Medioevo n. 205, Febbraio 2014

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aristotele fioravanti notai bottigella

la conchiglia

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Mens. Anno 18 n. 2 (205) Febbraio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 2 (205) febbraio 2014

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

L’incredibile storia di Aristotele Fioravanti

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Tutti i segreti di Amatrice

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EDIO VO M E www.medioevo.it

cappella degli scrovegni

Un tesoro nascosto?

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vichinghi i signori del nord

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sommario

Febbraio 2014 ANTEPRIMA restauri Il ritorno di Juanito Dalla Francia alle Marche Una felice mescolanza di stili Nella valle dei castelli appuntamenti Il risveglio dell’orso Piovono dolciumi e suonano i barattoli Quando i diavoli scacciarono i Turchi... L’Agenda del Mese

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immaginario

18 22

Come in uno scrigno

CALEIDOSCOPIO

Conchiglie

di Lorenzo Lorenzi

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STORIE

luoghi

protagonisti

Medioevo nascosto

L’uomo che muove le torri

Tesori di una terra di mezzo

Amatrice

Aristotele Fioravanti/1 di Furio Cappelli

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di Furio Cappelli

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Giovanni Matteo Bottigella

Il segretario «fedele» di Chiara Parente

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92 40

Dossier

COSTUME E SOCIETÀ

l’epopea del grande nord

i notai Rogito ergo sum

di Maria Paola Zanoboni

vichinghi di Francesco Colotta 40

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cartoline Eusebio, Ajmone e la Madonna Nera

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monumenti Mistero patavino

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musica Antichi suoni d’Abruzzo Note nere e mottetti Ildegarda, genio versatile

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Ante prima

Il ritorno di Juanito restauri • Realizzato da Michelangelo agli esordi della sua

carriera, il San Giovannino di Ubeda era considerato ormai perduto. Un complesso e innovativo intervento di restauro è invece riuscito a ricomporre le forme di questo piccolo capolavoro

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el 1994, la Fondazione Casa Ducale di Medinaceli, istituzione culturale con sede a Siviglia, spedisce all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze un pacco contenente alcuni frammenti lapidei. È tutto quel che resta di una scultura marmorea di epoca rinascimentale raffigurante san Giovanni Battista bambino, attribuita nel 1930 a Michelangelo dallo storico e archeologo Manuel Gòmez-Moreno. Quella fiorentina era l’ultima tappa del cammino, lungo e travagliato, compiuto dall’opera fin dalla sua nascita, avvenuta probabilmente nel 1495, quando Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico, la commissionò all’allora ventenne Michelangelo. La scultura è citata nella biografia ufficiale del maestro, e, successivamente, anche da Giorgio Vasari,

nella seconda edizione delle Vite del 1568. Poi il San Giovannino scomparve e fu dimenticato. Soltanto nell’Ottocento, gli studiosi ricominciarono a interessarsene e a cercarlo. Dopo vari presunti

In alto una foto della testa del San Giovannino di Ubeda prima della distruzione patita nel 1936. A sinistra il San Giovannino di Ubeda dopo il restauro. L’opera fu realizzata da Michelangelo, probabilmente nel 1495. Dove e quando

«Il San Giovannino di Úbeda. Un capolavoro ritrovato» Venezia, Museo di Palazzo Grimani fino al 23 febbraio Orario ma-do, 8,15-19,15; lu, 8,15-14,00 Info tel. 041 5200345; e-mail: info@palazzogrimani.org; www.palazzogrimani.org

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Una famiglia di potenti e di amanti dell’arte Acquistato dallo Stato nel 1981 e affidato nel 2001 alla Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano, Palazzo Grimani è stato riaperto nel 2008 e costituisce per la città di Venezia una novità particolarmente preziosa di rilevanza internazionale, per l’originalità dell’architettura, per le decorazioni e per la storia che ne ha caratterizzato le vicende. Antonio Grimani, agli inizi del 1500, dona ai figli la casa da stazio: il complesso verrà poi completato grazie al nipote Giovanni, patriarca di Aquileia, e a suo fratello Vettore, procuratore di San Marco. È probabile che gli stessi eredi Grimani

siano intervenuti nella progettazione e nella decorazione del palazzo. L’architettura, che oggi possiamo finalmente vedere, fonde elementi tosco-romani con l’ambiente veneziano: tra gli altri sono particolarmente suggestivi la Tribuna, già sede della bellissima raccolta archeologica di Giovanni, il cortile, unico per la città di Venezia, e la bellissima scala di accesso. Straordinarie sono le decorazioni pittoriche. Come già per l’architettura, i Grimani si rivolgono ad artisti di formazione centro-italiana: Giovanni da Udine, Francesco e Giuseppe Salviati, Camillo Mantovano e Federico Zuccari. (informazioni tratte da www.palazzogrimani.org)

Il rimontaggio del San Giovannino di Ubeda presso l’Opificio delle Pietre Dure.

di tasselli marmorei: un intervento innovativo reso possibile grazie anche al confronto effettuato con le immagini recentemente ritrovate che mostrano inquadrature del volto e del retro della statua.

«avvistamenti» – a Berlino, New York, Washington –, si pensò al San Juanito, conservato a Ubeda, in Andalusia, nella cappella funeraria di Francisco de Los Cobos, potente segretario di Carlo V, ma anche colto e appassionato collezionista, omaggiato dalle corti europee.

Vestito di pelle di montone L’unione tra la moderna strumentazione, la ricerca archivistica condotta da Francesco Caglioti e la perseveranza del Settore dei Materiali Lapidei dell’Opificio delle Pietre dure ha ridato «vita», dopo 77 anni, al San Giovannino, confermandone la paternità a Michelangelo. La scultura è alta 130 cm e raffigura il santo vestito con una pelle di montone legata con una cintura, con labbra sottili, socchiuse, occhi piccoli e palpebre grandi, leggera peluria e capelli corti. Fino al 23 febbraio la si può ammirare in Palazzo Grimani, a Venezia, dopodiché ritornerà nella sua sede storica, a Ubeda, e collocata in una sala della Sacrestia. Mila Lavorini

Un omaggio preziosissimo In questo caso il dono diplomatico proveniva da Cosimo de’ Medici, in segno di riconoscenza per l’appoggio datogli dal sovrano, durante la sua scalata al potere come governante di Firenze, nel 1537. Il duca inviò in Spagna regali preziosissimi, indirizzati anche al secondo segretario imperiale, Nicolas Perrenot de Granvelle, ma per Cobos inserí un dono personale: una «statua» cosí importante che arrivò via mare fino a Cartagena, il porto piú vicino a Ubeda, dove era stata appena iniziata la costruzione della Capilla El Salvador. Sembrava il lieto fine di una tormentata ricerca, ma il peggio doveva ancora arrivare: nell’estate del 1936, la scultura fu rimossa dalla nicchia in cui alloggiava e ridotta in frantumi dalla furia iconoclasta dei repubblicani, nei primi giorni della guerra civile spagnola. Dopo la mutilazione, fu recuperato circa il 40% del manufatto, consistente in 17 pezzi di varie dimensioni e non contigui. La ricomposizione degli elementi

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superstiti si presentava alquanto complessa, vista anche la scarsa documentazione fotografica disponibile. L’utilizzo delle tecnologie digitali a scansione tridimensionale ha permesso di elaborare un modello virtuale e di determinare l’esatta posizione dei frammenti. Le parti originali sono state montate insieme alle «nuove» con magneti, rimovibili nel caso di ulteriori rinvenimenti

Errata corrige con riferimento all’articolo «Il capolavoro di Viscardus» (vedi «Medioevo» n. 203, dicembre 2013), desideriamo segnalare che, a p. 49, il particolare del mosaico della chiesa della Martorana (Palermo) raffigura la Dormizione della Vergine e non la Natività. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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Ante prima

Dalla Francia alle Marche restauri • Cesellato a Parigi sul

finire del Trecento, per i reali di Francia, il reliquiario poi associato a Sisto V è tornato al suo splendore originario, fatto dell’uso sapiente di smalti, oro e gemme

L

a storia del reliquiario di Sisto V si intreccia con quella di due papi che hanno contribuito a farci pervenire questa preziosa opera di oreficeria, realizzata in argento dorato ad amalgama di mercurio, a Parigi, nell’ultimo ventennio del XIV secolo, probabilmente dal raffinato Jean du Vivier, in uno degli atelier orafi che operavano per una clientela esclusiva, inclusa la casa reale di Francia. Già nella sua forma primitiva, l’oggetto è caratterizzato da una profusione di gemme e perle e dalla delicata lavorazione pointillé, diffusa Oltralpe, proprio in quel periodo, oltre che dall’esteso impiego degli smalti «en ronde bosse» (smalto coprente o traslucido applicato su rilievo in oro): lussuosi materiali soffusi in eccezionali varietà cromatiche comprendenti due tonalità di bianco, blu, azzurro, verde smeraldo, grigio e brillante rosso chiaro che lasciano trasparire l’oro sottostante, creando un sorprendente effetto visivo. Forse identificabile in uno dei preziosi pezzi elencati nell’inventario di Carlo V (1379-1380), Dove e quando

Esposizione del Reliquiario di Sisto V Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure fino al 3 maggio Orario lu-sa, 8,15-14,00; chiuso do e festivi Info tel. 055 2651357; www.opificiodellepietredure.it In alto il reliquiario di Sisto V e, a destra, un particolare della decorazione con l’immagine del Dio Padre. Ultimo ventennio del XIV sec. con modifiche nel XV e XVI sec. Montalto Marche, Museo Sistino Vescovile.

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in cui sono visibili un cammeo bizantino in sardonica, raffigurante Cristo, e una piccola lastra d’oro con un’iscrizione dedicatoria relativa al committente. Il ciclo iconografico della Passione, chiuso, in basso, da una drammatica Deposizione, è affiancato da due vani quadrangolari contenenti le reliquie. Ciascun dettaglio è minuziosamente eseguito, fino addirittura a riconoscere alcune piante, come la calendula, il biancospino e la viola, nella decorazione vegetale della tavola. Cento anni piú tardi, l’orafo romano Diomede Vanni, incaricato della ripulitura e rassettatura del manufatto, aggiunse sulla banda dello stemma preesistente la stella e tre monti, emblemi di papa Sisto V, il quale, nel 1587, lo sottrae al Tesoro vaticano per donarlo alla cittadina di Montalto nelle Marche, sua «patria carissima».

Lo smontaggio e la pulitura al microscopio conservati al Louvre, nell’oratorio della Cappellina del re francese, il reliquiario passa da una corte all’altra, finché nel 1450, Lionello d’Este lo acquista da un mercante tedesco. Nel 1457, il manufatto ricompare nelle ricognizioni del tesoro di Carlo VI e, successivamente, anche in quelle del cardinale veneziano Pietro Barbo, il futuro papa Paolo II.

Un leone rampante per papa Paolo II Proprio al pontefice che aveva raccolto nel suo palazzo romano di S. Marco una ricca collezione, si devono le prime sostanziali modifiche apportate al Reliquiario, eseguite da una bottega orafa veneta. Oltre ad apporvi per ben quattro volte il proprio stemma cardinalizio (d’azzurro al leone rampante, attraversato da una banda), inserisce la parte anteriore, che consiste in una tavola d’argento dorato, in una nuova montatura in argento dorato, quadrangolare, con ornati floreali e vegetali. Contemporaneamente, la rappresentazione dell’Orazione nell’orto, sul retro, viene eliminata e sostituita con una specchiatura aniconica, mentre sulla sommità viene posta una edicola a incorniciare un medaglione d’oro, In alto particolare della faccia anteriore del reliquiario di Sisto V, con un angelo che sorregge il Cristo, e, a destra, il retro del prezioso manufatto. Fine del XIV sec., con modifiche successive. Montalto Marche, Museo Sistino Vescovile.

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Le vicissitudini storiche e i passaggi di proprietà del manufatto ne hanno determinato le complesse variazioni morfologiche e stilistiche che, nel tempo, ne avevano compromesso l’integrità. Si è quindi reso necessario procedere a un intervento conservativo, dettato dalla fioritura, sull’intera superficie metallica di un velo uniforme di composti salini, derivati dall’interazione della lega d’argento con l’acido formico esalato dal legno della vetrina dove l’opera era da tempo conservata. Inoltre, nella parte inferiore della tavola smaltata, si notavano alcune sbollature della doratura e diffuse fratture che devastavano il vasto prato fiorito con il Compianto sul Cristo, eseguito non in oro, ma in argento, molto probabilmente per motivi di resa cromatica. L’antichità dell’opera, la complessità strutturale e la preziosità degli smalti imponevano caute operazioni, effettuate dopo lo smontaggio parziale del reliquiario, i cui preziosi smalti sono stati ripuliti con l’ausilio del microscopio dai restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure. Il reliquiario di Sisto V è in mostra presso il Museo dell’OPD, a Firenze fino al 3 maggio 2014. Successivamente verrà riportato al Museo Sistino di Montalto, ed esposto dal 7 giugno al 14 settembre 2014, prima di essere collocato in una nuova vetrina con un ambiente microclimatico controllato, che garantirà le migliori condizioni per la sua corretta conservazione. M. L.

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Ante prima

Una felice mescolanza di stili

restauri • Opera di maestranze lombarde, la pieve

romanica di S. Zaccaria fa suoi e rielabora modelli e soluzioni di origine piemontese e transalpina

A

dagiata tra i dolci e verdi colli della valle Ardivestra, la solitaria pieve romanica di S. Zaccaria a Rocca Susella (Pavia), nell’Appennino ligure-emiliano, è ritenuta una delle emergenze monumentali piú interessanti dell’Oltrepò. Costruita da maestranze lombarde nel XII secolo, la chiesa è citata in una bolla, emanata il 30 aprile 1198 da papa Innocenzo III, per confermare al vescovo di Tortona i privilegi ecclesiastici entro il territorio della diocesi. Il tempietto svolse le funzioni di capopieve fino agli inizi dell’Ottocento. Poi, progressivamente abbandonato, fu sconsacrato. Riaperto al culto, è ora tornato all’antico splendore, grazie a un provvidenziale restauro conservativo.

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In alto Rocca Susella (Pavia). Un particolare della facciata della pieve romanica di S. Zaccaria prima del restauro. A destra la facciata della pieve al termine dell’intervento che l’ha recentemente interessata. La prima parte dell’intervento ha permesso il ripristino della caratteristica facciata policroma. Realizzata nella prima metà del XII secolo, la fronte è ornata da fasce rosse in laterizi alternate a

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

liste bianche in arenaria grigia ed è ingentilita dal lineare portale, sormontato da una bifora e due oculi. La modalità nella distribuzione della scansione listata è quella cosiddetta «a zebra». febbraio

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Riferibile all’ambito lombardocomasco per l’attenzione ai materiali e alla raffinatezza esecutiva, ha come importante precedente la decorazione nella facciata della scomparsa cattedrale invernale di S. Maria del Popolo a Pavia.

Sul modello francese Lo schema regolare del complemento decorativo in S. Zaccaria, però, mostra pure una straordinaria affinità con la tecnica edificatoria della «scuola del Monferrato». I procedimenti monferrini, contraddistinti da murature policrome, organizzate in filari regolari di mattoni con dimensioni assai diversificate, assimilano forme mutuate dalla Provenza e dalla Francia settentrionale e producono risultati di ordinata e razionale variatio. Durante i lavori di restauro è stata ripulita la policromia delle mura, alterata da croste e patine scure di sporco tenace, provocate da sali, smog e sostanze organiche. Le discontinuità tra i conci in arenaria e laterizio, che versavano in pessime condizioni per l’elevata frantumazione dei singoli elementi, sono state colmate «unificando» la superficie e inserendo perni metallici per la riadesione di porzioni distaccate o in fase di distacco. Inoltre, per consolidare le parti lapidee e quelle in arenaria e in cotto sono stati impiegati due prodotti innovativi: la «nano salice», dall’eccezionale effetto consolidante e traspirante, e il «templum arenaria», un materiale di finitura per la ricostruzione mimetica di lacune e consolidamenti strutturali. L’interno è scandito in tre navate e suddiviso in campate con arcate longitudinali a doppia ghiera, impostate su sostegni compositi. Le pareti in pietra, con letti di malta ampi nel corpo del manufatto e sottili nella zona absidale e nella prima campata, sono state lasciate a vista. Le continue sovrapposizioni di calce, che nel tempo avevano coperto l’arenaria, sono state rimosse, cosí come le patine

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In alto l’esterno dell’abside della pieve di S. Zaccaria. A destra l’interno della chiesa, che si articola in tre navate.

derivanti dai residui di bruciature, incendi e fumo di candela.

Figure allegoriche e simbologie Due capitelli istoriati con figure zoomorfe, poco comuni in zona e ancora da restaurare, impreziosiscono i semipilastri a fascio del presbiterio. Una sorta di horror vacui ha spinto l’artefice a occupare con rappresentazioni di accentuata rilevanza plastica ogni spazio disponibile. La scena sul capitello meridionale rimanda all’ambito iconografico della Contesa dell’anima. Un angelo afferra la figurina che simboleggia l’anima sotto le braccia, tra i fianchi e le spalle, mentre il Demonio la trattiene per un piede. Invece l’immagine sul capitello

settentrionale ritrae una lotta tra uomini e animali. Nella faccia principale, alcuni leoni, forse contaminati dall’effigie mitologica della chimera per l’andamento serpentiforme delle code, atterrano e schiacciano alcuni uomini. La fiera e l’uomo mancano di adeguate proporzioni, ciò sembra giustificato dalla natura fantastica e simbolica della bestia. Nel pilastrino angolare a nord una sirena, allegoria di seduzione e lussuria, attira l’anima alla perdizione. I lavori di recupero della pieve, finanziati dalla Fondazione Comunitaria della Provincia di Pavia Onlus, sono stati coordinati dalla Soprintendenza per i beni Architettonici di Milano ed eseguiti dallo Studio d’Arte Gabbantichità. Chiara Parente

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Ante prima

Nella valle dei castelli

restauri • La Valbrevenna, nell’entroterra genovese, ebbe un ruolo strategico

importante nel Medioevo e si popolò di rocche e presidi. Per uno di essi, a Senàrega, strappato all’abbandono, è cominciata una seconda vita, all’insegna della cultura

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opo anni di incuria, il complesso del borgo medievale e del castello dei Fieschi a Senàrega (Genova), situato nel cuore del Parco Naturale Regionale dell’Antola, polmone verde alle spalle di Genova, conosce una nuova rinascita, grazie al finanziamento dell’Unione Europea per la «Valorizzazione delle risorse culturali e naturali». Nascosto tra i fitti boschi dell’Appennino ligure, il piccolo insediamento montano si trova in Valbrevenna, una valle secondaria, che si dirama dall’Alta Valle Scrivia e ha conservato la marcata integrità dell’impianto urbanistico originario, in perfetta simbiosi con l’ambiente circostante. Al rustico abitato, caratterizzato da secolari case in pietra, protette dalla poderosa mole castello e dalla parrocchiale

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dell’Assunta, ricostruita nel 1650 su un preesistente edificio religioso risalente al 1248, si accede oltrepassando un robusto ponte, gettato tra sponde rocciose, accanto al quale si eleva la chiesetta porticata della Madonna del Ponte.

Dall’oblio al recupero A partire agli anni Cinquanta del Novecento questo paesino da presepe, isolato dalle principali cittadine del Genovesato, anche per la mancanza di un’adeguata rete stradale, è stato progressivamente abbandonato. Il progetto di «restauro e recupero funzionale del castello dei Fieschi di Senàrega e la riqualificazione degli spazi complementari del borgo», promosso dalla Regione Liguria e dalla Comunità Montana, si febbraio

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Nella pagina accanto, in alto Senàrega (Genova). Il castello dei Fieschi, che, recentemente resaturato, ospiterà una foresteria e destinerà parte dei suoi spazi ad attività culturali. Nella pagina accanto, in basso l’ingresso di una delle case del borgo sviluppatosi attorno al forte.

In alto la chiesa del borgo di Senàrega. A sinistra il ponte in pietra sul Brevenna.

inserisce nel sistema di «una valle di castelli», che, nel tempo, permetterà di avviare interventi, anche in altri castelli della valle Scrivia, legati alle famiglie Spinola e Fieschi.

Una casata in ascesa Il patrimonio territoriale della grande famiglia dei Fieschi, dal 1031 – anno a cui risale la prima concessione di un territorio – venne via via consolidandosi lungo importanti vie di comunicazione, controllate attentamente secondo una precisa strategia. Nel corso del Duecento, favoriti dal pontificato di Innocenzo IV (1243-1254) e approfittando della situazione politica a loro vantaggio e dalla relativa organicità dei territori posseduti, i Fieschi riuscirono a crearsi un dominio di vasto respiro,

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che comprendeva anche fortezze e importanti posti di transito, disseminati nelle zone piú prossime al retroterra di Genova. Le testimonianze della loro marcata presenza in Alta Valle Scrivia, si spiegano poiché l’area costituiva il principale snodo di passaggio tra Genova e l’interno padano e pedemontano. Soggetta a contese tra clan, la zona, tra il XII e il XV secolo, divenne di fatto uno «Stato», controllato dagli Spinola, nei punti chiave di Busalla, Borgo Fornari e Ronco, e dai Fieschi nei siti nevralgici di Savignone, Casella, Montaggio, Torriglia, Senàrega, Montessoro e Crocefieschi. Numerose fortezze arroccate sui gioghi montani preappenninici dominavano i tracciati stradali, che si dipanavano in Valle Scrivia

e da Senàrega, che storicamente rappresenta il piú importante dei borghi della Valbrevenna, passavano frequentati itinerari tra la costa, il retroterra e la Pianura Padana.

La rinascita è vicina Condotto dalla Soprintendenza di Genova, il restauro del castello ha portato al recupero delle facciate e degli interni, destinati a ospitare anche una foresteria. L’analisi del degrado ha evidenziato intensi fenomeni di erosione, dovuti all’azione combinata del vento e dell’acqua. I lavori di recupero hanno interessato anche l’oratorio, posto sul percorso di accesso al maniero, nel lato orientale del paese. Il tempietto, in buone condizioni statiche e in uno stato di conservazione discreto, è ad aula unica, coperta con una volta lignea. Da tempo sconsacrato, è stato sottoposto a interventi di adeguamento e riqualificazione, con una destinazione complementare a quella del forte, che prevede l’utilizzo della sala interna per conferenze, mostre ed esposizioni. C. P.

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Ante prima

Il risveglio dell’orso appuntamenti •

Il plantigrado è il protagonista del Carnevale di Valdieri, attestato fin dal XII secolo

A

Valdieri (Cuneo), nel periodo di Carnevale, quest’anno il 9 marzo, termina il letargo dell’Orso di Segale, l’uars et sel. Risvegliatosi dal lungo sonno, il plantigrado esce dalla tana e si aggira per le vie del paese ad annunciare l’imminente arrivo della Pasqua e l’inizio di una nuova annata agraria. Nel Cuneese, l’importanza simbolica dell’orso, considerato dal calendario contadino sia personificazione del Carnevale, che simbolo del selvatico, è già documentata nei secoli XII e XIII da alcune norme consuetudinarie. Inserito tra le feste che nel mondo rurale scandiscono lo scorrere del tempo e il ciclo dei lavori agricoli, il Carnevale di Valdieri è organizzato dall’Ecomuseo della Segale, dal Comune e dalla Pro Loco. Interrotta per quasi quarant’anni e ripresa nel 2004, la cerimonia, è stata riscoperta grazie al progetto «Rinselvatichire» (termine riferito a un auspicato ritorno ai ritmi costitutivi della tradizione), che, promosso dalla Regione Piemonte, dall’Università di Torino e dall’Ecomuseo della Segale, ha portato anche al recupero di altri costumi rituali di esseri selvatici, sparsi per le campagne e le vallate alpine del Piemonte. Il recupero filologico del costume, reso possibile grazie a un anziano informatore, per l’elaborata preparazione dell’abito rappresenta un importante esempio di antropologia applicata alla conoscenza di antichi saperi contadini. Per confezionarlo, infatti, occorre realizzare lunghissimi legacci di paglia ritorta, simili a

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una «corda», con cui avvolgere il corpo dell’attore e modellare la coda dell’animale. Cosí «impagliato», l’uomo cela il capo indossando un cappello, anch’esso fatto con un fascio di segale. Mani e volto sono anneriti con un turacciolo bruciato.

l’eliminazione della natura selvatica dell’orso attraverso la fuga e la sostituzione del plantigrado con un ciciu, un simbolico fantoccio di paglia di segale, che brucia nella piazza principale del paese. C. P.

La fuga e la cattura Al termine della vestizione, l’attore/ orso sbuca dal suo nascondiglio segreto e fa irruzione tra la folla in cerca di cibo, accompagnato dai Peroulier, ragazzini mascherati da spazzacamini e dai Frà, frati che declamano epistole scherzose. Catturato e ridotto in catene, è trascinato in piazza, dove, dopo una feroce lotta con il domatore, riesce a fuggire. L’inseguimento e l’addomesticamento della bestia sono propiziatori. Alludono al trionfo della dolce primavera sull’aggressivo maltempo invernale, alla vittoria del bene sul male. Tutto ciò che per una mentalità primitiva nuoce e ostacola il felice rinnovarsi della natura è allontanato, distrutto, purificato. Non a caso il rito di Valdieri prevede Due immagini del Carnevale di Valdieri, che ruota intorno all’Orso di Segale. febbraio

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Ante prima

Piovono dolciumi e suonano i barattoli appuntamenti • Il Carnevale di Fano culminava in origine con il lancio dei

biscotti di miele da parte del vincitore del Palio. Oggi il gesto si ripete con altri ingredienti, al ritmo allegro di una banda musicale davvero singolare...

S

e il carnevale di Venezia è caratterizzato da atmosfere aristocratiche del Sei-Settecento, e quello di Viareggio da una moderna goliardia nata alla fine dell’Ottocento, il Carnevale di Fano si esalta invece in una genuina espressione popolaresca le cui origini risalgono al Medioevo. Nella cittadina marchigiana le feste pre-quaresimali affondano le proprie radici nel XIV secolo e risalirebbero alla riconciliazione delle due piú importanti famiglie cittadine del tempo, i Del Cassero e i Da Carignano. Un documento del 1347 conservato nell’Archivio storico comunale fa già cenno ai festeggiamenti durante il periodo di carnevale, mentre il successivo Statuto dei Malatesti, datato al 1450, riporta lo svolgimento di un Palio disputato con cavalli e asini, al termine del quale il vincitore lanciava al pubblico biscotti al miele. Il gesto simbolico del «getto» si è protratto fino a oggi, quando nelle ultime tre domeniche di Carnevale (quest’anno il 16 e 23 febbraio, e il 2 marzo) le sfilate dei carri allegorici richiamano nel centro marchigiano oltre 100 000 spettatori.

Caramelle a quintali Anziché coriandoli o nastri filanti, le maschere poste sui carri gettano al pubblico quintali di dolciumi: caramelle, cioccolate, torroni, confetti, gianduie, croccanti, cremini e altre goloserie. I carri raffigurano mastodontici personaggi o scene ispirate al costume e all’attualità,

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ma propongono anche trucchi e macchinazioni sceniche. Questi colossi, pesanti fino a 80 q, veri e propri palcoscenici semoventi, sono decorati dai maestri cartapestai locali: una tradizione, quella degli scenografi fanesi, che ebbe la sua massima espressione nel XVII secolo in Giacomo Torelli, scenografo, ingegnere e architetto del periodo barocco, geniale inventore alla corte del Re Sole. A Fano la maschera tradizionale è il Pupo, detto «vulon», che rappresenta, sotto forma di caricatura, i personaggi piú in vista della città. Altro elemento originale di questo carnevale è la

Un momento della sfilata che ogni anno anima le vie di Fano in occasione dei festeggiamenti per il Carnevale. Musica Arabita: una banda nata nel 1923, che utilizza strumenti di uso comune quali barattoli di latta, bidoni, bottiglie e caffettiere per produrre ritmi allegri. Nelle ultime tre domeniche di carnevale le sfilate dei carri si concludono dopo il tramonto con il suggestivo «giro della luminaria», una festa di luci e colori che si snoda per i 2 chilometri del percorso. L’ingresso alle sfilate e agli eventi di piazza è gratuito. Tiziano Zaccaria febbraio

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Ante prima

Quando i diavoli scacciarono i Turchi... appuntamenti • Nel 1687, a Mohács, in Ungheria, l’assedio dei temibili soldati

ottomani sarebbe stato spezzato da un gruppo di coraggiosi abitanti, travestiti da esseri demoniaci. Una leggenda curiosa, a cui si ispirano le feste del Carnevale Un momento del Carnevale di Mohács, di cui sono protagonisti i Busó, uomini che indossano pelli di montone e hanno il volto coperto da una maschera in legno di salice con grandi corna.

M

ohács, centro ungherese nella regione della Pannonia meridionale, è uno dei principali porti commerciali sul Danubio. Il suo nome è legato a una delle giornate piú terribili della storia del Paese magiaro: il 29 agosto 1526, data in cui il regno d’Ungheria finí sotto il dominio turco dopo una cruenta battaglia combattuta in questa città, nella quale cadde lo stesso re Luigi II. Oggi l’eroismo del popolo ungherese, che cercò inutilmente di difendersi, è ricordato dalla chiesa commemorativa in stile bizantino innalzata nella centrale piazza Szechenyiter. Mohács si liberò dall’oppressione turca soltanto un secolo e mezzo piú tardi, nel 1687. Secondo la leggenda, per sfuggire alle angherie ottomane la gente

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del posto si era rifugiata sull’isola sul Danubio di fronte alla città. Una notte i giovani avrebbero indossato pelli di pecora, maschere diaboliche e campanacci, e, dopo aver guadato il fiume su piccole barche, si sarebbero scagliati contro i Turchi facendo un gran baccano con strumenti improvvisati, riuscendo cosí a metterli in fuga.

Maschere propiziatorie Una leggenda ovviamente priva di fondamento; tuttavia ancora oggi ogni anno i Diavoli di Mohács attraversano il Danubio e il loro approdo in città segna l’inizio del carnevale. È la tradizione del Busójárás: un rito nato probabilmente qualche anno dopo la liberazione dal dominio turco,

quando numerosi Serbi si stabilirono in questa zona, portandovi un’antica festa popolare di origine balcanica, con maschere terrificanti di significato propiziatorio. Oggi il Carnevale di Mohács, il piú importante e suggestivo d’Ungheria, si celebra nei sei giorni che precedono la Quaresima, dal giovedí al martedí grasso (quest’anno dal 27 febbraio al 4 marzo). Elemento centrale sono i Busó, uomini che indossano pelli di montone, un campanaccio penzolante, calzoni imbottiti di paglia, una maschera lignea intagliata nel salice ed enormi corna in testa; inoltre hanno in mano una clava di legno con la quale provocano un gran fracasso. Sono scortati dagli jankele, con sacchi pieni di cenere, farina o segatura, il cui compito è quello di tenere lontani curiosi e bambini. Il giovedí grasso i Busò si radunano nella piazza principale divisi in gruppi secondo la rispettiva «arma»: il cannone, la ruota del diavolo, il carro, il corno, ecc. In seguito sfilano fino al municipio, dove una delegazione viene ricevuta dal sindaco con pane, grappa e vino. Nei giorni successivi le maschere festeggiano rumorosamente il Carnevale lungo la riva del Danubio e nelle vie adiacenti, proponendo antiche danze, poi all’imbrunire improvvisano giochi in piazza attorno a un gran falò. Il martedí grasso, il rogo della bara che simboleggia l’inverno serve a propiziare l’arrivo della primavera. T. Z. febbraio

MEDIOEVO





agenda del mese

Mostre roma Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro U Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra fino al 16 febbraio

Lasciano Napoli per la prima volta i capolavori del Museo di San Gennaro: oltre novanta opere, che offrono un assaggio di un tesoro che conta oltre 21mila pezzi, donati in settecento anni di devozione, e che ripercorrono la storia di un culto legato a doppio filo a Napoli, ma anche le ragioni del suo radicarsi in modo tanto particolare sia in loco che fra i sovrani di tutta Europa. Da segnalare è la presenza di due opere angioine di rarità assoluta: il busto reliquiario commissionato da Carlo II d’Angiò (1254-1309) a tre orafi

a cura di Stefano Mammini

provenzali e realizzato fra il 1304 e l’anno successivo; e il reliquiario tronetto per il trasporto in processione delle ampolle con il sangue di san Gennaro, commissionato invece da Roberto d’Angiò (1277-1343), figlio di Carlo II. info tel. 06 69205060; www. fondazioneromamuseo.it Trento La città e l’archeologia del sacro: il recupero dell’area di S. Maria Maggiore U Museo Diocesano Tridentino fino al 23 febbraio

della chiesa, offrendo l’opportunità di conoscere gli esiti di un ampio lavoro di ricerca che ha restituito alla città una fase importante e poco nota della sua storia. L’esposizione, inoltre, contestualizza le testimonianze venute alla luce durante lo scavo, integrando le novità emerse dallo studio di questi reperti con le conoscenze già acquisite nei precedenti interventi nell’area di S. Maria Maggiore e in altri siti della città. Mediante l’esposizione di reperti particolarmente evocativi, alcuni dei

Dopo il complesso intervento di scavo condotto in S. Maria Maggiore tra il 2007 e il 2011, la mostra propone per la prima volta i reperti rinvenuti nel sottosuolo

New York Silla: il regno d’oro di Corea U The Metropolitan Museum of Art fino al 24 febbraio

quali riferiti agli altri luoghi di culto, come la basilica di S. Vigilio, S. Apollinare, la chiesa del Doss Trento, S. Lorenzo, l’esposizione fornisce al visitatore un’esaustiva panoramica dei siti archeologici cittadini riferibili alla Trento paleocristiana. Cuore dell’esposizione sono comunque gli scavi effettuati nel sottosuolo di S. Maria Maggiore. L’indagine archeologica ha permesso di ipotizzare che la zona in età

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romana (fine del I secolo d.C.) fosse occupata da un impianto termale pubblico del quale restano solo alcune tracce; in mostra sono presentati materiali lapidei appartenenti alle strutture e all’arredo di tali ambienti. Lo scavo, inoltre, ha evidenziato il definitivo abbandono dell’impianto romano tra IV e V secolo d.C. e, di conseguenza, un mutamento di funzione dell’area sulla quale sorgerà l’ecclesia. info tel. 0461 234419; e-mail: info@museo diocesanotridentino.it; www.museodiocesano tridentino.it

Lo Stato coreano di Silla, nato alla metà del I secolo a.C. nella zona sudorientale della penisola coreana, visse il suo momento di massimo splendore tra il 400 e l’800 d.C., un’età dell’oro a cui il Metropolitan Museum of Art dedica ora un’ampia rassegna, la

prima mai allestita in Occidente su questo tema. Attraverso le opere selezionate – oltre un centinaio, tra cui spiccano magnifiche oreficerie e manufatti legati alla pratica della religione buddhista – la storia di questa importante realtà viene dunque ripercorsa nelle sue tappe principali, che videro il regno di Silla assumere una connotazione cosmpolita. Fautori dell’espansione del regno furono i sovrani che si succedettero alla guida dello Stato dal V secolo in poi; personaggi oggi noti soprattutto grazie ai materiali recuperati nei loro monumenti funerari, realizzati nell’area dell’allora capitale Kum-song (l’odierna Geyongju), inserita nel 2000 dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Ai preziosi corredi funebri sono dedicate le prime sezioni del percorso espositivo, che poi, nell’ampio e ricco capitolo conclusivo, documenta le manifestazioni artistiche legate alla diffusione del

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mostre • Un CinQuecento inQuieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo U Conegliano – Palazzo Sarcinelli

fino all’08 giugno (dal 1° marzo) – info www.uncinquecentoinquieto.it

L

a mostra vuole indagare, raccontare, testimoniare l’importanza del primo Cinquecento coneglianese nella storia dell’arte italiana. Nel XVI secolo, infatti, Conegliano vive un’eccezionale esperienza di cultura e si impone come uno dei cuori culturalmente piú dinamici del territorio veneto. La città, con i suoi immediati dintorni, da Serravalle a Montello fino ad Asolo, per una serie di circostanze storiche e territoriali e per la sua ineguagliabile qualità ambientale e paesaggistica, è stata un centro di interessi culturali e testimonianze artistiche e letterarie di singolare ricchezza, luogo di incontri e convergenze dei protagonisti della storia dell’arte: da Cima a Pordenone, da Lotto a Tiziano. Nel contempo, la presenza attiva, anche culturalmente, dei conti di Collalto, famiglia feudale imperiale, e del loro castello a Susegana, è una calamita e ragione di attrattiva per personalità del calibro di Aretino e di Monsignor Della Casa, con ulteriore estensione a Gaspara Stampa, oltre che a Elisabetta Querini. Attorno a Conegliano si registra poi un fiorire di presenze «riformate» ben incardinate nelle parrocchie, nei conventi e tra gli occasionali predicatori, che avrà un suo risvolto anche nell’ordine dei segni e dei simboli di un’iconografia religiosa inquieta e talvolta di rottura (illustrata tragicamente nell’episodio di Riccardo Perucolo bruciato in piazza come eretico). Di questo affascinante e inquieto momento storico l’esposizione percorre i tratti salienti, soprattutto negli esiti pittorici, documentando la presenza e gli influssi da alcuni dei protagonisti di una stagione d’arte manifestata in dipinti di ufficiale e di pubblica devozione, opere piú sommesse e private, decorazioni e prodotti d’arte applicata, stoffe e suppellettili religiose e profane. buddhismo. La dottrina di origine indiana fu adottata come religione dello Stato di Silla nel 528 e tale passo segnò un mutamento decisivo nella società e nella cultura. Pervasa da uno slancio estetico assolutamente originale, l’arte buddhista della Corea reinterpreta i canoni elaborati in Cina e nei centri del Sud-Est asiatico, facendosi espressione della natura pan-asiatica del credo ispirato da Gautama Buddha. info www.metmuseum.org firenze La via al Principe: Niccolò Machiavelli da Firenze a San Casciano U Biblioteca Nazionale Centrale, Sala Galileo-Tribuna Dantesca fino al 28 febbraio

L’esposizione è nata con l’intento di

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febbraio

presentare, anche ai non specialisti, il Machiavelli «storico», per sfatare il Machiavelli «mitico», fondato su una

conoscenza arbitraria e spesso lacunosa della sua opera e della sua biografia. Le nove sezioni del percorso, biografico e cronologico, ricostruiscono la figura del grande pensatore e letterato fino alla stesura del Principe (1532): una biografia

tortuosa per una vita difficile, dagli studi dell’infanzia, fino alla Segreteria della Repubblica, alla caduta in disgrazia, all’esilio di San Casciano e alla redazione dell’opera che lo ha reso immortale. Fra i tesori in mostra vi sono il manoscritto autografo dell’Arte della guerra e la Tavola Doria, che s’ipotizza sia una copia tratta dall’affresco leonardesco Battaglia d’Anghiari, se non eseguita dallo stesso Leonardo, databile post 1503. Dopo il clamoroso ritorno in Italia a seguito di un accordo internazionale con il Tokyo Fuji Art Museum (la nostra polizia le dava la caccia dal 1938), La Tavola Doria è stata esposta in Italia solo nel novembre 2012 a

Roma, nelle sale del Quirinale e, piú recentemente, ad Anghiari. La sua presenza nella mostra di Firenze è l’ultima occasione per ammirarla prima del suo rientro in Giappone, previsto dall’accordo con il museo giapponese. info tel. 055 24919201; e-mail: bnc-fi@ beniculturali.it. milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio

Punto di forza della mostra, dedicata a Leonardo artista e inventore, sono le oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata

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agenda del mese al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum

sapientemente selezionate, la mostra riesce a dar conto sia delle virtú magistrali del pittore empolese, sia dell’influenza a gittata lunga esercitata dalla sua espressione nei luoghi intorno al suo natio. info tel. 0571 994346

empoli

Bonn

Pontormo e il suo seguito nelle terre d’Empoli U Casa del Pontormo, Chiesa e Compagnia di San Michele arcangelo fino al 2 marzo

Firenze! U Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland fino al 9 marzo

Nato nel 1494 nel borgo di Pontorme, a Empoli, il Pontormo (al secolo Jacopo Carucci), è uno dei massimi

Crescita, sviluppo e trasformazioni del tessuto urbano attraverso i secoli: è questo il filo conduttore dell’esposizione con

pittori italiani del Cinquecento. La mostra che lo celebra vuole essere il fil rouge che collega tutti quegli artisti che ebbero in lui un modello da seguire, e che hanno lasciato un segno tangibile nel nostro territorio. La rassegna celebra dunque il Pontormo nel suo luogo natio, non solo aprendo a un piú vasto pubblico la sua «casa», ma anche mostrando l’eredità culturale lasciata nel territorio empolese. Con opere

cui la Germania celebra Firenze e i suoi artisti. La mostra presenta un ritratto della città e del suo «spirito», da potenza finanziaria e mercantile nel Medioevo a laboratorio propulsore di arti e scienze nel Quattrocento e Cinquecento, fino al suo imporsi come centro intellettuale e cosmopolita tra il XVIII e il XIX secolo. Sono cinque le sezioni del percorso espositivo, che si snoda cronologicamente,

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New York piero della francesca: incontri personali U The Metropolitan Museum of Art fino al 30 marzo

introdotto dall’Allegoria della Divina Commedia di Domenico di Michelino, omaggio alla città e al suo insigne poeta. info www. bundeskunsthalle.de

Nata innanzitutto grazie alla collaborazione con le Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, la mostra presenta quattro dipinti devozionali realizzati da Piero della Francesca, che si trovano cosí riuniti per la prima volta: il San Girolamo e il donatore Girolamo Amadi (da Venezia), la Madonna di Senigallia (da Urbino), il San Girolamo

penitente (dalla Gemäldegalerie di Berlino) e una Madonna con Bambino facente parte di una collezione privata newyorchese. L’intento dell’esposizione, pur nella sua limitata selezione, è quello di indagare il contributo dato dal grande maestro toscano alla produzione di opere di devozione privata. info www.metmuseum.org Saint-Romain-engal - vienne Gli irochesi del San Lorenzo, popolo del mais U Musée romain fino al 15 aprile

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Gruppo etno-linguistico dell’America Settentrionale, gli Irochesi erano genti agricole riunite nella Lega delle Cinque Nazioni, un’unione formatasi a sud del lago Ontario fra le tribú Onondaga, Mohawk, Seneca, Kayuga e Oneida (e in seguito estesa ad altre tribú). Stanziate sulle sponde del fiume San Lorenzo fino al XVI secolo, queste comunità sono protagoniste di un’ampia esposizione, che riunisce materiali provenienti da siti archeologici scoperti in Quebec, nell’Ontario e nello Stato di New York. I reperti ricostruiscono il modus vivendi del popolo irochese, che basava la propria sussistenza sull’agricoltura e introdusse nella valle del San Lorenzo la coltivazione del mais. La documentazione offerta da questi oggetti è integrata dalle notizie contenute nel resoconto dell’esploratore bretone Jacques Cartier, che incontrò gli Irochesi nel 1534-1535, in occasione del suo primo viaggio in America. info www.musees-galloromains.com

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firenze

ascoli piceno

UNA VOLTA NELLA VITA. TESORI DAGLI ARCHIVI E DALLE BIBLIOTECHE DI FIRENZE U Galleria Palatina fino al 27 aprile

angeli nel medioevo ascolano U Pinacoteca Civica, Sala della Vittoria fino al 4 maggio

Tre documenti archivistici di Michelangelo; un disegno di Raffaello; il certificato di battesimo di Leonardo da Vinci e un altro testo che reca le sue postille; una lezione scritta di Galileo sull’Inferno di Dante; opere di Andrea Mantegna, Alessandro Allori e Giovanni Stradano; autografi di Girolamo Savonarola, Poliziano, Cosimo I de’ Medici, Joachim Winckelmann, Ugo Foscolo, Giuseppe Pelli Bencivenni, Giovanni Fabbroni, Pietro Vieusseux, Eugenio Barsanti, Vasco Pratolini, Eduardo De Filippo e Dino Campana, del Premio Nobel Eugenio Montale, presente anche con due inediti acquerelli. Tutto questo, e molto altro, è possibile ammirare nella mostra in programma nella Sala Bianca di Palazzo Pitti. Obiettivo dell’esposizione è quello di offrire l’opportunità di ammirare tesori cartacei custoditi in alcuni dei principali «scrigni» culturali della città. Tra i quali non manca una selezione di inediti, sequenza di «mai visti» di carta che arrivano da vari archivi e biblioteche. info tel. 055 2388614; www.uffizi.firenze.it

La mostra è la prima tappa di un progetto triennale sul tema degli angeli nella tradizione artistica ascolana dal Medioevo al XIX secolo. Un programma che prevede, nel triennio 2013-2015, la realizzazione di tre esposizioni che presentano opere (dipinti, sculture, miniature, oreficeria...) raffiguranti «angeli» provenienti dall’Ascolano. L’obiettivo è quello di presentare il ricco patrimonio di opere

presenti nel territorio, accomunate appunto dal tema degli angeli, scelto come osservatorio sul piú vasto ambito dell’arte sacra. Il risultato atteso è quello di uno studio organico del tema, divulgato attraverso la realizzazione di un catalogo-mostra, e quindi la diffusione della conoscenza del patrimonio storico artistico del territorio. info www.associazione giovaneuropa.eu

Londra Bellezza insolita: Maestri del Rinascimento tedesco U The National Gallery fino all’11 maggio (dal 19 febbraio)

Che cosa determina la bellezza di un’opera d’arte? E in quale misura la percezione di questa qualità può mutare in funzione del contesto in cui vive il suo osservatore? Sono questi i quesiti che hanno ispirato la mostra che la National Gallery dedica ai maestri del Rinascimento tedesco. La rassegna presenta in una prospettiva diversa dipinti, disegni e stampe di artisti notissimi, come Hans Holbein il Giovane, Albrecht Dürer e Lucas Cranach il Vecchio; opere di cui viene ricostruita l’accoglienza che ebbero presso i contemporanei e nel recente passato,

confrontandola con il modo in cui vengono oggi fruite. Il Rinascimento tedesco fu parte del piú ampio risveglio culturale e artistico che interessò il Nord Europa tra il XV e il XVI secolo e grazie ai suoi talenti migliori, che sono appunto i protagonisti della mostra londinese, guadagnò presto fama internazionale. info www.nationalgallery. org.uk firenze RI-CONOSCERE MICHELANGELO. LA SCULTURA DEL BUONARROTI NELLA FOTOGRAFIA E NELLA PITTURA DALL’OTTOCENTO AD OGGI U Galleria dell’Accademia fino al 18 maggio (dal 18 febbraio)

Realizzata in occasione delle celebrazioni per i quattrocentocinquanta anni dalla morte di Michelangelo Buonarroti, la mostra affronta il complesso

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agenda del mese tema del rinnovato interesse e dell’ammirazione per l’artista dall’Ottocento alla contemporaneità, attraverso l’opera di scultori, pittori e fotografi che hanno guardato alla figura del Buonarroti e alle sue opere come riferimento iconografico per le loro

realizzazioni. Partendo dalla produzione fotografica realizzata da alcuni tra i piú noti atelier e professionisti del XIX e del XX secolo, viene evidenziato il ruolo determinante che la fotografia ha svolto nel consolidare la fortuna critica e iconografica di Michelangelo e, attraverso di essa, la celebrazione del suo mito. Una lettura trasversale, in chiave storico-fotografica, che mette al centro il ruolo svolto dalla fotografia, fin dalle sue origini, nel celebrare uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, e nell’eleggere un ristretto pantheon di immagini di sue sculture a monumenti della memoria collettiva. info tel. 055 2388609; www.uffizi.firenze.it

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Treviso Magie dell’India. Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana U Casa dei Carraresi fino al 31 maggio

Lo scrittore veronese Emilio Salgàri ambientò molti dei suoi romanzi piú celebri nell’affascinate continente indiano senza mai lasciare l’Italia. Un’opportunità analoga viene ora offerta dalla mostra allestita in Casa dei Carraresi, che propone oggetti e opere d’arte grazie ai quali ci si può immergere nel mondo magico dell’India, godendo di una rassegna che spazia dal II millennio a.C. all’epoca dei Maharaja. Elementi architettonici, miniature, fotografie d’epoca, oggetti di uso rituale e quotidiano, costumi, tessuti, gioielli, accanto a statue e bassorilievi provenienti da importanti collezioni museali e private, sono stati collocati in un adeguato contesto

scenografico che ne ricrea gli ambienti originari. Il percorso espositivo ricostruisce le tappe salienti della civiltà indiana seguendo due filoni principali, che hanno come centro focale, rispettivamente, il Tempio e la Corte: «L’arte nell’India Classica» e «L’india dei Maharaja». Due poli, quello del Tempio e quello della Corte, che sfuggono al dualismo tipicamente occidentale tra sacro e profano e che nella cultura indiana non sono in alcun modo in contraddizione. Il cerimoniale dei templi è simile a quello del palazzo e la figura del re è ammantata di sacralità tanto da renderla divina. La saggezza tradizionale indiana, affinché l’esistenza umana sia significativa e armonica, impone l’impegno etico, ma anche il perseguimento del piacere; sostiene la frugalità, ma non

svalorizza la ricchezza; incita al distacco, ma legittima la conquista del potere. Benché il fine ultimo in buona parte della cultura indiana – ma non in tutta – sia la liberazione e il trascendimento del mondo doloroso e finito, la vita e i suoi istanti preziosi sono ampiamente celebrati, soprattutto nell’arte. info tel. 0422 513150 Ravenna L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo U Museo d’Arte

della città

fino al 15 giugno

(dal 16 febbraio)

Risalgono ai tempi di Vitruvio e di Plinio le prime operazioni di distacco, secondo una tecnica che prevedeva

la rimozione delle opere con l’intonaco e il muro che le ospitava. Il cosiddetto «massello», che favorí il trasporto a Roma di dipinti provenienti dalle terre conquistate altrimenti inamovibili, dopo secoli di oblio trovò nuova fortuna a partire dal Rinascimento – nel Nord come nel Centro della Penisola – favorendo la conservazione ai posteri di porzioni di affreschi che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre. Cosí, in un arco temporale compreso fra il XVI e il XVIII secolo, vennero traslate, tra le altre, alcune delle opere piú importanti presenti in mostra: la Maddalena piangente di Ercole de’ Roberti (dalla Pinacoteca febbraio

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Nazionale di Bologna) e Il gruppo di angioletti di Melozzo da Forlí (dai Musei Vaticani). Un modus operandi difficile e dispendioso che a partire dal secondo quarto del Secolo dei Lumi venne affiancato, e piano piano sostituito, dalla piú innovativa e pratica tecnica dello strappo, prassi che tramite uno speciale collante permetteva di strappare gli affreschi e quindi portarli su di una tela. Una vera rivoluzione nel campo del restauro, della conservazione, ma anche del collezionismo del patrimonio murale italiano. Cosí mentre nelle appena riscoperte Ercolano e Pompei si trasportavano su nuovo supporto e quindi al Museo di Portici le piú belle pitture murali dell’antichità, nel resto d’Italia si diffondeva la rivoluzione dello strappo. Nulla sarebbe stato piú come prima. Tra la metà del Settecento e la fine del XIX secolo tutti i grandi maestri dell’arte italiana furono oggetto delle attenzioni degli estrattisti: da Andrea del Castagno al Bramante, dal Correggio a Giulio Romano, da Guido Reni al Domenichino, solo per citare alcuni dei piú noti fra quelli che saranno protagonisti della mostra del MAR. info tel. 0544 482477 oppure 482356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it

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Milano Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo U Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno

A 1700 anni dalla promulgazione dell’Editto del 313 d.C., con cui Costantino, proprio dal palazzo imperiale di Milano (di cui restano tracce nei pressi del Museo Archeologico) concesse libertà di culto in tutto l’impero, il Civico Museo Archeologico di Milano propone un percorso espositivo che illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il

cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. Accompagnato da un ricco corredo esplicativo di pannelli illustrati che ne spiegano le tematiche, il percorso si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Vi sono esposti materiali provenienti dagli scavi condotti negli anni Sessanta dalla Missione Archeologica Italiana a Cesarea Marittima (Israele) e ad Acco-Tolemaide (la San

Giovanni d’Acri dei Crociati). Tra i materiali spiccano, oltre ai balsamari vitrei rinvenuti nelle tombe di Acco, che attestano il passaggio alla tecnica di soffiatura, scoperta proprio nella zona verso la fine del I secolo a.C., il calco dell’epigrafe di Ponzio Pilato, unica attestazione diretta e coeva del prefetto noto dai Vangeli, rinvenuta nel teatro di Cesarea, e un tesoretto, composto da gioielli e croci d’oro, sempre da Cesarea. Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche,

l’Egitto tra antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultima chiude idealmente il percorso nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura cardine della Chiesa locale. info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); www.comune.milano.it/ museoarcheologico; e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it

Appuntamenti torino Raffaello. La Sacra Famiglia dell’Ermitage U Palazzo Madama fino al 23 febbraio

Al piano terra di Torre Tesori, in Palazzo Madama, si può ammirare la Sacra Famiglia di Raffaello appartenente alle collezioni del Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. Per il suo perfetto equilibrio di forme, proporzioni, prospettiva e colori, l’opera, dipinta da Raffaello probabilmente intorno al 1506, dopo l’arrivo a Firenze, ha sempre sollecitato artisti e letterati, come ben testimonia un passo dello scrittore francese Honoré de Balzac: «Ogni figura è un mondo, un ritratto il cui modello apparve in una visione sublime, intriso di luce, designato da una voce interiore, tracciato da un dito celeste» (1832). L’opportunità di vedere a Torino questo dipinto nasce da un piú ampio programma di collaborazione tra le due istituzioni museali che ha avuto un primo episodio di grande successo con la mostra «Il Collezionista di Meraviglie. L’Ermitage di Basilewsky». E mentre il dipinto di Raffaello è a Torino, un’altra grande opera del Rinascimento italiano, il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina appartenente alle

raccolte di Palazzo Madama è esposto a San Pietroburgo, in uno scambio finalizzato a sottolineare i rapporti di collaborazione culturale e scientifica tra le due istituzioni. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino. it

bassano del grappa Medioevo a due facce. È proprio come lo pensiamo? U Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny fino al 22 marzo

L’associazione bassanese propone un ciclo di incontri serali per fare il punto sugli sviluppi della medievistica europea. Le conferenze si svolgono al sabato, alle ore 17,30, presso l’Istituto Scalabrini della cittadina veneta. info tel. 0444 965129; e-mail: info@ ponziodicluny.it

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protagonisti aristotele fioravanti /1

L’uomo

di Furio Cappelli

che muove le torri 28

febbraio

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Un genio «in grado di fare ogni cosa e di risolvere ogni problema»: ecco come doveva presentarsi ai potenti del suo tempo quell’ingegnere bolognese che, nel 1455, aveva portato a termine un’impresa… impossibile. Di Aristotele Fioravanti non esistono ritratti e sono in pochi, oggi, a conoscere la sua straordinaria vicenda. Che, però, vale davvero la pena di essere raccontata…

E

Nella pagina accanto pianta della città di Bologna realizzata dal cartografo olandese Joan Blaeu, che la pubblicò nel 1663. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. In questa pagina disegno del XV sec., basato su un originale di Francesco di Giorgio Martini, raffigurante lo spostamento di una torre. Santa Monica, The Getty Center for the History of Art and the Humanities. L’operazione è in corso con l’ausilio di un meccanismo che agisce combinando una vite senza fine a una cremagliera.

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febbraio

E

ra l’agosto del 1455 e a Bologna era in corso un lavoro piuttosto inconsueto: l’ingegnere comunale Aristotele Fioravanti (1420 circa-1486?) stava spostando una torre campanaria in muratura. Molti, a sentirlo dire, non dovettero credere alle proprie orecchie. Spostare una torre? Chi avrebbe mai avuto l’ardire di compiere un’impresa del genere? La curiosità, tuttavia, poteva essere piú forte dell’incredulità, e sulla Strada Maggiore si formarono gruppi delle persone piú varie, di ogni cultura e di ogni ceto sociale, tutte assiepate ad assistere a quello spettacolo. Era vero! Questo Fioravanti si era messo in testa di spostare per una lunghezza di oltre 13 m una torre campanaria di 4 m di lato, con uno spiccato di quasi 25 m, a cui si aggiungevano quasi 5 m di fondazione, traslati in blocco insieme alla muratura soprastante. Uomini e cavalli dettero forza motore a una batteria di argani, e, come per incanto, la Torre della Magione prese a muoversi sul serio. Tutti erano sbalorditi e ancora facevano fatica a credere ai loro occhi. Gli stessi operai impegnati trattenevano a stento il loro scetticismo, pronti a unirsi al coro di risate generali che sarebbe sicuramente esploso non appena la torre fosse caduta a terra.

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protagonisti aristotele fioravanti /1

Quella fatale conclusione sembrava inevitabile. Durante il tragitto, d’altronde, si era scatenata una pioggia violentissima che aveva allagato il canale predisposto per la straordinaria impresa. E proprio mentre la torre compiva la sua lentissima traslazione, lungo quel canale, vi fu un cedimento. Ma Fioravanti non si perse d’animo e prese tutte le contromisure necessarie. La torre si riassestò, e continuò il suo tragitto, fino alla fine. Fu allora che un boato di gioia e di esultanza fece piazza pulita di ogni paura e di ogni perplessità. Dal momento in cui la torre aveva lasciato la sua antica collocazione, erano trascorsi quattro lunghissimi giorni. I contestatori piú tenaci, quelli impegnati fino in ultimo a coniare gli epiteti piú maligni per quel Fioravanti che di Aristotele aveva solo il nome, dovettero essere i primi a salire sul carro del vincitore, dispensando lodi a non finire. Non solo all’architetto-ingegnere fu tributata la mercede pattuita, ma egli ottenne un premio per la sua audacia e per il suo ingegno, sia dal committente, sia dal coltissimo Basilio Bessarione (1409-1472), eminente cardinale (quasi papa nel conclave di quell’anno) che teneva Fioravanti in palmo di mano. L’eco della sua impresa giunse in ogni dove. Una

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lettera con un resoconto dell’evento fu subito inviata a Francesco Sforza, duca di Milano (1454-1466). Moltissime città italiane si contesero i servigi dell’abile bolognese, che sembrava in grado di fare ogni cosa e risolvere ogni problema. E ben presto anche illustri sovrani di Paesi lontani si fecero avanti per averlo nelle proprie corti.

L’insofferenza di un commendatore

L’impresa su cui Fioravanti giocò la carta del proprio successo nacque da una situazione banale. Achille Malvezzi, commendatore dell’ordine gerosolimitano di San Giovanni (il futuro ordine dei cavalieri di Malta), era rettore della chiesa di S. Maria del Tempio. Egli abitava nel palazzo contiguo alla chiesa. La facciata del palazzo prospettava sulla Strada Maggiore. Sul fianco della chiesa, lungo la stessa direttrice, si imponeva l’isolata torre campanaria, nota come Torre della Magione. Ebbene, Malvezzi, affacciandosi dalle finestre della sua casa, era infastidito dalla mole di quella struttura trecentesca, che gli negava la prospettiva della strada sino alla porta urbica. Non solo. La torre incriminata sorgeva proprio presso all’androne del suo palazzo e, trovandosi rasente alla strada, occupava spazio prezioso. febbraio

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Bologna e le sue torri

Regine (decadute) del paesaggio urbano L’immagine storica di Bologna è legata in modo indissolubile alla presenza di quelle torri gentilizie che, concentrandosi sulle vie principali, costituivano una parte cospicua del suo paesaggio urbano. Perlopiú realizzate dal ceto nobiliare tra il XII e il XIII secolo, per esigenze di difesa e di competizione visiva, sono quasi del tutto scomparse o sono state radicalmente modificate. Se si annoverano anche le case-torri (ossia gli edifici residenziali con un punto rialzato e munito), rimangono in piedi appena 20 esemplari. Le proverbiali torri pendenti degli Asinelli (m 97) e dei Garisendi (m 48), poste al culmine della Strada Maggiore, sono il simbolo stesso della città. La prospettiva che le valorizza con grande respiro, sull’asse della centralissima via Rizzoli, riflette però solo in parte l’antico assetto ambientale. Durante i radicali lavori di sistemazione urbanistica del secolo scorso, sono state eliminate

in quell’area sei torri, tre delle quali vicine alle celebri «consorelle». I primi studiosi che si sono occupati del fenomeno delle torri a Bologna, sono arrivati a stimarne ben 240 nell’assetto medievale della città, raffigurandola come «una sorta di istrice i cui aculei sono appunto le torri», come ha sottolineato Giuliano Miliani. In realtà dovevano esservi 70, al massimo 100 costruzioni con apparati difensivi, e, tra questi edifici, due su tre erano case-torri. Occorre poi aggiungere il circuito dei torresotti (le strutture fortificate che sormontavano le 16 porte della cinta del XII secolo, oggi ridotte a quattro) nonché il complesso delle torri campanarie al servizio dell’edilizia pubblica sacra e civile, come la Torre della Magione e la Torre dell’Arengo, entrambe legate alla prima fase di attività del Fioravanti.

torri gentilizie e case-torri superstiti Torre Agresti Torre Alberici Torre «Altabella» degli Azzoguidi Torre Asinelli Torre Bertolotti Torre Catalani Torre Carrari Torre Conoscenti Torre «Coronata» dei Prendiparte Torre Galluzzi Torre «Garisenda» dei Garisendi Torre Ghisilieri Torre Guidozagni Torre Lapi Torre Lambertini Torre Oselletti Torre Ramponi Torre Scappi Torre Toschi Torre Uguzzoni

torresotti superstiti Torresotto di Castiglione Torresotto di Porta Govese Torresotto di Porta Nova Torresotto di San Vitale

Nella pagina accanto veduta dall’alto di Piazza Maggiore. Si riconosce la facciata di Palazzo d’Accursio (o Comunale), che trae origine da alcune case delle nobili famiglie Accursi e Guezzi, acquisite dal Comune nel 1293-94 per allestire il granaio pubblico. L’edificio, su cui spicca, a sinistra, la Torre d’Accursio o dell’Orologio, fu ristrutturato negli anni 1425-28 dal maestro Fieravante, padre di Aristotele. A destra della foto si riconosce infine la duecentesca Torre dell’Arengo, annessa al Palazzo del Podestà: presenta tuttora il «campanazzo» risistemato da Aristotele Fioravanti. Qui accanto le torri pendenti degli Asinelli (97 m) e dei Garisendi (48 m). Collocate strategicamente in asse all’antica via Emilia, sulla direttrice della Strada Maggiore, sono il simbolo stesso di Bologna.

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protagonisti aristotele fioravanti /1 Il cavaliere si rivolse cosí a Fioravanti con l’intento di demolire la struttura e di ricostruirla in fondo alla chiesa, di presso a un vicolo. L’ingegnere fece però una controproposta, che comportava un notevole risparmio di tempo e di denaro. Si poteva spostare la torre direttamente sul luogo prescelto. Fioravanti stesso si assumeva la direzione e la responsabilità del lavoro, predisponendo tutti i macchinari necessari. Malvezzi, sensibile all’aspetto economico dell’operazione, fu entusiasta e dette carta bianca all’ingegnere. Ma come si faceva a dare seguito a un’idea cosí stravagante? Non esisteva alcun precedente in merito, e non solo a memoria d’uomo, a parte quella casa in legno (non in muratura!) che alcuni anni prima, nel 1418, fu spostata a Braunschweig (Bassa Sassonia). Qualsiasi storia che raccontasse delle glorie degli antichi non offriva nulla di paragonabile. Certo, le meraviglie dell’architettura antica, come le piramidi egiziane, il colosso di Rodi o il tempio di Diana a Efeso, erano spesso celebrate come opere somme di ingegno per la tecnica che le rese possibili. In tali casi, era facile trovare riferimenti ai conci giganteschi o alle colonne monolitiche che necessitavano per il trasporto e la posa in opera un gran numero di accorgimenti e di macchinari. Gli stessi obelischi dell’antica Roma meravigliavano da sempre ogni spettatore, visto lo sforzo eccezionale che dovettero richiedere per essere trasportati e per essere issati. Ma nel caso di Bologna non si trattava di spostare un obelisco, un fusto di colonna o un enorme concio: il trasporto riguardava un edificio intero, del peso di migliaia di tonnellate.

Gli impedimenti come stimolo

Quali garanzie offriva Fioravanti? In primo luogo era un ingegnere che si era guadagnato la stima di tutti grazie allo scrupolo e alla dedizione con cui seguiva i lavori piú impegnativi. Non cercava di consegnare il proprio nome alla storia con progetti architettonici di bello stile. Era interessato in modo viscerale al puro esercizio della tecnica edile, con particolare riguardo alla risoluzione dei problemi e alla realizzazione delle infrastrutture. In una lettera del 1459 dichiara esplicitamente che gli impedimenti che è chiamato ad affrontare nel corso delle sue imprese, non sono in alcun modo motivo di fastidio o di preoccupazione, ma sono un incentivo a trovare e a inventare soluzioni. Ideare il «marchingegno» o scovare il metodo per raddrizzare un edificio, spostare un grosso peso, imbrigliare l’acqua o fondere una campana: è qui che si afferma il genio di Aristotele Fioravanti. Assunto in pianta stabile dal Comune di Bologna nel 1453, in precedenza si era segnalato come addetto al trasporto e alla posa in opera di colonne monolitiche al cantiere di S. Pietro a Roma (1451-52), e nella sua città si era cimentato in due occasioni nel trasporto e nella posa in opera del «campanazzo» del Palazzo del podestà, tuttora presente nella torre che campeggia su Piazza Maggiore. Nel 1453 sfoggiò abilità e intrapren-

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denza nell’allestire un argano potenziato da ingranaggi a ruota, grazie al quale si poté issare agevolmente quel bronzo di grosse dimensioni. Tutto questo, ovviamente, era qualcosa, ma di per sé non bastava. Malvezzi di certo si fidò di Fioravanti non solo per l’attività svolta, ma per le sue capacità persuasive. Energico e inventivo, risoluto, integerrimo e oltranzista, doveva suscitare al tempo stesso soggezione e gran senso di sicurezza. Se lui diceva che una cosa si poteva fare, doveva essere difficile prenderlo sottogamba. Non abbiamo purtroppo testimonianze grafiche dell’impresa. La stessa Torre della Magione è stata abbattuta in modo del tutto insensato nel 1825. Rimane sul luogo, all’angolo tra Strada Maggiore e Vicolo Malgrado, un’epigrafe commemorativa in latino (poi riassunta in italiano, in una lapide sottostante) dove si afferma erroneamente che Fioravanti fu chiamato Aristotele per il suo ingegno, quando era in realtà il suo nome di battesimo, peraltro non unico nella Bologna dell’epoca (è attestata persino una famiglia Aristoteli con diversi membri di nome Aristotele).

Un modello per Leonardo

Per avere un quadro dell’impresa occorre fare affidamento sulle testimonianze dei cronisti, come pure sulle idee e sulle elaborazioni grafiche di tutti i teorici e professionisti del settore che si soffermarono sul tema del trasporto di un edificio in muratura. Un prezioso disegno basato su un originale di Francesco di Giorgio Martini, coevo di Fioravanti, mostra proprio una torre in fase di spostamento e, al di sotto, descrive la leva utilizzata al momento di svellere l’edificio dalle fondazioni, quando inizia la sua traslazione. Forse Martini si ispirò proprio alla torre bolognese. Lo stesso Leonardo ebbe di sicuro in mente l’impresa di Fioravanti quando progettò di rialzare il battistero di Firenze, per porlo al sommo di una monumentale gradinata. Seguendo la ricostruzione proposta da Sandra Tugnoli Pattaro in base alle fonti, Aristotele procedette verosimilmente in questo modo. Mise alla luce le fondazioni della torre per un buon tratto e, giunto a un certo livello, scavò un grosso canale che andava fino al punto di arrivo. All’interno della torre eliminò il pavimento di pianterreno e scavò fino al livello del canale. A quel punto pavimentò il fondo della torre e tutto il canale con uno strato di pietrame, per compattare la superficie. Inserí sul fondo della torre dei rulli di legno, cerchiati in metallo, e sopra a quei rulli, forando le fondazioni a intervalli regolari, costruí una piattaforma di assi trasversali. A quel punto dovette demolire il diaframma che intercorreva tra i pali della piattaforma e le fondazioni. Cosí facendo, la torre era «tagliata» dal suo supporto originale, poggiando sulla piattaforma e sui rulli sottostanti. Per spingerla fuori dalla sua sede fu forse necessaria una leva, mentre sul lato opposto una serie di argani collegati alla piattaforma iniziava la sua opera di trazione con l’ausilio di grosse viti senza fine. febbraio

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Ipotesi e progetti A destra Torre di pietra trasportata da un luogo a un altro a opera di un architetto bolognese, incisione di Matthys Pool (1676-1732) che propone una libera rievocazione dell’impresa della Torre della Magione compiuta da Fioravanti.

Qui sotto disegno di un argano, che propone una versione semplificata della macchina allestita da Brunelleschi per il cantiere di S. Maria del Fiore, dal De ingeneis di Mariano di Iacopo detto il Taccola. 1431-33. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

Qui sopra disegno di un alzacolonne, dall’Opusculum de architectura di Francesco di Giorgio Martini, offerto a Federico di Montefeltro intorno agli anni 1475-78. Londra, British Museum. In basso disegno del XV sec., basato su un originale di Francesco di Giorgio Martini, raffigurante una leva metallica azionata da una vite per svellere la muratura dalle fondazioni originarie. Santa Monica, The Getty Center for the History of Art and the Humanities.

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protagonisti aristotele fioravanti /1

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un’attività indefessa 1420 ca. Aristotele nasce a Bologna. Suo padre è l’architetto-ingegnere Fieravante di Ridolfo. 1437 Il 27 novembre cura la posa in opera del nuovo campanazzo del Palazzo del Podestà. 1447 Il Fioravanti, che era anche orafo, accusa a gran voce un collega di battere moneta falsa. Viene condannato per ingiuria. 1451-52 È impegnato a Roma nello scavo e nel trasporto di colonne antiche destinate al nuovo coro di S. Pietro. 1453 Dopo la rottura, il campanazzo di Bologna viene rifuso, e Fioravanti ne cura nuovamente la posa in opera. Il 15 febbraio viene nominato ingegnere comunale. 1455 In agosto provvede allo spostamento della Torre della Magione. Il mese successivo raddrizza il campanile della pieve di Cento. Papa Niccolò V lo coinvolge forse in un progetto di spostamento dell’obelisco Vaticano. A dicembre raddrizza il campanile di S. Michele Arcangelo a Venezia, che crolla però a lavori conclusi. 1457 Impegnato nelle verifiche sulle mura di Bologna, viene denunciato e condannato per aver tagliato una vigna e alberi da frutto di proprietà privata senza autorizzazione. La pena viene poi condonata. 1458 Cosimo de’ Medici richiede la sua consulenza per spostare un campanile a Firenze. Passa al servizio di Francesco Sforza, duca di Milano. A dicembre consolida il ponte coperto sul Ticino a Pavia. 1459 Il marchese Ludovico Gonzaga gli affida il raddrizzamento della torre presso la Porta Ceresio di Mantova, a capo di un ponte levatoio sul Mincio. 1459-60 È impegnato a piú riprese a Parma, per la rettifica e il completamento del naviglio Taro. 1460 Passa in rassegna le difese e i castelli del versante settentrionale del ducato di Milano. 1461 Fornisce un parere sulla copertura a capriate dell’Ospedale Maggiore in corso d’opera a Milano, su progetto del Filarete. 1463 Compie una perizia sul canale del Crostolo, pomo della discordia tra Parma e Reggio Emilia. I Parmensi accusano il Fioravanti di eccessiva disponibilità verso i Reggiani, e non gli pagano le competenze dovute. 1464 Torna a stabilirsi a Bologna, dove riprende l’incarico di ingegnere comunale.

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In alto una pagina manoscritta del progetto per Sforzinda, la città ideale immaginata dal Filarete (al secolo Antonio Averlino) per Francesco Sforza, in cui compare il prospetto dell’Ospedale Maggiore di Milano. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Nella pagina accanto illustrazione con architetti e muratori al lavoro, dal Trattato sull’Architettura del Filarete. 1488-1489. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

La piattaforma di legno, che era tutt’uno con la struttura muraria, scorreva come una slitta sopra ai rulli di legno collocati dentro alla torre, e sopra ai rulli che poi venivano collocati lungo il percorso, man mano che la torre avanzava. La struttura fu infine ancorata alla nuova fondazione, piú ampia di quella originaria.

Tradizione e invenzione

Non abbiamo dati a sufficienza sulla formazione di Fioravanti, ed è quindi difficile capire in che misura il suo genio trasse linfa dalla sua esperienza diretta, attraverso un continuo confronto con i materiali, con le tecniche e con le situazioni. Ma è difficile credergli quando vuole convincerci che ogni accorgimento che lo rese famoso scaturí dalle proprie invenzioni. Il suo era un atteggiamento connaturato a quel concetto epico di demiurgo, di artista che compie meraviglie con le risorse esclusive del proprio genio, che era già un tratto tipico di Filippo Brunelleschi. In realtà egli traeva profitto da una pratica

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protagonisti aristotele fioravanti /1 fioravanti a napoli

La chassa perduta di re Ferrante Il re di Napoli Ferrante I d’Aragona (1458-1494) desiderava avere Aristotele Fioravanti al proprio servizio per varie incombenze. L’ingegnere bolognese si recò cosí nella città partenopea nel dicembre 1471. Il sovrano era al momento assente e Aristotele voleva partire quanto prima per raggiungerlo, ma prima di lasciare la città fu condotto in una perlustrazione del porto. In particolare il ministro Carafa gli mostrò un punto del molo nei cui pressi era caduta una chassa. Solo Fioravanti era in grado di recuperarla. Ed egli si sottopose alla difficile impresa, che si concluse nel luglio 1472 con il pagamento delle sue competenze e il suo ritorno a Bologna. Nonostante numerosi tentativi, il recupero non era andato a buon fine. Ma di quale tipo di chassa si trattava? Poiché Fioravanti era cosí bravo a spostare edifici in muratura, si è persino immaginato che fosse una casa sprofondata nel mare. Poi si è pensato alla cassa di un relitto, magari ricolma di oggetti preziosi. In realtà, come ha chiarito Adriano Ghisetti Giavarina, si trattava di una grossa cassaforma di legno calatafato, ricolma di pietre gettate in un impasto a base di calce e pozzolana. Doveva essere utilizzata in un lavoro di ampliamento del molo, ma durante la posa in opera era sprofondata andando a posizionarsi in un punto critico, tanto da creare difficoltà al passaggio delle imbarcazioni. costruttiva che da secoli tramandava i concetti fondamentali della sua arte e del suo magistero tecnico. Come ci ha insegnato Marc Bloch, la stessa società feudale, prima ancora dello sbocciare del mondo dei Comuni e delle cattedrali gotiche, era basata su un bagaglio di accorgimenti ben piú ampio di quello richiesto dalla sola costruzione di una chiesa. Mulini, frantoi e gualchiere, con i loro meccanismi a ruota e a vite, esistevano ovunque, e ogni campana, dove piú dove meno, richiedeva la padronanza di tecniche di fusione assai impegnative. E nell’immenso fervore costruttivo dell’arte romanica, prima ancora che le cattedrali francesi elevassero le loro sfide alla gravità, si staccavano punte sublimi di fervore e di ardimento, come il duomo di Pisa iniziato nel 1063, il cui artefice Buscheto, capace di spostare obelischi, viene paragonato a Dedalo, il mitico architetto della reggia minoica di Creta. Nell’età di Fioravanti, d’altronde, si assiste a una grande stagione dei maestri lombardi, spesso sbrigativamente citati nei documenti come tagliapietre, ma che in molti casi sfoggiavano una gran quantità di competenze, come architetti, ingegneri e fonditori, al pari del nostro Aristotele. La loro era un’illustre tradizione che si riallacciava ai «magistri commàcini» dell’età longobarda, cosí chiamati proprio per l’abilità di lavorare cum machinis, ossia con carrucole e impalcature di prim’ordine, il che consentiva loro di realizzare edifici di ampie dimensioni e di notevoli difficoltà tecniche. Accanto alle secolari consuetudini delle maestranze, nel Quattrocento si fa strada il recupero dei saperi antichi attraverso lo studio della trattatistica, non solo

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Particolare della Tavola Strozzi raffigurante il porto di Napoli. 147273. Napoli, Certosa e Museo di San Martino. Tra il 1471 e il 1472, Aristotele Fioravanti soggiornò nel capoluogo partenopeo, dove era stato chiamato dal re Ferrante I d’Aragona, il quale aveva voluto commissionargli varie imprese, tra cui il recupero di una misteriosa chassa, che però non andò a buon fine.

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protagonisti aristotele fioravanti /1 Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Incisione raffigurante le impalcature montate in piazza S. Pietro per l’innalzamento dell’obelisco Vaticano, di cui papa Sisto V incaricò, nel 1586, l’architetto Domenico Fontana. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

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latina, ma anche greca. Si legge con rinnovato fervore il già noto Vitruvio, ma si inizia anche a conoscere la Meccanica di Aristotele (IV secolo a.C.) o un classico della scienza del bilanciamento e del trasporto dei pesi come il Barulkos di Erone di Alessandria (I secolo d.C.?), che deve il titolo a una macchina a vite sul tipo di quelle impiegate da Fioravanti. Erone descrive proprio la tecnica adottata per la Torre della Magione, con un argano a vite collegato a una slitta e denominato «chelone» (tartaruga). E lo scienziato greco era ben noto ai senesi Mariano di Iacopo detto il Taccola (1382-1458?) e Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), prima che emergesse il genio di Leonardo, il cui esordio (l’erezione della sfera in cima alla cupola di Brunelleschi) risale agli anni 1468-1472. Non è un caso, poi, che Fioravanti fosse in rapporti d’amicizia con il cardinale umanista Basilio Bessarione, originario della bizantina Trebisonda (Turchia). Erone non doveva mancare tra gli autori della sua immensa biblioteca, venuta a costituire il nucleo originario della celebre Biblioteca Marciana di Venezia.

Un incidente di percorso

Dopo l’impresa bolognese, Fioravanti si cimentò subito su altre torri. Il mese dopo raddrizzò la torre della pieve romanica di S. Biagio a Cento, oggi scomparsa. A Venezia, nel dicembre successivo, raddrizzò il campanile di S. Michele Arcangelo, ma questa volta le cose non andarono per il verso giusto, e la torre rovinò su un convento adiacente pochi giorni dopo, o addirittura il giorno dopo la conclusione dei lavori. Nonostante questo incidente di percorso, la fama di Aristotele rimase indiscussa. Cosimo de’ Medici (1389-1464), nel 1458, voleva che si recasse a Firenze per traspostare un campanile, dietro compenso di mille fiorini d’oro, ma forse il lavoro non fu mai attuato. Su incarico di Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova (1444-1478), rimise in sesto la torre di un ponte levatoio alla Porta Ceresio della città, sul corso del Mincio (1459), oggi non piú esistente. Si trattava di un importante intervento di recupero su una strada di accesso a Mantova, in vista del solenne concilio che lí doveva essere celebrato da papa Pio II (1458-1464) dopo la traumatica caduta di Costantinopoli (1453), nella speranza di organizzare una crociata contro la potenza ottomana. Per avere al suo servizio l’uomo «che move le torre» (sono le parole del suo ambasciatore a Milano), il marchese della città lombarda aveva dovuto perorare la concessione di una licenza a Francesco Sforza. Il duca di Milano, infatti, si era assicurato nel 1458 i servigi di Fioravanti, dopo che l’ingegnere si era impelagato in una fastidiosa vicenda giudiziaria. Mentre era intento a sistemare le difese di Bologna, penetrò in un terreno privato dove era impiantata una vigna insieme ad alberi da frutto, e, senza alcuna autorizzazione, fece piazza pulita in modo che le piante non impedissero una buona visione dagli spalti. Aristotele, una volta di piú, aveva dato prova del suo carattere spiccio e risoluto, ma

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mal gliene incolse. Il proprietario del terreno lo citò in giudizio e lo fece condannare a una pena pecuniaria e al bando, pena la forca. La condanna fu poi revocata d’autorità, ma l’ingegnere, evidentemente stizzito, decise di trasferirsi a Milano.

Anagrammi come pseudonimi

Egli operò moltissimo sulle fortificazioni del territorio ducale, ed ebbe anche modo di progettare il consolidamento del ponte coperto sul Ticino a Pavia (1458). Nella stessa Milano forní un parere sulla copertura a capriate dell’Ospedale Maggiore (1461), capolavoro del celebre architetto Antonio di Pietro Averulino detto il Filarete (1400 circa-1469), che si rivelò un ammiratore entusiasta di Aristotele. Nel suo poderoso Trattato sull’Architettura, dedicato a Francesco Sforza, Fioravanti appare nascosto dietro due curiosi anagrammi, «Letistoria» (Aristotile) e «Segnelobo» (Bolognese). Emerge come massima autorità nello spostamento dei pesi, e il Filarete gli «assegna» un progetto da par suo: l’innalzamento di un obelisco per giunta rialzato alla base da un ordine di statue-cariatidi. L’opera doveva essere dedicata al mitico re Zogalia (anagramma di Galiazo, ossia Galeazzo, figlio dello Sforza), nell’antica città di Plusiapolis, le cui vestigia sono nascoste sotto la città ideale, Sforzinda. E nella sfera reale Fioravanti doveva sul serio adagiare, spostare e issare nella nuova sede un obelisco, nientemeno che l’obelisco Vaticano. Dopo che era tornato a Bologna, accolto con grande onore (1464), fu convocato a tal fine da papa Paolo II, nel 1471, e forse già il suo predecessore Niccolò V (1447-1455) lo coinvolse nel proponimento di sistemare di fronte alla basilica il gigantesco monolite «di Giulio Cesare», all’epoca «relegato» sul fianco del complesso, vicino alla rotonda di S. Andrea. Ma Paolo II morí all’improvviso, proprio la notte che fece seguito alla prima discussione del progetto. Aristotele non si dette per vinto, e fece pressioni sul successore Sisto IV (1471-1484) affinché l’idea non finisse accantonata, ma il papa aveva altre priorità. Molti anni dopo, un altro papa Sisto, il vigoroso Sisto V (1585-1590), riprese in mano il progetto, e l’obelisco fu cosí sistemato nella collocazione attuale da Domenico Fontana, il suo architetto di fiducia (1586). Egli svolse il compito egregiamente, avvalendosi di un gigantesco castello di legno con argani di tipo tradizionale, e con abbondante ricorso a quelle funi di semplice cordame che erano vivamente sconsigliate dagli ingegneri del Quattrocento. I piú sicuri collegamenti metallici e i dispositivi di potenziamento che Fioravanti avrebbe senz’altro utilizzato, anche se erano assai piú avanzati, sembravano paradossalmente appartenere a una stagione di grande fervore ormai conclusa. F

Nel prossimo numero Fioravanti e l’avventura in Russia

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costume e società i notai

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di Maria Paola Zanoboni

ergo sum Matrimoni, compravendite, statuti societari... Già nel Medioevo il notaio era testimone e garante di momenti importanti della vita privata e lavorativa. Ma quale percorso si doveva compiere per arrivare all’esercizio della professione? Da quali norme veniva regolata? E, non ultimo, quali guadagni poteva assicurare?

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el Medioevo come oggi, la maggior parte dell’attività notarile consisteva nella stipulazione di compravendite di immobili, ma comprendeva anche le semplici riscossioni di affitti, le promesse di pagamento per i motivi piú vari, la stipulazione di società commerciali, i patti per la fornitura di legname e laterizi destinati alla costruzione dei principali edifici cittadini, le assunzioni di lavoranti e apprendisti per ogni tipo di attività, compresa quella nei cantieri. Sconosciuto nell’antichità, il notariato sorse in Italia, per diffondersi poi in Francia, Svizzera, Germania, Polonia e Ungheria. In età romana il termine «notarius» era utilizzato con un significato ben diverso da quello che assunse in seguito: designava infatti una persona esperta nell’uso delle note tachigrafiche (la stenografia dell’epoca), spesso uno schiavo al servizio di uomini politici, avvocati o scrittori. Con l’evolversi del diritto romano e la necessità sempre piú pres-

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Firenze, Oratorio di S. Martino dei Buonomini. Celebrazione di un matrimonio, affresco tradizionalmente attribuito al Ghirlandaio. XV sec. Sulla sinistra, seduto, il notaio redige l’atto di nozze.

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costume e società i notai sante di redigere per iscritto i documenti privati, si avvertí l’esigenza di professionisti esperti in grado di rendere gli atti conformi al diritto. Nacquero cosí, forse intorno al III secolo, i «tabelliones», liberi professionisti riuniti in collegi e tenuti a osservare precise disposizioni di legge. Fu soprattutto Giustiniano a dettare norme in proposito, tra il 528 e il 538: stabilí che i tabelliones potessero esercitare la professione solo in virtú dell’auctoritas, personale e non delegabile, concessa loro dallo Stato, e sotto la stretta sorveglianza del potere pubblico; regolamentò la stesura degli atti, prescrivendo di redigerli sempre anche in bella copia, e rendendo obbligatoria la sottoscrizione delle parti e del tabellione che apponeva anche il suo marchio personale (il

«segno di tabellionato» appunto, l’odierno «sigillo»), molto elaborato, in modo che non fosse imitabile facilmente. L’atto doveva poi essere consegnato al destinatario in presenza del tabellione e di testimoni che apponevano a loro volta la propria sottoscrizione.

Sulle due pagine miniature dal Liber Iurium et privilegiorum notariorum Bononiae. 1474-1482. Bologna, Museo Civico Medievale. Il giurista e notaio Pietro da Anzola commenta un testo giuridico durante una lezione all’Università di Bologna (nella pagina accanto), e un notaio (in basso).

Riconoscimento legale

ganizzazione cittadina in fieri trovò proprio nel notariato uno degli elementi di maggior forza per legittimare il suo esistere, perché sul notaio, in quanto dotato di credibilità, si appoggiava la struttura politica in formazione distaccandosi dall’autorità imperiale e affermando la propria autonomia. Era di conseguenza necessario affidarsi a questo ufficiale pubblico per dare credibilità e validità a tutti gli atti del potere esecutivo e giudiziario che solo lui, in quanto depositario della «fides publica», poteva convalidare. Il notaio aveva perciò l’incarico (segue a p. 47)

Grazie alla legislazione giustinianea i notai avevano dunque ottenuto un riconoscimento legale della professione, ma non della piena validità giuridica delle scritture private da loro redatte, divenendo il fulcro di tutta l’attività documentaria solo nell’XI secolo, col formarsi delle autonomie comunali e la rinascita del diritto romano. Al tempo di Federico Barbarossa (che regnò dal 1152 al 1190), nel momento di maggiore tensione fra i Comuni e l’impero, l’or-

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Uno ogni 50 abitanti A partire dall’XI secolo i notai di Bologna si trovarono a operare a stretto contatto con altre due istituzioni fondamentali appena sorte: il Comune e l’Università. Durante il XIII secolo il comune bolognese conferiva al ceto notarile la totalità degli incarichi pubblici ordinari e buona parte di quelli straordinari e delle missioni diplomatiche. Nel Duecento, in città, già sede della Scuola giuridica che nel XII secolo aveva portato alla riscoperta del diritto romano, sorsero scuole notarili che formarono professionisti esperti in grado di garantire la continuità amministrativa degli uffici pubblici. Alla prestigiosa bottega bolognese del notaio Ranieri da Perugia (autore, tra l’altro, di uno dei primi formulari notarili), venne affidata nel 1223 la compilazione del primo registro del Comune, e da questa stessa scuola uscirono Salatiele, autore dell’Ars notarie (1242; tentativo di adeguare la prassi notarile alla dottrina giuridica giustinianea), e Rolandino Passaggeri, autore della Summa totius artis notarie, manuale che

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sarebbe rimasto il testo base per la formazione dei notai fino al XVIII secolo. Nel 1219 il Comune di Bologna modificò la procedura tradizionale attraverso la quale si acquisiva il titolo e la funzione di notaio (ottenuta mediante la nomina imperiale delegata ai conti palatini), accentuando il proprio controllo diretto su questo gruppo di pubblici ufficiali. Il provvedimento era motivato dall’ormai eccessivo numero di notai, che non consentiva piú un riscontro obiettivo sulla qualità e sull’autenticità degli atti, nonché sull’autenticità del titolo detenuto dal rogatario. Il Comune impose perciò a tutti coloro che si dichiaravano notai di presentarsi presso un apposito ufficio e di farvisi registrare, dichiarando anche l’autorità (conte palatino) che aveva conferito l’incarico. Nacque cosí la matricola (cioè l’albo) dei notai legittimati dal Comune (che intendeva cosí tutelare la certezza del diritto), a esercitare la professione sia nella redazione di atti pubblici, sia in quella verso i privati. Nel 1219 vi si iscrissero ben 278 professionisti bolognesi, e altri 142 negli anni successivi: in questo periodo erano perciò attivi in città oltre 400 notai su una popolazione che non superava

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i 20 000 abitanti. Terminate nel 1221 le operazioni di registrazione, il Comune bolognese non si accontentò piú del privilegio di nomina imperiale o comitale, ma estese il proprio controllo anche sulla preparazione tecnica degli aspiranti notai, istituendo cosí, di fatto, l’esame per l’accesso alla professione, da sostenere davanti agli esperti giuristi dell’Università di Bologna. Tra il 1284 e il 1326 divennero notai a Bologna 2299 giovani: una media, quindi, di circa 50 ogni anno, che, dopo aver frequentato i corsi di grammatica latina, e di dottrina e pratica notarile, superavano l’esame di fronte al giudice del podestà e a una commissione di esperti nominati dalla corporazione, ottenendo l’abilitazione a esercitare la professione nella città e nel suo contado. L’Arte dei notai bolognesi, che nel 1294 contava ormai oltre 1300 iscritti, raggiunse una tale importanza da divenire, fra il XIII e il XIV secolo, la corporazione guida del partito guelfo-popolare e quindi della politica del Comune stesso prima dell’avvento della signoria. Durante il Trecento, invece, in un contesto politico e sociale profondamente mutato, le ambizioni dei notai bolognesi si ridussero all’ambito professionale.

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A sinistra miniatura con notai al lavoro, dalla Matricola dei Notari di Perugia. XV sec. Perugia, Palazzo dei Priori, Collegio del Cambio. A destra Genova, Palazzo San Giorgio. Particolare di un affresco della facciata con lo stemma della città. 1620.

Genova

Un ceto chiuso Anche i notai genovesi, che ricevevano l’investitura dal Comune per delega imperiale, rogavano sia per la città, sia per i privati, senza una rigida distinzione. Si possono tuttavia individuare due categorie: coloro che ricoprivano incarichi pubblici e lavoravano per le istituzioni cittadine, pur senza trascurare l’attività per i privati, e coloro che rogavano esclusivamente per i privati. La corporazione dei notai genovesi potè godere di una vita pressoché autonoma, svincolata dal controllo e dall’ingerenza delle istituzioni comunali. Il collegio stesso agiva come filtro sociale, attuando rigide misure volte a proteggere la categoria, minacciata dai troppi notai provenienti da altre località del dominio. A questo si affiancava la tendenza a costituire un ceto chiuso di famiglie notarili che trasmettevano ai figli la professione e gli eventuali uffici pubblici ricoperti. Nel 1316, nel 1382 e nel 1411 il collegio notarile genovese adottò vari provvedimenti per disciplinare l’accesso alla professione in modo da costituire una matricola riservata ai figli dei notai. Già tra il XIII e il XIV secolo era stato stabilito un numero massimo di 200 professionisti abilitati a rogare a Genova, limite ribadito nel 1399, anche se durante il Trecento le élite sociali emergenti avevano fatto pressione per aprire l’accesso al collegio a elementi esterni alla casta notarile già costituita. Oltre a questa tendenza alla chiusura della professione, l’entrare a far parte del collegio notarile era un passo particolarmente ambito perché consentiva l’accesso agli incarichi pubblici, e quindi al patriziato cittadino. I piú qualificati erano i notai che raggiungevano i vertici dell’amministrazione pubblica entrando a far parte del ristretto numero di cancellieri (prima 3 poi 6) che nel corso del Trecento affiancavano il Doge.

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costume e società i notai l’apprendistato

In «buona fede e senza inganni» Il contratto di apprendistato per l’assunzione di un praticante notaio non differiva da quelli per l’assunzione di qualsiasi altro apprendista o lavorante per qualunque altra attività, e la formalizzazione dell’accordo avveniva in entrambi i casi con atto notarile. Il padre del praticante si impegnava a mettere a bottega il proprio figlio presso uno studio già avviato per due anni o piú, a fornirgli il vestiario e le calzature, e a far sí che rispettasse i patti. Il ragazzo prometteva di abitare presso il notaio, di imparare l’arte e di scrivere e lavorare per lui «bona fide et sine fraude», nel suo studio o dove egli avesse voluto. Il notaio si impegnava a insegnare al ragazzo l’arte, a fornirgli vitto e alloggio, a fargli tenere in ordine il guardaroba e a versargli un compenso piuttosto modesto, di poco superiore a quello degli apprendisti delle attività manuali (i tessitori di seta, per esempio). In caso di malattia, la spesa onerosa per il medico e le medicine sarebbe stata a carico del padre del ragazzo, che avrebbe dovuto recuperare al termine del contratto i giorni persi a causa dell’infermità.


Firenze, oratorio di S. Martino dei Buonomini. Affresco dell’altra lunetta con atti notarili raffigurante un notaio che procede alla redazione dell’inventario di un’eredità. XV sec.

di redigere e conferire validità agli atti emanati dagli stessi consoli del Comune e fu depositario, fino all’inizio del XIII secolo, anche della documentazione pubblica che il Comune non aveva ancora l’obbligo di conservare. A questo pubblico ufficiale si attribuiva tanta credibilità che gli si conferí talora il compito di redigere o ratificare annali e cronache cittadine la cui veridicità sarebbe stata senz’altro garantita dal ruolo rivestito dall’autore, come avvenne a Genova nel XII secolo per gli Annali di Caffaro. Un po’ in tutti i centri italiani, pur senza diventare veri dipendenti e funzionari comunali, ma conservando i propri impegni e il proprio status di liberi professionisti, i notai stabilirono con l’amministrazione cittadina un rapporto sempre piú stretto e organico, fino a divenirne la struttura portante. In questo senso spiccano i casi di Bologna e Genova (vedi box alle pp. 42-43 e 45).

L’iter professionale

La creazione del notaio spettava alla massima autorità e fonte del diritto, cioè all’imperatore, che delegava il compito ai conti palatini da lui nominati, i quali, a loro volta, conferivano il titolo a coloro che avevano terminato il ciclo di studi e il praticantato e superato l’esame. Dopo la sconfitta di Manfredi (1266) e il tramonto dell’autorità imperiale in Italia, anche molti Comuni (come quelli Bologna e di Firenze) si arrogarono definitivamente la facoltà di creare i notai, facoltà che a volte già esercitavano come atto di supervisione e di tutela della legalità. Questa prassi durò fino all’età moderna. L’iter per diventare notaio non era molto diverso da quello attuale: bisognava aver compiuto 20 anni, essere nati nella città in cui si intendeva svolgere la professione, aver effettuato quattro anni di studi grammaticali e retorici, nonché un biennio di pratica presso uno studio notarile già avviato; sostenere un esame consistente nella stesura di un atto preventivamente sorteggiato e nella verifica delle capacità del

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costume e società i notai candidato «in literatura et scriptura», oltre che della sua buona reputazione; prestare giuramento di esercitare la professione con onestà; versare infine una tassa di iscrizione all’ordine. Questo schema e le modalità dell’esame potevano variare nel tempo e da una città all’altra.

Norme e sanzioni

Un codice deontologico disciplinava la professione, prescrivendo, in primo luogo, l’obbligo di certezza dell’identità personale dei contraenti; imponendo poi il divieto di sottoscrivere atti sui quali si nutrissero dei sospetti, la facoltà di rifiutare di esibire i documenti a giudici che lo avessero richiesto senza validi motivi, il divieto di rogare nelle taverne e in luoghi disonesti e di lavorare nei giorni festivi. Coloro che non si fossero attenuti a tali norme potevano essere radiati dall’ordine, e, nei casi piú gravi (come la redazione di atti falsi) incorrere in multe e pene corporali, fino a quella, estrema, del taglio della mano. Non era necessario che le parti e i testimoni sottoscrivessero l’atto, a dare validità al quale bastavano la sottoscrizione e il segno di tabellionato del notaio. Alla morte del notaio l’archivio dei documenti da lui redatti passava a un figlio o a un parente, i quali erano tenuti a consegnarlo agli abati del collegio o al primo parente che avesse esercitato a sua volta la professione. In realtà, sembra che spesso gli eredi del defunto vendessero i cartolari al miglior offerente interessato a formarsi una clientela piú vasta. Solo nel Settecento fu costituito un vero e proprio archivio pubblico in cui depositare le imbreviature dei notai defunti o di quelli

non piú in grado di lavorare. In ogni città la professione era governata dal «collegio dei notai», equivalente all’attuale consiglio notarile, presieduto in genere (la sua composizione variava da un luogo all’altro) da 2 abati, alcuni «anziani», un «canevario» e due sindaci con compiti di contabili, alcuni «sapienti» destinati a coadiuvare l’assemblea. Erano tutti professio-

nisti affermati, con un’età superiore ai 25 anni; l’incarico durava un anno e poteva essere riconfermato una sola volta. Il collegio aveva il compito di vigilare che gli atti non venissero falsificati; di punire chi esercitava l’arte senza esservi iscritto; di tenere l’amministrazione del collegio; di esaminare gli aspiranti notai e punire le infrazioni; di dirimere ogni questione tra i membri dell’arte; di stabilire l’assegnazione degli atti dei notai defunti; di curare infine la compilazione della matricola, cioè dell’elenco degli abili-

Inventario post mortem di Francesco di Marco Datini (1335-1410), steso nel 1412 dal notaio ser Tieri di Baronto da Larciano. Prato, Archivio di Stato di Prato, Archivio Datini.

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tati all’esercizio della professione. Il collegio notarile di ogni città fissava anche i compensi che ciascun professionista avrebbe dovuto ricevere a seconda del tipo di atto. Le tariffe piú cospicue riguardavano i rogiti lunghi e complessi come arbitrati, divisioni di beni, inventari, testamenti; se il documento non era stato redatto in città, al normale compenso venivano aggiunte le spese di viaggio e soggiorno (cavallo, taverna, giorni persi). Dal momento che si ricorreva a questi professionisti per ogni tipo di transazione, il loro numero era necessariamente molto elevato, abbondantissima la quantità di documentazione prodotta da ogni studio, e tale l’importanza della professione che gli statuti notarili erano inseriti in quelli cittadini. I notai erano impegnati nella stesura di ogni tipo di documento: dai contratti di affitto e compravendita di immobili, all’assunzione di apprendisti o lavoranti, alla stipulazione di società commerciali, alla vendita di merci svariate (vino, cereali, tessuti, materie prime o semilavorate di qualsiasi genere), ai contratti per la costituzione di dote, ai testamenti, agli arbitrati, alle dichiarazioni volte a certificare la veridicità di una determinata testimonianza.

Ruoli nevralgici

A Bologna, dove, nella seconda metà del Duecento, la corporazione dei notai aveva assunto un ruolo di rilievo nella vita politica della città, il numero degli iscritti alla professione arrivava a 1300, la cui presenza strategica nei centri direttivi della vita istituzionale e nell’economia garantiva e certificava la legalità delle pratiche, subentrando al tempo stesso al precedente ceto di governo, costituito da mercanti e banchieri (vedi box alle pp. 42-43). All’interno del notariato si riscontravano notevoli differenze di febbraio

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Il sigillo notarile di Antonio de Benedictis. 1500 circa. Bologna, Archivio di Stato di Bologna.

status e di ricchezza: dai notai piú modesti, residenti nelle campagne o nelle zone popolari delle città, che arrotondavano i loro guadagni con piccole attività commerciali e che erano disposti a servire una clientela di qualsiasi tipo, ai grandi notai delle famiglie aristocratiche, imparentati con i maggiorenti cittadini, in grado di vivere essi stessi «more nobilium», e di acquistare immobili, terreni, aziende agricole. Molti di loro erano attivamente impegnati nel commercio e in numerose altre attività, per cui non è possibile stabilire quali fossero i proventi effettivamente derivanti dalla professione. Anche nelle città in cui la corporazione dei notai aveva raggiunto il massimo grado di prestigio e di potere potevano verificarsi simili situazioni. A Genova, per esempio, dove nel Trecento la professione godeva ancora di uno straordinario prestigio e di un potere che non avrebbe piú avuto nei secoli successivi, si riscontrava una notevolissima varietà di situazioni, di esperienze e vicende personali, nonostante l’appartenenza a una casta chiusa, annoverata dalla legislazione tra quelle privilegiate.

Il «secondo» lavoro

A Venezia e in molti centri della terraferma veneta, durante il XV secolo, molti notai erano anche mercanti e le loro competenze di natura giuridica si confondevano con quelle di natura economica, al punto che lo studio del professionista si trasformava talvolta in una bottega per la compravendita di tessuti di lana o di seta, o di materie prime. La produzione tessile di questa zona ruotava infatti intorno a società in accomandita, costituite cioè da un socio d’opera e da un finanziatore, appartenente al gruppo dirigente cittadino. I notai trovavano appunto in queste attività un modo per far fruttare i capitali di cui disponeva-

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no. Un professionista di Vicenza, durante la prima metà del Quattrocento, finanziò almeno 9 diverse società, di cui 6 per la produzione di tessuti in lana, e 3 per la seta. Molti di loro, oltre che essere soci di capitale, dirigevano materialmente la produzione, come veri e propri mercanti-imprenditori. Un notaio-mercante attivo a Vicenza nella seconda metà del Qauttrocento produsse, tra il 1465 e il 1468, almeno 76 drappi di diversa qualità da vendere sul mercato veneziano. Utilizzava come materia prima sia lana locale sia lana spagnola di san Matteo, e nei suoi cartolari, accanto

alle pratiche notarili, sono registrate annotazioni relative alla sua produzione di tessuti, all’acquisto delle materie prime, ai contratti con i trasportatori. Commerciava poi anche cotone, fustagno, lana spagnola, spezie, mandorle, olio, vino Malvasia, facendoli venire da Venezia per venderli a Vicenza.

Italiani all’estero

Di peculiare importanza in età medievale fu anche il ruolo dei notai italiani all’estero, dove allora, a differenza di quanto accade oggi, potevano lavorare. Nei numerosissimi aggregati mercantili italiani sparsi

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costume e società i notai Nel Regno di Napoli e di Sicilia

Da Federico II ad Alfonso il Magnanimo Nel Regno di Sicilia l’interesse per il notariato era cominciato con il sorgere stesso della monarchia: già al tempo dei Normanni, Ruggero II (1140), pur non intervenendo nella questione del reclutamento dei notai, si era occupato però della loro connotazione sociale, accostandoli ai milites e ai giudici, e decretando che il loro reclutamento dovesse avvenire sotto il controllo dell’autorità regia. Molto piú ampia fu la normativa di Federico II che, nel Liber Augustalis (1231), disegnò un assetto professionale nettamente piú definito, precisando il rapporto ineliminabile tra fides publica e auctoritas regia: il notaio avrebbe potuto esercitare la professione soltanto se legittimato da un’investitura conferitagli direttamente dal sovrano. Il che aveva come conseguenza il diretto controllo regio sulla nomina dei notai e sulla loro attività professionale: gli aspiranti notai non dovevano essere soggetti ad alcun vincolo di dipendenza personale nei confronti di un signore, ma rispondere del loro operato direttamente al re. L’accesso alla professione era vietato a chi fosse di condizione servile, o figlio naturale, o figlio di chierico. Dopo aver superato l’esame, i notai dovevano essere nominati direttamente dal re, e non piú da funzionari dell’amministrazione centrale, come avveniva in passato. La vigilanza del sovrano si estese anche alla redazione dell’atto, prescrivendo che dovesse essere stilato in un linguaggio giuridico comprensibile a tutti, con calligrafia chiara, ed esclusivamente su pergamena, in modo da garantirne la durata nel tempo. Due secoli dopo, nel 1440, Alfonso V il Magnanimo emanò un complesso di norme in cui regolamentava anche l’attività notarile. Il proemio della raccolta legislativa esordiva proprio proclamando che la garanzia della fides, scopo supremo dell’attività notarile, è fondamentale sia all’umana convivenza, sia al buon governo dello Stato. Per questo motivo il legislatore ha il dovere di dare ai notai gli strumenti necessari a salvaguardarla e a preservarla da ogni azione delittuosa che può nascere in assenza di regole chiare e univoche. Il corpus legislativo proseguiva occupandosi in modo estremamente dettagliato di tutti i campi dell’attività del notaio: dai requisiti per l’accesso alla professione, alle modalità dell’esame, alla tenuta dei registri e alla redazione degli atti, al controllo periodico dell’attività dei notai da parte di ufficiali regi appositamente incaricati, a una minuziosa regolamentazione delle tariffe, elencate con precisione a seconda delle varie tipologie degli atti. La legislazione federiciana e quella alfonsina costituiscono dunque i pilastri di una struttura che individua il notaio come figura fondamentale di collegamento tra il potere centrale, unico in grado di garantire e di tutelare giuridicamente il buon esito dei contratti, e i privati cittadini. Soltanto attraverso l’intervento dell’autorità regia il notaio diventa depositario della fides publica in forza della quale potrà garantire la validità degli accordi fra i privati.

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Nella pagina accanto Venezia, Palazzo Ducale. Capitello con la figura di un notaio che redige un atto. XV sec. In basso dritto di un augustale aureo di Federico II, con il profilo del sovrano. 1231-1250. Padova, Musei Civici.

ovunque in Europa, i notai provenienti dalla Penisola portavano l’agire e la cultura dei propri concittadini, con apporti talora determinanti: nelle Fiandre, per esempio, i professionisti italiani diedero un impulso decisivo al superamento del diritto consuetudinario e alla diffusione del diritto romano. In particolare la diaspora dei mercanti genovesi fu accompagnata da notai la cui mediazione era indispensabile, dal momento che la legislazione stessa della città ligure prevedeva che ovunque fosse presente un notaio oriundo di Genova o del distretto, i suoi concittadini potessero rivolgersi soltanto a lui. Dal canto suo, il notaio residente all’estero doveva impratichirsi di usi, lingue e tradizioni locali, nonché di ordinamenti particolari e di particolari tipi di contabilità, adattando alla peculiarità delle situazioni soluzioni tecniche innovative, soprattutto in ambito mercantile, e diventando vero e febbraio

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il notariato in cifre

Ma quanti erano? A Firenze nel 1338, secondo Giovanni Villani che lo considera un anno di apogeo, i notai avrebbero raggiunto il numero di 600, in una città di circa 100 000 abitanti, mentre a Lucca, la cui popolazione era 1/3 di quella fiorentina, nel 1308 superavano le 200 unità, mantenendo dunque le medesime proporzioni di 6 professionisti ogni 1000 abitanti. Lo stesso si può dire per Arezzo dove, nel 1390, c’erano 53 notai per 9000 abitanti.

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A Roma, negli anni Sessanta-Settanta del Trecento se ne contavano 133 su 30 000 abitanti: ancora una volta, dunque, il medesimo rapporto di un professionista ogni 200/250 cittadini. A Milano lungo tutto l’arco del XV secolo si iscrissero alla professione oltre 1500 notai (su una popolazione di circa 100 000 abitanti). Tra il 1507 e il 1519 la Curia Romana immatricolò ben 1268 notai provenienti da tutta l’Europa cattolica: 319 francesi, 160 spagnoli, 135 tedeschi, 39 fiamminghi e 519 italiani.

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costume e società i notai

Miniatura raffigurante un moribondo che, circondato dai familiari, detta le ultime volontà a un notaio, seduto ai piedi del letto, dal Justiniani in Fortiatum, manoscritto di scuola francese del XIV sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

proprio creatore del diritto. L’Oltremare (le colonie di Caffa, Chio, Cipro, Famagosta, per citarne solo alcune) esercitava un grande fascino sui notai genovesi, che vi trovavano lucrose opportunità professionali ed economiche. C’erano poi i notai incaricati di redigere gli atti sulle navi: si trattava in genere di giovani alle prime

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armi alla ricerca di una sistemazione, e che consideravano questa attività un trampolino di lancio verso incarichi piú qualificati e redditizi. Molti di loro sapevano trasformare questa esperienza in opportunità di guadagno e di crescita, instaurando rapporti con mercanti, marinai, persone di rango, e riuscivano a far carriera.

Gli atti come fonti

Proprio per il gran numero di contenuti che li caratterizzava, i rogiti medievali rappresentano attualmente una delle principali fonti di notizie per la storia della società nelle sue molteplici componenti,

soprattutto nelle città in cui altri tipi di documentazione come libri mastri e carteggi mercantili sono andati perduti. In particolare, data l’abbondanza in questo tipo di documentazione di dettagli specifici di carattere economico, sociale, familiare, gli atti notarili rappresentano un ausilio indispensabile per la conoscenza di quei soggetti da sempre esclusi dall’indagine storica come le donne e i piccoli artigiani, e permettono di delineare uno spaccato vivace della vita urbana di ogni giorno e di ogni ceto sociale. Nella scelta del notaio da parte della clientela risultavano determinanti sia la sede in cui avveniva febbraio

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la stipulazione degli atti, che poteva corrispondere al suo studio, oppure semplicemente a un banco ubicato nelle principali zone di affluenza (come il mercato o la piazza dei mercanti), sia l’estrazione sociale del professionista, e di conseguenza la maggiore o minore propensione a rivolgersi a lui di un gruppo sociale piuttosto che di un altro. Era infatti naturale che i clienti si sentissero maggiormente a loro agio rivolgendosi a professionisti del proprio ceto.

Procedure difficili

I clienti, e in modo particolare quelli impegnati in attività manifatturiere e commerciali, tendevano inoltre a recarsi da notai esperti in atti che potevano presentare particolari difficoltà (come le lettere di cambio, cioè i trasferimenti di denaro da una città all’altra, le società commerciali, gli arbitrati), o particolari complicazioni linguistiche (come gli inventari di bottega, che spesso venivano redatti utilizzando termini dialettali latinizzati). C’erano poi i notai bilingui, o comunque specializzati nella redazione di atti in cui una delle parti era straniera: soprattutto i commercianti e gli artigiani tedeschi, che tanta importanza rivestivano nella vita economica dell’Italia centro-settentrionale, si rivolgevano di preferenza a professionisti in grado di capire e trascrivere senza troppi errori i loro nomi, i particolari tecnici dell’attività da loro svolta, i complessi termini relativi alla strumentazione e ai procedimenti da loro utilizzati. A Roma nel primo Cinquecento, per esempio, un unico notaio, di nazionalità appunto tedesca, venne incaricato dai banchieri Fugger di rogare tutti gli atti per la loro filiale romana, atti di grandissima rilevanza economica perché riguardavano appalti assai lucrosi ottenuti per il rifornimento di generi di lusso alla corte papale. La documentazione notarile permette dunque di ricostruire la complessità sociale di molte istituzioni

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Molti professionisti operavano all’estero e alcuni prestavano servizio perfino a bordo delle navi e sistemi economici, e il condizionamento esercitato dai singoli individui, attraverso la loro personalità, i loro interessi e i loro circuiti di contatti e conoscenze, sulla società, sull’economia, sulle istituzioni. Essa rappresenta una fonte capace di rinnovare le conoscenze sui condizionamenti reciproci esistenti tra fattori spesso alquanto complessi. L’utilizzazione dei documenti notarili per la ricostruzione storica va comunque affiancata da notevoli cautele interpretative. Se in passato infatti si riteneva che gli atti notarili non potessero essere viziati da distorsioni ideologiche e che dovessero rispecchiare fedelmente la realtà, oggi si riconosce invece l’alto tasso di manipolazione che poteva caratterizzare le scritture notarili, per cui ogni documento partecipa di contesti diversi e può venire sottoposto a svariati gradi di lettura e subire cosí significativi slittamenti semantici.

Realtà distorte

D’altra parte, l’atto può non essere quello che crediamo che sia, perché ispirato da una logica profondamente diversa da quella di

un contratto odierno. Per superare tali difficoltà occorrerà dunque tener presente, in primo luogo, che solo la connessione di molti e diversi atti consente di far emergere (quasi in un gioco di specchi in cui ciascuna immagine contribuisce a dare significato alle altre dalle quali a sua volta ne riceve), le strategie e i valori che sostanziano in sé, unificandoli, i vari strumenti: una connessione di atti di diversa natura permetterà infatti di portare alla luce le pratiche, i valori e gli artifici che l’apparente certezza di questa fonte dissimula. Occorre dunque esaminare il rogito alla luce del sistema normativo vigente nel luogo, nell’epoca e nel contesto in cui è stato stipulato, e mediante l’ausilio di fonti diverse da quella notarile (giudiziarie, letterarie, ecc.), che possono permettere di intuire quali siano gli elementi sottaciuti dal contratto e di dargli pieno senso, chiarendone il significato nascosto. A tutto questo bisognerà aggiungere un’estrema attenzione critica verso tutto il non detto che ciascun atto contiene. F

Da leggere U Santi Calleri, L’arte dei giudici e dei

notai di Firenze nell’età comunale e nel suo statuto del 1344, Giuffrè, Milano 1966 U Giorgio Cencetti, Dal tabellione romano al notaio medievale, in Il notariato veronese attraverso i secoli, Verona 1966 (anche on line: http://scrineum.unipv.it) U Giorgio Tamba, Una corporazione per il potere. Il notariato a Bologna in età comunale, CLUEB, Bologna 1998 U Massimo Giansante, Retorica e politica nel Duecento. I notai bolognesi e l’ideologia comunale,

Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1998 U Giovanna Petti Balbi, Notai della città e notai nella città di Genova durante il Trecento, in Il notaio e la città: essere notaio: i tempi e i luoghi (secc. XII-XV), atti del convegno (Genova 2007), Giuffrè, Milano 2009; pp. 3-40 U Beatrice Pasciuta, Profili normativi e identità sociale: il notariato a Palermo nel XIV secolo, in Il notaio e la città. Essere notaio: i tempi e i luoghi (secc. XII-XV), atti del convegno (Genova, 2007), Giuffrè, Milano 2009; pp.113-152

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Il segretario «fedele» di Chiara Parente

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storie giovanni matteo bottigella Originario di Pavia, Giovanni Matteo Bottigella costruí la sua fortuna a Milano, entrando, a soli vent’anni, al servizio di Filippo Maria Visconti. Da quel momento in poi, la sua carriera non conobbe ostacoli e gli permise di acquisire grande autorevolezza e trarre importanti benefici economici. All’attività professionale si affiancò la passione per i libri e per l’arte, a cui dobbiamo, in particolare, alcuni pregevoli dipinti di Vincenzo Foppa

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el considerare il periodo di Filippo Maria Visconti e dei primi Sforza, a cavallo tra la prima e la seconda metà del Quattrocento, ci si imbatte spesso in un personaggio non centrale, ma comunque di rilievo in quel tempo: Giovanni Matteo Bottigella. Segretario e consigliere ducale di Filippo Maria Visconti, uomo politico di primaria importanza con Francesco Sforza, nonché letterato e umanista, Giovanni Matteo è l’esponente principale della famiglia Bottigella, considerata una delle casate piú influenti del Ducato di Milano. Nato a Pavia intorno al 1410 da Giovanna Ferrari e Tomaino Bottigella, Giovanni Matteo ereditò, insieme al fratello Cristoforo, la maggior parte dell’ingente fortuna paterna. Cominciò la sua carriera nel 1431, poco piú che ventenne, al servizio di Filippo Maria Visconti. Nel 1443 fu nominato sovrintendente ai benefici ecclesiastici del Ducato e, nel 1444, venne elevato alla dignità di segretario ducale, carica di notevoli responsabilità politiche, che l’anno successivo gli permise di ottenere la cittadinanza milanese per sé e per i propri discendenti. Seguendo la politica matrimoniale dei numerosi fratelli (sette maschi – due dei quali furono avviati alla carriera ecclesiastica – e quattro femmine), finalizzata a imparentare i Bottigella con prestigiosi lignaggi, sposò la nobildonna Bianca Visconti, figlia di Lancellotto Visconti, signore di Sesto Calende e conte di Cigognola. In tal modo inserí la casata nella cerchia della classe dirigente lombarda, stringendo legami di parentela, sia

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In alto Pavia, S. Teodoro. Affresco di Bernardino Lanzani che rappresenta una veduta della città, munita di numerose torri medievali. 1525-1526.

Nella pagina accanto il profilo di Giovanni Matteo Bottigella nella pala dipinta da Vincenzo Foppa (vedi foto a p. 59). 1480-1486.

pur non stretti, con Cicco Simonetta, ritenuto uno degli uomini piú potenti dello Stato milanese. Il definitivo consolidamento del Ducato nelle mani di Francesco Sforza, il 26 marzo 1450, segnò l’avvio del periodo piú luminoso nella vita di Giovanni Matteo, dotato anche di una certa lungimiranza, che nella lunga carriera di alto funzionario gli impedí errori fatali. Indennizzato con una serie di concessioni daziali nel Pavese e nell’Oltrepò, in cambio delle notevoli somme di denaro prestate allo Sforza e mai rese, l’abile uomo politico riuscí cosí a incrementare non poco il patrimonio familiare, ricevendo inoltre dal nuovo duca l’ambito titolo di aulico, che gli permise di entrare a far parte del gruppo di quarantotto gentiluomini, con particolari funzioni di rappresentanza e prestigio, su cui si fondava la corte sforzesca.

Operazione Terra Santa

Come diplomatico, la missione piú singolare fu il pellegrinaggio in Terra Santa, intrapreso per conto di Francesco Sforza, tra il 1458 e il 1459, insieme al condottiero Roberto Sanseverino, nipote del duca. In realtà si trattò di una vera operazione di spionaggio militare, nascosta

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storie giovanni matteo bottigella sotto il pretesto del viaggio penitenziale, effettuata con l’intenzione di esaminare la situazione politico-militare delle terre d’Oltremare, in vista di una prossima crociata. La tragica fine di Cicco Simonetta e l’avvento al potere di Ludovico il Moro segnarono la progressiva uscita dalla scena politica di Giovanni Matteo, ormai sulla settantina. Risale al 12 febbraio 1485 la lunga e dettagliata lettera indirizzata ai Maestri delle Entrate Straordinarie ducali, in cui Bottigella descrive la povertà degli introiti feudali delle sue terre, ma soprattutto redige un’orgogliosa apologia del «longo e fedele servire» i duchi di Milano, fornendo in tal modo ai suoi futuri biografi una straordinaria fonte di notizie. L’anno successivo, il 27 marzo 1486, morí la moglie Bianca e pochi mesi dopo, il 26 ottobre, pure l’anziano patrizio lasciò questa vita. L’agiatezza di Giovanni Matteo si manifesta anche nel rilevante intervento architettonico commissionato nel palazzo di famiglia a Pavia. La vicenda storica della dimora Bottigella ben si inquadra nella prassi documentata durante il Quattrocento per l’edilizia pavese. Essa consiste in una politica dinastica di ampliamento di un primo nucleo di terreni, tramite la progressiva acquisizione delle parti confinanti, e la successiva concentrazione delle proprietà nelle mani dei membri piú influenti del casato, nel nostro caso i due fratelli Cristoforo, professore di diritto civile e canonico nell’Università di Pavia dal 1455 al 1491, e Giovanni Matteo.

Rispetto del patrimonio

Al processo di ampliamento seguiva la trasformazione delle strutture abitative medievali, nell’intento di fornire ai recenti proprietari una residenza consona al rango sociale acquisito. La rinuncia da parte dei Bottigella a un progetto unitario di ricostruzione ex novo dell’intero fabbricato, rispetto al quale fu preferita una parziale riqualificazione degli ambienti e del prospetto esterno, deve essere valutata anche come opzione culturale, tesa a una particolare attenzione alla conservazione del bene patrimoniale. Alla fine dei cambiamenti operati tra ottavo e nono decennio del Quattrocento, l’insieme dei caseggiati che formavano l’abitazione dei due fratelli Bottigella doveva apparire un complesso quadrangolare irregolare di altezza ridotta, a corte interna di modeste dimensioni, con ampio giardino a nord e a est dell’insula. Il nucleo residenziale, concentrato nel settore sud-ovest dell’isolato, era diviso in due unità indipendenti. La prima, a settentrione, apparteneva a Cristoforo che, nella parte del palazzo in comune con Giovanni Matteo, aveva fatto costruire una maestosa torre, nota come Torre Botti-

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In basso medaglione in bronzo di Francesco Sforza, duca di Milano, durante il cui governo Giovanni Matteo Bottigella ebbe i suoi incarichi piú importanti. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti. Nella pagina accanto la tavola d’altare nota come Pala Bottigella, realizzata da Vincenzo Foppa su

commissione di Giovanni Matteo. 1480-1486. Pavia, Biblioteca Malaspina. La Madonna col Bambino è attorniata dai santi Matteo, Giovanni Battista, Stefano, Gerolamo; in prima fila, il beato Domenico di Catalogna, la beata Sibillina da Pavia e i donatori Giovanni Matteo Bottigella e Bianca Visconti.

gella. La seconda parte dell’immobile, a meridione, era proprietà di Giovanni Matteo e comprendeva un’ampia sala situata nell’angolo sud-est e prospettante a sud sulla stradina, che separava il palazzo dal monastero del Senatore. Dell’apparato decorativo dell’uno e dell’altro palazzo restano alcuni frammenti scultorei erratici, che, in buona parte divisi tra il giardino, il pianerottolo dell’attuale edificio e i musei civici, lasciano immaginare il cospicuo corredo quattrocentesco a completamento delle murature in laterizio. La facciata dell’edificio, posto a fondale del tratto occidentale dell’antico decumano, era inoltre esaltata da pitture, a indicare la presenza di una delle principali dimore cittadine. Uomo di lettere e committente d’arte, Giovanni Matteo fu amico intimo di Pier Candido Decembrio, suo concittadino, e di Francesco Filelfo, che gli dedicò alcuni epigrammi. L’ambiente di corte, dove non fu mai troppo ambizioso ma seppe farsi stimare per l’ingegno, la saggezza e la moderazione, risultò assai favorevole ai suoi interessi culturali.

La passione per i libri

I libri furono la sua grande passione. Nell’epoca dell’ultima fioritura dei bei manoscritti, da lí a poco soppiantati dalla stampa, Giovanni Matteo commissionò prestigiose edizioni di classici latini e recenti opere umanistiche ai principali copisti e decoratori di allora, costruendo un’invidiabile biblioteca, stimata tra le maggiori raccolte private realizzate sul mirabile modello, nella stessa Pavia, della biblioteca ducale visconteo-sforzesca. I gusti bibliofili e le scelte artistiche del Bottigella appaiono coerentemente allineati a quelli della corte prima viscontea e poi sforzesca. Negli anni Quaranta del Quattrocento, per i libri, Giovanni Matteo si rivolgeva alla bottega del Maestro delle Vite degli Imperatori Romani, al pari di tutti i maggiorenti milanesi. Piú febbraio

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storie giovanni matteo bottigella Sibillina Biscossi

La beata che vedeva il futuro L’esperienza mistica della beata Sibillina Biscossi, lontanamente imparentata con la famiglia Bottigella, risulta esclusivamente di ambito locale. La fonte principale per la biografia della religiosa è la legenda stesa da Tommaso da Bossolasco, priore della provincia domenicana

In alto la volta affrescata della Cappella Bottigella nella chiesa di S. Tommaso (oggi compresa negli edifici dell’Università di Pavia). Nella pagina accanto Casei Gerola (Pavia), collegiata di S.

della Lombardia superiore dal 1374 al 1378, raccolta nel primo Cinquecento dal domenicano Ambrogio da Taegio ed edita nel Seicento negli Acta Sanctorum Martii dei Bollandisti. Nata nel 1287 a Pavia e rimasta presto orfana di entrambi i genitori, sin da

Giovanni Battista. Particolare del polittico in terracotta policroma, con Giovanni Matteo Bottigella nelle vesti di aulico del duca di Milano, che ha in mano la berretta alla capitanesca.

avanti nel tempo, mutate le mode, dimostra invece di apprezzare la pagina armoniosamente proporzionata del veneto-romano Bartolomeo Sancito, ma accontentandosi, nella decorazione, di uno stile piuttosto corrente e di un artefice locale. Le committenze pittoriche di elevato livello, promosse da Giovanni Matteo dentro e fuori Pavia, si inseriscono nel contesto di questo fervore culturale e artistico. Il principale e piú noto tra gli interventi finanziati dal mecenate in città è la cappella Bottigella, nel complesso domenicano di S. Tommaso. Secondo la tradizione i Domenicani arrivarono in città nel 1230, insediandosi nell’antico monastero di S. Tommaso nel 1288, sostituendo una comunità di suore benedettine. I frati di S. Domenico contribuirono attivamente alla vita religiosa, civile e culturale pavese

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giovanissima, Sibillina svolse umili lavori. A dodici anni perse completamente la vista. Una visione di san Domenico indusse in lei la chiamata interiore alla vita monastica. A quindici anni ottenne, con l’abito di terziaria domenicana, di essere accolta in una cella presso la chiesa di S. Tommaso, nella quale visse fino a ottant’anni. Reclusa nel piú rigoroso ascetismo, Sibillina dispensava consolazioni, rivelava segreti, esortava al pentimento ed esprimeva oralmente le visioni estatiche dalle quali era visitata. Talvolta rilasciava anche profezie a visitatori e devoti (a Beatrice, moglie di Giovanni Pepoli, consigliere di Gian Galeazzo Visconti, assicurò che il marito sarebbe tornato incolume dalla Francia). Preavvisata della morte imminente, si spense il 19 marzo 1367. Ebbe solenni funerali nella chiesa di S. Tommaso e la salma fu tumulata nella Cappella Bottigella.

aprendo, già nel Duecento, una scuola conventuale e svolgendo un ruolo di rilievo nella società. Particolarmente stretto fu il loro sodalizio con l’Università. Alcuni dei personaggi piú in vista di Pavia, e non solo quelli legati all’Ateneo, vollero essere sepolti nella chiesa, finanziandone la decorazione e accaparrandosi il patrocinio delle cappelle.

Reliquie nel sepolcro

L’intervento architettonico dei Bottigella nella chiesa, motivato anche dalla vicinanza topografica del monastero con il palazzo di famiglia e dal patrocinio universitario sul convento, risale al 1442. Per il luogo della sua sepoltura Giovanni Matteo si adegua alle scelte, maturate negli anni Sessanta del Quattrocento da Galeazzo Maria Sforza nella cappella castellana di Pavia, dove avrebbe dovuto aprirsi una immensa ancona-reliquiario. Similmente il patrizio pavese aveva voluto incastonare nell’altare molti sacri frammenti, raccolti nel pellegrinaggio in Terra Santa (1458-1459), una parte dei quali aveva offerto, non senza guadagnarsi crediti di riconoscenza, perfino ai duchi di Milano e ai loro alleati. Con l’acquisizione della salma di Sibillina Biscossi (vedi box in questa pagina), oggetto ai tempi di grande febbraio

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la collegiata di s. giovanni battista a casei gerola

Con la berretta da capitano Fuori Pavia il casato di Giovanni Matteo si era impegnato in un’altra committenza artistica: la Cappella Bottigella nella parrocchia di S. Giovanni Battista a Casei Gerola (Pavia; vedi anche «Medioevo» n. 172, maggio 2011; on line su medioevo.it). Tale scelta fu certamente accompagnata anche da motivi devozionali, in particolare il culto verso il Battista, profondamente radicato in famiglia. Promotore della decorazione a fresco, commissionata alla bottega del Foppa tra il 1472 e il 1478, è lo stesso Giovanni Matteo.

Nell’affresco della parete meridionale del luogo di culto il facoltoso mecenate è ritratto in ginocchio, ai piedi della Vergine Incoronata, alla quale è presentato da san Giovanni Battista, con le insegne di aulico del duca, e la cosiddetta «berretta alla capitanesca» o cappello capitaneo, riservato nel Quattrocento a chi aveva funzioni di governo o comando militare. Di grande pregio è anche il polittico in terracotta policroma, unico nell’Oltrepò Pavese, nel quale compare ancora una volta Giovanni Matteo Bottigella rivestito delle insegne di aulico, con la berretta in mano.

venerazione, Giovanni Matteo aveva poi sconvolto il progetto architettonico e iconografico dell’ancona, per inserirvi la nuova reliquia. Anche la scelta dell’artista al quale commissionare la pala d’altare, s’indirizzò su uno dei nomi accreditati a corte, quello di Vincenzo Foppa. Il risultato, la cosiddetta Pala Bottigella, fu forse persino superiore alle aspettative del vecchio cortigiano, che ottenne dal pittore un’opera tra le piú alte, tese e sperimentali. Infatti la tavola, che raffigura la Madonna col Bambino fra i santi Matteo, Giovanni Battista, Stefano, Gerolamo, il Beato Domenico di Catalogna, la Beata Sibillina da Pavia e i donatori Giovanni Matteo Bottigella e Bianca Visconti, è considerata uno dei capolavori della maturità espressiva del Foppa. L’opera, eseguita tra il 1480 e il 1486, ora è esposta alla Pinacoteca Malaspina di Pavia. F

Da leggere U Massimo Zaggia, Pier Luigi Mulas, Matteo Ceriana,

Giovanni Matteo Bottigella cortigiano, uomo di lettere e committente d’arte. Un percorso nella cultura lombarda di metà Quattrocento, Quaderni di «Rinascimento», XXXVI, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1997 U Maurizio Ceriana, Il borgo di Casei e il Ducato di Milano nel Quattrocento in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, anno CXI (2011); pp. 143-186 U Luisa Giordano e Gianpaolo Calvi (a cura di), Il palazzo dei fratelli Bottigella: per il recupero di un monumento perduto, Cooperativa Libraria Universitaria, Pavia 1998 U Chiara Porqueddu, Nobili e mercanti, cives e forenses nelle ammissioni al Collegio dei Giudici, in Annali di Storia Pavese, 27 (1999), pp. 253-276

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Come in uno

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di Lorenzo Lorenzi

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Associata alla nascita della bellezza e ambita come oggetto di prestigio, sin dai tempi piú antichi la conchiglia è stata una presenza ricorrente nella vita quotidiana e nell’immaginario dell’uomo. In seguito, la sua presenza si diffonde nell’arte, dove assume ruoli e significati che vanno ben oltre il semplice ornamento...

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na leggenda medievale racconta di come sant’Agostino, camminando sulla spiaggia, assorto sul significato della Trinità, avesse scorto un bimbo con in mano una conchiglia nell’intento di attingere l’acqua dal mare per trasportarla in una buca scavata nella sabbia. Chiedendo il perché di tanta fatica, l’infante rispose che era suo intento convogliare tutto il mare in quel pertugio. Alla meraviglia del santo seguí quella del bambino, che, con altrettanto stupore, chiarí quanto ingenuamente l’essere umano sia piccolo e presuntuoso, incapace di comprendere il mistero di Dio, Uno e Trino. In questa antica narrazione (che riprenderebbe un testo della Lettera apocrifa scritta a Cirillo da Agostino stesso), la conchiglia marina rappresenta il mezzo che conduce sino alla soglia del di-svelamento del mistero dell’essere. Abitante le profondità, è la guardiana di un luogo ostile e impenetrabile all’uomo, ma non per questo esente da meraviglia e sorprese, prima fra tutte la sua stessa forma a raggiera o spiraliforme. Il Fisiologo (II-IV secolo d.C.) riferisce come la rugiada, nelle prime ore del mattino, penetri dolcemente tra le valve della conchiglia e la fecondi dando origine alla gemma vivente piú dura e incorruttibile: la perla, fonte di verità stante il Bestiario di Cambridge del XII secolo. Da qui l’importanza della forma bivalve, organo generante una verità nascosta, espressione dell’Antico e Nuovo Testamento, parimenti della figura di Maria che ospita nel suo grembo la perla della cristianità; la rugiada, invece, allude allo Spirito Santo.

La perla come il Bambino

La perfezione della sfera si collega alla persona divina di Gesú (riferimento espresso anche nel Pedagogo di Clemente Alessandrino), germogliato per mezzo di se stesso, cioè senza sessualità, e per suo volere destinato a morte e resurrezione. Giovanni Damasceno, nel VII secolo, si sofferma sulla metafora generativa col binomio conchiglia-madre/bambino-perla nella variante del fulmine penetrato negli interstizi delle valve. Sandro Botticelli, Nascita di Venere. Tempera su tela, 1484-1485. Firenze, Galleria degli Uffizi. Secondo il mito,

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la dea sarebbe nata dalla schiuma del mare e sarebbe stata trasportata sulla terra da una conchiglia.

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In alto Pompei, Casa della Venere in Conchiglia. L’affresco da cui la dimora prende nome. A sinistra Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare dei mosaici in cui i personaggi sono sormontati da rappresentazioni stilizzate di valve di conchiglia. VI sec.

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Nell’antichità

Incubatrice di oggetti unici e preziosi Il suo fascino ha origine nella preistoria, epoca durante la quale gli individui si ornavano di bianche conchiglie utilizzate anche per decorare tombe, case e barche; presso antiche tribú orientali, aveva dignità di moneta e in qualità di oggetto comparativo, veniva scambiata in base a rarità, grandezza e bellezza. In tal senso si chiarisce il significato legato alla prosperità, all’abbondanza, come generico prodotto del mare (capace di nutrire), ma anche come incubatrice di oggetti unici e preziosi (le perle). La dea dell’amore e della fertilità, Afrodite-Venere, ne è l’emblema, poiché generata dalla schiuma marina (frutto dell’evirazione di Urano per opera di Crono) e portata a riva sulla cima di una conchiglia. Da qui la connessione con il femminino sacro, essendo la sua forma simile all’organo sessuale femminile, e la perla custodita al suo interno è metafora della clitoride. Pecten nel mondo latino indica sia la conchiglia, Il legame con il mito di Venere sussiste come accezione della sacra maternità, costituendo una faccia di un complesso caleidoscopio, che ingloba il concetto di Dio quale unione di parti fra loro diverse (il maschile e il femminile), ove l’omega (Ω), citata nell’Apocalisse somiglia formalmente a una valva marina: «Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita» (Ap., 21, 6). La sua comparsa nell’arte medievale si ha nei mosaici ravennati di impianto bizantino. Nella navata della basilica di S. Apollinare Nuovo (VI secolo), l’oggetto si impone come decoro apicale avente forma stilizzata di valva rovescia e scanalata, atta a preservare il personaggio sottostante; similmente nel registro inferiore dell’abside di S. Apollinare in Classe (VI secolo), sono presenti quattro nicchie rovesce, scanalate e iridescenti, che custodiscono le figure dei quattro vescovi fondatori delle principali basiliche cittadine, Ursicino, Orso, Severo ed Ecclesio (perle della cristianità), vestiti di abito sacerdotale con libro in mano; posta in sospensione sopra la testa di ogni figura, simboleggia protezione, regalità e santità, assurgendo a topos simbolico dell’arte medievale e moderna; un repertorio di nicchie geometriche fa da sfondo alla Traslazione di San Marco (1260-70) nel Duomo di Venezia. A forma di nicchia sono anche le acquasantiere, i fonti battesimali

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sia la vagina; sognare una conchiglia per Jung significava desiderare l’esperienza erotica con una donna. Due opere dell’antichità, esemplificano la relazione femmina-fertilità quali l’affresco di Pompei e la scultura di epoca ellenistica, che mostrano Afrodite-Venere adagiata su un piatto di conchiglia (del genere Tridacna con scanalature a pettine); su alcune monete di Hatria (oggi Atri), la dea sosta, invece, su una conchiglia a elica spiraliforme. Quale simbolo di rigenerazione, è presente anche nell’apparato funebre romano con riferimento al culto di Venus-Libitina, poiché la morte è intesa quale seconda nascita. La sezione aurea, cioè la matematica bellezza della natura, viene espressa nell’immagine di un nautilo, che ha la sezione del guscio strutturata a guisa di una perfetta spirale logaritmica giacente sullo stesso piano, essendo la spirale, stante le parola di Archimede, una traiettoria di un punto che si sposta in una semiretta che è in moto rotatorio intorno alla sua origine fissa.

e i calici per la rappresentazione liturgica, perché da essa sgorga vita pura, contenitori per l’evento della transustanziazione (trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo). L’abside stessa è nicchia incubante il popolo di Dio, e nell’arte gotica è spesso strutturata in spicchi creati dai costoloni interni, quale specifico richiamo alla raggiera della valva del genere Tridacna. Il corpo absidale è emblema dell’ecclesia ed entro questo spazio si vivifica la dimensione mistica (ai piedi della volta, infatti, è situato l’altare per la celebrazione liturgica): luogo della visione del Cristo Giudice ritratto nell’incavo – entro tale dimensione è custodito l’altare –, nonché metafora del talamo su cui si realizza il matrimonio mistico fra l’Onnipotente, rappresentato dal cero pasquale posto a lato del medesimo, e la comunità dei fedeli riunita nello spazio sacro.

Un soggetto con molte declinazioni

Nel mausoleo ravennate di Galla Placidia (prima metà del V secolo), sulle pareti di sostegno alla cupola, si impongono scene a mosaico, realizzate da artisti di area ellenico-romana, nelle quali osserviamo nicchie raggiate, che ritroviamo anche nel catino absidale di S. Maria in Trastevere di Pietro Cavallini (1296; vedi «Medioevo» (segue a p. 69)

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immaginario conchiglie tra rinascimento e barocco

Da fondamento del pensiero cristiano a oggetto senza sostanza Nel Rinascimento, in virtú del ritrovato amore per la classicità, la conchiglia trionfa in pittura, scultura, architettura con un duplice significato. Legata all’acqua, è simbolo di morte e resurrezione oppure, stante il vigente neoplatonismo, richiamo e forma dell’amor sacro, cosí nella Nascita di Venere del Botticelli e nella Pala Montefeltro di Piero della Francesca, ove in quest’ultima, e nello specifico, l’oggetto diviene base fondante e struttura architettonica del pensiero cristiano, perché essa assurge a funzione di cupola di una chiesa. Il Pecten maximus nell’opera di Piero giganteggia alle spalle della Vergine replicando l’armonia della sua figura in meditazione del Figlio: come la conchiglia ospita e protegge la perla, cosí la Madre protegge il Figlio. Nascendo, la perla e il Redentore, producono sofferenza in chi li genera (madre-conchiglia); per questo, in ambito cristiano, essa esprime il concetto di rigenerazione dal peccato, ove la sofferenza della passione

e morte di Cristo è culpa felix. Nel dipinto, l’unione conchiglia-perla/Vergine-Cristo è ufficializzata dal perfetto allineamento dell’uovo che pende sulla testa di Maria. Nel barocco si ha un radicale cambio di significato, dal momento che la conchiglia si fa protagonista di nature morte, ridotta al rango di semplice cosa, guscio vuoto, oggetto senza sostanza, emblema della vanitas esistenziale. Nei quadri di Jan Brueghel il Vecchio, Ambrosius Bosschaert o di Balthasar van der Ast, la conchiglia è un richiamo per la meditazione sulla vacuità esistenziale, mera esperienza effimera se vissuta al di fuori della fede. In tali contesti è associata spesso al garofano e al tulipano (simboli di passione e morte). Nel Sileno ebbro del Ribera, il nautilo montato a guisa di coppa allude alla conoscenza superiore di stampo esoterico: il vino è simbolo di conoscenza (stante il motto oraziano «in vino veritas»), che nell’opera suddetta sgorga direttamente dalla conchiglia. A sinistra Balthasar van der Ast, Natura morta con conchiglie, frutta e una lucertola. Olio su tavola, prima metà del XVII sec. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. Nella pagina accanto Piero della Francesca, la Pala Montefeltro (o Pala di Brera), raffigurante la Madonna con il Bambino tra angeli e santi e Federico di Montefeltro. 1472 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. La conchiglia, inserita in alto, a mo’ di cupola della chiesa, è uno degli elementi fondanti della composizione.

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Giovanni Bellini, Allegoria della Maldicenza. Olio su tavola, 1488-1490 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia. L’immagine dell’uomo che esce da una conchiglia vuole in questo caso alludere alla tortuosità dei pensieri umani.

na appare coronata da un elmo sotto forma di conchiglia puntuta, non molto dissimile dalla conchiglia calzata da Venere sulle monete di Hatria (città romna di origine picena, corrispondente all’odierna Atri, in provincia di Teramo, n.d.r.), a dimostrazione, secondo lo storico e critico dell’arte lituano Jurgis Baltrušaitis (1903-1988), della permanenza e trasformazione delle bizzarrie classiche in un codificato repertorio mostruoso.

n. 188, settembre 2012; on line su medioevo.it), nella specifica identificazione con la luce divina; la loro presenza qualifica il concetto di logos, fonte di salvezza e lume del mondo: gli apostoli disposti a coppie partecipano del mistero di Dio che si effonde sul firmamento Le visioni di Bosch Raffigurazioni del mitilo mediterraneo (Mytilus gallostrutturato sulla tonalità del blu cobalto. provincialis), in gergo moderno «cozza», si ritrova nella A forma di nicchia sono alcune meridiane del tardo pittura di Hieronymus Bosch, a guisa di imbarcazione Medioevo, essendo il naturale ventaglio della valva asnell’incisione di Pieter van der Heyden (desunta da sai efficace nell’imprimere con maggiore precisione la quantità di ombra promossa dall’asta sulla superficie. È Bosch), della Nave dei folli, in cui il nero mitilo galleggia il caso di piazza del Campo di Siena, la cui sistemazione sull’acqua, affollata da un’umanità derelitta e musicante, priva di ragione. E nel pannello centrale del Giardino inizia dalla fine del XIII secolo: con il suo emiciclo apdelle Delizie (1480-90), dello stesso pare quasi palmare a una valva marina Bosch, troviamo un particolare a sebbene inclinata verso mezzogiorno Da leggere dir poco sorprendente: un uomo e ricorda una meridiana con la torre nudo cammina portando sulle del Mangia a fungere da gnomone. In U Franco Cardini, Mostri, belve, spalle un grosso mitilo nerastro, realtà, i dieci lunghi raggi ricordano animali nell’immaginario dal quale emergono gambe e gluunicamente il governo dei Nove (comedievale/17. La conchiglia tei di un soggetto umano. Probame gli spicchi di cui è composta) per e la perla, in Abstracta, 26 bilmente si allude al peccato della volontà del quale sorsero il Palazzo (maggio 1988), pp. 46-53; lussuria, non solo per la deliberata Pubblico e la piazza medesima. anche on line: airesis.net volontà di occultare il volto, ma, Una leggenda lega la conchiglia a U Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo soprattutto, perché il pannello san Giacomo Maggiore apostolo, che fantastico. Antichità ed esotismi centrale dell’opera presenta uoriferisce come dopo la morte di Cristo nell’arte gotica, Adelphi, mini e donne con atteggiamenti egli ebbe a recarsi in Spagna a prediMilano 1973 seduttivi e sconvenienti (alcuni si care il Vangelo. Decapitato da Erode U Luigi Bruno, Gabriella Bruno, La accarezzano le parti intime), inAgrippa (44 d.C.) al suo ritorno a Geconchiglia come simbolo, Trapani, tenti a cibarsi di bacche vermiglie, rusalemme, fu trasportato, per volere 2010; anche on line: scribd.com simbolo della passione. dei suoi seguaci, in terra iberica meNell’Allegoria della Maldicenza di diante un vascello guidato da un angeGiovanni Bellini (1488-90 circa), che è parte di una selo. Giunti sulle coste della Galizia, l’imbarcazione fu avrie di quattro, si rappresenta un uomo uscente da una vistata da un corteo nuziale che, spaventato alla visione conchiglia, simbolo della tortuosità dei ragionamenti del lucente nocchiero, fuggí per lo spavento: lo sposo a cavallo cadde in mare ma per intercessione dell’aposto- falsi; in compagnia di un serpente, rappresentante la calunnia per la lingua biforcuta, si avventa contro un lo riemerse vivo ricoperto interamente di conchiglie di Pecten. In virtú di tale miracolo la conchiglia fu assunta eremita posto su piedistallo. Come in Bosch, anche qui la conchiglia è portata in spalla, ma la sua forma a elica a suo simbolo distintivo, figurando iconograficamente dovrebbe simboleggiare il pentimento e la rigenerazioappuntata sul mantello o sul copricapo del santo. Nelne dal peccato. Ogni comportamento che diverga dalla la agiografia miracolistica è parimenti attributo di san retta morale cristiana è sinonimo di follia, il soggetto Rocco (1356 circa-1376 circa), pellegrino e taumaturgo, stesso che ne è avvinto rappresenta lo stereotipo della invocato per la guarigione di ferite e infezioni virali e pesregolatezza e dell’insensatezza umane. stilenziali; l’oggetto-conchiglia serví al santo per raccoLa nicchia marina esprime un diverso percorso del gliere l’acqua purificatrice per la guarigione dei malati. Talvolta può voler alludere alla presenza del mali- cammino dell’uomo verso la conoscenza: egli, infatti, gno e rappresentare il vizio della Vergogna, ma rispetto può viaggiare percorrendo la terra, e, al tempo stesso, può scegliere la via d’acqua, apparentemente piú facile, a quanto esposto precedentemente, presenta forma e colori diversi. In una miniatura inglese del XIII secolo, in realtà irta di pericoli e insidie. Colui che si fida di sé, nella cultura medievale, affida la sua anima al vizio deldemoni escono fuori da due porcellane dette «conchiglie la superbia divenendo naufrago della vita; come Ulisse, di Venere», mentre sugli stalli del palazzo di Giustizia di è costretto ad avventurarsi in dimensioni inospitali ove Rouen un mostro con ali di pipistrello fuoriesce da un la forza bruta, scaturita da pensiero immorale, è padronodoso nautilo. In un rilievo del Quattrocento a Suippes, nella regione della Champagne-Ardenne, una testa uma- na incontrastata. F

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di Francesco Colotta

La prua a testa di serpente della nave vichinga di Oseberg, rinvenuta presso Tonberg in Norvegia agli inizi del XX sec. decorata in stile animalistico. L’imbarcazione, un karfi del IX sec., in legno di quercia, lunga circa 22 m e con un albero di 10, è oggi conservata nel Museo delle Navi Vichinghe di Oslo.

Vichinghi L’epopea del Grande Nord

Già all’indomani delle loro prime sortite nelle terre dell’Europa settentrionale, sulle genti scandinave cominciarono a circolare aneddoti mirabolanti, accomunati da un quadro di selvaggia ferocia. Ma cosa spinse questi avventurieri ad abbandonare le loro terre d’origine? E furono davvero loro i primi scopritori del Nuovo Mondo, con quasi cinquecento anni d’anticipo su Cristoforo Colombo?


Dossier

A

ssaltavano come «vespe inferocite» e «lupi selvaggi», raccontò terrorizzato nell’VIII secolo un religioso inglese all’indomani dell’invasione dei Vichinghi sulle coste britanniche. Qualche anno dopo i predoni nordici approdarono sull’altra sponda della Manica e il monaco franco Ermentario di Noirmoutier scrisse con rassegnazione che non esisteva alcun modo di difendersi: «Distruggono ogni cosa che incontrano sul loro cammino. Nessuno riesce a resistere». Le ferocia degli Scandinavi spaventava l’Europa e nel tempo divenne il tratto dominante del loro profilo insieme ad altri attributi di carattere sanguinario. Con il passare dei secoli, però, lo stereotipo del vichingo brutale e selvaggio perse credito restando confinato nelle versioni romanzate delle cronache medievali. «L’immagine del barbaro nord non regge piú», sottolinea l’archeologa medievista Else Roesdahl, una delle storiografe «revisioniste». Risulta ormai accertato, infatti, che

buona parte delle fonti scritte sulle bande di navigatori danesi, svedesi e norvegesi siano in realtà virtuosismi al limite del fiabesco o il risultato di una rielaborazione ecclesiastica mirante a demonizzare le genti pagane. I Vichinghi erano di certo pirati violenti, ma appartenevano a società ricche, complesse e progredite, che spesso garantivano il

pluralismo religioso, una parziale dialettica democratica e un nutrito complesso di diritti alle donne.

Segreti e bugie

La dubbia credibilità delle fonti scritte, in particolar modo delle Íslendingasögur (Saghe degli Islandesi) e delle Konungasögur (Saghe dei re), ha aperto il campo a un aggiorna-


mento costante della materia grazie ai ritrovamenti archeologici e a ricerche interdisciplinari. È storia recente la discussione sulla reale data di nascita dell’età vichinga, comunemente collocata nel periodo a cavallo tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Oggi le certezze su questa tradizionale cronologia non sembrano piú granitiche. Nel 2008 sono affiorati nell’isola estone di Saaremaa i resti di due antiche navi dal tipico aspetto scandinavo con all’interno armi e ossa. Sottoposta all’analisi con il metodo del radiocarbonio, una delle due imbarcazioni risalirebbe al VII secolo. Non tutte le fonti scritte sono fantasiose, a partire dagli Annali frammentari d’Irlanda, redatti nel periodo delle prime invasioni sulle coste britanniche, e dagli Annali del regno dei Franchi, che fanno luce sugli assalti alle terre di Carlo Magno. Attendibili dal punto di vista storico risultano,

inoltre, alcuni poemi scaldici (componimenti scandinavi del XII secolo dalla struttura metrica complessa) che riportano in modo fedele testi tramandati dalla tradizione orale. Una parte di queste liriche è compresa nell’opera dell’«Omero islandese» Snorri Sturluson, l’Heimskringla (L’orbe terrestre), che risale al 1225 e contiene le biografie di numerosi re norvegesi. Storicamente attendibili sono considerati anche alcuni carmi dell’Edda poetica (raccolta di liriche in norreno del XIII secolo), mentre utili informazioni sui paesi d’origine dei Vichinghi sono rintracciabili nelle Gesta dei vescovi della Chiesa di Amburgo di Adamo da Brema, opera redatta nel 1075.

Mistero etimologico

L’origine del nome «Vichinghi», spesso usato come sinonimo di «Normanni», è incerta. Comunemente si crede derivi dall’espressio-

ne norrena vik e dal suffisso ing, con il significato di uomini «provenienti dall’insenatura». Gli archeologi britannici Parker Pearson, Niall Sharples e James Symonds sostengono, invece, che la radice vik sia da intendere nel senso di «emporio», in relazione ai mercati commerciali fondati dagli Scandinavi dopo le loro spedizioni verso sud. Altre soluzioni etimologiche si sono rivelate poco convincenti, se non in qualche caso curiose: «Gente accampata»(dal latino vicus), «coloro che fuggono con il bottino» (dal verbo norreno vikja, «muoversi») e «cacciatori di foche» (da wikan, appunto «foca» in antico norvegese). La battaglia di Svolder, olio su tela di Nils Bergslien. 1900. Collezione privata. Lo scontro si combatté nell’anno Mille tra il re Olaf Tryggvason di Norvegia e la vittoriosa alleanza tra il re di Danimarca, il re di Svezia, e lo Jarl di Lade.


Dossier kaupang Era un importante

GROENLANDIA

centro artigianale, nei pressi del fiordo di Oslo, e nel IX secolo aveva circa 600 abitanti. Per i Norvegesi rappresentava una porta per l’Europa.

Lofoten

MAR DI NORVEGIA

Reykjavik Thingvellir

hedeby La città piú antica della Danimarca, situata oggi nel comune di Esbjerg. La sua fondazione risale ai primi anni dell’VIII secolo e, in poco tempo, intercettò gran parte del traffico commerciale.

Trondheim

Fær Øer Shetland

Sigtuna

Birka

Kaupang Fyrkat Roskilde

Ebridi Lindisfarne

Dublino

na

Hedeby Haithabu Amburgo

Dorestad

no

Re

Londra Hastings Bayeux

Lund

Ribe

York

Dunmore

ATLANTICO

Helgö

Oslo

Haugesund

Isola di Man

OCEANO

Uppsala

Bergen

Senn

Dn

a Parigi Loira

Stammlande Territorio d'origine

Dan

Espansione Pamplona Zuge Incursione

Roma

Lisbona Tago Cordoba Cadice

Palermo

birka Si trovava sull’isola svedese

di Björkö, pochi chilometri a ovest di Stoccolma. La sua fondazione risale all’VIII secolo e negli anni divenne uno dei piú importanti centri sulla rotta mercantile che univa la Scandinavia all’impero bizantino.

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MAR MEDITERRANEO hedeby Sorgeva nei pressi dell’odierna città di Schleswig, nella Germania settentrionale. Dal porto, attraverso il fiordo dello Schlei, si raggiungeva il Baltico, mentre percorrendo il vicino fiume Treene era possibile accedere all’Eider e quindi al Mare del Nord senza la circumnavigazione dello Jutland.

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sigtuna Situata a nord di Stoccolma, la sua importanza crebbe in seguito al declino di Birka. Svolse un ruolo di primo piano come snodo per i traffici interni della Svezia.

Etimologia a parte, i Vichinghi possono essere considerati come un popolo di «ribelli». Partendo per lidi ignoti, rifiutavano di seguire il destino che la comunità natale aveva loro riservato e si univano ad altri corregionali desiderosi di diventare padroni del proprio futuro. Questi avventurieri portavano con sé parte del retaggio di consuetudini della loro patria d’origine che inevitabilmente si fondevano con i costumi dei territori conquistati. Quelli che, poi, tornavano a casa introdussero nei loro regni le usanze assimilate all’estero, contribuendo cosí al processo di modernizzazione del Grande Nord.

Ipotesi fantasiose

Novgorod

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Rostow

Volga

Bolgar

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Kiev

helgÖ Isola svedese situata sul Lago Mälaren dove un tempo sorgeva una città vichinga, piú antica delle vicine Birka e Sigtuna.

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MAR NERO Costantinopoli

MAR CASPIO

Il mondo dei Vichinghi Cartina dell’Europa nella quale sono indicati i territori d’origine delle genti vichinghe, le principali direttrici delle loro spedizioni e le terre conquistate e colonizzate, tra l’VIII e il IX sec. Sono inoltre evidenziati i centri abitati piú importanti, che possono essere considerati come altrettante capitali.

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Tuttavia, non era solo l’istinto ribelle a spingere bande di navigatori verso sud. In passato la storiografia asseriva che quell’improvviso esodo costituí la naturale conseguenza dei problemi di sovrappopolamento della penisola scandinava. Secondo il cronista Dudone di San Quintino (XI secolo), la responsabilità del boom demografico era da attribuire alla diffusione della poligamia, una pratica che aveva provocato il proliferare di nuovi nati. Una parte di questa prole spesso indesiderata, non potendo essere mantenuta, doveva gioco forza espatriare. Appare, però, difficile credere che la poligamia, in voga solo tra gli esponenti della nobiltà, potesse generare un incremento della popolazione tanto incontrollato. Perché, allora, i Vichinghi lasciavano le loro terre? Un’ipotesi piú credibile chiama in causa la ferrea disposizione normativa che regolava il diritto di successione nelle comunità nordiche. La proprietà, indivisibile, spettava in eredità solo al figlio maggiore e costringeva pertanto i fratelli a cercare strade alternative per il proprio sostentamento. Non si esclude, infine, tra i motivi della migrazione, la necessità «di cercare al di fuori della Scandinavia i mezzi di sussistenza che l’avaro e l’ingrato suolo patrio non forniva piú in modo sufficiente», come ha ipotizzato lo storico belga Henri

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Dossier Un popolo di navigatori ed esploratori 350 a.C. circa Il navigatore Pitea, di Marsiglia, parla di Thule, creduta una grande isola del Nord. Una flotta romana esplora l’estremità dello 5 d.C. Jutland (Danimarca). Espansione del commercio romano. Le fonti 100-200 citano diverse tribú del Nord, tra cui i Gautar (Geati), autori della Saga di Beowulf. Diffusione degli alfabeti runici (futhark) 300 circa mutuati da alfabeti greci, etruschi e nord-italici. La civiltà scandinava matura in piena 400-800 autonomia. La prima nave danese approda alle 789 coste inglesi. Giugno 793 Saccheggio e strage alla chiesa di St. Cuthbert, nell’abbazia di Lindisfarne, Northumbria (Inghilterra nord-orientale). In alto elmo in 800 circa Inizio della conquista vichinga d’Irlanda. ferro e bronzo dalla 841-844 Saccheggio di Nantes e Rouen (Francia). nave-sepoltura n. 1 Una flotta di 350 navi vichinghe attracca 850-851 di Vendel (Uppland, nel Tamigi. Svezia), VII sec. Nelle cronache russe compaiono i 860-862 Stoccolma, Museo Rus o Variaghi (probabilmente capi di Storia. scandinavi). Gli Inglesi pagano il Danegeld (il «soldo danese», 865-867 un tributo politico) ai Danesi; saccheggio di York. 878 Alfred, re del Wessex, sconfigge i Vichinghi danesi. 850-900 Vichinghi norvegesi esiliati occupano l’Islanda. 885-886 Fallito attacco vichingo a Parigi. 911 I Norvegesi conquistano la Normandia. 920 Riconquista anglo-sassone della Britannia meridionale. Il re Aroldo Dente Azzurro converte i Danesi al cristianesimo. 960 circa Erik e Thorval sono banditi dall’Islanda e iniziano a esplorare la Groenlandia. 980 Bjarni Herjólfsson salpa dall’Islanda per la Groenlandia, si perde e per caso 985 avvista Vinland (la costa nordamericana). Thorgeir, all’Althing (assemblea) islandese, dichiara la conversione 1000 al cristianesimo. Olaf Skötkonung, re di Norvegia, accetta formalmente la nuova religione. 1008 Battaglia di Clontarf: sconfitta degli Scandinavi di Irlanda. 1014 Il sovrano danese Canuto, cristiano, diviene re d’Inghilterra. 1016 Battaglia di Stamford Bridge: re Aroldo II d’Inghilterra 1066 respinge l’armata del norvegese Harald III. Poco dopo si combatte la battaglia di Hastings e Guglielmo il Conquistatore prende l’Inghilterra. Insediamento scandinavo a L’Anse aux Meadows 1000-1100 (Newfoundland), possibile scena della saga di Leif Eriksson a Vinland. Ultima menzione di Markland (= Labrador) 1347 negli annali islandesi. Cristoforo Colombo riscopre l’America 1492 nelle isole caraibiche. Spada vichinga in ferro con elsa ageminata in argento, da Utrecht. X sec. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

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Pirenne. L’espatrio fu anche favorito dalla mancanza di forti governi centrali nei Paesi d’origine degli emigranti. Verso la fine dell’VIII secolo solo la Danimarca stava costituendo un regno esteso e unito, non la Svezia, dilaniata dalla lotta tra la tribú degli Svear (che occupavano la regione di Stoccolma) e quella dei Gautar (stanziati a sud), né tantoIn basso disegno ricostruttivo nel quale si immagina l’assalto portato dai Vichinghi al monastero irlandese di Clonmacnoise nell’835.

meno la Norvegia, con i suoi numerosi e rissosi clan. Gli equipaggi vichinghi presero il largo verso tre diverse direttrici: dalla Danimarca partirono imbarcazioni verso l’Inghilterra, la Francia e l’Irlanda; dalla Norvegia le vele si diressero verso la Scozia, l’Islanda e la Groenlandia; dalla Svezia le navi puntarono la prua a oriente, verso la Russia. Uno dei primi sbarchi ebbe luogo l’8 giugno del 793 intorno a mezzogiorno, sulle coste del Northumberland (nell’Inghilterra nord orientale), per la precisione

nella piccola isola di Lindisfarne dove sorgeva un monastero. La testimonianza coeva del maestro della Schola palatina di Aquisgrana, Alcuino di York, e la piú tarda Cronaca anglosassone (IX secolo) descrivono con orrore l’assalto degli Scandinavi all’abbazia. L’attacco, in base alle due versioni, ebbe l’effetto di un ciclone. I religiosi vennero sterminati, in maggior parte a colpi d’ascia, di spada e di catene, altri furono trascinati in mare e affogati. Allo stesso tragico destino andarono incontro le donne e gli animali che vivevano nella zona.

La strategia di Goffredo

I primi attacchi furono sferrati da piccole bande, prive di un’organizzazione militare efficiente. Dopo qualche anno, però, verso l’inizio del IX secolo, sulla ribalta della storia si affacciò il re danese Goffredo, un sovrano che nutriva grandi ambizioni politiche. In quel periodo una vasta regione, corrispondente piú o meno all’odierno regno di Danimarca, era stata unificata sotto un’unica corona. Goffredo non temeva nessuno e poteva contare su un grande esercito di Vichinghi. Con strategica previdenza, provvide prima a proteggere le proprie terre con una cinta muraria (il Danevirke) e poi sfidò i Franchi di Carlo Magno, minacciando di radere al suolo la loro capitale, Aquisgrana. Quello che sembrava l’azzardo di un re borioso e tracotante si tradusse, invece, in un piano ben congegnato, che naufragò solo in seguito al misterioso assassinio dello stesso monarca. I Vichinghi, in seguito, dilagarono in quelle terre, approfittando dell’indebolimento del regno franco dilaniato dalla guerra interna tra gli eredi del successore di Carlo Magno, Ludovico il Pio. Intorno alla metà del IX secolo molte città simbolo del vecchio potere carolingio caddero una dietro l’altra in mano danese: l’antica Dorestad, Rouen, Nantes, Bordeaux, Tours e Amburgo. Poi fu la volta di Colonia, Liegi, Anversa, Maastricht e Bonn.

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Dossier Quando capitolò anche Parigi, i sovrani franchi cercarono di trattare con un nemico che appariva invincibile offrendo considerevoli tributi in danaro. La pratica umiliante di pagare in moneta la liberazione di una città in mano vichinga divenne presto una consuetudine e passò alla storia con il nome di «danegeld», cioè «tributo ai Danesi». Solo nell’891 il riorganizzato esercito franco ebbe la sua rivincita, sconfiggendo gli invasori sul campo di battaglia a Lovanio, in Belgio, e lavando l’onta della libertà comprata. L’ultimo colpo di coda dell’espansionismo danese fu assestato dal gigantesco capo Rollone, che aveva mantenuto il controllo della zona di Rouen. Il re franco Carlo il Semplice, temendo un nuovo braccio di ferro con i Danesi, concesse al condottiero vichingo quel territorio come feudo. In realtà si trattò di un’abile mossa strategica da parte di Carlo, che intendeva servirsi del capo vichingo

come argine per nuove, temute incursioni da nord. Anche sul versante britannico i Vichinghi sembravano inarrestabili. Giovò agli aggressori l’assenza di una solida monarchia britannica, i cui prodromi si manifestarono solo intorno all’820, con l’ascesa di re Egbert del Wessex. Furono i suoi nipoti, qualche anno dopo, a organizzare una degna resistenza: Ethelred e, soprattutto, il fratello, Alfredo detto il Grande, riuscirono ad annientare gli Scandinavi nel loro elemento naturale, il mare.

L’Inghilterra liberata

Alfredo, ritenuto in precedenza inetto e di costituzione debole, li costrinse alla resa nell’878 e da quel momento si meritò il soprannome celebrativo. Una buona parte della Gran Bretagna tornò libera, ma a nord del Tamigi, da Londra fino alla Northumbria, resistevano numerose colonie di invasori in una porzione di territorio che as-

sunse in seguito il nome di Danelaw («legge danese»), in riferimento all’origine degli occupanti. Talvolta accadeva che Danesi e Norvegesi si coalizzassero per imprese di una certa entità, come nel caso del massiccio attacco a Londra del 994. Uno dei piú imponenti eserciti del Grande Nord giunse alle porte della capitale inglese e lanciò un ultimatum ai regnanti: gli aggressori chiesero 16 000 libbre d’argento in cambio della rinuncia all’assedio. I Londinesi e i loro governanti riuscirono a raccogliere la cifra sufficiente per salvare la città, ma la libertà durò poco. La Danimarca, divenuta superpotenza con il re Sven I Barbaforcuta, puntò subito alla conquista totale dell’Inghilterra, che venne portata a compimento dal figlio del sovrano, Canuto il Grande nel 1016. Sotto il suo dominio, l’epopea vichinga visse uno dei periodi di maggior splendore, rivelandosi, tuttavia, solo un fuoco di paglia. Il declino di Canuto giunse presto, in coincidenza con la rinascita politica degli Stati cristiani del Mediterraneo che attirarono una fetta consistente del commercio dal nord Europa verso i mari del sud. Sul Meridione puntarono anche gruppi di Danesi e minoranze di Norvegesi, prima verso la Spagna, ma con scarsi risultati. Piú fortuna ebbero in Italia gli ormai «franchizzati» Normanni, che fondarono, a partire dall’XI secolo, un grande regno nel Meridione (vedi «Medioevo» n. 203, dicembre 2013).

Oltre l’ignoto

I Vichinghi norvegesi si distinsero soprattutto per le loro qualità di esploratori in latitudini proibitive per le condizioni del mare. Si spinsero nelle acque tumultuose dell’Atlantico settentrionale sbarcando prima in Islanda, poi nelle ventosissime Fær Øer e quindi in A sinistra i resti dell’abbazia di Lindisfarne (Northumberland, Inghilterra), assalita e saccheggiata da predoni scandinavi l’8 giugno 793.

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Le regine dei mari Sniggen Velocissime e snelle, erano le navi piú piccole. Secondo lo storico tedesco Karl Theodor Strasser potevano essere paragonate ai moderni incrociatori. Skeidhs Avevano un equipaggiamento piú completo. Erano la tipiche navi da combattimento e si potrebbero associare alle fregate. Drakkar Imbarcazione dalla caratteristica prua con la testa di drago. Anch’essa leggera e veloce sull’acqua, aveva una larghezza maggiore e le fiancate piú alte. Il pescaggio poco profondo le permetteva di giungere fino alla riva.

Knarr Navi mercantili, erano spesso utilizzate per il rifornimento dei guerrieri in mare. Essendo piú pesanti e dotate di uno scafo profondo, non garantivano buone prestazioni in velocità.

In alto particolare del telo ricamato di Bayeux, che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra,raffigurante il futuro re inglese Aroldo II e la sua flotta che attraversano la Manica. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

Ricostruzione (qui sopra) e pianta (a sinistra) di un drakkar a 32 remi.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A destra l’Havhingsten fra Glendalough, replica della Skuldelev 2, nave vichinga dell’XI sec., di fabbricazione irlandese, rinvenuta appunto a Skuldelev nei pressi di Roskilde (Danimarca).

Groenlandia. Protagonisti principali dell’epopea furono Thorvald Asvaldsson e il figlio Erik il Rosso, personaggi turbolenti e costretti alla latitanza per sfuggire ad alcune pesanti condanne penali. In particolare Erik, accusato di duplice omicidio, fuggí dall’Islanda e approdò in un’isola quasi totalmente coperta di ghiacci (l’attuale Groenlandia). La credibile descrizione del testo medievale islandese Landnámabók (il Libro della colonizzazione) la raffigura come un luogo impervio eppure vivibile, perché pieno di bellezze naturali e di torrenti pescosi. Erik, per invogliare qualche corregionale a trasferirvisi, la ribattezzò con il nome suggestivo di Grønland, «terra verde», sebbene di vegetazione non potesse certo averne vista molta.

Precursore di Colombo?

Erik trasmise la passione dei viaggi nelle acque settentrionali al figlio Leif: quest’ultimo si avventurò ancora piú a ovest della Groenlandia,

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incontrando, questa volta davvero, un luogo verdeggiante. In base ai resoconti della Grœnlendinga saga (la Saga dei Groenlandesi) Leif e il suo equipaggio erano sbarcati in America, sull’isola di Terranova, alla quale diedero il nome di Vinland per la presenza in loco, un po’

improbabile vista la latitudine, di numerosi vitigni. Era il 1000. Quasi cinquecento anni dopo in quel continente sarebbe giunto Cristoforo Colombo. I rilievi archeologici confermarono l’approdo dei Norvegesi nel Nuovo Continente prima del navigatore genovese.

i vichinghi in mostra

Approda a Londra la nave piú grande del mondo La piú grande nave vichinga del mondo misurava 37 m di lunghezza, 4 di larghezza, aveva circa 80 remi e poteva trasportare un centinaio di guerrieri. Una parte dell’imbarcazione, che risale all’inizio dell’XI secolo, venne

scoperta a Roskilde in Danimarca nel 1997: supera di gran lunga le misure della nave di Gokstad (24 m) e di quella di Oseberg (22 m) ed è stata ricostruita in modo integrale in occasione della mostra «Viking», tenutasi al Museo Nazionale di

Copenaghen dal giugno al novembre 2013 e che, a partire dal 6 marzo prossimo (e fino al 22 giugno), verrà riproposta al British Museum di Londra. L’esposizione è una delle piú ricche degli ultimi anni sulla storia dei navigatori scandinavi febbraio

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e, dopo la tappa londinese, si sposterà al Martin-GropiusBau di Berlino dal 10 settembre 2014 al 4 gennaio 2015. Tra gli obiettivi della rassegna, vi è quello di presentare un volto «internazionale» della cultura vichinga ritenuta in passato,

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erroneamente, come un sistema chiuso di valori e usanze che riflettevano la posizione di isolamento della penisola scandinava. Altre novità presenti nella rassegna sono un tesoro scoperto nello Yorkshire e reperti provenienti dalla Norvegia e dalla Russia.

Il relitto noto come Roskilde 6, la piú grande nave vichinga a oggi nota. 1025 circa. Copenaghen, Nationalmuseet. L’imbarcazione è esposta nella mostra sui Vichinghi allestita attualmente al British Museum.

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Dossier Scacchi in avorio, monete d’argento, spilloni: ecco alcuni dei tesori esposti nella mostra in apertura al British Museum

A sinistra spillone a testa di drago da Hedeby (Germania). 950-1000. Schleswig, Archäologisches Landesmuseum.

In basso tre pezzi degli scacchi Lewis, dall’omonima isola scozzese. Manifattura normanna, fine del XII sec. Londra, British Museum.

Ricavate da zanne di tricheco, le pedine sono scolpite in forma di Berserkir, i leggendari guerrieri della tradizione vichinga.

I terribili guerrieri dalla pelle d’orso Prima di entrare in battaglia urlavano come ossessi e mordevano il bordo dei loro scudi in preda a un furore spaventoso, quasi in uno stato di trance: erano i Berserkir (vedi «Medioevo» n. 156, gennaio 2010; anche on line su www.medioevo. it), i guerrieri scandinavi dotati, secondo la tradizione, di invulnerabilità e di una sorta di «occhio maligno», in grado di rendere inoffensive le spade avversarie. Alcune pedine dei famosi scacchi medievali rinvenuti nell’isola scozzese di Lewis nel 1831 (vedi foto in basso), raffigurano il terribile rituale di battaglia di questi misteriosi combattenti.

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Il tesoro di Harrogate, rinvenuto nel 2007 nei pressi di York. Composto da 617 monete d’argento e 65 oggetti in argento, argento dorato e oro, apparteneva probabilmente a un capo vichingo. 900 circa. Londra, British Museum.

Nella parte settentrionale di Terranova, nella zona dell’Anse aux Meadows, emersero nel 1960 i resti di un antico villaggio vichingo, che risultarono databili proprio all’XI secolo. Tornato poi in Islanda, Leif affidò al fratello Thorvald l’incarico di compiere un’esplorazione piú approfondita del Vinland. Questi, una volta giunto a destinazione, cercò di imporre la sua legge agli indigeni con il pugno di ferro: dei nove che incontrò per caso, ne uccise otto. L’unico superstite ebbe la prontezza di chiamare i rinforzi che

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piombarono in modo fulmineo sui Norvegesi bersagliandoli di frecce. Una di queste colpí Thorvald e lo uccise. Le informazioni contenute nella Saga dei Groenlandesi possono essere valutate credibili operando un confronto tra la reale rotta che dalla Groenlandia conduce a Terranova e quella tracciata dagli anonimi autori nella cronaca medievale.

Boston, città del vino...

L’unica incongruenza riguarderebbe la precisa localizzazione del Vinland. L’ambita e lussureggiante «terra del vino» non sarebbe

stata Terranova, dove comunque i Vichinghi avevano transitato, ma un’imprecisata zona posta tra le odierne città di New York e Boston. L’ipotesi è sorretta da un’analisi sulle risorse naturali del Vinland magnificate nella saga. I citati salmoni, per esempio, sono di casa a Terranova, ma non la vite e il grano selvatico, che difficilmente possono crescere oltre il 46° (al massimo 48°) di latitudine. La «terra del vino» andrebbe perciò collocata piú a sud, in territorio statunitense, e, in particolare nell’attuale distretto di Boston,

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Dossier A destra cartina delle spedizioni compiute dai Vichinghi nell’Atlantico.

Baia di Baffin Baffin (Helluland)

Mare del Nord

Groenlandia

Stretto di Hudson

San Pietroburgo

Insediamento Occidentale

Trondheim

(Mittlere Siedlung) Brattahlid Insediamento Orientale

Sigtuna Birka Oslo Visby Bergen

Höfn

Reykjavik

Shetland

Rebild Arhus Jelling

Orcadi

Labrador (Markland)

Ebridi

Haithabu

L’Anse aux Meadows Dublino Limerick

Terranova

Oceano Atlantico

Cork

SPEDIZIONI DEI VICHINGHI NELL'ATLANTICO SETTENTRIONALE Prime spedizioni (790-860) Erik il Rosso (985-986 circa) Bjarne Herjólfsson (985-986 circa)

Riga

Gotland

York Londra

Dorestad

Wolin

Praga

Quentovic Rouen Parigi Orléans Nantes

Roma

Bordeaux Mar Mediterraneo

Leif Eriksson (1001 circa) Thorfinn Karlsefni (1005 circa) Rotte commerciali Correnti oceaniche

A sinistra il monumento a Leif Eriksson, eretto nel secolo scorso davanti alla chiesa di Halgrimskirkja, nella città di Reykjavik, in Islanda.

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dove è comune anche la proliferazione della Melata (una secrezione zuccherina emessa da alcuni insetti) che compare anch’essa nei resoconti sul soggiorno dei Norvegesi nel Vinland.

La risalita fino a Kiev

I Vichinghi svedesi (o Variaghi) tentarono, invece, l’avventura verso oriente, nelle acque meno tempestose del Baltico. Nel IX secolo con le loro navi attraversarono il Golfo di Finlandia penetrando nel delta della Neva, nel luogo in cui oggi sorge San Pietroburgo, e poi si insinuarono all’interno della sterminata pianura russa. Per via fluviale giunsero a Kiev, facendone il loro quartier generale, come riportato dagli Annales Bertiniani, una cronaca franca coeva. Maggiori dettagli si possono ricavare dal Manoscritto Nestoriano, secondo il febbraio

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In alto L’Anse aux Meadows (isola di Terranova, Canada). Ricostruzione di una tipica abitazione vichinga. A destra resti dell’insediamento di Brattahlid, colonia vichinga fondata nella Groenlandia sud-occidentale. Il villaggio fu abitato dal grande navigatore e poi dai suoi discendenti, la cui presenza è attestata almeno fino al XVI sec.

quale gli Svedesi furono in un primo momento respinti dagli Slavi, ma poi tornarono piú agguerriti e numerosi. Kiev, ideale crocevia per gli scambi commerciali con i ricchi centri del Vicino Oriente, divenne uno Stato fortissimo, che alcuni storici definiscono la base politica della futura nazione russa. La «tesi normannista» di una Russia dalle origini vichinghe cominciò a circolare nel Seicento in Scandinavia, in un periodo in cui la già potente Svezia ambiva a espandersi a est. Nel Novecento contro i normannisti si scagliarono gli storici sovietici volti a dimostrare che le radici della loro patria non erano occidentali. Il culmine della potenza della cosiddetta Rus’ di Kiev si manifestò alla fine del X secolo, quando il capo variago Vladimir I convolò a nozze con la sorella dell’imperatore bizan-

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tino Basilio II, Anna Porfirogenita, rinsaldando i legami politici con Costantinopoli. Concedendo la mano della sorella Anna, Basilio si era sdebitato nei riguardi dei Variaghi che manu militari avevano messo a tacere i nemici interni dell’imperatore. A partire da quel periodo i soldati scandinavi divennero la guardia personale del sovrano di Bisanzio.

Alti, ma non altissimi

Fin qui la cronaca. Ma chi erano davvero i Vichinghi? Numerosi sono i luoghi comuni da sfatare sul loro aspetto, il sistema di valori e gli

stili di vita che abracciarono. Si riteneva che fossero di statura gigantesca, ma l’imponenza di Rollone, alto 2 metri, rappresentava solo un caso sporadico. Esami sugli scheletri in diverse località della Scandinavia hanno dimostrato che la statura media vichinga si aggirava intorno ai 170 cm, mentre le donne raramente superavano i 160. Commercianti abilissimi, i Vichinghi fondarono nei loro Paesi d’origine varie città emporio, nelle quali affluivano mercanti anche dal Sud Europa. Il talento commerciale non li rese un popolo soltanto pratico, rozzo e insensibi-

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Giocare con la morte

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur Divise in due stirpi, gli Asi e i Vani, le divinità scandinave tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim earuntia vivevano in maggioranza ad Asgard, luogoeaquis collegato alla cones terra apienda.

attraverso il ponte dell’arcobaleno, detto Bifröst. Quasi tutti gli dèi erano destinati a morire con l’avvento del Ragnarök, la battaglia finale tra le forze oscure e quelle della luce. ▼

Odino La divinità suprema. Violento e astuto, appariva nel corso delle battaglie ed era anche un amante della poesia. Per amore della sapienza, ottenuta attraverso la conoscenza magica delle rune, rimase appeso all’albero cosmico Yggdrasill per nove giorni. Si spostava con il velocissimo cavallo a otto zampe, Sleipnir, e usava due corvi come informatori.

Thor È la seconda divinità in ordine di importanza nel pantheon nordico. A differenza del padre Odino, che riscuoteva popolarità tra la classe nobiliare, Thor era il dio della gente comune, il protettore dei contadini. Combatteva spesso contro i giganti, munito del suo caratteristico martello Mjöllnir. Viaggiava con un carro volante che era trainato dai cavalli Tanngnjóstr e Tanngrisnir.

Freyr Dio della fecondità. Indossava un elmo a forma di cinghiale e possedeva l’imponente nave Skidbladnir che magicamente poteva essere ripiegata e messa in tasca. Vigilava sui fenomeni naturali, sul sole, la pioggia e la crescita della vegetazione. ▼

La filosofia di vita dell’uomo vichingo si manifesta come un labirinto tortuoso, all’interno del quale convivono con frequenza principi opposti. I guerrieri-commercianti venuti dal Nord consideravano lo sprezzo del pericolo come uno dei principali segni distintivi dell’uomo dotato di onorabilità, insieme al cosiddetto «dovere morale della vendetta». Il saper giocare con la morte occupava un posto preminente nella scala dei valori, secondo la testimonianza di Adamo di Brema. Egli racconta la vicenda di un condannato alla pena capitale in Scandinavia recatosi al patibolo «allegro come a un banchetto». Si può allora comprendere perché l’omicidio fosse in alcuni casi consentito, a patto che l’esecutore rischiasse la vita mentre attuava

Tutti gli dèi dell’Asgard

le alle raffinatezze umanistiche. Molti loro capi amavano la letteratura e per questo si circondavano di scaldi, brillanti poeti che dovevano celebrare le imprese militari. Le liriche, che senza dubbio ebbero un’influenza anche sulla lingua comune, contenevano brillanti verbosità e suggestive circonlocuzioni: l’oro, per esempio, era «la tana del drago», l’avambraccio era definito «la terra dei falchi», la spada veniva descritta come «ramo di sangue», mentre la poesia assumeva il nome di «idromele sonora di Odino». I Vichinghi non produssero una vera e propria arte nel senso moderno del termine, ma una serie di piccoli capolavori nell’ambito della decorazione di monili, scudi e spade usando tecniche ingegnose di intaglio. I disegni, di tema zoomorfo, divennero nel tempo sempre piú complessi assumendo l’aspetto di un ornamento a intreccio senza un significato preciso. Le fitte trame concatenate imprimevano una forma compiuta a visioni e sogni sul modello dell’arte islamica, ma con una maggiore tensione espressiva.

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Týr Dio della guerra e della giustizia. Proverbiale era il suo coraggio che lo portò a nutrire il terribile lupo Fenrir, del quale tutti avevano timore, perdendo una mano.

Loki Figlio di un gigante, aveva una natura ambivalente di divinità e di demone ingannatore. Concepí mostri quali il lupo Fenrir e il serpente di Midgardr. ▼

Baldr Era una figura insolitamente mite, dotata di genialità e di una bellezza abbagliante. Dio dal cuore generoso abitava in una zona irraggiungibile, dove la malignità non poteva arrivare. Morí per mano del fratello cieco Hödr, sobillato dal crudele Loki.

Hel La dea degli inferi. Fu confinata nel mondo sotterraneo da Odino quando questi seppe che era la figlia dell’ingannatore Loki. Heimdallr Sorvegliava Bifröst, il ponte dell’arcobaleno che collegava la terra e la dimora degli dèi, Asgard. Hœnir Alto, bellissimo e molto temuto. Era uno dei pochi destinati a sopravvivere dopo il Ragnarök. ▼

Idunn Era la custode delle mele dell’eterna giovinezza che gli dèi spesso mangiavano per evitare l’invecchiamento. Njördr Dio del mare e del vento, decideva il destino dei navigatori.

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Dossier il suo proponimento. Uno dei testi sacri per i Vichinghi, Hávamál (Il discorso di Hár), invitava, invece, a tenere un atteggiamento piú prudente nella propria quotidianità, ispirato a un ideale utilitaristico: «È meglio esser cieco – si legge nel poema – che esser messo nel mucchio dei naufraghi; poco vale l’uomo morto». In questa contraddizione traspare la doppia faccia della società vichinga: guerriera e quindi indifferente ai rischi della battaglia, ma al tempo stesso contadina, programmatrice di una vita lunga, legata al succedersi delle stagioni. Attraverso una simile coincidentia oppositorum, i Vichinghi esaltavano una filosofia di vita individualista e nel contempo comunitaria. L’essere liberi e indipendenti era uno dei principi fondanti della loro identità che non tollerava la «soffocante e invadente onnipotenza dello stato» per usare un’espressione del germanista svizzero Andreas Heusler. Questa radicata volontà di autodeterminazione spinse nel IX secolo qualche famiglia di Norvegesi a emigrare in Islanda dopo l’avvento al trono del sovrano accentratore Harald Bellachioma (Hårfagre).

cosiddette «fratellanze di sangue» (fóstbrœdralag), sodalizi di amicizia che avrebbero poi costituito la base delle prime società commerciali del nord Europa e delle gilde. Per i Vichinghi, in sostanza, il gruppo veniva prima del singolo, ma si trattava di un’etica comunitaria applicata a un microcosmo di legami, non al concetto di collettività e di cosa pubblica. Anche il proverbiale mito dell’antico egalitarismo nordico, alimentato dal resoconto del cro-

nista normanno Dudone, risulta in parte smentito da evidenze contrarie. Secondo lo storico un manipolo di predoni danesi aveva rivelato a un contingente franco che la loro organizzazione non presentava gerarchie di sorta, «noi non abbiamo capi – dissero – siamo tutti uguali». In realtà i piccoli clan erano strutturati in classi: la casta militare, i contadini e gli schiavi. Si può, tuttavia, affermare che le comunità scandinave adottassero sistemi precocemente «demo-

In lotta con gli uomini

La tendenza individualista si rivelava in un certo senso affine alla visione del mondo del paganesimo nordico. Nella natura forze misteriose, divinità e uomini convivevano in una dinamica competitiva, che garantiva a tutti un margine d’azione, un intenso attivismo volontaristico. Lo stesso Odino, il padre degli dèi del Nord, non giganteggiava come potenza assoluta a cui tutto era subordinato, ma talvolta, nella sua solitudine eroica, doveva impegnarsi in lotte titaniche contro gli stessi umani. L’istinto di autoaffermazione doveva, però, conciliarsi con un altro principio sacro, la Sippe, ossia il complesso dei rapporti familiari che vincolava al rispetto di un corpus di consuetudini. Per gli esclusi dalla Sippe esisteva un’altra forma di comunione tra individui, le

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cratici» nella gestione del potere. In effetti per i capi risultava difficile imporre risoluzioni nel parlamento popolare, il cosiddetto thing, se i contadini si opponevano. Anche un re poteva essere messo in minoranza dalle abili manovre politiche e dalle violente contestazioni della borghesia terriera. Nella maggior parte dei casi, comunque, a dettare legge erano i capi dei distretti dei parlamenti locali che influenzavano l’attività dell’assemblea in accordo con le famiglie dominanti.

Donne al potere

A sinistra e in alto un’immagine intera e un particolare della pietra runica di Karlevi, nell’isola di Öland (Svezia). Denominato Öl 1, il monolite viene tradizionalmente datato alla fine del X sec.

L’alfabeto runico (futhark) era inizialmente composto da 24 caratteri e poi fu ridotto a 16. Ne esistevano due varianti: le rune «comuni» o «danesi» e quelle a «tratti laterali ridotti» o «svedesi-norvegesi».

Una comunità in cui la guerra e la proprietà rivestivano un ruolo di primo piano non poteva che essere di impronta patriarcale. Ma i Vichinghi, anche in questo ambito, rappresentavano un’eccezione, poiché assegnavano alle donne un ruolo che, talvolta, poteva essere equiparato, in prestigio e utilità, a quello degli uomini. Lo evidenzia l’architettura funeraria che non di rado corredava con lo stesso sfarzo le lapidi dei mariti e delle mogli. Non è un caso che la piú sontuosa sepoltura vichinga venne dedicata probabilmente a una donna, la regina norvegese Åsa Haraldsdottir di Agder, le cui spoglie riposerebbero nella bellissima tomba a nave di Oseberg. Anche in ambito coniugale le donne, seppur costrette spesso dalla famiglia a contrarre matrimoni

La lingua

Gli antichi idiomi dei figli di Jen e di Johan Dönsk tunga («lingua danese») è l’espressione che individuava la lingua piú diffusa in Scandinavia nell’età vichinga. In realtà all’epoca esistevano differenze tra gli idiomi delle varie regioni, ma erano molto limitate. Gli studiosi contemporanei fanno rientrare la lingua dei Vichinghi nella grande famiglia del norreno, con le varianti occidentale (antico islandese e norvegese) e orientale (antico svedese e danese). In età moderna soprattutto l’islandese ha conservato diverse similitudini con le lingue medievali essendosi evoluta di meno dal punto di vista morfologico.

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Talvolta anche gli odierni svedese, norvegese e danese presentano assonanze sorprendenti con il parlato antico. Vocaboli norreni come gata («strada») e hjarta («cuore»), si ritrovano, per esempio, quasi inalterate nello svedese contemporaneo, come del resto nei casi dei pronomi din («tuo»), sin («suo»), honom («lui») e di numerosi verbi. Un’altra eredità linguistica riferibile al periodo vichingo è l’utilizzo di cognomi patronimici. Tuttora in Danimarca il cognome piú diffuso è Jensen («figlio di Jen») e in Svezia Johansson («figlio di Johan»).

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Morti due volte I morti ÂŤda viviÂť, ossia i caduti in modo virile, trovavano posto in un mondo ultraterreno incantevole, nel Valhalla. Per chi moriva senza onore si prospettava, invece, un lungo soggiorno negli inferi, nella terra della dea Hel. I familiari erano tenuti a onorare il defunto che, se trascurato, poteva lanciare una maledizione sui parenti sopravvissuti. In questo caso si doveva procedere alla riesumazione della salma e a una nuova uccisione per scongiurare il sortilegio.

In alto litografia a colori nella quale si immagina un rito di cremazione vichingo. A destra la nave di Oseberg, imbarcazione, utilizzata come sepoltura femminile, forse per la regina Ă…sa Haraldsdottir di Agder. IX sec. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe.

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di convenienza, non vivevano in uno stato di particolare sottomissione. Nel IX-X secolo due emissari arabi, visitando la capitale vichinga di Hedeby e altri insediamenti, appresero con stupore che in quei centri le mogli godevano di grandi libertà come, per esempio, il diritto di chiedere la separazione: «La donna divorzia quando vuole», scrisse uno dei due testimoni giunti dal Vicino Oriente. Nel 1075, forse con simile sorpresa, il teologo Adamo di Brema scoprí che in Danimarca l’adulterio prevedeva pene piú severe per gli uomini rispetto alle donne. La conversione della Scandinavia, portata a compimento a tappe dai predicatori cattolici dal IX al XII secolo, non cancellò le tracce dell’antica religione. Il mondo spirituale dei Vichinghi era suggestivo e tollerante, ma nello stesso tempo tenebroso e

crudele, considerata la quantità di sacrifici umani che si compivano. Il pluralismo delle credenze veniva assicurato da una schiera molto nutrita di divinità, anche locali, che era in grado di sacralizzare ogni singolo aspetto della vita quotidiana. Odino, Thor, Freyr e Baldr erano gli dèi piú venerati, ma anche il furbo e perfido Loki riscuoteva molta popolarità (vedi box alle pp. 86-87).

Paganesimo tollerante

Santi e figure cristiane, nel periodo precedente la conversione, entrarono talvolta a far parte dell’universo devozionale vichingo testimoniando l’assenza di un «integralismo» pagano che si opponeva al nuovo culto: «La natura stessa del politeismo scandinavo – osserva la germanista Gianna Chiesa Isnardi –, che consentiva a ciascuno di adorare

di preferenza un dio anziché un altro a seconda delle proprie esigenze, permise alla figura di Cristo di conquistarsi un posto fra gli altri dèi, prendendo a poco a poco il sopravvento». La fine dell’era vichinga si consumò in una sorta di lotta titanica tra simili. Uno degli ultimi atti andò in scena con la battaglia di Hastings, nel 1066, vinta dai Normanni. Nello stesso anno il re norvegese Harald III aveva cercato invano di conquistare l’Inghilterra, ma era stato fermato a Stamford Bridge dal sovrano britannico Aroldo II, di discendenza scandinava. Un altro invasore, però, riuscí nell’impresa della conquista del regno inglese, il normanno Guglielmo che aveva, anch’egli, sangue nordico. Ad Hastings sbaragliò l’esercito di Aroldo, cambiando per secoli il destino politico dell’isola britannica. V

Da leggere U Johannes Brøndsted, I Vichinghi, Einaudi,

Torino 2001 U Rudolf Pörtner, L’epopea dei Vichinghi,

Garzanti, Milano 1996 U Else Roesdahl, I Vichinghi, SEI, Torino 1996 U Roberta Gianadda, Celti, Germani e Vichinghi,

Mondadori Electa, Milano 2007 U Donald F. Logan, Storia dei Vichinghi, Odoya,

Bologna 2009 U Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici,

Longanesi, Milano 2008 U Aldo C. Marturano, Cristo e la mafia dei Rus’,

Edizioni Atena, Poggiardo (LE) 2004 U Antonio Costanzo (a cura di), Hávamál, Diana

edizioni, Frattamaggiore (NA) 2010 U Rita Caprini (a cura di), La saga di Erik il

Rosso e la Saga dei Groenlandesi, Pratiche, Parma 1995 U Snorri Sturluson, Heimskringla, le saghe dei re di Norvegia, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2013 U Adamo di Brema, Storia degli arcivescovi della Chiesa d’Amburgo, UTET, Torino 2013

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Tesori di Furio Cappelli

di una terra di

mezzo Situata in un’area di cerniera tra il Lazio, l’Abruzzo e le Marche, la cittadina di Amatrice, oggi in provincia di Rieti, ebbe un ruolo di rilievo nel panorama politico e culturale del Medioevo. Un’importanza testimoniata da monumenti, pitture e manufatti di grandissimo pregio, tra cui spicca una magnifica icona, salvata in extremis dopo la sua misteriosa «scomparsa»...

A sinistra la tavola di Cossito, dipinto su legno raffigurante una Madonna con il Bambino. Metà del XIII sec. Amatrice, Museo Civico «Cola Filotesio». Nella pagina accanto il reliquiario della Filetta, raffinata oreficeria in forma di tempietto goticheggiante, opera dell’orafo Pietro Paolo Vannini (1413 circa-1496). Amatrice, Museo Civico «Cola Filotesio».

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S S

ituata in una conca pianeggiante nell’alta valle del Tronto, a 955 m di altitudine, Amatrice nasce come insediamento fortificato nell’Alto Medioevo, in una posizione di cerniera tra il Piceno, la Marsica e la Sabina. Il suo era un territorio di confine già all’epoca di Augusto, poiché era un lembo della Regio V (Picenum) a ridosso della Regio IV (Samnium). Sin dal 1927 Amatrice fa parte del Lazio, ed è compresa nella provincia di Rieti, ma era in precedenza una città «regnicola», che ricadeva nella provincia dell’Aquila, e, prima ancora, era parte del Giustizierato d’Abruzzo Ultra (al di sopra del fiume Pescara), una circoscrizione amministrativa creata da Carlo I d’Angiò nel 1273. A complicare le cose, fino al 1965 era compresa nella diocesi della città marchigiana di Ascoli Piceno. Il castello di Matrice è attestato proprio tra i possessi della Chiesa di Ascoli Piceno in una bolla concessa da papa Leone IX (1052). L’abitato conosce poi sviluppi determinanti nella seconda metà del Duecento, quando acquisisce una compiuta forma di città dal punto di vista amministrativo e urbanistico, nel periodo piú travagliato della storia della frontiera tra la Chiesa e il Regno. Nel 1265, rifiutandosi di aderire al partito di Manfredi, subisce una devastante spedizione punitiva per mano dello Svevo. E dopo che Corradino di Svevia, l’ultimo pretendente alla corona, venne sconfitto a Tagliacozzo (1268), Carlo I d’Angiò, nel 1282, dispose che alcune vecchie campane presenti nel convento di S. Francesco di Amatrice fossero destinate alla chiesa cistercense di S. Maria della Vittoria (12741283), edificata a ricordo della battaglia presso Scurcola Marsicana. Passata definitivamente sotto il controllo degli Angioini, Amatrice venne a costituire uno strategico avamposto pedemontano del Regno di Napoli, direttamente sottoposto alla corona. Si ribellò allo stesso re Carlo I nel 1274, durante uno dei

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tanti sommovimenti delle terre di frontiera, ma, nel 1283, fu elogiata da Carlo principe di Salerno (il futuro re Carlo II) per la fedeltà dimostrata al sovrano nella crisi dei Vespri Siciliani, e ottenne il privilegio di organizzare una fiera. Divenne ben presto fiorente e popolosa (contava 5000 abitanti all’apice del suo sviluppo). Trovandosi tra i Monti della Laga e lo snodo delle vie centro-appenniniche, svolse un prezioso ruolo mediatore tra i pascoli d’alta quota e i percorsi dei mercanti, avendo anche modo di esprimere una discreta attività manifatturiera nel campo della lavorazione dei filati di lana. Pannilana di Amatrice erano smerciati a Roma, e nel 1426 erano anche stoccati a L’Aquila, nel magazzino dei Bardi, la famosa dinastia di mercanti fiorentini.

Sulla via degli Abruzzi

Non a caso, Amatrice si colloca sulla via Picente (l’odierna Statale 260), un tempo assai frequentata, che connette L’Aquila all’asse della via consolare Salaria nel tratto Rieti-Ascoli Piceno. La città rientrava cosí in un vivace sistema di rapporti che raccordava il Lazio e le Marche alla «via degli Abruzzi», la nodale direttrice del commercio che, nel tardo Medioevo, si sviluppava tra Firenze e Napoli. D’altronde, come testimonia tra gli altri il viaggiatore settecentesco Giovan Girolamo Carli, Amatrice era divenuta una tappa d’obbligo sull’itinerario che congiungeva Roma all’Adriatico: percorsa la Salaria fino ad Antrodoco, si preferiva dirottare per L’Aquila, da lí si giungeva appunto ad Amatrice, e solo in seguito ci si ricongiungeva all’antico percorso della strada consolare. Nonostante le trasformazioni subite nel tempo e i gravi danni causati dagli eventi tellurici, Amatrice ha mantenuto intatte le componenti essenziali del suo particolare assetto urbano, improntato ai principi di simmetria e di regolarità delle «città nuove» angioine, riscontrabili in altre fondazioni di

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medioevo nascosto amatrice Amatrice

Rocchetta Santuario della Madonna di Filetta

Roma

Sant’Angelo Sa ant’Angelo Quercia di Sant’Angelo

AMATRICE

Ferrazza Santuario della Cona Passatora

Santuario della Madonna delle Grazie

A sinistra cartina del territorio di Amatrice con i principali luoghi citati nel testo. In basso, sulle due pagine una veduta di Amatrice. Sulla destra, si staglia la mole maestosa della chiesa di S. Francesco.

Cornillo Nuovo

Chiesa di S. Antonio Abate

Varon Varoni Varo ni

confine: Leonessa, Montereale, Cittaducale, per esempio. Il rettilineo asse principale (l’attuale Corso Umberto I) incrocia l’ortogonale via Roma in corrispondenza dell’isolata torre civica. Quest’ultima è databile nell’assetto attuale al XV secolo, ma la sua piú antica fondazione risale al 1293, quando risulta una «torre regia» che visualizzava nello scenario cittadino l’autorità del sovrano. Le cospicue chiese degli ordini mendicanti (S. Francesco e S. Agostino) si situano sulle direttrici principali, a ridosso delle mura civiche: la torre campanaria di S. Agostino (XV secolo), di fianco alla Porta Carbonara, era in origine una torre della cinta difensiva.

Nel nome di Cola

La chiesa di S. Maria delle Laudi (oggi S. Emidio), già attestata nel 1398 ma ampiamente ristrutturata in molteplici fasi, accoglie il Museo Civico «Cola Filotesio», istituito nel 2002 in onore del versatile pittore e architetto meglio noto come Cola dell’Amatrice (1480 circa-post 1547), che ha legato il suo nome, tra l’altro, alla superba facciata di S. Bernardino a L’Aquila. L’esposizione, molto accurata, offre un piacevole spaccato dell’arte sacra del territorio che ben dialoga con gli affreschi del XV secolo e con gli

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arredi originali dell’edificio. Tra le oreficerie del Quattrocento spicca l’eleborato Reliquiario della Filetta, eseguito nel 1472 dall’ascolano Pietro Vannini, racchiudente uno splendido cammeo romano con l’immagine di una nobile donna, interpretata come un’immagine della Madonna a seguito del miracoloso rinvenimento. Ma l’opera di gran lunga piú preziosa è l’icona di Cossito, una tavola d’altare di altissima qualità che può essere annoverata tra i dipinti piú significativi del Duecento italiano, nonostante la scarsa attenzione che le è stata sinora accordata. Già conservata nella chiesa della frazione Cossito, la tavola era in origine corredata da due ante laterali mobili che raffiguravano scene della vita della Vergine, ridipinte in epoca piú tarda. La sua datazione può essere avanzata solo sulla base dell’analisi stilistica. I pareri in merito oscillano grosso modo tra il 1250 e il 1280. Punta su una datazione alta chi vi vede un’opera di elevato magistero. Punta invece al 1280 chi vi riconosce l’impronta di correnti locali, che reinterpretano gli indirizzi di stile già affermati nei decenni precedenti. A ogni modo, basta uno sguardo per essere avvinti dalla fissità severa delle figure e dalla corposa stesu-

ra dei colori. Tonalità marroni finemente graduate si contrappongono a verdi cupi e a rossi squillanti, che quasi trasfondono la pittura in materia preziosa, con lo stesso effetto visivo dello smalto traslucido in un’opera di oreficeria.

Una madre orgogliosa

La Vergine rientra nel «tipo» della Madonna Nikopeia («Colei che mostra la vittoria»), proprio perché esibisce trionfalmente suo Figlio. Grandi medaglioni di colore dorato

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A sinistra santuario della Cona Passatora. Affresco raffigurante una Madonna in trono col Bambino. Ultimo decennio del XV sec. La Vergine reca in mano la città di Amatrice, con la sua cerchia muraria e gli edifici punteggiati da torri. A destra la Torre Civica. XV sec. Alta 27 m, sorge sul luogo della torre attestata nel 1293. La campana originaria di cui era dotata, fusa nel 1494, è oggi conservata nella chiesa della Madonna di Porta Ferrata.

affiancano come insegne di labari l’aureola della Vergine, con la scritta rosso sangue che recita «Madre di Dio», per metà in latino, per metà in greco. Il Bambino benedicente si staglia sulla Madre come un imperatore seduto in trono, con il globo del potere universale in mano. È evidente che si tratti dell’opera di un artista colto e originale, aperto con ingegno a molte suggestioni. L’iconografia di base è già attestata a Roma nell’Alto Medioevo, e ritrova un «revival» intorno alla metà del Duecento, quando si realizza la Madonna della Catena di S. Silvestro al Quirinale, assai simile alla nostra anche dal punto di vista formale. La conduzione del colore e la resa dei dettagli risentono dell’opera dei musivari bizantini attivi in

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medioevo nascosto amatrice Il mistero della tavola scomparsa

Intrigo internazionale La tavola di Cossito (vedi l’immagine d’apertura) ottenne gli onori della cronaca nel 1967, allorché venne recuperata in Svizzera, a conclusione di una vicenda intricata, rievocata dal giornalista statunitense Hugh McLeave nel suo saggio sulla moderna «piaga» dei furti d’arte (Rogues in the Gallery, Bitingduck Press, Altadena 2003). Nel 1964, dopo essere stata esposta in mostra a Roma, la tavola era stata trafugata, sicuramente su commissione. Dopo un intervento di restyling presso un «restauratore» di Milano, che mascherò alcuni particolari dell’opera per renderne piú difficoltoso il riconoscimento, il dipinto finí nel catalogo di un’asta organizzata nel Liechtenstein, in mezzo a opere mediocri e a banali oggetti da collezione. Si trattava naturalmente di una montatura per fornire un passaporto alla refurtiva: il prezzo di offerta era bassissimo e i personaggi convenuti all’asta, accuratamente selezionati, erano tutti d’accordo tra loro. Tre anni piú tardi, il ricettatore tentò di piazzare il dipinto avvalendosi di un mediatore di lusso, Heinrich Zimmermann, già direttore del Karl-Friedrich-Museum (oggi Bode Museum) di Berlino all’epoca di Hitler e poi emigrato in Uruguay, nella esclusiva località balneare di Punta del Este. Zimmermann intendeva vendere il dipinto sul mercato americano, e proprio un antiquario di New York, sentito odor di bruciato per via del prezzo troppo elevato per un’opera qualsiasi (300 000 dollari), segnalò il fatto agli investigatori, mettendoli sulla pista giusta. La tavola fu riconosciuta da una foto, e si venne a sapere che era nelle mani di un ricco «intenditore» italo-svizzero. Fu cosí ordita un’operazione in grande stile, coordinata dall’infaticabile Rodolfo Siviero (1911-1983), poliedrica figura di agente segreto e intellettuale, noto soprattutto per le attività di recupero delle opere d’arte trafugate dai nazisti in Italia durante l’ultimo conflitto mondiale (tra le sue imprese spicca il salvataggio dell’Annunciazione del Beato Angelico, richiesta nel 1944 da Hermann Göring in persona). Siviero fece proseguire le trattative di acquisto fino alla richiesta di una perizia sul dipinto. L’esperto di fiducia del finto acquirente e un restauratore (in realtà si trattava di due agenti del Ministero italiano degli Affari esteri), ebbero cosí modo di trovarsi di fronte alla «merce» a Weggis, sul Lago dei Quattro Cantoni, in una lussuosa villa che traboccava di opere d’arte e di oggetti d’antiquariato. A quel punto, la polizia svizzera fece scattare le manette, il 27 giugno 1967, e la tavola poté fare ritorno in Italia. E molte altre opere risultate «in deposito» in quella stessa villa ripresero la strada dell’Inghilterra, dell’Austria e della Germania. In alto un particolare della tavola di Cossito. Metà del XIII sec. Amatrice, Museo Civico «Cola Filotesio». A destra, sulle due pagine chiesa della Madonna della Filetta. Particolare di uno degli affreschi di Pietro Paolo da Fermo raffigurante la pastorella Chiarina da Valente che reca il reliquiario contenente il prezioso cammeo da lei scoperto. 1475 circa.

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Italia (per esempio a Monreale) tra la seconda metà del XII secolo e i primi decenni del secolo seguente. La singolare posa del Bambino a braccia aperte e con il globo in mano, sembra parodiare in modo plateale le effigi imperiali dei sigilli di Federico II. Un simile complesso di apporti dava man forte anche a un pittore come Margarito d’Arezzo, la cui febbraio

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Madonna di Montelungo (1250), oggi esposta al Museo Civico della città toscana, è ben confrontabile con la Madonna di Cossito, anche se animata da una intonazione piú dolce e «realistica». Da queste coordinate si vede bene come la tavola di Amatrice si collochi in modo «strategico» tra Roma, il Regno e la Toscana, in un momento cruciale nella storia della

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pittura italiana, e forse di quel momento costituisce un prezioso tassello finora ignorato.

Storia di una chiesa

La chiesa di S. Francesco, che nelle forme attuali è stata ricostruita alla fine del XIV secolo e ampiamente restaurata nel secolo successivo, risultava già presente nello scenario cittadino nell’ultimo quarto del

Duecento, e i suoi frati ottennero da parte di papa Niccolò IV, nel 1291, la facoltà di concedere ai fedeli un’indulgenza. Alla piú antica fase costruttiva risalgono alcune parti del portale in travertino della facciata, chiaramente esemplate sul portale maggiore di S. Francesco di Ascoli Piceno (1290-1330). I pregevoli elementi superstiti furono rimontati nei decenni iniziali del Quattrocento

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In alto la facciata della chiesa di S. Agostino. XV sec. A sinistra figura mostruosa sul tipo di Atlante di fianco al portale della chiesa di S. Francesco.

nel nuovo ingresso monumentale, arricchito sulla lunetta da un gruppo scultoreo con la Maestà della Vergine tra due Angeli omaggianti. L’interno, che conserva le linee rigorose di un tipico assetto di chiesa «a fienile», presenta cospicue testimonianze di una decorazione pittorica che interessò tutte le pareti tra il XIV e il XV secolo, sulla scorta dell’iniziativa di molteplici devoti

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che si affidavano in modo non pianificato a pittori di varia esperienza. Spicca sulla parete sinistra una Natività di ampio respiro, come una grande pagina miniata gremita di figure e di elementi scenografici attentamente definiti, opera di un artefice abruzzese dell’ultimo Trecento, ben aggiornato sui modi della pittura umbra dell’epoca, e noto alla critica come Maestro di Campli. Ma l’episodio piú intrigante è costituito dalla raffigurazione lacunosa dell’Albero di Iesse che si osserva in fondo alla chiesa, su una parete del coro. Il dipinto, databile all’ultimo quarto del Trecento e rifebbraio

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conducibile alla mano di un artista marchigiano, presenta un’elaborazione iconografica piuttosto singolare. L’albero che si fonda su Iesse, il padre dormiente del re Davide, e che si sviluppa come di consueto con l’immagine della Vergine e del Messia (quest’ultimo in stato frammentario), presenta al centro, in basso, un trono vuoto. Ai fianchi si osservano due coppie di figure, nell’atto di esibire citazioni di vario genere in allusione alla nascita di Cristo e alla redenzione.

Il trono vuoto del re

Come ha rivelato Giuseppe Capriotti in un recente contributo dedicato al dipinto di Amatrice, le figure in basso a sinistra sono un Angelo e il re Davide, mentre a destra si osserva Virgilio (il cui rotolo cita l’Ecloga IV delle Bucoliche, nel famoso verso che prelude all’avvento di una nuova stirpe) affiancato dalla Sibilla Tiburtina, che indica al poeta la Vergine e sfoggia un libro con il testo dell’oracolo sul Messia. La presenza della profetessa e del poeta «pagano» risponde alla volontà di radicare la rivelazione di Cristo nella sapienza degli antichi. Un abbinamento simile di personaggi era presente nell’abside di un’illustre chiesa, anch’essa francescana, S. Maria dell’Aracoeli a Roma: in un perduto affresco di Pietro Cavallini (fine del XIII secolo), la medesima Sibilla indicava la Vergine di fianco all’imperatore Augusto. Virgilio e la Sibilla si riscontrano in seguito nell’Albero di Iesse scolpito sulla facciata del duomo di Orvieto, al secondo pilastro (primi decenni del XIV secolo). Dal canto suo, il re Davide, rivolto al trono vuoto dove solitamente risiede, è intento a scrivere un passo di un suo Salmo biblico, il 132, laddove il Signore giura allo stesso Davide che i suoi figli, purché custodi della sacra alleanza, risiederanno sul suo trono. La discendenza di Davide culmina in Cristo, e il trono è vuoto (secondo l’antico concetto iconografico dell’Etimasia, ossia «preparazione del trono») perché è

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A destra chiesa di S. Francesco. L’affresco della Natività, attribuibile all’abruzzese Maestro di Campli, attivo alla fine del XIV sec. In basso chiesa di S. Francesco. La raffigurazione dell’Albero di Iesse, opera di un pittore marchigiano. Ultimo quarto del XIV sec. In basso compare il trono vuoto, destinato ad accogliere il Messia alla fine dei tempi.

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prezioso cammeo, la pastorella Chiarina di Valente, che reca solennemente il reliquiario in città alla testa di un corteo, protetta da un baldacchino. La donna, ritratta di profilo come la matrona del cammeo, è trasformata dal pittore in una nobildonna del Rinascimento, secondo un raffinato canone all’antica che rimanda al Ritratto di principessa del Pisanello al Louvre (1437 circa), alla Dama di Antonio del Pollaiolo al Poldi Pezzoli di Milano (1470 circa), o al Ritratto di Giovanna Tornabuoni di Domenico Ghirlandaio al Museo ThyssenBornemisza di Madrid (1488). La Cona Passatora, cosí chiamata perché costruita a protezione di un’edicola mariana del XV secolo che si trovava lungo una strada di

indaffarati il riposo domenicale, in modo che onorassero degnamente il giorno della settimana consacrato a Gesú. Lavorare in quel giorno equivaleva a rinnovare il supplizio destinato ad accogliere il Messia aldella croce, conducendo il trasgresla fine dei tempi. sore direttamente all’inferno. In generale, come sottolinea Il tema iconografico, presenJacopo Manna, la fortuna tarditato ad Amatrice con un’eleganza va dell’Albero di Iesse in territorio insolita, scaturiva da una religiosiitaliano può essere correlata all’attà di stampo popolare testimoniatività predicatoria e alla lotta antieta anche nelle grandi città, come reticale che erano tra le prerogative Firenze. All’indomani del concilio degli ordini mendicanti: l’Albero di Trento (1545) simili immagini manifestava al meglio il radicamen(oggi rare, ma diffuse in ogni dove to della fede cattolica nella storia tra il XIV e il XV secolo) non sodella rivelazione biblica, legando la lo non furono piú realizzate, ma Vergine alla stirpe veterotestamensi disponeva spesso che quelle già taria del re Davide. E non si escluesistenti fossero distrutte, perché de che la presenza dell’Albero ad giudicate poco decorose o eteroAmatrice sia la lontana ricaduta di dosse. Nella situazione appartata una presenza ereticale di questa chiesa pedemontasulle vie assai frequentana, la raffigurazione rimase Le molte chiese del territorio te della zona. Un circolo sempre in bell’evidenza, sendi «perfetti» che aderiza creare alcun problema. riflettono la vivacità artistica vano alla dottrina catara A sinistra dell’abside mee culturale di Amatrice (e che dunque negavano rita attenzione, tra l’altro, a Cristo una natura coruna Madonna in trono col porea e una genealogia) è attestato campagna, è ricolma di pitture. I Bambino realizzata nell’ultimo a Rieti nel 1261, quando si celebrò dipinti della cappella absidale so- decennio del Quattrocento, con un processo postumo al canonico no stati pianificati e commissionati una compiaciuta elaborazione Palmerio Leonardi, accusato di aver dalla comunità, nel 1508-09, e sono prospettica del seggio. La Vergine dato ricetto agli eretici, e di averne opera di un sagace e piacevole nar- reca in mano la città di Amatrice, addirittura condiviso le idee. ratore, l’assai attivo artista locale con la sua solida cerchia muraria e La vivacità artistica e cultura- Dionisio Cappelli. Per il resto, le pa- gli edifici punteggiati da torri, nelle che doveva contraddistinguere reti dell’edificio sono costellate da la migliore tradizione dei paesaggi Amatrice fino alle ultime fasi di una miriade di affreschi legati alla urbani del Medioevo italiano. F punta della sua vita economica, libera iniziativa dei fedeli. Nel 1490 politica e sociale, fino cioè ai primi un gruppo di devote (si legge infatti: Da leggere decenni del Cinquecento, si riflette questa feura a fatta fare lefemene) comin un ampio gruppo di chiese del missionò il solenne Cristo portacroU Aa. Vv., Museo Civico di Amatrice territorio, che sfoggiano tuttora una ce che compare sulla parete destra, «Cola Filotesio», Grafiche Editoriali, ricchezza decorativa sorprendente. con un copioso rivolo di sangue che Ariccia 2005 sgorga dalla sua mano e che finisce U Furio Cappelli, La Salaria e le Una scoperta miracolosa in un calice posato a terra. vie della cultura artistica nel La Madonna della Filetta, edificaTutt’intorno si osserva un camPiceno medievale, in Farfa Abbazia ta dal Comune di Amatrice a ricor- pionario di strumenti di lavoro, imperiale, atti del Convegno do del miracoloso rinvenimento che sostituiscono gli attributi delinternazionale, a cura di Rolando dell’antico cammeo già menzio- la Passione (chiodi, corona di spiDondarini, Il Segno, San Pietro in nato, custodito nel reliquiario del ne, lancia…) tipici delle analoghe Cariano 2006; pp. 255-307 Museo civico, presenta un interes- raffigurazioni: si riconoscono una U Tersilio Leggio, Ad fines Regni. sante ciclo affrescato sull’abside, scure, un coltello, delle cesoie, una Amatrice, la Montagna e le alte eseguito negli anni Settanta del cazzuola, un compasso. Si tratta in valli del Tronto, del Velino e Quattrocento da un pittore mar- sostanza di una «predica figurata», dell’Aterno dal X al XIII secolo, chigiano altrimenti ignoto, Pietro nota all’epoca come «Cristo della Edizioni Libreria Colacchi, Paolo da Fermo. Spicca la delizio- domenica»: l’immagine si prefiggeL’Aquila 2011 sa immagine della scopritrice del va di far rispettare ai fedeli troppo Santuario della Cona Passatora. L’affresco raffigurante il Cristo portacroce, commissionato nel 1490 da un gruppo di devote.

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Eusebio, Ajmone e la Madonna Nera cartoline • Oropa

è sede di un grandioso complesso di culto, nato e sviluppatosi nel segno della venerazione di una antichissima immagine lignea della Vergine

A

dagiato su di un terrazzo morenico ai piedi del monte Mucrone, alle spalle di Biella, il santuario della Madonna di Oropa si trova a 1180 m di quota ed è ritenuto uno dei piú antichi luoghi di culto mariani dell’Occidente. Il grandioso complesso devozionale è attualmente composto da uno scenografico insieme di fabbricati, eretti tra il Seicento e l’Ottocento e affacciati su vasti piazzali, disposti su differenti livelli; la sua origine, però, si perde nella notte dei tempi. La zona sarebbe stata frequentata per motivi religiosi sin dall’antichità, poiché la conca in cui si erge il santuario costituirebbe un cromlech naturale, cioè una sorta di recinto sacro diffuso nella religione celtica. In alto l’ingresso al santuario della Madonna di Oropa. Sullo sfondo è la Porta Regia. A sinistra la statua della Madonna Nera, realizzata in legno di cirmolo da uno scultore valdostano nel XIII sec. Nella pagina accanto una veduta aerea del santuario mariano di Oropa.

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Un masso erratico sarebbe stato il riparo ai piedi del quale officiare il rito gallico della dea madre. L’adorazione della Vergine di Oropa potrebbe quindi essersi innestata sulla precedente liturgia, senza soluzione di continuità. Secondo la tradizione popolare, a Oropa il culto mariano è collegato al vescovo di Vercelli, Eusebio, il quale, nel IV secolo, si sarebbe rifugiato tra i fitti boschi nei dintorni di Biella per sfuggire alle persecuzioni.

La statua dell’evangelista Nel 369 il religioso avrebbe anche nascosto in una nicchia del blocco di roccia, a cui ora è addossata la cappella del Roc, una statua lignea della Madonna portata da Gerusalemme e presunta opera dell’evangelista Luca. Il simulacro fu poi collocato in un altro sacello, forse costruito dallo stesso Eusebio. Di fatto la piú antica attestazione della chiesa di S. Maria di Oropa, vale a dire del manufatto che ancora oggi custodisce la statua della Madonna Nera, risale al 1207 febbraio

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Oropa comincia con i faggi Superata Biella e imboccata la serpeggiante strada in salita che conduce a Oropa, prima di ammirare l’imponente cupola del santuario e il grande prato dinnanzi al complesso devozionale, si ascolta il silenzio mai muto dei boschi di faggi. I boschi rivestono questi monti da millenni e sono parte integrante della storia del santuario. Gli alberi che circondano Oropa sono stati e sono testimoni silenziosi delle vicende del luogo di culto e della sua gente. Da secoli, piú o meno direttamente, hanno scaldato, nutrito, costruito e ornato il santuario della Vergine Bruna. Tuttavia, nel Medioevo, a Oropa erano i pascoli l’elemento piú rilevante. Gli alpeggi rappresentavano una fonte di reddito, perché i prati erano ceduti in locazione ai pastori che li «caricavano» durante l’estate. Si generava cosí un’economia locale basata sullo sfruttamento della proprietà del suolo montano, quello che un tempo era indicato come lo «Alpero» della Città di Biella. Il bosco rimaneva in secondo piano. Faceva parte degli appezzamenti affittati, ma non si poteva considerare una risorsa immediata. A quell’epoca il legname si reperiva molto piú agevolmente in pianura o in collina, dove si estendevano ancora vaste zone boschive. Raggiungere la quota di Oropa, abbattere gli alberi sulle falde scoscese e trasportarli a valle su tracciati appena percorribili, spesso dissestati dalle precipitazioni, risultava un insieme di operazioni molto svantaggioso. Il contesto territoriale e amministrativo dell’antica valle oropea presenta una situazione singolare. Una sorta di sottile diaframma giuridico separava il nucleo arcaico del santuario dalle selve circostanti: Oropa era una enclave nata dalla devozione e dalla necessità di un posto di tappa lungo il cammino per il Vallese, ma possedeva poco o nulla di quanto circondava gli edifici e i ridotti sedimi di sua pertinenza. La conca di Oropa era compresa nel territorio della Città di Biella (questo vale tuttora) e apparteneva al Comune di Biella (da quasi tre secoli non è piú cosí). I due priorati di S. Maria e di S. Bartolomeo non avevano accesso ai beni silvo-pastorali, in cui erano immersi. Motivo per cui i frati vi conducevano quella e si trova in una bolla emanata da Innocenzo III. Nel testo il tempietto è menzionato tra gli edifici ecclesiastici sottoposti alla giurisdizione canonica del Capitolo di S. Stefano di Biella. Fondato nell’VIII-IX secolo, questo primo luogo liturgico ospitava, già all’inizio del Duecento, frati eremitani, che non dipendevano da alcun ordine monastico, ma direttamente dalla pieve di S. Stefano di Biella e dal

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«arctam vitam», ossia quell’esistenza assai povera, dedita alla questua e votata alla penitenza, di cui si fa menzione nelle carte bassomedievali. I romiti vivevano da soli e in mezzo ai boschi. Pastori e viatores a parte, gli unici uomini a inoltrarsi lassú erano boscaioli abusivi, cacciatori di frodo e le guardie forestali del Comune di Biella, che battevano quotidianamente le alture, almeno fino al Cavallo del Favaro, per coglierli sul fatto, mentre violavano lo «ius lignandi» e le norme su pascolo e caccia. Al XV secolo risale la sintetica, ma qualificata, descrizione dell’ambiente che accompagnava il viandante diretto a Oropa. Il racconto è inserito nella Chronica di Giacomo Orsi, redatta nel 1488. L’autore riferisce di un’ideale, ma piuttosto realistica ascensione pellegrinale al santuario. Lungo i sentieri che conducevano alla veneranda Effigie si incontravano «deserta, nives, remora, vepres ac scopulos», cioè zone «spopolate, nevi (di certo non tutto l’anno), ma soprattutto boschi, arbusti spinosi e rocce». L’impressione è che, rispetto ai secoli precedenti, il paesaggio non fosse cambiato molto e che, lasciata la pianura, prima di giungere alla meta ci si inoltrasse su un terreno dove la civiltà non era ancora penetrata, né aveva potuto modificare l’habitat naturale, facendolo rimanere impraticabile ai piú, insidioso e indomito. Invece nei pressi delle chiesette la presenza dell’uomo aveva ormai «addomesticato» un po’ della terra circostante e nelle vicinanze del priorato di S. Bartolomeo nel 1453 tra i pascoli e le foreste cresceva già un frutteto.

vescovo di Vercelli. Si trattava di un romitorio dedicato alla Vergine, sito tra gli isolati monti di Biella, i cui monaci erano dediti anche all’accoglienza di pastori, pellegrini e viandanti diretti in Valle d’Aosta.

La nuova chiesa Tra il 1294 e il 1295, davanti al primitivo tempietto della Madonna Nera, fu innalzata una seconda e piú grande chiesa, subito consacrata

dal vescovo Ajmone di Challant, probabile donatore della celebre statua lignea della Vergine Nera, realizzata da una bottega valdostana e collocata nel sacello piú antico, dove si trova ancora adesso. Affreschi trecenteschi decorano questo piccolo edificio sacro, successivamente inglobato nel santuario, edificato alla fine del Cinquecento al posto della chiesa duecentesca di Ajmone di Challant.

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caleido scopio A sinistra la Basilica Antica, al cui interno è custodita la statua lignea della Madonna Nera. Nella pagina accanto, in alto particolare di uno degli affreschi del sacello, con la scena della Natività. Nella pagina accanto, in basso uno dei presepi conservati nella raccolta della Basilica Superiore. Il programma iconografico è incentrato sulla figura della Vergine e su quelle di alcuni santi, che dovevano essere particolarmente venerati nel romitorio di S. Maria di Oropa e non solo. Il ritrovamento del ciclo a fresco di Oropa risale al 1920 e, all’indomani della scoperta, si sono succedute tre importanti campagne di restauro.

L’ultimo intervento, avviato negli anni 1990-1991, ha consentito di rileggere in modo appropriato il ciclo del Maestro di Oropa.

Influssi del gotico francese L’artefice combina partiti decorativi arcaici, come i fregi a tre larghe bande di colore giallo, verde e azzurro e quello a losanghe multicolori alla base della calotta absidale, con influssi derivati dal gotico francese, probabilmente assimilati nella vicina Vercelli, dal momento che, nel XIII secolo, la città eporediese conservava numerose e importanti testimonianze di questo

linguaggio, nel campo della scultura, dell’oreficeria (soprattutto gli smalti) e della miniatura. Nelle immagini affrescate le influenze mutuate dal gusto gotico francese sono leggibili nella tipologia dei volti e nel gusto per le stoffe fittamente ornate con motivi a palmetta, a piccoli boccioli di fiore, a ramages e a quadretti. Dalle rappresentazioni emergono inoltre alcuni stimoli assisiati, filtrati dalla vicina Lombardia. A commissionare gli affreschi negli anni 1304-1305, in un periodo immediatamente successivo alla consacrazione della nuova chiesa di

Presepi dal mondo

Particolare del pastorale «di S. Eusebio», opera francese, in avorio scolpito con bastone in ebano a tre anelli. Prima metà del XIV sec. Oropa, Museo dei Tesori.

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La Basilica Superiore, situata alle spalle del complesso santuariale, edificata nel 1885 per accogliere i sempre piú numerosi pellegrini e consacrata nel 1960, ospita nelle sale laterali e nella cripta un’interessante raccolta di presepi provenienti da tutto il Mondo. Le collezioni sono state donate in concessione perpetua al santuario dalle famiglie Alvigini di Biella e Zona di Lessona. Acquistati in Perú, Tanzania, Alaska, Isola di Pasqua, Arabia Saudita, Egitto, Colombia, Argentina, Kenia, i gruppi presepiali sono realizzati in diversi materiali: foglie di banano, pietre, ferro, terracotta, fango cotto al sole, ceramica. Non mancano le ambientazioni italiane: dal presepe di San Francesco, al presepe intagliato nel legno della Val Gardena, a quello napoletano, al sardo. In mostra figurano anche 15 diorami, avuti in dono dai fratelli Castells di Barcellona e da Alberto Finizio di Roma. Le scene rappresentano episodi tratti dalle Sacre Scritture e dal Vangelo e propongono in una raffigurazione tridimensionale la vita di Cristo. febbraio

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S. Maria, fu molto probabilmente il vescovo Ajmone di Challant. In realtà il presule nutriva un forte interessamento non solo per la chiesa di Oropa, ma pure per il romitorio oropeo di S. Bartolomeo e per quello di S. Tommaso a Campiglia. Ciò è stato messo in relazione con l’intento da parte di Ajmone di migliorare l’assistenza ai viatores in transito sulla strada che, passando da Oropa e Campiglia, congiungeva il Biellese alla Valle d’Aosta. Il suo ambizioso progetto era strettamente collegato a quello del fratello, il visconte di Aosta Ebalo Magno di Challant, il quale, avendo da poco esteso la propria giurisdizione sull’alta valle del torrente Lys, al confine con la valle d’Andorno sopra Biella (possedimento dei vescovi di Vercelli dall’XI secolo), proprio in quegli anni tentava l’espansione territoriale nelle adiacenti vallate biellesi.

L’avvento dei Visconti In seguito, tra il XIV e il XV secolo, in quest’area prealpina si attestò la signoria dei Visconti e del ducato di Milano. Con l’avvento dell’età moderna e l’alterazione degli equilibri di potere, in cui si inseriva anche il ducato milanese, nella mentalità comune si diffuse

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una percezione della montagna contrapposta a quella medievale. Dal Cinquecento in poi le Alpi non rivestono piú il ruolo di mediatore tra le culture del Nord e del Sud Europa, ma divengono una barriera da tener chiusa, una muraglia di difesa, di opposizione con i territori nemici. Per di piú nel XVI secolo l’Europa cristiana è sconvolta dallo scisma protestante e le Alpi formano una frontiera tra il mondo della Riforma e il mondo della Controriforma. Questa concezione dell’ambiente alpino e, di conseguenza, del paesaggio prealpino, non scaturisce spontaneamente dal «basso», ma viene imposta dall’«alto», cioè dal centro, da Milano, capitale religiosa della cattolicità, proiettata verso Settentrione, verso il Nord Europa, ritenuta la terra degli «eretici». A considerare la regione prealpina come scenario naturale per un’innovativa sacralizzazione della montagna, è stato l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. In tale contesto le Alpi diventano la sede dei Sacri Monti, una sorta di «grande muraglia», eretta per imprimere sul versante alpino meridionale il segno evidente dell’appartenenza alla fede cattolica. Ciò si verifica anche in connessione con altre novità nella pratica religiosa cristiana, avvertite nel corso del Quattrcoento e dovute a un profondo

rinnovamento nella concezione storica del pellegrinaggio diretto ai «luoghi santi» e al configurarsi di una nuova idea di struttura architettonico-devozionale, incentrata nella cappella che, collocata in posti eletti a tale scopo, ospitava «spettacoli misterici».

La nascita del Sacro Monte A Oropa, in un ambiente ormai alpino, dove preesisteva l’antico santuario frequentato dai fedeli per la statua della Madonna Nera attribuita all’evangelista Luca, nei primi decenni del Seicento furono innalzati un’altra chiesa, che inglobò la precedente, un ospizio per i pellegrini e un Sacro Monte. Dopo le prime cinque cappelle, dedicate ai santi e costruite a fianco dello stradone aperto nel 1620 per indicare l’avvicinamento al luogo devozionale, il Sacro Monte fu disposto sul lato sinistro della strada, che allora portava al «chiostro della Madonna» e adesso alla spianata davanti al santuario. Le dodici cappelle principali, dai tetti in pietra grigia e i portici per il riparo dei devoti, decorate da eleganti doccioni con figure zoomorfe scolpite nella pietra, sono inserite nel verde declivio a intervalli regolari l’una dall’altra. Illustrano ai fedeli episodi della vita della Vergine, partendo dal Mistero dell’Immacolata Concezione e culminando, sulla sommità del monte Oretto, con la raffigurazione del Paradiso, che fa da sfondo all’Incoronazione di Maria. Chiara Parente

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caleido scopio monumenti • Un refettorio?

Una sacrestia? Qual era la reale destinazione della «cripta» realizzata sotto l’aula di culto della Cappella degli Scrovegni?

Mistero patavino Alla Cappella degli Scrovegni «Medioevo» ha recentemente dedicato un ampio Dossier (vedi n. 201, ottobre 2013). Torniamo a occuparcene, per dare conto di una possibile soluzione dell’enigma che tuttora interessa la cripta che si sviluppa sotto l’aula di culto affrescata da Giotto.

L

a Cappella degli Scrovegni insiste su un’area archeologica di estremo interesse per la presenza dell’anfiteatro romano, d’età augustea. Dedicata a Santa Maria della Carità, la chiesa che lo Scrovegni volle sorgesse attigua al suo palazzo, poggia con la facciata sul muro romano C (vedi pianta a p. 107, in alto), usufruendone come fondazione fino alla quota di 3-4 m. Negli scavi dell’anfiteatro eseguiti nel 1880 da Antonio Tolomei emerse un tratto d’acquedotto in trachite appartenente all’acquedotto

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pubblico della Padova romana. Nel 1907, l’ingegner Francesco Brunelli Bonetti effettuò ulteriori e piú accurati scavi dell’anfiteatro, portando alla luce altri reperti.

Le prime osservazioni Scrive al riguardo: «Nessun tubo si rinvenne per lo smaltimento dell’acqua proveniente dalla parte superiore dell’anfiteatro. Soltanto nella Cripta della Cappella di Giotto, innestato nel muro della facciata, si può vedere un tubo verticale in trachite del diametro interno di m 0,16 il quale è sottoposto ad altro orizzontale, formato con tubi di cotto del diametro di m 0,07 e della lunghezza di oltre m 4,00. Quest’ultimo dovrebbe riposare sopra la grande fondazione dei muri B e C e per la ristrettezza sembra avesse un ufficio piú limitato di quello di smaltire l’acqua piovana». Un’ispezione da me effettuata nel

2004 ci dà le esatte proporzioni. Si tratta d’un tubo cilindrico di trachite inserito nel muro in posizione verticale con l’innesto a «femmina» in vista e sovrapposto a un altro tubo cilindrico di trachite, non individuato da Brunelli Bonetti. A poco piú di 2 m d’altezza, quasi in asse con i due tubi di trachite, c’è un condotto fittile collocato in posizione orizzontale, con lieve pendenza verso l’interno della «cripta», costituito da elementi cilindrici, con sistema d’aggancio «maschio/femmina», di 30 cm di lunghezza, 7 di diametro interno e 1 di spessore. Questo tratto di conduttura in terracotta si prolunga per circa 4 m e riposa sopra la grande fondazione dei muri B e C dell’anfiteatro. Si faccia caso. Poiché la facciata della Cappella insiste sul muro romano C, che si trova a 2,50 m da quello febbraio

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B, e accertato che la conduttura in terracotta si prolunghi per almeno 4 m, è molto probabile che su entrambi i muri dell’anfiteatro si posassero questi elementi cilindrici e, forse, si prolungassero in fluida sequenza fino a una cisterna di raccolta delle acque piovane. E ciò escluderebbe un loro utilizzo in epoca romana. Infati, il modulo compositivo di questi elementi fittili e il loro allettamento non trovano riscontri con elementi di conduttura in terracotta romani dell’area euganea-atestina e sicuramente patavina. Ma c’è di piú. Oltre a ricordare un condotto fittile di Parona, località a nord di Verona, è particolarmente utile il confronto con i «cannoncini» rinvenuti in un edificio in calle Gozzi a Venezia, poiché essi si caratterizzano per lo stesso sistema d’aggancio e

il rapporto con l’anfiteatro

Pianta dell’anfiteatro romano di Padova, che ne evidenzia il rapporto con la Cappella degli Scrovegni. Il tubo cilindrico in trachite scoperto nel 2004.

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Assonometria che evidenzia la coincidenza tra la superficie della «cripta» e quella della soprastante navata della Cappella. Particolare delle murature della «cripta» sulle quali sono dipinte stelle a otto punte di vari colori.

per le stesse misure dei nostri «cannoncini d’acqua», il cui uso sembra però diverso da quello degli esemplari veneziani, che servivano probabilmente da sfiato o per smaltire i cattivi odori. Inoltre, per la nostra conduttura fittile – ed è ciò che piú conta –, disponiamo della datazione con termoluminescenza (ottenuta dal Dipartimento di Scienza dei Materiali dell’Università degli Studi di Milano Bicocca),

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caleido scopio che s’assesta intorno al 1340±45 d.C., una datazione che s’offre a una spiegazione non ambigua, agganciata allo svolgimento dei lavori per la costruzione della Cappella di Giotto. Appare allora legittimo il tentativo di spiegare la funzione ch’ebbero sia il condotto fittile sia i tubi di trachite. L’uso di questi elementi è, in realtà, un enigma, giacché la storia della «cripta» s’arresta all’ostacolo della sua funzione fin dall’origine della costruzione della Cappella. Perciò conviene fare una riflessione.

Il pavimento in pendenza La «cripta», in parte costruita sull’area dei muri radiali che sostenevano le volte e le gradinate dell’anfiteatro romano, ha una superficie pari a quella della navata soprastante, esclusa l’abside; e il suo pavimento, in leggera pendenza verso la parete occidentale, si trova a 4,45 m sotto quello della chiesa. Il livello della falda freatica, prima dei lavori idraulici effettuati all’inizio degli anni Sessanta del Novecento sbarrando il tronco maestro del fiume Bacchiglione, onde estromettere le piene dal centro urbano, si trovava normalmente fra i 35 e i 70 cm al di sopra del pavimento della «cripta», ma dopo gli interventi sul fiume il pavimento si presentava in discrete condizioni, benché a volte l’acqua tornasse a invadere il sotterraneo, per cui nel 1997-1998 si decise di costruire una penosa vasca di cemento nella quale far convergere le acque meteoriche e di falda e trasferirle, a mezzo di pompe, in appositi condotti. Se al tempo dello Scrovegni la situazione fosse stata quella fin qui descritta, perché creare uno spazio sotterraneo d’ampie dimensioni sapendo che sarebbe stato invaso dall’acqua? La risposta potremmo cercarla nelle affermazioni di Tolomei, il quale sostiene, e altri studiosi lo seguono, che la vicinanza del fiume avesse suggerito di tenere sollevato dalle immediate influenze del suolo il prezioso monumento, dal cui interno, ma non ci sono

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elementi certi che dimostrino la veridicità della sua affermazione, un tempo s’accedeva nella «cripta». Piú credibile, invece, a mio avviso, è l’ipotesi di Decio Gioseffi, il quale indica l’accesso alla «cripta» nel punto dove ora si trova, cioè sul lato nord della Cappella. Al riguardo, sottolineo il fatto che l’attuale foro d’ingresso presenta una forte strombatura del tutto simile a quella dei sei finestrini aperti nello zoccolo del fianco meridionale; e che una stretta fascia dipinta di rosso, che si trova identica in altre parti della «cripta», definisce, senza soluzione di continuità, il contorno interno della strombatura, mentre alcune stelle a otto punte, anch’esse dipinte e nessuna di esse interrotta dal foro d’ingresso, sono distribuite in modo da consentire una veduta d’insieme ben calcolata e, quindi, deliberata fin dall’inizio. Che la «cripta» fosse comunque stata costruita nell’ottica funzionale d’un servizio, probabilmente cultuale piú che abitativo, si potrebbe tranquillamente reputare, dal momento che la volta a botte sembra ripetere il cielo stellato della Cappella; e la parete occidentale, com’è stata concepita, partecipa all’organicità dell’insieme. E siamo, cosí, al punto.

sia come luogo per conservare i paramenti, gli arredi sacri e le reliquie sia «come sede d’incontro per la piccola comunità ecclesiale». Osservo. L’ampiezza della «cripta» avrebbe potuto senz’altro corrispondere a quella d’un refettorio, ma è il luogo stesso a rendere debole l’ipotesi non essendovi traccia d’ambienti che permettessero di soddisfare i bisogni immediati della vita d’un gruppo di persone che proprio lí – ma nulla è provato sull’autorità delle carte d’archivio – avrebbe dovuto avere dimora stabile, cioè i Cavalieri Gaudenti, al quale ordine apparteneva, secondo Federici, lo stesso Scrovegni. Un’ipotesi,

I Cavalieri Gaudenti Riesce difficile pensare alla realizzazione d’una «cripta» con una parete di fondo cosí articolata e con un soffitto cosí dipinto se non ci fosse stato un utilizzo diverso da quello di semplice luogo adibito alla raccolta dell’acqua. È probabile perciò che, almeno all’inizio, ci sia stata una situazione diversa di cui, purtroppo, non ci è dato conoscere con esattezza. Le ipotesi di Fabrizio Federici e di Claudio Bellinati meritano attenzione. Per il primo, la «cripta» era sfruttata come «Refettorio» dai Cavalieri Gaudenti che ivi «conventualmente vivevano fino al 1400», mentre per Bellinati la «cripta» potrebbe essere stata utilizzata, in attesa della costruzione della sacrestia o della canonica,

quest’ultima, piú volte messa in dubbio, ma recentemente riaffermata da alcuni studiosi, i quali hanno pensato che i Cavalieri Gaudenti celebrassero le loro funzioni religiose nella Cappella dov’era riservato uno spazio che funzionava come schola cantorum. Ma, ancora. Se fosse credibile la congettura del «Refettorio», lo spazio seminterrato avrebbe dovuto essere una sorta di polmone pulsante destinato a dar vita al corpo della febbraio

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Uno degli incavi osservabili nella nicchia realizzata sul fondo della «cripta»: è probabile si tratti dell’alloggiamento di una trabeazione lignea, oggi perduta. ▼

«cripta» con nuclei spaziali ben determinati, rifiniti e arredati e con una strumentazione tecnica tale da agevolare la distribuzione dei servizi: tavoli per le vivande, fornelli per la cottura dei cibi, sfiatatoi per il fumo, un pozzo o una cisterna in cui convogliare l’acqua. Ma solo l’acqua, in quell’ambiente, potrebbe essere stata in qualche modo conservata e controllata in una vasca capace di ricevere e raccogliere l’eventuale eccedenza e diramarla verso i punti di necessità. Resta però un fatto, cioè la concezione unitaria del progetto della «cripta», che prevede una volta a botte, una parte delle

Acquerello di Marino Urbani in cui si vedono il palazzo di Enrico Scrovegni, abbattuto nel 1827, e la cappella, con la facciata dotata di un portico a tre archi. Inizi del XIX sec. Padova, Biblioteca Civica. Disegno dell’area dell’anfiteatro patavino che attesta l’esistenza di un pozzo di fronte alla Cappella degli Scrovegni.

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I contrafforti in laterizio realizzati all’interno della «cripta», che ne hanno alterato l’originaria organizzazione dello spazio. ▼

pareti dipinta e un’articolazione abbastanza complessa del fondo, che si caratterizza per una sorta di nicchia intonacata alta 2 m, larga 1,40, profonda 70 cm e sostenente, nella parte superiore, il discorrere d’una trabeazione probabilmente lignea, oggi perduta, come si evince dalle due incavature rettangolari laterali ricavate sulla parete. All’interno di questa nicchia, come s’è visto, è presente un condotto fittile che si prolunga all’esterno

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caleido scopio L’interno della Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto tra il 1303 e il 1305. e della volta a botte, sulla quale si stagliano le stelle colorate a 8 punte. La distribuzione e l’impaginazione delle stelle nel soffitto della «cripta», il cui biancore dilata lo spazio della volta che si differenzia decisamente dal cielo dipinto in azzurro con stelle dorate della soprastante Cappella, sembra obbedire a un calcolato disegno, il cui percorso potrebbe essere idealmente indirizzato a un centro in cui s’identifica la complessa narrazione figurativa delle storie evangeliche dipinte da Giotto. Ecco.

Il cielo dipinto

della Cappella per almeno 4 m. Inoltre, nella parte sottostante, vi è il largo sfondamento d’un grosso muro addossato su quello romano C dell’anfiteatro, nel quale sono stati collocati verticalmente due tubi di trachite d’età romana. Ne consegue che la presenza di questi elementi di conduttura non fosse casuale, ma voluta dai costruttori e dal committente della Cappella per uno scopo preciso. Si potrebbe pensare allora che il condotto fittile, composto da una serie di «cannoncini d’acqua», collocato a 1,16 m sotto il livello della pavimentazione del piccolo sagrato, fosse collegato in qualche modo a una cisterna esterna, la quale poteva essere alimentata dai pluviali del monumento giottesco e dalle acque del tetto del portichetto, che esisteva, secondo Sergio Bettini, fin dall’inizio; o da un pozzo, la cui presenza è provata dai disegni dello Scoto, dell’Urbani e del Valle.

Un disegno ben calcolato In connessione con la conduttura di terracotta sono da porsi i reperti archeologici sottostanti, il cui livello, rispetto al sagrato, è di 3,38 m e la cui funzione potrebbe essere quella di servire da pozzetto di raccolta e di

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smaltimento dell’acqua proveniente dal condotto superiore. Va da sé che una siffatta impaginazione di strutture architettoniche e di elementi fittili e lapidei connessi all’equilibrio e al flusso dell’acqua obbedisce a un calcolato disegno in funzione d’un servizio che doveva essere svolto da chi frequentava la «cripta» della Cappella, ora purtroppo ridotta a uno spazio la cui scansione è fissata da 8 massicci contrafforti di mattoni, che evocano la suggestione e l’inquietudine d’un tunnel e che creano una sequenza di vani rischiarati da aperture laterali. Del resto, il problema del buio nella «cripta» doveva pur essere eliminato attraverso espedienti tecnici o strutturali. Vediamo. Non potendo creare particolari pozzi di luce, l’ampio ingresso al sotterraneo e le 6 finestrelle sul lato sud offrivano una fonte di luce interessante e, al tempo stesso, fungevano da prese d’aria. Ma anche l’uso dell’intonaco bianco poteva rappresentare un espediente estremamente utile d’illuminazione, creando un’atmosfera suggestiva, dove il buio del sotterraneo era squarciato da fasci di luce potenziati appunto dal candore delle pareti

La «cripta», se la volta cosí concepita alludesse a una sorta di cielo dipinto, avrebbe l’effetto d’isolare fantasticamente e staccare quasi dal suolo il tempio soprastante nel quale, entro le griglie d’un sistema rigoroso di composizioni figurate, lo spettatore si trova di fronte a uno dei piú grandi cicli mariani affrescati che si conosca in Italia. La «cripta», insomma, è forma, rappresentazione d’uno spazio architettonico in gran parte, nell’originaria compiuta connotazione, perduto, in cui si fissa uno spessore di motivi cultuali appartenenti alla storia e alla cultura stessa del monumento. Dopo un lungo periodo di smarrimento e la pressoché definitiva dissipazione di ciò ch’era già un residuo, l’anfiteatro romano tornava a essere protagonista con l’acquisto di tutto il fondo, denominato Arena, da parte del ricchissimo banchiere Enrico degli Scrovegni, il quale ha saputo ricostruire un itinerario gioioso e sicuro di spazi includendo, a est del suo favoloso palazzo che seguiva l’andamento curvilineo dell’anfiteatro, il suggello della Cappella famigliare e funeraria, sulle cui pareti Giotto ha dipinto la sua straordinaria «Bibbia», il piú nobile monumento artistico di cui la città di Padova possa andare orgogliosa. Girolamo Zampieri febbraio

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Antichi suoni d’Abruzzo musica • Fortunosamente recuperate,

alcune pagine dei libri liturgici della chiesa di S. Maria Maggiore, a Guardiagrele, offrono una testimonianza significativa della produzione musicale locale

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er via della sua dimensione principalmente orale e, secondariamente, scritta, la musica ha sofferto, col tempo, della dispersione delle fonti, prime fra tutti i codici musicali. E spesso accade anche che alcuni di essi, fortunosamente preservatisi fino ai nostri giorni, siano stati trafugati, smembrati delle loro preziose miniature e rivenduti sul mercato clandestino. Cosí è stato per una serie di libri liturgici appartenenti alla chiesa di S. Maria Maggiore a Guardiagrele (Chieti), a cui la Tactus ha dedicato una splendida incisione con Il Codice di Guardiagrele. I corali di S. Maria Maggiore, XIV sec. (TC 400005, 1 CD, www. tactus.it). Fortunatamente, il recupero fortuito di molte delle pagine smembrate e di alcuni dei volumi trafugati ha permesso ad alcuni specialisti lo studio del repertorio polifonico trecentesco ivi contenuto: una presenza, in terra d’Abruzzo, quanto mai significativa e testimonianza di come gli scriptoria monastici siano stati luoghi privilegiati di irradiazione musicale di prim’ordine, con una sensibilità aperta alle avanguardie musicali del tempo. Dal recupero, seppur parziale, dei codici di Guardiagrele

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febbraio

scaturisce un panorama musicale perfettamente calato nell’Ars Nova trecentesca.

Influenze francesi e toscane Accanto al repertorio tradizionale – il canto monodico liturgico, o cosiddetto «gregoriano» – figurano

brani dell’Ordinarium e del Proprium Missae in versione polifonica a 2/3 voci; musiche di straordinaria eleganza, in cui è spesso evidente l’influenza francese, connotata da quelle sottigliezze compositive note sotto il nome di Ars Subtilior (di cui peraltro proprio un abruzzese, Zachara da Teramo, fu esimio

esponente) o la componente piú toscaneggiante (notevole è l’influenza di Francesco Landini). Ai brani liturgici si alternano danze strumentali, saltarelli dal sapore popolare, che costituiscono rielaborazioni e/o contraffatti di melodie tratte dai suddetti brani liturgici proposti, secondo la prassi dell’epoca. L’esecuzione è affidata all’Ensemble De Bon Parole diretto da Marco Giacintucci, un gruppo specializzatosi nella musica antica e in particolare in quella abruzzese, tanto da diventare un punto di riferimento nella ricerca, studio e promozione del repertorio locale. Ampio è l’organico strumentale impiegato e, in alcuni casi, dallo stesso Giacintucci filologicamente ricostruito secondo le fonti iconografiche: è il caso di cornamusa, viella, lyra, symphonia, tamburi a cornice, a cui si associano anche i flauti e l’organo, oltre che alle voci. Una registrazione pregevole, che si avvale di ottimi cantanti e strumentisti e amplia le nostre conoscenze sulla produzione musicale di un ambito geografico e cronologico non ancora valorizzato appieno. Franco Bruni

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caleido scopio

Note nere e mottetti musica • Due recenti incisioni offrono

un saggio significativo della produzione musicale fiamminga tra Quattro e Cinqucento, attraverso le brillanti composizioni sacre e profane di Cipriano de Rore, Guillaume Dufay e Loyset Compère

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otato di una straordinaria sapienza compositiva nell’arte del contrappunto, Cipriano de Rore, illustre rappresentante della scuola fiamminga del primo Cinquecento, oltre a un considerevole corpus di musiche profane, per il quale viene soprattutto ricordato, ha lasciato un’ampia produzione mottettistica e di messe. A essa è dedicata l’antologia Cipriano de Rore. Missa Doulce mémoire. Missa a note negre (CDA67913, 1 CD, www.hyperion-records. co.uk), ultima fatica discografica del Brabant Ensemble, tra i migliori interpreti del repertorio quattro-cinquecentesco, di cui si apprezza in particolar modo la maestosa interpretazione delle due messe a 5/6 voci, costruite entrambe su un cantus firmus profano, secondo la diffusissima prassi dell’epoca. Ispirate alla chanson Doulce mémoire di Sandrin e a un brano profano dello stesso Rore – l’appellativo «a note nere» deriva dall’uso di note di breve durata – le due messe risentono del linguaggio madrigalistico di cui Rore fu eccelso esponente. In un delicato equilibro tra contrappunto e andamento accordale, tra momenti tecnicamente piú complessi e liricamente piú lineari, si gioca la squisita arte di Rore che offre una lettura dei testi sacri di impatto emotivo straordinario. E straordinaria si rivela anche

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l’interpretazione del Brabant Ensemble, guidato dal direttore/ musicologo Stephen Rice. Composto da tredici voci miste, l’ensemble offre una lettura cristallina, pura, presente nei momenti chiave, ma capace di intimi afflati quando se ne presenta l’occasione.

Generazioni a confronto Alla musica sacra si ispira anche la riproposta della Helios, Guillaume Dufay, Missa puisque je vis & Other Works (CDH55423, 1 CD, www. hyperion-records.co.uk) con l’ascolto – siamo in pieno XV secolo – di mottetti e di una messa composti da altri due notevoli esponenti dell’arte fiamminga. Di Dufay, un habitué delle grandi corti

italiane, si ascoltano la Missa Puisque je vis, ispirata all’omonima chanson profana, e due mottetti: brani che incarnano il passaggio dal florido stile arsnovistico trecentesco alla moderna sensibilità quattrocentesca. Di due generazioni piú tardo, Loyset Compère (1445 circa-1518) presenta uno stile influenzato dall’arte di Dufay, ma con una apertura alla grande stagione rinascimentale: un esempio notevole di sottigliezza compositiva, caratterizzata da un vivace melodismo non esente dall’influenza italiana, grazie anche ai vari viaggi che lo portarono nella Penisola. Affidata al Binchois Consort, questa interpretazione si discosta dalla precedente per una presenza vocale tutta maschile, con parti acute affidate a due controntenori, tanto da rendere particolarmente uniforme la resa d’insieme con falsetti e voci naturali che concorrono a un’emissione equilibrata e omogenea. F. B. febbraio

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Ildegarda, genio versatile musica • L’eclettismo della celebre religiosa tedesca non mancò di includere la

musica. E ora i suoi componimenti vengono presentati in un’interpretazione davvero originale, arricchita da venature contemporanee

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elegata perlopiú al ruolo di vergine e madre, nei secoli di mezzo la donna ha avuto un’influenza marginale all’interno di una società e d’una cultura globalmente dominate dall’uomo. Eppure, alcune figure femminili, di alta estrazione sociale, riuscirono a emergere in maniera del tutto inaspettata, grazie a un talento intellettuale fuori dalla norma. Non a caso, molte di loro appartenevano all’ambito religioso; un contesto nel quale la donna poteva, in virtú della sua purezza morale, trovare i canali piú ortodossi per fare emergere il proprio talento. Esemplare in questo senso è la figura di Ildegarda di Bingen (1098-1179), che, oltre a essere una religiosa, una naturalista e una letterata, fu anche musicista e poetessa: un personaggio dalle vaste e molteplici conoscenze che potremmo senz’altro equiparare ai protagonisti della stagione umanistica.

La lotta tra il bene e il male Ildegarda ha lasciato un’importante testimonianza musicale attraverso la Symphonia harmoniae celestium revelationum e l’Ordo virtutum. A quest’ultima raccolta, scritta nel 1152, e che può essere considerata una vera e propria sacra rappresentazione, è dedicato il disco Hildegard von Bingen. Ordo Virtutum (ECM 2219, 1 CD, http://ecmrecords.com) interpretato dall’Ensemble Belcanto diretto da Dietburg Spohr. L’operazione, lungi dal riproporre filologicamente le originali melodie composte da Ildegarda, il cui stile è

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febbraio

inevitabilmente influenzato dalla coeva monodia liturgica, offre una lettura vocale «contemporanea» in cui le singole voci – 5 soliste di canto e 3 voci recitanti – affrontano il dramma spirituale, affidando a gruppi sonori diversi i singoli personaggi evocanti la lotta dell’anima umana tra il bene (virtutes) e il male (diabolus). Nato nel 1986 e dedito perlopiú all’esecuzione di musica contemporanea, l’ensemble si cimenta per la prima volta in un repertorio medievale con una rilettura che, seppur stilisticamente molto distante dalle originarie melodie gregoriane, risulta affascinante nell’utilizzo di un approccio vocale volto a creare effetti sonori inaspettati, ricorrendo saltuariamente anche a semplici forme polifoniche. Un’interpretazione inusuale per un repertorio a tematiche moraleggianti del XII secolo, ma, pur nei suoi modi poco ortodossi, originalmente efficace nel riproporre il messaggio spirituale di Ildegarda di Bingen. F. B.

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