furente, pronto a un assalto in massa. Lasciano la flotta con le armi in mano e mettono in fuga i «Saraceni» facendone strage, poi si accampano sul lido, mettendo

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a ferro e a fuoco tutto quello che c’è intorno. «Rimasti incolumi, fecero ritorno a Pisa con grande trionfo». La facciata del duomo mostra anche un sarcofago romano di reimpiego, databile al III secolo d.C.: è la sepoltura del suo artefice, Buscheto, forse pisano, ricordato anche come Operaio, ossia amministratore dell’Opera deputata ai lavori del duomo. Due epigrafi ne celebrano la memoria. Egli per ingegno superò Ulisse e Dedalo: l’eroe omerico era astuto, ma si distinse solo per aver ridotto in rovina le mura di Troia; Buscheto, invece, seppe erigere «queste meravigliose mura». Dal canto suo, Dedalo, padre di tutti gli architetti, realizzò il Labirinto cretese, vale a dire «una casa buia», e in quella riponeva la sua gloria, mentre Buscheto non faceva che erigere splendidi edifici, e il duomo stesso, «il tempio di candido marmo», non temeva confronti. Per realizzarlo, egli dette prova di grandi capacità, e sfidò la cattiva sorte. Il demonio, infatti, fece naufragare una nave che trasportava talune enormi colonne monolitiche destinate alla navata centrale, ma grazie alle sue «macchine straordinarie» l’architetto seppe recuperarle dal fondo del mar Tirreno. giugno

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Universalmente noto per la torre pendente, l’intero complesso monumentale della piazza del Duomo è un autentico gioiello dell’architettura e dell’arte del Medioevo. Un insieme sublime, voluto come glorificazione della potenza acquisita dalla città toscana

Come ricorda la seconda epigrafe, scolpita nel mezzo del sarcofago, Buscheto era talmente ingegnoso da trasformare le prove piú difficili in giochi da ragazzi. Grazie a lui, a un suo semplice cenno, dieci fanciulle potevano sollevare quel che a stento mille buoi potevano muovere e quel che una barca stracarica poteva trasportare. Sapeva, insomma, padroneggiare argani e leve, a tal punto che un’attendibile tradizione gli attribuisce uno spostamento dell’obelisco Vaticano, secoli prima della traslazione progettata da Aristotele Fioravanti (1471) e infine compiuta da Domenico Fontana (1586).

Signora del Mediterraneo

In perfetta coerenza con i toni e i contenuti delle epigrafi celebrative, il duomo di Buscheto è la perfetta rappresentazione del ruolo impetuoso della città-stato di Pisa nell’orizzonte mediterraneo, tra i secoli XI e XII. Con il suo severo schema basilicale a 5 navate, esalta le origini gloriose della Chiesa locale, legate a un approdo di san Pietro all’antico porto marittimo della città, nel 42 o nel 61 d.C., laddove sorge l’attuale santuario di S. Piero a Grado. Non a caso, lo stesso

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Pisa, la piazza del Duomo, nota anche come Piazza dei Miracoli per la perfezione dei monumenti. Da sinistra: il Battistero, la cattedrale di S. Maria Assunta e il campanile, la celeberrima Torre pendente, fondati tra l’XI e il XII sec.

schema architettonico del duomo si ritrovava nell’antica basilica Vaticana (e gli affreschi di S. Piero sono una preziosa testimonianza indiretta di come erano impaginati i perduti affreschi della chiesa costantiniana). Ora che Pisa ha stabilito la sua supremazia sulla Sardegna e sulla Corsica, il presule locale può per giunta conseguire il titolo di arcivescovo e di primate (il duomo è infatti chiesa primaziale, vista l’importanza regionale della sede). Il predominio sul mare, poi, trasforma i Pisani in apripista dell’avventura crociata. E non solo il duomo si arricchisce di un gran numero di spoglie antiche, in ossequio al prestigio «romano» conseguito, ma sfoggia taluni trofei delle sue avventure piratesche, come il grifo bronzeo di arte islamica che campeggia (in copia) sull’abside maggiore. E, piú ancora dei trofei, la sua veste marmorea con le raffinate bicromie dei parati ester-

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saper vedere pisa Qui accanto il chiostro del Camposanto. Chiesa e cimitero monumentale allo stesso tempo, l’edificio, realizzato a partire dal 1277 e completato nel secolo successivo, chiuse la piazza sul lato settentrionale.

ni e i poderosi archi acuti su cui si imposta la singolare cupola estradossata, introducono una nota di raffinato esotismo nell’essenza stessa della sua architettura. Quando, intorno al 1150, su direzione del pretiosus Rainaldo, la chiesa venne allungata e dotata di una nuova facciata, quest’ultima elevò sulla solida base classicheggiante una distesa istoriata di loggette, dove si dispiega con fine minuzia il repertorio decorativo delle stoffe importate, di produzione bizantina o islamica.

Nei pressi dell’antico porto

Il duomo romanico di S. Maria Assunta è sorto sul luogo di una chiesa paleocristiana, in un’area periferica della città, non lontano dal porto ubicato sullo scomparso fiume Auser (nella zona dell’attuale complesso ferroviario Pisa-S. Rossore sono stati recuperati ben 16 relitti di navi da carico, di età compresa tra il III-II secolo a.C. e il V secolo d.C.). La cattedrale venne inclusa nella cinta urbica solo nel 1155, quando venne realizzata la Porta del Leone (nome che deriva dalla scultura superstite che spiccava in origine sulla chiave dell’arco, sul lato esterno). Fino al 1562, quando venne sostituita dalla Porta Nuova, essa serviva da ingresso solenne. Prima che sorgesse la chiesa, si erano susseguiti un tempio etrusco, una ricca domus romana e una necropoli tardo-antica. La chiesa paleocristiana era dotata di un battistero ottagonale, individuato nell’area del camposanto, che rimase presumibilmente in piedi di fianco alla cattedrale romanica finché non fu ultimato il nuovo e ben piú ampio battistero, avviato nel 1152 su progetto di Diotisalvi in asse alla chiesa di Buscheto (era in asse al duomo anche l’appena concluso S. Giovanni di Firenze; vedi «Medioevo» n. 202, novembre 2013; anche on line su medioevo.it). L’edificio, a pianta circolare, era concepito in perfetta armonia con il duomo prospiciente. Si corrispondono, infatti, le scelte decorative classicheggianti degli ingressi principali, il motivo delle loggette che corrono su una fascia basale lavorata ad arcate cieche, le colonne monolitiche dell’interno (8 (segue a p. 72)

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mirabile armonia

Sulle due pagina assonometria della piazza dei Miracoli, un complesso monumentale nel quale i diversi elementi si combinano in un gioco di forme e di spazi pressoché perfetto.

Il monumento in sintesi

Una città e la sua storia 3 Perché è importante Il complesso del duomo di Pisa rappresenta in modo autorevole e coinvolgente la potenza di una città-stato che, nel giro di pochi decenni, si affermò nello scenario del Mediterraneo, trasformandosi in una grande realtà economica, politica e culturale. 3 Il complesso del duomo di Pisa nella storia Le gesta dei Pisani sono narrate proprio nella facciata del loro duomo, e, in questo modo, si evidenzia subito quale nesso profondo ci sia tra la vicenda storica della città e la nascita di questo straordinario complesso monumentale. Ognuno di questi edifici contribuisce a comporre un inno trionfale in onore della celebre repubblica marinara. 3 Il complesso del duomo di Pisa nell’arte La grande profusione di idee e di mezzi messa in atto sin dalla posa della prima pietra del duomo romanico, ha fatto sí che il suo complesso divenisse un laboratorio irripetibile, in cui furono coinvolti, motivati e formati talenti di altissima levatura. Nella cornice di un’architettura di sapiente raffinatezza, si sviluppa un classicismo che prelude al Rinascimento, e senza l’esempio di Bonanno non avremmo le porte del battistero di Firenze.

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A sinistra particolare della decorazione esterna del Battistero di S. Giovanni, con la loggetta di Nicola Pisano (1265-66) e le statue scolpite da suo figlio Giovanni (1278-84).

Qui accanto la facciata della cattedrale. Sulla sinistra, nella prima arcata, è murato un sarcofago romano (III sec. d.C.), riutilizzato come sepoltura di Buscheto, artefice e Operaio del Duomo stesso.

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saper vedere pisa gli anni della fabbrica 1064

F ondazione del duomo di S. Maria Assunta. L’invasione del porto di Palermo da parte dei Pisani frutta un enorme bottino che viene investito nel cantiere della chiesa. 1081-85 Prima attestazione della magistratura consolare. 1092 Il presule Daiberto ottiene il titolo di arcivescovo, dopo che la Chiesa pisana aveva ricevuto la conferma della primazia sulla Corsica. 1099 Partecipazione dei Pisani alla prima crociata. 1100 L’arcivescovo Daiberto diviene primo patriarca di Gerusalemme. Secondo la tradizione, Goffredo di Buglione regala due battenti di fabbricazione bizantina con decori in argento niellato, montati sulla porta sud della facciata del duomo. Furono perduti a seguito dell’incendio del 1595. 1110, Presumibile data di morte di Buscheto, 21 settembre menzionato per l’ultima volta come Operaio del duomo. 1116 Il giudice Ildebrando riceve l’investitura di Operaio del duomo dai consoli del comune, che nella circostanza si sostituiscono d’autorità al vescovo. 1118, Consacrazione del duomo da parte 26 settembre di papa Gelasio II, che apporta personalmente nuove reliquie. 1135 Si celebra in duomo un importante concilio che vede la partecipazione di san Bernardo di Chiaravalle. 1150 circa Rainaldo erige la nuova facciata del duomo. 1152 Su progetto e direzione di Diotisalvi, iniziano i lavori del battistero. 1155-62 Erezione delle nuove mura urbiche. 1159 Guglielmo intraprende la lavorazione del pulpito romanico del duomo. 1161-62 Ultimazione del pulpito romanico. 1173-74 Inizia la costruzione della torre. In due fasi distinte, si esegue un doppio giro di fondazioni. 1180 Il Comune stabilisce la sua giurisdizione sull’elezione degli Operai del duomo, che sin qui giuravano di consueto nelle mani dell’arcivescovo. 1180-81 Bonanno Pisano realizza i battenti bronzei istoriati per la porta centrale della facciata del duomo, distrutti dall’incendio del 1595. 1207 Il contrasto di giurisdizione tra

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l ’episcopato e il Comune sull’elezione degli Operai del duomo viene risolto in via definitiva a favore della magistratura civica. 1232 Lavori in corso sulla torre, al livello della terza loggetta. 1245 Guido Bigarelli da Como firma il fonte battesimale del battistero. 1259-60 Nicola Pisano firma il pulpito del battistero. 1260 Pisa, schierata con i ghibellini, partecipa alla battaglia di Montaperti. 1265-66 Nicola Pisano è impegnato nella lavorazione della loggetta esterna del battistero. 1270-75 Giovanni Pisano esegue le figure a mezzobusto nelle ghimberghe (frontoncini) che sormontano la loggetta esterna del battistero. giugno

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1310 Completamento del pergamo del duomo. 1315 Tino di Camaino esegue nel coro del duomo il monumento sepolcrale di Arrigo VII, parzialmente trasferito nel transetto sud nel 1493. 1321 Vincino da Pistoia completa il mosaico absidale del duomo. 1333 ca. La Crocifissione di Francesco Traini segna l’avvio della decorazione pittorica del camposanto. 1336 È attestato a Pisa il pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco, impegnato con tutta probabilità nella decorazione pittorica del camposanto. 1358 Si avvia la costruzione del lato settentrionale del camposanto. 1358-72 Su modello di Zibellino da Bologna, un gruppo di scultori esegue la decorazione terminale del battistero. 1385-88 I maestri Puccio di Canduccio e Tomeo di Ciomeo lavorano sul coronamento a pinnacoli della cupola del duomo. 1395 Viene apposta la statua di san Giovanni Battista al sommo del battistero.

A sinistra il Duomo, il Battistero e il Camposanto visti dalla Torre pendente. In basso olio su tavola attribuito a Pietro Ciafferi (1604-1661) raffigurante il Duomo ornato dalla «cintola», una fascia di

stoffa di colore rosso che circondava l’intera cattedrale come un festone e che veniva issata per mezzo di chiodi, tuttora visibili, in occasione delle principali festività del calendario liturgico. Collezione privata.

1271 La torre risulta ancora in costruzione. 1277 Si intraprende la realizzazione del camposanto e si completa una fase edilizia del battistero. 1278-84 Giovanni Pisano è capomastro del battistero. Appone una teoria di statue sulle ghimberghe della loggetta esterna del battistero. 1284 Sconfitta dei Pisani alla battaglia della Meloria. I Genovesi infliggono la quasi totale perdita della flotta navale. 1298 Nomina di una commissione preposta alla torre, presieduta da Giovanni Pisano. 1302 Nel duomo, Cimabue completa il San Giovanni Evangelista del mosaico absidale, e Giovanni Pisano intraprende la realizzazione del pergamo, in sostituzione del pulpito di Guglielmo, trasferito a Cagliari nel 1312.

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saper vedere pisa nel battistero, 24 nel duomo). Il diametro dell’edificio, poi, equivale alla distanza dal duomo stesso. Ma è lampante, poi, il riferimento alla rotonda del Santo Sepolcro di Gerusalemme, cosí come era stata riedificata dai crociati, per essere poi consacrata nel 1149, pochi anni prima della posa della prima pietra dell’edificio pisano: ricorrono infatti la pianta, l’alternanza pilastro-colonne, la presenza del matroneo, l’assetto conico della cupola (mascherato all’esterno dalla sovrastruttura perimetrale). Lo stesso architetto Diotisalvi, peraltro, si cimentò proprio a Pisa in un’altra variante del tema, la chiesa del Santo Sepolcro, dove ha lasciato la propria firma alla base del campanile. L’arcivescovo Daiberto, d’altronde, era stato il primo patriarca della Città santa all’indomani della conquista crociata, e, dal canto suo, il presule Ubaldo Lanfranchi nel 1203 riportò la «terra santa» dal Monte degli Ulivi,

con cui provvide a consacrare il terreno di fianco al duomo, destinato a un nuovo cimitero. Molti anni dopo, nel 1277, il progetto si concretizzò con una decisa veste monumentale, grazie all’interessamento dell’arcivescovo Federico Visconti, con il disegno o la consulenza del maestro Giovanni di Simone. Chiesa e sacrario al tempo stesso, il camposanto richiese una lunga gestazione (il lato nord fu fondato solo nel 1358), e fu motivato dalla necessità di mettere in bella mostra il perimetro esterno del duomo, lungo il quale si erano affollati i sarcofagi e le fosse di innumerevoli defunti.

Il valore simbolico di un percorso

Dopo la traslazione delle salme nel nuovo solenne cimitero, nel 1297-99 fu cosí possibile avviare la realizzazione dell’ampia piattaforma gradinata che corse tutt’intorno alla chiesa (in seguito ridotta a un semplice marciapiede), creando una piazza pubblica pavimentata con due punti focali, di fronte alla facciata e nell’area absidale, direttamente collegata alla città. Si creava cosí un percorso di grande significato civico, in funzione delle cerimonie e delle processioni. Già nel 1313, in occasione della Pasqua e della grande festa dell’Assunta, tutt’intorno al duomo veniva appeso un nastro di seta A sinistra il grifone bronzeo di manifattura islamica giunto a Pisa probabilmente nel XII sec. e collocato sull’abside maggiore della cattedrale. Sostituito da una replica, è ora conservato nel Museo dell’Opera del Duomo. giugno

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Nella pagina accanto, in alto rilievo con scena di Natività del Signore, facente parte del ciclo delle Storie del Nuovo Testamento che orna le imposte della Porta di S. Ranieri, opera di Bonanno Pisano. Fine del XII sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

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In questa pagina la navata centrale della cattedrale, delimitata da due file di colonne e fiancheggiata da quattro navatelle, a loro volta divise da colonnati di minori dimensioni, sopra le quali si sviluppano matronei che si affacciano sulla navata stessa.

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saper vedere pisa rossa (la «cintola») impreziosito da gemme e da ornati d’argento. Era gelosamente custodito nella tesoreria del Comune. L’area interessata dal complesso monumentale, l’attuale piazza del Duomo, meglio nota come piazza dei Miracoli (sulla scorta di una fortunata espressione di Gabriele D’Annunzio), fu poi delimitata in modo definitivo sul lato sud dal nuovo ospedale dei pellegrini e degli infermi (1319-38), sul tracciato del vecchio Arengo (la strada deputata agli esercizi a cavallo della milizia cittadina).

sul modello del santo sepolcro

Imposte che fecero scuola

Nel 1180-81 il maestro Bonanno Pisano mise in opera sulla facciata del duomo le imposte bronzee figurate della porta centrale, che, nel 1595, furono purtroppo distrutte da un incendio. Sono invece intatte (e oggi visibili nel Museo dell’Opera del Duomo, dopo un accurato restauro), le imposte realizzate dallo stesso Bonanno per la Porta di S. Ranieri, sul transetto sud, nel lato rivolto alla città. Non sappiamo se esse precedano o seguano quelle che egli fuse per il duomo siciliano di Monreale (1186) e i pareri al riguardo sono discordi. È però indiscutibile il loro altissimo valore compositivo e narrativo. Ogni riquadro è attentamente definito, e le figure si stagliano con insolita evidenza, dimostrando un’abilità dirompente, che fece scuola nei secoli seguenti. Sulle opere di Bonanno, per esempio, dovette meditare Andrea Pisano, quando ricevette l’incarico di fondere i battenti della porta maggiore del battistero di Firenze (1330). E dopo che molti artisti di buona tempra si erano avvicendati nel realizzare la decorazione scultorea del

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L’esterno e l’interno del Battistero di S. Giovanni, avviato nel 1152 su progetto di Diotisalvi e ispirato alla rotonda del Santo Sepolcro di Gerusalemme. L’interno è scandito da otto colonne alternate a quattro pilastri, che delimitano uno spazio centrale occupato dal fonte battesimale ottagonale di Guido da Como (1246), dall’altare, dietro il quale è posta la transenna presbiteriale, e dal Pulpito di Nicola Pisano.

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NativitĂ , uno dei cinque pannelli rappresentanti Storie di Cristo che ornano il parapetto del Pulpito del Battistero, prima grande opera della piena maturitĂ di Nicola Pisano. 1259-60.

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saper vedere pisa un trapasso nel segno della bellezza

Dall’alto, in senso antiorario particolari del Camposanto, realizzato a partire dal 1277 da Giovanni di Simone: un settore del chiostro; sarcofagi romani riutilizzati come tombe di Pisani illustri; particolare

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dell’affresco dell’Inferno, facente parte della sequenza del Trionfo della Morte e del Giudizio Universale, realizzata dal fiorentino Buonamico Buffalmacco dal 1336. La costruzione del nuovo

cimitero monumentale, su un terreno consacrato con la «terra santa» del Monte degli Ulivi, si rese necessaria per accogliere i sarcofagi e le sepolture che si affollavano intorno al duomo.

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portò in auge il gusto del racconto scolpito, con una drammaticità e un’evidenza plastica di formidabile impatto, a formare un fregio palpitante in cui le figure si stagliano con concretezza statuaria. Sulla loggetta esterna dello stesso battistero si compie il primo passaggio di consegne tra Nicola e suo figlio Giovanni Pisano. Quest’ultimo, infatti, completa il lavoro in due fasi, distinguendosi in modo particolare con gli altorilievi a mezzobusto oggi conservati al Museo dell’Opera (1270-75). Essi raffigurano quattro Profeti, il Battista, la Madonna col Bambino, gli Evangelisti, e dimostrano la grande originalità di Giovanni. Se, per la collocazione, le sculture si ispirano ai complessi delle cattedrali gotiche, la sbozzatura rapida ed essenziale, di grande effetto in una visione distanziata, mostra già le doti di un artefice di piglio moderno.

Di padre in figlio

duomo e del battistero, spesso dimostrando una consapevole padronanza del linguaggio figurativo antico, un maestro oriundo della Puglia, già attivo nei cantieri promossi da Federico II, ebbe modo di realizzare nel battistero la prima grande opera della sua piena maturità. Nicola de Apulia, stabilitosi in questa città e divenuto celebre con il nome di Nicola Pisano, realizzò il suo pulpito nel 1259-60. Elemento di grande forza scenica, in funzione delle cerimonie di vario genere, anche laiche, che si tenevano all’interno del battistero – dall’investitura dei cavalieri fino alla nomina dei membri dell’Opera di San Giovanni –, è un arredo del tutto innovativo già nella forma esagonale e nella sua elaborata articolazione a piú ordini.

La lezione dell’antico

Il percorso visivo e concettuale prende quota dai leoni e dai telamoni su cui si impostano le sette colonne marmoree. Sulla fascia degli archi trilobati, le Virtú sugli angoli, i Profeti e gli Evangelisti sui pennacchi, preludono allo straordinario racconto della Rivelazione, dall’Adorazione dei Magi al Giudizio Universale. Nicola studiò a fondo le composizioni narrative dei sarcofagi antichi, come quello di Fedra, oggi custodito al camposanto, già reimpiegato presso la Porta di S. Ranieri del duomo come sepolcro della marchesa Beatrice di Toscana (madre di Matilde di Canossa), morta a Pisa nel 1076. In questo modo, l’artista ri-

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Tante altre opere Giovanni realizzò per il duomo, dalla splendida Madonna col Bambino in avorio (1298-99), di elegante inflessione francese, alle formelle istoriate che correvano lungo il basamento della chiesa (1297-1308), sino agli altorilievi eretti sull’architrave della Porta di S. Ranieri in onore del sovrano Arrigo VII (1312). Ma tutti ricordano il suo capolavoro indiscusso. Destino volle che, mentre il battistero conservava la prima grande opera del padre Nicola, il figlio fosse chiamato alla sua prova piú ambiziosa nel duomo prospiciente, dove, nel 1310, sostituí con il suo grandioso pergamo a pianta circolare, all’angolo sud-est sotto alla cupola, il romanico pulpito rettangolare di Guglielmo (1159-62), rimontato presso il duomo di Cagliari. Smontato a sua volta dopo l’incendio del 1595 e ricomposto nel 1926 da Pèleo Bacci nella navata centrale, il pergamo di Giovanni è un’opera di grande artificio e virtuosismo. Ogni elemento strutturale è prevaricato dalle figure. La scultura permea ogni dettaglio, e si impone già di prepotenza con i sostegni figurati della parte basamentale. Giovanni punta al ritmo convulso, all’effetto di massa, ai giochi di luce e di ombra, toccando con pari intensità punte di estasi (come nell’Adorazione dei Magi) e di rovente drammaticità (come nella Strage degli innocenti). Nella lunga epigrafe di corredo, lo scultore si dimostra ben consapevole di aver realizzato con maestria indiscutibile un’opera mai tentata sino a quel momento, e non nasconde che ciò lo aveva esposto a critiche malevole e a roventi delusioni. Altri ingegni hanno lasciato un’impronta significativa nel coro del duomo. Nel 1302, quando Giovanni intraprese il pergamo, Cimabue era intervenuto sul mosaico absidale, completando il San Giovanni Evangelista di fianco al Cristo pantocratore. Sotto, nel mezzo della stessa abside, era ubicato il monumento funebre del già citato Arrigo (Enrico) VII di Lussemburgo, l’imperatore su cui Dante riponeva le proprie speranze, accolto a Pisa in pompa magna proprio sul (segue a p. 81)

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saper vedere pisa

«Vero è che piega uno pocho...» Un destino del tutto singolare venne riservato alla torre campanaria del duomo di Pisa. Nota a tutti per antonomasia come «Torre di Pisa» o «Torre pendente», è uno dei piú famosi monumenti del mondo. Inerpicarsi lungo i 293 gradini della scala che conduce fino alla cima, sfidando la nausea che può suscitare l’apparente oscillazione dell’edificio, costituisce oggi un atto rituale fine a se stesso, a cui si sottopongono migliaia di turisti parimenti «obbligati» a posare nella foto piú o meno spiritosa da scattare sul prato, con la costruzione sullo sfondo. Ma, in origine, quella salita era concepita per uno scopo ben preciso. Grazie a essa, i visitatori potevano gradualmente guadagnare un punto di osservazione privilegiato, per godere in pieno della magnificenza del duomo e della città di Pisa. Essa fu per disgrazia fondata in un terreno paludoso soggetto a forte subsidenza. In altri termini, il fondo acquitrinoso non è stabile, ma tende a slittare sotto la pressione della struttura. La costruzione sorge infatti nel bel mezzo del letto antico dello scomparso fiume Auser. Fu una vera disdetta che dovesse sorgere proprio lí, ma non c’era alternativa. Era il punto migliore per una torre isolata che doveva intrattenere un dialogo di forte significato simbolico e urbanistico tra il complesso del duomo e il vivo della città. Non migliorò la situazione la scelta architettonica molto ambiziosa che faceva di

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questo simbolico «faro» cittadino un osservatorio privilegiato. Proprio in funzione delle scale elicoidali ben piú ampie e accurate del consueto, e che dovevano consentire gli affacci sulle loggette prima del culmine, venne ideata una struttura perimetrale piuttosto massiccia, che andò a gravare su una situazione già di per sé assai delicata. L’inclinazione fu avvertita sin dall’inizio, allorché si dovette bloccare il cantiere all’altezza della terza loggetta. Il momento di questo arresto si colloca tra la fondazione (1173-74) e una fase di riavvio dei lavori, documentata nel 1232. In realtà, il problema non dovette essere avvertito con grande apprensione, visto che i costruttori locali erano abituati a terreni instabili, tanto che Pisa vanta altre torri campanarie pendenti, benché ignote al grande pubblico (S. Michele degli Scalzi, S. Sisto, S. Nicola). Con coraggio e grande sensibilità empirica, si decise di controbilanciare l’inclinazione deformando il cilindro della struttura, in modo da caricare le fondazioni sul lato opposto a quello soggetto allo sprofondamento. L’inevitabile irregolarità visiva che, evidentemente, non avrebbe suscitato particolari imbarazzi (un anonimo del Quattrocento commenta: «vero è che piega uno pocho»), sarebbe stata in parte compensata dalla cella campanaria conclusiva, grazie all’andamento rettilineo della sua

terminazione, ottenuto accortamente, elevando di piú il muro della cella sul versante inclinato. La cupola finale, senz’altro prevista, non fu mai intrapresa, per non eccedere troppo nell’azzardo. Non abbiamo alcuna indicazione certa sull’autore del progetto. Giorgio Vasari era convinto che fosse il fonditore Bonanno Pisano, in collaborazione con lo scultore Guglielmo, autore del vecchio pulpito del duomo. Il nome di Bonanno tornò in auge nel 1838, quando fu ritrovata tra la torre e la Porta di S. Ranieri l’impronta in negativo di un’epigrafe che recava il suo nome, oggi murata proprio sulla torre. Per l’autore del progetto resta cosí la valida alternativa di Diotisalvi, non tanto per il suo nome, quantomai propiziatorio in un edificio del genere, ma per le evidenti assonanze stilistiche con il battistero da lui avviato nel 1152. Combacia anche la tecnica delle fondazioni, realizzate in entrambi gli edifici in due gettate distanziate nel tempo. Nella prima fase della costruzione dovette essere coinvolto lo scultore Biduino, abile interprete di quella vena classicista già ben viva nella scultura toscana del XII secolo. Ha lasciato la sua firma nel cospicuo sarcofago lavorato all’antica che è oggi custodito nel camposanto, e nella fascia basale della torre ha eseguito con ogni probabilità i fregi con animali apotropaici, posti a difesa dell’edificio. giugno

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A lui vanno anche attribuiti il pesce a rilievo dell’interno, che allude all’anima vagante del fedele, nonché la bellissima lastra con due navi che giungono in un porto, raffigurato da una solida torre centrale (il che, naturalmente, allude alla valenza di «faro» della stessa torre pendente). Ma la stranezza e, insieme, la resistenza della torre, hanno suscitato nel tempo un’infinità di interrogativi, mettendo in secondo piano la ricerca dei suoi possibili artefici. Per non pochi studiosi (e questa convinzione resisteva ancora nell’Ottocento), una struttura del genere era stata tirata su intenzionalmente. Il clima culturale del manierismo aveva ispirato le bizzarrie del Sacro Bosco di Bomarzo (1547), dove si ammira un edificio volutamente inclinato, per dare l’impressione che stia per cadere da un momento all’altro, e, alla fine dello stesso secolo, gli eruditi locali Tronci e Roncioni sostennero che la torre era stata elevata con un analogo intento «illusionistico». Nel 1838 l’architetto Alessandro Della Gherardesca sfatò definitivamente il mito dell’inclinazione «voluta» della torre. Rimettendo in luce la parte basamentale, si vide infatti che anche le fondazioni erano inclinate. La modesta acquisizione ebbe un costo notevole, poiché l’afflusso dell’acqua nel «catino» dello scavo mise sensibilmente in moto l’inclinazione dell’edificio, dopo secoli di sostanziale stabilità. Il 16 giugno 2001, nel giorno della festa di san Ranieri, dopo delicatissimi e risolutivi interventi di consolidamento, la torre è stata riaperta al pubblico. La diciassettesima commissione nominata per risolvere i problemi del monumento, avvalendosi degli esperti John Burland e Carlo Viggiani, è riuscita a metterlo in sicurezza, riportando l’inclinazione allo stato precedente il disastroso intervento del 1838.

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Nella pagina accanto la lastra a rilievo della Torre raffigurante due navi che giungono in un porto simboleggiato dalla torre centrale. Attribuito allo scultore Biduino, XII sec. In questa pagina un’immagine della Torre, con la caratteristica pendenza. In assenza di indicazioni certe, viene attribuita al fonditore Bonanno Pisano o a Diotisalvi, che progettò anche il Battistero.


saper vedere pisa In basso Madonna col Bambino scolpita da Giovanni Pisano per il Battistero nel 1270-75. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

A destra statua in avorio della Madonna col Bambino, eseguita anch’essa da Giovanni Pisano per la Cattedrale. 1298-99. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

Dove e quando I locali della Canonica nuova e dell’Ospedale nuovo ospitano il Museo dell’Opera del Duomo e il Museo delle Sinopie, naturale completamento della visita del complesso monumentale: nel primo è possibile conoscere importanti opere dislocate dai monumenti e accedere a supporti illustrativi; il secondo espone disegni preparatori per gli affreschi del camposanto, da quelli piú antichi a quelli di Benozzo Gozzoli Info e orari la Torre Pendente, la Cattedrale, il Camposanto, il Battistero, il Museo dell’ Opera del Duomo e il Museo delle Sinopie sono aperti tutti i giorni, con orari differenziati nel corso dell’anno: per il dettaglio, si può consultare il sito web dell’Opera del Duomo: www.opapisa.it È inoltre consigliabile, come ulteriore approfondimento, la visita del Museo Nazionale di S. Matteo. Orario feriali, 8,30-19,00; festivi, 8,30-13,30; chiusura: lunedí, 1° gennaio, 1° maggio e 25 dicembre Info tel. 050 541865; www.sbappsae-pi.beniculturali.it

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In alto rilievo raffigurante il Tradimento di Giuda e la Cattura di Gesú, parte della decorazione del pergamo del duomo realizzato da Giovanni Pisano tra il 1302 e il 1310, in sostituzione al precedente pulpito di Guglielmo.

sagrato del duomo, nel 1312. L’opera, ultimata da Tino di Camaino nel 1315, fu poi smembrata. Il sarcofago è murato nel transetto sud, mentre il solenne gruppo scultoreo con il sovrano e i suoi consiglieri si trova oggi al Museo dell’Opera. Un grande complesso pittorico, gravemente danneggiato nel 1944, si sviluppa poi sulle pareti del camposanto, a partire dalla grande Crocifissione realizzata intorno al 1333 sul lato est, forse a opera del pisano Francesco di Traino (o Traini), al quale vengono anche attribuiti i mosaici absidali del transetto del duomo (Annunciazione e Assunzione). Il pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco, ricordato da Boccaccio e attestato a Pisa nel 1336, gli fece seguito, come si ipotizza concordemente, realizzando di fianco e sulla parete attigua sud un vasto ciclo. Dopo le storie post mortem di Cristo (Resurrezione, Incredulità di Tommaso, Ascensione) di fianco alla Crocifissione, Buffalmacco si distingue in modo particolare nell’imponente sequenza del Trionfo della Morte e del Giudizio Universale, corredato da un Inferno di evidente ispirazione dantesca.

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Da leggere U Adriano Peroni (a cura di),

Il Duomo di Pisa, Panini, Modena 1995 U Mauro Ronzani, La formazione della piazza del duomo di Pisa, in Bollettino dell’Istituto Storico-Artistico Orvietano, XLVI-XLVII (1990-91), Orvieto 1997; pp. 19-134 U Carlo Tosco, Architetti

e committenti nel romanico lombardo, Viella, Roma 1997; pp. 167-181 U Fabio Redi (a cura di), Pisa. La città, le chiese, le case, le cose, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2000 U Guido Tigler, Toscana romanica, Jaca Book, Milano 2006

Man mano che procede un lungo e delicato restauro, la sequenza ha iniziato a essere gradualmente ricollocata in situ. Sfoggiando grande abilità narrativa, il pittore fiorentino offre uno spettacolo sgargiante, con un’immensa profusione di figure rese con freschezza e puntiglio, e al tempo stesso immerse in un’atmosfera di sfrenata inventiva visionaria. Lo stesso Boccaccio sembra essersi ispirato a questi dipinti per la «cornice» del Decamerone. Da qui, infatti, poté trarre l’idea della congrega di giovani che si divertono spensierati, in un giardino ridente (un «verziere»), mentre la morte trionfa inarrestabile. F

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di Renato Stopani e Timothy Verdon; tavole e ricostruzioni di Massimo Tosi

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vivere all’ombra delle torri L’aspetto odierno della città del giglio lascia solo immaginare il profilo urbanistico che doveva caratterizzarla tra l’XI e il XIII secolo: un centro in piena espansione, nel quale si moltiplicarono quelle case che, slanciandosi fin quasi a «toccare» il cielo, incarnavano le ambizioni di una comunità destinata a diventare una delle grandi potenze economiche dell’Europa medievale

Firenze, il Palazzo del Bargello. Costruito tra il 1255 e la prima metà del XIV sec., l’edificio inglobò la preesistente torre detta «Volognana».


Dossier

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l geografo e viaggiatore arabo Al-Idrisi, alla metà del XII secolo, nella sua compilazione geografica del mondo conosciuto (il Libro di re Ruggero), a differenza di quanto fa, per esempio, per Roma, Pisa, Lucca o Genova – città di cui descrive le bellezze e i monumenti ed esalta la storia –, quando arriva a parlare di Firenze, rilevando l’assenza di materia degna di particolare menzione, si limita a dire: «La città di Firenze è bene abitata; essa (giace) a piè di un monte, vicina al fiume di Pisa». La succinta descrizione non fa alcun torto a Firenze: nel XII secolo, infatti, la città non doveva presentarsi granché diversa da altri centri urbani in crescita dell’Italia centrosettentrionale. Era la «Fiorenza sobria e pudica» a cui accenna Dante, riferendola all’epoca in cui visse il suo avo Cacciaguida, e che forse in parte ancora sopravviveva quanto il poeta era giovanissimo. Era la Firenze delle numerose, semplici chiesette ad aula, come S. Procolo, che serviva al Collegio dei Priori delle Arti per le sue prime riunioni, non essendo ancora stati edificati il Palazzo del Capitano del Popolo (che sarà eretto nel 1255), né tantomeno il Palazzo della Signoria.

I primi mutamenti

Ma già alla metà del Duecento cominciarono i cambiamenti che, ancor prima di riguardare l’edilizia cittadina (che tuttavia si rinnovava dando vita a edifici – ci riferiamo in particolare alle chiese – almeno dimensionalmente piú grandi), influenzarono la considerazione che i Fiorentini assunsero della loro città. Non conoscendo limiti alla propria presunzione, essi ritennero infatti Firenze la principale città dell’OcPianta ricostruttiva a volo d’uccello di Firenze, cosí come doveva presentarsi al tempo della descrizione del geografo arabo Al-Idrisi. La città era allora densamente popolata (e in espansione demografica), cinta da nuove mura, innalzate tra il 1173 e il 1175, e affollata da un’autentica selva di torri e case-torri.

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Dossier cidente e la paragonarono addirittura all’antica Roma. Questa sorta di megalomania, ben diversa da un normale «amor di patria», fu la conseguenza dell’eccezionale crescita della potenza commerciale e finanziaria del Comune di Firenze, la cui moneta aurea (il fiorino), coniata proprio in quegli anni, andava affermandosi a livello internazionale. Da ciò derivava anche l’atteggiamento arrogante imputato ai Fiorentini: «E sembrava che far volesse impero // Sí come già Roma fece» dirà Guittone d’Arezzo, dopo la disfatta di Montaperti (1260) nella sua lettera «agli infatuati miseri fiorentini». E, a sua volta, un poeta provenzale in un componimento a dileggio

A destra fiorino d’oro, moneta coniata a partire dal 1252. Berlino, Staatliche Museen. In basso copia a disegno del ritratto di Dante Alighieri attribuito alla scuola di Sandro Botticelli.

di Firenze, scritto anch’esso all’indomani di Montaperti, annotò: «Mentre prima superbi ci apparivano i Fiorentini, ora si son fatti gentili e garbati; benedetto sia re Manfredi che ha insegnato loro a comportarsi cosí e anche a lamentarsi e a sospirare ! La vostra superbia, o Fiorentini, vi ha uccisi!».

Un paesaggio modesto

A fronte, però, di un’economia cittadina in grande espansione e che ormai navigava verso orizzonti europei, stava un paesaggio urbano fiorentino che non presentava una eguale grandiosità, nonostante fosse venuta meno quella realtà urbanistica «rarefatta» che caratterizzò la «civitas vetus» nell’Alto Medioevo. Scarse erano le emergenze architettoniche (eccettuate le quattro o cinque chiese maggiori) e non esisteva alcun grande edificio pubblico. Firenze si presentava con un serrato tessuto urbano fatto da unità abitative a sviluppo prevalentemente verticale (torri e case-torri), solcato da un intrico di strade molto strette e da vicoli che, nel nucleo piú antico, ancora ricalcavano il reticolo della città romana. Non vi erano spazi di una certa consistenza liberi da edifici: solo dinnanzi alle chiese principali si aprivano piazzette sul tipo di quelle che ancora oggi rimangono nella parte piú antica della città. Dovevano

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torre donati È una delle torri dei Donati, che si affacciava su piazza del Mercato Vecchio (oggi via del Corso). Prima dei Corbizi e poi dei Donati, nel 1308 fu l’ultima resistenza di Corso Donati, capo dei Guelfi Neri, nell’ambito delle lotte contro i Cerchi. Era collegata a un’altra torre, anch’essa dei Donati, dal palazzo Corbizi poi Donati (oggi inglobato nel palazzo cinquecentesco), dando all’isolato la funzione di una vera e propria insula fortificata.

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Dossier Residenza e difesa Disegno ricostruttivo di una casa-torre, costruita addossata a un’abitazione e vicina a un’altra torre, alla quale è collegata tramite ambienti e un ponteggio in legno, a formare un’insula fortificata. Tutti gli edifici presentano «sporti», aggetti dei piani superiori in legno, che per la torre, nei piani piú alti, fungevano da piombatoi (o caditoie), le aperture a scivolo verso il basso dalle quali si potevano lanciare materiali contro eventuali assalitori.

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torre degli alberti Situata in via de’ Benci all’angolo con Borgo Santa Croce, presenta un’insolita forma trapezoidale, con piccole finestre su tutte le facciate. Nel XV sec., alla base, fu aggiunta una loggetta sorretta da due colonne con lo stemma della famiglia scolpito sui capitelli.

ancora formarsi le ampie piazze come quelle che, tra Due e Trecento, verranno realizzate davanti alle chiese e ai conventi degli Ordini Mendicanti (Santa Croce, S. Maria Novella, Santo Spirito, il Carmine), cosí come era ancora di là da venire la piazza della Signoria, che fu ricavata abbattendo, con le torri degli Uberti, una parte del piú antico tessuto edilizio della città.

Il Battistero accerchiato

Lo stesso Battistero, la chiesa piú significativa per la comunità cittadina (vedi anche alle pp. 90-97), si trovava come immerso nel tessuto magmatico della città, essendo accerchiato e quasi pressato da altri edifici (la cattedrale di S. Reparata, lo spedale di S. Giovanni Evangelista, il cimitero con le urne romane, ecc.) dai quali solo in seguito venne liberato con l’attuazione della sistemazione urbanistica prevista da Arnolfo di Cambio, impostata su una nuova dimensione di spazi aperti. Come ha scritto lo storico dell’architettura Giuseppe Fanelli, non esisteva, insomma, «un ordine (continua a p. 98)

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Le torri divennero espressione dello status sociale: la loro altezza era proporzionale al prestigio e al livello politico-sociale delle famiglie che ne erano proprietarie 89


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Firenze

di Timothy Verdon

prima di Arnolfo

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i è una Firenze che quasi nessuno conosce, la cui forma rimane avvolta nel mistero. Non si tratta di una città immaginata da Dan Brown, bensí della Firenze reale nel periodo che preparò la sua grandezza: una Firenze piú piccola e senza i monumenti che poi la identificarono. È la Fiorenza dei secoli XI-XIII con poche e piccole chiese e priva di un palazzo comunale. Com’era allora Firenze prima dell’arrivo dell’artefice della sua trasformazione, l’architetto-scultore Arnolfo di Cambio? Quali dimensioni aveva e che idea di se stessa accarezzava? Uno scrittore fiorentino del primo Trecento, Giovanni Villani, parlando della vecchia cattedrale di S. Reparata, dirà che era «piccola e di molto grossa forma»; ma questa valutazione negativa era forse applicabile alla città nel suo insieme? Quali forze politiche la contrassegnarono, prima della definitiva vittoria guelfa del secondo XIII secolo? Quali energie economiche la animarono, quali aspirazioni spirituali la spinsero verso il futuro?

Il progetto maggiore

Se il Villani caratterizza la vecchia cattedrale di Firenze come «piccola» e di «grossa forma», è perché, ormai nel primo Trecento, S. Reparata doveva essere vista in rapporto all’edificio nuovo che le era sorto davanti, il Battistero di S. Giovanni, che – in un’evoluzione che va dalla metà dell’XI alla fine del XIII secolo –, era il progetto piú articolato e, anche sul piano civico, piú significativo della Firenze prima di Arnolfo. Tra i compiti assegnati ad Arnolfo,

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ci sarà infatti quello di aggiungere alcuni ultimi tocchi a questa struttura che Dante chiamò il suo «bel San Giovanni». Sorto sui resti di una grande domus romana, il Battistero di S. Giovanni in qualche modo simboleggia la continuità della medievale Fiorenza cristiana con l’antica Florentia pagana, e Giovanni Villani riporta

addirittura la leggenda secondo cui esso sarebbe stato in origine un tempio del dio Marte, costruito da architetti inviati dall’Urbe nel I secolo a.C. Certo è che il Battistero incorpora i piú significativi cimeli d’epoca romana che si conoscono a Firenze, tra cui 14 colonne monolitiche verosimilmente provenienti da un antico tempio pagano, piú giugno

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altre 4 di dimensioni medie e 21 colonnine tardo-antiche. Nella sua costruzione c’è stata, cioè, un’evidente volontà di evocare gli esordi romani della città. Ma, come hanno chiarito gli scavi che alla fine dell’Ottocento misero in luce i resti della domus romana, il Battistero che vediamo oggi non risale al periodo classico.

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Problematica è anche l’ipotesi della sua costruzione in epoca tardo-antica, che obbligherebbe a spiegare perché una città di poca importanza strategica e con una popolazione ridotta, come era Firenze allora, avrebbe realizzato una struttura ecclesiastica cosí imponente. È piú convincente pertanto la conclusione della maggior parte degli

Disegno ricostruttivo a volo d’uccello di Firenze intorno all’anno Mille. La città è scarsamente popolata, con edifici intervallati da orti e pascoli, e i resti dei principali monumenti romani ancora visibili.

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Dossier A sinistra miniatura raffigurante la battaglia scoppiata a Firenze tra gli Uberti e la signoria dei consoli, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani, redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. Al centro si riconosce il Battistero di S. Giovanni.

storici moderni, che cioè l’attuale S. Giovanni sia un edificio romanico avviato nel 1059, come riferisce una fonte medievale, e ultimato nella sua struttura un secolo dopo, quando un documento parla della collocazione della pala di rame sulla lanterna.

La chiesa sulla domus

La S. Giovanni costruita nei secoli XI-XII sostituiva una chiesa piú antica, già ricordata nel IX secolo. Questa, verosimilmente, risaliva al periodo paleocristiano ed era quasi certamente piú piccola, corrispondente, si crede, alla struttura i cui resti sono stati rinvenuti sotto l’area centrale del pavimento dell’attuale Battistero, realizzata direttamente sopra i mosaici pavimentali della domus romana. Si tratta, forse, di un edificio costruito al momento stesso della trasformazione di quest’angolo dell’antica città pagana in zona ecclesiastica, verosimilmente all’inizio del V secolo, cioè poco dopo la prima cattedrale fiorentina, S. Lorenzo, consacrata nel 393 per mano del vescovo di Milano, sant’Ambrogio. È perfino possibile che sia stato lo stesso Ambrogio, grande teologo dei sacramenti, ad aver suggerito

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alla comunità cristiana di Firenze di costruire un’aula battesimale simile a S. Giovanni alle Fonti, il battistero del IV secolo i cui resti sono stati rinvenuti sotto il sagrato dell’attuale duomo milanese. L’edificio le cui fondamenta si trovano sotto il pavimento del Battistero fiorentino ha la stessa forma ottagonale del battistero paleocristiano di Milano, rispetto al quale ha dimensioni leggermente inferiori, con un diametro interno di 26 m.

Simbolismo escatologico

Sulle due pagine assonometria ricostruttiva della cattedrale di S. Reparata (a lato della quale sorgeva lo spedale di S. Giovanni Evangelista) e del Battistero di S. Giovanni, ancora con l’abside semicircolare, come doveva presentarsi nel XII sec. (seconda fase costruttiva dell’edificio).

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La forma d’ottagono, quella piú comune nei battisteri dei primi secoli cristiani, venne conservata nell’ingrandimento medievale di S. Giovanni. Essa ha un preciso significato, in quanto simboleggia l’octava dies, l’«ottavo giorno», fuori del ciclo dei sette che scandiscono la vita terrena, l’eternità, cioè, il «giorno senza tramonto», come lo chiamavano i Padri della Chiesa, «il giorno del Cristo risorto» a cui il credente accede per via del Battesimo. Ciò spiega l’originaria collocazione del cimitero davanti al Battistero, rinvenuto negli scavi degli anni 1960-70, nonché la presenza di sarcofagi romani riutilizzati sia fuori che dentro S. Giovanni. Nel luogo in cui avevano accettato la fede in Cristo morto e risorto, i cristiani aspettavano a loro volta la risurrezione dai morti, secondo quanto afferma il Nuovo Testamento: «Per mezzo del battesimo (…) siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, cosí anche noi possiamo camminare per una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Lettera ai Romani 6, 4-5). Questa forma d’ottagono allusiva alla vita eterna, poi riproposta in scala titanica nella cupola del Duomo, rimane l’essenziale chiave di lettura del Battistero come dell’intero complesso dei monumenti. Infatti, le lastre di marmo romano riutilizzate nei rivestimenti del Bat-

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In alto assonometria ricostruttiva del Battistero nel suo assetto finale, che vide la sostituzione dell’abside semicircolare con una struttura quadrangolare detta scarsella (1202), l’aggiunta dell’attico, del tetto piramidale, e, all’interno, dei mosaici della cupola e pavimentali (foto in basso).

A destra la porta est del Battistero, detta «del Paradiso», realizzata da Lorenzo Ghiberti tra il 1425 e il 1452 con formelle che rappresentano scene del Vecchio Testamento (l’originale è nel Museo dell’Opera del Duomo). L’ingresso è sormontato dal gruppo scultoreo del Battesimo di Cristo.

tistero, come le colonne antiche al suo interno, affermano che non solo gli uomini, ma anche le città possono «risorgere», cosí come le storie narrate nei mosaici e sulle porte bronzee insistono sull’universale historia salutis, «storia della salvezza» che si estende dai tempi biblici fino al presente e poi verso l’eternità. La piú grande immagine fatta per il Battistero, il colossale Cristo in gloria che ne domina l’interno, conferma questo asserto, offrendosi come «Logos», logica, cifra ermeneutica, Alfa e Omega di ogni storia individuale e della storia del mondo.

L’interno del Battistero

L’interno del Battistero di S. Giovanni s’impone per spazialità, ricchezza decorativa e complessità iconografica. Larga 26 m e alta 34

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senza calcolare la lanterna, è la piú imponente struttura a pianta centrale del Medioevo europeo, con una cupola il cui diametro è inferiore a quello del Pantheon romano di soli 17 m e a quello della costantinopolitana Santa Sofia di appena 10. I multicolori «tappeti» marmorei del pavimento, i marmi bianchi e verdi delle pareti, le colonne monolitiche, i decori dipinti e i circa 1500 mq di mosaici a fondo d’oro qualificano questo spazio d’impareggiabile splendore; in maniera analoga poi le centinaia di personaggi raffigurati nelle sculture e nei mosaici l’affollano di significati, intessendo intorno al Cristo della cupola un fitto arazzo di storia sacra e profana. Come già detto, la costruzione del Battistero deve essere stata avviata intorno al 1059, e nei decenni

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successivi portata avanti in materiali locali: un edificio in pietra ancora privo di una particolare definizione ornamentale.

Colonne di porfido

In una seconda fase, poi, l’interno cominciò a assumere l’aspetto che oggi conosciamo, e alcuni fatti databili al secondo decennio del XII secolo – la collocazione nella parete nord-ovest della tomba del vescovo Ranieri nel 1113, e l’erezione nella piazza esterna delle colonne di porfido verosimilmente donate dai Pisani nel 1117 per l’interno di S. Giovanni – permettono di immaginare il primo livello dell’aula ottagonale già rivestito di marmi e col suo colonnato monumentale già sistemato entro il 1120; non a caso, il fonte battesimale venne trasferito

da S. Reparata al nuovo Battistero nel 1128. La costruzione della lanterna sopra la cupola nel 1150, con la collocazione della pala di rame e la croce, verosimilmente chiudono questo secondo periodo. All’interno come all’esterno la terza e ultima fase è il XIII secolo, quando, a partire dal 1202, l’originaria abside semicircolare viene sostituita dalla struttura quadrangolare denominata «scarsella», la cui decorazione musiva venne avviata nel 1225. Questa difficile modifica strutturale segna una svolta anche estetica, un passaggio oltre le forme tondeggianti tipiche del romanico verso un nitore materico e geometrico che preannuncia il Rinascimento. A questo periodo appartiene il rialzamento dell’ultimo ripiano

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Dossier Particolare dei mosaici della cupola del Battistero, con gerarchie angeliche (in alto) e la raffigurazione del Giudizio Universale, dominato dalla grandiosa figura del Cristo Giudice. XIII-XIV sec. Fanno da sfondo migliaia di tessere d’oro, vero simbolo della ricchezza e del potere della città di Firenze.

esterno – l’«attico» classicista - che maschera l’estradosso della cupola sorreggendo la nuova copertura prismatica in lastre di marmo. All’interno poi la superficie parietale del secondo livello – quella del cosiddetto «matroneo», cioè, originalmente in nuda pietra – viene rivestita di tarsie marmoree e pilastri classicheggianti, ed entro il secondo decennio del XII secolo nei grandi archi del matroneo originale vengono inserite bifore con colonnette d’origine tardo-antica, creando un rapporto di scala tra primo e secondo livello analogo a quello del Pantheon prima dei rimaneggiamenti settecenteschi. In modo simile, il terzo livello interno del Battistero viene trasformato in falso tamburo, con riquadri marmorei poi incrostati di mosaici. Quest’ultima fase comprende l’integrale stesura della veste musiva su tutta la cupola e la sua estensione a due dei tre «coretti» del matroneo (a est e a sud), e infine il rivestimento degli angoli esterni del Battistero, fin lí rimasti in nuda pietra, con i pilastri zebrati che vediamo ora, su disegno di Arnolfo di Cambio.

Poltica e cultura

Seguendo l’esimio storico dell’architettura fiorentina Gabriele Morolli, possiamo associare queste fasi di sviluppo del Battistero ad altrettanti momenti dell’evoluzione socio-politica della città: la prima, che va dalla metà del secolo XI all’inizio del secolo XII – la fase «petrosa», con l’abside semicircolare e la cupola visibile all’esterno – sarebbe l’«espressione severa e pacata» di una Firenze ancora feudale, governata dalla rappresentante

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imperiale, la «gran contessa», come Dante chiamò Matilde di Toscana. La seconda fase, corrispondente alla prima metà del XII secolo, è quella «marmorea», che esprime sia una rinata consapevolezza dell’eredità classica di Firenze, sia la nuova cultura laica che dalla classicità attingeva ispirazione e legittimazione. La terza fase, «astrattiva», perfeziona infine la seconda, esaltando come teorema ideologico il razionalismo della coeva scolastica e aggiungendo, nei mosaici, un elemento narrativo mutuato dalla spiritualità dei nuovi Ordini Mendicanti. Alla metà del Duecento poi, come c’informa lo scrittore trecentesco Giovanni Villani, i guelfi, fautori dell’emancipazione di Firenze dal controllo dell’antico ceto nobiliare, «faceano di loro molto capo a la chiesa di San Giovanni», cosí che il tempio sempre piú magnifico venne idealmente legato alle aspirazioni della nuova società mercantile e artigianale. La leggenda dell’origine romana dell’edificio nasce forse in questo periodo, come chiave storica del guelfismo anti-imperiale: i Fiorentini del tempo sapevano infatti che l’antica Florentia fu fondata quando Roma era ancora una repubblica.

Echi e suggestioni

Se le colonne monolitiche e antiche lastre di marmo riutilizzate nel Battistero hanno, insieme al precoce classicismo dell’architettura, la funzione di evocare l’eredità romana della città, altri elementi della decorazione di S. Giovanni alludono ad altri momenti storici e ad altre culture. La straordinaria varietà di schemi astratti nei rivestimenti parietali, per esempio – con quadrati, rettangoli, tondi, losanghe, stelle, motivi a scacchiera, motivi a zigzag, ecc. –, palesa la volontà di evocare l’arte germanica e celtica dei secoli bui, di cui il contado fiorentino ha esempi importanti. E la vitalità dei dettagli naturalistici nei duecenteschi dipinti che imitano tarsie marmoree sulle pareti del matroneo ricorda al contempo la pittura murale

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antica e quella moderna ispiratasi alla miniatura, con affascinanti inversioni della bicromia: ora verde su bianco, ora bianco su verde. Di particolare interesse è il pavimento di S. Giovanni, considerato degli inizi del XIII secolo per le somiglianze con alcune parti del pavimento di S. Miniato al Monte che recano la data 1207. In questo caso la lontana matrice culturale è medio-orientale, sia per i singoli motivi decorativi, tra cui animali e uccelli stilizzati, sia per l’organizzazione globale del pavimento non secondo un unico schema geometrico, ma come tanti «tappeti», quasi a ricordo delle moschee. Nei secoli XI-XIII le crociate e i nuovi commerci col Medio Oriente avevano diffuso ovunque in Europa la conoscenza della raffinata arte dell’Islam, che in Toscana aveva suscitato, a Pisa e a Lucca soprattutto, imitazione – nel campo della decorazione architettonica sia in quello tessile – dei motivi ammirati negli avori e nelle stoffe d’importazione. Nel pavimento vi è forse anche un’allusione scientifica; Giovanni Villani, lo scrittore trecentesco, chiama attenzione alla «figura del sole (…) fatta per astronomia» inseritavi: il disco solare intarsiato al centro di un grande tappeto zodiacale sul percorso d’onore portante dall’ingresso principale verso il recinto ottagonale che fino al 1576 delimitava l’area del fonte battesimale. Intorno a questo disco solare raggiante sono ancora leggibili le parole di un verso palindromo: EN GIRO TORTE SOL CICLOS ET ROTOR IGNE («Ecco io sole volgo obliquamente i circoli [miei e dei pianeti] e son vòlto dal fuoco»). Sopra tutto il resto infine, l’opera maggiore, il vasto programma musivo, evoca la sofisticata cultura dell’impero cristiano d’Oriente, particolarmente affascinante per le città italiane dell’epoca da Venezia a Palermo e Monreale. Giorgio Vasari infatti disse che l’artista fiorentino duecentesco incaricato di avviare la

decorazione musiva, Andrea Tafi, «per imparare il mosaico» si recò a Venezia dai «Greci» – cioè presso i mosaicisti bizantini che là operavano –, riconducendo poi a Firenze certo «maestro Apollonio greco».

«Il mio bel San Giovanni»

Un’iscrizione nella volta della scarsella identifica invece, come maestro dei mosaici di S. Giovanni, un frate francescano di nome Jacopo, e precisa che il lavoro fu iniziato il 12 maggio del 1225: data, questa, plausibile non tanto per i mosaici della scarsella quanto per l’avvio di quelli della cupola, la cui esecuzione ricopre poi i rimanenti tre quarti del XIII secolo, coinvolgendo numerosi maestri fino a Cimabue, ricordato insieme a Giotto nella Divina Commedia. Nel 1300, quando Dante chiama il Battistero «il mio bel San Giovanni», pensa probabilmente all’allora nuovissima decorazione musiva in corso d’ultimazione. Oltre ad affermare un legame culturale con Bisanzio, i mosaici dovevano comunicare altri messaggi, tra cui quello politico-economico. Il Duecento fiorentino vide il consolidamento del potere dei ricchi mercanti organizzati in corporazioni chiamate «arti», il cui emblema comune fu la nuova valuta cittadina, il fiorino d’oro coniato nel 1252. In tale contesto l’oro steso sulle centinaia di migliaia di tessere vitree della volta era leggibile non solo in termini decorativi, ma come concreta e calcolabile ricchezza, un dono della Provvidenza che Firenze consacrava al culto del Dio provvido. Paradossalmente, l’effetto delle tessere d’oro era anche «spirituale», dal momento che la superficie non veniva appiattita da riflettori, ma vista nella luce mobile del giorno o delle candele. Inoltre, quando la superficie non era unificata dall’illuminazione moderna, la posa irregolare delle tessere, ognuna angolata diversamente, dissolveva in punti luce le immagini, smaterializzando l’impatto dell’oro e dei colori. V

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Dossier (segue da p. 89) logico e coordinato di qualificazioni ambientali e monumentali», e la città si presentava come un insieme disordinato di abitazioni, fondaci e botteghe, con edifici addossati gli uni agli altri, intervallati da orti e addirittura da piccole vigne (la toponomastica cittadina ne conserva ancora oggi il ricordo: via della Vigna Vecchia, via della Vigna Nuova, via del Fico, via dell’Olivuzzo, ecc.). Una diffusa uniformità caratterizzava l’edilizia civile privata, anche a motivo del larghissimo uso di quella pietraforte «dal color ferrigno» che, anche in seguito, costituí il materiale da costruzione piú utilizzato, da cui la città ricevette l’impronta austera e il senso di concretezza espresso dalle grandi chiese e dai palazzi pubblici e privati eretti a partire dalla fine del Duecento.

Murature «a sacco»

Nel corso del XII secolo l’edilizia privata aveva dato vita a numerose costruzioni turrite, che rappresentavano quindi il piú importante elemento tipologico della morfologia della città. Rigorosamente in pietraforte, le torri erano realizzate con il sistema della muratura «a sacco»: conci rozzamente squadrati formavano il rivestimento esterno e interno dei muri, spessi dalle 2 alle 3 braccia (1 braccio= 0,583 m), e l’intercapedine che ne derivava era riempita con calcestruzzo. Le torri erano sorte per la tendenza delle famiglie nobili di ostentare la loro potenza in rivalità con le altre famiglie, nel quadro delle lotte civili, frequenti soprattutto dopo il formarsi dei partiti guelfo e ghibellino. Sulla base della documentazione scritta superstite e di quanto emerso dagli scavi archeologici, è stato calcolato che all’epoca della costruzione delle nuove mura esistevano in Firenze circa 200 torri. Alcune di esse non avevano un solo proprietario, bensí una «consorteria», una sorta di clan di cui facevano parte diverse famiglie nobili, tra le quali ne primeggiava una che dava nome alla torre:

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erano le cosiddette «società delle torri» che, di fatto, riuscirono a controllare interi settori della città, grazie alla fusione tra piú consorterie che portò alla nascita delle cosiddette «insulae», una particolare organizzazione dello spazio urbano in isolati che constavano di un’area comune centrale racchiusa dalle torri e dalle case degli appartenenti alla consorteria. Data la sua struttura, l’isolato poteva trasformarsi con facilità in uno spazio fortificato, mediante la messa in opera dell’apparato necessario alla guerra civile, che prevedeva, per esempio, l’apprestamento di ponteggi di collegamento tra torre e torre e la chiusura dei vicoli che davano accesso alle corti interne. Nate per rispondere a precise necessità belliche, per difendersi e per minacciare quando le rivalità degeneravano in violenze e scontri armati, le torri in origine servivano

solo eccezionalmente come abitazioni, dato che le famiglie a cui esse appartenevano vivevano di norma nelle case attigue alle torri.

Una questione di status

Erano nel contempo simbolo di forza ed espressione dello status sociale di chi le possedeva: la loro altezza (che poteva superare anche le 100 braccia) era proporzionale al prestigio e al livello politico-sociale delle famiglie proprietarie, ma costituiva anche un deterrente perché piú la postazione dei difensori era elevata, maggiore diveniva il raggio all’intorno che poteva essere colpito. Solo piú tardi, quando già erano state abbassate in conseguenza di quanto stabilito dagli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1292) che avevano imposto il limite delle 50 braccia di altezza, le torri furono usate per abitazioni e trasformate, giugno

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torre della castagna Detta anche Bocca di Ferro, è forse la piú antica tra le circa 50 torri medievali ancora oggi presenti in città. L’originaria funzione militare è indiziata dalle «buche pontaie», utilizzate per sostenere strutture mobili, quali palchi e ballatoi in legno, e dalle strette finestre.

spesso utilizzando il piano terreno come fondaco o laboratorio. Negli anni a cavallo fra XIII e XIV secolo, l’edilizia civile come evoluzione della casa-torre produsse gli austeri palazzi-fortezza (vedi il Palazzo Davanzati, nell’omonima piazza, o il Palazzo Gianfigliazzi in via de’ Tornabuoni), significative espressioni architettoniche dell’avvenuto mutamento della struttura sociale ed economica della città, che ha superato le feroci divisioni per gruppi familiari, a vantaggio di una dimensione della società ormai pienamente capitalistica.

All’inizio erano case

Non tutte le case-torri superstiti denunciano di essere state in origine torri. Molte di esse, soprattutto quelle presumibilmente risalenti al Duecento inoltrato, in realtà risultano essere nate come case-torri: vedi la torre degli Amidei, in Por Santa Maria, la torre dei Marignolli, all’inizio del Borgo San Lorenzo, le torri dei Marsili e dei Barbadori, in Borgo San Jacopo, la torre dei Cerchi in via de’ Cerchi. In tutti questi esempi gli edifici, con i loro caratteri piú attenti alle esigenze dell’abitare e al decoro, costituiscono l’anello di congiunzione tra la casatorre e il palazzo-fortezza: lo testimoniano, in genere, le numerose e piú ampie aperture, oppure le due protomi leonine che si affacciano nel prospetto principale della torre degli Amidei, o le tracce della loggia che si apriva alla base della torre dei Cerchi, all’angolo tra via dei Cimatori e via dei Cerchi. Solo alcune torri superstiti, ormai case-torri dalla piú modesta elevazione, conservano elementi che ci rimandano all’originaria funzione militare: ci riferiamo alle «buche pontaie», che servivano per

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Siena, S. Agostino. Miracolo del bambino caduto dal balcone (da uno sporto, per il cedimento di una trave), scena della pala col Beato Angostino Novello, realizzata da Simone Martini nel 1328 circa.

sostenere le strutture mobili (palchi e ballatoi di legno) su cui ci si poneva per contrastare dall’alto eventuali assalti, ancora ben visibili, per esempio, nella torre dei Visdomini in via delle Oche o nella torre della Castagna, che peraltro possiedono entrambe rare e strette finestre.

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Ma per avere un’idea di come doveva presentarsi la Firenze turrita del XII secolo occorre rifarsi a quei centri medievali che hanno conservato le torri cosí com’erano, senza adibirle successivamente a fini abitativi, come per esempio a San Gimignano o ad Ascoli.

Eccezioni illustri

A Firenze, infatti, le uniche torri rimaste con l’altezza originaria sono quelle utilizzate per erigere, rispettivamente, il Palazzo del Capitano

del Popolo (il Bargello) – che venne addossato alla «Torre Volognana», appartenuta alla famiglia dei Boscoli –, e il Palazzo della Signoria (Palazzo Vecchio), che, nella sua parte centrale, inglobò la Torre dei Foraboschi e dei della Vacca, ulteriormente rialzata in modo da divenire l’imponente corpo turrito dell’edificio-simbolo del Comune. Se andiamo ad analizzare la distribuzione entro lo spazio urbano del XII secolo dei circa 50 edifici comunque turriti sopravvissuti algiugno

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A sinistra una casa con gli sporti sostenuti da puntoni in legno e archivolti sestiacuti. Spesso, soprattutto se collocati sulle facciate secondarie delle avbitazioni, gli sporti assumevano la funzione di veri e propri ambienti di servizio.

le distruzioni intervenute nel corso dei secoli, ne rileviamo la particolare concentrazione all’interno della città altomedievale (piú della metà delle torri superstiti), nonché l’addensamento nell’area immediatamente gravitante sul Ponte Vecchio, sia nella fascia di terreno tra l’Arno e la «civitas vetus», sia Oltrarno. Il tessuto edilizio della città «romanica», oltre agli edifici in pietra attigui alle torri doveva presentare un discreto numero di costruzioni in legno: tali dovevano essere, in prevalenza, le case dei ceti meno abbienti. Una riprova della diffusione degli edifici realizzati totalmente o in parte con materiale ligneo ci è offerta dal frequente ripetersi degli incendi che distruggevano parte della città. I cronisti fiorentini, da

In basso pianta di Firenze con l’ubicazione (cerchiello nero) di edifici che presentano ancora oggi gli sporti (o mostrano evidenti segni di averli posseduti), quasi esclusivamente concentrati nell’area circoscritta dalle mura del XII sec. e soprattutto nella «civitas vetus».

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Dossier Da casa del Capitano a museo

Assonometria del Palazzo del Capitano del Popolo (il Bargello), primo edificio pubblico medievale fiorentino, con la torre della Volognana utilizzata come corpo turrito. La sua costruzione fu avviata all’indomani della costituzione di Firenze in libero Comune e precedette di un cinquantennio quella di Palazzo Vecchio. Dal 1865 è sede dell’omonimo Museo Nazionale.

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A destra la torre della Pagliazza in piazza Sant’Elisabetta, l’unica torre a pianta circolare della città.

Giovanni Villani a Marchionne di Coppo Stefani, nel periodo che va dai primi decenni del XII secolo alla fine del Duecento, ricordano una decina di tali eventi disastrosi. Anche la rapidità con la quale le fiamme si propagavano conferma come molte costruzioni fossero realizzate in legno e costituissero quindi una facile esca per il fuoco; scrive per esempio Marchionne di Coppo Stefani riguardo all’incendio del 1177: «s’accese il fuoco ed arse e fece sí gran danno di botteghe e di case, che non rimase casa infino in Mercato vecchio».

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Se non interamente in legname, molte costruzioni dovevano presentare comunque strutture lignee, a motivo del fatto che una ricorrente tipologia delle case fiorentine dell’epoca era rappresentata dagli «sporti», come venivano chiamati gli aggetti dei piani superiori sostenuti da mensoloni di pietra o, negli edifici piú modesti, da puntoni di legno. Si trattava di una pratica costruttiva originariamente riservata ai piani piú alti delle case (e alla sommità delle torri, ove dovevano fungere da «piombatoi»: aperture a scivolo verso il basso, dette anche «caditoie», dalle quali si potevano lanciare materiali offensivi, per impedire la scalata agli assalitori), ma in seguito attuata anche nei piani piú bassi, il che determinava un ulteriore restringimento delle vie cittadine e soprattutto dei vicoli, creando problemi al transito, oltre che all’igiene pubblica. Di qui gli interventi dei Podestà, volti almeno a limitarne l’altezza da terra, e addirittura la creazione di una «gabella degli sporti», tutti provvedimenti che, tuttavia, non sortirono grandi effetti. Gli sporti, infatti, continuarono a essere costruiti almeno sino al Cinquecento inoltrato, anche perché, se collocati nelle facciate secondarie dei palazzi, servirono per togliere dal nucleo centrale dell’abitazione tutti quei piccoli locali di servizio al di fuori degli ambienti di rappresentanza.

Le demolizioni moderne

Le trasformazioni successive, gli sventramenti ottocenteschi e le distruzioni causate dall’ultimo conflitto, hanno in parte cancellato questo carattere edilizio tipicamente fiorentino. Se esaminiamo la distribuzione nel tessuto urbano della cinquantina di edifici che attualmente conservano ancora gli sporti, o mostrano tracce evidenti di averli un tempo posseduti, rileviamo la loro presenza quasi esclusivamente nello spazio circoscritto dalle mura del XII secolo e, in particolare, entro la cerchia

antica, nonostante in quest’ultima parte della città le demolizioni otto-novecentesche abbiano particolarmente inciso. Ciò depone a favore dell’antichità della pratica costruttiva e del suo perpetuarsi negli edifici anche in occasione del loro rinnovamento, il che doveva contribuire non poco a determinare l’immagine della città nei secoli XII e XIII, come del resto confermano le fonti iconografiche. La maggior parte degli esempi superstiti è riferibile al Quattro-Cinquecento, mentre gli esempi piú antichi (quelli con puntoni e architravi in pietra, oppure con mensole in pietra e archivolti sestiacuti) sembrebbero risalire al Due-Trecento. Rimangono anche alcuni sporti con puntone in legno e architrave egualmente ligneo (il cosiddetto «sergozzone»), che potrebbero essere ancora piú antichi, se non nei materiali sicuramente nella tipologia. V

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caleido scopio

Sul golfo incantato

cartoline • Su La Spezia vigila il castello di San Giorgio, una fortezza poderosa,

nata già nell’Alto Medioevo e oggi trasformata in museo. Un sito di grande interesse, che fa da punto di partenza per un ricco itinerario alla scoperta del territorio

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In alto la poderosa mole del castello di San Giorgio, a La Spezia. Qui sopra autoritratto eseguito con ogni probabilità dal Pontormo. 1520 circa. La Spezia, Museo Civico «Amedeo Lia».

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elle aree montane liguri, seguendo un preciso processo di antropizzazione del territorio, i centri abitati si sono solitamente sviluppati sui rilievi posti alle testate dei versanti secondari, e cioè su quelle linee orografiche che si dipartono dal crinale principale e separano fra loro gli affluenti dei fiumi. In uno di questi spartiacque, quello che ha origine alla Foce e, attraverso le località di Strà e Sarbia, giunge al colle del Poggio, nelle vicinanze dell’antica linea di costa, è possibile individuare anche l’asse territoriale in cui è attestato il primo nucleo demico di Spezia. Sopraelevato alla piana alluvionale dove poi si sviluppò la città di La Spezia, questo pendio rivestí nei secoli scorsi un importante interesse strategico per chiunque fosse intenzionato a difendere il borgo spezzino. Sulla sua sommità, a protezione del villaggio sottostante, molto probabilmente già in epoca

antica e altomedievale, si innalzava infatti una struttura fortificata, il castello di San Giorgio, rafforzata nel Duecento, con il dominio dei Fieschi sulla riviera di Levante. Affacciato sullo splendido Golfo dei Poeti e ora considerato il monumento piú rappresentativo di La Spezia, sin dal XIII secolo questo fortilizio seguí, dal punto di vista architettonico, le alterne vicende storico-politiche della cittadina ligure. Semidistrutto da Oberto d’Oria nel 1273 e dalle milizie di Ambrogio Visconti che, nel 1365, assalirono la cittadina, il castello venne riedificato sul finire del Trecento.

Le podesterie si uniscono Il bisogno di protezione, particolarmente avvertito dalle popolazioni del golfo, in seguito, favorí nel 1371 l’unione delle podesterie di Spezia e della vicina Carpena in una sola entità demografica e territoriale. Tale giugno

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aggregazione si concretizzò con la ricostruzione del forte, posto lungo il percorso di accesso al borgo, in prossimità del vertice settentrionale della cinta muraria, rifatta con andamento trapezoidale e nuovamente ingrandita per l’afflusso di migranti provenienti dai paesini dell’entroterra. Alla metà del Quattrocento il sistema difensivo castellano, però, si rivelò ancora una volta inefficace di fronte alla diffusione delle armi da fuoco anche a causa della fragilità delle murature, prive di protezioni alla base e quindi subí ulteriori modifiche, adeguate ai recenti orientamenti della tecnica ossidionale. Quest’ampliamento con murature dotate di profilo a scarpa, feritoie per armi da fuoco e un bastione quadrangolare fornito di archibugiere, pare porsi in relazione con l’instrumento, ossia con l’atto stipulato nel 1443 tramite il quale gli Spezzini richiedevano al doge della Repubblica di Genova alcune esenzioni fiscali per fronteggiare le spese di riparazione delle mura e della chiesa di S. Maria, entrambe

rovinatesi nel 1437, durante la campagna militare contro Filippo Maria Visconti. Gli ultimi, ingenti, interventi di ripristino architettonico si collocano tra il Cinquecento e il Seicento quando, ormai priva di ogni valenza strategica, la rocca venne ulteriormente attrezzata in difesa della zona interna al golfo, insieme ai castelli di Porto Venere e Lerici, situati all’imbocco della baia.

Tesori della Lunigiana Restaurato dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici della Liguria fra il 1985 e il 1998, dal 2000 il castello di San Giorgio è stato riaperto al pubblico ed è sede di un prestigioso museo civico, dedicato a Ubaldo Formentini, direttore del Museo e della Biblioteca Civica di La Spezia negli anni 1923-1958 e acuto indagatore della storia e dei costumi della gente di Lunigiana. Il percorso museale, alla scoperta delle radici della civiltà spezzina e lunigianense, è stato realizzato anche con l’obiettivo di presentare l’immagine della trascorsa omogeneità politica

e amministrativa di questo comprensorio che, suddiviso tra le province della Spezia e di Massa Carrara, un tempo riuniva la Lunigiana storica, estesa dal golfo della Spezia, ai confini dell’attuale provincia di La Spezia, al comprensorio che abbraccia i corsi dei fiumi Magra e Vara. Sin dall’età del Rame, infatti, tale territorio fu abitato da un’unica civiltà, alla quale si devono le statue stele che sono oggi il vanto del museo. Seguendo un ordine cronologico, l’esposizione si articola su due livelli. Dai fossili e dai reperti preistorici, si passa alle raccolte di arte romana provenienti da Luni, ai resti delle ville d’età imperiale disseminate nell’area attorno alla foce del Magra, al Golfo e agli insediamenti nell’entroterra spezzino, fino alle rovine altomedievali della cattedrale lunense. La Spezia è città ricca di musei, facilmente raggiungibili percorrendo un saliscendi di scalinate che, tipiche dei grandi centri marinari, uniscono il castello di San Giorgio a via del

Qui accanto Benedetto da Maiano, Madonna dolente. Terracotta policroma, ultimo decennio del XV sec. La Spezia, Museo Civico «Amedeo Lia». A destra la polena del Cambria (piroscafo acquistato da Garibaldi nel 1860 in Inghilterra) raffigurante un bardo che suona la lira, dalla lunga barba fluente, che simboleggia il Paese conquistato dai Romani (l’attuale Galles). La Spezia, Museo Tecnico Navale.

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caleido scopio Quel dolce che piaceva a Francesco Sforza... Se la gastronomia ligure si caratterizza per la duplice tendenza marinara da un lato e contadina dall’altro, la cucina rustica tipica della zona spezzina, oltre a piatti a base di datteri di mare, moscardini e muscoli, come vengono chiamate localmente le cozze, propone tra le sue specialità l’invitante mesc-ciua. Un piatto povero, nato dalla felice mescolanza di ceci, fagioli e frumento, grazie a esperte e accorte massaie, abili nel confezionare una zuppa gustosa e nutriente con i cereali e le granaglie che, sfuggite dai sacchi durante le operazioni di carico e scarico delle navi, potevano essere raccolte dagli scaricatori. A Sarzana nel periodo natalizio si gusta invece una torta chiamata spongata, o spungata, dal termine spongia, ossia spugna, per l’aspetto spugnoso e irregolare che ne contraddistingue la superficie. Inviato in dono al duca di Milano Francesco Sforza nel 1454, questo dolce viene realizzato con una base di pasta sfoglia, ricoperta da uno strato di marmellata di mele e pere, frutta candita, pinoli e mandorle, su cui si adagia un secondo strato di sfoglia, fittamente bucherellato per facilitarne la cottura in forno e, infine, modellato con uno stampo di legno. La fortezza di Sarzanello, eretta in formidabile posizione strategica dal 1322, nel sito del precedente Castrum Sarzanae. Nella prima metà del Quattrocento la rocca venne ingrandita con mastio e rivellino.

Prione, arteria principale. Qui, l’uno accanto all’altro, seminascosti fra signorili palazzi a tinte pastello, dall’evidente stile architettonico genovese, si trovano due straordinari gioielli cittadini: il Museo Civico «Amedeo Lia» e il Museo del Sigillo. Istituito grazie al munifico gesto dell’ingegner Amedeo Lia, che donò al Comune di La Spezia la sua straordinaria collezione privata di oggetti d’arte antica, medievale e moderna, il Museo Civico che porta il suo nome è ospitato nel seicentesco complesso conventuale dei frati di S. Francesco da Paola, recentemente recuperato per la nuova destinazione d’uso. Nell’intento di conservare il piú possibile il carattere originario della raccolta, realizzata senza uno schema storico o una classificazione tradizionale, ma conforme all’individuale, squisito e originalissimo gusto del suo ideatore, i principali nuclei espositivi si susseguono in un’alternanza di forme, colori e tecniche, dispiegandosi in tredici sale che spaziano dai tesori dell’ars miniatoria tra Duecento e Cinquecento ai virtuosismi dei bronzetti barocchi, dalle trasparenze dei vetri soffiati veneziani alle suggestioni dei pretiosa et curiosa degni delle antiche camere delle meraviglie.

Una collezione unica al mondo Nelle immediate vicinanze anche il Museo del Sigillo, accolto nella Palazzina delle Arti, ha origine da una donazione privata, quella dei coniugi Lilian ed Euro Capellini al Comune di La Spezia. Ritenuta la piú completa collezione sfragistica mai riunita, sola nel suo genere qualitativamente e quantitativamente, è formata da piú di 1500 esemplari originali. L’itinerario di visita inizia con alcuni reperti della fine del IV millennio a.C., provenienti dalle regioni situate tra Anatolia e Iran, aree dove comparvero le prime matrici (oggetto in pietra, metallo, legno o altro, che reca

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inciso in negativo il simbolo da riprodurre, ossia l’impronta), usate come contrassegno. Da questi antichissimi strumenti, destinati alla marchiatura, si passa all’uso delle matrici-amuleto nell’Egitto faraonico, rappresentate da sigilli in pietra e faïence a forma di scarabeo, a esemplari di anelli sigillari dell’epoca romana imperiale, medievale e rinascimentale. A testimoniare l’utilizzo del sigillo ecclesiastico dal Trecento all’Ottocento sono invece i tipari bronzei di archidiocesi, compagnie, confraternite e della Reverenda Camera Apostolica, posizionati accanto alle impronte in cera e piombo uscite da cancellerie papali e vescovili e a stampi per pani eucaristici risalenti al V-VI secolo. Vanto del museo restano comunque i sigilli cinesi, elaborati dai maggiori calligrafi e pittori orientali tra l‘Ottocento e il Novecento.

Un subappalto per Giuliano da Sangallo Giunti a Sarzana, oltrepassato il cinquecentesco oratorio della Misericordia, anche l’imponente fortezza della Cittadella, ex carcere mandamentale, val bene una sosta. È questa la roccaforte che Lorenzo il Magnifico, abbattuto il duecentesco castello di Firmafede, voluto dai Pisani, fece edificare nel 1488 dal Francione, il quale, a sua volta, si avvalse del celebre architetto Giuliano da Sangallo. Passata nel 1496 a Carlo VIII, re di Francia, la struttura difensiva venne ampliata e quindi venduta al Banco di S. Giorgio. Fra il 1515 e il 1530 i Genovesi ne riadattarono e rafforzarono i torrioni che, sopravvissuti alla demolizione della cinta muraria, avvenuta nel XIX secolo, ora sono stati recuperati a uso abitativo.

Storie di gente di mare Da via del Prione il nostro tour per La Spezia prosegue al Museo Tecnico Navale, vicino alla Porta Principale dell’Arsenale Militare. Tappa irrinunciabile per conoscere e approfondire la storia della Marina Militare e l’evoluzione della navigazione dalle origini ai giorni nostri la mostra, fra le piú prestigiose al mondo, raccoglie modellini, carte geografiche, polene, medaglie, bandiere navali, armi e alcuni gloriosi reperti della storia della Marina. Lasciato l’elegante centro urbano, ci dirigiamo verso la costa orientale del golfo, all’estremità sud della Liguria. Fino al Muggiano è tutto un susseguirsi di fabbriche e cantieri di varie dimensioni, ma oltrepassati il porto mercantile e quello industriale e superata la galleria degli Scoglietti, ecco l’incanto dell’insenatura di Lerici. Citato da Tolomeo come Portus Erici, preso come termine di paragone da Dante per i fianchi rocciosi e impervi della sua scogliera, simili a quelli della montagna del Purgatorio, e indicato da Petrarca con l’appellativo di fortissimus Eryx, dimora della dea Atena, cercatrice

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d’olio, nel Medioevo il borgo marinaro di Lerici, ritenuto già nel XII secolo uno scalo marittimo e un emporio commerciale di notevole rilevanza, fu a lungo conteso tra le Repubbliche marinare di Genova e di Pisa. Testimone delle continue lotte tra le due opposte fazioni è ancora oggi un’epigrafe, incisa per celebrare la vittoria nel 1256 di Genova su Pisa nell’architrave del portale dell’austera cappella gotico-ligure di S. Anastasia, nel castello di Lerici. Maestosa già da lontano, arroccata com’è a strapiombo su un

promontorio sospeso tra cielo e mare, quest’imponente architettura difensiva venne innalzata dai Pisani in contrapposizione al castello genovese di Portovenere a partire dal 1241. Passata nel 1256 ai Genovesi, la costruzione fu fortificata e difesa con una torre pentagonale, quindi nel Cinquecento venne nuovamente ampliata mediante un massiccio rivestimento di mura esterne, che in alcuni punti raggiungono gli 8 m di spessore. Da alcuni anni, grazie al ritrovamento in zona di impronte di dinosauri, il castello

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caleido scopio La parte sommitale del portale della cattedrale di Sarzana. L’ingresso monumentale fu apprestato nel 1355, e, come si legge nell’iscrizione che corre lungo l’architrave è opera di Michelino de Vivaldo. Il mosaico che oggi orna la lunetta è invece di epoca moderna.

– belvedere unico sul grazioso abitato di Lerici, sull’insenatura della Caletta, trasformata in seguito al rinvenimento dei resti di una nave romana in Parco archeologico subacqueo, e sulle incontaminate isole di Palmaria, Tino e Tinetto – ospita anche un innovativo Museo Geopaleontologico.

Là dove nidificano i falchi Con un po’ di tempo a disposizione possiamo anche inerpicarci su e giú per la Calata, lungo la via del Revellino o la salita Arpata, toponimo medievale a indicare «luogo dove nidificano i falchi pescatori». Tra colorate case-torri strette strette l’una all’altra, orticelli familiari protetti da secolari muretti a secco e scorci marini inattesi, scopriamo cosí le caratteristiche viuzze nel quartiere ebraico, in passato sede di un consistente insediamento mercantile di origine livornese, e l’austero Palazzo Doria, nel Medioevo ospedale dei Ss. Pietro e Paolo, adibito a ospizio per pellegrini diretti nei luoghi santi, poi, nel 1528 dimora dell’ammiraglio Andrea Doria. Visitata Lerici, proseguiamo per Sarzana, inoltrandoci in Val di Magra passando per le verdi strade del Parco di Monte Marcello, all’estremo confine tra la Liguria e la Toscana. Sarzana è famosa

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per l’annuale Mostra Nazionale dell’Antiquariato e della «Soffitta nella Strada», allestita in agosto, e per la bellissima cattedrale di S. Maria Assunta. Innalzato all’incrocio delle vie Francigena e Aurelia sull’area dell’antica pieve di S. Basilio, dopo il trasferimento della sede episcopale dalla vicina Luni, e completato attorno al 1474, questo luogo di culto è pure custode della Croce di Maestro Guglielmo. Attribuita a un artista toscano di scuola lucchese non meglio identificato, firmata e datata 1138, l’opera è ritenuta il piú antico crocifisso dipinto su tavola esistente. Dal centro storico di Sarzana, affollato di botteghe di antiquariato e di restauro, superata porta Romana, una panoramica conduce alla fortezza di Sarzanello. Voluta dal nobile capitano Castruccio Castracani per controllare la bassa Lunigiana, la rocca venne eretta in formidabile posizione strategica a partire dal 1322, nel sito del precedente Castrum Sarzanae, documentato sin nel X secolo. Ingrandito con mastio e rivellino nella prima metà del Quattrocento il castello, a pianta triangolare equilatera sormontata da tre torrioni cilindrici angolari, è protetto da un profondo fossato e da un poderoso ponte levatoio. Chiara Parente

Dove e quando

Ufficio Turismo Comune di La Spezia Info tel. 0187 745627;http:// turismocultura.spezianet.it Comune di Lerici-Ufficio Relazioni con il Pubblico Info tel. 0187 967840; comune.lerici.sp.it Museo del Castello di San Giorgio, Collezioni Archeologiche «U. Formentoni» La Spezia, via XXVII Marzo Info tel. 0187 751142; http:// museodelcastello.spezianet.it/ Museo Civico «Amedeo Lia» La Spezia, via del Prione, 234 Info tel. 0187 731100; http://museolia.spezianet.it/ Museo del Sigillo La Spezia, via del Prione, 236 Info tel. 0187 778544 Museo Tecnico Navale La Spezia, viale Amendola, 1 Info tel. 0187 783016; www.laspezia.net/navale Castello di Lerici Lerici, piazza S. Giorgio Info tel. 0187 969042; www.castellodilerici.it Fortezza di Sarzanello Sarzana, loc. Sarzanello, via Fortezza 19038 Info tel. 0187 622080; www. sbapge.liguria.beniculturali.it

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Il potere dei soldi libri • Tra le «invenzioni» del Medioevo, quella del

sistema bancario ha avuto un’influenza decisiva sui successivi sviluppi politici e sociali del mondo occidentale. Una storia complessa, che Amedeo Feniello racconta in maniera avvincente, attraverso la sfortunata vicenda di una nobildonna francese

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on efficace linguaggio giornalistico, Amedeo Feniello dipinge in un grande affresco, simile a un romanzo, ma rigorosamente basato su fatti e documenti, i cento anni a cavallo tra la metà del Duecento e la metà del Trecento. Un periodo caratterizzato da tutte le sciagure possibili: eventi climatici infausti, terremoti, carestie, guerre, tracolli bancari ed epidemie, che culminarono, nel 1348, con il ritorno della peste in Europa. Questo dunque lo sfondo. Al centro dell’affresco, la vicenda di una nobildonna francese, Sybille de Cabris. Rimasta vedova giovanissima (1335), si accingeva a trasferire in Provenza le somme derivanti dalla vendita di alcune proprietà di famiglia nel regno di Napoli (1339), somme necessarie alla sopravvivenza sua e del figlioletto in un momento particolarmente difficile. Per farlo, fu costretta a rivolgersi alle compagnie bancarie toscane: era l’inizio della catastrofe. Tre anni dopo, nel 1342, le proprietà erano state vendute, e il denaro depositato a Napoli presso il banchiere (e cronista) fiorentino Matteo Villani, associato con la compagnia dei Buonaccorsi, doveva solo essere ritirato ad Avignone. Quando però il rappresentante di Sybille cercò di riscuoterlo, la banca era fallita, e i suoi rappresentanti scomparsi. La cosa era resa ancor piú grave dal vuoto legislativo in merito, sebbene questo non rappresentasse in assoluto il primo caso di tracollo finanziario. Tanto piú disperate

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e anomale perciò erano la situazione della giovane donna e la sua decisione di intentare una causa contro i banchieri latitanti, che fu avviata, però, solo nel 1355, oltre 10 anni piú tardi, forse per gli eventi disastrosi che nel frattempo avevano devastato l’Europa. Il processo si protrasse fino al 1362, tra gli innumerevoli cavilli legali accampati dai Buonaccorsi per non restituire il denaro: venne passata al setaccio l’intera esistenza della povera Sybille, che da parte lesa passò talvolta sul banco degli imputati, e della quale fu messa in discussione l’integrità morale.

La fine è ignota Non sappiamo purtroppo come la vicenda si sia conclusa, ma dall’episodio l’autore trae spunto per ripercorrere la storia delle origini della banca, partendo dai primi cambiavalute-prestatori «lombardi» della metà del Duecento, fino alle articolatissime banche toscane della metà del secolo successivo. Una storia fatta dall’affinarsi sempre piú complesso di strumenti contabili e artifici tecnici, al cui centro era una marea umana spesso totalmente impreparata ad affrontare i colpi della sorte. Un mondo – quello della banca – che si sviluppò in seguito alle esigenze del commercio, e soprattutto di quello delle spezie e dei tessuti e materie prime a esso

Amedeo Feniello Dalle lacrime di Sybille Storia degli uomini che inventarono la banca Laterza, Roma-Bari, 300 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-581-0945-8 www.laterza.it indispensabili (la lana in primo luogo), per il quale esistevano già poli fondamentali di attrazione come le fiere della Champagne (XII-XIII secolo), divenute nel Duecento il cuore del commercio internazionale nel mondo occidentale. Proprio nel momento in cui, alla metà del XIII secolo, queste fiere avevano raggiunto il loro apogeo, nacquero le prime strutture bancarie, costituite inizialmente da filiali mercantili finalizzate a trasmettere le somme necessarie agli acquisti da piazze lontane al luogo in cui si giugno

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teneva la fiera, senza dover ricorrere al trasporto materiale del denaro. Furono poi i mercanti italiani a imprimere una svolta decisiva a questa fase embrionale, avviando attività collaterali che avevano come oggetto specifico il commercio del denaro (con cambio di moneta, depositi, prestiti, erogazione di interessi per attrarre capitali), di cui l’operazione di rimessa alle fiere diveniva solo un segmento. A tutto questo si collegava una svariata serie di transazioni commerciali, svolte attraverso il credito concesso dalle filiali bancarie, che fungevano, tra l’altro, anche da reti informative di primaria importanza, sia per le notizie di carattere economico, sia per quelle politiche che influenzavano pesantemente i mercati.

Il ruolo della Chiesa La coniazione del fiorino d’oro, il suo significato e le sue conseguenze, la nascita e lo sviluppo delle tecniche contabili, il valore e l’importanza delle informazioni commerciali, e quindi dei carteggi mercantili; il ruolo fondamentale della Chiesa nella nascita della banca, tanto che «senza la Chiesa le banche non sarebbero mai esistite» (p. 69); quello dei Templari nel trasferimento dei fondi necessari a finanziare le Crociate (prima metà del Duecento); la dimensione trans-continentale di Acri (in Terra Santa), snodo fondamentale di smistamento della ricchezza tra Oriente e Occidente, in quanto fulcro delle operazioni di trasferimento del denaro (con i Templari, prima, e con gli uomini d’affari fiorentini, senesi, piacentini, e genovesi, poi), e componente basilare dunque di un sistema economico formato da aree regionali a diverso livello di evoluzione e di gerarchia (alla pari dell’asse Fiandre-fiere della Champagne-città marittime italiane); i fallimenti bancari, costituiscono solo alcuni dei numerosi temi trattati nel volume, con uno stile capace di trasformare in un piacevole racconto argomenti altrimenti ostici e complessi.

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In un’epoca ricca come nessun’altra di self made man, e di arrampicatori sociali, il prototipo della categoria fu addirittura un papa, Urbano IV (nato intorno al 1185), figlio di un artigiano di Troyes (una delle fiere della Champagne), che, giunto al soglio pontificio nel 1261 (dopo un’infinita serie di missioni politiche e diplomatiche che lo portarono anche ad Acri col compito di riorganizzare la Terra Santa), gettò le basi del piú grande sistema politico-finanziario mai immaginato in Europa: quello del connubio Stato-finanza, collegato al sodalizio del papato con gli Angioni contro il ghibellinismo e l’impero. Per finanziare appunto la lotta contro i ghibellini, Urbano IV si serví dei banchieri: a sostegno della lotta contro Manfredi, venne creata una complessa rete di finanziamento su scala internazionale alimentata dai capitali lucrati dagli uomini d’affari senesi e fiorentini alle fiere di Champagne, fatti pervenire a Roma mediante lettere di cambio, e che venivano rimborsati ai banchieri dal papa con il gettito derivante dalle decime che quegli stessi banchieri

avevano l’incarico di riscuotere in tutta la cristianità. Questo sistema fu messo momentaneamente da parte da Clemente V (1305-1314), il quale, per cercare di liberare le finanze pontificie da rischi eccessivi, volle tornare al vecchio sistema, fatto di depositi nei conventi e del trasporto materiale di denaro e tesori, e a una raccolta dei fondi in mano soltanto agli uomini della Santa Sede, senza ricorrere a mutui e mettendo da parte le banche, molte delle quali fallirono (i Riccardi di Lucca, gli Ammannati di Pistoia, e soprattutto i Bonsignori di Siena).

L’egemonia fiorentina Ma fare a meno degli istituti di credito era ormai diventato impossibile: dopo la morte di Clemente V, e con la stabilizzazione della sede pontificia ad Avignone, si tornò alla situazione precedente, con la novità che le compagnie fiorentine (Bardi, Peruzzi, Acciaioli, Frescobaldi, Alberti, Buonaccorsi, Particolare di una miniatura raffigurante banchieri italiani in attività. XIV sec. Londra, British Library.

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Ancora un particolare di una miniatura raffigurante alcuni banchieri italiani. XIV sec. Londra, British Library.

ecc.) si sostituirono a quelle senesi e lucchesi. Oltre ai rapporti finanziari con il papa, l’altro importantissimo polo di attrazione delle compagnie della città di Dante nel primo trentennio del Trecento, furono i prestiti alla Corona angiona di Napoli, che rese pervasiva la presenza fiorentina, quasi uno Stato nello Stato. Il monopolio del grano pugliese fu uno dei principali privilegi ottenuti. Anche in questo caso, come era già stato per la Santa Sede, e come accadde poco dopo in Inghilterra, il rimborso veniva effettuato dalla Corona mediante la cessione ai banchieri dei cespiti di entrata del regno (riscossione di dazi e tasse di ogni genere). Proprio il venir meno del gettito fiscale in Inghilterra (collegato alle spese enormi per la guerra dei Cent’anni), unito alle fluttuazioni monetarie e a quelle dei prezzi del grano e

dell’oro, provocò, nel 1347, il tracollo dei Bardi e dei Peruzzi, i principali finanziatori della guerra e del re. Non fu un episodio isolato, ma un cataclisma economico-finanziario che coinvolse tutta l’Europa, e che era stato preceduto (1340) dai fallimenti delle banche veneziane, piú modeste di quelle fiorentine, e fortemente legate alle fluttuazioni del valore del grano e dell’argento.

Con la verve del giallista Per concludere, ci piace ribadire le non comuni capacità narrative dell’autore, che rappresentano un’innovazione significativa e assicurano una trasmissione immediata e accattivante di nozioni, fatti e situazioni, comunque pienamente documentati. Paragrafi come Morte a Lombard Street (sull’assassinio di un mercante genovese a Londra nel 1379, pp.

Armonie per voce e liuto T

ra i molti compositori che si sono cimentati con il madrigale, Luca Marenzio ha occupato un ruolo di primo piano. Partiture, le sue, in cui la poesia è esaltata attraverso figure retorico-musicali – i madrigalismi – e una costruzione contrappuntistica volta a sottolineare le sfumature suggerite dal testo. Marenzio è ricordato non solo come compositore, ma anche come liutista e cantore sopraffino: fu maestro di cappella del cardinale Luigi d’Este, per poi passare alla dipendenze degli Aldobrandini e, infine, a servizio di Sigismondo III di Polonia. Ai madrigali e alle villanelle di Marenzio – altro genere d’origine popolare qui rivestito di un’aura di elegante leggiadria – a cui si intercalano anche danze e fantasie strumentali coeve, è dedicato Luca Marenzio e il suo tempo (TC 531302, 1 CD, www.tactus.it) che,

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nel proporre incantevoli brani vocali e strumentali, illustra anche una prassi esecutiva molto diffusa all’epoca: quella del canto e liuto, strumento principe nell’accompagnamento vocale tra Quattro e Cinquecento. Il soprano Angela Alesci esegue questi brani con grazia, immergendosi nel gusto raffinato dei grandi poeti cinquecenteschi come anche del Petrarca, altro grande protagonista del repertorio madrigalistico. L’antologia propone anche alcuni brani strumentali, eseguiti al liuto da Massimo Lonardi e Domenico Cerasani, di compositori piú o meno noti come Orlando di Lasso, Vincenzo Galilei, Fabrizio Caroso, Lorenzino del liuto, Cesare Negri, tutti personaggi che oltre al repertorio vocale si dedicarono al linguaggio strumentale con trascrizioni liutistiche di originali

brani vocali ovvero con brani di pura fantasia. Emerge, anche in questo caso, una dimensione sonora di grande ricercatezza in cui il linguaggio pacato e intimista del liuto esprime al meglio quel gusto aristocraticamente riservato che tanto dovette allietare gli ambienti di corte dell’epoca. Franco Bruni

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174-178), redatto con lo stile di un consumato giallista o di un cronista di «nera», sono poi inframmezzati dai documenti originali, tratti dagli atti del processo e tradotti dal latino in modo altrettanto efficace. Dall’episodio, rivelatore dei maneggi della corona inglese con i mercanti genovesi a discapito degli interessi dei commercianti londinesi, l’autore trae spunto per ricostruire, risalendo indietro di oltre un secolo (fine del Duecento), il business della lana («l’oro d’Inghilterra») e i suoi meccanismi di approvvigionamento da parte degli uomini d’affari fiorentini e lucchesi, che per primi riuscirono a garantirsene l’esclusiva (a discapito dei Fiamminghi), recandosi nelle abbazie piú indebitate (col papa per le decime, e col re per le tasse), e facendosi versare il censo anziché in denaro, in lana sottocosto. Risultato: guadagni altissimi per le compagnie commerciali toscane (Bardi, Peruzzi, Buonaccorsi, Acciaioli, Alberti), da investire in transazioni finanziarie (e soprattutto nei prestiti alla Corona britannica).

Le parole del Petrarca Con analoga efficacia, il capitolo Tsunami (pp. 165-168), descrive il maremoto del 1343 a Napoli, ricorrendo poi alla testimonianza del Petrarca in persona, e introducendo brani tratti dalle sue epistole e tradotti fedelmente nel linguaggio della quotidianità. Un racconto piacevolissimo da leggere, dunque, ma anche un’opera rigorosamente documentata: note puntualissime alla fine di ogni capitolo, oltre dieci pagine di bibliografia, due cartine sulle filiali delle compagnie Bardi e Peruzzi, un dettagliatissimo indice delle persone. La fonte principale dell’episodio da cui scaturisce il libro è costituita dagli atti del processo intentato da Sybille de Cabris contro Matteo Villani (il cronistabanchiere) e contro la compagnia Buonaccorsi, conservati all’Archivio di Stato di Firenze e pubblicati nel 1992 da Noel Coulet. Maria Paola Zanoboni

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Incontri impossibili musica • Dall’incontro fra l’organista Elmar Lehnen

e il trombonista Hansjörg Fink è nato un esperimento davvero inusuale, che vede mescolata la tradizione della monodia gregoriana con i fraseggi tipici del jazz

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he cosa può unire entità cosí distanti tra loro come un trombone, un organo e la melodia gregoriana tratta dalla liturgia della missa defunctorum? Quale filo conduttore può passare tra il repertorio monodico liturgico e il jazz? Una possibile risposta è quella che ci offrono l’organista Elmar Lehnen e il trombonista Hansjörg Fink con l’originalissimo esperimento Requiem (Audite 92.660, 1 CD, www.audite.de) in cui fondono l’originale monodia gregoriana con un inaspettato approccio jazzistico. Ascoltando il disco, è possibile percepire, a tratti, l’antica melodia liturgica che, attraverso un infinito gioco improvvisativo, emerge in una sorta di scontro/incontro tra l’antico e il contemporaneo, in cui nessuno primeggia ma si impone un’inventiva musicale straordinaria. Esaltante è il suono dell’organo della basilica mariana di Kavelaer, uno tra i piú grandi della Germania, che si avvale di ben 149 registri e una tavolozza di timbri incredibile che permettono all’interprete un’infinità di sfumature ed effetti sonori variegati; d’altronde non è da meno la maestria del trombonista – si tratta in questo caso di un trombone tenore – che riesce a connotare i singoli brani liturgici del Requiem con gusto e colori appropriati, sfruttando appieno l’ampia gamma di colori che solo un grande interprete riesce a ottenere dal proprio strumento. È difficile descrivere le cangianti atmosfere musicali che si respirano nei vari brani nella loro successione liturgica, da cui emerge un mondo sonoro borderline, ma affascinante. Una riprova di come la rivisitazione di tradizioni musicali remote possa costituire una fonte di ispirazione per un linguaggio contemporaneo in cui la sperimentazione e il recupero dell’antico giocano la loro carta vincente. F. B.

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