Medioevo n. 202, Novembre 2013

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Mens. Anno 17 n. 11 (202) Novembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 11 (202) novembre 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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sommario

Novembre 2013 ANTEPRIMA restauri Al capezzale del (finto) Medioevo

il ducato di benevento Arechi, principe del Mezzogiorno 6

di Chiara Mercuri

40

96 luoghi germania In viaggio con Kilian

di Mimmo Frassineti

96

CALEIDOSCOPIO

40 itinerari Nel borgo dell’argento filato mostre Monete come reliquie musei Una città e il suo duomo

8 11

COSTUME E SOCIETÀ saper vedere

Il Battistero di S. Giovanni

È qui la bellezza di Firenze di Furio Cappelli

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Dossier

STORIE

Boccaccio

Varna 1444

Il trionfo di Murad

di Francesco Colotta

30

30

104

libri Quel mirabile ottagono Lo scaffale

108 110

musica I Dodici Giardini 112 Il ritorno di una pietra miliare 113

56

appuntamenti Vestiti di sacco per san Nicola 19 Non mangiare la carne salata! 20 L’Agenda del Mese 24

grandi battaglie

cartoline Signori di Faenza

Giovanni

gli incontri di una vita di Luca Pesante

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il nuovo dossier di medioevo

1348

L’ANNO DELLA

PESTE

N

el 1348, portato da navi genovesi provenienti dall’Oriente, un letale cocktail – peste polmonare e peste bubbonica – attecchí in Sicilia, invadendo da lí senza scampo l’intera Europa occidentale. Gli Europei erano stati – per secoli – preservati da contagi di tale violenza, e ciò contribuí non poco alla diffusione dell’epidemia. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, i secoli centrali del Medioevo furono caratterizzati, particolarmente in Italia, dall’assenza di pandemie; quando si verificarono, inoltre, esse non ebbero conseguenze paragonabili a quelle che avevano colpito la Penisola nell’antichità e che l’avrebbero colpita in età moderna. Il mondo medievale, dunque, era del tutto impreparato a un contagio cosí violento e letale. L’Europa ne fu investita senza riuscire – tranne in pochissimi casi – a predisporre le piú basilari difese: alcune regioni furono quasi interamente spopolate e le città annientate; si calcola che almeno un terzo della popolazione europea, nel giro di pochi mesi, morí. A questo drammatico fenomeno e ai suoi molteplici aspetti – medico-sanitari, psicologici, sociali, politici, ma anche letterari e artistici – è dedicato il nuovo Dossier di MEDIOEVO .

IN EDICOLA IL 20 N0VEMBRE MEDIOEVO

settembre novembre

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Ante prima

Al capezzale del (finto) Medioevo

restauri • La torre-porta, uno degli elementi

cardine del Borgo Medievale di Torino, è stata riportata alla sua «antichità» originaria. Un motivo in piú per scoprire uno dei complessi museali piú interessanti della città sabauda

L

a torre-porta che segna l’accesso al Borgo medievale di Torino è appena stata restaurata, con un intervento durato tre mesi, costato 150 000 euro e finanziato dalla Compagnia di San Paolo. Per rifare le strutture lignee, dalle travi portanti ai piani di calpestio, alle scale che collegano i quattro piani interni, è stato usato il castagno, già scelto per la costruzione originaria, perché in grado di garantire una notevole durata nel tempo e una buona capacità di sostegno. I tetti sono stati smantellati, per consentire l’impermeabilizzazione delle coperture, e quindi sostituiti con pezzi pressoché uguali a quelli ottocenteschi. È stato invece smontato, trasferito e restaurato in laboratorio tutto l’apparato che fa

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muovere il ponte levatoio, assieme al portone principale e ad altre componenti dell’arredo fisso. È stata infine la volta delle superfici esterne e delle parti ornamentali, come i dipinti della facciata, che sono stati oggetto di un accurato intervento di ripulitura.

Nato per l’Esposizione Nel profilo architettonico e negli elementi decorativi la torre-porta torinese si rifà alla struttura d’ingresso del ricetto, una forma di insediamento caratteristica del Piemonte nell’Età di Mezzo; come il resto del complesso, è stata costruita per l’Esposizione Generale Italiana artistica e industriale, svoltasi nel capoluogo piemontese dall’aprile al novembre del 1884. L’insieme, pensato come padiglione

espositivo, di carattere provvisorio, conta il Borgo e la Rocca medievali, che piú avanti sono entrati nel circuito dei Musei Civici, del quale fanno parte ancora oggi. L’intero l’abitato si dipana lungo le rive del Po, secondo il criterio di verosimiglianza e l’intento didattico sottesi al neomedievismo diffusosi del tardo Ottocento. L’entrata dal ponte levatoio, di forte impatto visivo, le botteghe, la via principale tortuosa, che si apre su scorci sempre nuovi, riportano il visitatore in una dimensione lontana, quasi fuori dal tempo. Su tutto svetta la torre, progettata da Alfredo D’Andrade (1839-1915) come replica di quella che introduce al ricetto trecentesco Dove e quando

Borgo Medievale Torino, viale Virgilio 107 Orario lu-do, 9,00-19,00 Info tel. 011 44317.01/02; fax 011 44317.19/20; e-mail: borgomedievale@ fondazionetorinomusei. it, promozione.borgo@ fondazionetorinomusei.it novembre

MEDIOEVO


Prima La torre-porta del Borgo Medievale di Torino prima del recente intervento di restauro. Durante La struttura durante i lavori che hanno interessato le coperture, gli apprestamenti in legno, nonché l’apparato ornamentale. Dopo Ecco come si presenta la torre-porta al termine del restauro. ▲ ▲

Nella pagina accanto il Borgo Medievale di Torino, nato nel 1884 come Sezione di Arte Antica dell’Esposizione Generale Italiana di Torino,

di Oglianico (Torino): l’architetto di origini portoghesi, poi naturalizzato italiano, ha guardato agli agglomerati rurali in cui si univano la funzione abitativa dell’intera comunità e l’esigenza di difesa.

Per l’accesso e per la difesa I ricetti piemontesi, pur presentando caratteristiche di volta in volta diverse, avevano alcuni tratti comuni, dalla cinta muraria all’ingresso fortificato agli edifici, destinati sia ad abitazione che a magazzino. La torre-porta aveva un ruolo di primo piano, non solo perché era l’unico accesso, ma perché fungeva da avamposto del sistema difensivo; di solito era avanzata rispetto alle mura, aveva la forma di un parallelepipedo ed era posta in corrispondenza della via principale dell’abitato. I suoi ambienti interni erano collegati fra loro da scale a pioli che potevano essere ritirate e avevano pochissime aperture verso l’esterno, giusto alcune feritoie per il controllo dell’area circostante. Spesso c’erano due ingressi distinti: quello riservato ai pedoni, la pusterla, era piú piccolo

MEDIOEVO

novembre

e preceduto da un tornafolle, un palo girevole con raggi, che consentiva il passaggio di una persona per volta; l’entrata per i cavalieri e i carri che trasportavano merci, derrate alimentari e prodotti di tutti i tipi, era dotata di ponte levatoio, come al Borgo medievale di Torino (per informazioni sulle raccolte permanenti e il calendario di mostre e appuntamenti al Borgo medievale, www.borgomedievaletorino.it). Stefania Romani

Errata corrige con riferimento all’articolo «Il terzo incomodo» (vedi «Medioevo» n. 201, ottobre 2013), desideriamo segnalare che, a p. 53, nel passo «il territorio del Ducato continuò a fiorire, finché nel 1054, Federico Barbarossa decise di scendere in Italia» la data deve naturalmente leggersi in 1154, dal momento che nel 1054 l’imperatore non aveva ancora emesso i suoi primi vagiti... Della svista ci scusiamo con i nostri lettori.

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Ante prima

itinerari •

Arroccato in posizione strategica, il borgo di Campo Ligure ha una storia plurisecolare. Che vive uno dei suoi momenti piú importanti al tempo del dominio dei nobili Spinola

Nel borgo dell’argento filato C

ampo Ligure, in provincia di Genova, è un suggestivo borgo montano situato all’interno della Valle Stura e compreso nel Parco Regionale del Beigua. Ritenuto uno dei borghi piú belli d’Italia, appare circondato dai fitti boschi che ammantano le cime dell’Appennino alle spalle del mare di Voltri, qua e là inframmezzati da lunghe «fasce» terrazzate, risultato del secolare lavoro di generazioni e generazioni di contadini, che hanno faticosamente modificato e ridotto a coltura i fianchi di aspre montagne. Il castello di Campo, caratterizzato da una possente torre circolare, è ben visibile anche percorrendo l’autostrada A26, che, attraverso il Passo del Turchino, conduce a Genova e alla Riviera. Situato a metà strada tra Genova (40 km) e

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Alessandria (35 km), il borgo deve l’origine e il successivo sviluppo alla peculiare posizione geografica tra il mare e la Pianura padana, lungo un’arteria di penetrazione dalla costa verso l’Alessandrino, il Monferrato e il Milanese.

A difesa dei porti Fondato molto probabilmente come insediamento militare nel III secolo d.C., quando l’imperatore Aureliano eresse alcuni presidi sui contrafforti liguri per proteggere i porti di Ianua (Genova) e di Vada Sabatia (Vado Ligure) dalle invasioni dei popoli germanici, l’abitato fu fortificato nel VI secolo dai Bizantini. A conferma concorrono sia la collocazione strategica della località, protetta su tre lati dagli alvei dei torrenti Ponzema, Stura e Langassino e


chiusa alle spalle dalla rocca – su cui vennero innalzati prima la torre di guardia bizantina e, poi, in epoca medievale il castello –, sia l’impianto viario del nucleo storico, che aderente allo schema del campus romano, è posto su una frequentata strada di comunicazione e incentrato sull’asse principale parallelo allo Stura, intersecato, a sua volta, da un secondo asse che collega l’oltre Stura al castello. All’incrocio di queste due direttrici si apre la piazza principale, su cui affacciano la loggia tardo-medievale – in passato adibita a mercato coperto –, il palazzo dei marchesi Spinola – che, edificato nel XV secolo e ampliato nel 1693, è ingentilito da un’elegante facciata affrescata –, e la parrocchiale settecentesca. Poco discosto, ma già in prossimità dell’antico ponte in pietra sullo Stura, denominato «ponte di S. Michele» e un tempo sede del dazio, si trova il palazzo di giustizia, detto anche «Casa della Giustizia». A guardia di chiese, case, palazzi, piazze, campi coltivati e casolari disseminati tra boschi e pascoli, da secoli incombe maestosa la mole del castello.

Le prime notizie di un torrione, costruito su una collina a est dell’abitato e destinato a quartier generale per piccole milizie locali, risalgono al 936. Investito dal Comune di Genova ai marchesi del Bosco nel 1224, Campofreddo, che mutò la denominazione in Campo Ligure soltanto nel 1884, divenne Feudo Imperiale nel 1329. Da allora e fino all’Ottocento il castello e il borgo furono assegnati alla nobile famiglia Spinola.

Alla maniera normanna Attualmente il maschio centrale occupa, con molta probabilità, lo spazio dove fu edificato l’originario edificio a difesa del territorio. L’ingresso, sopraelevato, si raggiungeva attraverso un passaggio mobile collocato all’altezza del cammino di ronda della cinta esagonale o tramite una scala retrattile. Sotto all’apertura, che presenta un arco in uso almeno dal Cinquecento, è stata scavata una cisterna, interrata per gran parte del suo volume e inizialmente isolata dall’esterno. Una soluzione architettonica piuttosto ardita che, importata nella nostra Penisola dai Normanni e diffusasi nel XII secolo,

Il presepe animato Nel periodo natalizio il seicentesco oratorio dei SS. Sebastiano e Rocco ospita lo storico «Presepe Meccanizzato» di Campo Ligure. Allestito dall’Associazione Amici del Presepe, il manufatto occupa una superficie di circa 70 mq, con alcune centinaia di statuine, di cui cento in movimento, azionate da appositi motorini. Le prime figure, intagliate all’inizio del Novecento, un tempo si muovevano senza energia elettrica, azionate dalla forza motrice di una ruota di bicicletta, fatta girare con una manovella dai ragazzini del paese. Le statue mobili erano collegate da cinghie a unico asse. Nel 1915 con l’avvento della corrente elettrica la ruota venne azionata da un motore. L’esposizione presepiale conduce i visitatori alla scoperta degli antichi mestieri agricoli e artigianali e delle vecchie tradizioni popolari della Valle Stura. Il tema centrale è ovviamente la Natività. A rendere omaggio a Gesú Bambino, però, ci sono proprio tutti: non solo pastori, muratori, contadini, sarte e panettieri, ma anche artigiani orafi al lavoro nei laboratori di filigrana, fabbri nelle ferriere e nelle fucine, a documentare quanta importanza ebbe nell’economia locale la lavorazione del ferro dal XIV al XIX secolo, e gruppi di taglialegna, in ricordo di un’altra attività fondamentale in questa valle dell’Appennino ligure, legata Dida, niet quidel odiolegname. quisquunt, soluptae? all’utilizzo PeInfo moloressenim enduci quia nim Pro Loco estis Campo Ligure, sequi doluptudel rescius quae piazzetta Gelso,eni5 optiur, - tel. 010 921055; cell. 3206765132, e-mail: prolococampo@yahoo.it Qui accanto una veduta notturna di Campo Ligure (Genova), attraversato dalle acque dello Stura. Nella pagina accanto il castello medievale che domina il borgo ligure.

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Ante prima

Ancora una veduta del suggestivo borgo di Campo Ligure, in provincia di Genova.

Una tradizione antichissima Campo Ligure è il Centro Nazionale della Filigrana d’Argento. Il primo laboratorio orafo di filigrana del borgo fu aperto nel 1884. Quest’affascinante tecnica artistica riservata ai metalli preziosi, che consiste nel saldare fili aurei, semplici o perlati, cioè formati da una successione di piccoli grani, sulla superficie liscia di un oggetto, era già praticata dalle antiche civiltà medio-orientali, dagli Etruschi e dai Romani. Diffusasi nel Mediterraneo grazie alle crociate, approdò a Genova e a Venezia (opus Veneticum) intorno al XIII secolo. Successivamente, a partire dal Settecento, molte famiglie genovesi si dedicarono a tale attività artigianale che, appresa da abili lavoranti campesi migrati nel capoluogo ligure nella seconda metà dell’Ottocento, fu portata a Campo al loro ritorno. Il Civico Museo della Filigrana «P. Carlo Bosio» raccoglie circa Dida, continenti. niet qui odio quisquunt, soluptae? 200 manufatti, provenienti dai cinque L’esposizione Pe moloressenim enduci si suddivide in aree tematiche, a seconda dellaestis zone di quia nim sequi scuole doluptudirescius eni optiur, quae produzione, e pone a confronto le differenti lavorazione. Dalla cinese, in cui si usa un sottilissimo filo d’argento tondo e si impiegano avorio, tartaruga e gusci di noce come supporto alla filigrana, a quelle russa e nepalese, che mostrano un largo impiego di smalti con particolare attenzione ai colori. Ampio spazio è inoltre riservato alla filigrana italiana, che ha come protagoniste le città di Venezia, Genova, Cortina d’Ampezzo e Firenze. Una sala è infine dedicata alla raccolta di strumenti antichi, utilizzati per la preparazione del filigranato (XVIII-XX secolo). Info Museo della Filigrana, via della Giustizia 5 - 16013 Campo Ligure; Coop Fuori Fila: tel. 010 920099 e 010 921166, e-mail: ffcampo@libero.it

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presuppone l’utilizzo di maestranze capaci di innalzare una torre di ragguardevole altezza sul perimetro di una superficie cava.

Una tipologia inconsueta Nei secoli successivi, in seguito all’evoluzione delle tecniche ossidionali e alla necessità di acquartierare un maggior numero di armati, il fortilizio fu circondato prima con mura dall’impianto a esagono irregolare, poi da una cinta merlata pentagonale. Quest’ultima, dotata di passaggi di ronda e di tre torrioni ai vertici (di cui solo uno sopravvissuto), ha conferito al complesso fortificato una tipologia architettonica decisamente inconsueta nell’area ligure. Dalla metà del Settecento il maniero fu progressivamente abbandonato. Restaurato negli anni Novanta del Novecento è ora sede di mostre, concerti e iniziative di vario genere. L’autrice ringrazia il professor Paolo Bottero per aver fornito materiale utile alla stesura dell’articolo. Chiara Parente novembre

MEDIOEVO


Monete come reliquie I

n occasione dell’evento espositivo dedicato al genio di Filippo Lippi e Donatello «Da Donatello a Lippi. Officina Pratese» che si tiene al Museo di Palazzo Pretorio a Prato fino al prossimo 13 gennaio, si inaugura, sabato 9 novembre, alle ore 17,00, presso la Saletta Valentini (via Ricasoli, a pochi metri dal Palazzo Pretorio), la mostra intitolata «Moneta e Devozione». Gerusalemme e la Sacra Cintola, la devozione e le monete: questo è il filo conduttore che racconta la storia della fede a Prato e in Toscana dal Medioevo al Rinascimento. Monete che i pellegrini portavano con sé come offerta, monete che diventavano oggetto di culto in quanto considerate vere e proprie reliquie e monete utilizzate per chiedere grazie e protezioni: che fossero d’oro, d’argento o di rame, raffiguranti il Cristo o la Madonna o che rappresentassero santi e vescovi locali, custodivano

segreti e finalità del tutto slegate dal mero valore economico. Il fiorino d’oro di Gerusalemme, il fiorino d’oro di Pisa con la Vergine in trono, il grosso di Siena da 40 quattrini coniato per commemorare la vittoria di Porta Camollia nel 1526 sulle schiere papali e fiorentine, il giulio di Montalcino con l’Assunta in preghiera e la lira di Cosimo I de’ Medici col Giudizio Universale sono alcune delle piú importanti monete esposte. Ma nel percorso figurano anche una tavola su fondo oro di Bicci di Lorenzo (1373-1452), raffigurante san Ludovico da Tolosa, fratello di Roberto d’Angiò signore di Prato, un reliquiario tedesco del Trecento dal Museo d’arte sacra e una Madonna lignea di scuola milanese della metà del Quattrocento. La mostra osserva il seguente orario: me-gio-ve, 16,00-19,00; sa-do, 10,30-13,00 e 16,00-19,00. (red.)


Ante prima

Una città e il suo duomo musei • A conclusione del suo riallestimento, il Museo del Duomo di Milano riapre

le sue porte. Una raccolta ricchissima, il cui patrimonio getta luce anche sulla storia della Chiesa ambrosiana e, piú in generale, su quella del capoluogo lombardo

R

iapre con un nuovo allestimento il Museo del Duomo di Milano, che racconta oltre sei secoli di storia, arte e restauro della cattedrale. Vetrate, arazzi, quadri, modellini architettonici e sculture hanno una sistemazione attualissima, firmata da Guido Canali: all’interno di Palazzo Reale, proprio nel cuore della città, si snoda un museo accattivante, a misura d’uomo, con 2000 mq di spazio espositivo, tredici aree tematiche, ventisette sale. Qui, dopo essere stato custodito per secoli nel luogo di culto, è esposto il Tesoro del Duomo, che testimonia

Due immagini delle attività di conservazione e restauro condotte da specialisti del Museo del Duomo di Milano su un modellino della chiesa e su alcuni dipinti. La raccolta è stata riaperta in questi giorni al pubblico, con un allestimento interamente rinnovato. il ruolo di primo piano svolto dalla Chiesa ambrosiana. Il percorso di visita al Tesoro dà risalto a pezzi rari come il Crocefisso e l’Evangeliario del vescovo Ariberto di Intimiano (XI secolo), ma valorizza anche avori, paramenti sacri, arredi e capolavori dell’arte orafa, che vanno dall’età paleocristiana al Seicento.

La Fabbrica di Gian Galeazzo Il complesso museale offre inoltre l’opportunità di avvicinarsi ad aspetti inediti o meno noti della storia del Duomo, quali la nascita del cantiere, le vicende della prima guglia, la fabbrica legata ai Visconti, la cattedrale voluta dai Borromeo e l’arte della vetrata fiorita nell’area (segue a p. 14)

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novembre

MEDIOEVO



Ante prima Il Duomo in cifre Il Duomo di Milano è uno scrigno che attrae 100 000 visitatori a settimana, forte del fascino di 3400 statue, 200 bassorilievi, 55 vetrate – che raffigurano 3600 personaggi –, 135 guglie, 96 doccioni. La cattedrale, che conta 11 700 mq di superficie interna e 325 000 t di peso totale, necessita di manutenzione continua: attualmente sono aperti 12 cantieri di restauro e ogni anno 110 000 ore vengono dedicate al recupero del monumento. Nel 2012 la Fabbrica ha lanciato la campagna di raccolta fondi Adotta una guglia, per finanziare i lavori piú urgenti. Info tel. 02 72022656; www.duomomilano.it. milanese a partire dal tardo gotico. I lavori di ristrutturazione del museo fanno capo alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, voluta nel 1387 da Gian Galeazzo Visconti per progettare e seguire la realizzazione del monumento. Da piú di sei secoli l’ente provvede alla tutela e alla conservazione di uno scrigno diventato il simbolo del capoluogo lombardo: all’ombra della Madonnina hanno lavorato i

migliori fra artisti, artigiani, operai, e sono passati sovrani, pontefici, religiosi, uomini di fede e devoti di tutte le estrazioni.

Un archivio per la storia di Milano Il legame a doppio filo tra il Duomo e il territorio si delinea in modo chiaro nel patrimonio dell’archivio, una sorta di diario della città dal Trecento al terzo millennio, che racchiude documenti relativi alla costruzione In alto i dorsi di alcuni faldoni che custodiscono i documenti dell’archivio del Museo del Duomo. A sinistra il dittico della Passione, che mostra una sequenza di scene legate del ciclo pasquale, dalla lavanda dei piedi all’incredulità di Tommaso. Inizi del IX sec. Milano, Museo del Duomo.

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della cattedrale e atti in cui figurano persone e organismi entrati in contatto con la Fabbrica a vario titolo. Molti scritti toccano i rapporti con le autorità, con le maestranze impegnate nei cantieri, con i fornitori di materiali, mentre altre carte trattano privilegi, esenzioni e riscossioni di dazi. E non mancano testamenti e lasciti che descrivono con dovizia di particolari possessi situati a Milano o nell’area circostante, fornendo indicazioni sulla topografia, sulla toponomastica milanese, sull’organizzazione delle parrocchie e sulle attività lavorative cittadine. Anche l’immenso materiale dell’archivio è stato oggetto di un riallestimento. Documenti sciolti, registri, stampe, disegni, materiale musicale, fototeca sono collocati in sale di deposito dotate di scaffalature compattabili regolate da un sistema automatizzato. Gli spazi destinati alla consultazione vantano piú posti rispetto a prima e un accesso facilitato alla lettura dei documenti, grazie alle tecnologie di ultima generazione. Questi ambienti, ai quali si accede attraverso il nuovo ingresso da piazza Duomo, si affacciano proprio sull’abside della cattedrale, al centro di uno scorcio particolarmente suggestivo. Stefania Romani novembre

MEDIOEVO


Vestiti di sacco per san Nicola appuntamenti • Ai piedi dell’Etna, la cittadina

di Trecastagni celebra il suo patrono con cerimonie religiose e un grande corteo, in occasione del quale gli addetti ai festeggiamenti indossano un semplice abito candido

O

gni anno, dall’ultima domenica di novembre al 6 dicembre, la cittadina di Trecastagni (Catania) celebra il suo patrono, san Nicola. Nel paese che sorge alle pendici dell’Etna, le prime notizie del culto del santo di Myra (Turchia) risalgono agli inizi del XV secolo, quando venne demolita l’antica chiesa madre della Madonna della Misericordia per far posto alla chiesa dedicata a san Nicola. All’epoca la festa era molto sentita dalla popolazione cittadina; in particolare, i marinai scampati alle tempeste ringraziavano il loro protettore, portandogli in dono grossi ceri. Da allora Trecastagni si accende di fervore religioso in occasione delle feste patronali, che trovano il loro apice nella prima domenica di dicembre, quest’anno il giorno 1. Le celebrazioni iniziano la mattina dell’ultima domenica di novembre, quando vengono benedetti i sacchi votivi indossati dai devoti nei giorni della festa: il sacco è un abito penitenziale costituito da un camice bianco legato in vita con un cordoncino dorato, un cappellino in velluto nero, guanti e fazzoletto bianchi. Durante la giornata vengono portate nelle chiese del paese e offerte alla venerazione dei fedeli le due reliquie di san Nicola conservate a Trecastagni: un braccio argenteo risalente al Seicento, che rappresenta appunto l’arto destro del santo, e la Santa Manna, una boccetta con una piccola quantità

MEDIOEVO

novembre

di un liquido che trasuda dalle ossa di san Nicola conservate nella basilica di Bari. La sera del sabato successivo i festeggiamenti entrano nel culmine: nel piazzale antistante la chiesa si svolge una processione con le reliquie, al termine della quale la statua viene traslata sull’altare maggiore e innalzata tramite un particolare congegno meccanico.

Campane a distesa e lanci di fiori La mattina seguente, alle 10,30, dopo la Messa, arriva il momento piú atteso: il simulacro di san Nicola si affaccia dal maestoso portale

Qui sopra e in alto due immagini della statua lignea di san Nicola, portata in processione in occasione delle feste organizzate annualmente a Trecastagni.

centrale della chiesa, portato a spalla dai devoti rivestiti del sacco, salutato dallo sparo dei mortaretti, dal suono delle campane e dal lancio di fiori e strisce multicolori. Il simulacro viene posto su un artistico fercolo e portato in processione nei tre quartieri del paese (Tondo, S. Alfio e Matrice) prima di fare ritorno nella chiesa madre. In serata una nuova processione con tutti i gruppi e le associazioni del paese termina in Piazza Marconi con spettacolari fuochi pirotecnici. Le feste patronali si concludono nella serata del 6 dicembre, giorno liturgico di San Nicola, quando la statua del patrono viene portata un’ultima volta in processione all’interno della chiesa. La chiesa di S. Nicola a Trecastagni è posta in cima a una scalinata monumentale, dalla quale domina il paesaggio; dal campanile si può ammirare lo splendido panorama che abbraccia un tratto della costa orientale della Sicilia, da Taormina ad Augusta, nonché la Piana di Catania e le prime propaggini dei Monti Iblei. Notevole è l’architettura degli interni, mentre gli esterni sono arricchiti da pregevoli lavori in pietra lavica. Il simulacro ligneo di san Nicola risale invece alla metà del Seicento: il Santo è rappresentato seduto sulla cattedra vescovile, nelle vesti liturgiche, ha sul capo la mitra e regge il pastorale e il libro dei Vangeli, con sovrapposte le tre sfere, il suo simbolo tradizionale. Tiziano Zaccaria

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Ante prima

Non mangiare la carne salata! appuntamenti • Da una vicenda che ha i

contorni di una fiaba trae origine la festa che ogni anno Nancy organizza in onore di san Nicola. Momento culminante di un rituale che affonda le sue radici in un passato antichissimo

N

ella regione francese della Lorena è vivo, fin dal Medioevo, un profondo culto religioso nei confronti di san Nicola. Una devozione legata a un’antica leggenda locale, secondo la quale tre bambini che andavano a spigolare nei campi si persero e, nel buio della notte, bussarono alla casa di un macellaio per chiedergli ospitalità. L’uomo, però, li uccise e li fece a pezzi, mettendoli sotto sale. Sette anni dopo san Nicola passò dal macellaio e insistette per mangiare la carne che era in salatura; spaventato dalla richiesta, il macellaio scappò, e san Nicola resuscitò i tre piccoli. Al di là dei racconti fiabeschi, il

santo è amato e celebrato in tutta la Lorena, dove decine di strade portano il suo nome. Il piccolo centro di Saint-Nicolas-de-Port, situato nella parte meridionale della regione, gli ha dedicato una delle basiliche piú belle della Francia: una cattedrale in stile gotico fiammeggiante di dimensioni impressionanti, costruita fra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento.

Barba bianca e mantello rosso La città di Nancy, capitale dell’antico ducato di Lorena, nel week end piú vicino al 6 dicembre (giorno liturgico di san Nicola) ospita una grande festa popolare, con spettacoli dal vivo che rileggono le pagine di storia della Lorena, quest’anno in programma sabato 7 e domenica 8. I bambini attendono con ansia questo evento, perché il santo – con la barba bianca, il mantello rosso e il pastorale in mano – porta loro caramelle e pan speziato, Qui accanto e in alto due immagini della festa che ogni anno Nancy organizza in onore di san Nicola.

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come un Babbo Natale. Il sabato è allietato da animazioni e da uno spettacolo serale in piazza Stanislas, con fuochi d’artificio. Culmine delle celebrazioni è la tradizionale sfilata per il centro storico che si svolge la domenica pomeriggio. Ad aprire il corteo è il carro di san Nicola seguito da una fanfara. Fra costumi sgargianti sfilano poi altre decine di carri, con burattini, marionette, personaggi fiabeschi e della commedia dell’arte, personalità del Medioevo e Rinascimento nei campi delle arti, della cultura, della scienza e della politica. Il festoso corteo parte da piazza Carnot alle 17,00 e si conclude in piazza Stanislas, dove san Nicola fa il suo ingresso trionfale e, dopo avere ricevuto le chiavi della città, tiene un discorso dal balcone del Palazzo del Governo. Oltre centomila persone animano le strade di Nancy in questi giorni di festa, che offrono anche la possibilità di scoprire il mercato di Natale, che propone prodotti artigianali della tradizione lorenese. San Nicola visse nel IV secolo e fu sepolto nella città di Myra (Turchia). Nei secoli successivi la sua tomba divenne meta di pellegrinaggio; nel 1087, per evitarne la profanazione, alcuni marinai si impossessarono delle sacre reliquie e le portarono a Bari. Da allora sono conservate e venerate nella tomba sotto l’altare della cripta della Basilica di Bari. T. Z. novembre

MEDIOEVO


I giorni della Borsa D

al 14 al 17 novembre, con la XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, il meglio dell’offerta mondiale si presenta all’ombra del Tempio di Cerere di Paestum, un sito che cerca di affrancarsi da ogni senso di minorità nei confronti di Pompei. E che, al compimento dei 15 anni di tutela UNESCO (risale al 1998 infatti l’inserimento nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità), si affida all’appuntamento promosso da Regione Campania Assessorato al Turismo e ai Beni Culturali, Provincia di Salerno, Comune di Capaccio e Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, per conoscere un ulteriore momento di rilancio e valorizzazione. Il meglio dell’archeologia mondiale, dalle piú recenti scoperte ai siti piú celebrati, sarà in mostra a due passi dal Tempio di Cerere: il cuore della Borsa pulserà proprio nel Parco Archeologico, dove sarà allestita una tendostruttura di circa 3000 mq, un’area espositiva a disposizione di un settore, il turismo culturale, il cui saldo resta attivo, in Italia, solo grazie ai visitatori stranieri. Quest’anno al workshop, ospitato per la prima volta nel prestigioso Museo Archeologico Nazionale, saranno presenti i cinque migliori tour operator (una sorta di Top Five) di Austria, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Spagna e Svizzera. «Il mercato del Nord e del Centro Europa – dichiara il direttore e ideatore della Borsa, Ugo Picarell – resta il piú dinamico e interessante ma, orientato com’è ormai anche su altre destinazioni, si rischia di perderlo. Con la Borsa di Paestum cerchiamo di dare un contributo alla ripresa del processo di fidelizzazione con il nostro Paese». Tra le tante novità, un piú approfondito approccio alle tecnologie digitali. La XVI edizione della Borsa raddoppia sul versante dell’archeologia 2.0. All’appuntamento con ArcheoVirtual, mostra

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informazione pubblicitaria

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internazionale di tecnologie interattive e virtuali – che nelle edizioni scorse si è rivelato uno dei format di maggiore originalità e successo al punto da richiamare l’attenzione di Digital Heritage a Marsiglia, capitale europea della cultura 2013 –, si affiancherà ArcheoBlog, primo incontro nazionale tra tutti i blogger esperti in archeologia. Se il Parco Archeologico ospiterà i circa duecento stand degli espositori (per l’edizione 2013 il Paese Ospite è il Venezuela), nelle quattro sale conferenze distribuite tra la Basilica Paleocristiana, il Museo Archeologico Nazionale e la tensostruttura si svolgeranno gli oltre 50 tra archeoincontri, dibattiti e conferenze previsti, con 300 relatori. Presenti quest’anno, tra gli altri, i ministri Massimo Bray e Carlo Trigilia, il segretario generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, Taleb Rifai, il consigliere speciale del Direttore generale UNESCO Mounir Bouchenaki, Salvatore Settis, Emanuele Greco, Paolo Matthiae, Franco Iseppi, Vittorio Cogliati Dezza, Viviano Domenici, Armando Massarenti, Valerio Massimo Manfredi, Alberto Angela, Syusy Blady, Roberto Giacobbo, Mario Tozzi, Eva Cantarella. Per ulteriori informazioni, si può visitare il sito ufficiale della manifestazione: www.bmta.it


agenda del mese

Mostre Mantova AMORE E PSICHE La favola dell’anima U Palazzo Te e Palazzo San Sebastiano fino al 10 novembre 2013

L’esposizione ripercorre il tema dell’anima ricercandone le tracce simboliche e archetipiche nell’arte. Le opere dislocate nella residenza gonzaghesca accompagnano il visitatore alla riscoperta del mito di Amore e Psiche. Il progetto acquista un ulteriore valore simbolico, in quanto proprio a Palazzo Te si trova la sala di Amore e Psiche, affrescata da Giulio Romano per Federico II Gonzaga tra il 1526 e il 1528. info tel. 0376 323266; e-mail: biglietteria.te@ comune.mantova.gov.it venezia Leonardo da vinci, l’uomo universale U Gallerie dell’Accademia fino al 1° dicembre

Per la prima volta, dopo

a cura di Stefano Mammini

trent’anni, la mostra offre l’occasione di vedere esposto l’intero fondo di eccezionali fogli autografi del maestro di Vinci, conservato nella raccolta grafica delle veneziane Gallerie dell’Accademia dal 1822. Si tratta di 25 opere grafiche, di norma mai visibili al pubblico, affiancate per l’occasione da altri 27 preziosi fogli, frutto di prestigiosi prestiti di musei italiani e stranieri. I disegni del fondo veneziano, il piú consistente in Italia tra quelli pubblici che custodiscono grafica leonardiana, rappresentano un excursus che, partendo dal 1478 al 1516, documenta l’intero arco della produzione artistica e delle ricerche scientifiche del genio vinciano, con studi di proporzione, natura, armi, guerre, ottica, architettura, fisica, meccanica e disegni preparatori per dipinti: la Natività, l’Ultima Cena, il Cristo portacroce e la Sant’Anna. info tel. 041 522247 oppure 041 5200345; www. gallerieaccademia. org

Firenze Dal giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento U Galleria dell’Accademia fino all’8 dicembre

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Protagoniste dell’esposizione sono le opere d’arte nate per arricchire sia i palazzi pubblici fiorentini, sia gli edifici sedi delle Arti, cioè le antiche corporazioni dei mestieri, o delle magistrature, e addirittura la cerchia di mura cittadine. Temi come l’araldica e la religione civica, legati ai luoghi emblematici della città come il Palazzo dei Priori e Orsanmichele, offrono dunque una nuova chiave di lettura che sottolinea l’importanza delle immagini nella comunicazione e nella propaganda delle fazioni che governavano in età comunale e repubblicana, prima che l’ascesa dei Medici modificasse profondamente l’assetto politico ed estetico del capoluogo toscano. info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it New York tesori medievali da Hildesheim U The Metropolitan Museum of Art fino al 5 gennaio 2014

La cattedrale tedesca di Hildesheim, inserita nella lista del

Patrimonio dell’Umanità nel 1985, custodisce uno degli insiemi piú preziosi di arredi liturgici medievali d’Europa. Poiché la chiesa è attualmente in restauro, una cinquantina di quegli oggetti sono stati concessi in prestito al Metropolitan Museum e sono cosí visibili per la prima volta al di fuori dell’Europa. Il percorso espositivo si apre con la figura di Bernardo di Hildesheim, vescovo e poi santo, che ebbe un ruolo di primissimo

momento di particolare fioritura agli inizi del XIII secolo, quando Hildesheim si afferma come uno dei centri piú importanti, a livello europeo, nella lavorazione del bronzo. info www.metmuseum.org firenze Mattia Corvino e Firenze. Arte e umanesimo alla corte del re di Ungheria U Museo di San Marco fino al 6 gennaio 2014

Figlio del generale János, Mattia Hunyadi Corvinus, nacque nel 1443 in Transilvania e, a soli 15 anni fu eletto re. Per la prima volta, nel regno ungherese, saliva al trono un membro della nobiltà senza ascendenze e relazioni dinastiche. Ben presto, comunque, il giovane monarca si dimostrò degno del simbolo araldico della sua famiglia, il corvo, che il credo comune considerava come segno di potere e saggezza. Nonostante l’educazione soprattutto militare, Mattia era

piano nella committenza artistica del Medioevo: a lui si devono le monumentali porte bronzee della stessa cattedrale di Hildesheim, nonché numerosi oggetti destinati al suo monastero benedettino, alcuni dei quali sono ora esposti a New York. Nelle sezioni successive il racconto si amplia e viene ripercorso lo sviluppo dell’arte e dell’artigianato artistico all’indomani dell’anno Mille, che ha un novembre

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mostre • Antoniazzo Romano, «Pictor Urbis» U Roma – Palazzo Barberini

fino al 2 febbraio 2014 – info tel. 06 4814591; http://galleriabarberini.beniculturali.it

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ntonio Aquili, detto Antoniazzo Romano (1435/40-1508), figura centrale del Rinascimento, fu attivo per quasi mezzo secolo, fino al primo decennio del Cinquecento, a Roma e nel territorio laziale. La mostra illustra il contesto in cui si sviluppa la vicenda artistica del maestro e le svolte fondamentali nella sua produzione. Il pittore era contemporaneo di Benozzo Gozzoli, di Piero della Francesca e di Domenico Ghirlandaio, sui quali si formò, e di Melozzo da Forlí, Piermatteo d’Amelia e il Perugino, con cui condivise importanti commissioni. La sua ricca produzione era destinata a un pubblico composto in prevalenza di alti prelati della curia romana, comunità religiose ed esponenti dei ceti nobiliari. Opere di grande suggestione e di qualità altissima, i suoi dipinti uniscono le novità rinascimentali agli splendori dell’arte medievale, nella profusione degli ori e nella bellezza sacrale dei suoi personaggi, specie le sue straordinarie Madonne dalle sembianze modernamente affini alle tipologie femminili di quel periodo. Circa cinquanta sono le opere esposte – polittici, grandi pale, piccoli dipinti devozionali, tavole fondo oro, e un ciclo di poliglotta, amava le arti e le scienze, coltivava letture classiche e moderne, e riuscí a dar vita a una corte ricca e brillante. Fondò una considerevole biblioteca, la Corvina, e si circondò di scienziati e filosofi. Una delle piú grandi figure dell’umanesimo italiano, Marsilio Ficino, nel 1480 lo definí l’«unico in grado di restituire luce e splendore all’arte e alla sapienza sprofondate nel limbo». Mattia Corvino ebbe un rapporto privilegiato con Firenze, che gli dedica ora una mostra che riunisce varie tipologie di opere, tra cui la tappezzeria del trono di Mattia, su

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disegno di Antonio del Pollaiolo, il rilievo marmoreo con il ritratto di Alessandro Magno del Verrocchio e i ritratti di Beatrice d’Aragona e di Mattia, attribuiti a Giovanni Dalmata. info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it Trento Sangue di drago squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014

Organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, che l’ha già ospitata con successo, la mostra abbraccia un arco cronologico compreso

affreschi staccati, insieme a opere di confronto e testimonianze documentarie –, che offrono al pubblico un viaggio nel Rinascimento «quotidiano» di Antoniazzo e della sua nutrita bottega. A completare l’iniziativa, un itinerario cittadino, promosso in collaborazione con il Comune di Roma, accompagna il pubblico alla scoperta delle testimonianze della pittura di Antoniazzo e della sua scuola presenti in numerosi edifici storici di Roma. Imprenditore di una bottega operosissima e affollata, nell’arco di decenni Antoniazzo fu chiamato a decorare i luoghi sacri piú importanti della città. Dalle basiliche dei SS. XII Apostoli, di S. Croce in Gerusalemme, di S. Giovanni in Laterano, al Pantheon, alle chiese gianicolensi di S. Pietro in Montorio e S. Onofrio, l’opera di Antoniazzo rappresenta il Rinascimento romano.

tra l’antichità e l’Ottocento, e, grazie a opere di scultura, pittura, architettura e disegno, racconta il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell’uomo. Ricca di postazioni multimediali e filmati, la rassegna è inoltre arricchita da una sezione, allestita a Riva del Garda, dal titolo «Mostri smisurati» e creature fantastiche tra i flutti, che espone un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali mitici che, nell’immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari.

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agenda del mese info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www. buonconsiglio.it

Ferrara Zurbarán (1598-1664) U Palazzo dei Diamanti fino al 6 gennaio 2014

Insieme a Velázquez e Murillo, Francisco de Zurbarán fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un’eredità duratura nell’arte europea. A rendere unico lo stile del pittore fu la sua capacità di tradurre gli ideali religiosi dell’età barocca con invenzioni grandiose e al contempo quotidiane, plasmando forme di una tale essenzialità, purezza e poesia, da toccare profondamente l’immaginario moderno. La rassegna è l’occasione per ammirare per la prima volta in Italia i capolavori di uno dei massimi interpreti dell’arte barocca e della religiosità controriformista. Il percorso espositivo, scandito in sezioni cronologico-tematiche, evidenzia il talento del pittore nell’imporre un registro innovativo a generi e temi della tradizione. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune. fe.it www.palazzodiamanti.it ecouen Un’aria di Rinascimento. La musica nel XVI secolo U Musée national de la Renaissance fino al 6 gennaio 2014

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Posta tra la musica medievale, che copre un periodo di quasi otto secoli, e quella barocca, ormai ben conosciuta dai melomani, la musica rinascimentale non era mai stata protagonista di una mostra importante come quella presentata ora a Ecouen. L’esposizione permette di scoprire gli strumenti e i repertori tipici di questo periodo, le condizioni materiali in cui veniva eseguita la musica e il suo ruolo sociale, simbolico e politico, grazie a un centinaio di opere che riuniscono strumenti musicali, spartiti, trattati, dipinti, incisioni e disegni, oltre a oggetti artistici. Il percorso affronta quattro temi essenziali per consentire un’immersione totale nella musica rinascimentale: musica sacra, tradizioni e mutamenti; musica profana ed evoluzione della pratica strumentale; ritorno all’Antico; fasti di corte (danze, feste, ingressi trionfali). info www.museerenaissance.fr

Rovereto Antonello Da Messina U Mart fino al 12 gennaio 2014

Il progetto espositivo propone un’indagine articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento e sul suo tempo, attraverso lo studio degli intrecci storico-artistici e delle

con i maestri a lui contemporanei, delle similitudini e delle differenze, ma è concentrata anche su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista «non umano», come lo definí il figlio Jacobello, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche piú intime dell’esistere. info numero verde 800 397760; e-mail: info@mart.trento.it, infogruppi@mart.trento.it; www. mart.trento.it

prato Da Donatello a Lippi. Officina pratese U Museo di Palazzo Pretorio fino al 13 gennaio 2014

controversie ancora aperte, presentati in questa sede come punti di forza attraverso i quali approfondire nuovi percorsi di interpretazione critica. Questa rilettura di Antonello da Messina non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere, l’analisi dei rapporti

A coronamento di un lungo restauro, che lo ha riportato all’originario splendore e ora lo restituisce alla collettività (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013), il Palazzo Pretorio di Prato ha riaperto le sue porte e lo ha fatto con una grande mostra, che fa rivivere uno dei momenti magici dell’intera storia dell’arte italiana, quello vissuto nel Quattrocento dalla città toscana, quando qui operarono molti tra i maggiori artisti dell’epoca. Su tutti, domina la figura carismatica di Filippo Lippi, che fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento tenne aperto il cantiere degli affreschi di Santo Stefano e del Battista, nella cappella maggiore del Duomo. Altre sue opere

in mostra documentano la fantasia eccitata e le estenuate eleganze di questa splendida maturità. Intorno a lui si formarono pittori che meritano di essere meglio conosciuti, come il Maestro della Natività di Castello o Fra Diamante. Prima di Lippi le figure di maggiore spicco che operarono per Prato furono Donatello e Paolo Uccello. Attraverso opere di grande qualità, la mostra fa luce su queste personalità, per aiutare a capire meglio quanto a Prato di loro è rimasto. Al tempo stesso si prefigge alcune operazioni esemplari di ricostruzione di opere che erano a Prato e che sono state smembrate,

riunendo predelle e pale ora divise fra i musei pratesi e le collezioni straniere. info e prenotazioni tel. 0574 1934996; www.officinapratese.com

PArigi Le origini della stampa nell’Europa del Nord (1400-1470) U Museo del Louvre, Aile Sully fino al 13 gennaio 2014

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La comparsa della stampa è un fenomeno di primaria importanza nella storia dell’arte occidentale: a partire dal XV secolo, infatti, artisti e incisori possono sperimentare tecniche diverse, che consentono l’impressione di una matrice su di un supporto e la conseguente creazione e diffusione di opere che possono essere realizzate in esemplari multipli. L’esposizione parigina riunisce un’ottantina di opere, che propongono un repertorio assai variegato dei temi di volta in volta illustrati. Le stampe cominciarono a circolare rapidamente in tutta l’Europa, avendo tuttavia come principale centro di irradiazione la Germania, e la mostra si concentra su un periodo di circa settant’anni, dalle prime realizzazioni fino agli inizi dell’attività di Martin Schongauer, incisore renano il quale contribuí in maniera decisiva a far sí che anche la stampa si affermasse come una vera e propria arte. info www.louvre.fr PArigi Angkor. Nascita di un mito. Louis Delaporte e la Cambogia U Musée national des arts asiatiques Guimet fino al 13 gennaio 2014

Il museo parigino risale alle origini del mito del

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soprattutto grazie alla personalità emblematica di Louis Delaporte (1842-1925), grande esploratore francese che coltivava il sogno di «far entrare l’arte khmer nei musei». info www.guimet.fr PArigi sito cambogiano di Angkor, cosí come venne elaborato in Europa, e in Francia in particolare, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. L’esposizione racconta in che modo il patrimonio della cultura khmer fu riscoperto e come i monumenti di Angkor vennero presentati al pubblico all’epoca delle grandi Esposizioni universali e coloniali. Per farlo, sono state selezionate piú di 250 opere: sculture khmer in pietra databili tra il X e il XIII secolo, repliche in gesso, fotografie, dipinti e grafiche otto-novecentesche (acquarelli, disegni a inchiostro, stampe, ecc.). Un insieme di materiali che dà conto dei primi contatti del Paese transalpino con l’arte della Cambogia antica, sviluppati

il rinascimento e il sogno. bosch, veronese, el greco... U Musée du Luxembourg fino al 26 gennaio 2014

Dopo essere stata presentata con successo a Firenze, in Palazzo Pitti, sbarca a Parigi la mostra che celebra il legame tra il Rinascimento e il sogno, ideata proprio perché il grande movimento artistico e culturale nacque appunto dal sogno di una nuova vita, e attribuí ai sogni, nonché alla loro interpretazione e rappresentazione, un’importanza straordinaria: nella vita politica e sociale, grazie alla rinascita delle pratiche divinatorie; nella letteratura, sia in prosa che in poesia (Francesco Colonna e Rabelais, l’Ariosto e il Tasso, la Pléiade e d’Aubigné…) e nei dibattiti medici e teologici, in particolare durante la terribile caccia alle streghe che imperversò in Europa dal XV al XVII secolo. Tentare di dipingere l’onirico, come avevano già fatto gli artisti medievali, seppure in un contesto diverso, significa quindi

superare in piú modi le frontiere dell’arte, ampliandone considerevolmente l’ambito di espressione e conferendole nuovi poteri. info www. museeduluxembourg.fr zurigo Carlo Magno e la Svizzera U Museo nazionale fino al 2 febbraio 2014

Le innovazioni introdotte da Carlo Magno (741–814) sono tra i fondamenti della nostra cultura ed è questo uno dei motivi ispiratori della rassegna che il Museo nazionale di Zurigo dedica al grande imperatore, a 1200 anni dalla sua morte. In un momento in cui lo spazio economico, politico e culturale europeo lotta per mantenere la coesione interna, una mostra sul periodo di Carlo Magno acquisisce un’attualità inaspettata: fu proprio il sovrano carolingio a riunire sotto un unico impero parti dell’Europa occidentale, orientale e meridionale. Oggi i rappresentanti delle relative nazioni discutono quasi ogni settimana, nell’ambito dell’Unione Europea, sulla conservazione dell’unità europea. Carlo Magno, primo imperatore del Medioevo, ha introdotto molte riforme, le cui basi rimangono attuali. La sua riforma scolastica rappresenta

una strada da seguire. La scrittura da lui promossa è la base dei nostri caratteri tipografici. Grazie a lui sono stati tramandati testi di autori antichi e, di conseguenza, il loro sapere. La sua riforma monetaria è la base del nostro sistema moderno. E le sue costruzioni palatine hanno dato impulso all’edilizia in pietra. Ha rafforzato il cristianesimo in Occidente, fissato la

liturgia, rivisto la Bibbia, costruito monasteri e disciplinato la vita dei monaci. Non a caso, Carlo è l’unico sovrano del Medioevo europeo ad avere ricevuto l’appellativo di Magno quando era ancora in vita. L’interesse attorno alla sua persona, al suo dominio e alle conquiste culturali del suo tempo perdura fino a oggi. La mostra illustra come le sue riforme abbiano inciso sull’istruzione, sulla fede e sulla società, e quali innovazioni vanno rilevate nell’arte e nell’architettura.

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agenda del mese L’esposizione, inserita nel contesto europeo, è incentrata sul patrimonio culturale della Svizzera odierna risalente all’epoca di Carlo Magno. info www.nationalmuseum. ch (anche in lingua italiana) roma Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro U Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra fino al 16 febbraio 2014

Lasciano Napoli per la prima volta i capolavori del Museo di San Gennaro: oltre novanta opere, che offrono un assaggio di un tesoro che conta oltre 21mila pezzi, donati in settecento anni di devozione, e che ripercorrono la storia di un culto legato a doppio filo a Napoli, ma anche le ragioni del suo radicarsi in modo tanto particolare sia in loco che fra i sovrani di tutta Europa. Da segnalare è la presenza di due opere angioine di rarità assoluta: il busto reliquiario commissionato da Carlo II d’Angiò (1254-1309) a tre orafi provenzali e realizzato fra il 1304 e l’anno

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successivo; e il reliquiario tronetto per il trasporto in processione delle ampolle con il sangue di san Gennaro, commissionato invece da Roberto d’Angiò (1277-1343), figlio di Carlo II. info tel. 06 69205060; www. fondazioneromamuseo.it milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio 2014

Interattiva e multidisciplinare, la mostra è dedicata a Leonardo artista e inventore. Sono presentate oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo, realizzati nel rispetto del progetto originale. Tra gli altri, possiamo ricordare: la clavi-viola, il leone meccanico, il cavaliererobot o la bombarda multipla. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum

Appuntamenti milano Cenacolo vinciano. aperture straordinarie u Cenacolo Vinciano 15 novembre, 6 dicembre e 20 dicembre

Fino al prossimo dicembre, grazie a Eni, per tre venerdí, le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il capolavoro. Le visite guidate al Cenacolo

Vinciano sono in programma dalle 19,30 alle 22,30. La prenotazione è gratuita, ma obbligatoria (vedi info). info tel. 02 92800360; www.cenacolovinciano.net siena

d’ora. La magnifica facciata della chiesa è fiancheggiata da due torri imponenti, coronate da guglie che si proiettano verso l’alto, e al cui interno si inseriscono scale a chiocciola, quasi segrete perché nascoste alla vista dei visitatori, che conducono verso il «cielo» del Duomo. Una volta giunti sopra le volte stellate della navata destra si inizia un itinerario riservato a piccoli gruppi,

accompagnati da una guida, che riserva scoperte ed emozioni. Si può infatti camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare suggestive viste panoramiche «dentro» e «fuori» la

la porta del cielo U Duomo fino al 6 gennaio 2014 (prorogata)

Per rispondere alle numerose richieste è stata prorogata l’iniziativa La Porta del Cielo, il percorso sopraelevato del Duomo di Siena. Dopo lunghi restauri, dal 6 aprile scorso, il pubblico ha potuto ammirare il «cielo» del Duomo, una serie di locali mai aperti prima

cattedrale. Si percorre dunque il ballatoio della cupola dal quale sarà possibile contemplare l’altar maggiore, la copia della vetrata di Duccio di

Buoninsegna, con al centro la mandorla di Maria Assunta, e i capolavori scultorei. Dall’affaccio della navata sinistra è possibile ammirare uno splendido panorama sulla Basilica di S. Domenico, la Fortezza Medicea, l’intera cupola della cappella di S. Giovanni Battista, il paesaggio circostante fino alla Montagnola senese. Si entra infine dietro il prospetto della facciata nel terrazzino che si affaccia su Piazza del Duomo con la vista dello Spedale di S. Maria della Scala e si accede al ballatoio della controfacciata da dove si ha una vista generale sulla navata centrale. info e prenotazioni tel. 0577 286300 (lu-ve, 9,00-17,00); e-mail: opasiena@ operalaboratori.com

bassano del grappa Medioevo a due facce. È proprio come lo pensiamo? U Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny fino al 22 marzo 2014

L’associazione bassanese propone un ciclo di incontri serali per fare il punto sugli sviluppi della medievistica europea. Le conferenze si svolgono al sabato, alle ore 17,30, presso l’Istituto Scalabrini di Bassano del Grappa. info tel. 0444 965129; e-mail: info@ ponziodicluny.it novembre

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grandi battaglie varna Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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10 novembre 1444

Il trionfo di

di Francesco Colotta

Murad

Nel 1443, una nuova crociata, proclamata da Eugenio IV per scongiurare l’espansione ottomana nell’Europa orientale, riunisce in una grande alleanza i potentati ungheresi, polacchi, serbi e transilvani. Per l’impero musulmano, costretto a proporre un armistizio, la sorte sembra volgere al peggio. Ancora una volta, però, grazie all’improvvida iniziativa di un bellicoso cardinale...

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risto, se tu sei Dio, come affermano i tuoi seguaci, castigali per la loro slealtà»: questa implorazione uscí, a sorpresa, dalla bocca del sultano ottomano Murad II, nel novembre 1444, durante la decisiva battaglia di Varna (Bulgaria), che lo vedeva opposto a una multietnica armata cattolica. Murad si era inaspettatamente rivolto al Messia dopo aver subito un grave sopruso da parte dei nemici cristiani, i quali, spinti dalla curia romana, avevano infranto l’accordo di pace sottoscritto appena un anno prima con i Turchi, accordo che sanMiniatura raffigurante la battaglia di Varna, combattuta nel 1444 tra gli Ottomani di Murad II e un’alleanza cristiana guidata da Ladislao III Jagellone, da un’edizione del Tadj al-Tawarikh (La corona delle storie) di Sadeddin. 1616. Parigi, Musée Jacquemart-André.

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civa un lungo periodo di non belligeranza tra le forze crociate e quelle islamiche nel conteso territorio balcanico. Per questo, mobilitato l’esercito, il sultano si presentò sul campo con il suo vessillo e con in tasca un oggetto dall’alto valore simbolico: la copia dell’accordo disatteso.

Un impero inquieto

All’inizio del XV secolo l’impero ottomano, lacerato da problemi politici interni, aveva rallentato la sua avanzata nei territori bizantini, oltre che nei Balcani. Il sultano Maometto I (1379 o 1389-1421), infatti, piú che all’allestimento di nuove campagne di espansione, puntava a eliminare i suoi rivali interni, primo fra tutti il leader eterodosso Seyh Bedreddin, fautore di uno Stato turco meno centralizzato e rispettoso delle diverse anime etnico-religiose del territorio. Il ribelle riscuoteva molti consensi in Anatolia, tra le fila della

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grandi battaglie varna

Murad II in una miniatura ottomana del XVI sec. Istanbul, Biblioteca Universitaria.

cosiddetta componente «nomade» degli Ottomani, che piú volte aveva manifestato insofferenza per il governo autocratico dei sultani. Nello stesso periodo un’altra figura rivoluzionaria aveva creato scompiglio all’interno dei confini dell’impero: era Mustafà Çelebi, il quale millantava di essere il fratello maggiore del sultano Maometto. Soprannominato per questa ragione Düzme, «il falso», Mustafà riuscí comunque a radunare una nutrita schiera di seguaci e nel 1419, espugnata la capitale Adrianopoli (l’odierna Edirne), si autoproclamò sultano. Ben presto, però, le truppe di Maometto accerchiarono il ribelle, costringendolo alla fuga e a cercare asilo tra i cristiani d’Oriente. I Bizantini, interessati a rendere piú profonda la spaccatura all’interno dell’impero ottomano, armarono l’esule e lo spinsero a tentare un nuovo putsch in patria.

Pugno di ferro

Nel frattempo, morto Maometto I, era salito al potere il figlio Murad II che, come il padre, usò il pugno di ferro contro i rivoltosi. Con grande rapidità il nuovo sultano sconfisse i dissidenti rafforzando in modo ulteriore il centralismo dello Stato. L’unica insidia interna rimasta proveniva ancora dall’irriducibile Anatolia, al cui controllo ambiva anche il sovrano della Persia, Shah Rukh, l’ultimogenito di Tamerlano. Preoccupato innanzitutto della difesa del Mediterraneo e dei conflitti intestini, Murad si disinteressò dello scacchiere europeo e in particolare dei Balcani, dove gli Stati filo-cattolici si stavano accingendo a dare corpo a un’alleanza in funzione antimusulmana e dove anche i territori bizantini della penisola si erano trasformati in una potenziale insidia, dopo la decisione dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo di sottomettersi alla Chiesa latina nel 1439. Malgrado la mancata ratifica della riunificazione tra cristiani d’Oriente

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OCEANO ATLANTICO

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Territori ottomani nel 1359 Conquiste dal 1359 al 1451

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Conquiste dal 1521 al 1566

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Conquiste dal 1567 al 1683 Territori riconsegnati al controllo di Safavidi

e d’Occidente da parte del clero bizantino, da quel momento Giovanni VIII poteva comunque contare sull’appoggio di Roma. Uno dei regni dell’Est Europa piú attivi nella lotta anti-islamica era senza dubbio l’Ungheria, la grande sconfitta, insieme alla Francia, della crociata di Nicopoli del 1396 (vedi «Medioevo» n. 176, settembre 2011; anche on line su www. medioevo.it). Da anni i sovrani di quel regno cercavano una rivincita, ma ambivano soprattutto a riconquistare i territori che gli Ottomani avevano loro sottratto. Dopo la morte di re Alberto II d’Asburgo, la lotta per la successione alla corona ungherese aveva rinviato il varo del progetto militare, che riprese forma, nel 1440, con

Tabriz

Amu

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Algeri

Tiflis

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Venezia

l’avvento sul trono magiaro del monarca di Polonia Ladislao III Jagellone. La dinastia lituano-polacca degli Jagelloni stava allora conquistando sempre piú prestigio e spazio e si avviava a diventare uno dei centri politici della cristianità nell’Europa orientale. In Polonia, infatti, il partito cattolico dominante, che aveva annientato il rivale movimento hussita (i riformatori considerati eretici della Chiesa), propugnava una linea aggressiva nei riguardi della presenza islamica nei Balcani.

La Mecca OCEANO INDIANO

In alto l’espansione dell’impero ottomano tra il XIV e il XVII sec. La battaglia di Varna fu uno degli episodi che segnarono la politica di conquista avviata da Murad II a danno delle regioni balcaniche. In basso pugnale e fodero di fabbricazione ottomana. Metà del XVI sec. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

Per liberarsi dal giogo

I tempi erano ormai maturi per la formazione di una grande alleanza tra la Polonia, la controllata Ungheria e i vicini

Tra il XIV e il XV secolo gli Ottomani furono per l’Europa un nemico quasi invincibile

MEDIOEVO

novembre

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grandi battaglie varna regni cristiani dell’Est, prima fra tutti la Serbia, duramente colpita, in quegli anni, dalla tirannia ottomana. Sotto il giogo turco erano finiti anche i Valacchi, che, guidati da Vlad II Dracul e sostenuti dagli Ungheresi, avevano tentato di reagire contro gli occupanti. La nuova crociata era ormai alle porte e ricevette l’imprimatur dell’energico pontefice Eugenio IV. Capo militare della spedizione fu nominato il voivoda di Transilvania János Hunyadi, al quale si affiancarono il despota serbo Durad Brankovic e il figlio di Vlad Dracul, Mircea II. Nel 1443 le milizie cattoliche riportarono le prime significative affermazioni sul campo a Niš, in Serbia, e a Sofia. Il rigidissimo inverno bloccò l’avanzata dell’esercito, ma la strada verso un’agevole, quanto inaspettata vittoria, sembrava spianata. Anche perché Murad, ancora impegnato in Anatolia,

non poteva combattere contemporaneamente su due versanti. Lo scenario appariva davvero inconsueto: «Gli Ottomani che fino a poco prima vincevano continuamente – scrive lo storico dell’impero bizantino Georg Ostrogorsky –, si videro costretti alla difensiva su vari fronti». Per l’invincibile armata turca si profilavano la capitolazione in Europa e una perdita di influenza anche in Anatolia. Murad si vide costretto a trattare una tregua.

L’accordo di Adrianopoli

Nel giugno del 1444 Murad accolse i rappresentanti dei capi dell’alleanza cristiana nella sua roccaforte di Adrianopoli e accettò di firmare un armistizio della durata di dieci anni. L’accordo prevedeva anche la restituzione di una parziale indipendenza a regioni fino a quel momento in mani musulmane: ai Serbi furono riassegnate alcune città, tra cui la

capitale Smederevo, mentre la Valacchia poté ufficialmente diventare vassalla dell’Ungheria, uscendo dall’orbita islamica. L’armistizio, però, non pose fine alle ostilità per il deciso volere della Chiesa, e della curia romana in particolare, che continuava ad accarezzare l’idea della crociata. Il cardinale Giuliano Cesarini, legato papale in Ungheria, giudicò nullo il trattato di pace, sottoscritto da un popolo «infedele», e caldeggiò la ripresa delle armi. Con pessimo fiuto strategico, il porporato ritenne di poter chiudere agevolmente la partita con i Turchi sul piano militare, soprattutto dopo aver ottenuto anche il sostegno dei Veneziani. La mossa di Cesarini provocò malumori all’interno della coalizione, tra i Serbi e tra gli stessi capi della missione, a partire dal comandante Hunyadi, il quale, tuttavia, partí ugualmente per il fronte.


Cesarini era impaziente di attaccare: voleva approfittare dello stato di profonda instabilità politica dell’impero ottomano, generato non solo dai conflitti interni in Vicino Oriente, ma anche dall’improvvisa abdicazione di Murad in favore del giovanissimo figlio Maometto II, allora appena dodicenne. Ma perché Murad, in quel momento cruciale, aveva scelto di abbandonare la scena? Alcuni cronisti dell’epoca ipotizzarono che soffrisse di una malattia misteriosa, altri, invece, scrissero che, stanco delle guerre, voleva ritirarsi a vita contemplativa. Il giovanissimo successore, pur avendo mostrato di possedere un piú che precoce talento da leader, non aveva sufficiente esperienza bellica per affrontare una missione cosí gravosa. Dopo averlo implorato piú volte, il giovane riuscí, infine, a convincere il padre a riassumere il comando delle operazioni.

A destra Budapest. Il monumento in onore di János Hunyadi, uno dei capi dell’alleanza cristiana contro Murad II. Sulle due pagine la fortezza di Smederevo, sulle rive del Danubio, la capitale che i Serbi si videro restituire dagli Ottomani, all’indomani dell’accordo raggiunto nel 1444 tra Murad II e i capi dell’alleanza cristiana.


grandi battaglie varna Gli schieramenti e le loro mosse

Truppe Trup Tr uppe up pee ottomane ottttom oman an ne Truppe Trup ppe di Ladi Ladislao disl slao ao Ladislao III

Murad M Mur ad II I

Ezero Varnenski Ezzer e o Va V arn r en ensk skii sk (Lago Varna) (Lag (L aaggo di V arna ar na)) na

Varna V arn na Zali Za Zaliv liiv Va Varn Varnenski rnen rn ensk en skii sk (Bai (B (Baia aiaa dii V ai Varna) arrna n )

ROMANIA

VARNA

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Il ciclone ottomano

BULGARIA

GRECIA

TURCHIA

Galata Ga G alaataa

In alto i movimenti delle armate che si scontrarono a Varna il 10 novembre 1444. Al formidabile esercito ottomano, forte di 60 000 uomini, cercarono di opporsi, senza successo, le truppe guidate da Ladislao III di Polonia, che poteva contare su poco piú di 20 000 effettivi.

Fiorino aureo di Ladislao III Jagellone. Al rovescio (qui sopra), compare l’immagine del sovrano, che fu re di Polonia (dal 1434) e d’Ungheria (dal 1440).

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L’instabilità di governo, nel frattempo, aveva acceso un nuovo scontro politico all’interno dell’impero: da una parte erano schierati i sostenitori della linea «pacifista» di Murad, che facevano capo al gran visir Çandarli Halil Pascià, dall’altra erano i fautori di una condotta piú aggressiva sul piano internazionale. Tornato in sella, il sultano intuí che, per ristabilire l’unità di intenti del suo popolo, avrebbe dovuto concedere qualcosa al partito rivale: mosso dal risentimento nei riguardi di quei capi cristiani che lo avevano ingannato, radunò le sue truppe e, inoltre, concluse una preziosa alleanza con i Genovesi, sempre disponibili a mobilitarsi contro Venezia, alleata del cardinal Cesarini. L’aiuto di Genova fu determinante per il rapido trasferimento dell’esercito islamico, in gran parte dislocato in Anatolia occidentale. Proprio grazie alle veloci navi della repubblica, infatti, il grosso dell’armata di Murad poté sbarcare nei Balcani, nonostante l’interposizione delle galee veneziane accorse a sorvegliare lo stretto dei Dardanelli. L’arrivo delle truppe ottomane ebbe l’effetto di un ciclone: 60 000 uomini si riversarono sul territorio puntando verso la Bulgaria. Quando il comandante Hunyadi apprese che un’incontenibile marea di soldati turchi si stava avvicinando a Varna, decise di convocare un consiglio militare supremo. In quell’assise il cardinale Cesarini, che aveva voluto a tutti i costi l’attacco, propose, a sorpresa, di far ritirare le truppe cristiane vista la soverchiante superiorità numerica del nemico. Ma era ormai troppo tardi: come osservò lo stesso Hunyadi «fuggire è impossibile, arrendersi è impensabile. Combattiamo con coraggio e onore». Il 10 novembre novembre

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del 1444 il comandante transilvano schierò i suoi 20 000 uomini a semicerchio su un fronte di 3,5 km circa. Nel centro erano disposti circa 3500 effettivi, tra i quali spiccavano i corpi d’élite polacchi e ungheresi di re Ladislao. Alle loro spalle, sempre in posizione centrale, aveva preso posto la cavalleria valacca, con funzioni di copertura. Sul fianco destro, invece, si trovavano circa 6000 militari bosniaci, croati e sassoni, insieme al cardinale Cesarini. Il fianco sinistro, infine, era composto da soldati transilvani, bulgari, cechi, lituani e ungheresi. Sul versante opposto l’esercito ottomano presentava un nutrito battaglione di Giannizzeri sistemati nel reparto centrale; sulla destra si trovavano la cavalleria degli Spahi provenienti dall’antica Rumelia (zona a cavallo tra la Turchia, la Grecia, la Bulgaria e l’Albania), mentre l’ala sinistra era occupata dagli Akinci e da altri Spahi anatolici.

La cavalleria leggera turca assalí subito il fianco destro avversario. L’armata cristiana resistette all’urto e reagí con prontezza utilizzando bombarde e armi da fuoco rudimentali. Commise, però, un grave errore: alcuni suoi effettivi, presi dall’entusiasmo per l’iniziale affermazione sul campo, si lanciarono all’offensiva in modo avventato. Le conseguenze si rivelarono catastrofiche.

La morte del cardinale

La supremazia musulmana non tardò a manifestarsi e fu tale da costringere una parte di cristiani alla fuga, in particolare l’ala destra, dove agiva il cardinale Cesarini. Il porporato, insieme a molti suoi fedelissimi, cadde sul campo, segnando l’inizio della disfatta. Anche i contingenti posti a sinistra dello schieramento, optando per una tattica troppo audace, subirono un durissimo contrattacco per opera della cavalleria turca. A poco erano servite le raccomandazioni di Hunyadi, che aveva

invitato il suo esercito a non compiere manovre spericolate senza una strategia concordata. Il re Ladislao, per esempio, dal centro dello schieramento, era partito all’attacco con la cavalleria, con il temerario intento di catturare il sultano. Il sovrano e i suoi uomini finirono invece vittime di un’imboscata in prossimità della tenda di Murad, e lo stesso Ladislao venne fatto prigioniero e decapitato. In poco tempo gli Ottomani presero il sopravvento e annientarono le ormai disgregate milizie cristiane. Solo Hunyadi, con uno sparuto contingente, riuscí a fuggire e a mettersi in salvo. La vittoria di Murad non ripristinò il trattato di pace infranto dal cardinale Cesarini e dai suoi alleati. Il sultano approfittò dell’affermazione di Varna per estendere i propri domini nei Balcani e nella penisola

Le insegne Lo stemma degli Jagelloni (in alto) e quello delle forze cristiane in due riproduzioni realizzate all’interno del Parco-Museo «Vladislav Varnenchik», creato a Varna per ricordare la battaglia combattuta nel 1444.

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grandi battaglie varna Il tesoro di Varna

L’oro piú antico del mondo Situata lungo la costa del Mar Nero, Varna – oggi una delle maggiori città della Bulgaria – sorge su un istmo sabbioso che si estende fra una baia e un lago che hanno tratto il proprio nome da quello del centro abitato, rispettivamente Zaliv Varnenski ed Ezero Varnenski. Conosciuta in età antica come Odessos, fu ribattezzata Varna quando fu conquistata dai Bulgari, nel V secolo d.C. Nei secoli successivi, la città, come del resto l’intera regione bulgara, fu al centro di lotte e conflitti, e, dopo la lunga dominazione ottomana, tornò sotto il controllo dei Bulgari nel 1878, diventando la sede di un principato. Molto prima che questi eventi la coinvolgessero, tra il V e il IV millennio a.C., Varna fu uno degli epicentri della cultura calcolitica, che costituisce uno dei fenomeni piú significativi della preistoria bulgara. L’intera area compresa fra il lago e la fascia costiera risultò caratterizzata da una fitta serie di presenze, che testimoniano di una lunga frequentazione e presto, oltre alle aree sfruttate come abitato, vennero alla luce le prime necropoli. Nell’autunno del 1972, fu scoperto il sepolcreto che impose Varna all’attenzione del mondo intero. Il sito è stato oggetto di scavi sistematici fino al 1986, e le indagini hanno permesso la Figurine di animali in lamina aurea, da una delle tombe preistoriche di Varna. Sofia, Museo di Storia Nazionale.

Varna. L’ingresso del Parco-Museo «Vladislav Varnenchik».

localizzazione di quasi 300 tombe e l’acquisizione di una mole di reperti e di informazioni di qualità e di proporzioni del tutto inaspettate. L’elemento di maggior interesse è la presenza, abbondante, di manufatti in oro, che, a tutt’oggi, rappresentano la piú antica attestazione della lavorazione di questo metallo nel mondo. Gli ori di Varna hanno destato una tale ammirazione che il noto archeologo britannico Colin Renfrew non ha esitato a definire la loro scoperta come un «evento di portata paragonabile a quella della scoperta del tesoro di Troia da parte di Heinrich Schliemann». In quindici anni di scavi, sono state localizzate 281 tombe, che hanno restituito corredi funebri di notevole pregio: oltre al vasellame tipico della cultura di Gulmenitsa – una facies dell’età calcolitica alla quale la necropoli può essere ascritta –, a strumenti in selce e manufatti in pietra dura, sono stati rinvenuti molti oggetti in rame e, appunto, una quantità impressionante di oggetti in oro – tra cui bracciali, pettorali, else di armi da parata, scettri –. Basti pensare che la sola tomba n. 43 custodiva 1,5 kg di bracciali, perle e altri monili. (red.)

Da leggere U Justin McCarthy, I Turchi Ottomani.

U Aslanian Dimitrina, Storia della

Dalle origini al 1923, Ecig, Genova 2005 U Sima Cirkovic, I Serbi nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1992 U Steven Runciman, Storia delle Crociate, Einaudi, Torino 1993 U Ducas, Historia turco-bizantina 1341-1462, Il Cerchio, Rimini 2008

Bulgaria. Dall’antichità ai nostri giorni, La Casa di Matriona, 2007 U Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1993 U Andrea Frediani, Le grandi battaglie del Medioevo, Newton Compton, Roma 2010

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ellenica. Sapeva che, a livello politico, la sconfitta per le forze filopapali si era rivelata ben piú pesante di quella di Nicopoli e non temeva una reazione a breve termine. Quattro anni piú tardi, in Kosovo, un’altra grande alleanza cristiana tentò di cacciare i Turchi dall’Est Europa. Ancora una volta, però, con poca fortuna (vedi «Medioevo» n. 189, ottobre 2012; anche on line su www. medioevo.it). F novembre

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storie ducato di benevento

Arechi di Chiara Mercuri

principe del Mezzogiorno Ultima roccaforte dell’identità e dell’indipendenza dell’Italia Langobardorum, il Ducato di Benevento rimase inespugnato a lungo, anche grazie all’abilità e alla lungimiranza del sovrano che seppe tenere testa perfino a Carlo Magno. E che volle dotare la sua capitale non solo di difese possenti, ma anche di splendidi monumenti

L L’

epopea longobarda segnò la storia italiana dall’invasione della Penisola – nel 568 – fino al 774, quando il regno a cui i nuovi venuti avevano dato vita venne distrutto da Carlo Magno. Due secoli intensi ancora avvolti in una nebbia di congetture, dovuta anche al fatto che il popolo longobardo, pur lasciando una serie di importanti testimonianze, finí con lo sciogliersi completamente nel mondo medievale italiano, scomparendo del tutto. Tuttavia, la loro eredità non può essere considerata effimera: dei Longobardi, infatti, sono rimaste tracce evidenti non solo dal punto di vista «genetico», ma, soprattutto, anche da quello culturale, che hanno dato un contributo decisivo alla trasformazione di vaste regioni dell’Italia padana, soprattutto Friuli e Lombardia. Com’è stato già evidenziato nell’articolo sul Ducato di Spoleto (vedi «Medioevo» n. 201, ottobre 2013), la struttura istituzionale e il sistema di potere longobardo in Italia centrosettentrionale furono distrutti dalla nuova alleanza tra l’emergente potenza dei Franchi e la Chiesa di Roma. Un’intesa che portò alla fondazione di un vastissimo impero continentale, basato sulla collaborazione (e competizione) tra papato e impero: il Sacro Romano Impero, capace di perdurare – fra trasformazioni, conflitti e riforme – per un millennio.

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Oltre a dover assistere al crollo del loro regno nazionale, i Longobardi, nella loro antica capitale, Pavia, subirono l’onta di vedere il vittorioso re franco Carlo assumere il titolo di Rex Langobardorum. Chi cercò di resistere, fu prima annientato militarmente, e poi rapinato di terre, titoli e beni. Altri, i piú ambiziosi – o forse solo i piú avveduti – si adeguarono al nuovo regime e, rivolgendosi al papa, come nel caso dei duchi di Spoleto, novembre

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Qui accanto il duca longobardo Arechi I, in trono, in una miniatura dal Codex Matritensis Legum Langobardorum. XI sec. Madrid, Biblioteca Nacional de Espaùa. Successore di Zottone, fondatore del ducato di Benevento, Arechi governò al 591 al 640.

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storie ducato di benevento DUCATO DI SPOLETO

Ortona Pavia

MARE

DUCATO ROMANO Venafro

DUCATO

ADRIATICODI SPOLETO

Larino

Siponto Lucera

Bojano

Spoleto Roma

Canne

Alife Capua

Ravenna

Bari

BENEVENTO

Territori longobardi Territori bizantini Capitale del regno longobardo

Consa Potenza

Salerno

DUCATO Benevento DI Napoli BENEVENTO

Palermo

Reggio

MARE TIRRENO

Velia

Buxentum

IL DUCATO DI BENEVENTO

In alto l’estensione del Ducato di Benevento e, nel riquadro, la sua posizione nell’Italia del VII-VIII sec.

poterono mantenere titoli e proprietà. Si sottomisero, facendosi rasare capelli e barbe, orgogliosi lasciti della loro antica stirpe di guerrieri germanici. Nei preziosi feudi di Ivrea, Verona, Pavia e della Tuscia, la nobiltà longobarda fu cosí sostituita da una nuova aristocrazia militare di origine franca, mentre altrove fu costretta a omogeneizzarsi e integrarsi con essa. Alla fine dell’VIII secolo, a duecento anni dalla loro inarrestabile discesa nella Penisola, di essi restava dunque assai poco: non piú la lingua, quasi fagocitata del tutto dal preponderante latino, né la religione, poiché convertiti al credo romano da oltre un secolo. Come si è già detto, dei Longobardi restava pur sempre il sangue, presente in proporzioni consistenti nella popolazione di alcune aree della Penisola, ma disperso come identità etnica. Ci fu, tuttavia, un’eccezione significativa. Quella di un piccolo Stato longobardo che riuscí a resistere all’ondata franca, perché radicato da tempo

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DUCATO DI CALABRIA

MARE IONIO

negli Appennini centro-meridionali, nel territorio degli antichi Sanniti, la popolazione che piú di ogni altra era riuscita a resistere – secoli prima – all’espansione di Roma: il Ducato longobardo di Benevento.

Soli contro tutti

I duchi beneventani riuscirono a resistere ai Franchi, cosí come – sin dagli inizi – avevano saputo opporsi ai Bizantini, che controllavano saldamente buona parte dell’Italia meridionale; Benevento, però, aveva anche sostenuto una dura lotta contro i propri connazionali, cioè con i re longobardi che risiedevano a Pavia, decisi ad assoggettare i duchi al potere centrale. Questi ultimi avevano dovuto resistere a lungo non solo a queste opposte pressioni, ma anche alla vicinanza con l’aggressivo stato gemello, il Ducato di Spoleto, che aveva spesso tentato di espandersi verso sud, soprattutto nell’Abruzzo. Temprato da tale continua lotta, geloso della propria autonomia, il ducato longobardo in Italia meridionale fu l’unico a resistere, al momento della discenovembre

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sa di Carlo Magno. E continuò a sopravvivere anche quando ai nemici si aggiunsero i Saraceni, che fondarono una serie di centri nel Mezzogiorno d’Italia, da cui lanciavano attacchi corsari. Solo i Normanni – quasi tre secoli piú tardi – ebbero ragione di Benevento: consegnarono la città al papa di Roma, che ne conservò il possesso – essa rimase una enclave pontificia nel mezzo del regno del Sud – fino all’arrivo delle truppe di Giuseppe Garibaldi. Cosí, dopo la catastrofe longobarda maturata nel 774 in Italia centro-settentrionale, il piccolo – non per molto – Ducato longobardo di Benevento rimase l’unico erede di una popolazione ormai scomparsa. I suoi duchi, con scaltrezza, riuscirono a destreggiarsi nella complessa storia diplomatica e militare di questa parte della Penisola fino alla metà dell’XI secolo, quando i Normanni riuscirono infine a riunirla, dalla punta meridionale della Sicilia ai ghiacciai dell’Abruzzo, soppiantando i tre poteri – Arabi, Bizantini e Longobardi – che vi si erano a lungo contrapposti. Tuttavia, la vita del Ducato di Benevento non fu segnata solo dal tentativo di tenere vivi l’eredità e il legame con la storia longobarda, ma anche dallo sviluppo di una politica che si poneva in stretto rapporto, commerciale e politico, con le grandi potenze del tempo, cioè Arabi, Bizantini e Franchi.

A sinistra e qui sotto croci in lamina d’oro, dalla necropoli longobarda di Benevento. VIII sec. Benevento, Museo del Sannio.

Alla conquista del Meridione

Nel 774, quando divenne l’estremo bastione longobardo, il ducato beneventano aveva quindi due secoli di storia alle spalle, dal momento che la sua fondazione risaliva alla fase convulsa e sanguinosa della stessa invasione longobarda. Era il tempo – il 568 – in cui, dopo aver rotto le fragili difese bizantine in Friuli, le orde longobarde imperversavano sul territorio peninsulare. Nelle aree in cui trovavano ancora guarnigioni imperiali combattive, in genere nelle città piú Un anello in oro con cammeo romano e paste vitree (a destra) e una fibula a disco in lamina d’oro con castoni per pietre preziose o paste vitree (nella pagina accanto), da una sepoltura femminile longobarda scoperta a Senise (Potenza). VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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storie ducato di benevento Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Arechi II, principe di Benevento, in una miniatura dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della SS. TrinitĂ .

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importanti e nelle aree costiere ben rifornite via mare, gli audaci ma disordinati guerrieri longobardi venivano respinti e sbaragliati con facilità. Nella Pianura Padana, tuttavia, il grosso dell’esercito di Alboino era riuscito a insediarsi stabilmente con le donne, le famiglie e gli armenti. A quel punto, alcuni gruppi di guerrieri si lanciarono alla conquista del Sud. Si trattava spesso di contingenti numerosi, formati da clan familiari alleati, che avevano già combattuto nella guerra greco-gotica come mercenari tra le fila bizantine. Conoscevano le strade, i forti e il modo di combattere dei Bizantini ed erano in grado di valutarne rapidamente la capacità militare. Una di queste squadre, che operava in Campania (Roma e il Lazio erano fortemente presidiati ed erano stati perciò evitati) si diresse verso la costa. A Napoli, però essi trovarono – e troveranno sempre, perché Napoli resterà sempre bizantina – una forte resistenza. La torma longobarda si spostò allora verso gli Appennini, lontano dalla costa battuta dalla flotta imperiale. Qui puntò su Benevento, che era stata interessata dalla guerra precedente e versava in declino, pur essendo ancora un’importante città romana («ricchissima», la definisce lo storico dei Longobardi, Paolo Diacono). Soprattutto, costituiva un caposaldo naturale al centro di un’area complessa, crocevia naturale tra regioni e direttrici viarie e commerciali. Da lí si poteva raggiungere l’Adriatico – la costa abruzzese, il Gargano –, controllare i golfi di Napoli e Salerno, il mar Ionio, ed era possibile spezzare l’unità dei Bizantini, slegando Puglia, Calabria e costa campana. Cosí, intorno al 570, Benevento e l’area circostante furono conquistate e il longobardo Zottone vi

fondò un ducato. Un ducato che aveva, per molti versi, caratteristiche assai affini a quello di Spoleto, il suo gemello appenninico: forte aggressività, volontà di combattere i Bizantini, ma anche desiderio di mantenersi autonomo rispetto al potere centrale longobardo, che andava intanto consolidandosi intorno alla corte regia di Pavia.

L’arrivo di Costante II

I successori di Zottone continuarono a portare avanti tale politica, riuscendo a resistere alla potenza bizantina, che periodicamente progettava la riconquista e continuava a costituire una potenziale minaccia. Per i duchi longobardi, il momento di maggior pericolo coincise con l’arrivo in Italia dell’imperatore Costante II, nel 663. Occorre ricordare che a quel tempo, a circa cento anni dalla fondazione del ducato, la Calabria e la costa lucana erano ancora saldamente nelle mani degli imperiali, cosí come Napoli, Amalfi e il Lazio. Benevento era un caposaldo sí, ma accerchiato. La riconquista dell’Italia meridionale era quindi alla portata delle armate imperiali. Si poteva sperare di riunire l’Italia bizantina calabrese e pugliese con Napoli e il Ducato di Roma, dove si trovava il papa. Da Roma partiva il corridoio militare che attraverso la valle del Tevere e l’Umbria portava a Ravenna, verso la sede dell’esarca. Nel 663, l’Italia bizantina era ancora una potenza formidabile, gli Arabi ancora non avevano attaccato la Sicilia, e i Longobardi del Nord non avevano espugnato la Romagna. Sbarcato a Taranto con un esercito consistente, Costante si diresse a settentrione ed espugnò con facilità le città pugliesi appartenenti al

Il castello di Arechi II a Salerno, città in cui il principe trasferí la corte nel 778, all’indomani della discesa in Italia di Carlo Magno.

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storie ducato di benevento Ducato. Raggiunse quindi Benevento e la mise sotto assedio con macchine da guerra imponenti. Il duca Romualdo era solo un ragazzo: il padre Grimoaldo, infatti, era asceso in quel frangente al trono regio e gli aveva lasciato il ducato. Mentre Romualdo inviava richieste di soccorso al padre, la città restava sotto assedio da parte di Costante, che sembrava sicuro della vittoria. Re Grimoaldo chiamò a raccolta l’esercito e, da nord, calò in soccorso di Benevento. A quel punto Costante decise di riunire le truppe del corpo di spedizione con quelle italiane e tolse l’assedio, spostandosi a Napoli. Per i Bizantini uno scontro campale tra i due eserciti era la soluzione migliore; le truppe imperiali avrebbero potuto sfruttare la maggiore organizzazione e, con una sola battaglia decisiva, avrebbero potuto distruggere per sempre i Longobardi. I Beneventani di Romualdo, però, lo incalzavano, provocandolo alla battaglia e l’imperatore si lasciò convincere a dividere le sue truppe e attaccare con parte di esse l’esercito di Benevento, mentre questo ancora non si era riunito a quello di Pavia. A Forino, presso Avellino, Costante inviò dunque un generale con 20 000 uomini.

Guerrieri formidabili

Come si è detto, in campo aperto le file bizantine erano ordinate ed efficaci; i Longobardi però, a cent’anni dall’invasione, erano ancora guerrieri formidabili. Come racconta lo storico Paolo Diacono: «prima di attaccare battaglia, Romualdo fece suonare le trombe in quattro direzioni e subito si lanciò con audacia su di loro». Sorpresi dalla violenza della prima linea longobarda, i Bizantini ruppero in fuga e scapparono verso Napoli. Inseguiti, molti di loro furono massacrati. Da quel momento, indebolito, Costante non poté far altro che limitarsi a rinsaldare le posizioni bizantine in Italia; si recò a Roma, tornò a Napoli e poi andò a Siracusa. L’isola andava fortificata, perché gli Arabi, dall’Africa, la osservavano con sempre maggiore cupidigia e c’era chi diceva preparassero uno sbarco. Nonostante la spedizione contro i Longobardi si fosse rivelata un mezzo fallimento, Costante rimase in Italia col suo poderoso esercito. Tuttavia, di lí a poco, cadde vittima di una congiura interna, proprio a Siracusa. A quel punto i Longobardi furono in grado di consolidare il loro potere, sia nel Nord che nel Sud della Penisola. Da quel momento Costantinopoli smise di cullare il sogno della riconquista e si trattò di una scelta gravida di conseguenze, di portata inimmaginabile: il papa, infatti, si vide costretto a cessare di chiedere l’appoggio e il soccorso di Costantinopoli e volse la testa a occidente, verso nord, verso la vicina Francia. L’Italia bizantina – fatta ancora di grandi città, porti floridi e campagne fittamente coltivate – dovette accettare la convivenza con i duchi longobardi, che, intanto, si stavano convertendo al cattolicesimo, in modo da rendere i loro territori piú coesi, avviando un nuovo

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il santuario garganico di s. michele

Quell’Arcangelo che sembra Wotan Nel racconto agiografico della vita di san Barbato (Vita Barbati), vescovo di Benevento nella seconda metà del VII secolo, i Longobardi sono descritti come ancora dediti a pratiche religiose pagane, derivanti dalle credenze animiste e idolatriche dell’antica tradizione germanica. Nel testo – trascritto nel XIII secolo, ma probabilmente assegnabile al IX – i Longobardi sono presentati come adoratori della vipera, il cui simulacro aureo sarebbe stato tenuto dal duca nel palazzo beneventano. La leggenda parla anche di un grande albero sacro con pelli di caprone appese ai rami. Esse venivano colpite

dai cavalieri, i quali – in un pasto rituale – ne mangiavano poi alcune porzioni. In questo secondo aspetto alcuni riconoscono il nucleo piú antico della futura leggenda del noce di Benevento, sotto le cui fronde si radunerebbero le streghe ogni anno, la notte del 24 giugno. In realtà i Longobardi erano perlopiú ariani, come quasi tutti i popoli germanici, venuti a contatto in età tardo-antica con il cristianesimo nella versione di Ario, il quale sosteneva la sola natura umana di Gesú. Nel corso del IV secolo tale credo fu piú volte condannato e dichiarato eretico dalla Chiesa di Roma, che, invece, proclamava la doppia natura

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di Cristo: umana e divina. Quando scesero in Italia, i Longobardi erano quindi ariani e solo alla fine del VII secolo, a conclusione di un processo graduale, aderirono in massa all’ortodossia cattolica della chiesa di Roma. La notizia leggendaria – non troppo fantasiosa, dunque – della Vita Barbati, ambientata solo qualche decennio prima della conversione, testimonia come – insieme all’ambigua adesione al credo ariano – fossero state mantenute le vestigia

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delle credenze pagane, legate alla venerazione di alberi, draghi (serpenti, nella versione latinizzata) e divinità germaniche e scandinave, con Wotan – cioè Odino – su tutti. Tale complesso processo di cristianizzazione, ma anche di mantenimento della propria tradizione, è ben rappresentato nel monumento religioso piú importante del Ducato di Benevento, rispettato prima e poi venerato con intensità sempre crescente dai nobili e dalla popolazione longobarda: il santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano, presso Manfredonia. La sua origine si colloca tra la fine del V e l’inizio del VI secolo, quando una serie di

apparizioni e fatti miracolosi diedero origine al culto dell’Arcangelo Michele sul promontorio pugliese. Al momento dell’invasione longobarda il Gargano, come gran parte dell’Italia meridionale costiera, rimase sotto il controllo dei Bizantini, e il culto di san Michele si radicò nell’area. Il santuario si presentava come un’immensa caverna, a cui si accedeva attraverso un porticato e una galleria. Con la progressiva espansione della loro dominazione verso la costa, i Longobardi raggiunsero il Gargano, e in una fase in cui ancora coesistevano tradizione pagana, adesione all’arianesimo e conversione al cattolicesimo, essi videro nell’Arcangelo armato di

spada, che viveva nelle tenebre di una caverna, una figura cristiana che si confaceva al loro sentire e alla propria tradizione. Era un combattente, un guerriero che faceva strage dei suoi nemici – i diavoli – e che si era insediato per propria volontà in una latebra inespugnabile. Al tempo della sua prima apparizione, secondo la leggenda, egli si era presentato con tali potenti parole: «Io sono l’Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. Il santuario di S. Michele Arcangelo, presso Manfredonia, sul Gargano, che, tra il VI e il VII sec., divenne il sacrario nazionale dei Longobardi, prima ancora della loro conversione in massa al cattolicesimo.

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A destra particolare di una pittura vichinga su pietra con il dio Wotan (Odino) sul suo cavallo Sleipnir, da Lillbjors (Gotland, Svezia). VII sec. Stoccolma, Historiska Museet. Nella pagina accanto statua di san Michele Arcangelo nel santuario garganico, raffigurato come un combattente mentre sconfigge il demonio. In lui i Longobardi trovarono profonde affinità con il loro dio guerriero Wotan.

La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini». In quella figura i Longobardi riconobbero profonde affinità con Wotan, il dio guerriero grazie al quale era nato il loro stesso popolo. Wotan li aveva guidati alla vittoria contro i Vandali, liberandoli dal loro giogo, e sempre a tale dio dovevano il loro stesso nome. Paolo Diacono, storico nazionale dei Longobardi – che si chiamava in realtà Paulus Varnefrido – racconta che, secondo i miti originari, era stato proprio Wotan a definirli «longibarbati», attribuendo loro un nuovo nome e un’essenziale caratteristica fisica (la lunga barba – e capelli – che si lasciavano crescere in onore del dio). Anche per tali motivi, il culto di san Michele si diffuse in tutta la Langobardia e il santuario sul Gargano divenne una

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sorta di sacrario nazionale longobardo. Essi vedevano nell’Arcangelo la figura ideale di guerriero e protettore divino. Re e duchi promossero grandi lavori di ristrutturazione e ampliamento che resero piú funzionale la struttura pugliese, che, al tempo del ducato, divenne meta di pellegrinaggi provenienti anche dalle regioni piú settentrionali dell’Europa. Presso il santuario sono state trovate iscrizioni dedicatorie di nobili, monarchi e duchi longobardi; le piú antiche sono dell’epoca dei duchi Grimoaldo I (647-71) – che poi divenne re a Pavia – e Romualdo I (673-87). Ma accanto a esse è stato possibile leggere i graffiti lasciati dai numerosi pellegrini dal VI al IX secolo. Gente comune, viaggiatori, devoti, tra cui si trovano assai spesso nomi di origine longobarda, o comunque germanica; se ne trovano perfino alcuni scritti in lettere runiche, forse tracciate da pellegrini di origine anglosassone.

rapporto con la popolazione romanza che viveva sotto il loro dominio (vedi box in queste pagine). I Bizantini subirono un grave colpo al loro dominio in Italia. In lenta ma progressiva ritirata, lasciarono la scena a una nuova potenza: il regno dei Franchi, che divennero i nuovi nemici dei Longobardi. Nel 774, come abbiamo già ricordato, essi sconfissero il re Desiderio, occuparono Pavia e cancellarono il regno. La Langobardia Maior – com’è definita dagli storici attuali – fu cancellata. Restava la Langobardia Minor, cioè Spoleto e Benevento, i due ducati appenninici. Spoleto rimase longobarda, ma venne sottomessa e solo Benevento poteva ormai resistere ai Franchi, ma rischiava una guerra dei cui sviluppi avrebbero potuto approfittare i Bizantini.

L’ora piú drammatica

La scelta del duca, che in quel momento era Arechi II, fu però coraggiosa: decise di diventare il punto di riferimento della resistenza longobarda, il campione dell’indipendenza nazionale e di rafforzare il ducato – già potente – attraverso una nuova politica estera, capace di sfruttare l’insofferenza vicendevole tra Bizantini e Franchi. Nel 774 Arechi II assunse dunque il titolo di Princeps, avocando a sé l’insieme delle prerogative regie – dal servizio militare alla monetazione e all’affrancamento degli schiavi – e assegnando le magistrature longobarde dal suo «Sacro palazzo» di Benevento, con la stessa autorità di un re. Nel Principato – non piú Ducato – di Benevento, rimasero in vigore le leggi del regno longobardo. Al contempo, Arechi dette vita a iniziative che miravano a far divenire Benevento una vera capitale (vedi box alle pp. 5051) e, anche a tal fine, cercò l’accordo con i Bizantini, imprimendo cosí una svolta alla politica adottata nei confronti degli storici nemici, i quali – come i Longobardi – temevano l’espansione franca. Fiducioso nella sua indipendenza, Arechi si accor-

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storie ducato di benevento dò con le città costiere greco-italiche (in particolare, Napoli e Amalfi) a danno dei territori pontifici; ciò spinse il papa a chiedere piú volte l’intervento di Carlo Magno contro il principe longobardo e il sovrano, che nel 774 aveva evitato di affrontare Benevento, a quel punto ruppe gli indugi e, nel 778, si presentò in Italia. Raggiunse Roma e fece pervenire ad Arechi una richiesta di «piú completa sottomissione». Il principe longobardo preparò le difese: fortificò Salerno – il florido porto sul Tirreno da lui praticamente fondato – e vi si rinserrò. Paolo Diacono definí la città «per natura e per arte imprendibile, non essendo in Italia una rocca piú munita di essa». Strinse nuove alleanze con i centri italo-bizantini, e inviò a Roma il figlio Romualdo con un’ambigua proposta per Carlo Magno: la sottomissione sarebbe Benevento, chiesa di S. Sofia. Particolare dell’affresco con l’Annuncio a Zaccaria, opera di un pittore della scuola di miniatura beneventana. VIII sec.

La rifondazione di Benevento

Una piccola Costantinopoli Importante città romana, Benevento conobbe nella fase longobarda uno sviluppo significativo. I primi interventi di restauro e ristrutturazione urbanistica furono spesso lavori di ripristino delle strutture difensive – cinte murarie e fortificazioni interne –, interessate alla guerra greco gotica, che, come tante altre città italiane, aveva visto il centro campano investito dal conflitto ventennale tra Bizantini e Ostrogoti. Intorno agli inizi del VII secolo nella città si organizzarono anche quartieri abitati da adalingi e arimanni longobardi – rispettivamente nobili

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e liberi – e si risistemò l’antico Praetorium romano per insediarvi, sin dagli inizi del ducato, la Curs Ducis. Tuttavia, gli interventi piú importanti si ebbero quando, con la caduta del regno longobardo di Pavia, Benevento divenne l’unica istituzione nazionale superstite e il simbolo dell’identità longobarda. In questa fase, sotto la guida del duca Arechi II, si ebbe non solo un forte cambiamento politico, con un riavvicinamento ai Bizantini in funzione anti-franca, ma anche un mutamento istituzionale: da ducato, soggetto – in realtà molto autonomo – al re pavese, Benevento divenne sede di un principato. Arechi si fece consacrare Princeps dai suoi vescovi, assunse i simboli del sovrano – il novembre

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avvenuta solo in cambio della promessa che l’esercito di Carlo non avrebbe mai superato i confini del dominio beneventano. Era una richiesta offensiva, e Carlo la respinse, imprigionando Romualdo e scendendo fino a Capua, una delle piú importanti città del Principato. Solo a quel punto Arechi cedette, facendo atto formale di obbedienza, con consegna di tributi e ostaggi.

L’ultimo omaggio

In fin dei conti, però, il principe longobardo aveva concesso a Carlo niente di piú di quanto, per due secoli, i Beneventani avevano riconosciuto ai re longobardi di Pavia. E cosí Arechi, una volta riottenuta Capua, poté governare un principato che aveva reso ancor piú stabile e solido. E quando morí, dopo trent’anni di governo, nel 787, venne a ragione sepolto nella chiesa della sua amata e munitissima Salerno come fondatore e custode dello Stato beneventano che aveva guidato nell’ora piú drammatica. Il dominio del principato beneventano aveva raggiunto in quei decenni una vasta estensione: salvo

Amalfi e Napoli, governava tutta la Campania, buona parte dell’Abruzzo, il Molise, la Puglia fino a Bari, e la Lucania, con l’eccezione della striscia costiera. Tale estensione però spinse alla creazione e allo sviluppo di nuovi centri urbani, che presto resero superata la centralità della città di Benevento. Di lí a qualche decennio, tale processo finí per diventare fonte di instabilità. In primo luogo Salerno, che Arechi aveva a suo tempo dotato di importanti strutture difensive – con la costruzione del castello, della corte ducale e di un importante santuario religioso dedicato ai santi Pietro a Paolo –, divenne un competitore della vecchia capitale. Vi era poi l’ambiziosa Capua, città antichissima, dotata dai duchi longobardi di nuove difese, necessarie per la prossimità con i territori greco-italici della Campania, e per contrastare la minaccia araba, che cercava di insediarsi nei territori al confine tra Lazio e Campania. Le tre città diventavano sempre piú distanti per interessi geopolitici e aspirazioni. Benevento e Salerno entrarono presto in contrasto, scatenando una vera e propria guerra civile interna alla nobiltà longobarda, Benevento. La facciata di S. Sofia. Fondata da Gisulfo II e ultimata da Arechi II nel 762, la chiesa, al tempo stesso tempio nazionale e santuario della gens Langobardorum, fonde elementi longobardi e bizantini.

diadema, lo scettro, il trono dorato –, e insieme a essi completò la costruzione di un Sacrum Palatium, una magnifica residenza. Il mutamento politico e istituzionale (anche se molti interventi erano iniziati nella metà del secolo) ebbe un grande impatto urbanistico. Arechi promosse iniziative che

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contribuirono a sviluppare altri centri del Principato – su tutti Salerno e Capua – e fecero di Benevento una capitale in grado di rivaleggiare, sia per bellezza che per importanza, con altri centri europei e mediterranei. Benevento fu ampliata e riorganizzata – fu aperta un’area chiamata Civitas

Nova – e la città riprese le dimensioni che aveva avuto in età romana. L’estensione del progetto urbanistico fu significativa, ma maggiore fu l’impatto simbolico, elemento centrale nella sensibilità medievale. Accanto alla residenza ducale fu eretta – quasi fosse una cappella palatina – la

splendida cattedrale di S. Sofia, ancora oggi visibile con un’architettura che mostra profondi legami con l’originaria cultura longobarda e che le è valsa, tra l’altro, l’inserimento nel ristretto gruppo di sopravvivenze dell’Italia Langobardorum (sparse tra Friuli, Lombardia, Umbria, Puglia e, appunto, Campania) dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Ultimata nel 762, la chiesa presenta una singolare forma stellare, la quale richiama una tipologia bizantina. Il tetto a capanna invece, costituirebbe secondo alcuni studiosi una restituzione in muratura delle antiche tende dei

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storie ducato di benevento capi, tipiche della cultura nomadica; esso andrebbe inteso come simbolo di potere che deriverebbe dunque anche dal retroterra originario della popolazione germanica, sostanzialmente nomade. La chiesa era la cappella privata del principe, il sacrario della sua stirpe, ma anche un luogo simbolico. A partire dalla dedicazione si rimandava infatti a Sofia, la celebre chiesa di Costantinopoli; Arechi II, inoltre, vi raccolse molte e importanti reliquie fatte giungere proprio dall’Oriente. Esse dovevano

dare lustro alla chiesa, alla famiglia del principe e al nuovo Stato longobardo e conferire alla sua capitale l’aura di «piccola Costantinopoli» anche dal punto di vista culturale. Arechi richiamò nel ducato artisti e intellettuali longobardi – ormai italo-longobardi – primo fra tutti Paolo Diacono. Lo sviluppo culturale fu favorito dalla presenza, in un monastero annesso alla chiesa di S. Sofia, di un vivace scriptorium, nel quale presto fu messa a punto una scrittura tipica, la «beneventana», diffusa poi in tutta l’Italia

Benevento. L’interno della chiesa di S. Sofia, con sei colonne collegate da archi che

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del Centro Sud (con l’eccezione dell’araba Sicilia e delle grecofone aree calabro-lucane). La sua diffusione fu dovuta – oltre all’attività dello scriptorium beneventano – a un altro centro monastico ducale che ebbe enorme importanza culturale, l’abbazia di Montecassino. Si deve anche aggiungere, per meglio comprendere la complessità culturale del Meridione d’Italia in questa lunga fase, che la diffusione di tale scrittura fu favorita, in particolare nell’area dalmatica,

dalla creazione di una variante barese, in cui convivevano tratti afferenti alla minuscola greca. Intorno alla corte ducale e alle sue committenze si sviluppò anche una corrente artistica, definita «scuola beneventana», nella quale si fondevano elementi artistici longobardi e bizantini.

Da leggere Francesco Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, volume I, Donzelli, Milano 1997

delimitano lo spazio esagonale ricoperto dalla cupula su tiburio.

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DUChi di benevento ● 571-590? Zottone ● 591–641 Arechi I ● 641–642 Aione I ● 642–647 Radoaldo ● 647–662 Grimoaldo I ● 662/663–687 Romualdo I ● 687–687 Grimoaldo II ● 689–706 Gisulfo I ● 706–731 Romualdo II ● 731–732 Gisulfo II ● 732 Audelais ● 732–739 Gregorio ● 739–742 Godescalco ● 742–751 Gisulfo II ● 751–758 Liutprando ● 758–774 Arechi II Principi di benevento Anche Principi di Capua dal 900 al 981 ● 774–788 Arechi II ● 788–806 Grimoaldo III ● 806–817 Grimoaldo IV ● 817–832 Sicone ● 832–839 Sicardo ● 839–851 Radelchi I ● 851–853 Radelgario ● 853–878 Adelchi

● 878–881

● 881–884

● 884–891 ● 891

● 891-895

● 895–897 ● 897

● 897-899 ● 900-910 ● 910-943 ● 910-940 ● 943-961 ● 943-961 ● 959-968 ● 968-981 ● 968-981

● 981-1014 ● 987-1033

● 1011-1053 ● 1038-1077

Gaiderisio Radelchi II Aione II Orso Leone VI di Bisanzio (imperatore bizantino) Guido (anche duca di Spoleto) Pietro (vescovo di Benevento e reggente) Radelchi II Atenolfo I Landolfo I in coreggenza con il fratello Atenolfo II, risiedé a Benevento Atenolfo II coreggente, risiedé a Capua Landolfo II coreggente con il fratello Atenolfo III, che infine spodestò Pandolfo I Testadiferro associato al trono dal padre, Landolfo I

P andolfo I e Landolfo III coreggenti P andolfo I Testadiferro Landolfo IV associato al trono da Pandolfo I Pandolfo II Landolfo V associato al trono dal padre, Pandolfo II Pandolfo III associato al trono dal padre, Landolfo V Landolfo VI coreggente fino al 1053 con il padre, Pandolfo III

La lista qui riportata è stata semplificata, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi anni di vita del principato, cosí da renderne piú chiara la consultazione. Sono stati omessi personaggi – come, per esempio, alcuni usurpatori – la cui salita al potere fu solo una breve parentesi. Frammento marmoreo scolpito a rilievo, facente parte di una serie di quattro raffiguranti una processione o un rito battesimale. X sec. Capua, Museo Provinciale Campano.

che ebbe termine solo nell’851 con la scissione del principato in due parti; da un lato Benevento, con l’area appenninica e adriatica (Sannio, Molise e Puglia a nord di Taranto), e dall’altra la costa campana e buona parte della Basilicata, con Salerno come guida; da quest’ultima, però, di lí a poco, si staccò Capua, che venne a costituirsi come principato a se stante, con una serie di centri a essa collegati (Teano, Calvi, Carinola, Caserta, Sessa, Venafro, Aquino e Sora).

Un nuovo nemico: i Saraceni

Alla fine del X secolo, dunque, l’antico ducato s’era diviso in tre, e proprio l’area originaria di Benevento si rivelò presto la piú fragile, in quanto tenuta sotto attacco dai Bizantini della Puglia meridionale, ancora estremamente vitali. Capua e Salerno, assai piú reattive, furono nondimeno funestate da contrasti e lotte interne, che finirono con l’aprire la strada a un ospite sgradito e pericoloso: i Saraceni, incautamente usati come mercenari durante le guerre tra i vari domini longobardi.

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storie ducato di benevento

Veduta a volo d’uccello della città di Benevento, realizzata per il volume dedicato all’Italia meridionale nell’opera di Thomas Salmon Lo stato

presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico... pubblicata a Venezia, dallo stampatore Giovanni Battista Albrizi nel 1761

Da quel momento, Lazio, Campania, Abruzzo e Molise furono sottoposte alle loro continue scorrerie, facilitate dalle basi fortificate nel Lazio meridionale che i nuovi arrivati erano riusciti a organizzare. Nel 978 però, l’eccezionale figura di Pandolfo Testadiferro, principe di Capua, riuscí, pur tra mille difficoltà, a riunire prima Capua con Benevento e poi anche con Salerno. Una riunificazione che però, a seguito della sua morte, si rivelò molto fragile. E qualche decennio piú tardi, né Benevento, né Capua, né Salerno furono in grado di organizzare una valida resistenza contro i formidabili guerrieri normanni.

I nuovi padroni del Mezzogiorno

Abili sia dal punto di vista militare che politico, i Normanni furono in grado di cancellare – in un arco di tempo davvero breve – il potere arabo in Sicilia, i secolari presidi bizantini in Calabria e Puglia e gli antichi principati longobardi. Cosí i tre grandi protagonisti – Arabi, Longobardi e Bizantini – che per secoli si erano contesi (si potrebbe dire metro per metro) l’Italia meridionale furono spazzati via da queste genti di origine scandinava. I domini di Benevento e Capua caddero – in una

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cupa congerie di complotti, interventi politici e colpi militari – in mano normanna; Salerno, la piú potente, fu posta sotto assedio da Roberto il Guiscardo nel 1076. Il principe Gisulfo II si arrese dopo otto mesi di resistenza, ma solo per fame. Perfino in questa occasione la città si dimostrò inespugnabile, proprio come l’aveva voluta Arechi II. Benevento, invece, alla morte del suo principe Landolfo VI – nel 1077 – fu consegnata dal Guiscardo alla Chiesa di Roma, che da sempre ne rivendicava la proprietà e a cui i Beneventani avevano chiesto aiuto per essere protetti dai Normanni. E cosí l’autorità pontificia sulla città – insieme a Pontecorvo, singolari isole pontificie all’interno del compatto corpo del regno del Sud – si mantenne come residuo feudale fino all’arrivo di Giuseppe Garibaldi, il quale, per un singolare scherzo del destino, portava un cognome di spiccata ascendenza longobarda. Nel 1130, nella sfavillante Palermo arabo normanna, Ruggero II di Sicilia fu incoronato re dell’intera Italia meridionale, riunita ormai sotto lo scettro normanno. E l’antico ducato divenne parte del patrimonio regio, lascito del passato longobardo ai nuovi dominatori. Gli eredi delle orgogliose casate di Capua, Benevento e Salerno, finirono esuli proprio nei luoghi che avevano sognato di preservare al loro lignaggio. F

Nel prossimo numero ● L’Italia normanna novembre

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saper vedere battistero di firenze

È qui la bellezza

di Firenze

di Furio Cappelli

Era cosí «perfetto» che gli stessi abitanti della città sull’Arno lo ritenevano un monumento dell’età dei Cesari. Suggestioni antiche, infatti, ma anche esotismi orientali, caratterizzano la chiesa piú amata da Dante. Il cui geniale architetto, però, è rimasto per sempre anonimo...

Firenze. Il battistero di S. Giovanni, alle cui spalle si riconosce la cattedrale di S. Maria del Fiore, affiancata dal campanile di Giotto.

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l battistero di S. Giovanni è uno dei monumenti-simbolo di Firenze. Trovandosi di fronte alla cattedrale di S. Maria del Fiore, che si erge sul paesaggio urbano con il campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi, completa un insieme ben noto a qualsiasi «forestiero» di ogni epoca. A differenza della stessa cattedrale, iniziata nel 1296 su progetto di Arnolfo di Cambio, ignota è la paternità del battistero, che i Fiorentini, d’altronde, hanno visto come un monumento dell’antichità romana (vedi box a p. 58). In casi del genere non occorre rammari-

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carsi per il fatto che nessuna fonte abbia tramandato il nome dell’architetto. Quel che conta, qui come al Pantheon o al Colosseo, è l’idea di Roma che si materializza in una costruzione ardita ed elegante, con la sua cupola di 26 m di diametro, e con le sue superfici ricoperte di marmi, scandite con un gusto di pura classicità. Chiunque sia stato l’artefice del battistero, mai avrebbe pensato che nel giro di due secoli la sua opera sarebbe stata attribuita all’epoca dei Cesari. Eppure cosí è stato. Il cronista Giovanni Villani, che scriveva nella prima metà del

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saper vedere battistero di firenze Il «tempio di Marte»

Una magnifica sopravvivenza Gli ingegni del Rinascimento che studiavano il battistero erano convinti che fosse stato costruito ai tempi della Roma imperiale. Era impensabile che qualcuno potesse concepire un’opera cosí bella e grandiosa in quel Medioevo la cui arte «gotica», ossia

barbarica, era stata duramente stroncata da Raffaello e da Giorgio Vasari. Ecco allora comparire il battistero («riportato» al suo assetto templare) nella veduta di una Città ideale (1480-84, oggi a Baltimora), come pendant al Colosseo.

Trecento, è convinto che il battistero di S. Giovanni sia il tempio di Marte dell’antica Florentia, da tempi remoti convertito al culto cristiano. Stessa tradizione traspare nella Commedia dell’Alighieri. In una lunga perifrasi, nel XIII canto dell’Inferno (vv. 143-150), Firenze è la città che era passata sotto la protezione di san Giovanni Battista dopo essere stata devota al dio Marte. La statua-simulacro del dio della guerra, secondo il Villani in precedenza conservata all’interno del battistero di S. Giovanni (quando era ancora un tempio pagano), avrebbe lasciato un cospicuo frammento di sé visibile in capo al Ponte Vecchio, ma un’inondazione, nel 1333, ne fece perdere ogni traccia.

L’orgoglio del poeta

Ed è sempre Dante nell’Inferno, al XIX canto (vv. 16-21), a ricordare il battistero fiorentino con orgoglio e con un vibrante senso di appartenenza. Infatti, «nel mio bel San Giovanni», il poeta trasse in salvo un tale che rischiava di affogare in una delle anfore di terracotta che venivano utilizzate per la celebrazione del rito, nel recinto dell’antico fonte centrale. Anziché riempire d’acqua l’intero fonte, all’epoca di Dante si utilizzavano cinque «battezzatoi» simili ai recipienti utilizzati per il trasporto dell’olio e del vino.

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Lo stesso Brunelleschi fa del battistero il protagonista di una delle sue celebri esercitazioni prospettiche, e persino la sua cupola di S. Maria del Fiore (1420-1438) riprende dalla cupola del «tempio di Marte» la conformazione a sesto acuto della calotta.

Pochi, dopo aver letto quei versi, mettono a fuoco il singolare incidente che vide l’Alighieri come protagonista, mentre molti certamente ricordano che il poeta venne battezzato in S. Giovanni. E quella chiesa era «sua» anche perché, bagnandosi in quel fonte (a Pasqua o alla festa del Battista, quando i Fiorentini davano vita a un tripudiante rito collettivo), Dante non solo entrò nella comunità dei credenti, ma divenne cittadino di Firenze. La bellezza del battistero è la bellezza della «sua» città. Ed è perciò naturale che egli anelasse a tornare presto in riva all’Arno, dopo il doloroso esilio, per essere incoronato come poeta proprio in quel fonte: «ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello» (Paradiso, XXV, 8-9). Non dobbiamo, a questo punto, stupirci del fatto che a quell’epoca i Fiorentini considerassero il battistero la loro vera cattedrale. Giovanni Villani parla infatti, esplicitamente, del «duomo di S. Giovanni». La dedica al Battista, ossia al precursore di Cristo, già sfoggiata dalla cattedrale sin dall’età paleocristiana, assunse un rilievo tutto nuovo. Con la sgargiante «reggia» che il battistero gli offriva, san Giovanni diveniva il degno patrono di una città bella e potente. Il S. Giovanni era anche uno scrigno, deputato alla custodia della

Pianta a volo d’uccello di una parte del centro storico di Firenze, con i piú importanti luoghi e monumenti in essa compresi: 1. Battistero di S. Giovanni; 2. Cattedrale di S. Maria del Fiore; 3. Campanile di Giotto; 4. Orsanmichele; 5. Ponte Vecchio; 6. Palazzo Vecchio; 7. Biblioteca Laurenziana.

bandiera di Firenze e di tutti i gonfaloni offerti in omaggio al patrono. Nella vita di ogni giorno acquisiva importanza, poi, come punto di riferimento privilegiato (umbilicus urbis, il centro della città): già all’epoca del Villani, ogni misura volta a descrivere la distanza da Firenze aveva nel battistero il suo punto di partenza. Un edificio del genere era anche luogo della memoria e le sepolture illustri si assiepavano intorno alle sue mura, talvolta reimpiegando sarcofagi di età romana.

Una questione di rapporti

Il battistero si presentò con dimensioni del tutto spropositate rispetto alla cattedrale romanica, e il fatto stravolgeva i rapporti gerarchici tra la chiesa principale e quella battesimale, che della prima costituisce un elemento complementare, peraltro non necessario. Come risulta da una recente disamina di Guido Tigler, il S. Giovanni doveva essere in costruzione intorno al 1118, quando si era concluso il «rivoluzionario» cantiere della cattedrale pisana. Esso fu dunque eretto dalle fondamenta in piena età romanica. Animati da un forte spirito di competizione, i Fiorentini vollero cosí rispondere alla grande impresa edilizia della città marinara. Rimane insoluto il dubbio sull’eventuale esistenza di un battistero paleocristiano sullo stesso luogo della costruzione attuale. A oggi non ne esiste testimonianza documentaria o traccia archeologica inequivocabile. È però possibile che alle funzioni del rito fosse destinata in precedenza un’area specifica o una cappella del duomo, come spesso avveniva nelle città sin dall’età carolingia, quando ormai le motivazioni liturgiche e pastorali del battistero novembre

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funzioni sacre e profane

Battesimi, investiture e giuramenti Il significato «pubblico» del battistero di S. Giovanni, al di là della sua specifica funzione liturgica, prorompeva con forza nei rituali della società laica che lí trovavano lo sfondo piú adatto. Come emerge dai versi in cui Dante sogna d’esservi incoronato poeta (vedi, nel testo, alla pagina precedente), il fonte era anche luogo di investitura per i poeti, nonché

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per i cavalieri; era inoltre la sede deputata per i solenni giuramenti, e lí culminava la celebrazione in onore del patrono cittadino, con il dono delle stoffe pregiate (i palii) da parte dei magistrati del Comune nella ricorrenza del Battista (il 24 giugno), mentre nella piazza (come si vede ancora oggi), sin dal Quattrocento, si assisteva allo scoppio del carro, in occasione della Pasqua.

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saper vedere battistero di firenze come edificio isolato e a sé stante si erano esaurite. A ogni modo, nel 1128 il battistero era verosimilmente già in grado di assolvere alle sue funzioni, dal momento che l’antico fonte conservato in duomo fu trasferito nel nuovo edificio. Per effetto di questa «traslazione» la dedica della cattedrale ai santi Giovanni e Reparata si smembrò. S. Giovanni «passò» al battistero e S. Reparata (una martire siriaca presto dimenticata) rimase a designare il duomo. Nel confronto tra l’austera cattedrale di S. Reparata (consacrata nel 1059) e il nuovo rutilante battistero, il S. Giovanni ebbe la meglio, al punto che, come già ricordato, nella percezione dei Fiorentini strappò al duomo la qualifica di chiesa principale della città. S. Reparata era una cattedrale su misura di una città di limitata estensione, strettamente legata alla volontà dell’istituzione episcopale. Il battistero, invece, è l’edificio «corale» di rappresentanza di una città potente, che vive una veloce e formidabile ascesa economica e sociale. Mentre la chiesa è in costruzione, i popolosi sobborghi hanno portato a 25mila il numero degli abitanti e la nuova cinta muraria, realizzata tra il 1172 e il 1175, racchiude una superficie di 80 ettari, pari cioè al triplo dell’estensione altomedievale.

La risposta fiorentina

Nel progetto del S. Giovanni, determinante fu il ruolo del vescovo Ranieri (1071-1113), onorato di una sepoltura con epitaffio monumentale all’interno dell’edificio. Il battistero poté prendere forma grazie a un momento di fausta collaborazione tra il prelato e gli amministratori della città, ma richiese anche un sostegno economico poderoso, che poteva essere garantito solo dagli introiti di un’attività commerciale sempre piú intensa. D’altronde, la magistratura consolare, in cui si identifica la prima forma del Comune, entrò in crisi alla metà del XII secolo, quando lo sviluppo stupefacente delle attività manifatturiere e mercantili aveva

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fatto entrare in scena, di prepotenza, i settori piú dinamici della società. E proprio nel 1150 è attestato che l’Arte di Calimala, la potente corporazione dei mercanti di stoffe, patrocinò il completamento del battistero. In quell’anno, infatti, venne eretta la lanterna che campeggia sulla cupola. Fu l’inizio di un rapporto pressoché viscerale che legò a doppio filo il battistero al vivo della società fiorentina. Si è accennato al fatto che il battistero costituiva una risposta al duomo di Pisa (1063-1118). L’uso di lastre marmoree per il rivestimento delle pareti, giocato sull’accostamento di tonalità chiare e tonalità scure grazie all’impiego del bianco di Carrara e del serpentino verde di Prato, fu il terreno principale del confronto. Si trattava di una preziosa prerogativa di chiara derivazione classica: mentre a Pisa si utilizzava il calcare, tagliato in blocchi, con soluzioni decorative molto lineari, per fare poi sfoggio di un esuberante sfavillio di figurazioni intarsiate nella nuova facciata di Rainaldo (1150-1170 circa), Firenze fece del marmo stesso la trama e l’ordito di una scrupolosa reinvenzione del mondo antico. In tal (segue a p. 65) novembre

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sogno e realtà Al di là del ruolo di luogo deputato alla celebrazione del battesimo, il battistero di S. Giovanni è stato protagonista, nel tempo, di confronti significativi, reali e immaginari. Ai secondi appartiene la visione «antica» del monumento (foto a sinistra) elaborata da un artista, probabilmente identificabile con Fra’ Carnevale (al secolo Bartolomeo di Giovanni Corradini), che, nel 1480-84, dipinse su tavola una Città ideale, in cui il battistero compare accanto al Colosseo e all’arco di Costantino. Nella foto al centro vediamo invece il lato est del battistero, nel quale si apre la Porta del Paradiso e che è quello rivolto verso S. Maria del Fiore e il campanile di Giotto. Uno schema analogo si ritrova a Pisa (foto in basso), nella piazza del Duomo (o dei Miracoli; 1063-1118), lo straordinario complesso monumentale in cui si succedono il Battistero, la cattedrale di S. Maria Assunta e la torre campanaria – con la sua inconfondibile pendenza – e al quale Firenze rispose con il «suo» battistero.

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saper vedere battistero di firenze forme e colori di un capolavoro A sinistra particolare del grande mosaico che orna l’interno della cupola del battistero di S. Giovanni. L’opera si articola in registri, dedicati a Storie di san Giovanni Battista, dell’Antico e del Nuovo Testamento. In basso, al centro, domina la figura del Cristo Giudice. In basso, sulle due pagine spaccato assonometrico del battistero.

Il monumento in sintesi

Valori e primati 3 Perché è importante Il S. Giovanni di Firenze è un punto simbolico di riferimento e di rappresentanza, «reggia» del patrono e custode delle glorie della cittadinanza. Al suo interno e nello spazio antistante si forgia la grandezza di Firenze: è la «culla» del civis Florentinus e del Rinascimento. 3 Il Battistero nella storia È il primo battistero che emerge nella scena urbana del pieno Medioevo, in perfetta consonanza con un momento di grande fervore economico e sociale. Manifesta in modo sorprendente l’ascesa del ceto mercantile e lo scardinamento del vecchio quadro istituzionale, basato sul rapporto tra i vescovi e l’aristocrazia consolare. 3 Il Battistero nell’arte Il «bel San Giovanni» ha fatto rinascere un’idea di Romanitas nello scenario di una città potente e bellicosa, che si identifica con l’Urbe stessa. La sua architettura, i suoi decori e i suoi arredi compongono un irripetibile insieme di grande coerenza, in cui anche l’apogeo sublime della Porta del Paradiso si armonizza perfettamente con il contesto.

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A destra particolare della replica della Porta del Paradiso, il cui originale è ora conservato nel Museo dell’Opera del Duomo.

In alto particolare della decorazione esterna del battistero, giocata sull’alternanza di pietra chiara (marmo bianco di Carrara) e scura (serpentino verde di Prato).

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saper vedere battistero di firenze il s. giovanni nella storia 1113 Morte del vescovo Ranieri. 1115 Morte di Matilde di Canossa. I Pisani, in procinto di assaltare Maiorca (isole Baleari), si alleano con i Fiorentini onde scongiurare che i Lucchesi approfittino dell’assenza dei milites per saccheggiare la città marinara. 1118 Probabile data di costruzione del battistero di S. Giovanni. 1125 I Fiorentini conquistano definitivamente la città di Fiesole. 1128 Il fonte battesimale del duomo viene trasferito in S. Giovanni. 1150 L’Arte di Calimala finanzia la lanterna del battistero. 1158 Prima vittoria sui Senesi, a Montemaggio. 1171 Alleanza con Pisa nella lotta contro Federico Barbarossa. 1172-1175 Si erige la nuova cinta muraria (25 000 abitanti). 1174 Seconda vittoria sui Senesi, ad Asciano. 1177 Insurrezione capeggiata dagli Uberti. 1182 Conquista di Empoli; prima attestazione di uno statuto comunale. 1184 Penetrazione nel Mugello. 1197 Firenze è capofila nella lega di San Genesio tra le città toscane filopapali. 1202 Si avvia l’erezione della «scarsella» del battistero. 1207 Terza vittoria sui Senesi, a Montalto; viene ultimato il pavimento di S. Miniato al Monte. 1208 Quarta vittoria sui Senesi. 1216 La gestione temporale dell’Opera di S. Giovanni è affidata all’Arte di Calimala. 1222 Vittoria sui Pisani a Castel del Bosco. 1225 Completamento della «scarsella» del battistero. 1228 Vittoria sui Pistoiesi. 1230 Quinta vittoria sui Senesi. 1231 I Fiorentini vengono sconfitti a Barga per mano dei Pisani. 1250 I guelfi sconfiggono l’esercito fiorentino a Figline Valdarno. 1251 Ascesa al potere delle Arti con il governo del «primo popolo». 1252 Prima coniazione del fiorino d’oro. 1260 Sconfitta dei guelfi alla battaglia di Montaperti. 1265 Nascita di Dante Alighieri. 1268 Dopo la disfatta sveva a Tagliacozzo, governo guelfo del «secondo popolo». 1271 Prima attestazione dei lavori ai mosaici del battistero. 1282 Il governo è in mano ai priori, emanazioni delle Arti. 1284-1333 Si erige la nuova cinta muraria (100 000 abitanti). 1289 Sconfitta definitiva dei ghibellini a Campaldino. 1295 Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, a sostegno del popolo. 1296 Fondazione di S. Maria del Fiore, costruita sull’antica chiesa di S. Reparata. Avviata da Arnolfo di Cambio, la costruzione viene continuata da Giotto.

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il pavimento A sinistra particolare del pavimento intarsiato del battistero, raffigurante un sole circondato da una scritta palindroma dal significato esoterico e posto al centro della ruota dello Zodiaco di cui si vede un particolare qui a destra. L’opera si deve a maestranze fiorentine attive tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec.

modo l’edificio non temeva alcun confronto con le costruzioni coeve. Le finte architetture e le fantasie geometriche degli intarsi si inserivano all’interno di una «romaneggiante» struttura organica, studiata in modo da ricreare i fasti dell’antichità nel cuore della nuova Firenze. I colonnati che scandiscono le pareti interne al pianterreno sono una chiara citazione del Pantheon, e il matroneo che li sovrasta, ritmato da finestroni bifori come una solenne loggia, è degno di un mausoleo imperiale. La compatta severità dell’esterno, dal canto suo, colpisce non solo per la rigorosa scansione delle pareti, ma anche per la meticolosa cura dei dettagli. Le stupende finestre che illuminano il matroneo sembrano tolte di peso da un edificio monumentale romano, e non sfigurerebbero in qualsiasi facciata del pieno Rinascimento. A sinistra particolare dell’interno del battistero. Al di sotto della cupola, corre il matroneo dell’edificio, ritmato da grandi finestre bifore, che ne fanno una sorta di loggiato. Una soluzione architettonica che avvicina l’impostazione del S. Giovanni a quella dei grandi mausolei di età imperiale.

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saper vedere battistero di firenze

Accanto all’eredità romana trova spazio un mondo «esotico» di soluzioni costruttive e di forme ornamentali. L’ingegnosa struttura della cupola, con la sua calotta a sesto acuto tanto ammirata dal Brunelleschi, non ha nulla a che vedere con le piú tarde sperimentazioni dell’architettura gotica, ma si pone in confronto, in chiave di poderosa romanità, con la cupola della cattedrale pisana, a sua volta esemplata su modelli costruttivi islamici conosciuti attraverso i contatti commerciali con la Sicilia, la Spagna, il Maghreb e la Siria. Suggestioni antiche ed esotismi orientali convivono nel pavimento a intarsio di marmi, realizzato da maestranze fiorentine tra la fine del XII secolo e gli inizi del successivo. Spicca la ruota dello Zodiaco, e lascia rapiti e inquieti l’epigrafe in cui si preannuncia la fine dei tempi. L’opera fece da apripista al pavimento della chiesa di S. Miniato al Monte (1207), dove piú ampio è lo spazio concesso ai decori con ricorsi di animali affrontati (grifoni, leoni, colombe), mutuati dalla lunga tradizione delle stoffe di produzione islamica, che tanto influsso avevano esercitato sulle decorazioni marmoree delle facciate di Pisa e di Lucca. Proprio a Lucca simili decori venivano riproposti nelle stoffe di pro-

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i mosaici In alto particolare dei mosaici che ornano uno degli spicchi della cupola: nella fascia superiore si succedono scene ispirate a episodi della Genesi; in quella inferiore compaiono invece episodi della vita di Giuseppe. A destra un particolare del secondo e terzo registro del mosaico: in alto sono ritratti gli Apostoli, ciascuno dei quali ha un libro aperto scritto con gli alfabeti piú disparati, in memoria della loro opera di evangelizzazione del mondo dopo la discesa dello Spirito Santo; in basso è la terrificante rappresentazione dell’Inferno, che impressionò anche Dante Alighieri.

duzione locale, che sin dalla fine del XII secolo davano lustro a una manifattura di pregio sempre piú diffusa.

Giochi cromatici

Tornando al battistero, il repertorio zoomorfo delle stoffe di produzione o di ispirazione orientale guida largamente un delizioso complesso decorativo poco noto, databile alla seconda metà del XIII secolo.

Un vastissimo apparato di pitture murali rivestí con siffatte immagini le pareti interne del matroneo, fingendo la presenza di un rivestimento a tarsie marmoree. Accanto al marmo intarsiato (vero o dipinto) le superfici interne vedono un vastissimo dispiego di mosaici (ben 1000 mq), che nel Trecento arrivarono a rosicchiare anche alcune pareti e alcune fasce già novembre

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decorate a marmo o a finto marmo. Nel 1240-50, quando questo considerevole lavoro venne intrapreso, in tutta la Toscana solo Lucca poteva vantare un’impresa del genere, ben piú limitata: il mosaico di facciata a S. Frediano. Il duomo di Pisa, con il mosaico absidale in cui intervenne Cimabue, si adeguò al confronto nel 1321, quando l’opera fu terminata da Vincino di Pistoia.

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Fuori della regione, solo il S. Marco di Venezia poteva esibire un complesso musivo esteso a tutto l’edificio e ancora in opera nel pieno Duecento, ma, a differenza della città toscana, si trattava di un lavoro avviato intorno al 1159. Al pari del S. Giovanni di Firenze, d’altro canto, i musivari del cantiere veneziano rimasero attivi fino al XIV secolo. Queste corrispondenze dan-

no credito alla tradizione ripresa dal Vasari, secondo la quale il cantiere toscano, sin dagli inizi, sarebbe stato in stretti rapporti con Venezia. Dalla città lagunare arrivarono forse le prime forniture di tessere vitree e, sicuramente, nel 1301-02, alcuni maestri chiamati a sostituire Bingo e Pazzo, due colleghi locali che erano stati licenziati. Come è documentato sin dal

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saper vedere battistero di firenze 1271, anche per via di alcune polemiche insorte sull’utilizzo dei fondi, l’impresa fiorentina fu sostenuta dall’Arte di Calimala. Sin dall’inizio, sulla base di un piano iconologico fedelmente rispettato fino al termine dei lavori, si volle adattare allo spazio centrale del battistero una decorazione piú consona, nel suo sviluppo, alla struttura di una basilica. Si parte sulla fascia inferiore dalle Storie del Battista, dedicatario della chiesa e patrono della città. Le fasce superiori legano il precursore alla figura del Cristo stesso, ripercorrendo poi le Storie dell’Antico Testamento.

Una visione inquietante

Al culmine, intorno alla lanterna, si giunge all’evocazione del cielo, con una schiera di angeli e una ghirlanda iridescente, punteggiata da immagini paradisiache. Tre spicchi della cupola sono dedicati a un potente Giudizio universale, del quale fa parte una raccapricciante evocazione dell’Inferno che suggestionò lo stesso Dante. In asse al Cristo Giudice, la volta della «scarsella» (la «borsetta da pellegrino» che sostituí l’abside nel 1202-25) evoca invece l’Agnello mistico, in connessione con l’altare sottostante. Il lavoro, come si è accennato, si protrasse per decenni, e si presenta cosí come una sorta di spaccato della pittura toscana del Due-Trecento. Sono evidenti i riflessi dell’opera di Coppo di Marcovaldo e di Meliore, soprattutto nel Giudizio, e non mancano chiari rimandi a Cimabue e agli affreschi di Assisi. Un altro grande spaccato di arte toscana è offerto dalle tre famose porte in bronzo dorato. La scansione tematica è la stessa riscontrata nei mosaici interni: Storie del Battista, Storie del Nuovo, Storie dell’Antico Testamento. La porta piú antica, datata 1330 ma montata solo nel 1336, trasferita sul lato sud, ma già destinata all’ingresso principale a oriente, fu realizzata da Andrea Pisano, ed è l’unica rimasta ancora in situ. Segue la Porta Nord (1403-1424), realizzata dal Ghiberti, che si aggiu-

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la porta del paradiso Sulle due pagine alcune delle formelle realizzate da Lorenzo Ghiberti per la Porta del Paradiso. Dall’alto, in senso orario: episodi della vita di Giuseppe; Davide e Golia; Salomone e la regina di Saba. L’Arte di Calimala commissionò l’opera a Ghiberti, che già aveva realizzato la Porta Nord del battistero, senza però ricorrere, in questo caso, a un concorso. L’artista cominciò a lavorarvi all’indomani dell’affidamento, ma il getto delle ultime formelle si ebbe solo nel 1447 e il completamento dei fregi nel 1450. La porta fu dichiarata finita nell’aprile del 1452 e dopo la doratura (eseguita tra lo stesso aprile e giugno), finalmente posta in opera, nel mese di luglio.

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saper vedere battistero di firenze Nella pagina accanto il monumentale altare d’argento (310 x 150 x 88 cm) commissionato nel 1366 dall’Arte di Calimala come dossale per l’altare maggiore del battistero, con formelle che narrano la vita di san Giovanni Battista. Alla sua realizzazione, ultimata nel 1483,

lavorarono i maggiori maestri orafi e scultori di piú generazioni: da Leonardo di ser Giovanni a Cristofano di Paolo, Tommaso Ghiberti e Matteo di Giovanni, Bernardo Cennini, Antonio di Salvi, Michelozzo, Antonio del Pollaiolo, Andrea del Verrocchio.

Le origini

Il primo fonte battesimale In linea con una rigorosa unità di stile e di materiali, si conservano ancora talune formelle del duecentesco fonte centrale del battistero, demolito nel 1576. Un recinto ottagonale chiudeva al centro la vasca a immersione, di forma quadrata, laddove il rito si compiva al modo originario, con il neofita adagiato nell’acqua. La vasca stessa, con un complesso sistema di adduzione e di scarico, aveva sostituito il fonte scultoreo (per il battesimo a infusione, secondo la modalità tuttora in uso) trasferito dal duomo nel 1128, oggi perduto. Il vecchio sistema a immersione fu preferito a quello piú semplice e moderno, perché esaltava al meglio la solennità e la lunga tradizione del rito. A sinistra la Maddalena penitente, eseguita da Donatello tra il 1453 e il 1455. Originariamente collocata nel battistero di S. Giovanni, la scultura è oggi conservata nel Museo dell’Opera del Duomo.

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Qui accanto busto di donna con cornucopia, oggi perlopiú identificata con la Sibilla Eritrea, scolpito da Tino di Camaino. 13201321. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. L’opera faceva parte della decorazione esterna del battistero di S. Giovanni.

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Dove e quando Battistero di S. Giovanni Firenze, piazza del Duomo. Orario tutti i giorni, 11,15-19,00; per aperture notturne e straordinarie si può consultare il sito http:// ilgrandemuseodelduomo.it Note è disponibile un biglietto unico per tutti i monumenti del complesso di S. Maria del Fiore: la cupola del Brunelleschi, il campanile di Giotto, il battistero di S. Giovanni, la cripta di S. Reparata e il Museo dell’Opera del Duomo. dicò il lavoro sconfiggendo il Brunelleschi nel concorso bandito allo scopo. Costò ben 22mila fiorini, pari alla somma investita annualmente per la difesa della città. Lo stesso Ghiberti realizzò infine la Porta del Paradiso (1425-1452), che sostituí l’opera da lui eseguita in precedenza per l’ingresso principale. Quella

Da leggere U Antonio Paolucci (a cura di),

Il battistero di San Giovanni a Firenze, Franco Cosimo Panini, Modena 1994. U Guido Tigler, Toscana romanica, Jaca Book, Milano 2006. U Andrea Longhi, Battisteri e scena urbana nell’Italia comunale, in Andrea Longhi (a cura di), L’architettura del battistero. Storia e progetto, Skira, Milano 2003; pp. 105-127. U Enrico Faini, Firenze nell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze, Olschki, 2010. U A questi titoli si aggiunge la recentissima pubblicazione di: Annamaria Giusti, Il Battistero di San Giovanni a Firenze, Franco Cosimo Panini, Modena 2013, per la quale vi rimandiamo alla recensione che compare in questo numero, alle pp. 108-109.

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soglia, forse, era già denominata di per sé «del Paradiso», in allusione alla liturgia salvifica del battesimo, ma, stando al Vasari, fu Michelangelo a legare indissolubilmente l’epiteto al capolavoro del grande scultore fiorentino. Come ha sottolineato Antonio Paolucci, queste tre porte, destinate a essere esposte in una stessa sala nel nuovo allestimento del Museo dell’Opera del Duomo, esprimono in pieno, un passo alla volta, la riscoperta di uno spazio misurabile e tangibile, nel quale i personaggi acquisiscono una nuova, vibrante concretezza. Dalla sensibilità gotica del Pisano, le cui figure, racchiuse nei «compassi» mistilinei, hanno ancora un vigore austero, si giunge al respiro e all’appassionante «verità» scenica della Porta del Paradiso.

Nel museo che verrà

Sostituita da una copia nel 1990, l’opera del Ghiberti è ora completamente restaurata e sarà definitivamente trasferita al predetto Museo (vedi «Medioevo» n. 188, settembre 2012; anche on line su www.medioevo.it). La Porta Nord, oggi in corso di restauro, ha preso anch’essa la strada dell’esposizione museale (vedi «Medioevo» n. 196, maggio 2013). Molti altri «pezzi» del battistero si possono oggi ritrovare in quelle sale: i

frammenti dell’antico fonte battesimale; i resti delle sculture trecentesche che sormontavano le porte, in parte attribuibili a Tino di Camaino, sostituite da nuovi gruppi scultorei a partire dal 1502; il «mastodontico» altare d’argento istoriato e di smalto (1366-1483), che veniva solennemente allestito in occasione della festa di S. Giovanni, con l’altrettanto prezioso corredo del paliotto a ricamo con Scene della vita del Battista (1467 circa-1487), eseguito su disegno del Pollaiolo. E dal battistero deriva pure la celebre Maddalena penitente di Donatello (1453-55), presente in S. Giovanni come risposta femminile al rude ascetismo del Battista. La sua sconvolgente, espressionistica drammaticità faceva da pendant al meticoloso realismo della salma dell’antipapa Giovanni XXIII (morto a Firenze nel 1419), nel monumento funerario che si osserva tuttora in S. Giovanni, realizzato da Donatello stesso in collaborazione con Michelozzo. F

Nei prossimi numeri ● La cattedrale di S. Marco a Venezia ● Il ciclo arturiano del Duomo di Modena ● S. Ambrogio a Milano ● Il mosaico pavimentale di Otranto

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di Luca Pesante

Settecento anni fa nacque l’autore del Decameron. Toscano di nascita, la sua formazione deve moltissimo al soggiorno in una Napoli centro di vita e di cultura internazionale. Ecco la storia di un uomo che, oltre a essere uno dei maggiori narratori europei, fu anche abile diplomatico, instancabile «operatore culturale», nonché allievo e amico fedelissimo di Petrarca

Ritratto di Giovanni Boccaccio, olio su tavola. Scuola italiana, XVI sec. Innsbruck, Schloss Ambras, Kunsthistorisches Museum, Habsburger Porträtgalerie.

Giovanni

Boccaccio Gli incontri di una vita


Dossier

I I

l padre della narrativa europea nacque sotto il segno della cipolla. Una cipolla rossa, dal gusto dolce, che ancora oggi diffonde il suo profumo nelle campagne della Val d’Elsa. Del resto, come ai tempi di quel frate che, ci informa il Decameron, proprio a Certaldo «produceva cipolle famose in tutta la Toscana», il prestigio dato dal nobile bulbo era tale da prendere posto fin dal XII secolo nell’insegna comunale (vedi box qui accanto). Sebbene fosse nato con ogni probabilità a Firenze, Boccaccio parlò a lungo di Certaldo come della sua piccola patria, cioè patria della sua famiglia. Una famiglia appartenente a quella borghesia che traeva un certo agio dalle proprietà terriere prima di tentare, sul finire del XIII secolo, la grande avventura mercantile trasferendosi a Firenze, come fecero in quegli anni molte altre casate del contado. Queste vicende ripropongono lo stesso travolgente percorso di diversi gruppi sociali che, dalle campagne di gran parte della nostra Penisola, entrano, in pochi anni e con una velocità impressionante, nella vita europea e mediterranea,

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mettendo in moto processi che hanno imposto il potere economico su quello politico, cambiato radicalmente la cultura artistica e modellato nuove forme di città. «La famiglia del Boccaccio vive attivamente e pugnacemente questa grandiosa vicenda, ne gode la vitalità e lo splendore, ne soffre i drammi, ne sente con angoscia la crisi nel cuore del Trecento» ha scritto Vittore Branca (1913-2004), lo studioso che ha legato il proprio nome a quello del grande narratore, essendone il massimo indagatore e conoscitore. Il cuore del Trecento, piú precisamente gli anni della grande epidemia di peste – dalla quale fuggono i dieci ragazzi del Decameron rifugiandosi sulle colline fiorentine e che causò, intorno al 1348, la morte di un terzo della popolazione europea – costituiscono, in effetti, un punto cruciale: è l’attimo di arresto e dell’inizio della crisi di tale prodigiosa e fulminea espansione.

Tra Firenze e Parigi

Boccaccino di Chellino, padre di Giovanni, negli anni tra 1310 e 1314 è a Parigi con il fratello Vanni, forse in qualità di cambiatore (negotiator)

La cipolla di Certaldo

Vernine e statine Già dai tempi dei conti Alberti, feudatari del castello della Val d’Elsa nel XII secolo, la cipolla prese posto nella metà di sinistra dello stemma del Comune e ancora oggi troneggia nello scudo bianco e rosso. Vi si leggeva una volta il motto: «per natura sono forte e dolce ancora, e piaccio a chi sta e a chi vi lavora». Tale era dunque l’importanza del bulbo rosso da essere preso a simbolo dell’identità per conto dei potentissimi Bardi di Firenze, e agli anni parigini sembrano riferirsi i ricordi – riportati dal figlio – circa il rogo dei Templari e il supplizio del loro Gran Maestro Giacomo di Molay. Era un uomo d’affari, Boccaccino, diviso in questi anni tra Firenze e Parigi, i due poli attorno ai quali ruotava gran parte dell’economia europea: la prima era la grande cassaforte dei piú ricchi banchieri d’Europa; la seconda il massimo emporio commerciale d’Occidente. Pro-

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cittadina. Boccaccio, nella sesta giornata del Decameron, consacra proprio alla cipolla un suo personaggio e aggiunge che «quel terreno [di Certaldo] produca cipolle famose per tutta la Toscana». Ne esistono due varietà coltivate ancora oggi, una invernale, schiacciata ai poli e di colore rosso intenso, chiamata vernina, e una estiva, di forma tonda e dal colore tendente piú al viola, chiamata

statina. Tutelata da un presidio Slow Food, se ne celebra la sagra ogni anno a settembre. Appassite nell’olio caldo e mescolate al brodo vegetale, le cipolle certaldesi sono particolarmente adatte per eccellenti zuppe, prima fra tutte la tipica carabaccia, la cui ricetta risale al Cinquecento, ma accompagnano egregiamente anche carni bollite o stufate.

prio in questo periodo, fra il giugno e il luglio del 1313, a Firenze nacque Giovanni. Nulla sappiamo della madre, che alcuni fantasiosi biografi identificano in una figlia di re, sedotta da Boccaccino nella lontana Parigi. È piú probabile che la donna fosse morta prematuramente o avesse origini tanto umili da non essere mai stata legittimata. Di certo il piccolo Giovanni trascorse i suoi primi anni tra Firenze e le campagne dei din-

torni, dove pare amasse andare alla ricerca delle conchiglie fossili che emergevano in superficie. Viveva nel quartiere di S. Pier Maggiore, dove il Boccaccino risiedeva con la moglie Margherita de’ Mardoli, imparentata con la famiglia della Beatrice di Dante, e che, intorno al 1320, gli diede un altro figlio, Francesco. Giovanni fu subito affidato a un precettore, il grammatico Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del piú celebre Zanobi (poeta e letterato,

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In alto lo stemma del Comune di Certaldo (FI), nel cui campo bianco compare la cipolla, prodotto tipico del borgo. In basso veduta di Certaldo. Giovanni Boccaccio nacque con ogni probabilità a Firenze, ma parla del borgo, di cui era sicuramente originaria la sua famiglia, come della sua patria.

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Dossier Tra «mercatanti» e «femine bellissime» Cosí Boccaccio descrisse l’umanità che affolla il porto di Napoli: «Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto, cosí fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è chiamato dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano. E quivi, dando a coloro che sopra ciò sono per iscritto tutta la mercatantia e il pregio di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino (...) e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto pagare al mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse. E da questo libro della dogana assai volte s’informano i sensali e delle qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e ancora chi sieno In alto e a destra due particolari della Tavola Strozzi raffiguranti alcune case e il porto di Napoli. 1472-73. Napoli, Certosa e Museo di San Martino. Tra il 1327 e il 1340-41 Boccaccio soggiornò nella città partenopea con il padre, imparando l’arte della mercatura.

n.d.r.), prima di divenire, ancora giovanissimo, discepolo nella mercatura e nel cambio, forse sotto la direzione del padre.

La «sacra» filosofia

Piú tardi, nel Corbaccio, scrisse, a proposito dei primi insegnamenti, con puntuale riferimento biografico: «Gli studi adunque alla sacra filosofia pertinenti infino dalla tua puerizia, piú assai che il tuo padre non avrebbe voluto, ti piacquero e massimamente in quella parte che a poesia appartiene, la quale per avventura hai con piú fervore d’animo che con altezza d’ingegno seguita». Rientra in questo periodo di apprendistato il trasferimento a Napoli, verso il 1327, al seguito del padre, il quale, prima della partenza, vendette con ogni probabilità la casa fiorentina di S. Pier Maggiore. In questi anni le famiglie dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli dominavano le finanze del regno angioino: in cambio di prestiti ingenti, ottennero gli appalti delle

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i mercatanti che l’hanno, con li quali poi essi, secondo che lor cade per mano, ragionano di cambi, di baratti e di vendite e d’altri spacci. La quale usanza, sí come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà; le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime donne. Ed essendo, non a radere, ma a scorticare uomini date del tutto, come un mercatante forestiere riveggono, cosí dal libro della dogana s’informano di ciò che egli v’ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s’ingegnano d’adescare e di trarre

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nel loro amore; e già molti ve n’hanno tratti, a’quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e d’assai tutta; e di quelli vi sono stati che la mercatantia e ‘navilio e le polpe e l’ossa lasciate v’hanno, sí ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio» (Decameron, VIII, 10).

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Dossier la biblioteca di re roberto

A caccia di libri per conto del sovrano Il laboratorio culturale piú importante di Napoli si deve alla passione e al personale impegno del terzo sovrano angioino, Roberto, detto il Saggio (1277-1343). Traduttori, copisti, miniatori e legatori affollano la corte di Castelnuovo. Persino nei periodi di vacanze, a Castellammare di Stabia, il re ama circondarsi di libri e di scrivani al lavoro. In una nota di spesa dell’estate del 1337, al pagamento per il trasporto di libri da Napoli a Quisisana è aggiunto il costo di un servizio che forse si lega direttamente alla passione per i libri: «per certa quantità di rose poste nella camera del Re». L’ozio entrate doganali e delle gabelle. Boccaccino era uomo di fiducia dei Bardi e uno dei protagonisti delle relazioni economiche con il regno, soprattutto dopo la nomina a consigliere dell’Ufficio di Mercanzia, nel 1326, da parte del figlio di re Roberto, Carlo, e l’affidamento, nell’anno seguente, dell’incarico di primo rappresentante dei Bardi a Napoli. Il regno era in difficoltà, cercava sostegni e alleati per contrastare a nord la discesa di Ludovico il Bavaro e a sud le pressioni di Federico d’Aragona, storico nemico degli Angioini. Il trust bancario fiorentino doveva quindi sostenere lo sforzo difensivo e offensivo del re, e ciò avveniva grazie all’abilità di uomini come Boccaccino, capaci di giocare su campi diversi e fare gli interessi di piú parti. Per la sua fedeltà, nel 1328, è nominato da re Roberto suo personale consigliere e ciambellano. Nel frattempo Giovanni, ancora adolescente, si muoveva tra i fondachi e i banchi della zona di Portanova, dove era la sede dei Bardi e di altri banchieri fiorentini. Rac-

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conta di avere le giornate indaffarate a maneggiare monete, scacchiere, lettere di cambio, abachi, registri di bilanci e di compra-vendite, in un via vai continuo con il porto, dove si recava a controllare alla dogana le merci in arrivo o in partenza e a discutere con sensali e barcaioli. Non mancava di incontrarsi con «femine del corpo bellissime ma nimiche dell’onestà» che catturavano la sua curiosità, come traspare dalla vivida e variopinta descrizione della vita del porto che inserisce in una novella del Decameron (vedi box alle pp. 76-77).

della quiete era dunque accompagnato dal piacere dei libri e dei fiori. Vengono tradotti dall’arabo, dal greco o dall’ebraico, copiati e poi miniati libri di medicina, filosofia, storia romana, matematica, fisica, astronomia. Agenti vengono inviati in giro per il regno e oltre, alla ricerca dei codici piú rari che mancano alla biblioteca. Una volta, dopo aver saputo che in Provenza era conservato un pulcher («bello», n.d.r.) Avicenna di particolare pregio, il re incaricò l’arcivescovo di Marsiglia di trovarlo e comprarlo con i denari che gli avrebbero fornito i suoi tesorieri provenzali e spedirlo al piú presto e con il mezzo piú sicuro. Non c’è limite alle spese: Rosso degli Aldobrandini, socio della A sinistra particolare di un’incisione che ritrae Roberto d’Angiò il Saggio, re di Napoli e conte di Provenza. XIV sec. Aix-enProvence, Musée Paul Arbaud.

Ricordi di gioventú

E, in effetti, il brulichio di uomini e donne di ogni genere che animava il quartiere napoletano di Portanova andava formando una solida esperienza attraverso gli occhi del futuro narratore. Giunto all’età di cinquant’anni, cosí ricordava quegli anni di gioventú: «Io sono vivuto, dalla mia puerizia infino in intera età nutricato, a Napoli ed intra nobili giovani meco in età convenienti i quali quantunque nobili d’entrare in casa novembre

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Pisa, Duomo. Il cenotafio del giurista e poeta Cino da Pistoia (al secolo Guittoncino dei Siguisbudi). Forse opera di Agnolo

Compagnia dei Buonaccorsi, acquistò un Corpus iuris per 60 once d’oro (lo stipendio di un notaio era pari a circa 2 once al mese). Il piú attivo raccoglitore di codici per conto del re e poi anche custode della preziosissima biblioteca fu Paolo da Perugia, studioso di diritto e autore di

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di Ventura (XIV sec.). Professore all’Università di Napoli, Cino avvicinò il giovanissimo Boccaccio alla poesia.

alcune opere erudite di carattere mitologico, amico del Boccaccio, poi morto in povertà nel 1348, falciato dalla peste nera. Oltre a Paolo, la straordinaria biblioteca reale offrí la possibilità a Boccaccio di frequentare illustri scienziati e letterati quali l’astrologo Andalò del Negro, Graziolo de’ Bambaglioli – che fu tra i primi commentatori di Dante –, lo storico Paolino Minorita, il teologo agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro.

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Dossier le tappe salienti 1313 Giovanni Boccaccio nasce verosimilmente a Firenze, ma parlerà sempre del borgo di Certaldo come del suo luogo natio. Compie i primi studi sotto la guida di Giovanni da Strada, padre del poeta Zanobi. 1327-40 Il padre lo invia a fare pratica mercantile presso la succursale dei Bardi a Napoli. Risalgono a questi anni le prime opere letterarie: le Rime, la Caccia di Diana, il Filocolo, il Filostrato, il Teseida. 1341 Torna a Firenze, richiamato dal padre in seguito al fallimento dei Bardi. Qui scrive il Ninfale d’Ameto, l’Amorosa visione, l’Elegia di madonna Fiammetta, il Ninfale fiesolano. 1345-46 È alla corte di Ostasio da Polenta a Ravenna. 1347 Si trova al servizio di Francesco degli Ordelaffi, signore di Forlí. 1348 A Firenze, dove è tornato a stabilirsi, assiste alla tragedia della peste che rievoca all’inizio del Decameron, alla cui stesura si dedica tra il 1349 e il 1351. Riceve numerosi incarichi diplomatici e onorifici per conto del Comune di Firenze. 1350 Incontra per la prima volta Francesco Petrarca, con il quale avvia un intenso rapporto d’amicizia e di scambio culturale. 1359 Nuovo incontro con il Petrarca, a Milano. 1360 È autorizzato ad avere cura d’anime in chiesa: da qualche anno aveva ricevuto gli ordini minori. In questi anni scrive le opere successive al Decameron, la cui compilazione fu spesso protratta e alternata: il Corbaccio, la Genologia deorum gentilium, il Buccolicum carmen, il De claris mulieribus, il De casibus virorum illustrium, il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris. 1362 Accetta l’invito a sistemarsi di nuovo a Napoli, ma la fredda accoglienza lo induce a ripartire e raggiunge Certaldo, dove si stabilisce definitivamente. La sua casa diventa un centro di cultura umanistica. 1363 È ospite del Petrarca a Venezia. 1370-71 Altri approcci, di nuovo delusi, con la Corte di Napoli; dove lo ha invitato Niccolò da Montefalcone. 1373-74 Accoglie l’invito a commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di S. Stefano di Badia a Firenze. 1375 Muore il 21 dicembre a Certaldo, un anno e mezzo dopo l’amico Petrarca.

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In alto miniatura raffigurante Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca nel mezzo di una conversazione, da un’edizione del De casibus virorum illustrium. Prima metà del XV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto, in basso Teseo, re di Atene, tra la moglie Ippolita e la cognata Emilia, miniatura da un’edizione del Teseida, l’ultima opera scritta a Napoli dal Boccaccio. XIV sec. Vienna, Osterreichische Nationalbibliothek.

mia né di me visitare si vergognavano. Vedevano in me consuetudine di uomo e non di bestia ed assai dilicatamente vivere, sí come noi fiorentini viviamo, vedevano ancora la casa e la masserizia mia, secondo la misura della possibilità mia, splendida assai. Vivono molti di questi, ed insieme meco nella vecchiezza cresciuti in degnità sono venuti».

Il professor Cino

Passati i diciotto anni, Giovanni viene avviato dal padre agli studi di diritto canonico presso l’Università napoletana, dove incontra celebri novembre

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giuristi e canonisti; ma uno su tutti lascia su di lui un segno indelebile: Cino da Pistoia (1270-1336), l’amico di Dante e di Petrarca, l’emblema della grande poesia toscana. Era anch’egli toscano, professore nello Studio partenopeo fra il 1330 e il 1331, in polemica continua con gli intellettuali suoi contemporanei. Per Boccaccio quell’incontro fu determinante sopra ogni cosa: attraverso il poeta, Giovanni dovette avvicinarsi alle opere dei principali rimatori della generazione precedente e forse anche udire i versi di quel giovane aretino (Francesco Petrarca, n.d.r.), il cui nome aveva già varcato molti confini e che proprio a Cino rese un omaggio devoto e commosso, celebrandone la morte nel sonetto n. 92 del Canzoniere. L’altro polo culturale frequentato dal Certaldese, grazie anche alla prossimità con la corte angioina, era la

In alto vignetta tratta da un’edizione francese del Decameron. Opera del

miniatore Guillebert de Metz, XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier ricchissima biblioteca reale che re Roberto, mosso da una famelica passione bibliofila, aveva costantemente rimpinguato con preziosi codici (vedi box alle pp. 78-79). E lí Boccaccio entrò in contatto con molti eruditi, compreso il custode della biblioteca, Paolo da Perugia, autore, tra le altre cose, di commenti alle opere di Persio e di Orazio, esempio di quella erudizione enciclopedica che spaziava dalla letteratura all’astronomia, passando per l’antiquaria e gli studi genealogici; anche grazie a lui il futuro narratore si avvicinò alla cultura greca e bizantina, direttamente legata a Napoli mediante i conventi calabresi e dell’Acaia. Altro incontro fondamentale fu quello con l’agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, teologo e astrologo di formazione avignonese e parigina, amico caro del Petrarca, che molto contribuí a fargli conoscere la figura e l’opera del grande aretino.

Firenze, per la detta cagione entrarono in tanto sospetto, che ciascuno volle essere pagato, e fallí in Firenze la credenza e (…) appresso molte buone compagnie di Firenze ne fallirono».

Firenze, Ravenna, Forlí

Dopo tredici anni, Boccaccio rientrava a Firenze per stabilirsi nella casa del padre, che nel frattempo si era trasferito nel rione di S. Felicita, e, rispetto alle «delizie mondane» di Napoli, trovava una città culturalmente depressa (non esisteva ancora l’Università), in crisi economica. Scrive nell’Elegia di Madonna Fiammetta a questo riguardo: la «città è piena di voci pompose e di pusillanimi fatti, serva non a mille leggi, ma a tanti pareri quanti v’ha uomini, e tutta in arme, e in

Crisi e fallimenti

Già poco piú che ventenne, Boccaccio appare dunque totalmente immerso a Napoli nel fermento della cultura occidentale e orientale, e lo fu fino al 1340-1341, cioè quando lasciò Napoli per tornare a Firenze. La scelta della partenza ebbe origine nel mutato clima tra i banchieri fiorentini e la corte angioina, che si tradusse in un capovolgimento delle parti: mentre le finanze del regno andavano pian pian ristabilendosi, molti banchieri toscani entrarono in crisi e alcuni finirono con il fallire. La stessa politica fiorentina era in balía di mutevoli tentativi di nuove alleanze e pertanto soggetta a continui sbandamenti. Non a caso Boccaccino, fin dal 1338, non appare piú legato alla compagnia dei Bardi. Giovanni Villani (12761348), grande cronista fiorentino, cosí descrive questo momento: «Il re Ruberto entrò in tanta gelosia che non sapea che si fare, temendo forte che i Fiorentini non prendessono rivoltura di parte imperiale e ghibellina. E molti suoi baroni e prelati e altri del regno ricchi uomini, ch’avevano depositati i lori denari alle compagnie e mercatanti di

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In alto la Pianta della Catena, veduta a volo d’uccello di Firenze di Francesco di Lorenzo Rosselli. 1471-1482 circa, Firenze, Museo Storico Topografico «Firenze Com’Era». Al centro miniatura con scene riferite alla diffusione della peste a Firenze. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura da un’edizione fiorentina del Decameron, composta verso il 1370: vi si vedono le 7 fanciulle e i 3 gentiluomini che fuggono dalla Firenze flagellata dalla peste del 1348. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


guerra, cosí cittadina come forestiera, fremisce, di superba, avara e invidiosa gente fornita, e piena di innumerabili sollecitudini». Ciononostante, in pochi mesi, era già in contatto con i piú attivi esponenti locali della cultura, tra cui Forese Donati, Franceschino Albizzi, Bruno Casini e Zanobi da Strada. Tutto ciò, però, non dovette bastargli, se già verso la fine del 1345 troviamo Giovanni a Ravenna presso Ostasio da Polenta, cugino e successore del celebre ospite di Dante (Guido Novello da Polenta, n.d.r.).

E proprio la viva presenza della memoria dantesca giocò un ruolo determinante sul soggiorno ravennate del Boccaccio. Qui incontrò alcuni amici del sommo poeta, tra cui Minghino Mezzani; conobbe la figlia, suor Beatrice Alighieri, e strinse solide amicizie letterarie, come quella con il casentinese Donato degli Albanzani. Subito dopo, nel 1347, troviamo Boccaccio a Forlí presso Francesco Ordelaffi e l’anno successivo, l’anno della grande epidemia, di nuovo a Firenze. Il rientro si rese necessario probabilmente in occasione della

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Dossier morte del padre, il quale – come la matrigna Margherita – fu quasi certamente falciato dalla peste, che aveva iniziato a diffondersi e a mietere vittime a Firenze a partire dalla primavera dello stesso anno. In tale drammatica situzione Giovanni veniva a essere incaricato della tutela del giovane fratellastro Iacopo e dell’amministrazione del modesto patrimonio familiare. Ma quasi a compensare il dolore per le perdite (morirono di peste anche moltissimi amici, tra cui Bruno Casini, Giovanni Villani, Matteo Frescobaldi), proprio in questi mesi, forse a Firenze, al Certaldese nacque una figlia: Violante «nimium dilecta, spes unica pa-

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Particolare di un’acquaforte ottocentesca in cui, basandosi sulla testimonianza del Boccaccio, si immagina uno dei molti terribili episodi che segnarono il diffondersi della peste a Firenze nel 1348. Milano, Castello Sforzesco.

La peste del 1348

Un contagio inarrestabile Il Boccaccio si trovava a Firenze quando, nel marzo-aprile del 1348, anche la città del giglio fu colpita dalla terribile epidemia di peste che flagellò l’intera Europa. La città fu ridotta a poco piú di un terzo della sua popolazione, sprofondando di conseguenza in una impressionante crisi economica e politica. Molti amici del poeta morirono, e lui stesso fu colpito negli affetti piú cari: nel 1348 morí la matrigna Bice, poco dopo il padre. Ecco la descrizione che ne fa, poi inserita nel Decameron: «Quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, et in miracolosa maniera a dimostrare: e non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’

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maschi et alle femine parimente, o nell’anguinaia, o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo, et alcune piú et alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli (…). A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtú di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto, anzi o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti non conoscesse da che si movesse, e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi piú tosto e chi meno, et i piú senza alcuna febbre o altro accidente, morivano (…). Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia

narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dí cosí fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare».

tris», l’unica tra i cinque figli illegittimi piú volte ricordata dal padre, morta prima di compiere sette anni.

L’incontro con Petrarca

Alcuni documenti mostrano il particolare rilievo assunto dal Boccaccio in questi anni nell’ambito della politica cittadina: nel 1350 è inviato in veste di ambasciatore «ad partes Romandiole», con il compito, tra gli altri, di consegnare a Ravenna, per conto della compagnia di Or San Michele dieci fiorini d’oro a suor Beatrice, figlia di Dante, come dono in memoria del grande esule. Non appena rientrato dal viaggio, nell’ottobre dello stesso anno, viene finalmente realizzato il sogno che da tempo lo ossessionava: conoscere personalmente Francesco Petrarca. Avvicinandosi all’incontro egli aveva la consapevolezza di essere il rappresentante piú autorevole della cultura fiorentina,

soprattutto dopo il tramonto della generazione dei poeti Sennuccio Del Bene (1270 circa-1349) e Franceschino Albizzi († 1348). Sul finire di settembre, Giovanni scrive all’aretino dicendogli di non riuscire a trovare alcune sue opere che invece sapeva essere in circolazione. Il poeta rispose immediatamente, in versi, ripetendo quanto fastidio gli era causato dalla popolarità ed espresse il desiderio di essere amato da pochi e di restare lontano dal volgo. Pochi giorni dopo, non appena Boccaccio seppe che l’illustre corrispondente s’era messo in viaggio verso Roma per partecipare al giubileo (vedi «Medioevo» n. 194, marzo 2013; anche on line su www.medioevo.it) e che sarebbe passato per Firenze, gli corse incontro. Si videro in un freddo pomeriggio dei primi di ottobre: i due entrarono insieme in città e Petrarca accolse anche l’invito del Boccaccio a trascorrere qualche giorno presso di

La peste strappò al Boccaccio la matrigna, il padre e molti degli amici piú cari MEDIOEVO

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Dossier lui nella casa di Borgo S. Iacopo. Furono chiamati a raccolta in quei giorni i massimi esponenti della cultura fiorentina, su tutti: Zanobi da Strada, Francesco Nelli e Lapo da Castiglionchio. Cominciava allora un’amicizia sempre piú intensa e profonda, e che sarebbe durata per tutta la vita. Petrarca non dovette sostare a lungo a Firenze; il 12 di ottobre era già partito in viaggio verso Roma, dopo aver ricevuto un anello in segno di affetto. Da lí, nella notte del 3 novembre, il poeta scrive al Boccaccio raccontandogli le disavventure patite durante il viaggio, e conlude la lettera indirizzata a «Johanni Bocchacci de Certaldo discipulo suo» con le seguenti parole: «Del resto, caro amico, ti scrivo dal mio letto di pena, da coricato come si può certo capire dalla calligrafia, non per addolorarti, ma perché tu sia contento di sapere che ho sopportato tutto di buon grado e che son pronto anche a cose peggiori, se dovessero capitarmi. Ricordati di me e vivi felice. Ti saluto. Roma, il 2 novembre, nel silenzio di una notte tenebrosa». È probabile che il poeta, anche lungo il viaggio di ritorno dal giubileo, si fosse fermato a Firenze dal nuovo amico nel mese di dicembre.

Incarichi prestigiosi

Dal 1350 Boccaccio viene investito di nuove prestigiose cariche pubbliche: prima camerlengo della Camera del Comune, poi camerlengo e delegato della Signoria presso Iacopo Acciaiuoli nell’affare della cessione di Prato a Firenze da parte dei sovrani del regno di Napoli, Luigi e Giovanna di Taranto (23 febbraio 1351). Nel quadro di una politica mirata a contenere l’espansione milanese, il Certaldese fu inviato come ambasciatore presso Ludovico di Baviera, marchese di Brandeburgo e conte di Tirolo, per trattare un intervento contro l’arcivescovo di Milano (dicembre 1351-gennaio 1352). Tra le spedizioni di questo periodo, la piú gradita fu di gran lun-

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ga quella presso il nuovo amico, Francesco Petrarca, compagno di esilio di Dante. Alla fine di marzo del 1351 Boccaccio lo visitò a Padova, nella funzione di latore di alcune lettere del Gonfaloniere di Giustizia che informavano il poeta della revoca della condanna del padre – ser Petraccolo – e della conseguente confisca dei beni, il tutto accompagnato da un invito a tornare in patria a occupare

una cattedra presso l’Università. Il grande Aretino declinò l’offerta, forse perché aveva già accettato l’invito ad Avignone da parte di papa Clemente VI. Tuttavia, si trattò di un incontro intensissimo per entrambi, impegnati in un fitto confronto poetico sempre attraversato dalla memoria di Dante. E, nell’estate seguente, il Boccaccio inviò come omaggio al poeta uno splendido


esemplare della Divina Commedia (oggi conservato nella Biblioteca Vaticana), accompagnato da un affettuoso carme. Parlarono a lungo anche di politica, delle debolezze dei tiranni e delle miserie del «vulgo inerme», essendo entrambi, come fu Dante, maestri del giudizio e dell’impegno politico. Nel decennio che segue (13521361), prima del ritiro a Certaldo, Boccaccio è di nuovo incaricato di

rappresentare il Comune in Romagna, a Ravenna e a Forlí, sempre nell’ambito dei tentativi fiorentini di contenere l’espansione viscontea che aveva già largamente investito la Toscana. L’impegno politico in questa direzione lo portò a una certa incrinatura nei rapporti con il Petrarca: la decisione di quest’ultimo di rientrare in Italia nel 1353 e di stabilirsi presso l’arcivescovo Giovanni Visconti

– proprio quel tiranno infamis già condannato dall’Aretino – colpí il Certaldese fino all’offesa.

Al di là delle Alpi

Il 1354 è l’anno di ancor piú delicate e impegnative missioni e si presenta la prima occasione di varcare le Alpi. Nel maggio-giugno parte un’ambasceria diretta ad Avignone, per conferire con papa Innocenzo VI sulle conseguenze

Boccaccio che sotto il nome di Dioneo rallegra con la sua novella la brigata raccolta nella villa di Schifanoia, olio su tela di Baldassarre Calamai (1787-1851). 1844. Firenze, Galleria d’Arte Moderna. Dioneo è il nome di uno dei giovani protagonisti del Decameron, l’unico ad avere il privilegio di non rispettare il tema della giornata e a raccontare la sua novella sempre per ultimo.


Dossier Miniatura raffigurante Giovanni Boccaccio, la sua Musa e gli Eremiti, dal Buccolicum Carmen, una raccolta di sedici egloghe composte dal poeta tra il 1347-1367. XIV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

della discesa in Italia dell’imperatore Carlo IV. La difficile missione andò evidentemente a buon fine, se, subito dopo, la Signoria fiorentina decise di approfittare dell’abilità e dell’esperienza di Boccaccio in una questione tutta interna: l’organizzazione di una resistenza proprio a Certaldo in grado di opporsi alla «Grande Compagnia» di Fra Moriale, una sorta di spregiudicato capitano di ventura di origini francesi intenzionato a ritagliarsi un proprio Stato. La vicenda si concluse con il salavataggio del borgo e la morte di Fra Moriale, decapitato a Roma da Cola di Rienzo, in piazza del Campidoglio, il 29 agosto del 1354. Di pari passo al prestigio politico dovette aumentare anche la dispo-

Le numerose missioni in Italia e all’estero diedero ripetute conferme delle eccellenti doti diplomatiche del Certaldese nibilità economica del Certaldese, a giudicare almeno dal dono che fece al Petrarca nell’aprile del 1355: si presentò al suo cospetto con una straordinaria copia delle Enarrationes in Psalmos di sant’Agostino, un codice nientemeno che dell’XI secolo, oggi conservato a Parigi, sul quale è ancora possibile leggere la commossa nota del ricevente: «Hoc immensum opus donavit michi vir egregius dominus Johannes Boccacci de Certaldo poeta nostri temporis, quod de Florentia ad me pervenit 1355 aprilis 10». Dopo un’estate trascorsa a combattere con febbri violentissime, Boccaccio parte per un viaggio nel Regno di Napoli. Pochissimo è noto a questo riguardo, ma sappiamo che in quei giorni morí l’amata figlia Violante e che, grazie all’amico Zanobi da Strada, gli fu possibile compiere una visita memorabile

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ai tesori di Montecassino (di cui Zanobi era vicario diocesano). Qui scoprí opere di Tacito e di Varrone, fino ad allora ignote, che si affrettò subito a copiare di propria mano e a inviare al Petrarca (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013). Fu, questo, un periodo di intensi studi e di nuovi componimenti, tra cui il Trattatello in laude di Dante, un capolavoro tale da segnare la direzione di un nuovo genere letterario. Il 16 marzo del 1359 Boccaccio è a Milano dal suo magister: fu ospite del Petrarca per un mese circa. E il tempo non dovette trascorrere in modo diverso dall’ultimo incontro, quello del 1351 a Padova, quando, scrive il Certaldese ricordando quei giorni: «tu ti dedicavi ai sacri studi, io avido dei tuoi componimenti me ne facevo copie». Il giorno in cui arrivò a Milano sorprese il maestro mentre era

intento a piantare piccoli alberi di alloro nel giardino della sua casa presso S. Ambrogio; l’episodio fu subito annotato dal Petrarca: «il Sabato 16 marzo, quasi alle tre del pomeriggio, alla sorte piacque che si ritentasse questa impresa. Tra l’altro dovette essere di grande giovamento per la crescita dei sacri alberelli il fatto che l’insigne signore Giovanni Boccaccio da Certaldo grandissimo amico mio e degli stessi alberelli, casualmente giunto proprio in quel momento, partecipò anch’egli alla piantagione».

La traduzione di Omero

Al ritorno a Firenze lo attendeva un nuovo importante incarico da parte del Comune, che questa volta lo nominò ambasciatore «ad partes Lombardie», cioè presso Bernabò Visconti, vicario imperiale. Ma l’impegno principale del Boccaccio fu concentrato, dal 1360 circa, su un nuovo e ambiziosissimo progetto: la novembre

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Pagina iniziale del Paradiso, terza Cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri, miniata da Giulio Clovio (1498-1578), il piú celebre miniatore italiano del Cinquecento. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Come tutti i suoi contemporanei, Boccaccio ammirava il sommo poeta: in suo onore scrisse il Trattatello in laude di Dante, prima bibliografia dantesca. Curò inoltre un’edizione manoscritta della Commedia, a cui aggiunse l’aggettivo di Divina.

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Dossier leonzio pilato

Un erudito inquieto Leonzio Pilato nacque in Calabria nei pressi di Reggio intorno al 1310. Delle sue vicende biografiche poco ci è giunto, e ciò che sappiamo si deve soprattutto alle note del Boccaccio e di Petrarca. Formatosi a Gerace come discepolo del grande matematico e filosofo Barlaam Calabro (1290-1348), Leonzio, già in giovane età, si guadagnò la fama di esperto cultore di mitologia tra i dotti del Mezzogiorno. Negli anni Quaranta si trasferí a Costantinopoli e poi a Creta, per migliorare la propria conoscenza della lingua greca. Tornato a Venezia un decennio piú tardi, e nel 1358 fece la conoscenza di Francesco Petrarca.

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Nella pagina accanto miniatura con Penelope che tesse la tela, da un manoscritto del De mulieribus claris. XV sec. Londra, British Library.

Leonzio godeva di un forte credito tra i maggiori umanisti del tempo proprio grazie alle sue eccezionali doti di traduttore oltre che per essere un sapiente conoscitore della mitologia greca. Non appena Boccaccio venne a sapere che il Calabrese era in Veneto lo mandò a cercare per incaricarlo di una gravosa e importantissima impresa: la prima traduzione in lingua latina delle opere di Omero, oltre che l’insegnamento di greco presso l’ateneo fiorentino. Come riferisce Petrarca in una lettera indirizzata al Boccaccio, Leonzio Pilato morí nell’estate del 1365, colpito da un fulmine. Nella stessa lettera il poeta aretino scrive che, probabilmente, quest’uomo incapace di amore per se stesso e per gli altri non conobbe mai un solo giorno di vita serena in tutta la sua esistenza. traduzione delle opere di Omero per la prima volta in prosa latina. Dal Petrarca aveva saputo che Leonzio Pilato, il dottissimo monaco greco di Calabria, era in Veneto – a Padova o a Venezia –, e subito si affrettò a cercarlo per proporgli una cattedra di lingua greca presso lo Studio fiorentino.

«Una grossa bestia»

All’inzio dell’estate Leonzio era già a Firenze, accolto come ospite in casa del Boccaccio, incurante della sua scarsa avvenenza, almeno a detta del Petrarca: «è una grossa bestia, lunghi capelli arruffati, barba incolta, vestiti trasandati e lerci, sempre di pessimo umore, di cattive maniere, insolente, irrequieto e infedele». Lo stesso Boccaccio, del resto, non si discosta di molto nel giudizio sul Calabrese: «orripilante nel volto, con barba lunga e incolta, capigliatura corvina arruffata, rozzo e negato ad ogni urbanità». Tuttavia, la fama di Leonzio era tale da indurre a lasciar correre su simili dettagli: era tra i migliori conoscitori della lingua e della mitologia greca dell’epoca. Nei due anni e mezzo trascorsi a Firenze, insegnando per due anni accademici nell’ateneo fiorentino, Pilato tradusse e commen-

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Qui accanto ritratto di Omero, da un originale ellenistico del 200 a.C. circa. Roma, Musei Capitolini. Dal 1360 Boccaccio concentrò le sue energie nel progetto di traduzione in prosa latina dei poemi omerici.


Dossier tò, oltre a Omero, anche Euripide e Aristotele, come del resto aveva consigliato di fare il Petrarca. Per la prima volta dunque, nel mondo neolatino la cultura greca e latina rivivevano in una unità ideale, e di ciò era ben consapevole Boccaccio: «Mia è la gloria di essermi giovato, primo fra i Toscani, delle poesie elleniche (…) Io certamente fui il primo a ricondurre in Etruria, a mie spese, i libri di Omero e di alcuni altri greci. Ma non solo in Etruria, in patria li ricondussi. Io fui, primo fra gli italiani, ad udire l’Iliade da Leonzio Pilato. Io inoltre mi adoperai a che si leggessero in pubblico i carmi omerici. E sebbene in queste cose io non sia penetrato abbastanza profondamente, appresi tuttavia quanto potei, e certamente se quell’uomo instabile fosse rimasto piú a lungo da me avrei imparato molto di piú». Anche qui vediamo bene come la figura del Boccaccio fosse al centro di una cultura nuova, in grado di mettere sullo stesso piano di fecondo confronto la cultura fiorentina, il petrarchismo, la tradizione greca e del Regno di Napoli. Ogni scoperta o nuova sperimentazione letteraria nata in quegli anni aveva, in qualche modo, origine entro questa cerchia. Il 2 luglio 1361, dopo aver ceduto la propria casa di Firenze al fratellastro appena divenuto maggiorenne, Boccaccio si ritirò in campagna, proprio nel castello delle antiche origini. La minaccia dei Milanesi, la presenza dell’imperatore e le avvisaglie del conflitto con Pisa lo spinsero ad allontanarsi dai tumulti cittadini per ritirarsi in un luogo che gli avrebbe offerto il silenzio necessario per gli studi e per una meditazione di carattere religioso. Cosí, dopo aver grandiosamente rappresentato la commedia dell’uomo nei piú insoliti dettagli, cercava ora spazio per una sorta di ricerca interiore, in se stesso. Scrive in questi primi giorni: «Io son tornato a Certaldo e qui ho cominciato con troppa meno difficultà che io estimava di potere, a confortare la mia vita, e comincianmi già i grossi panni a piacere e le contadine vivande, e il non

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vedere l’ambizioni e le spiacevolezze e’ fastidi de’ nostri cittadini m’è di tanta consolazione nell’animo». Ma proprio mentre era intento a «confortare» la propria vita, gli giunge un monito da parte di un certosino, il quale, poco prima di morire in odore di santità, lo esorta ad abbandonare gli studi mondani. Boccaccio reagí con forte inquietudine (pensò persino di abbandonare gli studi e di vendere la sua biblioteca al grande magister) al punto che Petrarca si affrettò a consolarlo, sollevando dubbi sull’autenticità dell’ammonizione ed esortandolo a proseguire nell’impegno culturale.

Petrarca appare in sogno a Boccaccio, miniatura da un’edizione del De mulieribus claris. XV sec. Chantilly, Château.

Il soggiorno veneziano

Nell’ottobre del 1362, ancora attraversato da nuove inquietudini, troviamo il Boccaccio in compagnia del fratellastro Iacopo in partenza per Napoli con tutta la sua biblioteca. Al suo arrivo trovò ben altra accoglienza rispetto a quella a cui era abituato anni addietro: «fetidi odori» provenivano dagli ambienti di una corte popolata da squallidi personaggi, al punto che, già ai primi di marzo del 1363, avvilito e dolorante, era sulla via del ritorno, intenzionato a raggiungere il rifugio sicuro nella casa amica del Petrarca, a Padova. Ma giunto in città e appreso che il magister si era spostato da alcuni mesi a Venezia, Boccaccio proseguí verso la laguna. Nella seconda metà di marzo entrò finalmente a palazzo Molin delle Due Torri, la casa che il Maggior Consiglio veneziano aveva riservato al Petrarca (in una lettera al Certaldese ne parla con queste parole: «quella che dicono essere casa mia, è anche tua»). Vi rimase tre mesi, nei quali ebbe piú volte occasione di godere della compagnia di Donato Albanzani, Benintendi Ravagnani e Guido di Reggio, che spesso frequantavano la casa dell’Aretino. Il Petrarca era solito condurre gli amici in piacevoli gite, verso sera in gondola, alla scoperta dei canali e delle isole della laguna. Nei giorni veneziani i due grandi poeti discussero sul progredire delle novembre

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Dossier loro opere (il Canzoniere era giunto alla quarta stesura) e sul lavoro di Leonzio Pilato ormai in corso da tre anni sebbene in forte ritardo sui tempi previsti. Leonzio stesso li raggiunse a Venezia in giugno, per partire improvvisamente alla volta di Costantinopoli qualche settimana dopo, inveendo violentemente contro l’Italia, dopo insistenti e vani tentativi da parte del Petrarca di trattenerlo presso di sé. Leonzio si confermava dunque il personaggio iracondo e volubile quale era. Qualche mese dopo Petrarca si vide recapitare una lettera del Calabrese «piú rozza della sua barba e dei suoi capelli», in cui il mittente sembrava aver cambiato opinione: ora odiava la Grecia e Bisanzio e amava l’Italia, tanto da voler tornare al piú presto. La risposta del Petrarca non arrivò mai.

Lo studio, innanzitutto

Nel mese di luglio Boccaccio era tornato a Certaldo, con sommo dispiacere di Petrarca che l’avrebbe voluto piú a lungo a Venezia. I due restarono però in contatto attraverso una fitta corrispondenza: si parlava di malanni del corpo – in quei giorni la scabbia tormentava il poeta aretino – e dello spirito, della curiosa fuga di Leonzio in Grecia, degli amici in comune e di progetti da portare a termine. Nonostante i fastidi che gli arrecava Jacopo, il fratellastro, intenzionato ad andare ad abitare presso di lui a Certaldo, e le varie difficoltà materiali, Boccaccio non interruppe mai il ritmo frenetico degli studi, ora rivolti al commento delle opere di Terenzio e di altri autori latini. La quiete fu interrotta nell’agosto del 1365 da un importante e delicato incarico affidatogli dal Comune: la missione consisteva nel recarsi ad Avignone presso papa Urbano V e convincerlo dell’assoluta fedeltà di Firenze a lui e alla Chiesa, a sostegno della quale avrebbe offerto al pontefice cinque galee e cinquecento barbute di scorta per il rientro in Italia (la barbuta era un elmo senza cimiero, e il termine, per

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estensione, finí con l’indicare anche i soldati che lo indossavano, n.d.r.). Boccaccio non si spostava piú volentieri, gravato com’era nel corpo e nell’animo, e, soprattutto, prevedeva le difficoltà di un viaggio del genere, già intrapreso undici anni prima. Si mise dunque in cammino con poco entusiasmo e qualche preoccupazione, tanto che, il 1° di agosto, si affrettò a redigere il proprio testamento. Nonostante tutto portò a termine la missione, guadagnondosi le lodi del papa. Ad Avignone incontrò amici suoi e del Petrarca, Francesco Bruni in particolare, ma si intrattenne anche con alcuni mercanti certaldesi e fiorentini che facevano affari presso la corte pontificia. Poté fare ritorno in Toscana solo in novembre, percorrendo di nuovo l’arduo e pericoloso itinerario ligure che preoccupava anche il Petrarca. E proprio l’Aretino, in una lettera, lo rimprovera amichevolmente di non essere passato a trovarlo a Pavia, comprendendo tuttavia la sua voglia di reimmergersi il prima possibile nella quiete di Certaldo. Nella primavera del 1367 papa Urbano V si decide finalmente a rientrare in Italia, contro il parere di cardinali, principi e del re di Francia. Boccaccio apprende la notizia mentre è di nuovo a Venezia. La Signoria attese il trasferimento del pontefice a Roma, il 16 ottobre, per inviare un’ambasceria di persone autorevoli a congratularsi con lui. Della missione fu ovviamente incaricato il Certaldese, che partí ai primi di novembre e dovette svolgere il suo compito entro la fine del mese, a giudicare dalla lettera del papa con cui ringrazia la Signoria ed elogia l’ambasciatore. Dopo essere tornato a Certaldo e avervi trascorso qualche mese, il Boccaccio era di nuovo a casa del Petrarca, ma questa volta a Padova, dove ormai pensava di fissare la sua residenza. I due poeti, anziani e soli, erano ancora insieme, legati da un’intima amicizia che offriva calore e consolazione. Passavano le giornate con amici comuni, vecchi e nuovi, a leggere, a scrivere e

Certaldo. Il monumento al Boccaccio, opera di Augusto Passaglia, inaugurato nel 1879 nella piazza principale del paese, oggi dedicata al grande letterato. Boccaccio morí nel borgo toscano il 21 dicembre 1375 e fu sepolto nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo.

a trascrivere, tutto ciò fino all’ottobre-novembre quando Boccaccio rientrò in Toscana, senza sapere che non avrebbe mai piú rivisto l’amatissimo magister. Qualche anno dopo anche il Petrarca decise di ritarsi nella quiete di un colle, quello di Arquà, e da qui, nell’aprile del 1370, informò il piú caro dei suoi discepoli di un lascito generoso a suo favore, cinquanta fiorini d’oro che, nell’intenzione poetica del donatore, sarebbero dovuti servire ad acquistare una veste di lana, che gli avrebbe dato conforto nelle notti di studio invernali.

La malattia e la fine

A parte un viaggio, l’ultimo, a Napoli tra il 1370 e il 1371 – del quale non è noto il motivo – Boccaccio non si mosse piú da Certaldo, escluse alcune puntate a Firenze. I problemi legati alla salute andavano aggravandosi sempre piú, soffriva da tempo di obesità e idropisia, si era «Fatto un otre (…) non pien di vento ma di piombo grave, tanto ch’ appena mi posso mutare». La notte del 12 agosto 1372 pensò di morire; la febbre e i dolori lo facevano gemere e delirare senza sosta. Solo l’intervento del medico, grazie a forti salassi e cauterizzazioni, fu in grado di dargli un po’ di sollievo. Riuscí a rimettersi in salute nei mesi successivi, e ad accettare, il 13 agosto del 1373, l’ultima grande e coraggiosa missione affidatagli dal Consiglio del Comune: leggere e commentare pubblicamente «el Dante» per un anno e «con salario di cento fiorini che fu notabile». La devozione dantesca lo portò dunque a superare le difficoltà nel corpo e la diffidenza per la vita cittadina. Preparate le lezioni nella solitudine certaldese, Boccaccio scese a Firen-


ze per la prima lezione, la domenica del 23 ottobre 1373, nella chiesa di S. Stefano di Badia, a pochi passi dalla casa degli Alighieri. Dal gennaio 1374 i malanni avevano ripreso a infastidirlo, in modo ancor piú violento con l’arrivo dell’estate, nonostante le cure dei medici (ormai considerati alla stregua di ciarlatani). Fra l’agosto e il settembre era di nuovo a Firenze, sia per riscuotere la seconda parte del suo onorario, sia per dettare l’ultimo testamento (28 agosto, nella chiesa di S. Felicita). Le ultime volontà nominano eredi universali i figli del fratellastro Iacopo, e lasciano al frate agostiniano Martino da Signa il bene piú importante: tutti i suoi scritti e la biblioteca, affinché possano costituire nutrimento in tutti coloro volessero accedervi. Non mancano nel testamento raccomandazioni affinché venga estinto ogni debito e si provveda alla amata serva Bruna di Cianco. Mentre dettava tali disposizioni era già da qualche giorno giunta all’orecchio di Boccaccio la notizia che non avrebbe mai voluto ricevere: nella notte tra il 18 e il 19 luglio, nella sua casa di Arquà, Francesco Petrarca aveva per sempre reclinato la testa sui suoi libri. Disse commentando la morte del maestro: «et ego quadraginta annis vel amplius suus fui» («per piú di quarant’anni io sono appartenuto a lui»). I mesi che seguono sembrano avvolti nella solitudine della casa di Certaldo, in attesa della morte. Si spense il 21 dicembre del 1375, volle essere sepolto nella chiesa certaldese dei SS. Michele e Iacopo, e volle che sulla sua tomba fosse scritto: «Sotto questa pietra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni, l’anima siede davanti a Dio, adorna dei meriti delle fatiche della vita mortale. Ebbe come genitore Boccaccio, come patria Certaldo, come passione la divina poesia». V

Da leggere U Vittore Branca (a cura di), Giovanni

Boccaccio, Einaudi, Torino 2012

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itinerari würzburg, bamberga, ratisbona In basso Würzburg, Alte Mainbrücke (antico ponte sul Meno). La statua di san Kilian, il monaco irlandese che, alla fine del VII sec., con i compagni Kolonat e Totnan, raggiunse la città per convertirla. L’opera è una delle figure di santi collocate sul ponte nel 1730.

DANIMARCA

MARE DEL NORD

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Danubio AUSTRIA

SVIZZERA

Qui sopra cartina della Germania con l’ubicazione delle città descritte nell’articolo. In alto, a sinistra Würzburg, duomo di St. Kilian. Un particolare del chiostro. In alto, sulle due pagine Bamberga, Altes Rathaus (Vecchio Municipio). Una delle facciate affrescate del palazzo che, secondo la leggenda, fu costruito su un’isolotto creato artificialmente tra i due rami del fiume Regnitz dagli abitanti della città, ai quali il vescovo non aveva voluto concedere alcuno spazio per la realizzazione dell’edificio. Nella pagina accanto Ratisbona, Duomo. Un particolare della decorazione esterna della chiesa, intitolata a san Pietro e la cui costruzione fu avviata nel 1270.

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In viaggio con Kilian testo e foto di Mimmo Frassineti

Sede vescovile dalla metà dell’VIII secolo e luogo in cui furono celebrate le nozze tra Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna, Würzburg è la prima tappa di un itinerario tra le tre città di impianto medievale e barocco della Germania meridionale, inserite nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Un viaggio che prosegue alla volta di Bamberga – costruita, come Roma, su sette colli – e di Ratisbona, con il suo maestoso duomo gotico e i resti di una porta che ricorda come la città sia nata da un castrum romano del I secolo d.C. MEDIOEVO

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N N

ella seconda metà del VII secolo un monaco di nome Kilian partí dalla natia Irlanda, con undici compagni, per raggiungere una regione dell’Europa centrale, già parte dell’impero romano, occupata dal popolo dei Bavari, o Baiuvari, qui scesi dalla Boemia. Scopo del viaggio, lungo e non senza pericoli, era quello di evangelizzare quelle genti semibarbare, in balia di superstizioni pagane. All’arrivo, i coraggiosi missionari si confermarono ulteriormente nel loro proposito, ma ritennero opportuno recarsi a Roma per ottenere l’approvazione del Papa. Fu un altro viaggio avventuroso, ma compensato dalla benedizione del pontefice e dal permesso loro accordato di tornare a Würzburg per predicare il Vangelo in nome di Dio e degli Apostoli. Intanto, per varie vicissitudini, la compagnia si era assottigliata e solo tre monaci, Kilian, Kolonat e Totnan, raggiunsero Würzburg, la cui conversione fu compiuta nel 689. Questo è il dato sicuramente storico in una vicenda nella quale, come il lettore avrà capito, confluiscono elementi leggendari. Già l’anno prima, il giorno di Pasqua, Kilian aveva impartito il battesimo al duca Gozbert, che regnava allora in quella parte della bassa

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itinerari würzburg, bamberga, ratisbona WÜrzburg

Qui accanto una veduta della città. Si riconoscono la facciata e la torre con l’orologio dell’Altes Rathaus (al centro), la cupola e il campanile della collegiata di Neumünster (a sinistra) e la facciata del duomo di St. Kilian (a destra).

Franconia. Ma, agli occhi del severo missionario, non sfuggiva un problema: il duca era sposato con la vedova del fratello e ciò contravveniva alla legge franca e al diritto della Chiesa. Kilian attese qualche tempo, affinché la fede si consolidasse nell’animo del duca, per consigliargli di abbandonare la moglie, la duchessa Geilana. Gozbert acconsentí: era pronto a rinunciare a quanto aveva di piú caro per amore di Dio onnipotente. Stava per intraprendere una campagna militare ma, al suo ritorno, avrebbe posto in atto la dolorosa separazione.

Triplice assassinio

Le sue intenzioni, però, trapelarono e, quando fu lontano, la duchessa furente ingaggiò due assassini per eliminare Kilian e i suoi compagni. I sicari irruppero di notte nella casa in cui i missionari dormivano. Kilian rincuorò gli altri due: «Non temete coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l’anima!» Immediatamente dopo furono decapitati e poi sepolti in segreto nelle stalle del duca, con le loro vesti sacerdotali, le croci e la Bibbia. Tornato dalla guerra, Gozbert domandò dove fossero i nobili servi di Dio e Geilana spiegò che erano scomparsi e nessuno sapeva dove fossero andati. Accadde però che uno dei due assassini, sconvolto dal rimorso, confessasse Duomo di St. Kilian. Particolare del monumento funebre di Rudolf II von Scherenberg, vescovo di Würzburg dal 1466 al 1495, anno della sua morte, sopraggiunta a ben 94 anni d’età.

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In alto Würzburg, Residenza. Particolare dell’affresco di Giovanni Battista Tiepolo raffigurante le nozze tra Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna, celebrate nel 1156. 1750-53.

A destra Würzburg: la Residenza, il magnifico palazzo costruito, tra il 1719 e il 1744, per il principe-vescovo Johann Philipp Franz von Schönborn su progetto dell’architetto Balthasar Neumann.

il suo crimine, per poi togliersi la vita. Anche l’altro, impazzito, si trafisse con la stessa spada con cui aveva infierito sui missionari. Infine il pentimento travolse la duchessa, che pose anch’essa fine ai suoi giorni. Né lei, né i due sicari avevano rivelato, prima di darsi la morte, dove i tre missionari fossero stati sepolti. Nel 742 san Bonifacio, il monaco benedettino apostolo della Germania nominato da papa Gregorio III nunzio apostolico per la Baviera, elesse Würzburg a sede vescovile e istituí una commissione incaricata di trovare la tomba dei tre monaci. San Burcardo, il primo vescovo della città, invitò i fedeli a pregare e digiunare, affinché la ricerca avesse successo. L’8 luglio del 752 i resti dei tre corpi furono rinvenuti in una fossa poco profonda, con gli abiti perfettamente conservati. Sul luogo fu edificata la prima cattedrale, consacrata nel 788 dal vescovo Berowulf, successore di san Burcardo, alla presenza di Carlo Magno. Le reliquie di san Kilian vi occupano il posto d’onore e nei secoli la devozione per lui e i suoi compagni è rimasta viva. Un Vangelo loro appartenuto viene esposto sull’altare maggiore della cattedrale il giorno della festa, che si celebra l’8 luglio. Carlo Magno è rappresentato con gli altri personaggi che hanno fatto la storia di Würzburg in una delle statue che ornano l’Alte Mainbrücke, l’antico ponte sul Meno, ultimato nel 1133 (vedi nella foto qui accanto, al centro). Un ventennio piú tardi, nel 1156, la città ospitò le nozze di

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In basso Würzburg, Altes Rathaus. Particolare del plastico che mostra le condizioni della città all’indomani del bombardamento subito nel 1945, che la distrusse in misura pari all’85%.

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Bamberga. Una delle figure che fanno parte dell’apparato decorativo del coro del duomo.

Federico Barbarossa con l’allora dodicenne Beatrice di Borgogna. Il matrimonio fu immaginato, a distanza di molti secoli, da Giovanni Battista Tiepolo, chiamato ad affrescare, fra il 1750 e il 1753, la nuova residenza voluta dal principe-vescovo Johann Philipp Franz von Schönborn, un palazzo favoloso disegnato da Balthasar Neumann (dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità nel 1981), una cui ala, proprio quella affrescata dal pittore veneziano, è tra i pochi edifici di Würzburg scampati ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Il 16 marzo 1945, infatti, un attacco aereo britannico riversò sulla città 900 t di bombe, dirompenti e incendiarie, uccidendo 5000 persone e radendo al suolo l’85% dell’abitato. La città che oggi si ammira è quasi interamente ricostruita e si fatica a crederlo. La decisione di ricrearla esattamente com’era prima del bombardamento è venuta dopo discussioni e polemiche con chi, invece, proponeva la realizzazione di una città da progettare ex novo.

Festa per Hetan e Bilihit

Nel 718 Würzburg era stata teatro di un altro matrimonio importante, quello di un certo duca Hetan con una giovane chiamata Bilihit: di loro le cronache scrivono che, dopo il rito nuziale, si spostarono a Bamberga «dove ebbero luogo numerosi piacevoli festeggiamenti in loro onore e le tribú dei Franconi resero loro omaggio». È questa la prima citazione di

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Duomo. La statua equestre nota come Cavaliere di Bamberga (Bamberger Reiter). Prima metà del XIII sec. La scultura, a grandezza naturale, raffigura un personaggio di cui sono state proposte varie identificazioni: Costantino I, Corrado III di Svevia, Enrico II il Santo, santo Stefano d’Ungheria o perfino uno dei re Magi.

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Bamberga. La birreria e birrificio Schlenkerla, nel centro della città, dove da secoli si produce la tipica birra affumicata bamberghese (in tedesco Rauchbier).

Bamberga, la cui rocca era possedimento, nel IX secolo, della famiglia Babenberger. Passò poi all’imperatore Ottone II, il quale, nel 973, la donò al duca di Baviera Enrico il Litigioso, che, a sua volta, la trasmise al figlio, il futuro imperatore Enrico II. Questi, nel 977, sposò Cunegonda di Lussemburgo e il suo dono di nozze fu la città di Bamberga. Eletto re tedesco nel 1002, Enrico II elevò Bamberga a sede vescovile e, con l’imperatrice Cunegonda, vi tenne spesso la corte, promuovendo la città al ruolo di capitale simbolica dell’impero, costruita su sette colli come Roma. Edificò sette chiese, disponendole a formare le due braccia di una croce latina che s’incontrano nel duomo di S. Pietro: da nord a sud si succedono S. Michele, S. Pietro, S. Maria e S. Stefano; da est a ovest sono invece allineate S. Gandolfo, S. Martino

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A destra un’altra delle statue lignee del coro del duomo di Bamberga. In basso l’Altes Rathaus, costruito su un isolotto artificiale tra i due rami del fiume Regnitz.

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itinerari würzburg, bamberga, ratisbona Ratisbona

A sinistra uno scorcio del duomo di S. Pietro, uno dei migliori esempi di architettura gotica della Germania. A destra una veduta dello Steinerne Brücke (Ponte di Pietra), costruito tra il 1135 e il 1146.

espresse nel suo testamento la volontà di essere sepolto a Bamberga, dove fu trasportato in segreto da Roma. Accanto alla città ecclesiastica, ai piedi della collina del Duomo, sulla sponda del fiume Regnitz, una comunità di commercianti diede vita, nell’XI secolo, a un primo nucleo della città borghese, che poi si espanse sull’isola compresa fra i due bracci del fiume. A collegare le due parti della città c’erano due ponti fra i quali è situato in posizione scenografica il municipio (Altes Rathaus), che oggi si presenta con le pareti esterne affrescate in stile barocco ed è preceduto da un edificio medievale a travi, con il tetto scosceso, la casetta Rottmeister, divenuta il biglietto da visita della città. Oltre il braccio destro del fiume, alcune famiglie impiantarono orti, che si rivelarono particolarmente produttivi: esistono tuttora, sono raggruppati in un unico quartiere e costituiscono la città degli ortolani, accanto a quella borghese e a quella ecclesiastica. Bamberga, sito UNESCO dal 1993 ha, in effetti, tre centri storici, ciascuno con particolarità amministrative.

La birra (affumicata) scorre a fiumi

e S. Giacomo. Si è ipotizzato che il re avesse in animo di creare una Roma tedesca, una città religiosa, forse addirittura con l’intenzione di insediarvi il papa. Enrico II e Cunegonda furono canonizzati rispettivamente nel 1146 e nel 1200, e sono onnipresenti sugli altari delle chiese, sui ponti, sulle facciate delle case. A Bamberga, nel coro occidentale del Duomo, si trova anche l’unica tomba di un papa a nord delle Alpi. È quella del secondo vescovo della città Suidger, eletto al soglio pontificio con il nome di Clemente II, che morí giovanissimo, nel 1047, a pochi mesi dalla designazione, ed

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Quello di Bamberga fu un Medioevo fiorente, nel quale scorreva abbondante la birra: si pensi che il consumo annuo pro capite, verso la metà del XV secolo, è stato stimato in ben 440 l (oggi è pari a 107 l in Germania e 28 in Italia). La birra è citata per la prima volta a Bamberga nel 1039, nelle disposizioni testamentarie di un tale Ulderico, che lasciò ai poveri tutti i suoi beni affinché avessero birra gratis per 50 anni. In cambio dovevano impegnarsi a pregare per lui un giorno all’anno. La birra trova a Bamberga una sua particolare versione, rivendicata con orgoglio dai Bamberghesi e largamente consumata: è la birra affumicata, particolarmente robusta, il cui tempio riconosciuto è la birreria e birrificio Schlenkerla, nel centro della città. Cosí come nel municipio, un po’ ovunque la città offre il contrasto tra facciate barocche o classicheggianti e mura laterali e posteriori con travi a vista, di chiara novembre

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A destra Ratisbona. Resti della Porta Praetoria inglobati sul lato settentrionale della corte del vescovo nella via Unter den Schwibbogen.

impronta medievale. Una soluzione dettata dalle esenzioni fiscali che, durante il governo dei vescovi della famiglia Schönborn, tra il 1693 e il 1746, furono concesse a chi avesse deciso di occultare le travature medievali sotto facciate moderne, in pietra e intonaco. Alcune di esse, negli anni Sessanta del Novecento, furono smantellate per riportare in luce le travi, tornate di moda. Dal 1973 è vietato modificare le facciate.

Per i legionari della III Italica

Nel I secolo d.C., Roma si era affacciata in Baviera sottomettendo le popolazioni locali, probabilmente celtiche. Nel 179 d.C., sotto il regno di Marco Aurelio, fu apprestato presso il Danubio l’accampamento di Castra Regina per la Legio III Italica, in realtà una fortificazione di 540 x 450 m, con mura possenti ancora conservate in corrispondenza della Porta Nord della città odierna, la Porta Praetoria. Alla caduta dell’impero romano, nel 476, il forte passò sotto il controllo delle tribú teutoniche (ma non si esclude che una residua popolazione di origine romana si sia integrata con le genti del luogo). I Bavari consolidarono la loro presenza nel VI secolo con la dinastia degli Agilulfi, insediati in un loro palazzo a Castra Regina, che si proclamarono duchi di Baviera e i cui primi esponenti si chiamavano Theodo, Theodo II, Garibaldo, Grimoaldo. Quest’ultimo fu sconfitto da Carlo Martello, il quale, tuttavia, non cancellò il ducato, ma lo assorbí nel suo impero. La dinastia degli Agilulfi si estinse con Tassilone III, che manifestò insofferenza per il vassallaggio verso i Franchi. Carlo Magno, nel 788, lo fece prigioniero e cancellò il ducato, annettendo direttamente la regione. A Castra Regina (o Radaspona, Ratisbona o Regensburg) san Bonifacio fondò una diocesi nel 739. Già verso la metà del VII secolo i Bavari erano stati cristianizzati dai vescovi itineranti Emmeram e Erhard. La città prosperò e acquisí rilievo politico grazie ai commerci con l’Europa centro-orientale, con i Balcani e con Venezia, e fu spesso scelta come sede per le diete imperiali.

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Sul Danubio fu costruito un ponte a sedici campate di 320 m, lo Steinerne Brücke (Ponte di Pietra), ultimato nel 1146 – all’epoca era l’unico passaggio fisso sul grande fiume –, dal quale si accede alla città attraverso una porta a torre del XIII secolo. Grande opera d’ingegneria medievale, lo si può contemplare passandoci sotto con il battello oppure seduti a un rustico tavolino della Historische Wurstküche, la Storica Cucina delle Salsicce, che ogni giorno, da almeno cinque secoli, ne sforna molte migliaia. Nel 1260 iniziò la costruzione del duomo gotico, tra i piú importanti della Germania. In generale, le chiese, i monasteri, gli edifici pubblici, le torri delle case borghesi testimoniano la ricchezza di Ratisbona, che cominciò a declinare nel XV secolo, per il mutare delle vie commerciali e la concorrenza di altre città, come Norimberga o Augusta. Impoveritasi e rimasta in tale condizione fino al secondo dopoguerra ha conosciuto un nuovo periodo di benessere grazie all’industria (BMW, Siemens, Continental) e all’Università, fondata nel 1967, presso la quale è stato professore di teologia Benedetto XVI. Ratisbona si presenta come una città medievale perfettamente conservata, non solo perché scampata ai bombardamenti, ma anche, paradossalmente, per la trascorsa povertà, che ha scoraggiato qualunque rinnovamento. Il centro storico fa parte dal 2006 del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. F

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caleido scopio

cartoline •

Si avviano alla conclusione le celebrazioni organizzate nella città romagnola a settecento anni dall’avvento al potere dei Manfredi. Una signoria potente, capace di dare lustro al proprio contado, ma non solo, anche nel campo delle arti e delle lettere

Signori di

Faenza F

aenza celebra il VII centenario della signoria dei Manfredi, un casato che ha condizionato non poco la storia del territorio romagnolo e, piú in generale, dell’Italia centro-settentrionale tra Medioevo e prima età moderna. Nel 1313 Francesco Manfredi, detto il Vecchio, «ascendit palatium Faventie pro defensione populi» (Bernardino Azzurrini, Chronica breviora), viene cioè nominato capitano del popolo e primo signore di Faenza. In realtà non fu una vera e propria salita a palazzo, come il solenne latino del cronista vuole farci intendere, ma una presa di possesso alquanto dispotica e armata. Il nome della famiglia, di

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ascendenza germanica, è attestato in città sin dal XII secolo, quando alcuni suoi membri, tra cui Alberico di Guido di Manfredo, sono costretti, insieme ad altri domini di rango aristocratico, a lasciare Faenza, perché coinvolti in feroci scontri, di natura squisitamente gestionale. La famiglia è sempre stata lacerata da conflitti di natura politica: all’indomani della morte dell’imperatore Federico II (1250), si ostina nelle furenti rivalità familiari e intestine, che diventano presto anche rivalità politiche sovraregionali. Alla regione romagnola guardava infatti con attenzione anche il papa, per via

delle accorte posizioni guelfe dei Manfredi sul Faentino, alle quali si legava lo smisurato sacrificio militare e monetario sostenuto per sopportare la lotta con le altre famiglie, in modo particolare con gli Accarisi, inquadrati invece tra i ghibellini. Quando le bellicose posizioni ghibelline di questi ultimi, spalleggiati persino dai Montefeltro, divennero insostenibili un po’ in tutta la Romagna, papa Clemente V non esitò a scomodare dal Sud Italia gli Angioini di re Roberto, che si allinearono alle propensioni guelfe dei Manfredi, i quali, nel giro di pochissimi anni, ne approfittarono a piene mani per riattivare a loro novembre

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In alto busto di Astorgio II Manfredi (1412-1468), opera di Mino da Fiesole. 1455. Washington, National Gallery of Art. Sulle due pagine Faenza. Uno scorcio di piazza del Popolo. vantaggio ambizioni politiche, militari e anche economiche sulla città di Faenza, forti del sostegno di un sovrano influente come quello angioino e del papa. Tra il 1313 e il 1314 i Manfredi riescono, dunque, a mettere in atto meccanismi di conquista territoriale fino al punto da far tremare le città viciniori, come Forlí ai danni degli Ordelaffi.

Alla guida del popolo In questo periodo i Manfredi confermano l’opera di ricomposizione sociale della città con la nomina a guida del popolo di Faenza: una città che ancora non riesce a stemperare, in pieno Trecento, le tensioni all’interno

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del ceto dirigente, ma che ben si caratterizza per la sua collaudata presenza di compagnie armate, attorno alle quali l’intero territorio romagnolo va strutturando la vita civica. La consorteria manfrediana può agire ai vertici e incidere in ogni settore della politica cittadina e di tutta la Val di Lamone – la valle appenninica che comprende la maggior parte del contado faentino fino ai margini toscani – anche grazie all’ampio consenso che riceve da quel ceto medio-alto al quale non dispiace una certa rappresentatività nella gestione della cosa pubblica. E proprio per attestare quella capacità di concentramento

politico, ideologico, finanziario, oltre che per garantire un diffuso consenso cittadino, i Manfredi, signori di Faenza, per mano di un esponente illustre come Gian Galeazzo, figlio di Astorgio I, danno vita a un intelligente riassetto del diritto pubblico cittadino, con la consapevolezza che il diritto, attraverso il monumentale ordinamento statutario del 1410 (negli Statuta Faventiae abbiamo chiara la data della riforma della disposizione statutaria), sia la via migliore per intervenire in ogni campo della vita sociale e per garantire il pieno controllo degli organi statuali e l’aggregazione delle famiglie e dei ceti popolari

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caleido scopio A sinistra Brisighella (Ravenna). La rocca, edificata nel 1310 da Francesco Manfredi. In basso Donatello, San Girolamo. 1454-1455. Faenza, Pinacoteca.

intorno al signore. Resta altresí paradigmatico, a Faenza, l’esempio di curia civica, di palatium communis quale centro propulsore della vita faentina almeno dal 1177 in poi, diventato nel 1262 palatium populi, quindi sede stabile del governo civico e della Signoria. Il grande protagonismo di questa famiglia è riconducibile alla concatenazione con la politica generale italiana delle ultime frange del Medioevo. Nondimeno gli abitanti di Faenza restano il cuore nevralgico della loro consorteria politica, cosí da potersi assicurare consensi interni e appoggi esterni, legittimazione del proprio ruolo e del porprio potere, e per contrastare le pressioni delle famiglie rivali.

Galeotto, uomo d’armi e di lettere A tal proposito decisivo è il ruolo di Galeotto Manfredi (1440-1488), secondogenito di Astorgio II, signore di Faenza e conte di Val di Lamone, e di Giovanna Vestri, figlia di Ludovico conte di Cunio. L’azione politica di Galeotto ebbe certo un respiro limitato, stretta nella morsa di Venezia, Bologna, Roma

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e Ferrara, ma con lui si assapora uno dei momenti piú alti e intensi della vita culturale. Il costante confronto con realtà signorili di eccellenza sul piano culturale fa sí che Galeotto lasci in eredità alla sua Faenza un progetto culturale di alto livello e duraturo, specchio di un uso munifico e intelligente delle ricchezze allo scopo di irradiare arte e conoscenza. Dedito al mestiere delle armi, sull’affermato modello mediceo-laurenziano, Galeotto coniuga in sé l’immagine colta, perspicace, raffinata, elegante del signore, dell’uomo dedito alle lettere, virtú necessarie alla salvaguardia dell’uomo di corte e del condottiero dedito alle armi e alle leggi, condizioni vitali per la conservazione del potere e della signoria. Ben visibili sono i segni lasciati da questo casato, capace di dominare, fra Medioevo e primo Rinascimento, le terre di Faenza. In primis la riedificazione della Cattedrale, nel 1474: un’opera monumentale, legata all’ingegno toscano rinascimentale e alle correnti umanistiche dell’area padano-emiliana.


Il tempo della signoria dei Manfredi è il tempo dei capolavori rintracciabili ancora oggi in rocche, chiese, musei e biblioteche del Faentino, centro luminoso di attrazione culturale per artisti come Giuliano e Benedetto da Maiano, Donatello, i Della Robbia, Biagio d’Antonio da Firenze e altri, che si trasferiscono a Faenza per lavorare. Testimonianza tangibile della storia della città è il prezioso patrimonio che connota il paesaggio, interiore ed esteriore, custode dell’identità culturale del territorio e della sua memoria continuata e collettiva. E ciò è importante soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui l’immersività virtuale sta delocalizzando la memoria, allontanando sempre piú dal nostro corpo le fabbriche del ricordo e relegandole alle open source, che sono, senza dubbio, sempre a nostra disposizione, ma non dentro di noi, per cui l’identità rischia di essere marginalizzata e destinata, pian piano, a scomparire.

e archi di rinforzo alla base; a Brisighella, con la rocca, edificata nel 1310 da Francesco Manfredi, pregevole esempio dell’arte militare del Medioevo, con la torre di avvistamento del XV secolo e la torre del Marino eretta verso la fine del XV secolo, che presenta interessanti soluzioni di architettura militare rinascimentale; a Faenza, con la torre di Oriolo, esempio pressoché unico nel suo genere di mastio a pianta esagonale, a doppio puntone (ricavato da un quadrato a cui sono stati tagliati

Le architetture militari Uno degli elementi fondamentali dell’identità della signoria manfrediana, quello che forse segna tutti i paesi e le città che ne fanno parte, è rappresentato dal buon numero di architetture militari che ancora oggi si possono ammirare. Che si tratti di grandi rocche, di torri, di porte fortificate o di alte mura di cinta, è ancora possibile rendersi conto di quello che era il potente sistema di difesa voluto dai Manfredi nel corso dei due secoli di dominio su queste terre. Ritroviamo tracce consistenti delle opere di fortificazione manfrediana a Solarolo, le cui mura del castello, pur considerando i numerosi rimaneggiamenti e restauri, conservano la struttura originaria, con scarpa, cordolo

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Particolare di un piatto in maiolica con busto femminile di «Giulia Bella». XVI sec. Faenza, Museo Internazionale della Ceramica. due spigoli, cosí da ottenere un esagono perfetto), risalente al 1476, anno di ristrutturazione per opera dei Manfredi, tradizionalmente attribuita a Giuliano da Maiano, architetto di fiducia del casato (inviato a Faenza dai Medici nel quadro dei complessi rapporti diplomatici e culturali fra le due signorie) e presente in quegli anni a Faenza; a Riolo Terme, con la possente rocca (1388-1392),

integrata in un complesso dotato di quattro torri angolari, fra le quali il mastio, la cui costruzione, oltre a creare prosperità e protezione, determinò una situazione di grande armonia popolare.

Gran finale in notturna Le celebrazioni manfrediane a Faenza, inaugurate lo scorso 25 marzo, hanno attivato circuiti culturali ampi e fecondi, frutto di uno «sforzo» notevole in questa difficile congiuntura economica. Con profondità storica e culturale sono stati illuminati i molteplici aspetti di un’epoca di vasta complessità e suggestione, la cui eredità è quantificabile sia in termini di opere d’arte a noi trasmesse, sia in termini di influenza esercitata sul pensiero politico, artistico e culturale, entro e oltre i confini fisici di Faenza. Ogni anno la città celebra il suo passato nel Palio del Niballo: i cinque rioni cittadini (Bianco, Giallo, Nero, Rosso e Verde), forze vive e radicate nella città anche per il grande apporto alle annuali celebrazioni del Palio del Niballo, animano l’intero mese di giugno, con sfide tra sbandieratori e tamburini, feste e cene propiziatorie e la duplice «singolar tenzone» in cui i cavalieri si affrontano nella giostra del saracino. Gli stemmi dei Rioni che compongono la città manfrediana tornano a campeggiare sei mesi dopo, questa volta sui gotti di ceramica: veri primi attori (una volta riempiti di vin brûlé) della «Nott de Bisò», in calendario la serata del 5 gennaio 2014 nella centrale piazza del Popolo, quando il Niballo (servito da bersaglio per il Palio) viene dato alle fiamme, esorcizzando il passaggio tra vecchio e nuovo anno. La prossima «Nott de Bisò» segnerà anche la chiusura ufficiale delle celebrazioni manfrediane. Michele Orlando

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Quel mirabile ottagono... libri • Al battistero

fiorentino di S. Giovanni è dedicato un recentissimo volume pubblicato per i tipi di Franco Cosimo Panini. Un’opera di grande valore, che regala visioni inedite dello splendido monumento

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a vicenda storica e artistica del battistero fiorentino di S. Giovanni è stata ampiamente ripercorsa da Furio Cappelli nell’articolo che pubblichiamo in questo numero (vedi alle pp. 56-71) e, per quanti vogliano approfondire la conoscenza del monumento è disponibile da qualche settimana questo nuovo, ricco volume. L’opera ha uno dei suoi punti di forza nel corredo fotografico (che si deve a Mario Falsini, Ghigo Roli, Mario Ronchetti e Paolo Tosi) e i testi di Annamaria Giusti sono distribuiti quasi come altrettante introduzioni alle gallerie di immagini di volta in volta definite (L’architettura, I mosaici, Geometrie, Oro e Argento, Volti di una nuova umanità, ecc.).

In alto Firenze, battistero di S. Giovanni. I mosaici della cupola. In basso san Pietro, particolare dei mosaici che ornano il lato est, nella zona dei matronei detta Coretto degli Evangelisti. 1300-1310 circa.

Annamaria Giusti Il Battistero di San Giovanni a Firenze Franco Cosimo Panini, Modena, 275 pp., ill. col. 89,00 euro ISBN 978-88-570-0611-6 www.fcp.it

Ideale corollario alla visita Il che non va però inteso in chiave riduttiva, poiché l’autrice riporta per ogni argomento o tipologia di opere tutte le informazioni essenziali, sempre rigorosamente inquadrate nel contesto storico in cui il monumento vide la luce, tra il XII e il XIII secolo. Un libro non può, naturalmente, sostituirsi alla visita e dunque

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In alto interno del battistero: il lato est e i lati adiacenti. Oltre ai mosaici, la decorazione si basa sull’uso di pietre di colore diverso, chiaro e scuro, che creano effetti cromatici con i quali vengono sottolineate le geometrie della struttura. alla conoscenza diretta di un manufatto artistico o architettonico – soprattutto per le emozioni che quell’esperienza può suscitare –, ma, nel caso di questo volume, siamo di fronte a una integrazione ideale, che, anzi, offre anche qualcosa in piú. È il caso dei magnifici matronei del battistero fiorentino, che, solitamente chiusi al pubblico, vengono qui svelati in tutti i loro particolari grazie alle numerose e particolareggiate immagini d’insieme e di dettaglio. Cosí come il capitolo dedicato ai mosaici offre visioni ravvicinate

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delle composizioni che rivelano la straordinaria maestria degli artisti coinvolti nella loro realizzazione.

Tre porte sublimi Non meno spettacolari sono le pagine dedicate alle tre porte bronzee dell’edificio, che, da sole, potrebbero ben meritare una specifica pubblicazione. Si tratta, infatti, di espressioni altissime dell’arte plastica e della metallotecnica, di fronte alle quali è facile comprendere l’apprezzamento dei contemporanei, primo fra tutti Michelangelo, al quale, secondo la tradizione, va attribuita la denominazione di porta «del Paradiso» per l’ingresso che si apre sul lato est della struttura. Di grande interesse è poi il capitolo conclusivo del volume, dedicato alla scultura, che si dipana tra le opere

tuttora visibili nel battistero e quelle che sono state trasferite nel vicino Museo dell’Opera del Duomo (la cui visita è indispensabile per cogliere appieno il valore dell’edificio che tanto piaceva, tra gli altri, a Dante Alighieri). Si tratta di un corpus di straordinaria ricchezza, specchio fedele della fioritura economica e culturale vissuta da Firenze tra XIII e XV secolo. Da Tino di Camaino a Donatello, solo per citare i nomi piú noti, figure sacre e immagini allegoriche si susseguono in una galleria caratterizzata da un livello qualitativo elevatissimo. Nell’insieme, dunque, siamo di fronte a un’iniziativa editoriale di notevole prestigio, che si mette egregiamente a servizio di uno dei monumenti piú insigni dell’arte italiana di ogni tempo. Stefano Mammini

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caleido scopio

Lo scaffale Noris Cocci Sine tempore A Timeless Travel into the Middle Ages

Noris Cocci Photo Publishing, Sant’Elpidio a Mare, 120 pp., ill. b/n

38,00 euro ISBN 978-88-906972-0-3 www.noriscocci.com

Il Medioevo si può fotografare a vari livelli di osservazione. C’è il modo elementare del turista che ne fa il documento di un viaggio affollato di immagini indistinte. Ma c’è il modo piú ricercato di chi oggettiva l’Età di Mezzo inquadrandola nel mirino del suo apparecchio per catturarne il senso

nascosto, la dinamica e persino i sapori. A Noris Cocci è riuscito questo difficile esperimento con una ricerca fotografica nel «Medioevo vivo» delle comunità cittadine

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che rievocano, anno dopo anno, eventi spettacolari e folclorici incardinati nella loro storia secolare. Frutto della ricerca è questo volume di ampio formato, edito dallo stesso Cocci, il cui titolo, Sine tempore. A timeless travel into the Middle Ages, evoca la validità perenne di quanto viene rappresentato negli scatti. Noris Cocci non riunisce in queste pagine solo una miscellanea di visioni colte dal suo obiettivo, bensí momenti di un itinerario di ricerca, «che mi ha permesso

– come scrive nella presentazione – durante il tragitto di riscoprire parte delle mie radici antiche che ritrovo e riconosco nella vita quotidiana». E per

chi vorrà avventurarsi nelle pagine di Sine tempore è bene qui dare il ventaglio delle località rivisitate, tutte con un passato medievale alle spalle: Sant’Elpidio a Mare (dove Cocci è nato), Assisi, San Ginesio, Bevagna, Grottazzolina, Mondaino, Trevi, Gradara, Fossato di Vico, Elice, Monteriggioni, Rimini, Brisighella. Alcune manifestazioni folcloriche descritte sono note, altre meno conosciute: tra le piú popolari vi sono il Mercato delle Gaite di Bevagna, il Calendimaggio di Assisi, il Palio dei Terzieri di Trevi e Città Medioevo di Sant’Elpidio a Mare. Di ognuna si susseguono flash sui riti attraverso i quali vengono rievocati episodi, anche violenti, incisi nella memoria dei cittadini. L’occhio fotografico dell’autore scava nel materiale offertogli dalle rappresentazioni – illustrate dalle didascalie –, traendone angolazioni suggestive, ritratti al naturale, scene che documentano questo teatro vivo con uno stile visionario, quasi espressionista, tutto raffigurato rigorosamente in bianco e nero. Il volume, infine,

raccoglie un florilegio di ricette di tempi remoti riproponibili ancora oggi, per ritrovare a tavola lo «stupore medievale»: zanzarelli, ambrogino di pollo alla frutta secca, oca arrosto, diriola, lasagne. Francesco Colotta Anna Martellotti Linguistica e cucina

Leo S. Olschki Editore, Firenze, 170 pp.

20,00 euro ISBN: 978-88-222-6186-1 www.olschki.it

Il cibo e la sua produzione, cosí come le abitudini alimentari e le tradizioni culinarie sono da tempo entrati a pieno diritto fra gli aspetti indagati anche dagli storici, che, anzi, ne hanno a piú riprese sottolineato lo straordinario valore documentario. In questo quadro si inserisce il saggio di Anna Martellotti, che ne analizza uno dei fenomeni essenziali, vale a dire quello linguistico. La definizione e la descrizione delle pietanze e dei loro ingredienti sono, infatti, custodi inconsapevoli di una tradizione spesso plurisecolare e il loro studio permette di ripercorrere tutte le piú grandi stagioni della nostra storia, compresa quella medievale. E, come si coglie dalla lettura

del volume, simili analisi offrono molto di piú della semplice individuazione delle etimologie. Certo, da profani, non si può non rimanere sorpresi e divertiti all’idea che, per esempio, l’anduja calabrese tragga il suo nome dalla landolia federiciana, ma, andando oltre, non è difficile cogliere lo spessore delle implicazioni storiche e sociali di questa e altre filiazioni. Barbara Agosti Giorgio Vasari Luoghi e tempi delle vite

Officina Libraria, Milano, 175 pp., ill. col. e b/n

19,90 euro ISBN: 978-88-97737-19-3 www.officinalibraria.com

Sembra un paradosso, ma l’artista che tutti ricordiamo per aver consegnato ai posteri le biografie dei suoi piú illustri contemporanei non fu altrettanto puntuale in merito alla sua personale vicenda terrena. Giorgio Vasari scrisse di sé nella seconda edizione novembre

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delle Vite (1568) e in altre opere, ma, come spiega Barbara Agosti nella Premessa al volume, «questa apparente abbondanza di strumenti si rivela ingannevole, in quanto il racconto dell’autobiografia è spesso tendenzioso, ellittico, autocelebrativo e in qualche caso persino sfalsato, il libro dei ricordi contiene registrazioni in realtà riordinate a posteriori (…) il ricco epistolario

è inficiato da grosse lacune». Dal desiderio di mettere ordine in questa mole di informazioni e di ricostruire un profilo attendibile del personaggio nasce dunque questo saggio, che ne ripercorre le orme e ne ridefinisce i contesti geografici e culturali all’interno dei

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quali si trovò a operare. Rosetta Borchia e Olivia Nesci Codice P Atlante illustrato del reale paesaggio della Gioconda Electa, Milano, 144 pp., ill. col.

29,00 euro ISBN 978-88-370-9422-5 www.electaweb.com

È abbastanza ragionevole credere che, se si chiedesse a bruciapelo ai milioni di persone che l’hanno vista al Louvre di descrivere cosa ci sia «alle spalle» della Gioconda, molti risponderebbero (forse) «un paesaggio», senza riuscire a dire molto di piú. E, in effetti, a uno sguardo superficiale, la sensazione è quella che Leonardo avesse voluto definire niente piú che uno sfondo gradevole ed equilibrato per il suo celeberrimo ritratto. Applicando

un metodo d’indagine già sperimentato con successo per i dipinti di Piero della Francesca, Rosetta Borchia e Olivia Nesci ci dimostrano che cosí non fu e, anzi, il genio vinciano inserí la figura di Monna Lisa in un contesto paesaggistico ben preciso, che si colloca nelle terre dell’allora Ducato di Urbino. Il volume descrive tutte le tappe della ricerca, che, a tratti, assume i contorni di un’indagine degna della migliore tradizione investigativa, e conduce il lettore alla scoperta dei numerosi e puntuali collegamenti alla realtà osservata dal maestro. Un «gioco» affascinante, che, al di là del pregio artistico, sottolinea l’inaspettato valore documentario dell’opera. Rosetta Borchia e Olivia Nesci Il paesaggio invisibile La scoperta dei veri paesaggi di Piero della Francesca

Il lavoro editoriale, Ancona, 96 pp., ill. col.

15,00 euro ISBN 978887666905 www.illavoroeditoriale.com

Ora riproposto in formato tascabile, questo Paesaggio invisibile è il «padre» del volume sulla Gioconda piú recentemente

curato dalle medesime autrici e di cui si parla nella recensione precedente. Come si legge nella prima parte del libro, la scoperta delle ambientazioni scelte da Piero della Francesca per alcuni dei suoi dipinti piú celebri nacque quasi casualmente, quando a Rosetta Borchia fu chiesto di realizzare un video promozionale per una country house nei pressi del borgo di Castello della Pieve, nella valle del Metauro (provincia di Pesaro e Urbino). In fase di montaggio, vedendo scorrere e riscorrere le immagini la pittrice e fotografa ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa di familiare in quei paesaggi… Era l’inizio di un’avventura che si è poi tradotta in una ricerca da cui sono scaturiti risultati davvero sorprendenti.

DALL’ESTERO Guy Halsall Worlds of Arthur Facts & Fictions of the Dark Ages

Oxford University Press, Oxford, 357 pp., ill. b/n

20,00 GBP ISBN 978-0-19-965817-6 www.oup.com

Già professore di storia nelle Università di Londra e York, Guy Halsall si cimenta con uno dei personaggi chiave del Medioevo inglese. Quella di Artú è, quasi certamente, una figura leggendaria, ma è proprio questa sua caratteristica, amplificata dalla corposa tradizione letteraria, ad averne fatto una presenza che difficilmente può essere ignorata. Halsall rifugge dalla tentazione di rivelare una possibile «verità» e, piú pragmaticamente, inserisce la ricostruzione della vicenda arturiana nel piú ampio contesto storico e archeologico dell’Inghilterra

altomedievale. Il sovrano diventa quindi la guida alla scoperta di una realtà politica e sociale assai articolata, che prese forma all’indomani del crollo dell’impero romano ed ebbe nei Sassoni i suoi protagonisti principali. (a cura di Stefano Mammini)

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I Dodici Giardini musica • Animata da un profondo misticismo sin

da adolescente, Santa Caterina da Bologna fu anche donna di lettere e compositrice. E proprio a uno dei suoi scritti si ispira un’antologia che propone un percorso di purificazione e ascesa al divino

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aterializzazione terrena del Paradiso nel modello dell’hortus conclusus o percorso ermetico-iniziatico, il giardino ha rappresentato spesso, nella tradizione letteraria medievale, un luogo-simbolo della purezza spirituale pur nella sua manifestazione prettamente materiale. Un luogo in cui la perfezione interiore si manifesta attraverso una razionalizzazione dello spazio e dove ogni elemento, governato dalla volontà umana, assume il suo ruolo specifico in totale armonia. A questa visione, che sintetizza una sorta di ricerca interiore, si ispira l’opera letteraria di Caterina, nata a Bologna nel 1413 e figlia dell’ambasciatore di Nicolò III d’Este, Giovanni Vigri.

delle clarisse del Corpus Christi, di osservanza francescana. Qualche anno piú tardi, nel 1456, insieme ad altre consorelle, fonda il monastero del Corpus Domini di Bologna ed è qui che darà grande impulso all’attività dello scriptorium. Fu anche autrice di molti scritti tra cui il Breviarium

Musica e preghiera Un personaggio di grande cultura, elevata alla raffinata corte ferrarese, dove, accanto agli studi classici, si diletta di musica – sua la violetta ancora oggi conservata nella cappella che raccoglie le sue spoglie – e di pittura. A soli tredici anni Caterina decide di ritirarsi in preghiera; solo qualche anno piú tardi la ritroviamo tra le fondatrici a Ferrara del primo monastero

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e il trattato ascetico Le Sette Armi Spirituali, che ebbe grande diffusione manoscritta e a stampa. Al suo scritto giovanile I Dodici Giardini, è dedicata l’antologia I Dodici Giardini. Cantico di Santa Caterina da Bologna (14131463) (Arcana 367, 1 CD, www. soundandmusic.com), una selezione che intende descrivere un percorso iniziatico-spirituale che

attraversa, in tre giorni, 12 giardini, nei quali si compie il graduale processo di purificazione prima dell’unione con Dio. Nel tentativo – piuttosto riuscito – di contestualizzare musicalmente lo scritto, il gruppo vocale-strumentale La Reverdie e quello vocale di Adiastema si sono affidati alla letteratura laudistica francescana coeva, utilizzando sia laudi conosciute e sul cui testo metrico è stato possibile sovrapporre le liriche di santa Caterina, sia laudi meno note e, con buona probabilità, composte dalla stessa santa, che, stando alla testimonianza delle fonti, era molto spesso intenta all’esecuzione delle laudi come personale pratica ascetica.

Testi senza notazione Se, da una parte, questi testi si presentano privi di notazione musicale – come d’altronde novembre

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Il ritorno di una pietra miliare musica • È stata ristampata un’incisione storica

di una delle composizioni piú significative nella vasta produzione liturgica di Giovanni Pierluigi da Palestrina

O accade per molta della letteratura laudistica – d’altro canto la presenza di altre fonti musicali dello stesso periodo e culturalmente vicine all’ambiente di santa Caterina, ha permesso di rivestire musicalmente tutti i testi de I Dodici Giardini, dando vita a musiche laudistiche a una/due/tre voci, in cui predomina il senso melodico tipico di questo repertorio; a queste si accompagnano anche due brani quattrocenteschi di Johannes Martini e Jacob Obrecht. Ad arricchire l’esecuzione vocale, che si intercala anche a brani recitati con sottofondo strumentale, intervengono alcuni strumenti tipici della tradizione medievale: la viella, il liuto, il salterio, i flauti e l’organetto portativo; strumenti ampiamenti diffusi all’epoca in contesti, in realtà, non legati all’esecuzione delle laudi, ma qui riproposti come arricchimento evocativo ispirato dai testi della santa. L’esecuzione affidata a voci femminili è, seppur deviando da una rigorosa prassi filologica, affascinante e convincente nella sua capacità di evocare una trasognata atmosfera spirituale. Franco Bruni

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ggetto di una ristampa discografica, le Lamentationes of Jeremiah. Book Four (ALC 1142, 1 CD, distr. www.soundandmusic.it) di Giovanni Pierluigi da Palestrina eseguite dal Pro Cantione Antiqua costituiscono ancora oggi, a 23 anni dalla prima pubblicazione, una pietra miliare nell’interpretazione della polifonia cinquecentesca, qui rappresentata dal Princeps Musicae, il quale, con la sua capacità di sintesi rispetto alla grande tradizione contrappuntistica franco-fiamminga, creò un linguaggio che fu modello d’ispirazione per i secoli a venire. La sua fu una vasta produzione, in particolare nell’ambito liturgico, dove riuscí a proporre un modello compositivo, rigorosamente a cappella, adottato dalla cappella pontificia, e che seppe resistere alle nuove tendenze del genere concertato che si andarono diffondendo agli inizi del Seicento. Le Lamentationes cantate nel triduo santo durante la Feria V (in coena Domini), la Feria in Parasceve e il Sabato Santo, e suddivise dunque in tre cicli di tre lectiones ciascuna, sono proposte al di fuori del loro contesto liturgico, in un susseguirsi di brani che costituiscono, musicalmente parlando, un vero e proprio stordimento sonoro, caratterizzato da un senso di mestizia e, al contempo, da una dolcezza motivica davvero uniche; un’esperienza sonora di un’intensità che raramente si apprezza in repertori cosí distanti da noi.

Il senso lamentoso delle esecuzioni pasquali Il Pro Cantione Antiqua e il suo direttore Bruno Turner sono stati, in passato, uno straordinario esempio di interpretazione della polifonia rinascimentale secondo un approccio filologico all’avanguardia per i suoi tempi. Un ensemble tutto al maschile – in questo caso la formazione prevede otto voci –, capace, grazie alla profonda sensibilità dei singoli componenti, di infondere quel senso lamentoso (lamentabiliter) piú volte descritto dal cerimoniere papale Johannes Burckardt nel suo Liber Notarum in occasione dell’esecuzioni musicali in tempo pasquale. A caratterizzare l’interpretazione è la profondità del testo liturgico che i solisti del Pro Cantione incarnano in un perfetto intento interpretativo, cosí da rendere questa incisione un punto di riferimento assoluto nella discografia palestriniana e cinquecentesca in genere. F. B.

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