Medioevo n. 203, Dicembre 2013

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barlaam e ioasaf italia normanna basilica di san marco dossier nella terra dei magi

Mens. Anno 17 n. 12 (203) Dicembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 12 (203) dicembre 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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dossier

nella terra dei

il cristianesimo sulla via dell’oriente

magi

saper vedere

La Basilica di San Marco a Venezia

protagonisti

Celestino V e il grande rifiuto

misteri

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I Templari e la tomba etrusca



sommario

Dicembre 2013 ANTEPRIMA

52

mostre Da Tridentum al Concilio La fine dei pezzi unici

6 10

itinerari Il castello di mastro Bernardo

8

appuntamenti Canne al fuoco L’isola dei presepi Festa sul mare L’Agenda del Mese

11 12 18 22

STORIE letteratura Barlaam e Ioasaf

I miracoli di san... Buddha

28

di Francesco Troisi

28

grandi papi Celestino V Fu vera «viltade»? di Francesco Colotta

52

COSTUME E SOCIETÀ immaginario Animali fantastici

70

saper vedere Basilica di S. Marco

Per la gloria di Marco e... di Venezia di Furio Cappelli

70

CALEIDOSCOPIO

Sirene, fenici e altre storie

di Franco Cardini e Marina Montesano, con un contributo di Francesco Zambon

luoghi

62

libri Templari in Etruria Firenze, la ricca Lo scaffale

106 109 110

musica Mondi distanti, ma solo nel tempo 112 Le «stranezze» di un maestro 113

storie Italia normanna Il capolavoro di Viscardus di Chiara Mercuri

Dossier

38

cristiani nella terra dei magi di Furio Cappelli

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Ante prima

Da Tridentum al Concilio mostre • Il restauro e gli scavi effettuati nell’area

della chiesa tridentina di S. Maria Maggiore hanno permesso di inaugurare un nuovo percorso museale, per condurre il visitatore attraverso le tappe piú significative della storia della città

L

a nuova mostra organizzata dal Museo Diocesano Tridentino è l’ultima tappa di un complesso lavoro di ricerca, iniziato con le operazioni di scavo condotte nel sottosuolo della chiesa di S. Maria Maggiore, l’ecclesia eretta intorno alla fine del V secolo entro la cinta urbana di Trento, primo luogo monumentale dedicato al culto dalla comunità cristiana. Attraverso i risultati dello scavo,

vengono illustrati alcuni momenti significativi nella storia di Trento, da municipium romano a sede del Concilio. L’intervento è stato effettuato in occasione della sostituzione dell’impianto di riscaldamento della chiesa, che ha comportato una complessa operazione sia legata al restauro dell’esterno e degli arredi interni, che allo scavo archeologico, condotto fra il 2007 e il 2010.

Qui sotto solido di Valentiniano I (364-367 d.C.). Trento, Castello del Buonconsiglio. A destra una lucerna con monogramma (Chrismon). Metà del V sec. d.C. Trento, Castello del Buonconsiglio.

Una lunga frequentazione Dopo i risultati del pionieristico scavo all’interno dell’attuale Duomo di S. Vigilio, operato da monsignor Iginio Rogger negli anni Sessanta del secolo scorso, e

un intervento che risale al 1975-78 sull’esterno della chiesa di S. Maria Maggiore, per opera dell’allora Ufficio Tutela Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento, si è fatta pressante l’esigenza di ricomporre i rapporti che legavano i due edifici di culto, già ben noti dalle fonti agiografiche. Dai risultati emerge una continuità insediativa in un luogo che ha sempre ricoperto un ruolo di primaria importanza nell’ambito della comunità trentina, a partire dall’età romana. Le tracce di un

Dove e quando

«La città e l’archeologia del sacro: il recupero dell’area di S. Maria Maggiore» Trento, Museo Diocesano Tridentino fino al 23 febbraio 2014 Orario lu-sa, 9,30-12,30 e 14,00-17,30; do, 10,30-13,00 e 14,00-18,00; chiuso tutti i martedí, 25 dicembre, 1° e 6 gennaio Info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it

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dicembre

MEDIOEVO


A sinistra Trento, S. Maria Maggiore. L’interno della chiesa durante lo scavo. unica, con cimitero esterno: è la plebs attestata nella documentazione medievale.

Gli interventi di Bernardo Clesio

impianto termale pubblico, databile alla fine del I secolo d.C., con la sua ricca decorazione, testimonia la vocazione pubblica dell’area. Quattro edifici sacri, messi in luce nel corso dello scavo, hanno preso il posto di quello di età romana. Dal primo, a tre navate, caratterizzato da ampie dimensioni e da una lunga fase di vita – nel corso della quale si sono succeduti vari interventi di monumentalizzazione dell’arredo interno, in particolare nell’area presbiteriale –, si passa a un impianto piú ristretto, a navata

La chiesa riacquista la sua forma monumentale nel corso del XIII secolo, con un edificio biabsidato, ricchissimo nella sua decorazione, fino alla definitiva sistemazione voluta dal vescovoprincipe Bernardo Clesio tra il 1519 e il 1524, in linea con i canoni architettonici del Rinascimento italiano. La storia dell’edificio è inserita pienamente nel contesto cittadino. Evocato nelle sezioni che – a partire dall’editto di Costantino – ci offrono il quadro della trasformazione della società a cavallo tra il IV e il VI secolo d.C., con testimonianze di carattere iconografico, religioso ma anche militare e commerciale. Altro punto nodale riguarda il rapporto instauratosi tra i due poli sacri di S. Maria Maggiore (l’ecclesia) e S. Vigilio (la basilica), che hanno conosciuto vicende e trasformazioni

Qui sopra reliquiario a capsella, da Trento, chiesa di S. Apollinare. VII sec. Trento, Castello del Buonconsiglio.

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Errata corrige con riferimento al dossier «Giovanni Boccaccio. Gli incontri di una vita» (vedi «Medioevo» n. 202, novembre 2013), desideriamo segnalare che, a p. 79, la didascalia del cenotafio di Cino da Pistoia colloca il monumento nel Duomo di Pisa, anziché nel Duomo della città natale del giurista e poeta, dove in realtà si trova. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. architettoniche parallele, segno della volontà da parte di una ricca committenza cittadina alla ricerca dell’identità collettiva nel segno degli edifici sacri e pubblici.

Usi e costumi di una comunità Le tracce imperiture di questa comunità, sono infine illustrate nell’ultima sezione, attraverso lo studio dei cimiteri ospitati all’esterno e all’interno della chiesa. L’indagine antropologica e altri aspetti legati all’archeologia funeraria hanno permesso di ricostruire il tessuto connettivo, gli usi, i costumi, le abitudini e il tenore di vita del nucleo cittadino dall’antichità a oggi. Il «racconto», rivolto alla comunità, è illustrato attraverso i reperti piú significativi e di maggior impatto comunicativo, presentati per la prima volta al grande pubblico e spiegati anche con l’ausilio di ricostruzioni grafiche e multimediali. Un «diario di scavo», proiettato in video, vuole essere la testimonianza di come l’archeologia possa porsi al servizio della società: attraverso il recupero dell’identità collettiva e della sua memoria storica. Maria Teresa Guaitoli, Elisa Lopreite L’esposizione è stata organizzata dal Museo Diocesano Tridentino in collaborazione con il Dipartimento di Storia Culture Civiltà-sezione di Archeologia dell’Università di Bologna e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Archeologici della Provincia Autonoma di Trento.

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Ante prima

Il castello di mastro Bernardo

itinerari • Progettata nel

XVI secolo e ora ristrutturata, la fortezza ligure di Bonassola è la testimonianza di antiche storie di commerci, coraggio e pirateria

I

mmerso nella macchia mediterranea, il castello di Bonassola (La Spezia), affaccia su di un piccolo golfo, chiuso da colline coperte di pini e coltivate a ulivo e vite. Recentemente restaurato, sottoposto e tutelato dal Vincolo Storico Architettonico e Paesaggistico Ambientale, l’edificio è ora divenuto spazio culturale, con sale per eventi. L’intervento di recupero, mirato anche a salvaguardare il manufatto dal pericolo di azioni sismiche, è finalizzato al miglioramento della capacità di resistenza delle strutture

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Castello di Bonassola (La Spezia). Il torrione del fortilizio prima (a sinistra) e dopo (in alto) il restauro. Nella pagina accanto un particolare della fronte del castello.

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esistenti. Le vicende inerenti alla costruzione del fortilizio, innalzato nella seconda metà del XVI secolo, offrono uno spaccato di Bonassola nel Cinquecento, un momento particolarmente importante per la storia della località.

La colonizzazione della valle Tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo la popolazione, che fino ad allora aveva abitato pochi gruppi di case, aggrappati ai fianchi delle alture e nascosti fra i boschi dell’entroterra, ma vicini al mare, scende infatti a colonizzare la valle. Uomini coraggiosi e intraprendenti si spostano sulla costa dagli insediamenti collinari di Scernio e Reggimonti, sviluppatisi a cavallo del I millennio. La primitiva linea di abitazioni è quella sita sotto al castello e dalla località Roso va fino al torrente S. Giorgio. Bonassola è citata per la prima volta nel 1538, «in la riva del mare, cò la chiesa di S. Catherina». Inserita nel blocco continentale di Genova, è composta da quattro quartieri: Reggimonti, Montaretto, San Giorgio e «valle di Bonassola». Molti sembrano essere stati gli esiti dell’occupazione di fondovalle, prima fra tutti la nuova vocazione marinara e mercantile degli abitanti, che portò ricchezza, ma anche paure e timori, come testimonia ancora oggi la sequenza di torri di guardia e fortilizi, che punteggia le coste del Mediterraneo. È questa l’età in cui prende avvio l’epopea degli ardimentosi Barbareschi, che sui loro sciabecchi si lanciano all’attacco di tutto il naviglio incontrato. Compiono azioni di pirateria e guerra di corsa dalla Provenza alla Sicilia, impegnati a far bottino di uomini e merci. Le loro imprese non sono difficili, poiché un’attività di cabotaggio a medio e lungo raggio interessa un ampio numero di pinchi, tartane, feluche, gondole, leudi e occupa la gente delle due Riviere in un’attività

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vivace e continua, grazie alla quale grano, sale, stoffe preziose, zucchero, caffè, coralli, circolano per tutta l’area mediterranea e oltre. Il piú famoso tra i personaggi che muovono all’attacco del mare è Khayr al-Din, Barbarossa, antagonista per eccellenza del genovese Andrea Doria, con il quale condivide, oltre alla bravura nella guerra per mare, anche notevoli capacità di mediazione. Anche Dragut, che nel 1547 succede a Khayr al-Din, si rivela un nemico temibile. Nel 1559 con il trattato di

Cateau-Cambrésis, che sancisce il primato spagnolo e la sconfitta di Gianandrea Doria e del duce di Medinaceli da parte dell’armata islamica a Gerba, la situazione non fa che peggiorare. Cosí, tra il 1560 e il 1566, nella Riviera di Levante, a spese delle comunità locali, si costruiscono o si rafforzano le fortificazioni di San Fruttuoso, Paraggi, Pagana, Lavagna, Moneglia, Deiva, Monterosso e Bonassola.

Per difendersi dai pirati La decisione degli abitanti della valle di Bonassola e dei tre quartieri di Montaretto, Reggimonti e San Giorgio di innalzare la torre di difesa presso la marina risale al 1557. A inoltrare la richiesta di approvazione al Senato della Repubblica di Genova è il podestà di

Framura, Bartolomeo Cafferata. Nel frattempo, le incursioni dei pirati saraceni ai danni dei Bonassolesi si fanno piú frequenti e, nel 1560, gli abitanti dei quartieri di Bonassola si riuniscono nella Podesteria di Framura per definire le strategie di difesa contro le scorrerie dei Turchi. Vengono stabiliti turni di guardia agli ordini di «Capitanei», che coordinano l’attività dei volontari. Nonostante gli abitanti di Bonassola abbiano subíto almeno quattro incursioni tra il 1557 e il 1560, gli uomini di Montaretto, Reggimonti e San Giorgio contestano la decisione di realizzare la torre nella baia, dichiarando di preferire una collocazione piú interna. I Bonassolesi, però, non si danno per vinti. «Afflitti e sconsolati» hanno il coraggio di impostare il futuro. Erigono la parrocchiale intitolata a san Pietro e santa Caterina e la dotano di un paliotto in tempera su legno con la raffigurazione della Resurrezione. Investono in cultura, accordandosi con un sacerdote fiorentino, perché celebri gli uffici divini e insegni a leggere e scrivere ai giovani parrocchiani. Redigono l’Istrumento della Cumpagnia de Bonasolla, molto probabilmente il primo esempio di assicurazione laica istituita in Liguria, liberamente regolamentata e sottoscritta, nata con lo scopo di riscattare marinai e naviganti fatti prigionieri da corsari e pirati durante lo svolgimento della propria attività. E costruiscono il forte, chiedendo il doveroso intervento finanziario di Genova. Per superare le difficoltà, non solo economiche, la Repubblica invia un commissario e un progettista «mastro Bernardo». Costoro propongono si innalzare la torre «su un piccolo colle che resta nel mezo sopra essa piaggia» e distribuire la maggior parte dei costi di realizzazione tra la Repubblica di Genova e le comunità di Bonassola e Serra, principali beneficiarie. Chiara Parente

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Ante prima

La fine dei pezzi unici mostre • Quali

mutamenti derivarono dall’introduzione della stampa? Fu una rivoluzione vera e propria, ma non solo in fatto di estetica

L

a storia e la storia dell’arte dell’Occidente furono rivoluzionate dalla comparsa della stampa: a partire dal Quattrocento, infatti, artisti e incisori furono in grado di sperimentare tecniche diverse, tali da consentire l’impressione di una matrice su di un supporto e la conseguente creazione e diffusione di opere che potevano essere realizzate in esemplari multipli. Le stampe cominciarono a circolare rapidamente in tutta In alto una lettera n, incisa a bulino da un maestro attivo nella regione renana. 1466 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra san Floriano spegne l’incendio di un castello, xilografia colorata e disegno acquarellato. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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l’Europa, avendo come principale centro di irradiazione la Germania, e la mostra proposta dal Louvre si concentra su un periodo di circa settant’anni, dalle prime realizzazioni fino agli inizi dell’attività di Martin Schongauer (1450 circa-1491), incisore renano che ebbe un ruolo di primo piano nell’affermazione della stampa come di una vera e propria arte.

Incisioni su legno e metalli In pochi decenni, gli incisori misero a punto le due tecniche piú importanti, tuttora impiegate dagli artisti: l’incisione a rilievo su legno, o xilografia, e l’incisione su lastra metallica. Le prime stampe nacquero dunque nell’ambito di uno straordinario fervore sperimentale, documentato dall’esposizione. A favorire il successo delle immagini multiple contribuirono la scelta di temi popolari – come la Crocifissione –, nonché il ricorso dicembre

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a espedienti tecnici ingegnosi, come quello che permetteva di realizzare figure di santi diversi a partire dalla stessa matrice. Questa e altre sperimentazioni furono rese possibili dalla grande libertà che caratterizzava il mestiere dell’incisore, una figura sulla cui identità e ruolo sociale si hanno scarse notizie.

Scene sacre e profane La richiesta di immagini si era andata facendo sempre piú forte e l’incisione costituí la risposta ideale a questo nuovo bisogno, alimentato dal sentimento di devozione (non a caso, le opere di questo periodo furono in larga maggioranza destinate alla preghiera). Tuttavia, non mancarono produzioni «profane», come quelle di carte da gioco o biglietti augurali. Realizzazioni diffuse soprattutto nel campo delle incisioni su metallo, tra le quali erano frequenti, per esempio, scene allegoriche ispirate alla guerra tra i due sessi. La stampa spezzò il concetto di unicità che aveva fino a quel momento caratterizzato l’arte medievale e, in questa sua azione dirompente, coinvolse anche la produzione dei manoscritti. Le incisioni venivano spesso incollate dai loro acquirenti sui manoscritti, cosí da proteggerli: una pratica oggi quasi dimenticata, anche perché, in epoca moderna, le incisioni furono spesso staccate dai loro manoscritti per essere vendute. In altri casi le immagini stampate costituivano il corredo iconografico di manoscritti di basso costo, spesso redatti in vernacolo, o avevano lo scopo di decorare i volumi. (red.)

Canne al fuoco I

n Molise sono particolarmente diffusi i riti natalizi legati al fuoco: antiche usanze pagane che nel corso dei secoli sono state inglobate dalla Chiesa in forma di celebrazioni religiose. Fra queste, oltre alle ‘Ndocce di Agnone, trova un posto di primo piano la caratteristica Faglia di Oratino, piccolo centro in provincia di Campobasso, posto nel cuore della Valle del Biferno, a 800 m d’altitudine. La Faglia è un grosso cero fatto di canne, alto circa 13 metri per poco piú di un metro di diametro, che la vigilia di Natale è trasportato a spalla dagli oratinesi dall’ingresso del paese fino al sagrato della Chiesa, dove viene issato e acceso. É questo il momento piú suggestivo: l’enorme torcia sembra gareggiare con le dimensioni del campanile cui è posta di fronte. Nei giorni precedenti la ricerca delle canne è affidata ai giovani del borgo, che le depositano in un punto convenuto all’ingresso del paese, dove si provvede alla costruzione dell’enorme cero, che richiede specifiche abilità artigianali, sia per la battitura, sia per il confezionamento. Dopo il completamento, la Faglia viene trasportata a spalla da una cinquantina persone, che a coppie reggono un sottoposto in legno orizzontale di sostegno. Il corteo è preceduto da un gruppetto di musicanti che suona una marcetta popolare, mentre il Capofaglia, in piedi sull’enorme cilindro, lo guida nella sua ascensione in cima al paese. L’accensione è l’atto finale: la Faglia viene accesa dal piano della cella campanaria con l’ausilio di un panno imbevuto di liquido infiammabile. Segue la benedizione da parte del parroco. Il cero arde lentamente per tutta la notte, lasciando al mattino pochi residui, che vengono raccolti e conservati poiché considerati beneauguranti. Tradizione carica di simbolismi, antico rituale della fecondità che ha assunto nel tempo un marcato aspetto religioso, oggi la Faglia secondo la cristianità locale serve per fare luce al Bambin Gesú per Natale. Tiziano Zaccaria

Dove e quando

«Le origini della stampa nell’Europa del Nord» Parigi, Museo del Louvre fino al 13 gennaio 2014 Orario tutti i giorni, 9,00-17,30 (me e ve, 9-00-21,30); ma chiuso Info www.louvre.fr

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Ante prima

L’isola dei presepi

appuntamenti • Una magia intramontabile e un itinerario da non perdere

attraverso la Sicilia, terra che da sempre mantiene intatto il fascino della tradizione natalizia per eccellenza: la rievocazione della Natività

T

radizione, folclore e fede accompagnano le feste di Natale in tutta la Sicilia, regione in cui sono molto diffusi soprattutto i presepi viventi. Uno dei piú suggestivi va in scena ogni 25 dicembre nell’antico casale di Castanea delle Furie, piccolo centro in provincia di Messina, che conserva resti di edifici e opere d’arte del tardo Medioevo. Fra i vicoli del paese viene ricostruita l’atmosfera di Betlemme, mentre in un grande parco numerosi artigiani, contadini e pastori sono intenti nel loro lavoro lungo un percorso che culmina nella rappresentazione della Sacra Famiglia. Sempre nel Messinese, il 26 dicembre e il 6 gennaio va in scena il presepe (segue a p. 17)

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Qui sopra un momento della rievocazione organizzata a Termini Imerese, in occasione della quale vengono messi in scena vari episodi legati alla Natività. In alto una veduta di Centuripe, che ogni anno ospita una rassegna di presepi artistici. dicembre

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Termini Imerese. La cupola maiolicata della chiesa della Maria SS. Annunziata, edificata nel XV sec. Rabato il 25 dicembre e 6 gennaio a trasformarsi in un Presepe Vivente. Vicoli illuminati da torce e falò e case ormai disabitate fanno da scenario alla Natività fra le nenie intonate dal gruppo dei cantori locali.

Riscoprire il patrimonio

vivente per le vie dell’antico borgo medievale di Forza d’Agrò. L’evento viene rappresentato nello squarcio piú antico e suggestivo del paese: il quartiere Quartarello, risalente al Trecento, posto ai piedi del Castello Normanno.

Tra folklore e cultura In provincia di Enna, uno degli eventi natalizi ormai tradizionali è la rassegna dei presepi artistici allestiti a Centuripe per tutto il mese di dicembre e fino al 6 gennaio. In uno scenario affascinante, ricco di luci e addobbi, i cultori del presepe possono godere di un vasto programma che comprende anche mostre fotografiche, eventi teatrali, concerti bandistici, mostre mercato, convegni culturali e visite guidate al patrimonio architettonico e archeologico dell’antica Kentoripa. Ancora in provincia di Enna, ad Agira, il 24 dicembre di ogni anno migliaia di persone sono incantate dal presepe vivente che prende il via nel tardo pomeriggio con la

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dicembre

rappresentazione degli antichi mestieri nelle capanne costruite nel quartiere piú alto del paese. Dopo la messa di Natale, intorno alle 23,00, nei pressi della chiesa di S. Margherita viene rappresentata la consegna delle tavole dei 10 comandamenti a Mosè; e poco prima di mezzanotte, l’arrivo dell’asinello con Maria e Giuseppe. In provincia di Catania, nei locali parrocchiali di Santa Maria la Stella, frazione dei Comuni di Aci Sant’Antonio e Acireale, per tutto il mese di dicembre e fino al 6 gennaio viene proposto il presepe vivente degli antichi mestieri e delle tradizioni popolari etnee, attorno alla capanna della Natività. La magia del presepe vivente si rinnova anche a Monterosso Almo, in provincia di Ragusa, il 26 e 30 dicembre, e il 1° e 6 gennaio; qui la rappresentazione della Natività è ambientata nelle vie dell’antico Quartiere Matrice. In provincia di Caltanisetta, a Sutera è il quartiere medievale di

Il 22, 26, 29 dicembre e il 5 gennaio, il centro storico di Termini Imerese, a due passi da Palermo, viene animato dalla rappresentazione dei momenti salienti della Natività. Percorso guidato con ingresso da piazza Duomo, anche per riscoprire i gioielli dell’arte e della storia cittadina, come le chiese di S. Giacomo e dell’Annunziata – dalla caratteristica cupola ottagonale maiolicata e al cui interno è contenuto il presepio in marmo di Andrea Mancino (opera presepiale piú antica di Sicilia, risalente al 1494) –, l’imponente scalinata di via Roma e le vie del centro storico. Sempre in provincia di Palermo, il pittoresco paese di Gratteri, nel Parco delle Madonie, nella magica notte di Capodanno ospita «A Vecchia»: una festa di piazza con degustazioni, animazioni, balli e danze a ritmo di musica popolare e fuochi d’artificio. A dorso di un asinello, la Vecchia parte dalla Grotta Grattara e, accompagnata dalla banda e da ragazzi in costumi tradizionali, porta un dono ai bimbi. In provincia di Trapani, nella Grotta di Scurati, insediamento preistorico nei pressi di Custonaci, annualmente dal 25 dicembre al 6 gennaio viene rievocata la Natività. E sempre nel Trapanese, dal 26 dicembre al 6 gennaio la piccola comunità di Balata di Baida, frazione di Castellammare del Golfo, ambienta il proprio Presepe Vivente in una cornice paesaggistica suggestiva: un piccolo borgo situato nei pressi del Castello di Baida, poche e umili case di contadini tra fichi d’india e olivi. T. Z.

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Ante prima A sinistra Scozia. Il castello di Dunnottar, posto in una splendida posizione panoramica, a 2 km da Stonehaven. In basso un momento della festa che ogni anno anima la cittadina scozzese nella notte di Capodanno.

Festa sul mare

appuntamenti • È un Capodanno particolarmente suggestivo quello che

prende vita nella cittadina scozzese di Stonehaven. Complice il fuoco...

S

tonehaven, centro scozzese situato sulla baia omonima nel Mare del Nord, 25 km a sud di Aberdeen, si anima nella notte di Capodanno con un rituale del fuoco le cui origini risalgono almeno al Medioevo, ma quasi certamente rimontano a epoche ancor piú antiche, quando durante il solstizio d’inverno veniva utilizzato per scacciare demoni e streghe. Diffusi in tutta la Scozia, i riti di Capodanno hanno ovunque il fuoco come filo conduttore, ma ogni città si differenzia per usi e tradizioni: per le strade di Stonehaven la notte del 31 dicembre vanno in scena

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le Fireballs, «palle di fuoco» dal diametro di quasi 1 m, pesanti 4-5 kg, realizzate con carta, stracci, pigne, carbone e catrame, imbevuti nella paraffina e poi dati alle fiamme. I diversi materiali vengono saldati con una rete, per garantire la sicurezza dei partecipanti alla sfilata e delle migliaia di spettatori che assistono alla loro processione lungo le strade.

Al suono di tamburi e cornamuse Una cinquantina di swingers fanno roteare le Fireballs attorno al proprio corpo utilizzando una catena lunga almeno un paio di metri, con una gestualità elegante e spettacolare, illuminando suggestivamente la scura notte scozzese. Lo spettacolo in strada inizia alle 23,00, con un’animazione della banda musicale cittadina, poi, a mezzanotte, accompagnata da cornamuse e tamburi, inizia a muoversi la processione degli swingers, che attraversa la High Street e si conclude al porto

cittadino, dove le sfere ancora accese vengono gettate nel Mare del Nord. Il rito termina con grandi fuochi d’artificio visibili da ogni angolo della città. Stonehaven, cittadina di 10 000 abitanti dedita soprattutto alla pesca, è nota soprattutto per il castello di Dunnottar, situato a 2 km dal centro, su uno sperone a picco sul mare, a una cinquantina di metri d’altezza. Il maniero è collegato alla terraferma soltanto da un piccolo istmo e uno stretto sentiero che si snoda lungo la roccia. Dopo il varco d’ingresso, un viottolo sterrato conduce a un punto panoramico d’eccezione. I vari edifici, alcuni riconoscibili nelle loro originarie funzioni – come il mastio – altri ridotti a ruderi, sono disseminati su un prato esteso intorno a una corte quadrangolare. Queste costruzioni non hanno mai costituito un castello vero e proprio, ma piuttosto una sorta di cittadella fortificata, risalente al XII secolo, teatro di molte vicende sanguinose. T. Z. dicembre

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Un esperimento riuscito S

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dicembre

chiusura, ha rivelato, citando i dati forniti dalle Soprintendenze, che: «In un momento in cui gli Italiani, in difficoltà per la pessima congiuntura economica, tagliano i consumi per il tempo libero e cinema, teatri e perfino gli stadi registrano un decremento delle presenze, c’è un settore che fa registrare una lieve, ma molto significativa, inversione di tendenza. È quello museale, che negli ultimi dodici mesi ha visto crescere il numero dei visitatori di un 5%. È bastato lanciare la campagna “Al Museo di Notte”, con l’apertura prorogata fino a mezzanotte l’ultimo sabato di ogni mese». Anna Maria Buzzi ha anche sottolineato come la creazione dei cosiddetti «servizi aggiuntivi» potrebbe portare, secondo uno studio consegnato agli organi politici dalla struttura tecnica del Ministero, «alla nascita di almeno un migliaio di posti di lavoro in piú». Un tema, quello della scarsa resa sul piano occupazionale del patrimonio artistico piú vasto del mondo, sul quale ha insistito molto il presidente del Touring Club, Franco Iseppi: «Il settore dà lavoro solamente all’1,1% degli occupati complessivi italiani. Penso che siano cifre ridicole, sulle quali bisognerebbe riflettere, e a lungo». Ma le contraddizioni non si fermano al basso numero di occupati. Recenti studi, ha sottolineato il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, dimostrano che «ogni euro di valore aggiunto prodotto nel settore dei beni culturali ne attiva 1,7 in altri settori economici». E che il Sistema Italia sia a elevatissimo potenziale di redditività è dimostrato dalla recente mostra su Pompei ed Ercolano al British Museum che, pur essendo a ingresso gratuito, ha generato economie di scala per complessivi 15,6 milioni di sterline. L’ennesima conferma di quanto l’archeologia, e la cultura in generale, siano una risorsa economica preziosa. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it

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informazione pubblicitaria

i è chiusa con numeri davvero lusinghieri la XVI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: circa 10 000 visitatori distribuiti nelle quattro giornate della rassegna; 2500 studenti di 40 scuole, 150 espositori, 40 buyer esteri e 250 seller al Workshop, 9600 visitatori sul sito www.bmta.it (con 13 500 visite, 53 805 pagine visitate e 963 526 accessi); 3046 sono stati i «mi piace» sulla pagina «BMTA-Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico» di Facebook; e tra il 14 e il 17 novembre 190 persone hanno twittato 1752 volte #BMTA2013, con un picco dell’hashtag durante l’incontro degli Archeoblogger. «Il bilancio di questa edizione nell’area archeologica – ha detto Italo Voza, sindaco di Paestum – è entusiasmante. Al di là dei numeri, che confermano il successo della Borsa, è migliorato anche il pubblico. La location è piaciuta a tutti. Il prossimo anno sicuramente si terrà di nuovo nella zona archeologica, magari anticipando la data di qualche settimana per poter usufruire meglio del parco archeologico e magari anche nelle ore serali, riproponendo quei percorsi notturni che ebbero tanto successo qualche anno fa a Paestum». Gli ha fatto eco Adele Campanelli, Soprintendente ai Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento, Caserta: «Esperimento perfettamente riuscito, il bilancio di questa manifestazione è piú che positivo dal punto di vista della Soprintendenza ai Beni Archeologici perché la Borsa ha portato tanti visitatori al sito UNESCO, tra parco archeologico, museo, basilica paleocristiana. Questo conferma che la nostra intuizione dell’anno scorso sulla nuova location, era giusta». Particolarmente significativo un passaggio dell’intervento di Anna Maria Buzzi, Direttrice Generale per la Valorizzazione del Patrimonio del MIBACT, la quale, in occasione della tavola rotonda di


agenda del mese

Mostre New York tesori medievali da Hildesheim U The Metropolitan Museum of Art fino al 5 gennaio 2014

La cattedrale tedesca di Hildesheim, inserita nella lista del Patrimonio dell’Umanità nel 1985, custodisce uno degli insiemi piú preziosi di arredi liturgici medievali d’Europa. Poiché la chiesa è attualmente in restauro, una cinquantina di quegli oggetti sono stati concessi in prestito al Metropolitan Museum e sono cosí visibili per la prima volta al di fuori dell’Europa. Il percorso espositivo si apre con la figura di Bernardo di Hildesheim, vescovo e poi santo, che ebbe un ruolo di primissimo piano nella committenza artistica del Medioevo: a lui si devono le monumentali porte bronzee della stessa cattedrale di Hildesheim, nonché numerosi oggetti

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a cura di Stefano Mammini

destinati al suo monastero benedettino, alcuni dei quali sono ora esposti a New York. Nelle sezioni successive il racconto si amplia e viene ripercorso lo sviluppo dell’arte e dell’artigianato artistico all’indomani dell’anno Mille, che ha un momento di particolare fioritura agli inizi del XIII secolo, quando Hildesheim si afferma come uno dei centri piú importanti, a livello europeo, nella lavorazione del bronzo. info www.metmuseum.org firenze

una considerevole biblioteca, la Corvina, e si circondò di scienziati e filosofi. Una delle piú grandi figure dell’umanesimo italiano, Marsilio Ficino, nel 1480 lo definí l’«unico in grado di restituire luce e splendore all’arte e alla

sapienza sprofondate nel limbo». Mattia Corvino ebbe un rapporto privilegiato con Firenze, che gli dedica ora una mostra che riunisce varie tipologie di opere, tra cui la tappezzeria del suo trono, su disegno di Antonio del Pollaiolo, il rilievo marmoreo con il ritratto di Alessandro Magno del Verrocchio e i ritratti di Beatrice d’Aragona e di Mattia, attribuiti a Giovanni Dalmata. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it Trento

Mattia Corvino e Firenze. Arte e umanesimo alla corte del re di Ungheria U Museo di San Marco fino al 6 gennaio 2014

Sangue di drago squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014

Figlio del generale János, Mattia Hunyadi Corvinus, nacque nel 1443 in Transilvania e, a soli 15 anni fu eletto re. Per la prima volta, nel regno ungherese, saliva al trono un membro della nobiltà senza ascendenze e relazioni dinastiche. Ben presto, comunque, il giovane monarca si dimostrò degno del simbolo araldico della sua famiglia, il corvo, che il credo comune considerava come segno di potere e saggezza. Nonostante l’educazione soprattutto militare, Mattia era poliglotta, amava le arti e le scienze, coltivava letture classiche e moderne, e riuscí a dar vita a una corte ricca e brillante. Fondò

Organizzata in

collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, che l’ha già ospitata con successo, la mostra abbraccia un arco cronologico compreso tra l’antichità e l’Ottocento, e, grazie a opere di scultura, pittura, architettura e disegno, racconta il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell’uomo. Ricca di postazioni multimediali e filmati, la rassegna è inoltre arricchita da una sezione, allestita a Riva del Garda, dal titolo «Mostri smisurati» e creature fantastiche tra i flutti, che espone un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali

mostre • Silla: il regno d’oro di Corea U New York – The Metropolitan Museum of Art fino al 23 febbraio 2014 – info www.metmuseum.org

L

o Stato coreano di Silla, nato alla metà del I secolo a.C. nella zona sud-orientale della penisola coreana, visse il suo momento di massimo splendore tra il 400 e l’800 d.C., un’età dell’oro a cui il Metropolitan Museum of Art dedica ora un’ampia rassegna, la prima mai allestita in Occidente su questo tema. Attraverso le opere selezionate – oltre un centinaio, tra cui spiccano magnifiche oreficerie e manufatti legati alla pratica della religione buddhista – la storia di questa importante realtà viene dunque ripercorsa nelle sue tappe principali, che videro il regno di Silla assumere una connotazione cosmpolita. Fautori dell’espansione del regno furono i sovrani che si succedettero alla guida dello Stato dal V secolo in poi; personaggi oggi noti soprattutto grazie ai materiali recuperati nei loro monumenti funerari, realizzati nell’area dell’allora capitale Kum-song (l’odierna Geyongju), inserita nel 2000 dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità. dicembre

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mitici che, nell’immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www. buonconsiglio.it Ferrara Zurbarán (1598-1664) U Palazzo dei Diamanti fino al 6 gennaio 2014

Insieme a Velázquez e Murillo, Francisco de

Zurbarán fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un’eredità duratura nell’arte europea. A rendere unico lo stile del pittore fu la sua capacità di tradurre gli ideali religiosi dell’età barocca con invenzioni grandiose e al contempo quotidiane,

plasmando forme di una tale essenzialità, purezza e poesia, da toccare profondamente l’immaginario moderno. La rassegna è l’occasione per ammirare per la prima volta in Italia i capolavori di uno dei massimi interpreti dell’arte barocca e della religiosità controriformista. Il percorso espositivo, scandito in sezioni cronologico-tematiche, evidenzia il talento del pittore nell’imporre un registro innovativo a generi e temi della tradizione. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune. fe.it www.palazzodiamanti.it ecouen Un’aria di Rinascimento. La musica nel XVI secolo U Musée national de la Renaissance fino al 6 gennaio 2014

Ai preziosi corredi funebri sono dedicate le prime sezioni del percorso espositivo, che poi, nell’ampio e ricco capitolo conclusivo, documenta le manifestazioni artistiche legate alla diffusione del buddhismo. La dottrina di origine indiana fu adottata come religione dello Stato di Silla nel 528 e tale passo segnò un mutamento decisivo nella società e nella cultura. Pervasa da uno slancio estetico assolutamente originale, l’arte buddhista della Corea reinterpreta i canoni elaborati in Cina e nei centri del Sud-Est asiatico, facendosi espressione della natura pan-asiatica del credo ispirato da Gautama Buddha.

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Posta tra la musica medievale, che copre un periodo di quasi otto secoli, e quella barocca, ormai ben conosciuta dai melomani, la musica rinascimentale non era mai stata protagonista di una mostra importante come quella presentata ora a Ecouen. L’esposizione permette di scoprire gli strumenti e i repertori tipici di questo periodo, le condizioni materiali

in cui veniva eseguita la musica e il suo ruolo sociale, simbolico e politico, grazie a un centinaio di opere che riuniscono strumenti musicali, spartiti, trattati, dipinti, incisioni e disegni, oltre a oggetti artistici. Il percorso affronta quattro temi essenziali per consentire un’immersione totale nella musica rinascimentale: musica sacra, tradizioni e mutamenti; musica profana ed evoluzione della pratica strumentale; ritorno all’Antico; fasti di corte (danze, feste, ingressi trionfali). info www.museerenaissance.fr Rovereto Antonello Da Messina U Mart fino al 12 gennaio 2014

Il progetto espositivo propone un’indagine articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento e sul suo tempo, attraverso

lo studio degli intrecci storico-artistici e delle controversie ancora aperte, presentati in questa sede come punti di forza attraverso i quali approfondire nuovi percorsi di interpretazione critica. Questa rilettura di Antonello da Messina non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere,

l’analisi dei rapporti con i maestri a lui contemporanei, delle similitudini e delle differenze, ma è concentrata anche su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista «non umano», come lo definí il figlio Jacobello, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche piú intime dell’esistere. info numero verde 800 397760; e-mail: info@mart.trento.it, infogruppi@mart.trento.it; www. mart.trento.it

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agenda del mese prato Da Donatello a Lippi. Officina pratese U Museo di Palazzo Pretorio fino al 13 gennaio 2014

A coronamento di un lungo restauro, che lo ha riportato all’originario splendore e ora lo restituisce alla collettività (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013), il Palazzo Pretorio di

Prato ha riaperto le sue porte e lo ha fatto con una grande mostra, che fa rivivere uno dei momenti magici dell’intera storia dell’arte italiana, quello vissuto nel Quattrocento dalla città toscana, quando qui operarono molti tra i maggiori artisti dell’epoca. Su tutti, domina la figura carismatica di Filippo Lippi, che fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento tenne aperto il cantiere degli affreschi di Santo Stefano e del Battista, nella cappella maggiore del Duomo. Altre sue opere in mostra documentano la fantasia eccitata e

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le estenuate eleganze di questa splendida maturità. Intorno a lui si formarono pittori che meritano di essere meglio conosciuti, come il Maestro della Natività di Castello o Fra Diamante. Prima di Lippi le figure di maggiore spicco che operarono per Prato furono Donatello e Paolo Uccello. Attraverso opere di grande qualità, la mostra fa luce su queste personalità, per aiutare a capire meglio quanto a Prato di loro è rimasto. Al tempo stesso si prefigge alcune operazioni esemplari di ricostruzione di opere che erano a Prato e che sono state smembrate, riunendo predelle e pale ora divise fra i musei pratesi e le collezioni straniere. info e prenotazioni tel. 0574 1934996; www.officinapratese.com

prato Moneta e Devozione U Spazio Mostre Valentini fino al 12 gennaio 2014

Realizzata in occasione dell’evento espositivo «Da Donatello a Lippi. Officina Pratese», la

mostra, che ha come fili conduttori Gerusalemme e la Sacra Cintola, la devozione e le monete, racconta la storia della fede a Prato e in Toscana dal Medioevo al Rinascimento. Monete che i pellegrini portavano con sé come offerta, monete che diventavano oggetto di culto in quanto considerate vere e proprie reliquie e monete utilizzate per chiedere grazie e protezioni: che fossero d’oro, d’argento o di rame, raffiguranti il Cristo o la Madonna o che rappresentassero santi e vescovi locali, custodivano segreti e finalità del tutto slegate dal mero valore economico. Nel percorso figurano anche una tavola su fondo oro di Bicci di Lorenzo (1373-1452), raffigurante san Ludovico da Tolosa, fratello di Roberto d’Angiò signore di Prato, un reliquiario tedesco del Trecento dal Museo d’arte sacra e una Madonna lignea di scuola milanese della metà del Quattrocento. info www.artinpo.it PArigi Angkor. Nascita di un mito. Louis Delaporte e la Cambogia U Musée national des arts asiatiques Guimet fino al 13 gennaio 2014

Il museo parigino risale alle origini del mito del sito cambogiano di Angkor, cosí come venne elaborato in

Europa, e in Francia in particolare, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. L’esposizione racconta in che modo il patrimonio della cultura khmer fu riscoperto e come i monumenti di Angkor vennero presentati al pubblico all’epoca delle grandi Esposizioni universali e coloniali. Per farlo, sono state selezionate piú di 250 opere: sculture khmer in pietra databili tra il X e il XIII secolo, repliche in gesso, fotografie,

dipinti e grafiche otto-novecentesche (acquarelli, disegni a inchiostro, stampe, ecc.). Un insieme di materiali che dà conto dei primi contatti del Paese transalpino con l’arte della Cambogia antica, sviluppati soprattutto grazie alla personalità emblematica di Louis Delaporte (18421925), grande esploratore francese che coltivava il sogno di «far entrare l’arte khmer nei musei». info www.guimet.fr

Dopo essere stata presentata con successo a Firenze, in Palazzo Pitti, sbarca a Parigi la mostra che celebra il legame tra il Rinascimento e il sogno, ideata proprio perché il grande movimento artistico e culturale nacque appunto dal sogno di una nuova vita, e attribuí ai sogni, nonché alla loro interpretazione e rappresentazione, un’importanza straordinaria: nella vita politica e sociale, grazie alla rinascita delle pratiche divinatorie; nella letteratura, sia in prosa che in poesia (Francesco Colonna e Rabelais, l’Ariosto e il Tasso, la Pléiade e d’Aubigné…) e nei dibattiti medici e teologici, in particolare durante la terribile caccia alle streghe che imperversò in Europa dal XV al XVII secolo. Tentare di dipingere l’onirico, come avevano già fatto gli artisti medievali, seppure in un contesto diverso, significa quindi superare in piú modi le frontiere dell’arte, ampliandone considerevolmente l’ambito di espressione e conferendole nuovi poteri. info www. museeduluxembourg.fr roma

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Antoniazzo Romano, «Pictor Urbis» U Palazzo Barberini fino al 2 febbraio 2014

il rinascimento e il sogno. bosch, veronese, el greco... U Musée du Luxembourg fino al 26 gennaio 2014

Antonio Aquili, detto Antoniazzo Romano (1435/40-1508), figura centrale del Rinascimento, fu attivo dicembre

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per quasi mezzo secolo, fino al primo decennio del Cinquecento, a Roma e nel territorio laziale. La sua ricca produzione era destinata a un pubblico composto in prevalenza di alti prelati della curia romana, comunità religiose ed esponenti dei ceti nobiliari. Opere di grande suggestione e di qualità altissima, i suoi dipinti uniscono le novità rinascimentali agli splendori dell’arte medievale, nella profusione degli ori e nella bellezza sacrale dei suoi personaggi, specie le sue straordinarie Madonne dalle sembianze modernamente affini alle tipologie femminili di quel periodo. Circa cinquanta sono le opere esposte – polittici, grandi pale, piccoli dipinti devozionali, tavole fondo oro, e un ciclo di affreschi staccati, insieme a opere di confronto e testimonianze documentarie –, che offrono al pubblico un viaggio nel Rinascimento «quotidiano» di

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Antoniazzo e della sua nutrita bottega. A completare l’iniziativa, un itinerario cittadino, promosso in collaborazione con il Comune di Roma, accompagna il pubblico alla scoperta delle testimonianze della pittura di Antoniazzo e della sua scuola presenti in numerosi edifici storici di Roma. info tel. 06 4814591; http:// galleriabarberini. beniculturali.it

mostra sul periodo di Carlo Magno acquisisce un’attualità inaspettata: fu proprio il sovrano carolingio a riunire sotto un unico impero parti dell’Europa occidentale, orientale e meridionale. Oggi i rappresentanti delle relative nazioni discutono quasi ogni settimana, nell’ambito dell’Unione Europea, sulla conservazione dell’unità europea. Carlo Magno, primo imperatore del Medioevo, ha introdotto molte riforme, le cui basi rimangono attuali. La sua riforma scolastica rappresenta una strada da seguire. La scrittura da lui promossa è la base dei nostri caratteri

tutta Europa. Da segnalare è la presenza di due opere angioine di rarità assoluta: il busto reliquiario commissionato da Carlo II d’Angiò (1254-1309) a tre orafi provenzali e realizzato fra il 1304 e l’anno successivo; e il reliquiario tronetto per il trasporto in processione delle ampolle con il sangue

roma Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro U Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra fino al 16 febbraio 2014

zurigo Carlo Magno e la Svizzera U Museo nazionale fino al 2 febbraio 2014

Le innovazioni introdotte da Carlo Magno (741–814) sono tra i fondamenti della nostra cultura ed è questo uno dei motivi ispiratori della rassegna che il Museo nazionale di Zurigo dedica al grande imperatore, a 1200 anni dalla sua morte. In un momento in cui lo spazio economico, politico e culturale europeo lotta per mantenere la coesione interna, una

liturgia, rivisto la Bibbia, costruito monasteri e disciplinato la vita dei monaci. Non a caso, Carlo è l’unico sovrano del Medioevo europeo ad avere ricevuto l’appellativo di Magno quando era ancora in vita. L’interesse attorno alla sua persona, al suo dominio e alle conquiste culturali del suo tempo perdura fino a oggi. La mostra illustra come le sue riforme abbiano inciso sull’istruzione, sulla fede e sulla società, e quali innovazioni vanno rilevate nell’arte e nell’architettura. L’esposizione, inserita nel contesto europeo, è incentrata sul patrimonio culturale della Svizzera odierna risalente all’epoca di Carlo Magno. info www. nationalmuseum.ch (anche in lingua italiana)

tipografici. Grazie a lui sono stati tramandati testi di autori antichi e, di conseguenza, il loro sapere. La sua riforma monetaria è la base del nostro sistema moderno. E le sue costruzioni palatine hanno dato impulso all’edilizia in pietra. Ha rafforzato il cristianesimo in Occidente, fissato la

Lasciano Napoli per la prima volta i capolavori del Museo di San Gennaro: oltre novanta opere, che offrono un assaggio di un tesoro che conta oltre 21mila pezzi, donati in settecento anni di devozione, e che ripercorrono la storia di un culto legato a doppio filo a Napoli, ma anche le ragioni del suo radicarsi in modo tanto particolare sia in loco che fra i sovrani di

di san Gennaro, commissionato invece da Roberto d’Angiò (1277-1343), figlio di Carlo II. info tel. 06 69205060; www. fondazioneromamuseo.it milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio 2014

Punto di forza della mostra, dedicata a Leonardo artista e inventore, sono le oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo

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agenda del mese Leonardo. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum Saint-Romain-engal - vienne Gli irochesi del San Lorenzo, popolo del mais U Musée romain fino al 15 aprile 2014

Gruppo etno-linguistico dell’America Settentrionale, gli Irochesi erano genti agricole riunite nella Lega delle Cinque Nazioni, un’unione formatasi a sud del lago Ontario fra le tribú Onondaga, Mohawk, Seneca, Kayuga e Oneida (e in seguito estesa ad altre tribú). Stanziate sulle sponde del fiume San Lorenzo fino al XVI secolo, queste comunità sono protagoniste di un’ampia esposizione, che riunisce materiali provenienti da siti archeologici scoperti in Quebec, nell’Ontario e nello Stato di New York. I reperti ricostruiscono il modus vivendi del

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popolo irochese, che basava la propria sussistenza sull’agricoltura e introdusse nella valle del San Lorenzo la coltivazione del mais. La documentazione offerta da questi oggetti è integrata dalle notizie contenute nel resoconto dell’esploratore bretone Jacques Cartier, che incontrò gli Irochesi nel 1534-1535, in occasione del suo primo viaggio in America. info www.musees-galloromains.com ascoli piceno

raffiguranti «angeli» provenienti dall’Ascolano. L’obiettivo è quello di presentare il ricco patrimonio di opere presenti nel territorio, accomunate appunto

dal tema degli angeli, scelto come osservatorio sul piú vasto ambito dell’arte sacra. Il risultato atteso è quello di uno studio organico del tema, divulgato attraverso la

Appuntamenti milano Cenacolo vinciano. aperture straordinarie u Cenacolo Vinciano 6 e 20 dicembre

Ultimi appuntamenti dell’iniziativa patrocinata da Eni, grazie alla quale, per

chiocciola, quasi segrete perché nascoste alla vista dei visitatori, che conducono verso il «cielo» del Duomo. Giunti sopra le volte stellate della navata destra, ha inizio un itinerario che riserva

angeli nel medioevo ascolano U Pinacoteca Civica, Sala della Vittoria fino al 4 maggio 2014 (dal 7 dicembre)

La mostra è la prima tappa di un progetto triennale sul tema degli

due venerdí, le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il capolavoro. Le visite guidate sono in programma dalle 19,30 alle 22,30, previa prenotazione. info tel. 02 92800360; www.cenacolovinciano.net

scoperte ed emozioni. Si può infatti camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche «dentro» e «fuori» la cattedrale. Si percorre dunque il ballatoio della cupola dal quale è possibile contemplare

siena angeli nella tradizione artistica ascolana dal Medioevo al XIX secolo. Un programma che prevede, nel triennio 2013-2015, la realizzazione di tre esposizioni che presentano opere (dipinti, sculture, miniature, oreficeria...)

realizzazione di un catalogo-mostra, e quindi la diffusione della conoscenza del patrimonio storico artistico del territorio. info www.associazione giovaneuropa.eu

la porta del cielo U Duomo fino al 6 gennaio 2014

Dopo lunghi restauri, si può ammirare il «cielo» del Duomo, una serie di locali mai aperti prima d’ora. La facciata della chiesa è fiancheggiata da due torri imponenti, e al cui interno si inseriscono scale a

l’altar maggiore, la copia della vetrata di Duccio di Buoninsegna, con al centro la mandorla di Maria Assunta, e i capolavori scultorei. Dall’affaccio

della navata sinistra si gode di uno splendido panorama sulla basilica di S. Domenico, la Fortezza Medicea, la cupola della cappella di S. Giovanni Battista, il paesaggio circostante fino alla Montagnola senese. Si entra, infine, dietro il prospetto della facciata nel terrazzino che si affaccia su piazza del Duomo con la vista del S. Maria della Scala e si accede al ballatoio della controfacciata che offre una vista generale sulla navata centrale. info e prenotazioni tel. 0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00); e-mail: opasiena@ operalaboratori.com

bassano del grappa Medioevo a due facce. È proprio come lo pensiamo? U Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny fino al 22 marzo 2014

L’associazione bassanese propone un ciclo di incontri serali per fare il punto sugli sviluppi della medievistica europea. Le conferenze si svolgono al sabato, alle ore 17,30, presso l’Istituto Scalabrini. info tel. 0444 965129; e-mail: info@ ponziodicluny.it dicembre

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letteratura barlaam e ioasaf

I miracoli di san... Buddha di Francesco Troisi

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Forse non tutti sanno che il fondatore della piú diffusa religione orientale diventò anche un santo cristiano. Ma come – e quando – avvenne questa curiosa operazione di «sincretismo identitario»? Il merito fu di un monaco del X secolo il quale, ritiratosi sul Monte Athos, riscoprí e tradusse un antico testo georgiano. Che, di lí a poco, sarebbe diventato uno dei libri piú letti e trascritti di tutto il Medioevo

T T

empo di guerre sante, il Medioevo fu anche l’era di sorprendenti sincretismi, come quello che vide il Buddha assumere le vesti del santo cristiano chiamato Ioasaf. Il «prodigio» si compí sulle pagine della letteratura bizantina che aveva rielaborato a modo proprio il mito del principe Siddharta Gautama proveniente dalla tradizione indiana. Buddha, pertanto, ben prima d’essere scoperto dagli scritti orientalisti di Arthur Schopenhauer e Hermann Hesse, approdò in Occidente sotto mentite spoglie, trovando anche posto, in età rinascimentale, nel martirologio della Chiesa cattolica. Già dall’XI secolo, invece, l’enigmatico Ioasaf era considerato santo dagli ortodossi georgiani, nel cui ambiente aveva avuto inizio questa storia davvero singolare. Nel X secolo il georgiano Eutimio l’Atonita, ostaggio dei Bizantini a Costantinopoli, era stato riscattato dal padre, il monaco Giovanni l’Iberiano. I due si erano poi trasferiti sul monte Athos, altura tradizionalmente frequentata da religiosi, dove risiedeva un certo numero di loro corregionali (vedi box a p. 35). Nel 979, gli imperatori bizantini riuscirono a sventare un tentativo di colpo di Stato ordito dal nobile caucasico Barda Sclero grazie anche all’intervento del generale Tornikios, parente di Giovanni ed Eutimio: in segno di gratitudine, i sovrani concessero l’autorizzazione e le risorse finanziarie per costruire sul monte Athos un monastero georgiano, in seguito battezzato «Iviron». In quel luogo isolato i Georgiani si dedicarono allo studio della cultura classica; in particolare lo fece Eutimio, il quale, in breve tempo, tradusse opere di filosofia, teologia, letteratura, dal greco nella propria lingua. Di un volume in georgiano, invece, il giovane curò la versione in greco, rielaborandola: era il Balavariani, un testo che raccontava la leggenda del Buddha in una chiave particolare, raffi-

Statua in calcare del Buddha. Arte khmer, VII sec. L’Illuminato (è questo il significato del suo nome) siede nella posizione del loto, cioè con le gambe incrociate, che è quella assunta nei 49 giorni trascorsi in attesa di raggiungere lo stato di liberazione interiore.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un uomo che, per non cadere in un burrone in fondo al quale lo attende un drago con le fauci aperte, si aggrappa a un arbusto, da un’edizione del Barlaam e Ioasaf redatta ad Aleppo. 1639. Collezione privata. La scena si riferisce a una delle parabole piú celebri contenute nell’opera che Eutimio l’Atonita ricavò dal Balavariani, testo in georgiano che raccontava la leggenda del Buddha.

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letteratura barlaam e ioasaf Miniature tratte da un manoscritto tedesco del Barlaam e Ioasaf. 1469. Los Angeles, J. Paul Getty Museum. La prima (qui accanto) si riferisce alla parabola del Figliol Prodigo, con il giovane protagonista in un postribolo. La seconda (nella pagina accanto) rappresenta la prima uscita dal palazzo paterno del principe indiano Ioasaf e il suo incontro con un cieco e un mendicante.

gurando il protagonista come un santo cristiano. La traduzione di Eutimio, pubblicata con il titolo di Barlaam e Ioasaf, divenne, di lí a poco, uno dei libri piú diffusi del Medioevo, trascritto in numerose edizioni, dallo slavo ecclesiastico al russo, dal serbo all’ebraico, fino a giungere alle lingue occidentali. In Europa ispirò le chanson de geste, Giovanni Boccaccio e, in seguito, anche molti autori moderni (vedi box a p. 37).

In cerca di un autore

Sulla scia delle tesi del bizantinista tedesco Franz Dölger, la paternità della biografia del Buddha cristiano viene da alcuni attribuita al teologo siriano Giovanni Damasceno, vissuto tra il VII e l’VIII secolo. Ma a smentire questa paternità letteraria sono i piú antichi esemplari del testo, custoditi a Kiev, sul monte Athos e a Oxford. Come ha rilevato lo storico Robert Volk nel suo monumentale studio sul Barlaam e Ioasaf, i manoscritti contengono la citazione di un florilegio del santo bizantino Giovanni Crisostomo riportata da Teodoro Dafnopate che visse nel X secolo, quindi molti anni dopo l’epoca di Damasceno. In passato piú di uno storico, scorgendo nell’opera tracce anticonoclaste, ritenne logico identificare l’autore nell’uomo simbolo della lotta contro la proibizione delle immagini sacre a Bisanzio, Giovanni Damasceno appunto. L’opera, però, non poteva essere definita tout court anticonoclasta, poiché uno dei suoi capitoli comprendeva l’Apologia di Aristide, uno scritto paleocristiano di condanna dei culti pagani che professavano l’adorazione di simulacri e immagini delle divinità. Il Barlaam e Ioasaf racconta la storia di un giovane indiano erede al trono che viveva chiuso nel palazzo reale a causa di una profezia. Il padre, nemico dei cristiani, aveva

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appreso da un astrologo che il figlio sarebbe divenuto un seguace di quell’odiata religione e lo teneva perciò segregato, tra lussi e piaceri. Un giorno il giovane, di nome Ioasaf, ottenne il permesso di uscire e incontrò due uomini, un cieco e un lebbroso, dalle cui sofferenze fu molto impressionato. Nel corso di una seconda sortita, dopo aver visto un anziano curvo e sdentato, comprese che tutti nella vita erano destinati a invecchiare e a morire. Angosciato per le tristi scoperte, rifletté a lungo sulla precarietà dell’esistenza e trovò conforto nelle parole di un eremita, Barlaam, che lo affascinò con gli insegnamenti contenuti nel Vangelo di Cristo. Il principe convertí, poi, il padre e tutti i suoi sudditi, meritandosi la futura elevazione agli altari. Nessuno, all’epoca, podicembre

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teva sospettare che dietro la biografia di quel santo si nascondesse una figura religiosa appartenente a una civiltà cosí lontana. Del Buddha, tra l’altro, avevano sentito parlare solo i cristiani che vivevano in Iran e in Asia centrale, traendo verosimilmente informazioni dal Lalitavistara Sutra (III secolo), uno dei piú rinomati testi orientali sulla figura del principe Siddharta.

Una parabola di origine orientale

Il testo di Eutimio contiene anche brani fiabeschi che rivestono intenti allegorici. L’esempio classico, il piú citato, è quello dell’uomo che, inseguito da un unicorno

imbizzarrito, scivola e finisce in un burrone. Il fuggitivo riesce miracolosamente a non precipitare, aggrappandosi a una pianta che, però, sta per rompersi perché rosicchiata alla radice da due topi (vedi l’immagine in apertura e a p. 36). Vicino ai suoi piedi, inoltre, nota quattro serpenti e, in fondo al burrone, un drago che lo attende con le fauci spalancate. Disperato, l’uomo alza gli occhi, e scorge alcune gocce di miele che colano dall’arbusto. Da quel momento non pensa piú ai pericoli incombenti e si concentra solo sul sapore dolce che avverte sulle labbra. La parabola ha anch’essa un’origine orientale e simboleggia il risveglio da una realtà composta da

Il buddhismo

La via del risveglio Il buddhismo fu fondato nel VI secolo a.C da Siddharta Gautama, un principe di una famiglia del clan dei Sakya. Nato e cresciuto in Nepal, visse a lungo chiuso nel palazzo paterno, tra piaceri e ricchezze. Quando uscí per la prima volta, incontrò vecchi e malati e capí che anche il suo corpo sarebbe andato incontro a un progressivo decadimento. Scosso da quell’esperienza, lasciò la casa paterna e si isolò in meditazione per vincere l’angoscia che provava. Trascorse sei anni in una foresta

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senza trovare sollievo alle proprie sofferenze e non gli giovò nemmeno la consultazione di alcuni sapienti. Un giorno, là dove oggi sorge la città indiana di Bodh Gaya, decise di restare seduto con le gambe incrociate (nella cosiddetta posizione «del loto») sotto un albero, fino a che non avesse raggiunto uno stato di liberazione interiore. Dopo una lunga attesa, l’evento accadde. Siddharta eliminò dal proprio orizzonte spirituale ogni forma di passione e di attaccamento al mondo, anche combattendo con un demone, Mara.

Per piú di quarant’anni l’Illuminato, il Buddha, predicò il suo verbo nel Nord dell’India e morí anziano a Kushinagar, nell’Uttar Pradesh. La sua religione si basa sulla concezione della conoscenza delle cosiddette «quattro nobili verità»: la verità del dolore, delle sue cause, della sua estinzione e degli strumenti per eliminarlo. L’origine di ogni sofferenza è il desiderio che va rimosso nella sua duplice manifestazione di desiderio di vivere e di morire. La cessazione del dolore si ottiene attraverso l’«ottuplice sentiero» dicembre

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A sinistra Parma, Battistero. La lunetta con rilievi di Benedetto Antelami ispirati alla leggenda di Barlaam. 1196. In basso rilievo raffigurante i primi sette passi fatti da Siddharta, il futuro Buddha, subito dopo la nascita. Arte del Gandhara, II-III sec. d.C. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.

angosce illusorie. La versione allegorica di Eutimio, invece, viene comunemente interpretata utilizzando una chiave di lettura occidentale: l’uomo, nel baratro della sofferenza, non dedica la sua attenzione alla salvezza della propria anima, ma si fa distrarre da futili piaceri.

Bisanzio, laboratorio cosmopolita

Ma come fu possibile un tale intreccio di tradizioni in un’epoca in cui dominavano i grandi blocchi politicoreligiosi? L’incontro avvenne in un territorio molto propizio, Bisanzio: la sua civiltà – osserva la storica Silvia Ronchey nella recente riedizione in italiano del Barlaam e Ioasaf che ha curato insieme a Paolo Cesaretti (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013; anche on line su www.medioevo.it)– «bacino collettore per undici secoli di culti e culture, confessioni e religioni, era fin dall’inizio della sua storia naturalmente sincretistica». La cultura bizantina produceva mosaici multiculturali ricombinando tasselli prelevati soprattutto dal pensiero classico, nella convinzione che tutto fosse stato già scritto in passato nella letteratura, nella filosofia, nella religione, nell’arte.

Nel Barlaam e Ioasaf non mancano accenni fiabeschi, il cui intento è, in realtà, quello di proporre esempi moraleggianti

alla fine del quale si raggiunge il nirvana, l’annullamento delle passioni e una condizione di beatitudine. Nella forma piú antica del buddhismo, l’hinayana, si professava la salvezza del singolo, mentre nei primi secoli dopo la nascita di Cristo prevalse una diversa concezione religiosa, chiamata mahayana, che mirava ad aiutare il prossimo nella ricerca della via. Successivamente si affermò un’ulteriore variante, il vajrayana, che comprendeva anche pratiche esoteriche.

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letteratura barlaam e ioasaf Il monastero di Iviron sul monte Athos in una fotografia attuale (a sinistra) e in una illustrazione ottocentesca. Terzo per importanza nella gerarchia atonita, il convento, fondato nel 979 dal generale Giovanni Tornikios, ospitò il monaco georgiano Eutimio che qui tradusse in greco il Balavariani.

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Costantinopoli, anche solo dal punto di vista geografico, rappresentava un naturale crocevia tra due grandi aree, l’asiatica e la mediterranea e, sulla sua latitudine cosmopolita, si compí una sorta di interazione fra le religioni universalistiche, il buddhismo, il cristianesimo e anche l’Islam. Il Balavariani, infatti, il testo in georgiano da cui Eutimio trasse la sua opera, derivava a sua volta da due precedenti componimenti islamici, il kitab Kamal-ad-din e il kitab Bilawhar wa Budasf, che tratteggiavano la figura di un santo musulmano dalla biografia molto simile a quella del principe Siddharta.

Annotazioni misteriose

Il Barlaam e Ioasaf si diffuse in Occidente dopo la metà dell’XI secolo grazie alle prime traduzioni latine. Nel Trecento il principe indiano convertito al Vangelo entrò nella collezione di agiografie della Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze e solo nel XVII secolo si scoprí che quel personaggio era, in realtà, Buddha. Ad ac-

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il monte athos

Isolamento per soli uomini Il monte Athos è uno dei luoghi simbolo per gli ortodossi. Posto a 2000 m sul livello del mare, fin dal IX secolo divenne meta di monaci e asceti in cerca di isolamento. Il primo monastero risale al 963 e fu costruito per iniziativa del religioso bizantino Atanasio l’Atonita, che qualche anno dopo ottenne dall’imperatore d’Oriente Giovanni Zimisce l’avallo per la fondazione della prima Regola. Il periodo di massimo splendore per le comunità stanziate sull’altura fu il XIV secolo, con il fiorire di attività culturali e artistiche. La successiva dominazione turca determinò una fase di declino che, intervallata da momenti di rinascita, si protrasse a lungo. Nel 1821 i Turchi rioccuparono la zona per punire i monaci che avevano appoggiato i moti di indipendenza greci. Qualche anno dopo arrivarono i Russi che privarono le comunità religiose dei loro diritti. Nel 1923 il monte Athos passò sotto la sovranità della Grecia e nel 1926 divenne una repubblica autonoma all’interno dello stato ellenico. Oggi su quella vetta sono presenti 20 monasteri, abitati da circa 1500 monaci, e per accedervi è necessario uno speciale permesso della curia ortodossa, il Dhiamonitirion, che solo gli uomini possono ottenere.

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letteratura barlaam e ioasaf A sinistra ancora una scultura raffigurante la parabola dal libro di Eutimio, con cui Barlaam illustra a Ioasaf la vanità dei piaceri mondani: l’uomo inseguito da un unicorno imbizzarrito (la morte) precipita in un burrone (il mondo) e si aggrappa a un albero (la vita), le cui radici sono rosicchiate da topi (il giorno e la notte), per non finire tra le fauci del drago (l’inferno). Il miele sull’arbusto rappresenta i beni e i piaceri che distraggono dalla terribile situazione. Primo XIV sec. Ferrara, Museo della Cattedrale. Nella pagina accanto un manoscritto etiopico del XVII sec. con scene che offrono un’ulteriore versione della parabola: seduto su un albero, l’uomo (forse lo stesso Ioasaf) esamina le ricchezze del mondo, mentre viene minacciato dal drago; un altro uomo armato di fucile, e poi a cavallo di un ippogrifo, è colto nell’atto simbolico di cedere la sua corona per diventare eremita.

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Eredità letterarie

Da Boccaccio a Tolstoj La vicenda di Barlaam e Ioasaf fu ripresa da molti scrittori del Medioevo. Trovò spazio in Italia nel Novellino (XIII secolo), raccolta di novelle toscane, nel Decameron (XIV secolo) di Giovanni Boccaccio, nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze e nel quattrocentesco Barlaam e Giosafat di Bernardo Pulci. In Francia, nel Duecento, Gui de Cambrai compose il poema Balaham et Josaphas e Vincenzo di Beauvais fece cenno alla storia del santo nell’enciclopedico Speculum

Maius. In Germania le rielaborazioni della leggenda del Buddha cristiano furono curate da Ottone da Frisinga (Laubacher Barlaam) nel XII secolo e da Rudolf von Ems (Barlaam und Josaphat) nel Duecento. In Scandinavia l’argomento fu ripreso, per esempio, dalla Barlaams ok Josaphats saga, scritta dal re norvegese Hákon IV Hákonarson nel XIII secolo. In Gran Bretagna due rielaborazioni erano comprese nella Confessio Amantis di John Gower (XIV secolo) e nel Vernon

Manuscript (XV secolo), mentre una citazione della leggenda venne inserita da William Shakespeare ne Il Mercante di Venezia (1596). Il poeta spagnolo Lope de Vega scrisse poi il Barlaan y Josafat (1611) e, qualche anno piú tardi, il suo connazionale Pedro Calderón de la Barca rielaborò in senso metaforico la storia del principe indiano ne La vida es sueño (1635). Un riferimento diretto a san Ioasaf è contenuto anche nella Confessione (1882) di Lev Tolstoj.

corgersi della corrispondenza tra le due biografie fu lo storico portoghese Diogo do Couto (1542-1616) che viveva a Goa, una colonia sulla costa sud-occidentale dell’India. Leggendo un’edizione de Il Milione di Marco Polo, lo studioso notò un appunto a margine del testo che evidenziava l’incredibile somiglianza della vicenda del principe Siddharta con quella di san Ioasaf e ne fece cenno nelle sue Décadas da Ásia.

Una «beffa letteraria»?

L’analogia, curiosamente, era venuta alla luce nelle pagine di un libro, Il Milione appunto, che riferendosi alla figura del Buddha affermava: «Certo che se fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo di Nostro Signore Gesú Cristo». Diogo do Couto, tuttavia, si convinse che fosse stato il buddhismo a ispirarsi alla vita del santo cristiano e non viceversa. E, per ironia della sorte, i missionari cristiani utilizzarono proprio la biografia di Ioasaf per cercare di convertire i buddhisti in Giappone. In questo infinito gioco di coincidenze e intrecci, c’è chi ha scorto un disegno di tipo goliardico che aveva come obiettivo un mero esibizionismo stilistico. Secondo l’orientalista britannico David Marshall Lang il Barlaam e Ioasaf fu, addirittura, una vera e propria «beffa letteraria» che, restando nascosta, produsse bizzarri scambi di identità fra simboli religiosi. La tesi, sebbene suggestiva, non ha trovato molti sostenitori tra storici e orientalisti. In epoca moderna Ioasaf risultava ancora santo della Chiesa cattolica e veniva festeggiato il 27 novembre, ma la sua identità storica non convinceva. Alcuni teologi lo definirono un frutto della fantasia letteraria, altri arrivarono a liquidarlo come una «barzelletta della

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Da leggere U Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti (a cura di), Storia

di Barlaam e Ioasaf, Einaudi, Milano 2012 U Gianfreda Grazio, La fiaba di Barlaam e Ioasaf in India,

nel mosaico di Otranto e nel mondo contemporaneo, Edizioni del Grifo, Lecce 1999 U Gianroberto Scarcia, Storia di Josaphat senza Barlaam, Rubbettino, Catanzaro 1998 U Luigi Lucini, Il Buddha cristiano, Tipheret, Acireale-Roma, 2012

storia delle religioni». Oggi, nel Martirologio Romano, il nome di Ioasaf non compare piú, mentre risulta ancora santo per il calendario ortodosso greco: la sua festa si celebra il 26 agosto. F

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storie italia normanna

Il capolavoro di Viscardus di Chiara Mercuri

Alla vigilia dell’anno Mille i Normanni fanno la loro comparsa nel Meridione d’Italia: temibili guerrieri di origine vichinga, i nuovi arrivati intuiscono le enormi potenzialità di quelle terre e trasformano la spedizione in una migrazione vera e propria. Ha inizio un capitolo cruciale nella storia dell’Italia medievale, a cui imprime una svolta decisiva l’ascesa al potere di Roberto, il re «astuto»...


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uggero II di Altavilla, che le cronache del tempo descrivono «grande di statura, corpulento, con il volto leonino e la voce roca» fu proclamato re nel 1130. La sua incoronazione fu l’ultimo atto di un’imponente trasformazione del Meridione d’Italia. Per mezzo millennio, dal tempo dell’effimera riconquista dell’Italia da parte dell’imperatore d’Oriente Giustiniano, il Mezzogiorno della Penisola – i territori a sud di Roma ivi compresa la Sicilia – non erano stati mai riuniti, ma erano stati divisi e contesi tra Bizantini, Longobardi e Arabi (vedi «Medioevo» n. 202, novembre 2013). Gli Arabi si erano insediati in Sicilia ed erano riusciti a organizzare alcuni capisaldi temporanei sulla costa tirrenica; i Bizantini erano rimasti in Calabria e nel Sud della Puglia, oltre a mantenere il possesso – ormai solo formale – di città portuali come Napoli, Amalfi e Gaeta, governate da duchi nominati dai maggiorenti di quelle stesse città; i Longobardi avevano occupato il resto del territorio, ivi comprese le aree interne, dall’Abruzzo alla Lucania, ma erano divisi in ducati litigiosi e concorrenti: Benevento, Salerno e Capua. Uno stato di costante sfida e conflitto, che, tuttavia, non aveva impedito ad Arabi, Greci e Longobardi di stabilire un vivace in-

Miniatura raffigurante il duca normanno Roberto I, detto il Guiscardo (l’Astuto), che viene investito da papa Niccolò II del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

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storie italia normanna treccio di scambi commerciali, culturali e politici. In tale complessa congerie di rapporti, si affacciavano di tanto in tanto il Sacro Romano Impero – che governava l’Europa centrale e l’Italia centro-settentrionale –, e il papato di Roma, che aveva interesse a mantenere in sicurezza i suoi domini laziali. Le due potenze osservavano, influivano – a volte minacciavano –, senza però rischiare di farsi risucchiare nelle continue contese.

Una splendida capitale

Tenendo conto di un simile quadro, il capolavoro realizzato da Ruggero II con l’unificazione del Sud sotto il suo scettro va valutato nella sua piena portata storica. Nel 1130 egli riuscí a unire il Meridione italiano sotto il trono di un re normanno che parlava latino, greco e arabo. Anche la città scelta come capitale del nuovo regno rappresentava, in

granconte Ruggero I, e che erano riusciti nell’impresa di fondare un cosí vasto e potente regno. Erano passati poco piú di 100 anni da quando i primi cavalieri normanni erano apparsi in Italia meridionale. Ma chi erano, questi Normanni? Erano vichinghi; o meglio, erano i discendenti dei Vichinghi che avevano imperversato lungo le coste dell’Europa settentrionale muovendo da basi annidate tra i fiordi della Scandinavia, soprattutto nelle attuali Norvegia e Danimarca. Alla fine del IX secolo, dopo aver piú volte aggredito e saccheggiato la costa settentrionale della Francia, avevano stabilito basi alla foce della Senna, dove avevano fondato alcuni villaggi. Guerrieri temibili, avevano iniziato a minacciare le città della Francia settentrionale e le coste dell’Inghilterra meridionale. Risalendo il fiume, erano giun-

Nella pagina accanto l’espansione dei Normanni tra l’XI e il XII sec. I primi gruppi di queste genti vichinghe, provenienti dalla Scandinavia, mossero alla volta della Francia e dell’Inghilterra nel X sec. In basso Rollone, fondatore del primo ducato normanno indipendente di Francia, in una incisione ottocentesca.

Provenienti da Norvegia e Danimarca, i Normanni raggiunsero le coste francesi alla fine del IX secolo nuce, la complessità e il fascino dello Stato che si era appena formato. Era una città che gli Arabi chiamavano Medina, come la città del Profeta, per richiamarne in tal modo il suo valore sacro e religioso, tanto era ricca di moschee e scuole coraniche. «Sede del reame di Sicilia è la città piú bella dell’Isola – scriveva a quel tempo l’arabo andaluso Ibn Jubayr –: i musulmani la chiamano al-Madinah, i cristiani Palermo». Intorno a sé, sin dal momento dell’incoronazione, Ruggero raccolse una corte variegata e multiforme: i piú fidati funzionari erano greci, arabi, ebrei e italiani; poi c’erano cavalieri che venivano dalla Provenza e dal Nord d’Italia, attratti dalle infinite possibilità di carriera e fortuna che la nuova corte offriva; infine, c’era il nucleo piú antico e importante: i figli dei nobili normanni che avevano combattuto a fianco del padre del re, il

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ti alle porte di Parigi, già a quel tempo città di riferimento per il regno franco. I re carolingi si erano impegnati a ricacciarli indietro, ma alla fine – nel 911 – si erano visti costretti a concedere a uno dei loro capi, Rollone – latinizzazione dell’originario Hrofr –, il diritto a insediarsi stabilmente nella cittadina costiera di Rouen, dando vita a un ducato autonomo, vassallo del re di Francia. In quell’occasione, Rollone e i suoi avevano accettato tale vincolo e, insieme, la conversione al cristianesimo. Essi popolarono dunque, sempre come sudditi del re di Francia, tale regione, che prese cosí il nome di Normandia, la «terra degli uomini del Nord». dicembre

MEDIOEVO


Scozia

Primi spostamenti di genti normanne da Danimarca e Norvegia (VIII-IX sec.)

REGNO D’INGHILTERRA

Irlanda

Espansione normanna Espansione plantageneta Spedizioni dell'XI sec. NORMANDIA

Spedizioni deI XII sec.

SACRO ROMANO IMPERO

IMPERO REGNO PLANTAGENETO DI FRANCIA

1075-1076

Roma

1117-1151

1185

RA VID

I

1117

1071

AL

MO

REGNO DI SICILIA

1083

TURCHI

1073

1072

1098-1289

1153

Ifriqiyya

1147

Malta

1135-1160

Cipro

1149 1185-1189 1191-1192

1145

IMPERO FATIMIDA

Si trattava di combattenti formidabili, che le fonti descrivono dotati di enorme statura e addestrati fin da piccoli all’uso delle armi. Senza perdere tali originarie caratteristiche, essi acquisirono presto, grazie al contatto con il mondo francese, una nuova cultura, sia dal punto di vista della lingua che dei costumi politici. Si assistette cosí al convergere di mentalità feudale e cultura guerriera, prerogative, che se pur tipiche del Medioevo continentale, presero piede nella società normanna in modo peculiare. I cavalieri, cresciuti tra la piccola nobiltà contadina dei villaggi normanni, addestrati al combattimento e al coraggio, svilupparono presto un’insaziabile sete di conquista. Essi partivano per essere ingaggiati come mercenari ovunque ci fosse speranza di raccogliere gloria, ricchezza e – soprattutto –

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Tripoli

terra. Perché tali guerrieri combattevano sí per denaro, ma tenendo sempre a mente una ben maggiore ambizione: distinguersi in battaglia e strappare vita e terre agli «infedeli» o ai nemici.

Lascito prezioso

Ciò voleva dire ottenere la riconoscenza del proprio re – o principe – una volta che a lui fosse arrisa la vittoria. La riconoscenza – nel Medioevo feudale – si esprimeva infatti assegnando appezzamenti di terreno in feudo. Ciò voleva dire acquisire proprietà e diritti su castelli, città e abitanti che risiedevano su un determinato territorio, insieme a titoli aristocratici legati in modo indissolubile a tali proprietà, un lascito prezioso per la propria discendenza. Le occasioni per partire e cercare fortuna combattendo, in quei secoli, non mancavano. C’erano regioni

REGNO DI GERUSALEMME

ricche che si trovavano in uno stato di costante emergenza militare: tra queste, il Sud d’Italia. Secondo la cronaca redatta dal monaco Amato di Montecassino (che scrive tra l’XI e il XII secolo, n.d.r.), i primi Normanni a comparire, nell’anno 999, nelle terre del Meridione sarebbero stati quaranta pellegrini a Salerno. La ricca città portuale, capitale del ducato omonimo, era allora assediata da una flotta saracena proveniente dalla Sicilia. Le truppe del duca longobardo, rinserrate dietro le difese, non osavano affrontare a viso aperto i Saraceni che, scesi dalle navi, minacciavano ormai le stesse mura. I quaranta pellegrini normanni si sarebbero allora recati dal duca, offrendogli di combattere per lui, poi «prese armi e cavalli, assalirono i Saraceni, e molti ne uccisero; molti corsero alla marina, gli altri fuggirono per i campi e

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storie italia normanna cosí furono vincitori i valenti Normanni e i Salernitani furono liberati dalla servitú dei Pagani». Come spesso accade, tale racconto leggendario ci lascia intravedere qualcosa della realtà storica che l’ha prodotto. I Normanni, come altre popolazioni del Nord Europa, visitavano le regioni del Sud d’Italia in occasione dei pelle-

grinaggi al santuario di S. Michele Arcangelo presso il Gargano. Da Salerno e dalle Puglie, inoltre, ci si imbarcava per Gerusalemme, ed era facile che, in occasione di tali passaggi, si prendesse coscienza della delicata situazione politica del Meridione peninsulare. I Normanni la intuirono, cosí come compresero che nel Sud d’Italia vi erano grandi

possibilità di essere arruolati come mercenari: esistevano decine di ducati e potentati, tutti in lotta fra loro e bisognosi di aiuto militare. Alcuni mercenari normanni furono assoldati da Melo di Bari, un nobile longobardo che in Puglia aveva promosso una ribellione contro il dominio bizantino; dietro di lui, come sempre accadeva, si nascondeva lo storico nemico dei Bizantini, il principe di Benevento. Melo però fu battuto a Canne nel 1018, e i Normanni superstiti si rivolsero altrove, all’area campana. Qui, nel giro di poco tempo, un gruppo di cavalieri alla cui guida c’era Rainulfo Drengot – un avventuriero esiliato dal duca di Normandia per omicidio – si meritarono la gratitudine del duca di Napoli, Sergio IV, che avevano aiutato a reinsediarsi sul trono. Rainulfo ottenne cosí l’agognata ricompensa, obiettivo di ogni cavaliere normanno: la terra. Il duca di Napoli gli concesse la contea di Aversa; era l’anno 1030 e la storia dei Normanni in Italia aveva ufficialmente inizio. Venosa (Potenza). La «Chiesa Nuova» dell’abbazia della SS. Trinità, detta anche «Incompiuta», poiché i lavori per la sua costruzione, avviati agli inizi del XII sec., furono definitivamente sospesi nel 1297.


A destra Venosa, abbazia della SS. Trinità. La tomba degli Altavilla, nella quale riposano vari membri della famiglia, tra cui Roberto il Guiscardo.

Pochi anni piú tardi un nuovo gruppo di Normanni ebbe la possibilità di vedere da vicino, per la prima volta, la gemma piú preziosa e inestimabile della Penisola: una regione abitata da «infedeli» e quindi – nella loro ottica – naturale terra di conquista, la Sicilia. Questa volta furono arruolati come mercenari dall’impero bizantino, che, stanco di essere molestato lungo le coste tirreniche della Calabria, aveva deciso di approfittare dell’instabilità del potere arabo in Sicilia per infliggergli un colpo mortale.

I Vareghi, corpo d’élite

Salpati da Reggio, i Greci sbarcarono a Messina e i mercenari normanni si ritrovarono cosí a marciare sotto le insegne di Costantinopoli, accanto ai loro fratelli di sangue, i Vareghi, Scandinavi che da tempo costituivano l’élite delle armate greche. Nel 1038, i Bizantini presero Messina, dirigendosi con fiducia verso occidente. Sorsero i primi contrasti: i mercenari, al solito, pretendevano nell’immediato il soldo loro promesso e premevano

per un maggiore bottino; intanto i Siculo-Arabi si riorganizzavano. La spedizione si risolse in un completo fallimento e l’armata tornò in Calabria. I cavalieri normanni non ottennero nulla, ma acquisirono – nel corso della vicenda – due preziose informazioni: i Bizantini della Calabria erano vulnerabili e la terra di Sicilia ricchissima. Si deve considerare che i gruppi di cavalieri normanni in Italia erano costituiti da un numero molto limi-

tato di combattenti; la scarsa consistenza numerica era però bilanciata da un’estrema compattezza in battaglia e da una grande efficacia militare, che non era solo frutto dell’esperienza, ma era dovuta al fatto che, quasi sempre, si trattava di gruppi familiari, estremamente motivati e combattivi. Come si è visto, una di queste famiglie, quella dei Drengot, era riuscita ad ascendere al rango di conti (prima di Aversa e poi anche di Capua).


storie italia normanna due secoli di successi 700 circa Primi stanziamenti norvegesi nell’arcipelago scozzese. 786 circa Prime incursioni normanne in Inghilterra. 810-814 Incursioni normanne in Frisia. 834 Prime incursioni in Francia. 845 I Normanni assediano Parigi. 859 I Normanni raggiungono il Mediterraneo; attaccate le coste toscane e la città di Pisa. 911 Carlo il Semplice, re di Francia, è costretto a riconoscere l’insediamento normanno nella Bassa Senna, che diviene un ducato. 1029 Rainulfo Drengot ottiene la contea di Aversa (Italia meridionale). 1043 I fratelli Altavilla, provenienti dalla Normandia, ottengono il ducato di Melfi. 1053 Roberto il Guiscardo sconfigge l’esercito pontificio e fa prigioniero papa Leone IX. 1059 Accordi di Melfi. I Normanni si riconoscono vassalli del papa e Roberto il Guiscardo diventa duca di Puglia e Calabria. 1060 Ruggero I d’Altavilla è conte di Sicilia. 1060-1091 I Normanni conquistano la Sicilia araba. 1095 Nascita di Ruggero II. 1101 Morte di Ruggero I; reggenza di Adelaide del Vasto. 1112 Inizio del governo personale di Ruggero II. 1117 (?) Matrimonio di Ruggero II con Elvira, figlia di re Alfonso VI di Castiglia-Léon. 1122 Il duca Guglielmo di Puglia lascia a Ruggero II Calabria e Sicilia per intero. 1124 Ruggero II penetra in Basilicata (Montescaglioso). 1127 Morte senza eredi del duca Guglielmo di Puglia; Ruggero II principe di Salerno, duca di Puglia, Calabria e Sicilia. 1128 Papa Onorio II investe Ruggero II con il ducato di Puglia, Calabria e Sicilia. 1129 Rivolte sedate in Puglia, pace generale di Melfi. 1130 Guglielmo II assume il titolo di re di Sicilia. 1131-1139 Lotte contro i rivoltosi nel Mezzogiorno. 1135 Ruggero II investe il figlio Alfonso con il principato di Capua; precedentemente aveva investito Ruggero con il ducato di Puglia e Tancredi con il principato di Bari. 1137 Campagna dell’imperatore Lotario III e di Innocenzo II contro Ruggero II; investitura di Rainulfo d’Alife con il ducato di Puglia. 1139 Vittoria di Ruggero II sull’esercito di Innocenzo II; pace di Mignano; il papa investe Ruggero II del regno di Sicilia. 1149 Matrimonio di Ruggero II con Sibilla di Borgogna. 1151 Elevazione di Guglielmo I a coreggente; matrimonio di Ruggero II con Beatrice di Rethel. 1154 Morte di Ruggero II, nascita di Costanza d’Altavilla. 1166 Morte di Guglielmo I. 1186 Costanza d’Altavilla sposa Enrico VI di Svevia, che eredita il regno normanno nell’Italia meridionale. 1189 Morte di Guglielmo II. 1190 Tancredi di Lecce re di Sicilia. 1194 Enrico VI prende possesso del regno di Sicilia; nascita di Federico II.

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In alto Palermo, chiesa della Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio). Mosaico raffigurante l’incoronazione di Ruggero II da parte di Cristo. XII sec.

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Esisteva però anche un’altra famiglia – altrettanto numerosa e ambiziosa –, venuta a cercare fortuna in Italia e destinata a lasciare il proprio segno nella storia della Penisola. Era la bellicosa prole – una decina di figli – di un modesto nobile normanno, Tancredi, il quale proveniva dal lontano villaggio di Hauteville. Tra loro, spiccava un ragazzo di nome Roberto, che, dopo le prime esperienze militari in Calabria, aveva mostrato una precoce propensione per la strategia politica, oltre che per la guerra. Roberto comprese presto che, per ottenere feudi in Italia del Sud, non bastava combattere, ma occorreva anche inserirsi in un complesso e intricato gioco di alleanze. Era necessario sfruttare le debolezze dei potentati locali, stabilendo sodalizi pragmatici e volubili; e solo alla fine – quando sarebbe risultata decisiva – si sarebbe fatta pesare la forza d’impatto guerresca tipica dei Normanni. Questi si stavano inoltre rafforzando con l’arrivo di combattenti in cerca di fortuna provenienti dalla Francia, dall’Italia del Nord e dalla Slavonia. Per la spregiudicatezza e l’abilità di cui mostrò di

essere dotato, a Roberto fu dato il soprannome con cui passò alla storia: «Viscardus», cioè l’Astuto.

Un abile stratega

Con audaci colpi di mano – politici e militari –, Roberto riuscí a farsi largo tra i declinanti principi longobardi e i bizantini, prendendo via via il controllo su alcuni centri minori della Puglia e della Calabria. Fu soprattutto abile nello schivare – e volgere a proprio favore – l’intervento del papa, che si era mosso contro di lui al momento dei suoi crescenti successi. Su richiesta dei principi meridionali, infatti, e con l’appoggio dell’imperatore, Leone IX, nel 1053, si era fatto promotore di una spedizione in Puglia – da lui stesso guidata – al fine di sbaragliare i Normanni, ritenuti scomodi e spregiudicati corsari. Questi ultimi compresero che l’esito dello scontro sarebbe stato decisivo, e un’eventuale sconfitta definitiva. Per scongiurare tale sciagura, tutte le famiglie normanne presenti in Italia ritrovarono compattezza, guidate dai due clan piú potenti: gli Altavilla (italianizzazione dell’originario Hauteville)

e i Drengot. Riuniti in un esercito composito di milites normanni e ambiziosi guerrieri provenienti dal Nord d’Italia, affrontarono a viso aperto le truppe pontificie presso Civitate, centro della Capitanata. La violenza della prima linea normanna fu tale che i soldati inviati dai principi longobardi ne furono terrorizzati e si diedero alla fuga. E dire che proprio i Longobardi – ricorda il cronista normanno Goffredo Malaterra (attivo nell’XI secolo) – avevano convinto il pontefice che «i Normanni erano imbelli, privi di forza e scarsi di numero». A difendere il campo papale, rimasero solo i soldati tedeschi inviati dall’imperatore, i quali, ligi al dovere, si fecero massacrare fino all’ultimo guerriero. Leone IX cercò rifugio nella città piú vicina, che però, circondata dai Normanni, lo respinse fuori delle sue mura. Senza difesa, il pontefice si trovò in balia dei vincitori. A questo punto, In basso mantello per l’incoronazione in seta, ricamato in oro, perle e smalti e decorato con animali araldici. Produzione palermitana, 1133-1134. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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storie italia normanna Roberto, il quale disarcionato per tre volte in battaglia, per tre volte era tornato alle armi, diede prova, oltre che della sua straordinaria forza guerriera anche di tutta la sua abilità politica: accolse il pontefice con grande rispetto, impetrando – addirittura – il suo perdono; quindi lo liberò, non prima di avergli reso – insieme a tutti gli altri Normanni – promessa di lealtà e vassallaggio. Era, in fin dei conti, ciò a cui il pontefice mirava prima d’intraprendere il suo attacco: mantenere un rapporto di superiorità feudale – almeno formale – con i potentati del Meridione. Leone IX trovò naturale concedere in cambio – di fatto – il riconoscimento delle conquiste dei Drengot e degli Altavilla. La sconfitta del pontefice dette cosí occasione al Guiscardo di atteggiarsi a devoto difensore della sede pontificia. A tale quadro si sommarono due ulteriori eventi che si rivelarono decisivi per consolidare i progetti del Guiscardo. In Sicilia, la dinastia kalbita che aveva gover-

nato l’isola per piú di un secolo, fu sostituita da un governo formato da quattro emiri, che si mostrò subito fragile a causa delle lotte intestine che lo dilaniavano.

Lo scisma d’Oriente

Nel 1054 poi, si aggiunse un altro fattore di capitale importanza: lo scisma della Chiesa d’Oriente. Ro-

In alto Palermo, Palazzo dei Normanni. Particolare del mosaico che orna il trono reale della Cappella Palatina, chiesa riservata alla famiglia reale,

ma e Costantinopoli, che tra mille contrasti avevano preservato l’unità di fede, si divisero. Da questo momento, Chiesa greco-ortodossa e Chiesa di Roma presero strade del tutto diverse. Di conseguenza il dominio bizantino in Italia divenne nemico della Chiesa di Roma, con Puglia e Calabria nelle loro mani. I Normanni, freschi alleati del papato, trovarono il modo di approfittarne: a Melfi, nel 1059, sottoscrissero un accordo con il nuovo pontefice, Niccolò II, che riconosceva al Guiscardo i feudi di Puglia e Calabria, incaricandolo di liberare la Sicilia dagli «infedeli»; il patto assicurava inoltre alle famiglie normanne ogni loro eventuale conquista fatta a spese degli Arabi e dei Bizantini. In cambio Roberto ripeté – stavolta in forma solenne – il suo giuramento di fedeltà al papa: «Io, Roberto – recita il docommissionata da Ruggero II e dedicata a san Pietro Apostolo nel 1140. Nella pagina accanto una veduta dell’interno della Cappella Palatina.

L’arte arabo-normanna

I magnifici frutti della commistione L’espressione artistica piú alta della cultura arabo-normanna fu la realizzazione di edifici che mostrano un mirabile esempio di commistione tra maestranze arabe, nord-europee e bizantine. Tali monumenti sono rintracciabili in diverse aree del regno: a Salerno, nella Sicilia orientale e meridionale e in Puglia; tuttavia, in quanto espressamente legati alla committenza e agli auspici della corte regia, la gran parte di tali edifici

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è condensata a Palermo e nelle sue vicinanze. Si tratta di monumenti che rappresentano un unicum nel panorama – già ricco e variegato – dell’arte medievale italiana. Ruggero II, fondatore del regno – scrive Romualdo Salernitano nella sua cronaca –, «Ordinò di costruire a Palermo un palazzo assai bello, in cui fece una cappella rivestita di marmi meravigliosi, che coprí con un soffitto dorato e arricchí e decorò con vari ornamenti. E perché

mai mancassero a sí grand’uomo delizie d’acqua e di terra, fece un bel vivaio nella località detta Favara, scavando e rimovendo molta terra, e in esso fece mettere pesci di genere diverso, portati da varie regioni. Fece anche cingere con un muro di pietra certi monti e serre che stanno presso Palermo, e vi fece allestire un parco ben delizioso e ameno, popolato e piantato di alberi diversi, facendovi anche rinchiudere daini, caprioli e cinghiali. In questo parco fece anche un palazzo

cui fece portare l’acqua per condotti sotterranei da una limpidissima fonte». Nelle parole di Romualdo, sono testimoniate quindi alcune delle principali realizzazioni di Ruggero II: la Cappella Palatina, nel Palazzo dei Normanni – un palazzo di residenza arabo ristrutturato – circondato da una collana di giardini, e il Castello della Favara, che il re elesse a sua residenza estiva. Si trattava di monumenti che riadattavano – o rimodulavano – strutture dicembre

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storie italia normanna di età araba. I successori proseguirono tale politica realizzando edifici ancora piú singolari, originali ma con una chiara ascendenza islamica: Guglielmo I fece erigere la residenza della Zisa, mentre Guglielmo II – il figlio – quella della Cuba. Tali palazzi, raffinatissime residenze estive circondate da laghetti e aree lussureggianti, sorgevano all’interno di una gigantesca area verde – il cosiddetto giardino del Genoardo (da gennet-ol-ardh che significava «paradiso della terra») – popolato da animali, sviluppato dall’area retrostante al Palazzo reale, che costituiva una sorta di cintura verde intorno a gran parte della città. Anche nell’architettura religiosa, il gusto arabo-normanno ha lasciato monumenti preziosi: solo per citarne due tra i piú stupefacenti, va ricordata la chiesa di S. Giovanni

Una veduta del Palazzo dei Normanni, frutto della ristrutturazione di una piú antica fortezza promossa da Ruggero II.

In basso la chiesa di S. Giovanni degli Eremiti. L’edificio è menzionato per la prima volta in un diploma di Ruggero II del 1148, in cui il sovrano afferma di averla costruita a proprie spese.

degli Eremiti, che era stata precedentemente una moschea. Un significativo esempio di commistione tra arte bizantina con ornati arabi e richiami al romanico del Nord Europa è anche la chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, detta Martorana e dalla contigua S. Cataldo. Anche nella Cattedrale della città si possono osservare richiami a tale gusto estetico. Infine, sempre legate alla corte, vanno citate almeno due grandiose cattedrali erette dai re normanni e destinate a diventare i loro mausolei monumentali: il Duomo di Cefalú, legato a Ruggero II, e il Duomo di Monreale, connesso alla memoria dei successori Guglielmo I e Guglielmo II.

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cumento che ci è pervenuto – per grazia di Dio e di san Pietro duca di Puglia, di Calabria, e, con l’aiuto di entrambi, futuro duca di Sicilia, da questo momento in avanti sarò fedele alla santa Chiesa romana, alla Sede apostolica e a te, mio signore, papa Niccolò». I Drengot poterono cosí allargare il loro dominio nell’area campana e abruzzese, e ogni normanno aspirante alla nobiltà si sentí autorizzato a fare a brandelli ciò che restava degli antichi ducati longobardi e italo-greci. Il Guiscardo, che intanto, nel 1058, aveva sposato Sichelgaida di Salerno, imparentandosi con la prestigiosa ma fragile nobiltà longobarda, si dedicò alla definitiva conquista della Puglia e della Calabria, mentre incaricò il fratello Ruggero I di sbarcare in Sicilia. Quella siciliana era la conquista senza dubbio piú difficile, ma anche la piú seducente: Ruggero

poteva promettere, a chi avesse combattuto al suo fianco, un bottino dal valore inestimabile: terre e titoli per se stessi e per i propri discendenti: c’era un’intera isola da spartire. L’attacco iniziò da Messina nell’anno 1061, ma l’operazione si rivelò subito difficile. Gli emiri, nonostante la perdurante guerra civile, si resero conto che era necessario fronteggiare uniti un nemico determinato: riorganizzarono cosí le loro truppe e per quasi dieci anni impedirono ai Normanni di avanzare.

Il porto sotto assedio

A imprimere una svolta al conflitto, giunse, ancora una volta, Roberto; nel 1071, con la conquista di Bari, il Guiscardo mise le mani sulla flotta bizantina, sequestrata nel porto e consegnata al fratello Ruggero, che per mezzo di essa, poté assediare il porto della città piú importante dell’isola, Palermo. La

Palermo, chiesa della Martorana. Particolare del mosaico raffigurante la Natività. Le composizioni musive che ornano l’edificio, opera di artisti fatti venire da Costantinopoli e che qui lavorarono tra il 1140 ed il 1155, sono quelle in cui, in Sicilia, è piú visibile l’influenza greca.

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storie italia normanna città si arrese nel 1072, e Ruggero fu finalmente in grado di assegnare i primi consistenti feudi ad amici e parenti. Nonostante gli aiuti militari provenienti dalla Tunisia, gli emiri cominciarono infatti una lenta ritirata. Tuttavia, ci vollero altri venti anni, soprattutto per vincere la resistenza dell’emiro di Siracusa e avere ragione degli Arabi: solo nel 1086 i Normanni espugnarono Castrogiovanni – cioè Enna – e, infine, Noto, estrema roccaforte araba, che capitolò nel 1091. Intanto, nel 1085, dopo aver sbaragliato i Bizantini conquistando Reggio Calabria, Bari e Brindisi, Roberto spirava a Cefalonia, dov’era giunto nello sforzo d’incalzarli. Morí di febbre all’età di sessant’anni, consumato dal suo implacabile desiderio di conquista e dopo aver anche ultimato la conquista di Salerno, ultimo dominio longobardo. Alla morte del Guiscardo, le sue conquiste – che bisogna ricordare erano feudi personali – vennero divise: la Sicilia andò al fratello, Ruggero I d’Altavilla, che aveva il titolo di «granconte di Sicilia», mentre la Puglia e la Calabria furono assegnate ai nipoti del Guiscardo; nell’area piú a nord, intanto, si trovavano i Drengot.

Il declino dei Drengot

Nel 1101, dopo aver completato la conquista della Sicilia, Ruggero I morí e nuovo granconte di Sicilia divenne il piccolo figlio, Ruggero II. Negli anni successivi, quest’ultimo diede il via a una lunga serie di manovre e accordi finalizzati a dare sempre maggior forza alla famiglia degli Altavilla. Dopo aver riunificato i domini siciliani, nel 1127, ottenne – a causa dell’estinzione della linea di discendenza dei cugini – il ducato di Calabria e di Puglia. Il declino della famiglia Drengot gli forní poi l’occasione di prendere il controllo dei feudi delle aree campana, molisana e abruzzese. Quindi, a Melfi, impose il riconoscimento della propria supremazia agli altri sospettosi nobili normanni. Infine, tre anni dopo, si fece acclamare re

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nella sua Palermo. E, di lí a poco, anche il duca di Napoli fu costretto a proclamarsi suo vassallo. Il regno di Ruggero II andava dalla Sicilia fino al confine con il basso Lazio, e dette a questi territori un’unità che – dopo la parentesi della Sicilia aragonese – si trasmise intatta al potere angioino prima e borbonico poi. In altre parole egli aveva dato vita, in forma embrionale, al regno delle Due Sicilie, che conobbe la sua fine solo con l’arrivo di Garibaldi, in occasione dell’unificazione d’Italia. Una continuità del tutto sconosciuta alla storia del Nord della Penisola.

Un’età dell’oro

Per la Sicilia, la prima fase del regno normanno corrispose a una vera e propria stagione aurea, che ebbe un riflesso nello sviluppo di una cultura, non a caso, ricordata come «arabo-normanna» (vedi box alle pp. 46-48). L’isola toccò un altissimo livello di produzione artistica e culturale, espressione di differenti etnie, la cui sensibilità e religione poterono convivere sotto l’ombra protettrice degli Altavilla. Per le altre aree del regno, il processo di unificazione non portò a un uguale sviluppo, ma segnò piuttosto un arretramento. Tale fu soprattutto il caso di città come Napoli o Amalfi, che avevano conosciuto un notevole sviluppo commerciale e processo di autonomizzazione, per molti versi simile a quello seguito da un altro ex ducato bizantino, Venezia. In Sicilia però, la stagione della pace e della tolleranza non durò a lungo: il tentativo di Ruggero II di dare stabilità al regno attraverso una politica centralistica e dinastica si scontrò con troppi nemici interni, i quali uscirono allo scoperto nel 1154, all’indomani della sua morte. Tra i piú accaniti vi furono i nobili che non accettavano che la successione fosse limitata alla sola casata degli Altavilla. C’era poi chi aveva in odio i personaggi influenti della corte di origine greca o araba. A ciò si aggiungeva l’insopprimi-

Monreale (Palermo), duomo (S. Maria la Nuova). Particolare di uno dei mosaici raffigurante il re Guglielmo II che offre la chiesa alla Vergine. Anche in questo caso, l’opera si deve a maestranze bizantine, che la realizzarono alla metà del XII sec.

bile desiderio di autonomia delle grandi città, e infine le ambizioni di tanti cavalieri, provenienti dal Nord d’Italia e giunti in Sicilia per combattere al seguito dei Normanni, che vagheggiavano di ottenere feudi paragonabili a quelli capitati in sorte ai primi arrivati. Il convergere dell’azione di nobili piccoli e grandi inferse un colpo decisivo alla burocrazia palermitana: funzionari arabi, ebrei e – soprattutto – greci furono cacciati e la struttura centralistica del giovane regno fu indebolita per sempre. Il governo dei successori di Ruggero II, Guglielmo I (11541166) e Guglielmo II (1166-1189), fu funestato da rivolte e ne uscí dissanguato, pur restando una grande potenza mediterranea con una flotta considerevole e muniti capisaldi in Tunisia e Grecia. Presto, tra i nobili, alcuni iniziarono a desiderare che il regno del Sud fosse riunito al Sacro Romano Impero, che si consegnasse cioè all’imperatore, ponendo cosí fine alla monarchia nazionale normanna.

Opposte fazioni

D’altra parte, c’era chi pensava che fosse preferibile obbedire a un imperatore lontano e poco interessato alle vicende locali che sottostare a un re vicino, guardingo e dotato di una burocrazia efficiente. Ciò valeva, in ugual misura, sia per i baroni che per le città che sognavano l’autonomia comunale. Due fazioni – una filo-nazionale e l’altra filo-imperiale – iniziarono a fronteggiarsi, ambedue puntando sulla discendenza del re Guglielmo II, nipote di Ruggero II. La fazione nazionale voleva consegnare la corona a un discendente illegittimo di Ruggero, Tancredi di Lecce; la fazione imperiale invece, voleva che il regno fosse assegnato a una delle figlie di dicembre

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glielmo, ormai destituito, costretto a deporre la corona siciliana ai piedi di Enrico VI. Quest’ultimo però, sospettando che i baroni normanni tramassero ancora contro di lui, violò i patti di pace appena sottoscritti e dette il via a una spaventosa carneficina. Catturò molti baroni siciliani e li impiccò; poi mutilò ed esiliò in Germania il piccolo Guglielmo, giungendo a profanare i resti di Tancredi tumulati nella cattedrale. Si spinse perfino a imprigionare la propria moglie, Costanza d’Altavilla. La Sicilia, però, non gli permise di rivedere la nativa Germania: impegnato dalle rivolte contro i baroni superstiti, tre anni dopo morí a Messina, a causa di un’infezione o – come sospettano in molti – di un veleno.

Una fine precoce

Ruggero, Costanza d’Altavilla, che aveva sposato il figlio dell’imperatore Federico Barbarossa, Enrico VI. Nel 1189, alla morte di Guglielmo II (il piú tollerante e illuminato dei re normanni, soprannominato «il buono») il regno finí nelle mani di Tancredi di Lecce, che ne difese l’indipendenza con coraggio e abilità, finché, nel 1194, morí di morte naturale. A quel punto, il trono toccò al figlio Gugliemo III, che però era solo un bambino di nove anni. In-

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tanto, morto il Barbarossa, Enrico VI divenne imperatore del Sacro Romano Impero, e decise di rivendicare l’eredità normanna della moglie Costanza. Solo grazie all’appoggio delle flotte di Pisa e Genova, Enrico ottenne di entrare a Palermo.

Guglielmo in esilio

Il 25 dicembre del 1194, la città che aveva assistito, nemmeno settant’anni prima, all’incoronazione di Ruggero II, vide il piccolo Gu-

Il destino del regno normanno e, forse, quello dell’intero Meridione d’Italia era però compiuto. La distruzione dell’amministrazione centrale, la precoce fine del progetto monarchico, l’impossibilità di uno sviluppo dei liberi Comuni e, soprattutto, l’affermarsi di grandi baronie autonome fondate sul latifondo assestarono al Sud Italia una serie di colpi decisivi; schiantarono una tra le piú ricche e promettenti regioni d’Europa, impedendole per sempre di trovare le energie per risollevarsi. Provò a rianimarla, qualche anno dopo, il giovane principe nato dallo sfortunato matrimonio tra Enrico VI e Costanza d’Altavilla, Federico II. Insieme all’impero egli ottenne in feudo il regno, di cui cinse la corona nel 1220. Giunto in Sicilia, rimase abbagliato dalla bellezza e dal fascino della sua vivace cultura, e fece di tutto per insufflare di nuovo la vita nel regno, seguendo il richiamo del sangue materno piuttosto che quello del padre svevo. Ma vi riuscí solo in parte. F (3 – fine)

Nei numeri precedenti ● Il Ducato di Spoleto ● Il Ducato di Benevento

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grandi papi celestino v

Fu vera ÂŤviltadeÂť? di Francesco Colotta

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Dall’ormai lontano dicembre del 1294, le dimissioni di Celestino V sono ancora oggi al centro di un vivace dibattito alimentato anche da una celebre terzina dantesca, sulle loro reali motivazioni. Molti gli argomenti da rivedere, compresi i versi dell’Alighieri, che, probabilmente, non erano rivolti al papa eremita...

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bbandono la dignità papale, i suoi impegni, i suoi onori»: con questa laconica espressione si consumava uno degli enigmi piú celebri della storia medievale, le dimissioni di Celestino V, ad appena cinque mesi dalla sua elevazione al soglio pontificio. La rinuncia alla tiara, pronunciata a Napoli il 13 dicembre del 1294 davanti al collegio dei cardinali, sollevò violente critiche e fece affiorare oscuri sospetti. Era stato il papa in persona a meditare l’abbandono o vi fu costretto dalla Curia? La sua era stata una fuga o un atto responsabile? Studi recenti hanno escluso l’ipotesi di un intrigo ordito contro il pontefice-eremita, ridimensionando, nel contempo, anche la portata del suo «grande rifiuto», ossia della fuga vile a cui faceva riferimento la controversa terzina dantesca del III canto dell’Inferno. Ci fu ben poco di enigmatico nella vicenda di un capo spirituale ultraottantenne, malato e oppresso dalla monarchia francese, che abdicò in modo legale, secondo una procedura prevista dal diritto canonico.

Preghiera e solitudine

Di Celestino V, al secolo Pietro Angelerio, conosciamo molti dettagli relativi al suo breve pontificato, ma sono invece scarse le notizie sugli anni giovanili. Di origini umili, nacque nel 1209 (o nel 1210) probabilmente in Molise. Penultimo di dodici fratelli, nel 1230 venne affidato dalla madre, rimasta vedova, al monastero benedettino di S. Maria di Faifula (Montagano, Campobasso). Nel 1231 decise di farsi eremita e trascorse alcuni anni sul monte Porrara, nel gruppo della Maiella. Intorno al 1234 andò a Roma, dove fu consacrato, e poi, nel periodo 1235-1240, scelse di vivere in totale isolamento sul monte Morrone, in un luogo impervio, a pochi chilometri da Sulmona. Per il rapporto profondo con il posto in cui aveva scelto di L’incoronazione di papa Celestino V, dipinto su tavola. Scuola francese, inizi del XVI sec. Parigi, Musée du Louvre. Celestino V (al secolo Pietro Angelerio, detto Pietro del Morrone), fu eletto papa a Perugia il 5 luglio 1294 e consacrato all’Aquila il 29 agosto dello stesso anno.

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grandi papi celestino v La versione di Dante

Quei versi immortali... «Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». La celebre terzina del III canto dell’Inferno sembra non lasciare dubbi sull’identità del peccatore citato. Tutti i commentatori e storici antichi, anche i figli dello stesso Dante Alighieri, associarono quei versi alla figura di Celestino V. Nell’Età di Mezzo, però, c’era chi

esprimeva dubbi su quella frettolosa identificazione come, per esempio, il poeta Giovanni Boccaccio che osservò: «Chi costui si fosse, non si sa assai certo». Tra i commentatori medievali solo Benvenuto da Imola affermò in modo perentorio che la terzina non accusava Pietro del Morrone ma un personaggio biblico, Esaú, e la sua rinuncia alla primogenitura in favore del fratello Giacobbe. Crescenti

Statua di papa Celestino V che regge la città dell’Aquila, dalla basilica di S. Maria di Collemaggio. Attribuita a Girolamo da Vicenza, XVI sec. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo. Consacrato papa nella basilica del capoluogo abruzzese, dove era stato accolto trionfalmente, Celestino V vi dimorò fino al 6 ottobre, per poi trasferirsi a Napoli.

ritirarsi in preghiera, gli venne attribuito il soprannome di Pietro del Morrone. Mezzo secolo piú tardi, dopo aver fondato, nel 1264, l’Ordine dei Celestini e aver condotto una vita improntata all’austerità monacale, l’intransigente eremita Pietro divenne, all’improvviso, il candidato papa ideale di un collegio di cardinali in gran parte amanti del lusso e asserviti alle potenti famiglie nobiliari. A spingere i porporati a una scelta apparentemente rivoluzionaria fu lo stato di emergenza della Chiesa e il timore per le profezie nefaste sul destino della cristianità. Morto Niccolò IV, il 4 aprile 1292, le due fazioni cardinalizie rivali legate alle famiglie degli Orsini e dei Colonna si erano scontrate nel tentativo di far prevalere un proprio candidato. Questo acerrimo conflitto si intrecciava con la guerra in atto tra Angioini e Aragonesi per il predominio del Meridione d’Italia: gli Spagnoli avevano un rapporto cordiale con i Colonna, mentre i Francesi si erano legati agli Orsini. Particolarmente interessati alla scelta del nuovo papa erano gli Angioini, impegnati nella lotta di riconquista della Sicilia allora controllata dagli Aragonesi. Carlo II d’Angiò

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dubbi sull’associazione tra il «grande rifiuto» dantesco e Celestino emersero in seguito anche sulla base di semplici rilievi storici, non strettamente esegetici. Come poteva Dante condannare un personaggio ritenuto ai suoi tempi già un santo? Il poeta fiorentino, inoltre, apparteneva al partito degli antibonifaciani che consideravano Celestino come il papa angelico

che aveva subito le persecuzioni del malvagio Benedetto Caetani. Nel tempo vennero formulate altre ipotesi per risolvere l’enigma del misterioso, vile peccatore: Ponzio Pilato, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo, Giano della Bella e Vieri dei Cerchi. Originale è la tesi del critico letterario Natalino Sapegno, secondo il quale in realtà la terzina si riferiva a un personaggio simbolo, non a un’identità precisa.

poteva contare su un accordo con i nemici spagnoli, sancito dai patti di La Junquera (città catalana nei pressi di Girona, n.d.r.), che prevedeva il ritorno dell’isola in mani angioine previo l’avallo del papato. Le trattative per l’elezione del pontefice si protrassero senza successo per ben due anni, nonostante il tentativo di mediazione del cardinale decano Latino Malabranca. Un’impasse sempre piú pesante per la Chiesa, ormai paralizzata nella sua attività politica e sempre piú vulnerabile nelle proprie difese militari.

Una visione terrificante

C’era poi un’altra ragione, piú inquietante, che sollecitava la scelta immediata di un pontefice. In un’epoca dominata dal timore per le profezie, cominciò a circolare la notizia di una visione nefasta a cui aveva assistito Pietro del Morrone, come riportato nell’Opus metricum del canonico Iacopo Gaetano Stefaneschi. Ma che cosa aveva visto di cosí spaventoso il futuro Celestino V? Dio e lo Spirito Santo gli avevano comunicato che, in caso di ulteriori rinvii della nomina del nuovo papa, la Chiesa sarebbe andata incontro a terribili sciagure. Subito dopo il religioso aveva informato dell’apparizione il cardinale Malabranca, che conosceva da tempo. Il funesto presagio indusse i porporati a trovare finalmente un accordo di massima: sarebbe stata eletta una personalità estranea alle gerarchie ecclesiastiche, capace di traghettare la Chiesa in acque piú tranquille. La scelta cadde proprio sul nome dell’ottantenne Pietro del Morrone, una soluzione ponte che, in realtà, rinviava solo di qualche anno la resa dei conti tra le fazioni rivali. A differenza di quanto è stato a lungo sostenuto, la decisione non fu casuale, ma si trattò di una scelta

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ponderata, alla quale stavano pensando da tempo, per esempio, gli Angioini, amici ed estimatori dell’eremita. Appare verosimile a riguardo l’ipotesi che il nome del religioso figurasse nella lista dei quattro nomi papabili consegnata da Carlo II ai cardinali nei giorni antecedenti il conclave. Lo stesso Malabranca parteggiava per Pietro e propose la sua candidatura. Il 5 luglio del 1294 il conclave elesse Pietro del Morrone, facendo mostra di voler assecondare il sempre piú diffuso desiderio popolare di un ritorno alla Chiesa mistica delle origini. In realtà, si trattava di una mera operazione di facciata e non certo dell’avvio di quel progetto rivoluzionario sognato dai grandi pensatori spiritualisti come Gioacchino da Fiore, Jacopone da Todi, Pietro di Giovanni Ulivi e Angelo Clareno. I cardinali erano, inoltre, convinti di poter facilmente influenzare l’operato di un monaco sprovvisto di malizie e di esperienze di governo.

Le prime mosse del neoeletto

Pur non ritenendosi adatto a quel gravoso ruolo, l’eletto accettò l’incarico perché riteneva di essere uno strumento della volontà divina. Assunse il nome di Celestino V e cercò subito di non deludere le aspettative di rinnovamento spirituale che provenivano dal basso. Con uno dei suoi primi atti di governo, sottrasse il sacro collegio dei cardinali all’influenza dei Colonna e degli Orsini, nominando 12 nuovi porporati, tra i quali figuravano diversi francesi estranei alla cerchia delle due famiglie romane. Il pontefice intendeva restituire una certa autonomia decisionale alle alte sfere ecclesiastiche, ma, in realtà, consegnò il potere nelle mani degli Angioini, che potevano da quel momento contare su un nutrito nucleo di membri corregionali nella Curia. Celestino, della cui buona fede non si può dubitare, ebbe come principale interlocutore politico Carlo II e ne subí l’autorità in molte circostanze. Il sodalizio tra i

le dimissioni di benedetto xvi

Un segno premonitore? Le dimissioni di Benedetto XVI, nel febbraio del 2013, hanno richiamato alla mente i motivi del gesto di Celestino V (vedi «Medioevo» n. 194, marzo 2013; anche on line su www.medioevo.it). I due papi avevano in comune il problema dell’età avanzata e del progressivo affievolirsi delle energie, ma non certo il contesto politico con il quale dovevano misurarsi. Appare tuttavia significativo il gesto di Benedetto che, nel 2009, in seguito ai danni alla basilica aquilana di Collemaggio causati dal terremoto, volle donare il suo pallio proprio al papa eremita: un gesto interpretato da alcuni come un segno premonitore.

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grandi papi celestino v due fu un processo inevitabile e voluto non soltanto dal monarca francese, che aveva convinto il papa a stabilirsi proprio in territorio angioino, a L’Aquila. A spingere il pontefice nelle braccia di Carlo erano anche i cardinali conservatori, che non gradivano la presenza dell’eremita a Roma, in un luogo in cui ancora dettavano legge i partiti dei nobili. Pur desiderando di trasferirsi nella Città Eterna, Pietro del Morrone accettò di buon grado il soggiorno in una terra che sentiva ormai come sua e dove era venerato già come un santo. Migliaia di fedeli lo accolsero in trionfo a L’Aquila e il festeggiato, in segno di gratitudine nei riguardi del capoluogo abruzzese, concesse l’indulgenza plenaria a chiunque si fosse recato il 28 e il

29 agosto di ogni anno nella locale basilica di S. Maria di Collemaggio per espiare i propri peccati (la cosiddetta «perdonanza»). Una tale prestigiosa presenza, seppur fugace, fece subito assumere alla città il ruolo di grande centro della cristianità occidentale.

Tra leggerezze e volontà di riforma

Ben presto Celestino commise alcune leggerezze, che offuscarono la sua fama di uomo simbolo del rigore morale e del rinnovamento. Inspiegabile fu l’eccessiva disinvoltura con cui concesse cariche a persone di fiducia di Carlo II, senza accertarne l’onestà e omettendo di informare i cardinali. Diverse cronache denunciarono anche la sua rischiosa abitudine

Napoli. Il Castel Nuovo, piú noto come Maschio Angioino. Nell’ottobre 1294, Celestino V si trasferí nella fortezza, e vi rimase fino alla sua abdicazione, il 13 dicembre dello stesso anno.

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di firmare documenti in bianco, poi redatti dalla cancelleria papale, nei quali spesso si elargivano rendite e favori in modo indiscriminato. L’eremita, comunque, continuò a portare avanti il suo progetto di riforma, concentrandosi anche sulla questione degli Spirituali francescani, ai quali concesse una totale libertà di azione. Il declino del suo pontificato coincise con il trasferimento a Napoli, su esortazione di Carlo II, che intendeva concentrare il potere ecclesiastico nella capitale del regno. Il sovrano lavorava da tempo al progetto e, quando il momento gli era sembrato propizio, diede il via all’operazione. Il 6 ottobre il papa lasciò L’Aquila e, dopo pochi giorni, giunse nella sua nuova residenza partenopea, a Castel Nuovo (l’odierno Maschio Angioino), nello stesso edificio in cui dimorava il re. Celestino, tuttavia, fece difficoltà ad ambientarsi e provava imbarazzo nel soggiornare all’interno della sfarzosa roccaforte angioina. Chiese perciò di poter abitare in un’angusta cella di legno situata nei sotterranei del palazzo, tornando a chiudersi nel suo ascetismo. In quel luogo di raccoglimento maturò le prime inIn alto L’Aquila. La basilica di S. Maria di Collemaggio e, a destra, una delle statue che ornano l’ingresso. Consacrata nel 1288, la chiesa sorse per volere di Pietro del Morrone, il quale, divenuto papa, accordò l’indulgenza plenaria a chi vi si fosse recato il 28 e il 29 agosto di ogni anno.

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grandi papi celestino v L’eremo di S. Onofrio al Morrone, vicino a Sulmona, fatto edificare da Pietro del Morrone (il futuro Celestino V) poco dopo il 1290.

intenzione di dimettersi, ma non ottenne il via libera che attendeva. Non volendo compiere un gesto arbitrario in modo unilaterale, il papa evitò di attuare lo strappo e chiese una consulenza ai maggiori esperti di diritto canonico, nel tentativo di trovare un appiglio legale all’atto di dimissioni. I giuristi interpellati, tra i quali figurava anche Benedetto Caetani, ritenevano che ricorressero alcune «giuste cause» per il ritiro: l’età avanzata, le malattie e la convinzione di aver contribuito a spaccare ulteriormente la Chiesa. Ottenuto il placet normativo con un parere scritto, il pontefice si dimise davanti al collegio dei cardinali il 13 dicembre. Chiese di poter portare ancora le insegne papali in occasione di messe da lui officiate e in altre particolari celebrazioni, ma la richiesta non venne accolta: si voleva evitare ogni rischio di sovrapposizione tra due capi spirituali, uno scenario imbarazzante già emerso durante il periodo piú nero degli antipapi.

Una successione veloce

certezze sul suo futuro alla guida della Chiesa, eclissandosi sempre piú dagli impegni quotidiani. In prossimità del Natale del 1294 si impose una pausa di riflessione e manifestò il proponimento di affidare temporaneamente la gestione ordinaria a tre vicari: un’eventualità che la Curia giudicò insensata e, soprattutto, illecita, in quanto il papa non poteva mai delegare ad altri il ministero divino, nemmeno per un breve periodo. Molti intuivano ormai che Celestino stava meditando l’abbandono, e il popolo dei suoi sostenitori fece sentire la propria voce per convincerlo a non cedere di fronte alle difficoltà. Tra i fedeli, però, specie all’interno del movimento degli Spirituali, stava affiorando anche un certo risentimento nei riguardi del pontefice, considerato un debole o, addirittura, un traditore. La decisione, però, era stata presa: l’8 dicembre l’anziano e stanco asceta comunicò al concistoro la sua

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Celestino pretese dai porporati una rapida elezione del suo successore per non lasciare di nuovo a lungo vacante il trono papale. E cosí fu. Il giorno della vigilia di Natale la Chiesa aveva già il suo nuovo capo, il cardinale Caetani il quale, con l’intenzione di distinguersi dal suo predecessore, fece subito annullare molti atti promulgati appena qualche mese prima. Bonifacio VIII, questo il nome del neoeletto, dispose che il «papa emerito» venisse destinato alla Curia, cosí da poterlo controllare, evitando il rischio di uno scisma e di strumentalizzazioni politiche. Pietro fu, quindi, costretto a partire per Roma, ma, durante il tragitto, dopo aver eluso la sorveglianza, fuggí sul monte Morrone. Desiderava tornare nei suoi rifugi montani e non voleva vivere il resto dei suoi giorni in un ambiente che gli era ostile. Indispettito per l’accaduto, Bonifacio inviò alcuni suoi uomini di fiducia in Abruzzo, con il preciso mandato di portare a Roma il fuggitivo. Ma l’ex pontefice pianificò una nuova «evasione», inoltrandosi tra i rilievi dell’Abruzzo, del Molise e della Puglia. Nel marzo del 1295 si stabilí presso un casale nel Foggiano, a Rodi Garganico, e da lí tentò di espatriare in Grecia, dove in passato molti Spirituali si erano rifugiati per scampare alle persecuzioni. Con una modesta imbarcazione afdicembre

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frontò la traversata dall’Adriatico, ma le forti correnti gli fecero perdere la rotta, spingendolo di nuovo sulle coste pugliesi, a Vieste. Su una spiaggia fu riconosciuto e in seguito consegnato nelle mani degli uomini di Carlo II, alleatosi nel frattempo con Bonifacio VIII.

Celestino in «domicilio coatto»

Il papa non voleva perseguitare Celestino, ma si era insospettito per i suoi ripetuti tentativi di fuga. Perché si nascondeva? Che cosa pensava di fare? Glielo chiese di persona a giugno, quando il dimissionario giunse ad Anagni, dove Bonifacio alloggiava, ma le giustificazioni del suo predecessore non lo convinsero. Il pontefice, inoltre, messo al corrente dei numerosi miracoli attribuiti a Pietro del Morrone e del conseguente incremento della sua popolarità, pensò che una presenza cosí ingombrante in giro per l’Italia potesse sottrarre autorevolezza alla figura del vero capo della Chiesa. Fu questo uno dei motivi per cui lo scomodo religioso venne rinchiuso in un edificio adiacente al palazzo papale.

Non si trattava, comunque, di una vera e propria prigionia, visto che il recluso viveva in locali di un certo pregio, aveva un domestico al suo servizio e poteva celebrare le funzioni religiose. Nell’agosto del 1295 venne trasferito nella meno confortevole rocca di Fumone, nel Frusinate, dove morí un anno dopo, il 19 maggio del 1296. Le fonti piú accreditate non chiariscono il mistero sui suoi ultimi mesi di vita, ma escludono l’ipotesi che Celestino sia stato vittima di violenze o ucciso. Il decesso venne strumentalizzato da alcuni cardinali francesi e ispirò una ricca letteratura che riteneva Bonifacio responsabile delle dimissioni di Celestino e, addirittura, della sua morte. Il saggio dello storico Jean Coste Boniface VIII en procès (1995) riassume molte testimonianze dell’epoca contro papa Caetani, tra le quali la confessione del religioso Giacomo da Palombara, che affermò di aver ricevuto da Bonifacio, ma di non

Miniatura raffigurante la rinuncia al trono pontificio da parte di Celestino V, da un manoscritto francese del XIV sec. Avignone, Musée Calvet.

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grandi papi celestino v Schermaglie papali

«Tenetevela per voi, questa santità» Bonifacio e Celestino avevano caratteri ben dissimili, e tra i due esisteva una diffidenza reciproca. Benedetto Caetani sognava una Chiesa politica, eccelsa in diplomazia e non gradiva l’esaltazione in senso angelico del suo predecessore, tanto che un giorno, da cardinale, disse in modo sprezzante ai sostenitori dell’eremita: «Tenetevela per voi, questa santità». Secondo ricostruzioni leggendarie, anche Pietro del Morrone un giorno

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avrebbe rivolto una frase tagliente contro il suo successore, perché non voleva lasciarlo libero di tornare nei suoi eremi: «Hai ottenuto il papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane».

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In alto la tomba di Celestino V, nella basilica aquilana di S. Maria di Collemaggio. Nella pagina accanto particolare di un dipinto di Andrea Gastaldi che ritrae Bonifacio VIII, successore di Celestino V. 1877. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. All’indomani della morte del papa eremita, molti fecero circolare voci secondo le quali il suo successore lo avrebbe indotto alle dimissioni e ne avrebbe persino organizzato l’omicidio.

averlo eseguito, l’ordine di strangolare l’eremita. Gran parte delle dichiarazioni citate, tuttavia, provenivano da ambienti ostili a Benedetto Caetani e, pertanto, devono essere valutate «cum grano salis», come osserva il medievista Ludovico Gatto.

Un’accusa orchestrata ad arte

Verosimilmente, molte delle tesi colpevoliste facevano parte di quel dossier infamante redatto nel 1297 dai cardinali Pietro e Giacomo Colonna che, qualche anno dopo, forní materiali probatori al processo postumo intentato da Filippo IV il Bello contro Bonifacio VIII. Nel 1306 in Francia fu formulata un’esplicita accusa di omicidio nei riguardi del pontefice. Secondo l’avvocato Guillaume de Plaisians, Celestino V era stato ucciso con un colpo violento alla testa per mano del cameriere di papa Caetani, Teodorico Ranieri da Orvieto, e su ordine del suo datore di lavoro. In seguito l’assassino venne identificato nel fratello del pontefice, Roffredo II. La tesi dell’omicidio perse in gran parte credibilità quando si scoprí che alcune prove erano state falsificate: qualcuno, forse un emissario di Filippo il Bello, aveva praticato di nascosto una profonda lesione sul

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cranio del cadavere di Celestino, in modo da fornire una schiacciante conferma alle tesi dell’accusa. A distanza di molti secoli, la scienza accertò in modo definitivo la verità. In due ricognizioni sui resti del papa eremita (che riposano ancora nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila) effettuate nel 1998 e nel 2013 gli esperti hanno espresso la convinzione che il foro sia stato praticato sul cranio post mortem, su «osso secco» per usare termini anatomopatologici. F

Da leggere U Ludovico Gatto ed

Eleonora Plebani (a cura di), Celestino V, cultura e società, Casa Editrice Università «La Sapienza», Roma 2007 U Maria Burani, Celestino V, Città Nuova Editrice, Roma 1993 U Paolo Golinelli, Celestino V, il papa contadino, Mursia, Milano 2006 U Antonio De Simone, Pietro del Morrone. La storia di San Celestino V papa e della Chiesa del XIII secolo, Firenze Atheneum, Firenze 2005 U Chiara Frugoni, Due

papi per un Giubileo. Celestino V, Bonifacio VIII e il primo Anno Santo. Rizzoli, Milano 2000 U Barbara Frale, L’inganno del grande rifiuto, UTET, Novara 2013 U Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Mondadori, Milano 1998 U Franz Xavier Seppelt, Storia dei papi, Edizioni Mediterranee, Roma 1983 U Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1999

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immaginario animali fantastici

Sirene,

fenici

e altre

storie

di Franco Cardini e Marina Montesano, con un contributo di Francesco Zambon

Come già in epoca antica, anche nel Medioevo, gli animali non furono soltanto oggetto di studio e classificazione, ma incarnarono forti valori simbolici. Venne a costituirsi, cosí, un universo parallelo, fatto di creature straordinarie, alla cui descrizione si dedicarono filosofi, letterati e artisti

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a quando ha fatto la sua comparsa sulla terra l’uomo ha imparato a convivere con gli animali: un rapporto multiforme, fatto di paura e ammirazione, affetto e sfruttamento, e che ha ispirato visioni fantastiche di molte creature, spesso tradottesi nella «nascita» di esseri mostruosi e leggendari. È un fenomeno di portata vastissima, che ha avuto riflessi importanti nella produzione artistica e letteraria e che è stato in molti casi riletto anche in chiave religiosa; un fenomeno a cui è stata dedicata un’ampia esposizione, attualmente allestita nel Castello del Buonconsiglio di Trento, e corredata da un catalogo che ne esamina gli aspetti piú salienti. Da quel volume sono tratti i testi che qui pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Skira, che illustrano alcune delle piú significative declinazioni del rapporto tra uomo e animale nel corso del Medioevo.

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«Al mondo ogni creatura è come un libro e una pittura per noi, e uno specchio. Della nostra vita, della nostra morte del nostro stato, della nostra sorte fedele simbolo». Cantava cosí, in pieno XII secolo, il filosofo e poeta Alano di Lilla. Fedele alla massima pitagorico-neoplatonica secondo la quale tutto ciò che è in alto è come quel che è in basso, l’universo medievale e umanistico – e sarà cosí fino all’avvio delle scienze sperimentali che, tra Cinque e Seicento, riformeranno la «visione del mondo» – è un mirabile e coerente insieme nel quale ogni parte somiglia e corrisponde alle altre secondo un complesso sistema di speculari rapporti analogici. L’immensamente grande e l’immensamente piccolo si corrispondono: nulla accade in una parte dell’universo che non si rifranga e non si ripercuota nelle altre. Anche l’uomo, dotato di

Fermacarte (o battente) in piombo in forma di lucertole che combattono contro un serpente. XVI sec. Firenze, Museo nazionale del Bargello.

quell’anima immortale che gli è stata fornita dal soffio divino, è compartecipe di quest’ordine e della fitta rete delle sue norme. La scienza antica, medievale e umanistica, si compendia e si dispiega tutta nello studio di queste corrispondenze, alle quali i trattati detti «bestiari», «erbari» e «lapidari» – che descrivono i componenti dei tre regni naturali: animale, vegetale, minerale – forniscono una chiave non tanto scientifico-naturalistica nel senso nostro (che pure è presente, specie sotto forma di esposizione delle «virtú» – cioè delle caratteristiche, qualità e potenzialità terapeutiche – di ciascuna specie), quanto piuttosto etica. Non v’è quindi animale, dicembre

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Tessuto in lana, seta oro e argento raffigurante Maria e l’unicorno nell’hortus conclusus. 1480. Zurigo, Museo Nazionale Svizzero.

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immaginario animali fantastici A destra particolare di una cassettina in legno decorata con una scena di caccia all’unicorno. 1600-1610. Zurigo, Museo Nazionale Svizzero. Nella pagina accanto capitello con sirene, dall’abbazia di Saint-Denis. 11401145. Parigi, Musée de Cluny.

pianta o gemma che non rinvii a un corpo celeste e non sia simbolo di un aspetto del mondo divino, angelico o demonico, oppure di un vizio o di una virtú. L’immaginario si radica sul profondo e sistematico coesistere delle realtà che cadono sotto i cinque sensi naturali, cioè i visibilia, e di quelle che a essi sono sottratte ma che possono essere immaginate e descritte attraverso i testi delle auctoritates (gli scritti filosofici, scientifici, letterari degli antichi, cioè del mondo ellenistico-romano, e dei Padri della Chiesa) e i procedimenti simbolici ispirati alle Sacre Scritture. Ecco quindi che è possibile immaginare e descrivere mostri e terre mai esplorate con i relativi abitanti (di solito essi stessi «mostruosi») in quanto l’Antichità ne ha lasciato delle immagini attestate

In basso acquamanile in bronzo in forma di san Giorgio e il drago. 1400 circa. Firenze, Museo nazionale del Bargello.

nelle auctoritates. Il «mostro» non è necessariamente orribile e feroce: al contrario, può esser bellissimo e molto mansueto, come l’unicorno. Bernardo di Clairvaux, acerrimo nemico degli animali e delle piante fantastici che si scolpivano e si dipingevano perfino nei chiostri monastici (e che difatti nel suo ordine, il cistercense, erano proibiti), parlava di formosae difformitates: cioè di «belle corruzioni della forma (naturale)» da Dio voluta per le cose. La parola monstrum è d’altronde imparentata con il verbo monstrare: e rinvia a qualcosa che Dio ha voluto creare per insegnarci, attraverso la meditazione di fatti e di forme straordinari, questa o quella verità; o per ammonirci a proposito di questo o di qual pericolo.

La tradizione classica

Il lascito della cultura classica all’immaginario medievale è esemplificato dal caso del pegaso e, collegato a esso, soprattutto da quello del grifone. Il gryps o grypòs greco, che in latino è chiamato gryphus, o grypus, o gryps, è una sorta di uccello rapace imparentato all’avvoltoio, cosí come lo vediamo citato in Esiodo, in Erodoto e in Eschilo.

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In Grecia, i grifoni sono rappresentati nel poema di Aristea dedicato agli arimaspi, mitici abitanti del Settentrione famosi per possedere un solo occhio e far la guardia, montati su cavalli, all’oro e agli smeraldi. I grifoni contendevano loro quelle ricchezze e da lí deriva la loro classica inimicizia con i cavalli; tuttavia un pegaso (cavallo alato nato secondo il mito alle sorgenti dell’Oceano dall’accoppiamento del dio Posidone con Medusa, una delle tre mostruose Gorgoni che abitavano l’estremo Occidente) e un grifone figuravano sovente scolpiti sull’elmo di Atena; e l’ippogrifo, cavalcatura di Astolfo nell’Orlando Furioso dell’Ariosto che s’ispirava evidentemente al celebre Romanzo di Alessandro dello Pseudocallistene, nasce appunto dall’accoppiamento di un pegaso con un grifone. È tuttavia da notare che lo Pseudocallistene, nel quale si racconta la mitica ascesa al cielo di Alessandro su un carro trainato da due grifoni (un episodio che pare esemplificato sul mito babilonese di Etana), parla in realtà di uccelli che dimorano all’estremo limite della terra (a Oriente); bianchi, enormi e mansueti. La tradizione medievale

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ha comunque fatto di quei candidi uccelli dei grifoni, come si vede nei mosaici della cattedrale di Otranto e in infinite altre raffigurazioni. Nell’arte paleocristiana, che riprende spesso motivi dell’arte orientale – come quello, persiano, del grifone che si abbevera a una coppa – il grifone sembra essere passato non solo dai modelli greci, ma anche da quelli dei popoli delle steppe, che potrebbero in effetti averlo importato da tipologie iraniche. La tradizione cristiana associa il grifone alla difesa dei luoghi sacri (quindi alla tutela contro i pericoli) e all’ascesa delle anime al cielo, com’ è suggerito dalla doppia natura di uccello rapace e di forte animale benefico. Contrariamente a quelle del grifone, sono modeste le testimonianze che attestano come pegaso fosse utilizzato in ambito cristiano delle origini: qualche tavoletta d’avorio, le lampade cristiane di Cartagine,

qualche dipinto nelle catacombe. Secondo il celebre studioso dei simboli Louis Charbonneau-Lassay (1871-1946), in pegaso i cristiani scorgevano il simbolo della gloriosa ascensione di Cristo. Nell’abbazia di Saint-Savin (Vienne), il cavallo alato simboleggia l’anima che tende con ardore alla comunione con Dio. Strettamente legata alla cultura classica è anche la fenice: il mitico volatile che i Greci chiamavano phoinix trae il suo nome da

un termine che, appunto in greco, rinviava ai Fenici e designava un colore, il rosso-cupo o rosso-violaceo (porpora), ottenuto utilizzando le secrezioni dei molluschi dei generi Purpura e Murex per tingere pregiati tessuti di lana. L’uccello phoinix portava un nome simile ai Fenici appunto perché essi avevano inventato un colore che richiamava il fuoco.

Come l’anima immortale

E al fuoco la fenice veniva accostata in quanto titolare di un mito secondo il quale essa si cibava di rugiada e di spezie preziose che raccoglieva volando in paesi lontani, per poi farsi un nido foderato di nardo (pianta che forma densi cespi di foglie dure e pungenti, con fiori raccolti in sottili spighe taglienti, n.d.r.) e di mirra nel quale ogni cinquecento anni si consumava istantaneamente, incinerendosi in una subitanea fiamma dalla quale risorgeva tre giorni dopo per volare dritta verso il sole. Per questo i Padri della Chiesa interpretarono la fenice come simbolo dell’immortalità dell’anima e della resurrezione del Cristo: e come tale essa passò al capostipite dei bestiari medievali, il Phisiologus. Il suo mito viene compiutamente narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (XV, 392400), dal quale hanno tratto argomento tutti i bestiari medievali fino a Dante. A volersi affidare esclusivamente ai dati morfologici, quindi alle somiglianze tipologiche esteriori, la figura femminile la cui parte inferiore del corpo termina nelle lunghe volute della coda serpentina, oppure – non è la stessa cosa – il serpente dalla testa di donna, parrebbero simboli tra loro prossimi e affini. E, per entrambi, quasi spontaneo sarebbe il rapporto con la donna-pesce, la sirena, immagine (segue a p. 69)

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immaginario animali fantastici Tra natura e religione

A sinistra elefante e serpenti, dal Physiologus Bernensis. 830 circa. Berna, Burgerbibliothek. In basso miniatura raffigurante una sirena che ammalia alcuni marinai con il suo canto, da un’edizione dei Dicta Chrysostomi. XIII sec.

I bestiari medievali

Commentando nelle sue Enarrationes in Psalmos alcune menzioni bibliche del serpente e dell’aquila e dopo averle spiegate facendo riferimento alle notizie leggendarie che si leggono nei bestiari, sant’Agostino – intuendo forse la perplessità di qualche lettore – osserva: «Fratelli, siano vere quelle cose che si dicono del serpente e dell’aquila o siano invece una leggenda degli uomini anziché la verità, tuttavia nelle Scritture c’è sempre la verità e non è senza motivo che le Scritture ci riferiscono tali cose. Mettiamo quindi in pratica ciò che tali immagini significano, e non ci affatichiamo a cercare se corrispondono o meno a verità». Si potrebbe considerare questa dichiarazione come un manifesto del bestiario medievale; del resto in

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un altro suo libro – il De doctrina christiana, che divenne il manuale per eccellenza della cultura cristiana nel Medioevo – lo stesso Agostino invita le persone colte di buona volontà a redigere opere che trattino «ripartendoli genere per genere, di tutte le località geografiche, degli animali, delle erbe, degli alberi, delle pietre e dei metalli sconosciuti e di tutte le altre specie, e di quelle soltanto, che sono menzionate nella Scrittura». Ecco descritti – con la chiara indicazione della loro finalità – i bestiari, gli erbari, i lapidari e piú in generale le opere enciclopediche di cui il Medioevo offrirà una abbondante fioritura: il loro scopo non è né lo studio scientifico della natura né il piacere del meraviglioso e del fantastico, ma unicamente la raccolta di informazioni naturalistiche – zoologiche

nel caso dei bestiari – atte a illustrare allusioni o similitudini o metafore oscure della Sacra Scrittura. Per esempio, a proposito del pellicano che risuscita i figli con il proprio sangue (una delle piú famose leggende diffuse dai bestiari), Agostino scrive nel commento al Salmo 101: «Forse questo è vero, forse è falso; ma se è vero, voi vedete come si adatti perfettamente a Colui che con il suo sangue ci ha ridato la vita», cioè Cristo. Questo stretto rapporto fra i bestiari e l’esegesi biblica è all’origine stessa del «genere» bestiario, che risale a un trattatello composto in greco nel II o III secolo dopo Cristo, probabilmente ad Alessandria d’Egitto, il Fisiologo. Si tratta di una sequenza di circa cinquanta brevi capitoli – dedicati in gran parte ad animali,

ma anche a qualche pietra o albero – dalla struttura bipartita: nella prima parte è descritta quella che il testo chiama la «natura» (cioè le caratteristiche o le proprietà) di un animale o pianta o pietra, mentre nella seconda è sviluppata un’interpretazione allegorica che la riferisce – come nel caso del pellicano appena menzionato – a temi o a figure della dottrina cristiana.

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Cosí l’aquila, che quando invecchia brucia nel sole le sue vecchie ali e la caligine che le offusca la vista e poi si immerge per tre volte in una fonte d’acqua pura rinnovando la propria giovinezza, rappresenta il cristiano che dopo essersi spogliato dell’«uomo vecchio» volando nel Sole della giustizia, Gesú Cristo, si immerge nel fonte battesimale rinnovandosi spiritualmente; la fenice, che ogni cinquecento anni si incendia sull’altare di Eliopoli e dopo tre giorni rinasce dalle sue ceneri, è un simbolo di Cristo morto

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per noi e risuscitato il terzo giorno; la balena, che trascina negli abissi marini i naviganti che l’avevano scambiata per un’isola, raffigura il demonio che seduce gli uomini e poi li precipita nell’inferno, e cosí via. La maggior parte dei capitoletti del Fisiologo sono introdotti da una citazione biblica in cui figura l’animale trattato; in qualche caso, come quello della pernice che cova le uova di altri uccelli, la descrizione «naturalistica» è una semplice parafrasi del luogo biblico. Il trattato si presenta cioè essenzialmente

Miniatura raffigurante l’aquila, dal Bestiario di Oxford (MsAshmole 1511). Oxford, Bodleian Library.

come una raccolta di interpretazioni allegoriche di passi della Sacra Scrittura in cui sono menzionati degli animali, reali o fantastici, ai quali vengono attribuite caratteristiche o proprietà desunte dalle fonti zoologiche allora disponibili. Raccogliendo le descrizioni e i significati simbolici degli animali in trattazioni sistematiche che assumono i caratteri di un «genere» ben definito, il bestiario lascia del resto intravvedere un preciso modello biblico: quello della nominazione degli animali da parte di Adamo in paradiso, descritta in Gn 2,19-20. Il valore paradigmatico di questa primordiale nomenclatura e tassonomia di tutti gli animali è confermato dal fatto che alcuni fra i piú importanti bestiari latini del XII secolo la evocano in apertura di testo, prima della descrizione e della interpretazione allegorica delle singole creature. Per esempio nel cosiddetto Bestiario di Oxford (il manoscritto Ashmole 1511 della Bodleian Library di Oxford) si leggono queste parole, riprese letteralmente dalle Etimologie di Isidoro: «Adamo diede per primo dei nomi a tutti gli esseri

animati, chiamando ciascuno di loro, mediante una istituzione immediata, con un vocabolo conforme alla condizione naturale alla quale era assoggettato. l popoli attribuirono a ciascun animale dei nomi nella propria lingua. Adamo invece non impose i nomi in latino o in greco o in qualche lingua di popoli barbari, ma in quella lingua unica che tutti parlavano prima del diluvio e che si chiama ebraica». Lo stesso bestiario, come numerosi altri, è inoltre ornato da una miniatura che rappresenta la scena biblica e che, raggruppando i diversi animali intorno ad Adamo onomaturgo, offre una sorta di compendio visivo dell’intera opera. Nel secolo XI apparvero due opere ormai in parte emancipate dal modello (del Fisiologo, n.d.r.) e piú propriamente definibili come «bestiari» poiché trattano esclusivamente di animali. Si tratta dei Dicta Chrysostomi, dove la sezione dedicata ai quadrupedi e ai rettili è distinta da quella dedicata agli uccelli, e del

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immaginario animali fantastici Physiologus Theobaldi, popolarissimo bestiario che si caratterizza per la forte selezione degli animali (solo 13), per l’originalità delle interpretazioni allegoriche (in alcuni casi assolutamente nuove, come quella del ragno) e soprattutto per la scelta della forma poetica, che anticipa quella che sarà operata in seguito da numerosi bestiari romanzi e germanici. La successiva evoluzione del genere si intreccia con quella dei bestiari in volgare, giungendo fino alla forma che può esserne considerata la realizzazione piú compiuta e anche piú pregevole dal punto di vista artistico, in quanto ornata in diversi manoscritti da splendide miniature: quella rappresentata in particolare dal già citato Bestiario di Oxford e da quelli, simili, di Aberdeen (Univ. 24) e di Cambridge (Univ. Lib. II.4.26), tutti di origine inglese e del XII secolo. Si tratta di compilazioni molto vaste, comprendenti piú di un centinaio di animali ripartiti in numerose categorie e le cui descrizioni (attinte da opere naturalistiche o religiose di ogni genere) sono seguite da interpretazioni allegoricomorali sproporzionatamente sviluppate, a volte dei veri e propri sermoni farciti di citazioni bibliche e quasi del tutto irrelati rispetto alle «nature» zoologiche dalle quali prendono le mosse. In area inglese venne composto anche il piú

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antico bestiario romanzo a noi noto, il Bestiaire rimato di Philippe de Thaün, scritto in anglonormanno (cioè nel dialetto normanno parlato in Inghilterra) nella prima metà del XII secolo. Una importante svolta nell’evoluzione del «genere» si ebbe intorno al 1250 con il Bestiaire d’amours di Richard de Fournival, uno scrittore piccardo autore anche di poesie liriche e di trattati di vario argomento,

in francese e in latino. Il Bestiaire d’amours, che si presenta come la lettera di un amante non ricambiato dalla sua donna, introduce due innovazioni decisive: da una parte modifica radicalmente la struttura del bestiario, fondendo la sequenza di capitoletti bipartiti, dedicati rispettivamente alle «nature» e alle interpretazioni allegoriche dei singoli animali, in un discorso continuo nel quale gli stessi animali possono ripresentarsi piú volte sotto aspetti diversi; dall’altra,

La nominazione degli animali in paradiso (a destra) e le immagini di una sirena, di una fenice e di un cinomolgo (in basso), miniature dal Bestiario di Oxford (MsAshmole 1511). Oxford, Bodleian Library.

sistematizzando una pratica già introdotta dai trovatori e dai trovieri, sostituisce le tradizionali allegorie religiose con interpretazioni di argomento amoroso che riferiscono le descrizioni zoologiche ai paradossi e ai rituali dell’amore cortese. A partire dai modelli latini e francesi, con maggiore o minore originalità, si continuarono a produrre bestiari in tutte le lingue europee sino alla fine del XlII secolo e anche oltre: possediamo cosí bestiari – in prosa o rimati – in occitano, medio inglese, alto tedesco antico, islandese e cosí via. In ambito italiano ebbe grande successo il Bestiaire d’amours, di cui ci sono rimasti due volgarizzamenti toscani e dal quale deriva in larga misura anche il Libro della natura degli animali, che però restaura il carattere religioso-morale delle allegorie. Ma i testi italiani piú originali sono dei bestiari in versi: il cosiddetto Bestiario moralizzato di Gubbio, dove nel breve giro di 64 sonetti

sono compendiate e quasi cifrate altrettante descrizioni di animali con le relative moralizzazioni, e, soprattutto, quello contenuto nel III libro de L’acerba di Cecco d’Ascoli. Nel XIII secolo il materiale dei bestiari confluisce anche nelle grandi summae enciclopediche che vengono prodotte in questo periodo, come il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico o, in volgare e in ambito italiano, il Livres dou Tresor di Brunetto Latini; e qui, dissolvendosi nella piú ampia massa delle notizie zoologiche raccolte dalle fonti piú disparate, esso perde anche le interpretazioni allegoriche che lo accompagnavano. Ma il bestiario resterà nella tradizione letteraria occidentale, fino al Manuale di zoologia fantastica di Borges e ad altre opere contemporanee, una sorta di archetipo della conoscenza dei segreti piú nascosti della natura, del sogno di ridiventare un Adamo che dà i nomi a tutti gli animali in un paradiso riconquistato. Francesco Zambon dicembre

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di seduzione, d’inganno e di morte. La realtà è un po’ piú complessa. Il serpente ginecocefalo compare sin dall’età romanica, e sopravvive fino a quella barocca, quale immagine dell’Antico Serpente, il tentatore dell’Eden abbarbicato all’Albero della Sapienza del Bene e del Male. Un simbolo denso, che rinvia all’intricato statuto teoantropologico del serpente nella cultura del Vicino Oriente antico: gli aspetti insidiosi dell’esperienza divina, ma anche il suo carattere iniziatico. Nella tradizione cristiana, la testa del serpente che tenta Eva ha le stesse sembianze della Progenitrice, che sono anche le stesse della donna che al serpente schiaccerà la testa, la Vergine Maria (ex Eva, Ave). Ma d’altro canto l’identico morfema, l’immagine del serpente attorcigliato attorPortacandele in bronzo in forma di centauro. XII sec. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum.

no all’albero, torna nella simbolica veterotestamentaria, nell’Esodo, là dove il Serpente di Bronzo innalzato su un’alta picca affinché tutti possano vederlo salva chi lo contempla dai mortiferi morsi dei rettili del deserto.

La fata dei Lusignano

La donna-serpente piú nota è Melusina, fata celebre per una storia che da Walter Map (De nugis curialium) e da Gervasio di Tilbury (Otia imperialia), dei primi del Duecento, passa, tradotta in romanzo cavalleresco alla fine del Trecento da Jean d’Arras, a glorificare – ma, forse, al tempo stesso anche a segnarla d’un tratto ambiguo – l’origine di un nobile casato della Francia centrale, i Lusignano, legati da rapporti feudali alla corona d’Inghilterra. I membri di quell’illustre famiglia, che sarebbe divenuta tra XII e XV secolo la casa regnante a Cipro, erano ritenuti difatti discendenti delle nozze tra un principe e una misteriosa creatura, una bellissima donna che tuttavia, nel giorno di sabato, si trasformava in seguito a una oscura maledizione in un mostro dalle sembianze serpentine nella parte inferiore del corpo. Dolcezza, incanto, bellezza inquietante, natura «mostruosa»: questi i caratteri originali

di un simbolo che può ben a ragione inserirsi tra i grandi archetipi dell’immaginario occidentale e che sta insieme con pochi altri alla radice dell’immagine della belle dame sans merci, la donna seduttrice che conduce alla rovina: la sirena incantatrice. Per gli antichi, le sirene avevano corpo di uccello e testa femminile: esse erano quindi simili a quelle che poi sono state presentate come arpie. L’origine di questa immagine era tuttavia antica: in tal modo gli Egizi raffiguravano l’anima. Piú tardi, l’arte classica le presentò come donne la cui parte inferiore era ornitomorfa (cioè a forma di uccello) o semplicemente con zampe di volatile. Solo nell’Alto Medioevo la loro memoria si confuse con quella di altre creature demoniche e mostruose abitanti le acque, vive del resto nelle mitologie nordiche e slave non meno che in quelle greche e romane: e allora la sirena prese l’aspetto che ci è familiare nel Medioevo, come essere dal corpo femminile fornito di una o due code di pesce. F

Dove e quando

«Sangue di drago squame di serpente» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 6 Gennaio 2014 Orario tutti i giorni, 9,30-17,00; lunedí chiuso Info tel 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it Catalogo Skira Editore

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saper vedere basilica di s. marco

Per la gloria di Marco e... di Venezia di Furio Cappelli

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Avviata già nell’829, la costruzione del santuario destinato ad accogliere le spoglie dell’Evangelista – trafugate l’anno precedente da Alessandria d’Egitto – fa esplicito riferimento a due modelli illustri: il Santo Sepolcro di Gerusalemme e la basilica degli Apostoli di Costantinopoli

Venezia. La basilica di S. Marco. La costruzione della chiesa, sorta sul primitivo martyrium del IX sec., risale al 1063 e la consacrazione solenne si ebbe nel 1094.

C C

orreva l’anno 828 e due mercanti veneziani, Bono e Rustico, si trovavano ad Alessandria d’Egitto quando le locali autorità «saracene» ordinarono che, per costruire un nuovo palazzo, si prelevassero colonne e lastre marmoree da chiese cristiane e altri edifici. Tra le possibili fonti di approvvigionamento vi era anche il tempio in onore di san Marco, e, infatti, i due mercanti, che vi si erano recati in preghiera, trovarono i custodi della tomba dell’evangelista, il monaco Stauricio e il prete Teodoro, assai preoccupati di fronte a una simile prospettiva. Bono e Rustico, allora, proposero ai due di portare a Venezia le spoglie del santo, sostenendo che, poiché Marco, prima ancora di giungere ad Alessandria, aveva fondato sull’alto Adriatico il patriarcato di Aquileia, i Veneziani ne erano «figli primogeniti» ed era dunque piú che naturale che ne custodissero il corpo.

Un profumo intensissimo

I religiosi tergiversarono, finché un uomo che era entrato nella chiesa e aveva nascosto una lapide di marmo per salvarla dalla razzia non fu arrestato e duramente fustigato dai «Saraceni». Stauricio e Teodoro si convinsero allora della necessità di porre al riparo le sacre ossa da ogni empietà, e si imbarcarono nell’impresa dei due mercanti. Per non indurre sospetti, misero al posto di quelle dell’Evangelista le ossa di santa Claudia. Una scelta felice, poiché le ossa di san Marco, appena rimosse, emisero un profumo soave e potentissimo, che fu avvertito in tutta la città. Quelli che corsero a controllare il sepolcro trovarono le ossa della santa e non si accorsero del trafugamento, mentre le reliquie di san Marco, caricate su un carro, furono nascoste sotto uno strato di carne di maiale. Le guardie musulmane incontrate per strada non osarono toccare quel carico, per loro immondo, e non si accorsero del tesoro che c’era sotto. Fu cosí che i due mer-

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saper vedere basilica di s. marco canti, in compagnia di Stauricio, caricarono le reliquie sulla loro imbarcazione e fecero ritorno a Venezia. Il doge Giustiniano, all’oscuro del piano, fu ben lieto dell’impresa e accolse trionfalmente i trafugatori. Le stesse reliquie furono depositate nel Palazzo ducale, in attesa che venisse eretto l’apposito santuario. La storia fin qui riassunta è tratta dall’avventurosa Translatio sancti Marci (Traslazione di san Marco), l’opera che racconta, con inevitabili deformazioni epiche, il «sacro furto» delle celebri reliquie dell’Evangelista. È, al riguardo, l’unica fonte disponibile. L’edizione del racconto che ci è pervenuta risale alla metà dell’XI secolo, ma si può sostenere che la sua versione originale sia stata realizzata a ridosso dei fatti narrati, intorno alla metà del IX secolo. In ogni caso, non vi è ragione per dubitare sui dati essenziali della tradizione. D’altronde, un pellegrino in Terra Santa, tale Bevado, intorno all’850 fece tappa ad Alessandria per rendere omaggio alla tomba di san Marco, e seppe solo all’ultimo momento che quelle ossa non c’erano piú, perché erano state condotte a Venezia. Nella Translatio ritroviamo tutti i luoghi tipici delle narrazioni dedicate ai trafugamenti di reliquie. In particolare, il santo è ben lieto di essere trasferito (le sue ossa emanano infatti un profumo paradisiaco), poiché il suo santuario è in mano a dominatori spietati, violenti oltreché famelici di spoglie. Nell’ottica del racconto, le ossa vengono trasla-

te da un luogo a un altro, piú sicuro e ben piú onorifico, per iniziativa di due solerti mercanti, ma, nella realtà dei fatti, il corpo di san Marco è stato «acquisito» con un’azione predatoria organizzata in grande stile. Tutto fu pianificato sin dal principio con l’avallo del doge, per fare di san Marco l’elemento protettivo e il punto di forza della città lagunare, fiera della propria autonomia e della propria determinazione.

Come a Gerusalemme

dato a un architetto di nome Narsis (Narsete), forse armeno. Di questa chiesa non rimane alcuna descrizione, e non sussiste oggi alcun elemento che le possa essere riferito con certezza. Due punti, però, costituiscono una indiscussa e preziosa base per gli sviluppi futuri. In primo luogo, si afferma subito la volontà di imitare un illustre santuario ubicato nel cuore stesso della cristianità: un’imitazione magari simbolica sul piano architettonico, ma assai concreta sul piano delle

Nell’isola di Rivo Alto (Rialto), di fianco all’antico Palazzo Ducale, sorge cosí il santuario di S. Marco. La sua costruzione è già avviata nell’829 dal doge Giovanni, fratello di Giustiniano. Egli fa tesoro di un periodo di esilio in Oriente, e intende cosí realizzare una replica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che ebbe modo di vedere dal vivo. Secondo una tradizione tardiva, si sarebbe affi-

l’arrivo delle spoglie Il mosaico della traslazione del corpo di san Marco all’interno della basilica veneziana (1260-70). La grandiosa composizione, situata sopra il portale di S. Alipio, è l’unica rimasta dell’apparato duecentesco dei mosaici della facciata. Nella scena si riconosce la sagoma inconfondibile della chiesa stessa, con le sue cupole, e i cavalli bronzei portati da Costantinopoli all’indomani della IV crociata del 1204.

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funzioni e dei significati. S. Marco doveva giocare a Venezia lo stesso ruolo del Santo Sepolcro di Cristo nella Città Santa. In secondo luogo, questo ruolo doveva essere disancorato dall’autorità religiosa. Mentre il santuario della Palestina sorgeva di fianco alla residenza del patriarca, S. Marco era una chiesa di palazzo, di esclusiva pertinenza del doge. La ben meno celebre cattedrale di Venezia con la relativa sede vescovile, S. Pietro, era ubicata da tutt’altra parte,

sull’isola di Castello. S. Marco acquisí l’attuale qualifica di cattedrale solo nel 1807.

Una città ricchissima

Secondo il cronista cinquecentesco Stefano Magno, nella seconda metà dell’XI secolo la già florida Venezia aveva accumulato un tesoro cospicuo, grazie agli affari mercantili e alle prime attività in campo militare. Che cosa fare di tanto denaro? I casi erano due: o si ingaggiava una guerra o si costruiva una chiesa. Si

decise di ricostruire S. Marco, in proporzioni ben piú ampie. Il modello scelto era segno di un’ambizione che all’epoca era davvero senza pari. Si voleva infatti riproporre, nello schema generale e nelle dimensioni, la sontuosa basilica degli Apostoli di Costantinopoli (Apostoleion), ricostruita da Giustiniano tra il 536 circa e il 550, in seguito sottoposta a restauri e rifacimenti, senza modifiche significative, nei secoli IX e X. Fondata da Costantino stesso come memoriale degli Apostoli

La Translatio Sancti Marci fu probabilmente redatta poco dopo lo svolgersi dei fatti

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saper vedere basilica di s. marco

e come proprio mausoleo (vi fu sepolto nel 337), la basilica bizantina, oggi non piú esistente, era il prototipo della chiesa di Stato di antica tradizione, che legava a doppio filo la fede all’autorità laica. La basilica di S. Marco, che era al tempo stesso santuario di un evangelista (eletto ad apostolo della laguna), cappella palatina e mausoleo dei dogi, doveva adeguarsi senz’altro a una tale struttura. L’impresa fu avviata nel 1063 sotto il dogado di Domenico Contarini. Era davvero un anno cruciale, poiché alla stessa data veniva aperto un altro considerevole cantiere in un’altra grande città marinara, Pisa, laddove si eresse una chiesa ben paragonabile a S. Marco per impegno economico e significato civico, la cattedrale di S. Maria Assunta. E, nello stesso 1063, il maestro Deusdedit dava inizio alla poderosa torre campanaria della chiesa abbaziale di Pomposa, lungo la strada che congiungeva Venezia a Ravenna. La struttura, alta quasi 49 m e staccata dal corpo della chiesa, fece da apripista alla tipica serie dei campanili italiani isolati, come la stessa torre di S. Marco, vedetta e simbolo della Serenissima, completata nel 1152. La torre veneziana crollò all’im-

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provviso nel 1902, ma fu subito riedificata «come era e dove era». Collegata in origine al fabbricato delle Osterie, essa stabilí le premesse dell’attuale piazza San Marco, suggerendo di estendere il suo ristretto ambito originario con l’interramento del canale Batario che correva sul lato ovest. Intorno al 1170, intrapreso o completato l’ampliamento, sorsero sul lato settentrionale le antiche Procuratie (destinate agli amministratori della basilica), simili alle Osterie per le facciate a portico con galleria sovrastante. Nella piazzetta, a delimitare con enfasi il Molo, furono erette le colonne monumentali che tuttora si osservano (forse ispirate alle colonne onorarie che sorgevano presso l’Apostoleion), mentre il Palazzo Ducale e il contiguo Palazzo di Giustizia venivano completamente ricostruiti.

La fine del cantiere

Nel 1071 i lavori di costruzione della basilica veneziana risultano già conclusi. Si parava cosí, in tutta la sua grandezza, lo stesso edificio che abbiamo sotto ai nostri occhi, sebbene la sua veste laterizia sia «mascherata» da numerose aggiunte e modifiche. Tutti gli elementi fondamen-

In alto la piazzetta di San Marco, con le Colonne del Molo in primo piano. Nella pagina accanto pianta prospettica di Venezia (XVII sec.) nella quale sono facilmente riconoscibili, tra gli altri: 1. la basilica di S. Marco; 2. il campanile di S. Marco; 3. le Procuratie; 4. il Palazzo Ducale; 5-6. le Colonne del Molo; 7. il ponte di Rialto.

tali dell’insieme riconducono alla scomparsa chiesa di Costantinopoli. Dall’illustre basilica di Giustiniano sembrano traslati, quasi «di peso»: l’atrio frontale; l’impianto a croce greca; le cinque cupole a calotta emisferica, tre sull’asse longitudinale, due sui bracci del transetto; la suddivisione in due piani dell’alzato interno, con la creazione di gallerie (o matronei) lungo il perimetro dell’edificio (le gallerie, pavimentate in legno, saranno poi sostituite nel Duecento da camminamenti in pietra con balaustra). D’altro canto, alcuni elementi conferiscono all’impresa veneziana un tocco «latino»: il braccio occidentale dell’edificio è piú esteso degli altri, e la cupola occidentale è ampia quanto quella centrale, cosicché la pianta a croce greca viene lievemente «tradita». Per giunta, (segue a p. 78) dicembre

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saper vedere basilica di s. marco un complesso articolato e armonioso In basso pianta della basilica di S. Marco, nella quale sono indicati i monumenti piú importanti e la distribuzione dei mosaici. Monumenti 1. Portale principale 2. Gruppo dei Tetrarchi 3. Cappella della Madonna dei Mascoli 4. Cappella di S. Isidoro 5. Cappella di S. Pietro 6. Altare maggiore 7. Pala d’oro 8. Iconostasi 9. Cappella di S. Clemente 10. Altare di S. Giacomo (XV secolo) 11. Ingresso al Tesoro 12. Tesoro 13. Battistero 14. Fonte (1546) Mosaici

A. Arcone del Paradiso B. Arcone dell’Apocalisse C. Scene della Pentecoste D. Scene dalla Passione E. L’Ascensione F. San Michele con la spada G. San Giovanni H. Genealogia di Maria I. La lavanda dei piedi, le tentazioni di Gesú K. San Leonardo L. Quattro miracoli di Gesú M. San Pietro, la Resurrezione, ecc. N. L’Emanuele O. L’agnello di Dio P. Cristo in Maestà, con i santi

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Il monumento in sintesi

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Simbolo di una città

H G F

1

A

B

C

D

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N

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8 11 14 13

I K L

10

9

7 O

P

3 Perché è importante La basilica di S. Marco racchiude il nerbo dell’identità storica di Venezia. La sua configurazione architettonica, l’apparato dei suoi mosaici e ogni fastoso arredo, evocano le glorie di una città che si è inserita con autorevolezza nei rapporti tra Bisanzio e l’Occidente. 3 San Marco nella storia Il «miracolo» della presenza del sacro corpo dell’Evangelista tra le rive di una città ancora

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In alto veduta dall’alto della basilica di S. Marco e del Palazzo Ducale. Nella pagina accanto la navata centrale della basilica di S. Marco.

in corso di definizione ha trasformato Venezia in una realtà potente e indomabile. Senza la sua basilica, la Serenissima non sarebbe mai divenuta il fulcro di uno Stato. 3 San Marco nell’arte La basilica degli Apostoli di Costantinopoli è scomparsa, ma grazie a S. Marco ne abbiamo una preziosa «copia». La basilica veneziana

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Spaccato assonometrico della basilica marciana, la cui architettura si ispira alla perduta basilica degli Apostoli di Costantinopoli.

reinventa in piena età romanica un episodio di architettura giustinianea. I suoi mosaici non sono un

semplice trapianto di arte bizantina. Costituiscono un complesso multiforme, originale e irripetibile.

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saper vedere basilica di s. marco

il braccio orientale presenta una cripta tipicamente romanica a 13 navatelle, chiamata a custodire le sacre reliquie come in tanti santuari dell’Occidente. La piú antica decorazione musiva della chiesa, eseguita nell’ultimo quarto dell’XI secolo, interessò due soli punti eminenti: l’abside e l’esedra in cui si apre l’ingresso principale, sulla facciata interna. Non mancò qualche intervento isolato di carattere devozionale, come la vibrante Deposizione (oggi al Museo Marciano) ritrovata in frammenti sotto le lastre del rivestimento marmoreo, su uno dei pilastri della cupola centrale. Nella calotta dell’abside prese forma il Cristo in trono, oggi perduto (la raffigurazione attuale è un rifacimento del 1506), mentre nella fascia sottostante, tra una finestra e l’altra, si ammirano tuttora le enormi raffigurazioni dei santi patroni: Nicola (il protettore della flotta cittadina) è in posa frontale, da «icona», mentre Pietro è intento a consegnare le Scritture a Marco, che le «gira» a sua volta a Ermagora

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(il primo vescovo di Aquileia). Qui, come sottolinea Antonio Iacobini, si realizza il «manifesto» storicoideologico della chiesa, grazie a una maestranza greca che introduce con piglio monumentale il raffinato stile bizantino dell’epoca dei primi imperatori della dinastia comnena.

Il Cristo dominante

Mentre nel duomo della vicina isola di Torcello un’altra squadra di musivari greci, intorno al 1050, aveva posto al culmine dell’abside la figura della Madonna col Bambino, secondo la tradizione bizantina, a S. Marco (come si vedrà in seguito nella Sicilia normanna) l’abside è riservata invece al Cristo Pantocratore (che «domina tutto con forza»), di norma previsto all’apice di una cupola. In tal modo, quando iniziò la vasta campagna decorativa del S. Marco, intorno al 1150, la figura stessa del Cristo fece da culmine al programma iconografico, sviluppato lungo tutto l’asse longitudinale della basilica, secondo una sensibilità spaziale tipica dell’Occidente. L’impresa partí dalla cupola del

l’oro e i colori In alto particolare di uno dei mosaici del nartece, raffigurante Noè che libera gli animali dall’Arca. 1220-30. Nella pagina accanto ancora una veduta dei mosaici della basilica. Nella parte alta della foto è la cupola della Pentecoste, decorata con l’immagine della colomba dello Spirito Santo che, seduta sul trono vuoto del Messia, si congiunge al corteo degli Apostoli con lingue di fuoco.

presbiterio e si sviluppò verso l’entrata principale nell’arco di un lungo periodo, fino al Duecento inoltrato, impegnando svariate squadre di musivari, di provenienza greca ma anche di formazione locale, spesso in collaborazione tra loro, e sempre sulla scia del lessico decorativo delle chiese bizantine. Nonostante i vari apporti succedutisi nel tempo considerevole richiesto dall’esecuzione, tutto il complesso appare compatto, coeso, unitario. L’effetto è favorito da uno spazio architettonico che si espande in modo fluido, con superdicembre

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saper vedere basilica di s. marco le vicende della basilica e della serenissima 828 Provenienti da Alessandria d’Egitto, giungono a Venezia le reliquie dell’evangelista san Marco. 829 Il doge Giovanni Partecipazio I (829-836) avvia i lavori di costruzione dell’antico martyrium di S. Marco. 976 Un incendio danneggia S. Marco e l’antico Palazzo Ducale. Il doge Pietro Orseolo I (976-978) intraprende lavori di restauro in entrambi gli edifici. 1063 Inizio dei lavori di costruzione dell’attuale basilica, sotto il dogado di Domenico Contarini (1043-1070). 1071 Completamento della basilica, nella quale si celebra l’investitura del doge Domenico Selvo (1071-1084). 1081-1085 I Veneziani si alleano con i Bizantini contro il duca normanno Roberto il Guiscardo, che punta al controllo dell’Adriatico meridionale. 1082 Bolla d’oro dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno che concede ampie esenzioni ai mercanti veneziani. 1094 Consacrazione della basilica, sotto il dogado di Vitale Falier (1084-1096). 1105 Realizzazione della Pala d’oro. 1110 I Veneziani danno un contributo decisivo alla presa di Sidone durante la I crociata, ottenendo conferme e privilegi a favore della loro colonia commerciale di Acri. 1112 Battenti della porta centrale della basilica, eseguiti a Bisanzio su commissione del procuratore Leo da Molin. 1118 Alessio I Comneno, viste le iniziative militari dei Veneziani, sospende i privilegi concessi e impone l’embargo ai loro mercanti. 1126 Dopo aver subito una lunga sequela di azioni militari e di saccheggi da parte della flotta veneziana, Giovanni II Comneno riapre i rapporti politici e commerciali con la città marinara, riconfermando i privilegi già concessi da suo padre Alessio I. 1152 Completamento del campanile. 1156 Probabile ampliamento della piazza per iniziativa del doge Vitale Michiel II (1156-1172). 1159 Iscrizione della cappella di S. Clemente che attesta i lavori di rivestimento marmoreo delle pareti interne della basilica.

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1171

I l 12 marzo l’imperatore bizantino Manuele I Comneno dispone l’arresto di tutti i Veneziani residenti nei propri domini. La flotta della città marinara risponde prontamente. 1172 Vengono erette le colonne del Molo. Il doge Sebastiano Ziani (1172-1178) ricostruisce il Palazzo Ducale verso la riva e il Palazzo di Giustizia sulla piazzetta di San Marco. 1177 Papa Alessandro III si incontra nella basilica con Federico Barbarossa. 1202-1204 Partecipazione dei Veneziani alla IV Crociata con la presa di Costantinopoli, che consente un massiccio afflusso di spoglie preziose. 1209 Aggiunta di un secondo ordine alla Pala d’oro di San Marco. Probabile realizzazione del ciborio. 1211 Colonia veneziana a Creta. 1218 Onorio III chiama a Roma maestri veneziani per il mosaico absidale di S. Paolo fuori le Mura. 1261 Caduta dell’impero latino d’Oriente. Il doge perde di conseguenza il titolo di «signore della quarta parte e mezzo dell’impero di Romània». 1266 Marco Polo parte per la Cina. 1295 Ritorno a Venezia di Marco Polo. 1297 Il 28 febbraio, per reazione alle spinte del ceto popolare, si compie la serrata del Maggior Consiglio, che dà inizio a una repubblica aristocratica. 1298 La flotta veneziana viene sconfitta dai Genovesi presso Curzola. Marco Polo viene catturato. 1345 Paolo Veneziano, con i figli Luca e Giovanni, realizza la «Coperta» della Pala d’oro. 1348 La Peste nera decima metà della popolazione. 1350 circa Attuale configurazione della Pala d’oro, per iniziativa del doge Andrea Dandolo (1343-1354), che commissiona inoltre i mosaici del battistero e della cappella di S. Isidoro. Viene avviato il cantiere dell’attuale Palazzo Ducale, riunendo l’antica residenza al Palazzo di Giustizia. 1355 Si completa la decorazione a mosaico della cappella di S. Isidoro. 1394 I fratelli Jacobello e Pierpaolo delle Masegne firmano l’iconostasi. dicembre

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fici lievemente articolate. Gli stessi mosaici si sviluppano a macchia d’olio senza l’ausilio di alcuna riquadratura, su un fondo aureo compatto, che li unifica mirabilmente. Nelle fasce basali delle pareti, le superfici si rivestono di lastre marmoree sapientemente accostate, dove le venature della pietra creano una ritmica astratta di «composizioni» simmetriche, a formare una sorta di drappo continuo, cosí come si osserva ancora oggi nelle chiese giustinianee di S. Sofia a Costantinopoli e di S. Vitale a Ravenna.

il viaggio di marco Il trasporto delle spoglie dell’Evangelista da Alessandria a Venezia raffigurato in una delle formelle della Pala d’oro, un’opera di alta oreficeria voluta per decorare l’altar maggiore della basilica marciana. Realizzata nel 1105, fu poi arricchita nel 1209 con smalti provenienti da Costantinopoli.

Artisti locali...

Il discorso figurativo principale si articola secondo una sensibilità prettamente storica, consentendo al fedele di passare in rassegna, in modo coerente e progressivo, tutte le fasi della Rivelazione, a partire dal Cristo in trono dell’abside. La cupola dell’Emanuele, al di sopra del presbiterio, decorata da artisti veneziani (secondo Fulvio Zuliani già nei primi decenni del XII secolo), mette in scena Cristo nel clipeo stellato con i Profeti attorno, e allude cosí alla speranza nell’avvento dell’Atteso. La cupola centrale dell’Ascensione vede all’opera, intorno al 1170, una maestranza greca di altissima levatura, che porta al culmine i preziosismi della pittura comnena. Qui entra in scena il passato, il momento in cui si afferma la Chiesa militante. Intorno all’Asceso si profila il solenne corteo della Madonna e degli Apostoli, e, cosa inaudita in un soggetto cosí tipicamente «bizantino», si inserisce anche una schiera con le personificazioni danzanti delle Virtú e delle Beatitudini, mutuate dal repertorio della scultura e della pittura «latina». La cupola occidentale della Pentecoste è invece dedicata al presente, ossia al ritorno del Cristo che dà la premessa alla Chiesa trionfante. Vi opera una presumibile maestranza locale, in una cruciale fase di passaggio, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo. Al culmine si osserva l’Etimasia («preparazione del trono»), in cui la colomba dello

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Spirito Santo plana sul trono vuoto, destinato al Messia alla fine dei tempi. L’immagine sommitale si congiunge al corteo degli Apostoli (già incontrati nella cupola adiacente) grazie a una raggiera di lingue di fuoco. Per effetto della discesa dello Spirito Santo sugli araldi della Rivelazione, tutti i popoli della terra, raffigurati tra una finestra e l’altra (un altro inserto tipicamente «occidentale»), vengono a conoscenza del messaggio di Cristo. Come sottolinea Wladimiro Dorigo, si crea cosí una singolare fusione tra l’aspetto teologico e l’aspetto narrativo. Intorno all’asse principale della decorazione, già punteggiato da ridondanze e da «contaminazioni», si sviluppa, sin dal principio, una pletora di storie e di «icone» che completa un insieme davvero strepitante e tutt’altro che rigoroso, dotato di

una forza innegabile proprio per la sua ricchezza figurativa e narrativa. Spiccano le storie dedicate a Cristo e a Maria, e i cicli agiografici dedicati a diversi santi. Con ovvia insistenza, si ribadisce in piú punti il valore della missione apostolica di san Marco, araldo di Cristo.

...e maestranze greche

Il ciclo cristologico, già avviato intorno al 1150 nel transetto sud, prosegue poi nell’arcone sud di fianco alla cupola dell’Ascensione, dove le maestranze locali sperimentano una forma di racconto in sequenza, basata sulla ripetizione dei personaggi entro la stessa fascia, come nelle Tentazioni di Gesú. La maestranza greca di alto livello che decora la stessa cupola intorno al 1170, realizza nuove storie nell’arcone ovest (il famoso arcone della Passione). Le figure

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aliquatur adi odis A sinistra particolare del gruppo inDidascalia Provenienti anch’essi da que vero ent conectu rehendebis eatur porfido dei Tetrarchi, proveniente daqui doloreium Costantinopoli, furono collocati sulla tendamusam perspiti conseque Costantinopoli e collocato all’angolo facciata consent, della basilica marciana, eaquisrimasti earuntia apienda. sud-ovest del Tesoro, tra la basilicanis maxim dove sono finocones al 1977. di S. Marco e il Palazzo Ducale. Sostituiti da una copia, gli originali In basso i cavalli di S. Marco. sono custoditi nel Museo Marciano.

Dove e quando Basilica di S. Marco Venezia, piazza San Marco, 1 Orario lu-sa, 9,45-17,00; do e festivi, 14,00-16,00 Info www.basilicasanmarco.it; www.museosanmarco.it Note un biglietto cumulativo consente di visitare il presbiterio (dove si può ammirare la Pala d’oro) e il Tesoro (sul fianco destro della basilica), il cui primo nucleo fece seguito al sacco del 1204: si tratta di una ricchissima esposizione di sculture, oreficerie, smalti, vetri, in larga parte pezzi unici di produzione bizantina. Nel Museo Marciano, al di sopra dell’atrio, si possono ammirare, tra l’altro, l’originale della quadriga e la «coperta» della Pala d’oro.

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acquisiscono vigore monumentale, le scene si stagliano con forza sul fondo aureo, e non si rinuncia a un forte piglio narrativo. Il Tradimento di Giuda e la Sentenza di Pilato si susseguono senza alcuna cesura. Oltre alle consuete didascalie che riassumono i passi biblici, si leggono anche le battute del dramma, riportate su rotoli di pergamena che gli stessi personaggi «parlanti» esibiscono. Una maestranza veneziana ormai autonoma e assai agguerrita, richiesta nella stessa Roma, realizza poi la stupenda Orazione nell’orto della navata destra, eseguita prima del 1218. All’interno dello stesso riquadro il racconto si articola in sei sequenze, con il Monte degli Ulivi che si ripete sullo sfondo per tre volte.

Oro e smalti

La Translatio di san Marco ha trovato una sua prima versione iconografica grazie a una serie di 10 placchette a smalto che si susseguono lungo la cornice della Pala d’oro, una grandiosa opera di oreficeria posta a decorare l’altar maggiore nel 1105, arricchita di un nuovo ordine nel 1209 (con smalti depredati a Costantinopoli) e poi sontuosamente «reimpaginata» alla metà del Trecento. Assai vivaci, le scene dedicate alle reliquie dell’Evangelista, presenti già nella prima versione dell’arredo, vengono poi «tradotte» in mosaico all’avvio della decorazione generale della basilica (1150 circa), nell’arcone sud del presbiterio. Con quelle immagini si enuncia il fondamento della dignità storica della Repubblica veneziana. Non a caso, nella sottostante cappella di S. Clemente, era presente il seggio del doge. Dopo la presa di Costantinopoli (1204), al momento della sua elezione e in altre occasioni solenni, lo stesso doge saliva sul pulpito destro, ricco di marmi di recupero in porfido rosso, antico attributo del potere imperiale. Dalla parte opposta del presbiterio, dove si situa la cappella di S. Pietro, l’immagine musiva di san Marco è riproposta in chiave prettamente religiosa, in rapporto al fondatore della Chiesa universale. E in

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quella cappella era presente il seggio del primicerio, l’officiante nominato dal doge, che predicava dal pulpito di sinistra, coronato da una cupoletta metallica su cui svetta un Ercole reggicroce fuso in bronzo. Nella stessa epoca dei due pulpiti, forse in relazione con l’arricchimento duecentesco della Pala d’oro, venne eretto il ciborio, con le sue colonne istoriate di alabastro che ripropongono con ammirevole efficacia i canoni della scultura paleocristiana, in perfetto accordo con un ambiente che rende viva e presente la dimensione eroica della Chiesa dei primordi. Sotto il dogado di Enrico Dandolo, Venezia partecipa alla IV Crociata (1202-1204). A seguito dell’accennata presa di Costantinopoli, la Serenissima assume una dignità imperiale, e riconfigura di conseguenza la «sua» basilica, facendovi affluire materiali pregiati, che vengono riutilizzati con grande sagacia. L’atrio frontale si prolunga sui fianchi dell’edificio, e tutta la facciata è rivestita di marmo. Sotto la quadriga di bronzo dorato (presa all’ippo-

Da leggere U Giovanni Lorenzoni, Venezia,

in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. XI, Treccani, Roma 2000; pp. 524-553 U Wladimiro Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città medievale fino all’età gotica, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2003 U Antonio Iacobini, Il mosaico in Italia dall’XI all’inizio del XIII secolo: spazio, immagini, ideologia, in Paolo Piva (a cura di), L’arte medievale nel contesto, 300-1300. Funzioni, iconografia, tecniche, Jaca Book, Milano 2006; pp. 463-499 U Fulvio Zuliani (a cura di), Veneto romanico, Jaca Book, Milano 2008 U Patrick J. Geary, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo (secoli IX-XI), Vita e Pensiero, Milano 2000

dromo di Costantinopoli), le colonne di porfido rosso si concentrano sull’ingresso centrale, nobilitato da un tripudio di archi istoriati (12201265). In assenza di una specifica tradizione locale, prendono spazio maestranze padane che introducono le conquiste tematiche e formali della terraferma, soprattutto nella raffigurazione dei Mestieri nell’intradosso del terzo arco, di grande energia plastica e compositiva.

Echi bizantini

Una nuova campagna decorativa, che si prolunga fin oltre la metà del Trecento, riveste di mosaici l’intero circuito dell’atrio, un tratto del quale, sul fianco destro, viene trasformato in battistero nei primi decenni del XIV secolo. I maestri veneziani, in particolare nelle storie di Noè (1220-30) e di Mosè (1250-70), sviluppano una vena narrativa e un vivace senso dell’ambientazione che era già nelle loro corde. Al tempo stesso, grazie anche al diretto intervento di maestri greci, si mantiene ben solida una fertile vicinanza alla grande tradizione bizantina, in tutte le sue accezioni, sia nei suoi severi risvolti monumentali che nel gusto del racconto. Sull’onda di queste esperienze, in una vivace dialettica tra la cultura adriatica e la «rivoluzione» giottesca, si forma, in pieno Trecento, un artista locale come Paolo Veneziano, che nella solenne «coperta» destinata a occultare la Pala d’oro nei giorni feriali (1345), oggi al Museo Marciano, lascia un forte segno di sé nel cuore della basilica. Verso la fine del secolo, i fratelli veneziani Jacobello e Pierpaolo delle Masegne, valenti scultori e architetti, chiudono l’area presbiteriale con la loro solenne iconostasi marmorea, decorata lungo l’architrave da vigorose statue di santi, in linea con il nuovo «classicismo» della scultura lombarda e toscana. F

Nel prossimo numero ● Il ciclo arturiano del Duomo di Modena

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di Furio Cappelli

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

I Magi, in una delle lastre bronzee della Porta di S. Ranieri, realizzata da Bonanno per la cattedrale di S. Maria Assunta. 1180 circa. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo. Nel testo di una stele trovata in Cina, a Xi’an, e databile al 781, il prete-monaco nestoriano e «papa» dei cristiani cinesi, il persiano Adam, detto in cinese Ching-ching, descrive la visita dei Magi al Bambino Gesú come una sorta di ambasceria ufficiale, decisa dalle alte sfere della casta sacerdotale persiana.

Cristiani nella terra dei

Magi

In una stele dell’VIII secolo rinvenuta in Cina si narra di una religione «della pura luce» annunciata da una stella. E il testo in ideogrammi incisi sul monolite è sormontato da una piccola croce… Inizia cosí il racconto di una vicenda affascinante e sconosciuta ai piú: quella della diffusione della Buona Novella nelle terre a oriente della Palestina


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el 1623 un illustre cinese di fede cristiana, Li Chih-tsao (noto ai Gesuiti dell’epoca con il nome di Dottor Leone), fece una scoperta sensazionale. Alla periferia della città di Xi’an, laddove sorgeva Chang’an, antica capitale del Celeste impero, riportò alla luce una stele di pietra alta piú di 2 m, con un lunghissimo testo articolato in 1773 ideogrammi cinesi. L’opera era stata realizzata nel 781 d.C., sotto il regno dell’imperatore Dezong (779-805) della dinastia Tang (681-906). Di primo acchito poteva sembrare una di quelle stele monumentali erette in gran numero per celebrare personaggi ed eventi della storia dell’antica Cina (il museo che nella stessa Xi’an la conserva ne ha una collezione cosí ampia – circa 3000 esemplari – da meritare il nome di Foresta di Stele). Ma quella del Dottor Leone possedeva due particolarità che le altre non avevano. I draghi che si avviluppano alla sommità, in perfetta simmetria, avvinghiati a una perla infuocata centrale, rientrano fra le consuetudini iconografiche e decorative piú radicate nella cultura dell’Estremo Oriente.

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Aluoben, mercante e ambasciatore

Verso la Cina, a bordo di una nuvola Nella stele di Xi’an, Adam/ Ching-ching rievoca la storia della missione cristiana in Cina. Il punto di partenza è la venuta del persiano Aluoben nel 635. Sceso da una nuvola risplendente, fu ricevuto a corte con un carico di ricchi doni per l’imperatore Taizong (626-649), che lo accolse con grande onore. Tre anni dopo, il sovrano emise un decreto, riportato per intero nella stele, proprio in onore di Aluoben, in seguito Gran Signore della Legge e Guardiano del Regno. Dopo la traduzione in cinese, gli fu concesso di depositare nella biblioteca imperiale i libri sacri che aveva con sé. Ebbe il permesso di costruire un quartiere e un monastero per i propri correligionarii proprio nella capitale Chang’an, nello spazio occidentale fittamente frequentato dai mercanti, dai diplomatici e dai viaggiatori che giungevano alla città della «pace eterna», al capo estremo delle piste

carovaniere che attraversavano le oasi dell’Asia centrale. In quello spazio la stessa stele faceva bella mostra di sé, e lí sorgeva il «mercato occidentale», cinto da proprie mura e specializzato nei prodotti di importazione dalla Persia, dalla Sogdiana, dall’India o dal Sud-Est asiatico, mentre il simmetrico «mercato orientale» era dedicato alle produzioni locali. Si ritiene che lo stesso Aluoben fosse in origine un mercante, e l’editto imperiale del 638 gli riconosce alte conoscenze dottrinarie e linguistiche, grazie alle quali svolse attivamente la sua funzione di missionario, rimanendo in Cina in pianta stabile. Lo stesso editto conferma che Aluoben aveva la qualifica di ambasciatore ufficiale. Come i Persiani che andarono a rendere omaggio al Salvatore, egli si fece interprete e propagatore del messaggio divino, affinché il sovrano cinese divenisse depositario della luce della Rivelazione.

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il tesoro del dottor leone Tre immagini della stele rinvenuta a Xi’an dal Dottor Leone nel 1623 e oggi conservata nello Shaanxi History Museum. A sinistra la stele ancora in situ in una foto del 1907. In alto la replica del monumento, conservata al Musée national des arts asiatiques Guimet di Parigi. Nella pagina accanto la sommità del monolite, in cui, tra una perla infuocata centrale e un testo in ideogrammi, è incisa una croce cristiana.

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Dossier E proprio nel mezzo di quegli esseri favolosi, al di sotto della perla, compare una croce, incisa in modo quasi sfuggente tra le poderose spire a rilievo dei draghi. Nel campo dell’iscrizione, specialmente in basso, si insinuano poi alcune righe di corredo incise in siriaco, con le lettere dell’alfabeto aramaico: si tratta di singoli paragrafi e di una lista di oltre 70 nomi. Le lettere in uso tra le popolazioni di un lontano Paese «occidentale» (tale è la Siria nell’ottica della Cina) e l’inconfon-

profilo sintetico della sua dottrina, e, quando giunge a trattare dell’Incarnazione, ricorda che una stella annunciò la nascita del Salvatore, cosí come è attestato nel passo del Vangelo di Matteo (2, 1-12). Scorgendo lo splendore dell’astro, i Persiani ne compresero il significato e vollero rendere omaggio al Signore recandogli dei doni. Matteo parla in modo generico di «magi» venuti dall’Oriente, nell’intento di registrare una immediata risonanza universale

scismi e nuove chiese Sulle due pagine la cartina mostra la dislocazione e la diffusione delle Chiese orientali non ortodosse, sviluppatesi ai margini delle quattro Chiese dipendenti dai patriarcati orientali (Alessandria, Costantinopoli, Gerusalemme, Antiochia). Esse nacquero, innanzitutto, per questioni dogmatiche, alle quali, spesso, si affiancarono motivi nazionalistici.

Mar Tirreno

Mar Ionio

MAR MEDITERRANEO Darnis Tolemaide

dibile croce cristiana potrebbero sembrare fuori luogo, ma, leggendo il testo della stele, se ne comprende il senso: il monolite, infatti, parla di cristiani in terra cinese, raccontandone le vicende e le convinzioni.

Religione della pura luce

Nel titolo il cristianesimo è definito «la religione della pura luce». Il redattore – missionario, pretemonaco e «papa» dei cristiani cinesi – viene dalla Persia e si presenta sotto una duplice veste: il suo nome di battesimo è Adam, come attesta la dicitura in siriaco, ma i Cinesi lo chiamano Ching-ching. Traccia un

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Qui sopra miniatura raffigurante i quattro Evangelisti, da un vangelo nestoriano copiato a Mosul (Iraq). 1499. Londra, British Library.

arianesimo Dottrina condannata al concilio di Nicea (325), laddove si enuncia l’unione sostanziale in Cristo dell’umano e del divino. Ario di Alessandria (256-336) sostiene invece che il Figlio è solo partecipe della grazia, mentre il Padre è ben distinto nella sua natura divina assoluta e trascendente.

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monofisismo Dottrina condannata al concilio di Calcedonia (451) che si rifà all’insegnamento del monaco Eutiche (V sec.). Si nega la duplice natura di Cristo per asserire che la natura divina ha totalmente assorbito quella umana. A tali principi si ispira, tra le altre, la Chiesa giacobita di Siria.

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LE CHIESE CRISTIANE SEPARATE NEL MEDIOEVO Patriarcato di Alessandria:

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Patriarcato dei nestoriani Metropoli dei nestoriani Herat

Patriarcato dei giacobiti Metropoli dei giacobiti

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COPTI

Vi rientra la corrente nestoriana che fa capo a Nestorio di Costantinopoli (morto nel 451), la cui dottrina fu condannata al concilio di Efeso (431). Le due nature di Cristo sono congiunte, ma l’unione Mar Arabi co le mantiene inalterate e distinte.

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OCEANO INDIANO In alto, sopra la cartina frammento di pittura parietale con Cristo tra angeli. VII sec. Il Cairo, Museo di arte copta.

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la diffusione del cristianesimo persia

roma e bisanzio

325 circa Morte di Papa bar Aggai, primo vescovo accertato di Ctesifonte. 336 Costantino Magno dichiara guerra alla Persia. 339 Inizia la persecuzione dei cristiani in Persia per mano del re Shapur II. 363 Morte in Mesopotamia di Giuliano l’Apostata. 379 Morte di Shapur II e fine della persecuzione dei cristiani in Persia.

380 L’imperatore romano Teodosio I promuove il cristianesimo a religione di Stato.

410 Sinodo di Seleucia-Ctesifonte, sotto la presidenza del sovrano Yazdgard I. 421-422 Guerra santa tra l’imperatore romano d’Oriente Teodosio II e Bahram V di Persia. 424 Nel corso di un sinodo, viene sancita la frattura definitiva tra la Chiesa persiana e la Chiesa dell’Oriente bizantino. 451 Sinodo di Calcedonia, presieduto 451 Il re Yazdgard II impone la dottrina mazdea dall’imperatore romano Marciano. Viene come religione di Stato in Armenia. riaffermata la consustanzialità di Cristo. 482 L’imperatore romano Zenone promulga l’editto dell’unione (Henotikon) per porre rimedio ai dissidi interni della Chiesa, ma ottiene solo la radicalizzazione dello scontro tra monofisiti, duofisiti e ortodossi. 484 Trattato di pace tra l’Armenia e la Persia. I cristiani armeni ottengono la messa al bando del mazdeismo. 486 Sinodo di Seleucia-Ctesifonte indetto dal katholikos Acacio. Si ufficializza la Chiesa duofisita della Persia. 519 Giustino I abroga l’Henotikon e inizia a perseguitare monofisiti, duofisiti e ariani. 533 Giustiniano dichiara eretica la dottrina duofisita. 562 Pace di 50 anni tra Giustiniano e Cosroe I, con il riconoscimento dei diritti dei cristiani in Persia. L’esercito di Cosroe II espugna Gerusalemme e trafuga la Vera Croce. 614 628 Martirio di Mogundat/Anastasio (22 gennaio). Giunge notizia della morte del sovrano Cosroe II (28 febbraio). 635 L’ambasciatore persiano Aluoben si reca in Cina, e illustra all’imperatore Taizong la La diffusione della religione dottrina cristiana. 638 Taizong concede alla comunità cristiana cristiana nelle regioni locale di risiedere in un proprio quartiere orientali e poi in Cina si inserí nella capitale Chang’an. 651 Morte di Yazdgard III, ultimo imperatore in un contesto geopolitico che, sasanide. dopo la caduta dell’impero 677 Peroz III, figlio di Yazdgard, chiede all’imperatore Gaozong il permesso per romano d’Occidente, fu edificare una chiesa a Chang’an. protagonista di ripetuti 781 Stele di Xi’an, redatta dal prete-monaco Adam/Ching-ching. mutamenti

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dell’evento, ma Adam/Chingching parla in modo determinato di «Persia», e sembra quasi intendere che l’autorità sovrana di quel Paese predispose un’ambasceria ufficiale. La visita al Bambino di Betlemme non sarebbe stata frutto dell’iniziativa individuale di sapienti conoscitori del divino, ma sarebbe scaturita dalle alte sfere della casta sacerdotale dell’impero, l’unica che poteva esprimersi in materia religiosa in nome della Persia e del suo sovrano. La «Persia» a cui il redattore della stele si riferisce, sia essa la Persia partica (erano i Parti a reggere l’Eranshar, il regno iranico, all’epoca della nascita di Cristo), o piuttosto la Persia sasanide, aveva come religione dominante il mazdeismo, di cui Zarathustra (o Zoroastro) era il profeta. Divenuta religione di Stato sotto i Sasanidi, la dottrina mazdea aveva in comune con il cristianesimo la credenza in

un Salvatore dell’umanità che sarebbe comparso sulla scena alla fine dei tempi. Come ha evidenziato lo studioso Antonio Panaino, anche il Salvatore persiano sarebbe stato messo al mondo da una vergine, e, con la rinascita dei defunti e la rigenerazione dell’universo, avrebbe decretato la vittoria finale del dio supremo Ahura Mazda sulle tenebre. Non c’è allora da stupirsi se il Vangelo arabo dell’Infanzia, un apocrifo elaborato in Siria alla metà del VI secolo, riconosca esplicitamente in Cristo il Salvatore profetizzato da Zarathustra. Dal canto suo, Adam/ Ching-ching, suggestionato da un simile sincretismo di idee e di immagini religiose, era convinto che la «sua» Persia avesse riconosciuto in Cristo il proprio Salvatore. Quando passa a illustrare la Redenzione, il prete persiano evoca il trionfo del Cristo-sole luminoso sulle potenze delle tenebre, proprio come un fedele mazdeo rappresenterebbe lo scontro finale tra Ahura Mazda e il malefico Ahreman.

Il giubilo dei Gesuiti In alto testa in argento e mercurio dorato, verosimilmente raffigurante Shapur II (309-379), sovrano della dinastia sasanide in Persia. IV sec. New York, Metropolitan Museum of Art. A destra disegno ottocentesco che ritrae Taizong (626-649), secondo imperatore della dinastia Tang. Londra, British Library. Nel 635 il sovrano accolse l’ambasciatore persiano Aluoben, divenuto sotto Gaozong (649-683) Gran Signore della Legge e Guardiano del Regno.

I Gesuiti, che nutrivano grandi propositi di evangelizzazione dell’Estremo Oriente, sull’onda della missione intrapresa a Canton da padre Matteo Ricci nel 1583, accolsero con grande giubilo la notizia della scoperta della stele di Xi’an, ma sorvolarono su un fatto essenziale. Quegli antichi cristiani giunti in Cina non erano missionari dell’ortodossia, ma erano eretici! Se li avessero avuti davanti agli occhi, li avrebbero guardati con fredda supponenza. Quei cristiani della Persia erano infatti nestoriani o, per essere piú precisi, duofisiti. Non aderivano alle conclusioni del concilio di Calcedonia (451), preferendo riconnettersi ai dettami della scuola siriaca di Antiochia, con particolare riguardo al pensiero del suo «capo» Teodoro di Mopsuestia. Non erano, quindi, per nulla convinti della consustanziali-

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In alto particolare di una pittura murale del battistero di un’abitazione-chiesa cristiana di Dura Europos (Siria) raffigurante due donne munite di torce e recipienti vicino a un sarcofago con stelle luminose sul coperchio, forse una rappresentazione della visita delle donne al sepolcro di Cristo il Lunedí dell’Angelo. 232. New Haven (USA), Yale University Art Gallery.

Qui accanto dracma di Shapur I (241-272 d.C.), conquistatore di Dura Europos. III sec. d.C. Al dritto, il profilo del sovrano; al rovescio, un fuoco che arde su un altare, tra due attendenti. A destra Dura Europos. Resti di una casa congiunta con una grande stanza che fungeva da sala liturgica e con annesso il battistero. I o II sec. d.C.

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tà di Cristo, cioè del fatto che in lui l’elemento divino e quello umano fossero fusi nel profondo del suo essere. Per i duofisiti, come indica lo stesso termine che li designa, due erano le nature di Cristo, unite sí, ma, in un senso morale, essenzialmente distinte. La divinità si era unita all’uomo per un atto di compiacenza nei suoi riguardi. E i duofisiti si erano arroccati su questa interpretazione anche per rivendicare un’autonomia e un’autorità proprie, sin dal 486. La loro fu l’unica voce del cristianesimo in Estremo Oriente per almeno sette secoli, finché, all’epoca di Marco Polo, non si fecero strada le prime missioni degli Ordini mendicanti. Ma qual era l’origine di questa Chiesa persiana, cosí dinamica e intraprendente, e per tanti versi a noi ignota? Le informazioni al riguardo derivano perlopiú da racconti elaborati in epoca tardiva, per ricollegare gli episcopati del mondo iranico alle fonti stesse del messaggio cristiano. Era d’altronde piuttosto credibile che le terre a est della Palestina fossero tra le prime a conosce-

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re la Rivelazione. Si creavano cosí liste di katholikoi (i vescovi-patriarchi della capitale Ctesifonte, dal V secolo rappresentanti della «Chiesa siriaca d’Oriente»), i cui primi nomi si riconnettevano alla predicazione di san Tommaso, l’apostolo dell’India. Erano in lista anche parenti di Gesú, oppure apostoli dell’illustre sede siriaca di Edessa o i loro piú antichi discepoli.

I dubbi dei sapienti

Le Scritture stesse erano chiare su due punti. Come risulta dagli Atti degli Apostoli (2, 9-11), la buona novella si diffuse anche presso «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia». E mentre gli scribi e i sapienti del Tempio ebraico di Gerusalemme si rifiutavano di riconoscere l’avvento del Messia, proprio dalla Persia erano giunti i Magi evocati da Matteo. È certo, comunque, che il primo vescovo attestato a Ctesifonte fu Papa bar Aggai, morto intorno al 325, successore di quel Mari che, formatosi alla predetta scuola di Edessa, era partito alla volta della

Persia e aveva evangelizzato molte città, finendo per essere annoverato tra i diretti seguaci di san Tommaso. Nel tentativo di far riconoscere al suo episcopato la qualifica di sede egemone della Persia, come diretta emanazione della Chiesa siriaca, Papa bar Aggai aveva incontrato tenaci resistenze. Nel corso di un sinodo piuttosto animato, prese la parola chiamando a testimone il Vangelo, e proprio in quel mentre, per la gioia dei suoi oppositori, fu colto da una paralisi. Dopo i marosi della persecuzione ordita tra il 339 e il 379 dal tremendo re Shapur II (309-379), nel 410 si posero le fondamenta identitarie e organizzative della Chiesa della «Siria orientale», grazie al sinodo indetto a Seleucia Nuova, di fianco a Ctesifonte, alla presenza del sovrano Yazdgard I (399-421), che fungeva da presidente dell’assemblea. Gli organizzatori erano il presule locale Isacco e il suo collega romano Maruta, che presiedeva Martyropolis (corrispondente alla città turcoorientale di Silvan), importante diocesi di confine. Lo stesso Maruta, a

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Dossier quanto pare, si era guadagnato le simpatie del re in virtú delle sue arti mediche, grazie alle quali lo aveva guarito da una grave malattia. E non è il solo cristiano che fece breccia nell’animo dei sovrani sasanidi per le brillanti competenze in fatto di medicina o di profezie. L’abate Jérôme Labourt, grande storico della Chiesa persiana (18741957), ha paragonato il sinodo del 410 al ben piú celebre concilio di Nicea (325), presieduto da quel Costantino Magno che aveva giocato un ruolo di apertura e di distensione nei riguardi del cristianesimo, in modalità simili a quelle messe in atto da Yazdgard nella capitale del suo impero. D’altronde, le risoluzioni di Nicea furono richiamate di continuo nel corso dei lavori e fu eviden-

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te un’opera di ricongiungimento con i «Padri occidentali». Come l’impero romano dopo la Grande persecuzione di Diocleziano, anche la Persia usciva da lunghe fasi di ostilità nei riguardi dei cristiani e le parole del re acquisite agli atti della solenne assemblea, laddove egli assicura la cessazione di ogni ostilità, la restituzione di ogni bene e il restauro degli edifici cristiani danneggiati dallo Stato, possono suggerire un parallelo con l’editto di Milano del 313. Di sicuro il sovrano della Persia era stato in buoni rapporti con l’imperatore romano d’Oriente Arcadio (395-408), di cui aveva adottato il figlio Teodosio

(che salí al trono come Teodosio II), e l’affermarsi di una Chiesa della Persia aveva anche un’implicazione politica, poiché serviva ad arginare la fascinazione del mondo romano su ampie fasce della popolazione.

Leader dei cristiani

I cristiani, infatti, guardavano con invidia i confratelli che di là del confine dell’impero potevano liberamente professare la fede, divenuta per giunta, con Teodosio I, religione di Stato (380). Yazdgard voleva guadagnarsi le loro simpatie, e cercava di allinearli ai dogmi e ai modelli organizzativi della Chiesa «cesaropapista» di Roma, in modo da acquisire un ruolo di leader della cristianità, in chiara competizione con l’impero romano d’Oriente.

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In alto pira con sacerdoti persiani, acquatinta realizzata per l’opera Il costume antico e moderno, pubblicata a Torino nel 1830-1833. A sinistra Naqsh-e Rostam, Iran. La struttura nota come Ka’ba-ye Zartosht (Cubo di Zoroastro), forse utilizzata come tempio del fuoco. V sec. a.C.

Il disegno di Yazdgard era però destinato a fallire su tutti i fronti. Il clero mazdeo guardava con orrore l’opera avventata di questo «eretico» e «peccatore», che si era messo al servizio di una fede che disconosceva i fondamenti religiosi dell’autorità dello Stato. Come se non bastasse, aveva anche sposato un’ebrea, venendo meno alla buona regola che imponeva ai sovrani e ai nobili di contrarre matrimonio solo con donne di fede mazdea. Ma anche i cristiani erano insoddisfatti: proprio ora che la loro posizione era legittimata dallo Stato, fomentarono discordie interne e dettero luogo a temerari gesti plateali contro i simboli della fede nemica.

La frattura definitiva

Di fatto, come già ai tempi di Papa bar Aggai, non tutti i vescovi accettavano che il presule di SeleuciaCtesifonte, insediato presso la residenza invernale del re, si ergesse a loro capo indiscusso. Vi erano

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anche posizioni ostili al ricongiungimento con la Chiesa romana, con le imposizioni che questo comportava sul fronte dottrinale, tanto che, nel 424, si giunse a una frattura definitiva. L’ostilità verso la fede mazdea derivava sia dalle ferite ancora aperte delle persecuzioni patite, allorché il clero mazdeo aveva agito da braccio armato del sovrano, sia dal fatto che proprio ora che i cristiani non erano piú una minoranza bistrattata, volevano giocare lo stesso ruolo dei confratelli romani. Se questi ultimi erano tenuti in palmo di mano in ogni settore della società, avendo per giunta ottenuto la definitiva messa al bando degli dèi «falsi e bugiardi», perché mai in Persia i fuochi sacri del «paganesimo» ardevano ancora indisturbati? Si poneva questa domanda, per esempio, il prete Hashu della città di Hormizd-Ardashir, nell’antica Susiana (Iran occidentale). Nel 420, forse su istigazione e comunque con

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Dossier Il ripetersi di atti ostili al mazdeismo indusse Yazdgard I ad abbandonare la sua politica di tolleranza Miniatura raffigurante il sovrano sasanide Bahram V intento alla caccia dell’onagro, da un’edizione dello Shahname (Libro dei Re) del poeta Firdusi nota come Shahname Demotte, dal nome del mercante che l’aveva posseduta e ne vendette, smembrandoli, vari fogli. 1335-1336. Worcester (USA), Worcester Art Museum. Nel 421 Bahram V dichiarò guerra a Teodosio II, rifiutatosi di estradare i cristiani persiani emigrati nei territori dell’impero. La guerra si concluse nel 422 con la sconfitta dei Persiani.

il consenso del vescovo locale Abda, egli distrusse il pireo, ossia il tempio mazdeo che racchiudeva il fuoco sacro, reo di sorgere troppo vicino alla cattedrale. Il grave atto «vandalico», denunciato a gran voce dai magi della città, determinò l’arresto dell’esecutore materiale, del vescovo e di alcuni loro parenti e correligionari, che furono poi deportati a Ctesifonte, al cospetto del re. Trattandosi di un tempio della religione di Stato, le accuse mosse

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agli inquisiti erano molto gravi, poiché il sacrilegio aveva comportato la distruzione di una proprietà sovrana e un affronto alla persona del re.

Il vescovo sacrilego

Il vescovo negò ogni coinvolgimento e prese le distanze, ma il prete Hashu, con particolare veemenza, si mostrò fiero dell’atto compiuto e si lasciò andare a giudizi oltraggiosi sulla fede mazdea. Non abbiamo un rendiconto com-

pleto del processo, ma sappiamo che nella fase finale fu chiesto al vescovo Abda di ricostruire il tempio ed egli rifiutò sdegnosamente. A quel punto il re Yazdgard lo fece condannare a morte. Accanto a questi atti plateali del clero cristiano vi erano segnali non meno preoccupanti da parte della nobiltà persiana. Si diffondeva sempre piú la tendenza ad abbandonare la fede mazdea a favore del cristianesimo, nonostante l’apostadicembre

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messa. Fu subito arrestato e imprigionato e, visto il reiterato rifiuto di rimettere tutto a posto, venne condannato a morte.

Inversione di rotta

Messo di fronte al moltiplicarsi di simili situazioni, Yazdgard fu costretto a cambiare bruscamente rotta rispetto alla precedente strategia di distensione e di tolleranza. Ingaggiò cosí il gran sacerdote Mihr-Narseh, nemico giurato dei cristiani, per contenere le loro intemperanze. Di nobile e potente famiglia, ricco al punto da poter vantare il soprannome onorifico di Hazarbandagh («colui che possiede mille schiavi»), Mihr-Narseh si riteneva discendente del semileggendario sovrano Ishtasp, il protettore del profeta Zarathustra, e svolse il suo ruolo di spauracchio dei cristiani con uno zelo indiscutibile, rimanendo a fianco dei due

In alto ritratto marmoreo dell’imperatore d’Oriente Teodosio II (408-450). V sec. Parigi, Museo del Louvre. A destra rovescio di un denario di Teodosio II che raffigura l’imperatore in piedi, con uno stendardo e un simulacro della Vittoria, mentre poggia il piede su un prigioniero. Zecca di Costantinopoli, V sec.

sia di un nobile mazdeo fosse punita con la morte. Un caso esemplare è quello del prete Shapur («figlio di re», nome tipicamente iranico). Egli convinse il nobile Adhufarnabagh a convertirsi al cristianesimo, e lo convinse anche a cedergli un terreno sul quale costruí una chiesa. Lo scandalo fu subito di dominio pubblico, ma il re volle evitare un arresto immediato dell’apostata. Grazie all’intervento del «capo dei magi», il mobadh Adhurboze, il nobile tornò alla fede mazdea e richiese indietro

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il titolo di proprietà del terreno al prete Shapur. Istigato da un altro prete cristiano di nome Narsete, Shapur si rifiutò di restituire l’atto di cessione, e si allontanò senza lasciar traccia. Nel frattempo, la chiesa edificata sul terreno dell’apostata pentito fu convertita in un pireo. Ma un bel giorno il prete Narsete, come se nulla fosse, entrò nell’ex chiesa, estinse il fuoco sacro, ammucchiò in un angolo le suppellettili «pagane», e riallestí l’altare cristiano, celebrandovi

successori di Yazdgard I, il figlio Bahram V (421-439) e il nipote Yazdgard II (439-457). In particolare, Mihr-Narseh condusse di persona la guerra fallimentare che Bahram dichiarò nel 421 all’imperatore Teodosio II (lo stesso che il padre Yazdgard aveva adottato), allorché il sovrano romano si era rifiutato di estradare un gran numero di cristiani della Persia – tra cui un consistente gruppo di preziosi minatori armeni –, emigrati in massa, grazie anche alla

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

complicità degli Arabi cristiani che militavano lungo la frontiera. Figlio di un’ebrea e di un protettore dei cristiani in pace con Roma, amico degli sceicchi lakhmidi alleati della Persia e seguaci di Cristo, Bahram (il semileggendario Bahram Gur, «l’Asino selvatico») aveva agito per ragion di Stato, esattamente come fu costretto a fare suo padre per

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esigenze di «ordine pubblico», e dovette essere ben lieto di intavolare le trattative di pace del 422, con la riconferma della pace verso i cristiani stipulata dal genitore nel 410. Il gran sacerdote Mihr-Narseh, tornato all’attacco dei cristiani, guadagnò poi una vittoria sotto Yazdgard II, nel 451, al culmine di una poderosa campagna di con-

versione forzata degli Armeni, in maggioranza cristiani e per giunta filobizantini. Il mazdeismo non ebbe però facile vita in quella terra aspra e orgogliosa. La Persia fu sconfitta nello scontro finale contro la guerriglia condotta abilmente dal fiero Vahan Mamikonean, che sfoggiò un’intransigenza esemplare nel trattato di pace del 484: non solo il dicembre

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Giuliano l’Apostata presiede all’incontro tra i membri di una setta, dipinto di Edward Armitage. 1875. Liverpool, National Museum Liverpool. Il grande imperatore morí in Mesopotamia nel 363, durante la guerra contro Shapur I. Molti cristiani gioirono alla notizia, nonostante Giuliano fosse tollerante verso i seguaci di Cristo, a differenza di Shapur che ne era feroce persecutore, paragonato addirittura a Diocleziano.

la morte dell’apostata

Un assassinio voluto da Dio La notizia della morte in Mesopotamia dell’imperatore Giuliano l’Apostata (360-363), proprio durante il regno di Shapur, ebbe da subito un grande risalto. Non si seppe con certezza se il giavellotto che ne aveva causato la scomparsa fosse stato lanciato da un soldato persiano o da un cristiano che militava nelle fila dello stesso esercito romano, ma molti uomini di chiesa che avevano in odio l’«amico dei pagani» espressero un grande giubilo senza alcun ritegno.

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In tal modo essi gioirono della morte di un sovrano che in realtà non era affatto intollerante verso i cristiani, e videro nel suo uccisore lo strumento della volontà divina. È questa per esempio la posizione dello storico Sozomene (che scrive nella prima metà del V secolo), il quale era anche ben informato sui martiri della Persia. Poco importava se Dio avesse eventualmente agito per mano di un soldato nemico, agli ordini di uno spietato persecutore dei seguaci di Cristo.

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Dossier mazdeismo veniva rifiutato come religione di Stato, ma veniva bandito dall’Armenia come dottrina fuori legge, e tutti i pirei furono di conseguenza abbattuti. In tal modo i cristiani adottarono gli stessi atteggiamenti oltranzisti che rimproveravano ai propri persecutori. A parte questi episodi di virulenza, legati peraltro a contingenze prettamente politiche, il cristianesimo si era ormai radicato in Persia, e le pene capitali a carico dei cristiani non arrivarono mai a cifre paragonabili a quelle della persecuzione di Shapur II, che mieté 35 000 vittime in quarant’anni (339-379). Lo scrittore e teologo cristiano Afraate, detto «il Sapiente persiano», morto intorno al 345, ha paragonato Shapur a Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani dell’antica Roma, e lo ha contrapposto a Costantino, «strumento del-

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la prosperità divina». Di fronte agli scenari di guerra che, nel 337, contrapponevano la Persia e la stessa Roma, aveva vaticinato la vittoria di quest’ultima, anche perché Cristo era un cittadino romano, e avrebbe quindi determinato la sconfitta del tronfio sovrano iranico: «L’impero (romano) non sarà conquistato, perché l’eroe il cui nome è Gesú sta venendo con il suo potere e il suo segno proteggerà l’intera armata dell’impero».

La guerra di Costantino

Una contrapposizione frontale cosí dura tra il re e i cristiani della Persia scaturiva da una precisa congiuntura. Costantino aveva scritto una lettera a Shapur, tramandata da Eusebio di Cesarea, forse mai giunta a destinazione, in cui si raccomandava al sovrano della Persia di proteggere i suoi sudditi cristiani,

e lo stesso Costantino aveva poi scatenato una «guerra santa» proprio contro Shapur, poco prima di morire (336), allorché lo shahanshah («il Re dei Re») aveva mosso l’esercito contro il limes della Mesopotamia e contro l’Armenia. Lo scoppio della persecuzione si inserisce perfettamente nel quadro di questo conflitto. Shapur vedeva nei cristiani altrettanti paladini del suo nemico e pretese in modo vessatorio una prova tangibile della loro lealtà alla corona. Quando le ostilità ripresero, con l’intervento di Costanzo II (337-361), figlio di Costantino, il re persiano si trovò in cattive acque per l’esiguità dei fondi che aveva a disposizione. Era l’occasione giusta per mettere in atto le sue ritorsioni. Convocò dunque il vescovo di Seleucia-Ctesifonte, Simon Barsabba’e («figlio di tintori»), e gli ingiunse di avallare l’imposizione ai

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suoi fedeli di una tassa speciale a loro riservata, una doppia «capitazione», pari al doppio dell’imposta che ogni abitante (ogni testa) doveva versare alla corona. Se i cristiani non lo avessero fatto, veniva confermata la loro natura di «amici di Cesare»: dovevano perciò essere perseguitati come nemici dello Stato e le loro proprietà andavano confiscate. Il presule, con cui Shapur aveva un conto personale in sospeso perché aveva convertito sua madre, si rifiutò di cedere al ricatto e fu quindi perseguito per lesa maestà. Mentre veniva condotto in catene per le vie della città, supplicò le guardie affinché gli evitassero lo strazio di passare di fronte alla sua cattedrale. Essa era stata infatti convertita in sinagoga, visto che gli Ebrei, ostili alla politica filocristiana di Costantino, si erano guadagnati le simpatie del Re dei Re.

Didascalia 16: è in tedesco, non capisco.

A sinistra i resti di Nibisi (oggi Nusayb, Turchia), città mesopotamica conquistata da Shapur II nel 363 e, in alto, la chiesa di Mar Ya’qub (San Giacomo, vescovo locale).

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Dossier Di fronte al sovrano che gli rimproverava di adorare un dio che si era fatto uccidere su una croce, Simon ribatté che il sole adorato da Shapur era un’entità priva di intelligenza. Per convincere il vescovo a desistere e a convertirsi, Shapur fece arrestare un centinaio di religiosi cristiani e, un po’ alla volta, inducendoli senza successo all’apostasia, li mandò a morte. Ma Simon, definito dai magi «capo degli stregoni», non si piegò. E prima di essere ucciso dichiarò di non meritare affatto la punizione in qualità di suddito persiano, perché non aveva in alcun modo tradito il re. A ragione, egli sostenne che la sua sorte era solo determinata dal fatto di essere cristiano. Il che significava agli occhi di Shapur, non a torto, parteggiare per Roma, fino a invocare la sua invasione della Persia nel segno trionfale di Cristo, come si era già visto in Afraate, che non aveva esitato a paragonare i Persiani alla bestia dell’Apocalisse. Lo stesso Simon, d’altronde, era in rapporti di amicizia con Costante I (337-350), il figlio di Costantino che regnava sull’Italia e sull’Africa. Due decreti previdero la chiusura o la demolizione delle chiese, e si procedette a spron battuto contro un numero ingente di religiosi, costretti a scegliere tra l’apostasia e una morte crudele.

Uniti nel martirio

Leggendo i racconti degli agiografi siriaci, fra processi, torture, condanne e supplizi, emergono figure eroiche di alti funzionari dello Stato e, addirittura, di sacerdoti mazdei, che non esitano a condividere il martirio con i cristiani, contagiati dalla loro inflessibile rettitudine. Non mancano d’altronde preti che si improvvisano carnefici per avere in cambio la libertà e la restituzione dei propri beni. Quando le persecuzioni erano ormai un lontano ricordo, la Persia divenne addirittura rifugio degli stessi cristiani. A seguito della chiusura della celebre scuola duofisita

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di Edessa, per decisione dell’imperatore Zenone (474-491), paladino dell’ortodossia, molti «eretici» valicarono il limes e dettero man forte alla nuova scuola di Nisibi (l’odierna Nusaybin, nella Turchia sudorientale), che divenne una punta di diamante nel campo della teologia e dell’esegesi biblica. Altri centri di cultura nacquero sotto l’impulso dei duofisiti espulsi da Bisanzio, e quello di Gundeshapur si segnalò nel settore prettamente scientifico, sviluppando avanzatissime conoscenze di medicina.

Il dialogo sul celibato

La Chiesa persiana arrivò a stabilire un dialogo con i mazdei sul tema del celibato, uno degli aspetti del cristianesimo a cui i magi guardavano con orrore. Il sinodo indetto dal katholikos Acacio nel 486 stabilí in un canone che solo i religiosi che vivevano in clausura potevano rimanere senza moglie, altrimenti era ben opportuno che i preti si sposassero e avessero dei figli; anzi, quest’ultima era addirittura indicata come condizione preferenziale. Il vescovo Barsauma, fondatore della scuola di Nisibi e ispettore alle truppe, si sposò, come atto di lealtà verso il sovrano, e prese in moglie una monaca di nome Mamai o Mamowai. In modo fin troppo plateale, si apriva dunque la via anche al matrimonio dei prelati, ma rimaneva salvo il divieto verso la poligamia e la pratica dei matrimoni tra consanguinei, che erano invece molto diffusi tra i mazdei, compresi gli stessi convertiti al cristianesimo. Piú di ogni sovrano sasanide, Cosroe I (531-579) dimostrò un grande spirito di tolleranza e una sana curiosità intellettuale e sotto il suo regno la Persia fu ancora una volta rifugio dei cristiani. Moltissimi monofisiti la scelsero infatti come terra d’esilio, dopo essere finiti nel mirino dell’imperatore Giustino I (518-527), fermamente deciso a reprimere tutti coloro che non si adeguavano al credo emanato dal concilio di Calcedonia (451). Ogni

Miniatura raffigurante il sovrano sasanide Cosroe I, ai cui piedi si prostra il celebre medico persiano Burzoe. XIV sec. Istanbul, Biblioteca Universitaria.

tentativo messo in atto da Giustiniano per ricomporre la scissione, compresa la messa al bando dei nemici storici del monofisismo, i duofisiti (533), era destinato al fallimento. Con la pace di 50 anni stipulata con Cosroe nel 562, l’imperatore bizantino si preoccupava di vedere riconosciuta la libertà di culto ai cristiani di oltreconfine, ma, paradossalmente, proprio Cosroe offriva piú garanzie di quante ne forniva il sovrano cristiano ai propri sudditi: duofisiti o monofisiti che fossero, i cristiani in Persia non ponevano e non subivano problemi ideologici e politici, mentre a Bisanzio, in qualità di eretici, i duofisiti erano fuori legge, e i monofisiti rappresentavano una presenza ingombrante e problematica. In definitiva, nonostante le tensioni che pure non mancarono, soprattutto in coincidenza con le campagne militari sferrate contro la Roma d’Oriente, sotto Cosroe I i cristiani furono assai rispettati ed ebbero anche modo di accedere a cariche pubbliche. Sembrò addirittura che in lui si fosse reincarnato il grande Ciro, l’intrepido e magnanimo sovrano achemenide celebrato dalle stesse Scritture.

Una disfida teologica

All’epoca di Cosroe II (590-628) i monofisiti alzarono la testa e ingaggiarono una lotta di potere con i duofisiti. Dapprima la competizione era sul piano della visibilità: le due parti si combattevano a suon di scuole e di monasteri. Ma poi si arrivò a uno scontro aperto tra Gabriele, medico di corte, e Yazdin, ministro delle finanze, monofisita l’uno, duofisita l’altro. Gabriele riuscí a guadagnarsi le simpatie della regina cristiana Scirin, che poté partorire grazie alle sue cure. Il medico di corte organizzò anche una sorta di disfida pubblica, dicembre

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Dossier Sant’Anastasio

Il figlio del mago Tra i martiri della Persia merita un particolare risalto sant’Anastasio, ucciso «all’ultimo minuto» sotto il regno di Cosroe II. Il suo nome era all’origine Mogundat («dato dai magi»). Suo padre Bav era mago e «maestro di sapere magico». Apparteneva ai moghan, la classe inferiore dei sacerdoti mazdei, e sognava per il figlio una carriera religiosa. Mogundat, però, preferí

arruolarsi a Ctesifonte, e lí ebbe modo di vedere, affascinato, la Vera Croce trafugata a Gerusalemme (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013). Entrò poi nell’armata all’ordine del

generale Shahin diretta verso Calcedonia (615). Quando le truppe ripiegarono verso l’Anatolia, Mogundat disertò. Giunto a Gerusalemme, si battezzò con il nome di Anastasio (da Anastasis, «resurrezione») in onore di Cristo e del Santo Sepolcro, e si ritirò in un vicino monastero, dove prese i voti intorno al 620. Sette anni dopo si avventurò fuori dalle mura del suo cenobio. Giunto a Cesarea di Palestina, vide

alcuni sacerdoti mazdei intenti a compiere i loro riti di nascosto, all’interno di una casa. Non seppe trattenersi, piombò nel mezzo della cerimonia e cercò di riportare quegli uomini sulla retta via, invintandoli a seguire il suo esempio di mazdeo pentito. Ne nacque un diverbio che richiamò l’attenzione di un vicino drappello di soldati persiani, che arrestarono Anastasio ritenendolo una spia. Tradotto verso Ctesifonte e processato alla presenza di Cosroe, fu

A sinistra il reliquiario della testa di sant’Anastasio che si conserva nell’abbazia dei SS. Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane a Roma (foto nella pagina accanto).

alla presenza del sovrano, in occasione della quale le due fazioni dovevano confrontare le proprie dottrine, ma tutto si risolse in un bieco intrigo. Il campione duofisita Mihran Gushnasp era un funzionario di Stato, battezzatosi con il nome di Giorgio e fattosi monaco. Rassicurato dalla sorella, si era riavvicinato all’ambiente di corte, e Gabriele approfittò proprio dell’incontro pubblico per denunciarlo, destinandolo all’inevitabile condanna a morte. Imbestialito dalla riscossa del sovrano bizantino Eraclio, Cosroe iniziò a perseguitare un buon numero di funzionari convertiti. Cadde cosí in disgrazia il ministro Yazdin: il sovrano lo fece uccidere e fece anche torturare la moglie, affinché rivelasse il nascondiglio delle ricchezze che il funzionario aveva accumulato nel tempo con generosi «prelievi» sulle razzie di guerra. I figli di

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ucciso insieme ad altri 70 cristiani il 22 gennaio 628. I figli del defunto ministro Yazdin, che avevano casa in quei pressi, si attivarono per recuperare il corpo, e accolsero un confratello di Anastasio che lo aveva seguito passo dopo passo per fornire una dettagliata cronaca del martirio al proprio abate. Lo stesso imperatore Eraclio che fu loro ospite conobbe la storia del santo martire, il primo febbraio. Pochi giorni dopo, il 28, giunse la

notizia della morte di Cosroe. La testa di Anastasio fu presto traslata a Roma nel monastero «dei Cilici» (monaci bizantini che venivano dalla Cilicia) fondato da papa Onorio I (625-638) alle Tre Fontane, presso la basilica di S. Paolo fuori le Mura. La chiesa del monastero risultò dedicata anche a san Vincenzo, martire spagnolo dell’epoca di

Yazdin parteciparono poi all’intrigo di corte che decretò la fine dello stesso Cosroe. L’inarrestabile decadenza dell’impero sasanide era ormai iniziata e la Chiesa persiana diveniva piú potente man mano che declinava il potere del Re dei Re. Lo stesso missionario Aluoben che giunse in Cina nel 635, secondo Antonino Forte, era un messo inviato dal re Yazdgard III (632-651) per partecipare ai solenni funerali del sovrano Gaozu, celebrati proprio in quell’anno. Sarebbe stata un’iniziativa perfettamente in linea con una forte tradizione di rapporti culturali tra la Cina e la Persia, con quelle formidabili ripercussioni sulla diffusione del cristianesimo che abbiamo visto all’inizio. Quando, dietro l’avanzata delle truppe islamiche, Yazdgard III si diresse verso il Khorasan in cerca di alleati per organizzare una riscossa, venne miseramente ucciso e derubato da un mugnaio nei pressi della città-oasi di Merv (Turkmenistan), nell’antica Margiana. In questo luogo topico della storia persiana, alle soglie dell’Asia centrale, dove Dario III,

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Diocleziano. Era morto nello stesso giorno di Anastasio. Poiché appartenevano a luoghi e a epoche differenti,

inseguito da Alessandro Magno, aveva trovato la morte per mano del satrapo traditore Besso (330 a.C.), si consumò cosí l’ultimo scampolo dell’impero sasanide. Il funerale del sovrano, nipote della regina Scirin e marito di una cristiana, venne celebrato dal vescovo duofisita della città.

Una chiesa a Chang’an

La famiglia del re trovò rifugio in Cina. Il figlio di Yazdgard, Peroz III (630 circa-678), si appoggiò alle rivendicazioni degli irrequieti territori di confine, sostenendo, con il beneplacito del Celeste impero, una serie di azioni offensive contro il califfato omayyade. I nobili proprietari terrieri del Tokharistan lo riconobbero come loro re nel 662, e questo valse a Peroz una sorta di investitura nominale a sovrano dell’impero perduto, ma, nel 674, la dura reazione del califfato lo costrinse a ripiegare in Cina. Nel 677 chiese all’imperatore Gaozong di edificare una chiesa nella capitale Chang’an. Vinto l’impero sasanide e sconfitta la politica religiosa della dottrina mazdea, fu elimi-

i due martiri manifestavano al meglio la vittoria del cristianesimo in qualunque luogo e in qualsiasi epoca.

nato ogni contrasto ideologico tra Cristo e Zarathustra. Il cristianesimo aveva pienamente riconquistato i Magi del racconto evangelico, tanto che il katholikos Timoteo I (780-823), in carica nella Baghdad dei califfi abbasidi, all’epoca della stele di Xi’an, riconnetteva l’origine della sua Chiesa proprio al ritorno in patria di quei sapienti, che per primi avevano percepito il bagliore dell’avvento del Salvatore. V

Da leggere U Jérôme Labourt, Le christianisme

dans l’empire perse sous la dynastie sassanide (224-632), Parigi 1904 (reperibile on line). U Arthur Christensen, L’Iran sous les Sassanides, Copenaghen 1944 (reperibile on line). U Antonio Panaino, La Chiesa di Persia e l’Impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianità d’Occidente e cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2004; pp. 765-863.

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Templari in Etruria N

ella raccolta A passo di gambero (Milano, 2007), Umberto Eco ha osservato: «Nessun argomento ha mai maggiormente ispirato le mezze calzette di tutti i tempi e di tutti i paesi quanto la vicenda templare». Se poi una storia riferita ai Templari viene associata agli Etruschi, le perplessità aumentano e viene voglia di non raccontarla. Tuttavia, poiché ad averla individuata e iniziata a narrare è uno studioso serio e non incline al sensazionalismo come Carlo Tedeschi, docente di paleografia latina presso l’Università di Chieti-Pescara e specialista di graffiti medievali, si cerca di andare a vedere i fatti piú da vicino. Eccoli:

Carlo Tedeschi (a cura di) Graffiti templari. Scritture e simboli medievali in una tomba etrusca di Tarquinia Viella, Roma, 308 pp., ill. col. e b/n 35,00 euro ISBN 978-88-8334-938-6 www.viella.it

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libri • In una tomba etrusca di Tarquinia

compaiono scritte e segni non piú «misteriosi». Ne furono infatti autori, nel XIII secolo, alcuni cavalieri dell’Ordine del Tempio

all’interno della tomba Bartoccini, nella necropoli tarquiniese dei Monterozzi, lo studioso ha rilevato la presenza di graffiti databili nel primo trentennio del Duecento ed è giunto alla conclusione che le iscrizioni facciano riferimento a incontri di tipo sessuale avvenuti all’interno del sepolcro e aventi come protagonisti individui riconducibili all’Ordine templare.

Signori a banchetto I graffiti sono concentrati nella camera centrale della tomba, alla quale si accedeva da un dromos (corridoio di accesso) a gradini. Il frontone della parete di fondo di questo ambiente è decorato con una scena di banchetto delimitata – su entrambi i lati – da vasi per il simposio. Protagonisti del banchetto sono tre uomini distesi su klinai accuditi da un coppiere, una figura femminile e un giovane servitore; vi assistono tre figure femminili. Sulle pareti sono dipinti fiorellini e un motivo a scacchiera con quadrati alternativamente bianchi e rossi. Pitture di minore impegno sono presenti anche negli altri ambienti del sepolcro. Datata generalmente al 530-520 a.C., la tomba, fu scoperta (o sarebbe meglio dire riscoperta) ufficialmente nel 1959 e le fu dato il nome dell’allora Soprintendente archeologo, Renato Bartoccini. Tornando ai graffiti medievali, ci si può soffermare inizialmente sull’unico scritto in latino che campeggia sulla parete di fondo della stanza centrale dove – come si è già ricordato – sono concentrate le iscrizioni. Carlo Tedeschi vi ha letto: H(ec) critta frat(ris) Ioh(ann) is ma‹gistri›, ovvero la dichiarazione di possesso del luogo da parte di un Giovanni, definito frater e

magister. Occorre osservare che nel latino medievale crypta (nel caso in questione, in un latino influenzato dal volgare, è chiamata critta) ha un valore semantico duplice: luogo sotterraneo, ma anche sacello sotterraneo. C’è da aggiungere che Roberto Paciocco ha proposto di riconoscere nel Iohannis ricordato, un omonimo templare magister Romae, Tusciae et Sardiniae attestato negli anni 1218-1222. In anni quindi coerenti con la datazione proposta per i graffiti in base all’analisi paleografica e ai dati linguistici. Un’altra iscrizione sembra rinviare direttamente all’Ordine templare, anch’essa posta significativamente sulla parete di fondo dell’ambiente e vicino all’altra appena ricordata, ma scritta in volgare: Si foteo questa grota f(rate) / Raineri Ranierius O(rdinis) Tem(pli). Carlo Tedeschi ritiene infatti che la siglia OTEM debba essere sciolta come appena proposto, ovvero Ordinis Templi (o Templariorum). Nella stessa camera il nome Raineri è ripetuto in altri tre graffiti e – secondo l’editore – il riferimento sarebbe allo stesso personaggio.

Maria, Meliosus e Bernabo Un riferimento – seppure indiretto al mondo templare – si ritrova in un’altra iscrizione incisa sulla parete laterale di sinistra dove si afferma: Ego Meliosus si f[o] / [teo] in questa g[ro] / ta Maria / de baligiu. Fec[.] / a mal gradu di B[.]rnabo, con la quale si ricorda un atto sessuale tra Meliosus e Maria, definita de baligiu, intercorso all’interno della grota, nonostante l’opposizione di un certo Bernabo (o Barnabo). Baligiu è da associare al latino baillivus: il balivo è una funzione diffusa nell’ambito dell’organizzazione politica e dicembre

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In alto Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. La parete di fondo della camera centrale della tomba Bartoccini, sepolcro etrusco databile al 530-520 a.C., al cui interno sono stati individuati vari graffiti che Carlo Tedeschi ha ricondotto all’Ordine dei Templari.

amministrativa dei nascenti comuni italiani. Ma «balivo» veniva definito anche colui che era chiamato a presiedere – nella suddivisione territoriale dell’Ordine del Tempio – il baliato, ovvero una circoscrizione intermedia tra la precettoria e la provincia. La donna, quindi, Maria, sembra essere stata associata al

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Qui sopra e a sinistra due dei graffiti templari individuati all’interno della tomba Bartoccini e riferibili a una frequentazione moderna del sepolcro che si colloca nel XIII sec.

diversi da quelli sinora ricordati. Tra i graffiti vi sono anche sequenze alfabetiche o lettere isolate: a giudizio degli editori non sarebbero incisioni d’importanza secondaria, ma, anzi, farebbero riferimento a una sacralizzazione del luogo e rientrerebbero in note pratiche liturgiche riferibili alla consacrazione di edifici e di campane di cui esistono numerose testimonianze nell’epigrafia tardo-romanica e gotica in varie regioni dell’Europa.

responsabile del baliato entro i cui confini rientrava la precettoria templare di Corneto. Il Bernabo (o Barnabo), a mal gradu del quale venne compiuto l’atto sessuale, potrebbe essere stato lo stesso balivo. Ulteriori atti sessuali consumati nella tomba Bartoccini sono ricordati in graffiti che citano protagonisti

Una sola mente e un solo braccio Carlo Tedeschi ha ravvisato nei testi un’assoluta omogeneità linguistica e sintattica, di tipo quasi formulare, che sembra rinviare a un’unica regia nella loro ideazione, cosí come la realizzazione sarebbe da attribuire a un’unica mano, con la sola eccezione possibile del graffito in lingua latina.

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caleido scopio era fatto divieto ai cavalieri di avere qualsiasi tipo di rapporto con donne. Tuttavia, nel XII e XIII secolo – nonostante la proibizione presente nella Regola francese –, figure femminili entrarono nell’Ordine condividendone la vita spirituale e professando i voti. Si può dall’esempio di Tarquinia avanzare considerazioni di carattere generale? Gli editori del ciclo di graffiti presente nella tomba Bartoccini propendono per la cautela e osservano: «In assenza di altri confronti, il caso cornetano potrebbe riflettere nulla piú che una realtà locale, o, al contrario, fornire indicazioni piú generali. Non sappiamo. Per il momento ci limitiamo a offrire una documentazione». In alto un graffito in cui si legge la sigla OTEM, sciolta da Tedeschi in O(rdinis) T(empli). A sinistra il graffito Foteo questa g[r]ota Ranierius s[i f] oteo questa grota, testo che prova il compimento di atti sessuali da parte di Ranierius. Vi sono nella tomba altri riferimenti che rinviano al mondo dei Templari, o che a esso possano essere ascritti? Gaetano Curzi ha risposto positivamente, elencando alcune caratteristiche dello stesso monumento funerario che dovrebbero avere colpito i Templari e potrebbero averli spinti a frequentarlo, tra cui la pianta a croce greca regolare, quasi una perfetta cripta cruciforme, e il motivo a scacchiera con una dominante rossa e bianca – i colori della divisa dei cavalieri – nella decorazione. Inoltre, insieme alle iscrizioni, figurano croci e stelle di varia foggia che rinviano alla volontà di sacralizzare il luogo. A questo punto ci si può chiedere se i graffiti facessero riferimento a fatti attinenti

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alla sfera privata di singoli cavalieri da ricomprendere magari in una situazione di cameratismo, o ad atti che rientrino nell’ambito del rituale.

Formule ripetitive Per Carlo Tedeschi la seconda ipotesi appare piú credibile per vari motivi: le caratteristiche ambientali della tomba poco adatte a incontri sessuali; l’unitarietà del ciclo dei graffiti e la ripetitività della formula utilizzata per ricordare l’accaduto; l’accento posto sul luogo – la grota – dove gli incontri avvennero; la volontà di sacralizzare lo spazio. Tutto ciò, in effetti, sembra spingere a ritenere gli atti sessuali legati alla sfera rituale anche se va ricordato che nella Regola dell’Ordine – nella versione sia francese che italiana –

Processo all’Ordine Una documentazione di grande interesse e che, in ogni caso, offre piú d’un elemento di novità. Innanzitutto, sino allo studio del ciclo di questi graffiti, l’unico riferimento diretto alla presenza di Templari a Tarquinia era affidato agli Atti del processo condotto a carico dell’Ordine tra il 1309 e il 1310 nei territori dello Stato Pontificio. In particolare, sappiamo che per volontà dell’Inquisizione, riunita nel Palazzo Vescovile di Viterbo, vennero affissi mandati di comparizione a Corneto (il nome medievale di Tarquinia), ma nessuno dei componenti della precettoria fu ritrovato sul posto, né si presentò in giudizio. La scoperta, inoltre, prova la frequentazione medievale della tomba Bartoccini ed è perciò significativa anche per la storia dell’etruscologia. Essa, infatti, permette di retrodatare di piú di due secoli la prima notizia relativa al rinvenimento di tombe dipinte a Tarquinia. Prima di ora, un accenno a esse si ritrovava infatti in un carme elegiaco composto dal nobile tarquiniese Lorenzo Vitelli nella seconda metà del Quattrocento e incentrato sulle supposte origini troiane della città. Giuseppe M. Della Fina dicembre

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Firenze, la ricca libri • La città del giglio fu, nel Rinascimento, una delle capitali della finanza

europea. Le ragioni del successo (e poi del declino) sono ora oggetto della prima sintesi globale di un fenomeno finora indagato solo per singoli aspetti

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rillante e noto studioso statunitense, Richard A. Goldthwaite si cimenta con un’impresa finora mai affrontata: la sintesi dell’economia della Firenze rinascimentale, riferita a un arco cronologico compreso tra l’VIII-X e il XVII secolo, con particolare attenzione ai secoli XIV e XV. Una sintesi fino a oggi scoraggiata proprio dall’enorme numero degli studi esistenti sull’argomento. Spicca, in sede di premessa, la critica alla «miopia intellettuale» della storiografia italiana, limitata dall’eccessivo campanilismo della storia locale, e perciò incapace di effettuare collegamenti geografici o cronologici, limitando le indagini al proprio ristrettissimo ambito temporale e geografico, e di recepire le novità della storiografia nordeuropea e di quella americana, assai piú aperte ad analisi di ampio respiro, a elaborazioni quantitative e statistiche, e a un approccio assai piú dinamico che consente l’elaborazione di opere di sintesi. Il prevalere della modalità descrittiva su quella analitica e l’incapacità di trarre concetti generali da ambiti d’indagine troppo ristretti costituiscono dunque per lo studioso i principali limiti della storiografia della Penisola.

riconoscere che solo le indagini di storia locale e l’analisi dei documenti creano le basi indispensabili per superare le angustie asfissianti e apparentemente prive di senso della microstoria, elaborando visioni di piú ampio respiro. Dopo una parte introduttiva volta a delineare il trend demografico ed economico della Penisola fino all’inizio del Trecento, e quello di Firenze e delle città toscane in particolare, Goldthwaite esamina l’attività mercantile e bancaria internazionale (parte prima), e

Microstorie e macrostoria Se tutto ciò è senz’altro vero per molti aspetti, e se l’assenza di comunicazione tra ambiti storiografici e discipline a essi complementari (storia economica, storia politico-istituzionale, storia dell’arte, ecc.) è sicuramente una delle pecche principali della storiografia italiana, occorre però

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Richard A. Goldthwaite L’economia della Firenze rinascimentale Il Mulino, Bologna, 872 pp. 55,00 euro ISBN 978-88-15-24660-8 www.mulino.it

quindi la rete degli scambi e la loro organizzazione; l’evoluzione delle strutture societarie e la loro capacità di adattamento alla congiuntura economica; la geografia del commercio, nonché la maggiore o minore attitudine delle città a costituire il fulcro del mercato regionale e internazionale; l’attività finanziaria e bancaria.

Economia urbana Nella seconda parte l’obiettivo si sposta sull’economia urbana, e dunque sulla manifattura tessile (lana e seta in primo luogo), che ricoprí un ruolo determinante nell’economia della Firenze rinascimentale; sulla sua organizzazione aziendale e tipologia produttiva; sui protagonisti del processo produttivo (artigiani, bottegai, salariati); sui finanziamenti alle attività manifatturiere (banca e credito); sul ruolo dello Stato nel governo dell’economia e su quello della distribuzione della ricchezza; sui legami delle economie urbane con quelle regionali. L’appendice è dedicata alle fluttuazioni di valore del fiorino, una questione fondamentale nell’esame dell’attività economica della città. Goldthwaite sottolinea come i presupposti fondamentali dello sviluppo economico di Firenze fossero costituiti, in primo luogo, dall’esplosione demografica duecentesca e, in secondo luogo, dall’esigenza di materie prime per la manifattura laniera. La domanda del mercato internazionale e la capacità degli uomini d’affari della città di Dante, oltre che di finanziare e organizzare la produzione, anche

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caleido scopio di smerciare i panni Oltralpe con un adeguato sistema di relazioni commerciali, finanziarie e bancarie a livello internazionale fecero il resto: il commercio e la banca, dunque, si pongono alla base dello sviluppo economico e manifatturiero fiorentino, stimolati al loro esordio dalla necessità di trovare materie prime (lana soprattutto) e risorse per una popolazione che aveva superato le 100 000 unità.

Transazioni e prestiti Due furono le direttrici di espansione del commercio fiorentino, a partire almeno dal XIII secolo: il Nord Europa (Fiandre, Francia del Nord e Inghilterra in particolare), e il regno di Napoli. Alla fine del XIV secolo, poi, i centri urbani catalanoaragonesi divennero la principale fonte di reperimento delle materie prime. La già ricordata esplosione demografica, con la conseguente esigenza di sfamare una popolazione sempre piú numerosa – sottolinea lo studioso – fu anche il motivo fondamentale che spinse le compagnie fiorentine ad appoggiare, con ingenti prestiti a Carlo d’Angiò, la politica guelfa di invasione del regno di Napoli (dove i mercanti dell’Italia centro-settentrionale si rifornivano di cereali e derrate alimentari), una politica che, nel 1268, portò al generale predominio dei Guelfi nella Penisola. Capace dunque di tessere una rete commerciale estesa a livello internazionale, Firenze – afferma Goldthwaite – non seppe invece imporsi come centro di coordinamento regionale (e tanto meno come snodo extraregionale) delle economie cittadine degli altri centri della Toscana, dai quali rimaneva, soprattutto per motivi geografici, piuttosto isolata. Neppure gli attivissimi traffici del mercante Francesco Datini passavano per la città di Dante, né l’attività bancaria internazionale ebbe il suo epicentro in Firenze stessa, a dispetto del potere e dell’influenza dei banchieri fiorentini. Persino

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Lo scaffale Serena Romano e Denise Zaru (a cura di) Arte di corte in Italia del Nord Programmi, modelli, artisti (1330-1402 ca.) Viella Roma, 486 pp., ill. b/n e col.

40,00 euro ISBN 978-88-6728-008-7 www.viella.it

Centri di potere nonché di cultura, in cui il mecenatismo ha trovato le sue espressioni piú eccelse, le corti europee del XIV secolo, insieme alla Chiesa, hanno determinato le mode, dettato leggi in tema di arti figurative e non solo e influenzato in maniera fondamentale lo sviluppo della storia dell’arte. Dominato dalla grande rivoluzione giottesca, il Trecento è stato peraltro il secolo delle grandi pestilenze, capaci di sconvolgere l’Europa, ma non di

intaccare lo sviluppo dell’arte in tutte le sue espressioni. All’arte di corte nell’Italia settentrionale è ora dedicato questo ampio volume, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Losanna nel 2012 e che ha visto numerosi specialisti affrontare da angolazioni diverse la variegata produzione artistica – ma anche letteraria – legata appunto agli ambienti cortesi. In tale contesto, Milano con i Visconti non poteva non rivestire

«il mercato fiorentino dell’arte e di gran parte dell’artigianato fu sia provinciale come estensione geografica, sia primitivo in quanto a infrastrutture» (p. 161), almeno sino alla fine del Quattrocento: gli artisti fiorentini, infatti, lavoravano per un mercato perlopiú locale, ed erano legati ai clienti da una commissione, anziché da transazioni di mercato, a differenza di altri centri artistici ed empori commerciali come Bruges (nel XV secolo) e Anversa (nel XVI secolo), dove si realizzavano anche repliche in serie, dirette a un mercato ben piú vasto, anonimo e impersonale. In sintesi, dunque, «Firenze rimase quello che era stata per secoli: probabilmente la piú provinciale

un ruolo privilegiato all’interno della silloge dove, comunque, non mancano studi dedicati alla Mantova gonzaghesca, alla Padova dominata dai Carraresi, alla Verona scaligera e al Monferrato. Un universo artistico multiforme, che spazia dallo studio sui cicli affrescati di palazzi e castelli, a quelli sull’oreficeria, e sulla produzione libraria miniata, senza tralasciare approfondimenti su alcuni rappresentanti di questa fortunata stagione pittorica come Guariento, Bonacolsi, Bonino da Campione e altri. Ma l’approccio si fa ancor piú interessante quando il campo di studio amplia i suoi confini, dedicandosi ai centri minori che, evidentemente, contribuiscono ad alimentare un dialogo

tra le grandi capitali europee dell’economia internazionale. E in questo consistette la sua grandezza come culla del nascente capitalismo» (p. 164).

La crisi del settore laniero Nella seconda parte del volume, dopo aver tracciato le linee di sviluppo della manifattura laniera (che cominciò a produrre panni di alta qualità a imitazione di quelli fiamminghi intorno al 1320), Goldthwaite sottolinea come la decadenza del settore alla fine del Cinquecento derivasse in primo luogo dal mutamento geografico degli approvvigionamenti, e dalla crescente dipendenza da mercanti castigliani e genovesi, che dicembre

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fruttuoso tra centro e periferia, ovvero alla Savoia, all’Ungheria e a Napoli, allargando dunque il discorso a un contesto europeo. Il volume, nel quale sono confluiti 16 articoli in italiano, due in francese e uno in inglese, è impreziosito da un ampio corredo iconografico, pregevole compendio alla varietà degli studi presentati. Franco Bruni Federico Marazzi (a cura di) La Cripta dell’Abate Epifanio a San Vincenzo al Volturno Un secolo di studi (1896-2007) Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno (IS), 544 pp., ill. col. e b/n

50,00 euro ISBN 978-88-96092-16-3 www.volturniaedizioni.com

Un secolo di studi recita il sottotitolo, ma

si tratta, in realtà, di qualcosa di piú: è la testimonianza di un percorso avviato alla fine del XIX secolo e tuttora in fieri. Quello che può essere considerato «uno dei gioielli dell’arte dell’Occidente altomedievale», la cripta dell’abate Epifanio a San Vincenzo al Volturno in Molise, è l’oggetto dell’appassionata analisi di generazioni di studiosi, di cui la presente raccolta, curata ed edita dall’Istituto Regionale Studi Storici del Molise, costituisce un punto di arrivo, nonché una fonte ricca di spunti per nuovi approfondimenti. Riuniti per la prima volta, dieci saggi – originariamente pubblicati tra il

inglobarono Firenze nella propria rete commerciale e finanziaria, come mai era avvenuto prima. In secondo luogo alla concorrenza dei nuovi e piú competitivi prodotti olandesi e inglesi, e all’impossibilità della struttura organizzativa tessile della città del giglio – da sempre estremamente fluida perché basata sul lavoro a domicilio e sulla retribuzione a cottimo (che d’altra parte consentivano di tagliare piú facilmente gli esuberi) – di adeguarsi alle innovazioni tecnologiche e «aziendali» del Nord Europa. Tale processo era stato controbilanciato, dal primo Quattrocento, dalla nascita della manifattura serica, che richiedeva capitali e investimenti maggiori, ma

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1896 e il 2007 dai maggiori storici dell’arte medievale del XX secolo –, danno conto delle ricerche condotte sull’iconografia di uno dei rari cicli pittorici di età carolingia del Sud Italia conservatisi intatti in tutte le loro parti. Scoperta nel 1836, la cripta rimase per molto tempo «dimenticata». «Avevo sentito dire (…) che nei piani della Rocchetta, alla sorgente del Volturno, dove una volta sorgeva la celebre Abbazia di S. Vincenzo Martire (…) erano ancora delle antiche pitture molto pregevoli in una cripta sotterranea. Richiestone or uno or un altro di coloro che affermavano di averle

vedute, non ne cavai che pochi e imperfetti cenni; perché l’oscurità, l’angustia e l’umidità del luogo non aveva lor dato

agio di considerarle minutamente»: cosí Dom Oderisio Piscicelli Taeggi nel 1896 introduceva il suo scritto, il primo presentato nel volume, ben descrivendo la condizione di abbandono in

una quantità decisamente inferiore di manodopera, soprattutto nelle prime fasi di lavorazione, fatto che consentí, nella fase di contrazione cinquecentesca, di rispondere alla concorrenza con prodotti piú standardizzati e meno costosi, permettendo la crescita di questo settore nel momento in cui quello laniero crollava. La capacità, e anzi l’esigenza, dei setaioli di inserirsi anche attivamente nell’ambito del commercio internazionale e del settore bancario, costituí un ulteriore sostegno per la manifattura serica.

Un’immagine da rivedere Chiudono il volume il capitolo sulla politica economica e fiscale della città e quello sulle strutture bancarie,

cui versava il sito, probabilmente a causa dello scarso interesse nutrito all’epoca per l’arte dei secoli bui, a torto considerata «minore». L’opera, nell’intenzione dei curatori, è il corollario naturale del lavoro intrapreso allora: uno studio organico – integrato da due saggi inediti (di Federico Marazzi e Francesca Dell’Acqua) e da splendide tavole a colori – e, al contempo, uno strumento prezioso non solo per gli addetti ai lavori, che dimostra, anche attraverso la portata internazionale dei contributi, l’importanza della tutela di un patrimonio inestimabile. Giorgio Rossignoli

nel quale viene sottolineato il persistere a Firenze del nesso personale tra debitore e creditore che impedí lo sviluppo di una mentalità pienamente capitalistica, giungendo a ipotizzare che la preminenza bancaria fiorentina nell’Europa rinascimentale fosse il frutto della lente distorta di una straordinaria documentazione aziendale (assente altrove), piú che la realtà dei fatti. Una sintesi, dunque, questa di Goldthwaite, di importanza fondamentale, non solo perché, a oggi, unica, ma anche per la ricchezza di idee e di spunti innovativi, destinati a sviluppare nuove discussioni e a dar vita a nuovi filoni di ricerca. Maria Paola Zanoboni

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caleido scopio

Mondi distanti, ma solo nel tempo musica • Che cosa accomuna la tradizione

antica e le partiture contemporanee? Due antologie ci aiutano a scoprirlo

L

a musica antica ha costituito, soprattutto nel XIX e nel XX secolo, un importante stimolo alla ricerca e alla sperimentazione e in quest’ottica si inseriscono due registrazioni rispettivamente dedicate al Medioevo e al Rinascimento inglese. In Night Sessions (ECM 4765968, 1 CD, distr. www.ducalemusic.it), l’incontro/scontro tra musicisti e strumentisti di diversa tradizione del gruppo The Dowland Project ha generato un programma ispirato a frammenti poetici medievali, nel quale si alternano partiture originali, ricreazioni di brani pseudomedievali, oppure riproposizioni di antiche melodie, con una veste musicale in cui la prassi filologica e l’approccio contemporaneo convivono in perfetta simbiosi. Bellissimo è l’esempio del canto trobadorico Can vei la lauzeta mover di Bernard de Ventadorn (XII secolo), alla cui semplice linea vocale si aggiunge gradualmente il sax che dialoga in maniera eccelsa con la voce; e non meno affascinanti sono l’antico canto devozionale portoghese Menino Jesus à Lapa, il brano bizantino Theoleptus 22 o l’affascinante Fumeux fume, tratto dal Codice Chantilly, su testo del poeta Eustache Deschamps in cui il compositore Solage crea una delle partiture piú audaci

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e «contemporanee» del Trecento francese. Muovendosi tra rivisitazioni di brani di tradizione medievale e pezzi in cui essa fa da stimolo a invenzioni musicali ex novo, la matrice antica è sempre ben presente e riconoscibilissima, grazie all’opera di recupero e rigenerazione del repertorio attuata da John Potter, tenore solista del Dowland Project, e da tutti gli strumentisti che arricchiscono il panorama sonoro grazie alle loro diversificate esperienze musicali, in una operazione di grande originalità e di apprezzabile livello artistico.

Autori a confronto L’antologia Arvo Pärt-William Byrd (MDG 619 0745-2, 1 CD, www.soundandmusic.it) mette a confronto due autori che, pur lontani nel tempo (William Byrd, 1543-1623; Arvo Pärt, 1935-), presentano una sensibilità musicale e uno stile compositivo a tratti assai vicini. A differenza della precedente registrazione, qui si tratta di brani originali trascritti per il Calefax Reed Quintet, un quintetto di strumenti ad ancia (oboe, oboe d’amore, clarinetto, sassofono, clarinetto basso e fagotto), le cui dolci sonorità si sostituiscono alle voci per le quali alcune delle composizioni furono

originariamente concepite. Grande compositore di corte inglese del secondo Cinquecento, Byrd ha lasciato una vasta produzione vocale e strumentale di cui ascoltiamo qui un Magnificat, un mottetto e una splendida Missa a 5 voci, che i solisti del Calefax Reed Quintet eseguono con grande sensibilità, accompagnandosi, nel caso del Magnificat, alla voce del controtenore Kay Wessel. Quest’ultimo interviene anche in alcuni dei 7 MagnificatAntiphone di Pärt, un’opera qui riarrangiata per voce e quintetto d’ance, in cui fortissima è l’influenza di un linguaggio compositivo neomodale. Dello stesso Pärt ascoltiamo Arbos, Summa e Pari intervallo, arrangiati per il suddetto quintetto, in un amalgama di suoni e pastosità sonore di grande effetto. Con un’ ispirazione costante alla musica antica, il compositore estone si conferma tra gli autori contemporanei piú affascinanti e sensibili al linguaggio antico. Franco Bruni dicembre

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Le «stranezze» di un maestro T

ra le personalità piú singolari della scuola polifonica fiamminga del Quattrocento spicca Alexander Agricola, un musicista di risonanza europea che fu attivo nella seconda metà del XV secolo tra l’Italia, i Paesi Bassi e la Francia. Lo dimostrano le sue collaborazioni con prestigiose istituzioni musicali: negli anni Settanta è impiegato come cantore nella cappella degli Sforza a Milano, in seguito a Firenze, alla corte reale francese e, alla fine della carriera, presso la cappella di Filippo il Bello, duca di Borgogna, che seguí in molteplici viaggi in Europa, prima d’essere stroncato dalla peste, nel 1506, mentre si trovava a Valladolid. Accanto alla copiosa produzione vocale, tipica per un compositore dell’epoca, Agricola ha lasciato anche un buon numero di composizioni strumentali, o presunte tali; brani spesso basati sul riadattamento di musiche di suoi colleghi come Gilles Binchois e Johannes Ockeghem a cui, stilisticamente parlando, si avvicina.

Uno stile singolare Alla produzione «strumentale» – sebbene in questo contesto l’uso del termine risulti un po’ forzato – è dedicata la scelta antologica proposta dall’Ensemble Leones, Colours in the Dark: the instrumental music of Alexander Agricola (CHR 77368, 1 CD, distr.

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musica • Compositore

brillante e originalissimo, il fiammingo Alexander Agricola è protagonista di un album che ne esalta la «diversità»

New Communication), una raccolta che illustra appieno lo stile di un compositore dalla ricca inventiva e dall’ingegno tecnico-costruttivo della migliore tradizione fiamminga; un compositore che, esplorando nuovi territori musicali e nuove modalità espressive, creò uno stile peculiare, che gli valse aggettivi come «inusuale, bizzarro, strano» da

parte dei suoi contemporanei. Attorno a questo particolare approccio da parte di Agricola è nato il progetto dell’Ensemble Leones e del suo direttore Marc Lewon di mettere in risalto l’aspetto piú enigmatico e oscuro del linguaggio musicale del compositore fiammingo attarverso una carrellata di chansons, in alcuni casi presentate nella doppia veste strumentale e vocale/strumentale, con l’utilizzo, per le seconde, del tenore Raitis Grigalis. Molti sono i brani di cui vengono offerti i diversi

adattamenti, in una sorta di suite strumentali, tratti dal tema di una chanson.

Il testo, «grande assente» Con l’utilizzo del violino, la viella, la viola d’arco, la viola da gamba, l’arpa, il cornetto e i liuto, l’Ensemble Leones sfrutta una ampia gamma di registri e colori strumentali della tradizione tardo-medievale e del primo Rinascimento, adattando ai singoli contesti poetici – anche se il testo poetico è il «grande assente» e/o perlomeno suggerito solo dal titolo della chanson – soluzioni sonore adeguate all’occasione. Ma il progetto Agricola non si ferma qui. Nel tentativo di farne rivivere le musiche, Marc Lewon ha commissionato a Fabrice Fitch, compositoremusicologo, nonché specialista della musica di Agricola, la composizione di due brani inclusi nell’antologia, ispirati evidentemente all’arte del fiammingo, rivisitato attraverso un linguaggio modernissimo ma altamente suggestivo e affascinante. Chiude in bellezza la raccolta la sontuosa interpretazione di un brano celeberrimo di Agricola, Fortuna desperata, straordinario mottetto a sei voci che ebbe grandissima diffusione all’epoca, divenendo oggetto di numerosissimi arrangiamenti, sia in ambito profano che sacro. F. B.

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