Medioevo n. 201, Ottobre 2013

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

liutprando

Un ambasciatore alla corte di Bisanzio

italia longobarda Il Ducato di Spoleto

africa cristiana

Nelle chiese di Lalibela

padova

la cappella degli

scrovegni

la storia, l’arte, i protagonisti con contributi di Chiara Frugoni e Salvatore Settis

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liutprando da cremona ducato di spoleto abiti da lavoro dossier la cappella degli scrovegni

Mens. Anno 17 n. 10 (201) Ottobre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 10 (201) ottobre 2013

EDIO VO M E www.medioevo.it



sommario

Ottobre 2013 ANTEPRIMA restauri Monaci greci nel Salento

ducato di spoleto Il terzo incomodo 6

di Chiara Mercuri

mostre Visioni del sacrificio 8 Il soldato che amava le lettere 10 Una devozione secolare 12 musei Trionfo in miniatura appuntamenti Un «passo» decisivo Miracoli d’Andalusia L’Agenda del Mese

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94 CALEIDOSCOPIO

di Sandra Baragli

Liutprando di Cremona

cartoline Mastro Cecco? Abita in teatro

106

56

libri Atti e segreti Lo scaffale

108 111

94

musica Virtuosi dell’arpeggio La pastorella innamorata Alle radici del pop

112 112 113

COSTUME E SOCIETÀ abiti da lavoro Pochi fronzoli per chi sgobba

protagonisti di Furio Cappelli

40

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STORIE Missione a Bisanzio

40

luoghi 30

etiopia Lalibela Mistero d’Africa di Franco Bruni

Dossier saper vedere

30

la cappella degli scrovegni

di Chiara Mercuri, Chiara Frugoni, Pietro Matracchi, Tomaso Montanari e Salvatore Settis

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Ante prima

Monaci greci nel Salento

restauri • È in corso il recupero della magnifica abbazia di S. Maria di Cerrate,

probabilmente fondata da Boemondo d’Altavilla. E, in attesa del completamento dei lavori, questo esempio mirabile del romanico pugliese è aperto ai visitatori

L’

abbazia di S. Maria di Cerrate, gioiello del romanico salentino, è al centro di un piano di restauro promosso dal FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano), che l’anno scorso ha ricevuto in concessione trentennale la struttura dalla Provincia di Lecce, con l’impegno di concludere la prima tranche dei lavori entro la fine del 2014. Fra gli obiettivi del Fondo per l’Ambiente, oltre al recupero e alla riconversione funzionale dei diversi edifici, c’è il ripristino del contesto paesaggistico che per secoli ha fatto da cornice al monastero, con un costo complessivo che si aggira attorno ai 3 500 000 euro. Secondo la leggenda, re Tancredi

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d’Altavilla, dopo aver avuto una visione della Madonna, volle erigere il convento di S. Maria di Cerrate. Ma è piú probabile che il fondatore sia il figlio di Roberto il Guiscardo, Boemondo d’Altavilla (1058-1111): grazie al duca normanno, a Lecce, lungo l’arteria romana fra Brindisi e Otranto, si sarebbe stabilita una comunità di monaci greci, che erano in Salento nel tentativo di sottrarsi alla furia iconoclasta di Bisanzio.

Una forte vocazione agricola

In alto S. Maria di Cerrate (Lecce). La facciata della chiesa abbaziale, decorata da rilievi con scene del Nuovo Testamento. A destra e nella pagina accanto, in alto, a sinistra due vedute dell’interno della chiesa, articolato in tre navate.

Votati alla regola di san Basilio Magno, i religiosi avviarono uno scriptorium e una biblioteca, già documentati alla metà del 1100. Entro il XVI secolo il cenobio ottobre

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divenne uno dei piú ricchi dell’Italia meridionale e la sua struttura architettonica, adeguandosi alle esigenze produttive, si faceva sempre piú complessa. Accanto alla chiesa, tre navate tamponate da una facciata a capanna, e agli alloggi per monaci e contadini, c’erano le stalle, un mulino, un pozzo e due frantoi ipogei, a riprova di una spiccata vocazione agricola. Ma il 1711, con l’attacco e il saccheggio da parte dei pirati turchi, segna il declino di S. Maria, ristrutturata per la prima volta solo nel 1965. Per l’attuale campagna di recupero, è già terminata la fase di studio e diagnostica condotta sulle strutture;

è poi in calendario il restauro delle mura abbaziali, della chiesa e del porticato duecentesco con colonne sormontate da capitelli con motivi zoomorfi e soggetti mitologici.

Superare la fissità bizantina L’edificio di culto vanta sculture di grande pregio: il portale ad arcata è decorato con altorilievi che narrano episodi del Nuovo Testamento e rappresentano un frate in preghiera, con un impaginato e una scioltezza che fanno pensare a scalpellini romanici vicini agli stilemi di Nicola Pisano. Gli affreschi del Duecento, che rivestivano tutto l’interno (e che dagli anni Sessanta sono In alto un’antica mola, esposta nel Museo delle Tradizioni Popolari allestito presso l’abbazia.

visibili nell’attiguo museo), sono realizzati da pittori altrettanto colti, che cercavano di superare la fissità bizantina. La casa monastica accanto alla chiesa accoglierà i visitatori, con bookshop, biglietteria e ristorazione al piano terra, dove sarà allestita anche una rassegna permanente sui restauri, mentre al piano superiore saranno collocati gli uffici e una mostra sulla storia di Santa Maria. Dal Museo delle tradizioni popolari si potrà quindi vedere il frantoio nell’interrato. E non è tutto, perché l’intervento toccherà anche il verde, con tagli e potature, ai quali si aggiungerà la piantumazione di oliveti, alberi da frutto e colture, accanto ai fichi d’india che crescono spontanei. Cosí questo splendido esempio del Romanico pugliese tornerà ad avere un rapporto armonico con il panorama circostante. Stefania Romani

Dove e quando

Abbazia di S. Maria di Cerrate Strada Provinciale Casalabate-Squinzano, 73100 Lecce Orario nella fase pre-restauro, l’abbazia sarà aperta con i seguenti orari: ottobre: me-ve, 9,30-13,00, sa-do, 9,30-13,00 e 15,00-18,00; da novembre a febbraio 2014: me-ve, 9,30-13,00, sa-do, 9,30-13,00 e 15,00-18,00 e 14,00-16,30 Info tel. 0832 361176; e-mail: faicerrate@fondoambiente.it

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ottobre

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Ante prima

Visioni del sacrificio

A sinistra il piú antico dei crocifissi restaurati, databile alla fine del XIII sec. In basso croce astile, da Castelcivita. Seconda metà del XV sec. Nella pagina accanto, a sinistra particolare di un crocifisso in avorio, ricavato da un’unica zanna d’elefante, da Policastro Bussentino. Ambito fiammingo, fine del XVII sec.

mostre • Il restauro di due importanti

crocifissi d’età medievale e rinascimentale è stato preso a «pretesto» dal Museo Diocesano di Teggiano per un viaggio attraverso opere che hanno rappresentato, nel tempo, l’epilogo della vicenda terrena del Cristo

I

l Museo Diocesano di Teggiano (Salerno), ha aderito alle iniziative per le celebrazioni del diciassettesimo centenario dell’Editto di Tolleranza costantiniano, con una mostra inedita, ispirata dal restauro di due importanti crocifissi d’età medievale e rinascimentale. Ne è nato un allestimento sulla crocifissione nei secoli, esemplificata da una ventina di opere, databili tra il XIII e il XIX secolo e provenienti sia da Teggiano, che da altre chiese della diocesi. A seguito del restauro, i crocifissi assemblati con una muratura tessuta intorno a uno scheletro ligneo e rifiniti da uno strato di stucco policromato, sono stati collocati nel transetto dell’ex chiesa di S. Pietro, ora museo, affiancandoli a un preesistente Cristo in croce del XV secolo, della stessa materia e tecnica. Si è cosí definito un corpus di opere monotematiche collocate temporalmente nel XIII, XV e XVI secolo, a cui si affiancano altre sculture di medesima fattura, improntate sull’iconografia mariana. Un affresco della Crocifissione con dolenti, rimanda alla cultura artistica di stampo oderisiano e campeggia al centro dell’abside dell’antica chiesa.

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Alle croci in malta e stucco si affianca un’inedita composizione di un Cristo in legno del Cinquecento, dagli influssi nordici, conservato nel seminario diocesano e rispondente ai canoni stilistici della scuola di Giovanni da Nola.

Incarnato olivastro Il piú antico dei crocifissi in muratura, rimanda alla scultura campano-lucana della fine del Duecento e si caratterizza per il moderato arcaismo dei tratti

anatomici e per il colorito olivastro dell’incarnato. Coeva alla scultura è anche la croce in legno, mentre le ricostruzioni delle parti mancanti, operate nel recente restauro, si limitano a pochi punti del corpo (nuca e gambe). La dolcezza espressiva del Cristo e la definita marcatura dei lineamenti del volto, contribuiscono ad assegnare l’esecuzione del manufatto a uno scultore di epoca romanica, ben aggiornato nella temperie culturale e stilistica medievale. Il crocifisso piú recente, sempre modellato in muratura e stucco policromato, si colloca alla fine del XV secolo, anche se già orientato verso i modelli scultorei tipici del primo Cinquecento. Presenta, cosí come l’altra scultura del Cristo quattrocentesco, il perizoma dal classico tessuto a bande azzurrine, espressione eloquente della Dove e quando

«La Croce ritrovata» Teggiano (SA), Museo Diocesano fino al 27 ottobre Orario ma-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0975 79930 e 349 5140708; e-mail: museoteggiano@diocesiteggiano.it ottobre

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In alto affresco di scuola oderisiana raffigurante una Crocifissione con dolenti. Metà del XIV sec.

I corredi in argento

tradizione culturale semitica, con rimandi sia alla natura genetica di Gesú, sia alla colonia di Ebrei, che nel Quattrocento era molto florida nella cittadina dianense.

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Manufatti in argento sviluppano il tema in ambito liturgico: tre straordinari crocifissi del XV e XVI secolo, provenienti dai vicini paesi di Castelcivita, Tortorella e Sant’Arsenio, rimarcano l’importazione di corredi in argento dalla capitale culturale partenopea, a cui si collegano anche due croci astili, del Seicento e

dell’Ottocento. Un mirabile crocifisso d’avorio, intagliato in unica zanna d’elefante e dalla chiara provenienza fiamminga, rimanda al ricco corredo d’arte dei vescovi policastrensi. La mostra è arricchita anche da una croce francescana in legno dipinto del XVIII secolo e da due croci stazionali in pietra, che connotano l’aspetto piú popolare e devozionale del culto della croce. La pietra, l’affresco, il legno, la muratura dei manufatti piú antichi, insieme all’avorio, l’argento, la tela e la carta stampata di quelli piú recenti, definiscono un percorso nella storia e nella memoria, della Passione e morte di Cristo, modellata dalle mani di alterne generazioni d’artisti di grido o di provincia, comunque ancorati agli stilemi dell’iconografia cattolica della Croce. L’esposizione è stata realizzata dalla cooperativa Paràdhosis, in collaborazione con la Curia vescovile e sotto il patrocinio dell’Amei (Associazione Musei Ecclesiastici Italiani). Marco Ambrogi

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Ante prima

Il soldato che amava le lettere mostre • Firenze rende omaggio

all’intensa attività di mecenate svolta da Mattia Corvino, discendente del grande condottiero ungherese Janos Hunyadi. E che fu committente, tra gli altri, di Botticelli e Filippino Lippi

F

iglio del generale Jànos, Mattia Hunyadi Corvinus, nacque nel 1443 in Transilvania e, a soli 15 anni, dopo difficili trattative, fu eletto re, nonostante le rivendicazioni di suo zio Federico III, imperatore del Sacro Romano Impero e di altri aspiranti alla corona magiara. Per la prima volta, nel regno medievale ungherese, saliva al trono un membro della nobiltà senza ascendenze e relazioni dinastiche. Ben presto, comunque, il giovane monarca dimostrò di essere degno del simbolo araldico della sua famiglia, il corvo, che il credo comune considerava come segno di potere e saggezza. Nonostante l’educazione soprattutto militare, Mattia era poliglotta, amava le arti e le scienze, coltivava letture classiche e moderne, e riuscí a dar vita a una corte ricca e brillante. Fondò una considerevole biblioteca, la famosa Corvina, e si circondò di scienziati e filosofi. Le sue collezioni di manoscritti, quadri, statue e gioielli divennero ben presto famose in tutta Europa, cosí come i sontuosi edifici innalzati durante

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il suo governo. Ottimo soldato e diplomatico, Mattia riorganizzò il sistema difensivo e finanziario, cercando anche di migliorare la struttura del governo centrale, Egli mantenne costanti e fondamentali relazioni diplomatiche con il papato, con Napoli, Venezia, e altri Stati italiani e scambiò ripetutamente ambasciatori con la Francia, la Borgogna, la Svizzera e molti territori tedeschi. Le sue connessioni con Firenze, Milano e gli altri centri culturali riflettevano il suo interesse per la nostra arte e la nostra cultura.

Luce all’arte e alla sapienza Una delle piú grandi figure dell’umanesimo italiano, Marsilio Ficino, nel 1480 glorificò Mattia definendolo l’«unico in grado di restituire luce e splendore all’arte e alla sapienza sprofondate nel limbo». Corvino ebbe contatti con umanisti fiorentini come Poliziano e Filippo Valori e fu al primo posto tra i mecenati e i committenti dell’arte fiorentina al di fuori dell’Italia, dando lavoro ad artisti

come Botticelli, Filippino Lippi e Verrocchio. La copiatura e l’acquisto di libri a Firenze per la biblioteca Corviniana assunsero dimensioni fantastiche e, dopo la sua morte, centinaia di codici attendevano ancora di essere spediti e pagati.

Una morte sospetta Mattia possedeva alte qualità personali e il suo nome divenne, durante l’occupazione turca, un simbolo di forza, indipendenza e progresso. Il 6 maggio 1490, morí improvvisamente. Si disse che la fine fosse stata causata da un’affezione allo stomaco; pare invece che fosse stato avvelenato con un fico offertogli da Beatrice d’Aragona, la seconda moglie che, rimasta vedova, sposò segretamente il re boemo Vladislao II della casa degli Jagelloni, nominato, poi, successore di Mattia. Una volta assicuratosi il trono, il nuovo sovrano fece annullare il suo matrimonio con la principessa di Napoli, dichiarando di essere stato forzato a quell’unione e rifiutandosi di restituire la dote e i beni alla consorte. ottobre

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Mattia Corvino ebbe un rapporto privilegiato con Firenze che gli dedica ora una mostra allestita nella prima Biblioteca «pubblica» rinascimentale. Il raffinato ambiente, che fa parte del convento/ museo San Marco, rivestí un ruolo fondamentale nello sviluppo della cultura umanistica fiorentina ed europea, in stretta connessione con la Biblioteca Corviniana, che contava oltre tremila volumi, detti «Corvinae». L’esposizione presenta varie tipologie di opere, tra cui la tappezzeria del trono di Mattia Corvino, su disegno di Antonio del Pollaiolo, il rilievo marmoreo con il ritratto di Alessandro Magno del Verrocchio e i ritratti di Beatrice d’Aragona e di Mattia, attribuiti a Giovanni Dalmata. Mila Lavorini

Ritratti di Beatrice d’Aragona e Mattia Corvino. Giovanni Dalmata (attribuiti), 1485-1490, Budapest, Szépmuvészeti Múzeum.

Dove e quando

«Mattia Corvino e Firenze. Arte e umanesimo alla corte del re di Ungheria» Firenze, Museo di San Marco fino al 6 gennaio 2014 (dal 10 ottobre) Orario lu-ve, 8,15-13,50; sa-do e festivi, 8,15-16,50 Info tel. 055 294883; www.unannoadarte.it

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Ante prima

A sinistra la collana di san Gennaro, in oro, argento e gemme. 1679-1879. In basso statua in argento e rame dorato di san Giovanni Battista. 1695.

mostre • I tesori

di san Gennaro «abbandonano» la loro casa e danno spettacolo a Roma

Una devozione secolare L

asciano Napoli per la prima volta i capolavori del Museo di San Gennaro, in mostra (dal 30 ottobre) alla Fondazione Roma Museo, nella capitale. Si tratta di oltre novanta opere – oreficerie, documenti, arredi sacri –, che offrono un assaggio di un tesoro che conta oltre 21mila pezzi, donati in settecento anni di devozione, e ripercorrono la storia di un culto legato a doppio filo a Napoli, ma anche le ragioni del suo radicarsi in modo tanto particolare sia in loco che fra i sovrani di tutta Europa. La devozione per san Gennaro

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(272-305) nasce subito dopo la morte del vescovo di Benevento, condannato nell’ultima fase delle persecuzioni di Diocleziano. «Il santo viene decapitato alla Solfatara, sullo sfondo del vulcano attivo. E qui entra in gioco il primo fattore simbolico legato al suo culto», spiega Paolo Jorio, curatore della mostra assieme a Ciro Paolillo. «Il secondo elemento», continua Jorio, «ha a che vedere con il sangue: i parenti dei martirizzati lo raccoglievano in ampolle, ma per san Gennaro (segue a p. 14) ottobre

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Ante prima si verifica il miracolo della liquefazione, che segna una svolta senza precedenti». Il corpus del tesoro prende il via con due opere angioine di rarità assoluta. «L’oggetto piú antico è un busto reliquiario voluto da Carlo II d’Angiò (1254-1309) e realizzato fra il 1304 e l’anno successivo da tre orafi provenzali chiamati a corte proprio per il manufatto in oro, gemme e smalti», ricorda il curatore. «Sempre per volontà del sovrano, gli artisti provenzali danno vita a una scuola dalla quale nasce la prestigiosa tradizione orafa di Napoli. Il secondo pezzo del tesoro è commissionato invece da Roberto d’Angiò (1277-1343), figlio di Carlo II, che nel tardo gotico regala il reliquiario tronetto per trasportare in processione le ampolle con il sangue di San Gennaro. Si tratta di due testimonianze intatte, forti, potenti, preziose». Trascorrono poi molti anni prima che si registrino altri regali al protettore di Napoli. Ma nel 1526 calano sulla città tre flagelli: la peste, la carestia e le continue eruzioni del

Vesuvio, sullo sfondo della guerra tra Francia e Spagna. I cittadini fanno quindi un voto a san Gennaro per la costruzione di una nuova cappella, all’interno del Duomo, e lo fanno con un atto notarile del 13 gennaio 1527, esposto nelle sale di Palazzo Sciarra.

Il dono come privilegio Per realizzare una struttura secondo i dettami del tempo, con artisti che vanno da Ribera a Solimena a Domenichino, i Napoletani costituiscono un Assessorato laico, con i rappresentanti del popolo e dei nobili; è una «Deputazione che nei secoli ha anche difeso, custodito, indirizzato il dono di beni per la cappella laica, facendo in modo che il tesoro rimanesse intatto, senza subire furti e spoliazioni e senza essere intaccato per finanziare conflitti», sottolinea Jorio. Cosí si è formato il patrimonio degli oltre 21mila capolavori, nel senso letterale del termine, perché l’Assessorato, nella convinzione che donare a san Gennaro dovesse essere un privilegio, ha sempre avuto il

diritto di rifiutare beni di non alta valenza artistica. Il percorso espositivo si articola in sei sezioni. La prima approfondisce il legame fra il santo e il Vesuvio, la seconda propone una carrellata sull’artigianato napoletano, mostrando gli esemplari degli specialisti del Borgo degli Orefici, e la terza è dedicata al «popolo di santi», ovvero ai 51 compatroni che i Napoletani affiancano nei secoli a San Gennaro. Quindi è il turno di meraviglie quali la mitra in argento dorato del 1713, con oltre 3mila diamanti e poi rubini smeraldi e granati, e la collana di san Gennaro, con preziosi donati dai regnanti di tutta Europa. Nel quinto spazio espositivo va poi in scena il miracolo di san Gennaro e, nell’ultima sezione, figurano i doni dei sovrani. Stefania Romani Qui accanto statua in argento e rame dorato di sant’Irene. 1733. A sinistra statua in argento e rame dorato di santa Maria Egiziaca. 1699.

Dove e quando

«Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro» Roma, Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra fino al 16 febbraio 2014 (dal 30 ottobre) Orario ma-do, 10,00-20,00; lu, 15,00-20,00 Info tel. 06 69205060; www.fondazioneromamuseo.it

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Ante prima

Trionfo in miniatura musei • 6000 soldati

si danno battaglia nelle sale del Museo Nazionale Svizzero, facendo, però, scorrere meno sangue di quello versato nel 1476, a Morat, sul lago omonimo...

A

nimato da 6000 soldatini di piombo di fanteria e cavalleria, il diorama della battaglia di Morat testimonia una vittoria militare ottenuta dalla Svizzera nel XV secolo. Lo scenario drammatico, con la scenografia curata fin nei minimi dettagli, fa rivivere in 3D lo scontro, nel quale i Confederati e i loro alleati sconfissero il 22 giugno 1476 Carlo il Temerario (1433-1477). Questa vittoria decisiva sull’ambizioso duca burgundo aumentò immensamente le richieste dei soldati elvetici e scatenò nei Confederati fantasie di superpotenza. Cosí la storiografia svizzera riporta il loro trionfo sul Ducato di Borgogna: Carlo il Temerario perse «a Grandson i suoi beni, a Morat il proprio coraggio e a Nancy il proprio sangue».

Una rappresentazione realistica Il diorama di Morat inscena diverse fasi della battaglia. Ora queste fasi possono essere seguite in modo piú realistico. Spingendo un pulsante è possibile illuminare, per esempio, l’assedio della città di Morat, l’avanzata del grosso dell’esercito elvetico oppure la mobilitazione tardiva nell’accampamento dei Burgundi. In piú vengono fornite informazioni sulla fase in cui si trova la battaglia e sulle azioni militari che si svolgono nella scena illuminata. Oltre all’orientamento storico-militare volto a spiegare lo svolgimento della battaglia, ai

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Due immagini del nuovo allestimento del diorama dedicato alla battaglia combattuta nel 1476 a Morat tra le truppe della Confederazione svizzera e quelle del duca di Borgogna Carlo il Temerario. Zurigo, Museo Nazionale Svizzero. visitatori viene offerta l’opportunità di scoprirne i particolari per mezzo di piccoli cannocchiali. Secondo il principio dei Wimmelbücher (libri per bambini che propongono serie di panorami ricchi di particolari), bisogna cercare determinate scene in illustrazioni brulicanti di personaggi, mentre una legenda spiega quel che è stato trovato. Il diorama è un teatrino, in cui vengono ambientate scene storiche, ambienti sociali, professioni o animali nel loro habitat utilizzando figure in miniatura in paesaggi artistici spesso incorniciati da uno sfondo dipinto. Il diorama di Morat è stato realizzato dall’ingegnere zurighese e

Dove e quando

Museo Nazionale Svizzero Zurigo, Museumstrasse 2 Orario ma-do, 10,00-17,00; gio, 10,00-19,00 Info +41 (0)44 2186511; e-mail: info@snm.admin.ch appassionato collezionista di soldatini di piombo Curt F. Kollbruner (1907-1983). Il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo lo aveva presentato per la prima volta nel 1976, in occasione del cinquecentesimo anniversario della battaglia, esponendolo nella Sala d’onore. (red.) ottobre

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Un «passo» decisivo appuntamenti • Nell’ottobre di ottocento anni

fa, sul ponte che supera il Liri a Ceprano, l’incontro tra Manfredi di Svevia e papa Innocenzo IV pose fine alla disputa tra impero e papato. Un evento chiave nella storia dell’Occidente medievale, che la cittadina laziale, come ogni anno, torna a rievocare

C

eprano, cittadina del Frusinate situata nella Valle Latina, fra gli Appennini e il mar Tirreno, fu teatro l’11 ottobre 1254 di un importante evento storico. Quel giorno papa Innocenzo IV, assieme alla sua corte vaticana, si spostò da Anagni appunto a Ceprano, per incontrare il principe Manfredi di Svevia, a sua volta accompagnato da nobili e cavalieri: l’episodio fu il preludio

della fine della contesa fra impero e papato. Sul ponte di Ceprano (allora definito «passo», perché era luogo obbligato di passaggio sul fiume Liri per le carovane in viaggio da Roma a Napoli), il papa e il principe si trovarono l’uno di fronte all’altro: Innocenzo IV, su una mula bianca riccamente bardata, attese che Manfredi, umile e contrito, si prostrasse al suo cospetto, rimarcando l’autorità spirituale su quella temporale.

Il mistero delle ossa Un avvenimento, sottolineato anche da Dante nella Divina Commedia, che cambiò le sorti dell’Europa e sancí la consegna del potere temporale nelle mani della Chiesa. In seguito, per la verità, Manfredi di Svevia non tenne fede al patto e, abbandonato dai suoi, fu poi sconfitto e ucciso nella battaglia di Benevento, combattuta nel febbraio del 1266 (vedi «Medioevo» n. 166, febbraio 2011; anche su www.medioevo.it). Secondo alcuni documenti, le sue ossa furono poi trasportate presso lo stesso ponte di Ceprano. Ma il mistero delle ossa del principe In alto Ceprano. Un figurante con la divisa da cavaliere templare. A sinistra uno dei protagonisti della rievocazione (e dell’incontro del 1254), papa Innocenzo IV.

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ottobre

aleggia ancora oggi, lungo gli argini del Liri; lo stesso mistero che fa da sfondo alla rievocazione dell’incontro avvenuto nel 1254, organizzata annualmente nel secondo week end di ottobre, quest’anno in programma sabato 12 e domenica 13 ottobre. La rievocazione inizia il sabato pomeriggio con la posa dell’antica pietra della Doganella ai giardinetti Ponte Canale, cui seguono i giochi popolari in piazza Martiri di via Fani; in serata apertura delle cantine cittadine. La giornata di domenica inizia con l’apertura mattutina del Mercato Medievale in piazza Martiri di via Fani. In seguito sul «Passo di Ceprano» e lungo gli argini del fiume Liri viene rievocato l’atto di sottomissione di Manfredi a Innocenzo IV, con i due cortei che giungono in pompa magna, fra sbandieratori, chiarine, tamburi e armati. Nel pomeriggio si svolge il Palio delle Corti: due schieramenti cittadini si sfidano in una gara di tiro con l’arco storico. Inoltre, per l’intera giornata, il centro storico di Ceprano è allietato da spettacoli di giocolieri, saltimbanchi, giullari e falconieri. Tiziano Zaccaria

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Ante prima

Miracoli d’Andalusia appuntamenti • A un quadro custodito a Moclín e raffigurante la salita di Cristo

al Calvario fu attribuita la miracolosa guarigione di un sacrestano: da allora, la tela è oggetto di devozione e ogni 5 di ottobre sfila in processione tra migliaia di fedeli

I

l villaggio di Moclín (situato una trentina di km a nord-ovest di Granada) è lo scenario di una delle celebrazioni religiose piú classiche dell’Andalusia: il Pellegrinaggio del Cristo del Panno, un quadro di grandi dimensioni, opera di un anonimo pittore spagnolo, donato a questa cittadina dai regnanti spagnoli cattolici Ferdinando e Isabella alla fine del XV secolo. Il sacro dipinto, che raffigura Gesú mentre trasporta la Croce, raggiunse in breve tempo una grande popolarità, grazie alla leggendaria guarigione miracolosa di un sacrestano quasi cieco a causa della cataratta (chiamata anticamente «malattia del panno»), che un giorno avrebbe recuperato la vista proprio mentre puliva il quadro. Da allora a Moclín iniziarono pellegrinaggi di malati che invocavano la propria guarigione al Cristo del Paño, al quale fu successivamente attribuita anche una proprietà taumaturgica contro la sterilità femminile. Ancora oggi, il 5 ottobre di ogni anno, migliaia di devoti provenienti da tutta l’Andalusia si riversano nelle strade di questo paese di quattromila abitanti per rendere omaggio al sacro dipinto. Al termine delle Messe mattutine, verso mezzogiorno, la grande tela esce dalla chiesa parrocchiale, appoggiata su una pesante piattaforma di legno decorata con ghirlande di fiori. Oltre trenta uomini trasportano faticosamente sulle proprie spalle il baldacchino col dipinto, che si fa strada lentamente attraverso la piazza del paese e lungo la strada principale, accompagnato da una banda musicale e seguito da migliaia

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di pellegrini, prima di rientrare in chiesa ed essere ricollocato sopra l’altare maggiore. Pur fortemente radicata nella tradizione religiosa, la processione è anche l’occasione di una vivace festa paesana: per tutto il giorno le strade di Moclín sono piene di bancarelle.

Da «scudo» a «chiave» Fin dall’antichità la località è una delle zone storiche piú importanti e ricche dell’Andalusia, grazie alla sua posizione geografica, solcata dal fiume Velillos, e agli oliveti, la principale fonte economica degli abitanti della zona, che dominano il paesaggio agricolo. Moclín è sovrastata dalla fortezza difensiva costruita dagli Arabi nel XV secolo, per difendersi dalla riconquista del regno di Granada da parte dei re cattolici (la riconquista di Moclín è datata per l’esattezza 1486).

Moclín (Granada, Andalusia). Un momento della festa in cui viene portato in processione il dipinto con il Cristo del Panno. I musulmani, che non volevano consegnare la città ai re cattolici, chiamavano il castello «lo scudo di Granada», mentre i cristiani lo definivano «la chiave di Granada». Oggi dell’antica fortezza si conserva intatta quasi soltanto la muraglia esterna: il cammino fino alla parte piú alta è comunque ricompensato dai bei panorami sulla sottostante valle di Velillos. Merita una visita anche la chiesa del Cristo del Panno, costruita nel XVI secolo sui resti di un antico eremo, che durante l’anno conserva appunto l’immagine protagonista del pellegrinaggio che ogni anno il 5 ottobre congrega migliaia di fedeli. T. Z. ottobre

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Caccia ai magnifici cinque

Inoltre, con l’obiettivo di recuperare il mercato del Nord e Centro Europa, da sempre fidelizzato al nostro «Bel Paese», ma che negli ultimi anni si è orientato su altre destinazioni, la domanda sarà rappresentata dai Top Five di Austria, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Svizzera, ovvero i migliori 5 tour operator interessati al segmento archeologico del turismo culturale. E, nell’ottica di fare sistema con un marchio unico, i buyer vivranno il suggestivo itinerario «South Italy Magna Graecia», di cui saranno protagonisti i grandi attrattori archeologici della Campania, Calabria,

50 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 350 operatori dell’offerta, 150 giornalisti. Tra gli ospiti, è annunciata la presenza di: Taleb Rifai, Segretario Generale OMT; Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale UNESCO per la Cultura; Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale del Direttore Generale UNESCO; Louis Godart, Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica; Stefano De Caro, Direttore Generale ICCROM; e ancora, tra gli altri, di: Salvatore Settis, Emanuele Greco, Paolo Matthiae, Eva Cantarella.

È

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informazione pubblicitaria

in programma, dal 14 al 17 novembre, la XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, che, per la prima volta, si svolgerà all’interno della città antica, distribuendosi tra il Parco Archeologico, il Museo Nazionale e la Basilica Paleocristiana. E cosí, per sottolineare il rapporto imprescindibile tra Beni Culturali e Turismo – attualmente le deleghe sono attribuite a un solo Ministero – il workshop in collaborazione con l’ENIT tra i buyer esteri e gli operatori dell’offerta (in programma sabato 16 novembre), avrà luogo nelle sale del Museo Archeologico.

Puglia e Basilicata, quali, per esempio, Paestum, Velia, Sibari, Taranto, Metaponto. La Borsa è l’unico evento al mondo che consente l’incontro di questo straordinario segmento del turismo culturale con il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori, gli appassionati e il mondo scolastico, con l’obiettivo di promuovere i siti e le destinazioni di richiamo archeologico, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche e gli effetti occupazionali. Sede del piú grande Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico – quest’anno allestito a pochi metri dal Tempio di Cerere, su un’area di 3000 mq – e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie interattive e virtuali, la Borsa si conferma un format di successo con la partecipazione dei vertici di UNESCO, UNWTO e ICCROM, 8000 visitatori, 150 espositori con 25 Paesi esteri (Ospite Ufficiale del 2013 è il Venezuela),


agenda del mese

Mostre Chieti Illuminare l’Abruzzo. Codici miniati tra Medioevo e Rinascimento U Museo Palazzo de’ Mayo fino al 13 ottobre (prorogata)

La mostra non si limita a esaltare ancora una volta il solo valore estetico delle miniature, ma documenta una realtà ben circoscritta, cioè quella della produzione libraria miniata affermatasi in Abruzzo tra l’XI e il XIV

secolo, e, soprattutto, presenta materiali spesso inediti, nonché, in un caso, miniature recuperate sul mercato antiquario e salvate dalla dispersione. Grazie ai prestiti concessi da istituzioni pubbliche, ecclesiastiche e private italiane e straniere, è stato possibile riunire una settantina di opere che dunque documentano la vivacità della produzione abruzzese, che ebbe tra i suoi centri di produzione principali lo scriptorium della cattedrale di S. Giustino a Chieti, oppure quelli di S.

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a cura di Stefano Mammini

Liberatore alla Maiella, S. Clemente a Casauria e S. Maria della Vittoria presso Scurcola Marsicana. info tel. 0871 359801; e-mail: info@ fondazionecarichieti.it; www.fondazionecarichieti.it Torino Il collezionista di meraviglie, l’Ermitage di Basilewsky U Palazzo Madama fino al 13 ottobre.

Offre diverse chiavi di lettura la mostra delle opere di Alexander Basilewsky, diplomatico e collezionista di spicco nell’Europa dell’Ottocento. Attraverso capolavori mai usciti dalla Russia, la rassegna avvicina a un’idea raffinata dell’Età di Mezzo, con oggetti liturgici di altissima qualità, quali calici, reliquiari, croci, pissidi, piatti di legature per codici. Dopo gli oggetti di culto dei primi cristiani, come le lucerne in bronzo e i vetri dorati in foglia d’oro, su tutti il Sacrificio di Isacco del IV secolo, l’esposizione presenta, tra gli altri, materiali bizantini, romanici, avori dalla Sicilia e dall’Italia meridionale, poi Limoges del Duecento e oreficeria mosana. Non mancano le armi, che Basilewsky cominciò a collezionare in Oriente, né materiali di età rinascimentale, tra cui maioliche italiane, francesi, e smalti dipinti di Limoges. info tel. 011 4433501; www.palazzo madamatorino.it

perugia

Tivoli

Gaeta

RAFFAELLO E PERUGINO. Modelli nobili per Sassoferrato a Perugia U Nobile Collegio del Cambio fino al 20 ottobre

Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna U Villa d’Este fino al 20 ottobre

SCIPIONE PULZONE DA GAETA A ROMA ALLE CORTI EUROPEE U Museo Diocesano, Palazzo De Vio fino al 27 ottobre

La mostra, che propone il confronto fra tre grandi maestri – Perugino, Raffaello e Sassoferrato –, è la prima importante estensione fuori dalla Toscana del progetto «La città degli Uffizi». Per Raffaello si tratta di un ritorno a Perugia, che avviene attraverso il celeberrimo Autoritratto (dipinto tra il 1504 e il 1506), capolavoro collocato nella Sala dell’Udienza del Nobile Collegio, la stessa che, con il suo maestro Perugino, lo vide all’opera, probabilmente come semplice collaboratore, agli esordi della carriera. Insieme al suo Autoritratto giungono dagli Uffizi quello del suo maestro, il Perugino appunto, e quello non meno straordinario di un artista posteriore che ai due ispirò il proprio lavoro, ovvero Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato. Un gioco di autoritratti in cui si esemplifica la nuova consapevolezza degli artisti del Rinascimento. info tel. 075 5728599

Le sale della villa tirburtina ospitano oltre sessanta opere, rare e talvolta inedite (dipinti, sculture, armi, utensili e stampe) inerenti alle cacce

principesche, praticate nelle corti italiane tra il Cinque e il Settecento. Manifestazione del potere e dell’eleganza delle élite di tutta Europa, la caccia fu, sin dal Medioevo, uno dei piú importanti momenti di aggregazione sociale. La mostra trova una sede eccezionale a Villa d’Este, decorata con temi venatori già nei primi decenni del Seicento dalla scuola di Antonio Tempesta. Inoltre, la villa, il suo parco e i boschi circostanti furono, sin dal primo Cinquecento, i palcoscenici delle leggendarie cacce degli Estensi e dell’aristocrazia papale. info tel. 0774 335850; www.villadestetivoli.info

La prima mostra interamente dedicata alla produzione artistica del maestro gaetano Scipione Pulzone (1540 circa-1598) si

confronta con il territorio di origine del pittore. Il progetto espositivo si articola in sei sezioni e offre l’opportunità di ammirare dipinti firmati e datati, riuniti e messi a confronto per la prima volta secondo il criterio tematico e cronologico, insieme alle opere di incerta attribuzione per una stimolante occasione di vaglio critico. info tel. 0771 4530233 Firenze Diafane passioni. Avori barocchi dalle corti europee U Museo degli Argenti, Palazzo Pitti fino al 3 novembre

Dalla metà del Cinquecento, e per circa due secoli, la scultura in avorio fu apprezzata e ricercata ottobre

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dalle corti europee come una delle massime e piú sofisticate forme di espressione artistica. I piú importanti scultori del periodo barocco, sia in Italia che nei Paesi transalpini e addirittura nelle colonie portoghesi e spagnole, si cimentarono in questa tecnica raffinatissima e difficile, che univa alla perizia dell’artefice la preziosità della materia prima. Gli avori barocchi, nella loro importanza artistica internazionale, non sono mai stati oggetto né in Italia né all’estero di una grande esposizione, e questa rappresenta la prima occasione per rimediare a questa lacuna. Occasione che non è un caso venga colta a Firenze, al Museo degli Argenti, dove si trova la piú estesa e formidabile raccolta storica di avori, composta da opere dei maggiori scultori in questa tecnica. Una mostra di quasi centocinquanta pezzi, che unisce i tesori fiorentini a

pregevoli esemplari provenienti dai piú importanti musei stranieri e ad altri avori mai visti prima, custoditi in collezioni

mostre • Da Donatello a Lippi. Officina pratese U Prato – Museo di Palazzo Pretorio

fino al 13 gennaio 2014 – info e prenotazioni tel. 0574 1934996; www.officinapratese.com

A

coronamento di un lungo restauro, che lo ha riportato all’originario splendore e ora lo restituisce alla collettività (vedi «Medioevo» n. 200, settembre 2013), il Palazzo Pretorio di Prato ha riaperto le sue porte e lo ha fatto con una grande mostra, che fa rivivere uno dei momenti magici dell’intera storia dell’arte italiana, quello vissuto nel Quattrocento dalla città toscana, quando qui operarono molti tra i maggiori artisti dell’epoca. Su tutti, domina la figura carismatica di Filippo Lippi, che fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento tenne aperto il cantiere degli affreschi di Santo Stefano e del Battista, nella cappella maggiore del Duomo. Altre sue opere in mostra documentano la fantasia eccitata e le estenuate eleganze di questa splendida maturità. Intorno a lui si formarono pittori che meritano di essere meglio conosciuti, come il Maestro della Natività di Castello o Fra Diamante. Prima di Lippi le figure di maggiore spicco che operarono per Prato furono Donatello e Paolo Uccello. Attraverso opere di grande qualità, la mostra fa luce su queste personalità, per aiutare a capire meglio quanto a Prato di loro è rimasto. Al tempo stesso si prefigge alcune operazioni esemplari di ricostruzione di opere che erano a Prato e che sono state smembrate, riunendo predelle e pale ora divise fra i musei pratesi e le collezioni straniere. private, dà vita a un nuovo e spettacolare capitolo della storia dell’arte. info tel. 055 294883; www. unannoadarte.it Mantova AMORE E PSICHE La favola dell’anima U Palazzo Te e Palazzo San Sebastiano fino al 10 novembre 2013

Nell’ambito della valorizzazione di Palazzo Te, la Fondazione DNArt ha studiato un progetto che, attraverso l’esposizione, ripercorre il tema dell’anima ricercandone le tracce simboliche e archetipiche nell’arte. Le opere archeologiche e artistiche dislocate negli spazi della residenza gonzaghesca accompagnano il visitatore alla riscoperta del mito di Amore e Psiche. Il progetto acquista un ulteriore valore simbolico, in quanto proprio a Palazzo Te si trova la sala di Amore e Psiche, affrescata da Giulio Romano per Federico II Gonzaga tra il 1526 e il 1528. Per la mostra sono confluiti a Palazzo

Te e al Museo di Palazzo San Sebastiano reperti archeologici e opere d’arte di maestri tra cui Tintoretto, Auguste Rodin, Salvador Dalí, Tamara de Lempicka. info tel. 0376 323266; e-mail: biglietteria.te@ comune.mantova.gov.it venezia Leonardo da vinci, l’uomo universale U Gallerie dell’Accademia fino al 1° dicembre

Per la prima volta, dopo trent’anni, la mostra offre l’occasione di vedere esposto l’intero fondo di eccezionali fogli autografi del maestro di Vinci, conservato nella raccolta grafica delle veneziane Gallerie dell’Accademia dal

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agenda del mese 1822. Si tratta di 25 opere grafiche, di norma mai visibili al pubblico, affiancate per l’occasione da altri 27 preziosi fogli, frutto di prestigiosi prestiti di musei italiani e stranieri. I disegni del fondo veneziano, il piú consistente in Italia tra quelli pubblici che custodiscono grafica leonardiana, rappresentano un excursus che, partendo dal 1478 al 1516,

documenta l’intero arco della produzione artistica e delle ricerche scientifiche del genio vinciano, con studi di proporzione, natura, armi, guerre, ottica, architettura, fisica, meccanica e disegni preparatori per dipinti: la Natività, l’Ultima Cena, il Cristo portacroce e la Sant’Anna. info tel. 041 522247 oppure 041 5200345; www.gallerieaccademia.org

le opere d’arte nate per arricchire sia i palazzi pubblici fiorentini, sia gli edifici sedi delle Arti, cioè le antiche corporazioni dei mestieri, o delle magistrature, e addirittura la cerchia di mura cittadine. Temi come l’araldica e la religione civica, legati ai luoghi emblematici della città come il Palazzo dei Priori e Orsanmichele, offrono dunque una nuova chiave di lettura che sottolinea l’importanza delle immagini nella comunicazione e nella propaganda delle fazioni che governavano in età comunale e repubblicana, prima che l’ascesa dei Medici modificasse profondamente l’assetto politico ed estetico del capoluogo toscano. info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it

Firenze

New York

Dal giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento U Galleria dell’Accademia fino all’8 dicembre

tesori medievali da Hildesheim U The Metropolitan Museum of Art fino al 5 gennaio 2014

Protagoniste dell’esposizione sono

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La cattedrale tedesca di Hildesheim, inserita nella lista del

Patrimonio dell’Umanità nel 1985, custodisce uno degli insiemi piú preziosi di arredi liturgici medievali d’Europa. Poiché la chiesa è attualmente in restauro, una cinquantina di quegli oggetti sono stati concessi in prestito al Metropolitan Museum e sono cosí visibili per la prima volta al di fuori dell’Europa. Il percorso espositivo si apre con la figura di Bernardo di Hildesheim, vescovo e poi santo, che ebbe un ruolo di primissimo piano nella committenza artistica

del Medioevo: a lui si devono le monumentali porte bronzee della stessa cattedrale di Hildesheim, nonché numerosi oggetti destinati al suo monastero benedettino, alcuni dei quali sono ora esposti a New York. Nelle sezioni successive il racconto si amplia e viene ripercorso lo sviluppo dell’arte e dell’artigianato artistico all’indomani dell’anno

Mille, che ha un momento di particolare fioritura agli inizi del XIII secolo, quando Hildesheim si afferma come uno dei centri piú importanti, a livello europeo, nella lavorazione del bronzo. info www.metmuseum.org Trento Sangue di drago squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio U Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014

Organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, che l’ha già ospitata con successo, la mostra abbraccia un arco cronologico compreso tra l’antichità e l’Ottocento, e, grazie a opere di scultura, pittura, architettura e disegno, racconta il mondo animale, frutto delle fantasie e delle paure dell’uomo. Ricca di postazioni multimediali e filmati, la rassegna è inoltre arricchita da una sezione, allestita a Riva del Garda, dal titolo «Mostri smisurati» e creature

fantastiche tra i flutti, che espone un ristretto ma importante nucleo di opere prevalentemente cinquecentesche aventi per tema creature fantastiche e animali mitici che, nell’immaginario antico, abitavano le acque dei laghi e dei mari. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www. buonconsiglio.it Ferrara Zurbarán (1598-1664) U Palazzo dei Diamanti fino al 6 gennaio 2014

Insieme a Velázquez e Murillo, Francisco de Zurbarán fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un’eredità duratura nell’arte europea. A rendere unico lo stile del pittore fu la sua capacità di tradurre gli ideali religiosi dell’età


barocca con invenzioni grandiose e al contempo quotidiane, plasmando forme di una tale essenzialità, purezza e poesia, da toccare profondamente l’immaginario moderno. La rassegna è l’occasione per ammirare per la prima volta in Italia i capolavori di uno dei massimi interpreti dell’arte barocca e della religiosità controriformista. Il percorso espositivo, scandito in sezioni cronologico-tematiche, evidenzia il talento del pittore nell’imporre un registro innovativo a generi e temi della tradizione. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune. fe.it www.palazzodiamanti.it ecouen Un’aria di Rinascimento. La musica nel XVI secolo U Musée national de la Renaissance fino al 6 gennaio 2014

Posta tra la musica medievale, che copre un periodo di quasi otto secoli, e quella barocca, ormai ben conosciuta dai melomani, la musica rinascimentale non era mai stata protagonista di una mostra importante come quella presentata ora a Ecouen. L’esposizione permette di scoprire gli strumenti e i repertori tipici di questo periodo, le condizioni materiali in cui veniva eseguita la musica e il suo ruolo sociale, simbolico e politico, grazie a un centinaio di opere che riuniscono strumenti

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musicali, spartiti, trattati, dipinti, incisioni e disegni, oltre a oggetti artistici. Il percorso affronta quattro temi essenziali per consentire un’immersione totale nella musica rinascimentale: musica sacra, tradizioni e mutamenti; musica profana ed evoluzione della pratica strumentale; ritorno all’Antico; fasti di corte (danze, feste, ingressi trionfali). info www.museerenaissance.fr

punti di forza attraverso i quali approfondire nuovi percorsi di interpretazione critica. Questa rilettura di Antonello da Messina non offre solo la ricerca della collocazione cronologica delle opere, l’analisi dei rapporti con i maestri a lui contemporanei, delle similitudini e delle differenze, ma è concentrata anche su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un artista «non umano», come lo definí il figlio Jacobello, che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche piú intime dell’esistere.

successo a Firenze, in Palazzo Pitti, sbarca a Parigi la mostra che celebra il legame tra il Rinascimento e il sogno, ideata proprio perché il grande movimento artistico e culturale nacque appunto dal sogno di una nuova vita, e attribuí ai sogni, nonché alla loro interpretazione e rappresentazione, un’importanza straordinaria: nella vita politica e sociale, grazie alla rinascita delle pratiche divinatorie; nella letteratura, sia in prosa che in poesia (Francesco Colonna e Rabelais, l’Ariosto e il Tasso, la Pléiade e d’Aubigné…) e nei dibattiti medici e teologici, in particolare durante la terribile caccia alle streghe che imperversò in Europa dal XV al XVII secolo. Tentare di dipingere l’onirico, come avevano già fatto gli artisti

vera e propria arte. info www.louvre.fr

medievali, seppure in un contesto diverso, significa quindi, superare in piú modi le frontiere dell’arte, ampliandone considerevolmente l’ambito di espressione e conferendole nuovi poteri. info www. museeduluxembourg.fr

info numero verde 800 397760; e-mail: info@mart.trento.it, infogruppi@mart.trento.it; www. mart.trento.it

Rovereto

PArigi

Antonello Da Messina U Mart fino al 12 gennaio 2014

Le origini della stampa nell’Europa del Nord (1400-1470) U Museo del Louvre, Aile Sully fino al 13 gennaio 2014 (dal 17 ottobre)

Il progetto espositivo propone un’indagine articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento e sul suo tempo, attraverso lo studio degli intrecci storico-artistici e delle controversie ancora aperte, presentati in questa sede come

repertorio assai variegato dei temi di volta in volta illustrati. Le stampe cominciarono a circolare rapidamente in tutta l’Europa, avendo tuttavia come principale centro di irradiazione la Germania, e la mostra si concentra su un periodo di circa settant’anni, dalle prime realizzazioni fino agli inizi dell’attività di Martin Schongauer, incisore renano il quale contribuí in maniera decisiva a far sí che anche la stampa si affermasse come una

La comparsa della stampa è un fenomeno di primaria importanza nella storia dell’arte occidentale: a partire dal XV secolo, infatti, artisti e incisori possono sperimentare tecniche diverse, che consentono l’impressione di una matrice su di un supporto e la conseguente creazione e diffusione di opere che possono essere realizzate in esemplari multipli. L’esposizione parigina riunisce un’ottantina di opere, che propongono un

PArigi il rinascimento e il sogno. bosch, veronese, el greco... U Musée du Luxembourg fino al 26 gennaio 2014 (dal 9 ottobre)

Dopo essere stata presentata con

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agenda del mese zurigo Carlo Magno e la Svizzera U Museo nazionale fino al 2 febbraio 2014

Le innovazioni introdotte da Carlo Magno (741–814) sono tra i fondamenti della nostra cultura ed è questo uno dei motivi ispiratori della rassegna che il Museo nazionale di Zurigo dedica al grande imperatore, a 1200 anni dalla sua morte. In un momento in cui lo spazio economico, politico e culturale europeo lotta

per mantenere la coesione interna, una mostra sul periodo di Carlo Magno acquisisce un’attualità inaspettata: fu proprio il sovrano carolingio a riunire sotto un unico impero parti dell’Europa occidentale, orientale e meridionale. Oggi i rappresentanti delle relative nazioni discutono quasi ogni settimana, nell’ambito dell’Unione Europea, sulla conservazione dell’unità europea. Carlo Magno, primo imperatore del Medioevo, ha introdotto molte riforme, le cui basi rimangono attuali. La sua riforma scolastica rappresenta

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una strada da seguire. La scrittura da lui promossa è la base dei nostri caratteri tipografici. Grazie a lui sono stati tramandati testi di autori antichi e, di conseguenza, il loro sapere. La sua riforma monetaria è la base del nostro sistema moderno. E le sue costruzioni palatine hanno dato impulso all’edilizia in pietra. Ha rafforzato il cristianesimo in Occidente, fissato la liturgia, rivisto la Bibbia, costruito monasteri e disciplinato la vita dei monaci. Non a caso, Carlo è l’unico sovrano del Medioevo europeo ad avere ricevuto l’appellativo di Magno quando era ancora in vita. L’interesse attorno alla sua persona, al suo dominio e alle conquiste culturali del suo tempo perdura fino a oggi. La mostra illustra come le sue riforme abbiano inciso sull’istruzione, sulla fede e sulla società, e quali innovazioni vanno rilevate nell’arte e nell’architettura. L’esposizione, inserita nel contesto europeo, è incentrata sul patrimonio culturale della Svizzera odierna risalente all’epoca di Carlo Magno. info www.nationalmuseum. ch (anche in lingua italiana)

milano Leonardo3. il Mondo di Leonardo U Sale del Re fino al 28 febbraio 2014

Allestita in piazza della Scala, all’ingresso della Galleria, la mostra, interattiva e multidisciplinare, è dedicata a Leonardo artista e inventore e alle sue macchine ingegnose. Sono presentate oltre 200 macchine interattive in 3D, oltre a ricostruzioni fisiche dei diversi congegni, molti inediti e mai ricostruiti dopo Leonardo, realizzati nel rispetto del progetto originale. Tra gli altri, possiamo ricordare: la clavi-viola, il leone meccanico, il cavaliererobot o la bombarda multipla. Tra le esperienze interattive in 3D vi sono le anteprime del Codice Atlantico in edizione completa, con oltre 1100 fogli consultabili digitalmente. E, nella sezione Leonardo a Milano, è compresa una stazione dedicata al Cavallo gigante, ovvero al monumento a Francesco Sforza, che svela anche come avrebbe potuto essere l’opera completa. info tel. 02 794181; e-mail info@leonardo3. net; www.leonardo3.net, www.facebook.com/ leonardo3museum

Appuntamenti siena Scopertura del pavimento figurato del Duomo di Siena U Duomo fino al 27 ottobre

Il tappeto di marmo del Duomo senese torna a offrirsi all’ammirazione del pubblico.

Il pavimento «piú bello… grande e magnifico» mai realizzato, secondo la definizione di Giorgio Vasari, è il risultato di un programma iconografico realizzato dal Trecento fino all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie furono disegnati da importanti artisti, quasi tutti «senesi», fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, oltre che da pittori «forestieri», come l’umbro Pinturicchio. Contemporaneamente continua l’apertura straordinaria de «La Porta del Cielo», i sottotetti della Cattedrale. Giunti sopra le volte stellate della navata destra inizia un itinerario riservato a piccoli gruppi che, accompagnati da una guida, possono camminare «sopra» il sacro tempio e ammirare gli interni del Duomo e gli esterni della città. Attraverso le vetrate dal tamburo

della cupola, si può inoltre osservare il pavimento da una prospettiva diversa da quella abituale. Nel periodo della scopertura, le visite guidate al Pavimento e quelle alla Porta del Cielo vengono effettuate anche in notturna. I due percorsi sono aperti infatti tutti i sabati, fino al 26 ottobre, dalle 20,00 alle 24,00. info e prenotazioni tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

milano Cenacolo vinciano. aperture straordinarie u Cenacolo Vinciano 15 novembre, 6 dicembre e 20 dicembre

Fino al prossimo dicembre, grazie a Eni, per cinque venerdí, le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il

capolavoro. Le visite guidate al Cenacolo Vinciano sono in programma dalle 19,30 alle 22,30. La prenotazione è gratuita, ma obbligatoria (vedi info). info tel. 02 92800360; www.cenacolovinciano.net ottobre

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protagonisti liutprando di cremona

di Furio Cappelli

Missione

a Bisanzio Sul finire del X secolo, la tensione tra l’impero d’Occidente e Bisanzio è altissima: Ottone I invia a Costantinopoli il vescovo di Cremona, Liutprando, ma l’accoglienza riservata dal sovrano bizantino Niceforo II all’illustre ambasciatore non è delle migliori. Come racconta lo stesso presule in una cronaca dai toni decisamente pungenti...

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oi non siete Romani, siete Longobardi!». Niceforo II Foca, il sovrano di Costantinopoli, aveva indirizzato la sprezzante sentenza all’ambasciatore di Ottone I di Sassonia, dopo una lunga sequela di offese, il cui bersaglio era il misero esercito al servizio di colui che, ai suoi occhi, era solo un sedicente imperatore. Il vescovo Liutprando di Cremona, inviato da Ottone I (re di Germania e, dal 962, sovrano del Sacro Romano Impero) a Costantinopoli come ambasciatore, invitato a parlare della potenza politica e militare del suo signore, aveva risposto in modo misurato e veritiero, ma Niceforo, all’epoca «vero e unico imperatore romano sulla faccia della terra», non aveva dubbi: quell’ammasso repellente di crapuloni non poteva essere definito un esercito, né, tantomeno, un esercito imperiale. Quei soldati erano incapaci di stare a cavallo e persino impacciati nel combattere a piedi, per la pesantezza e l’ingombro dell’armamento. Erano solo imbattibili nell’ingordigia e la tavola era il loro vero campo di battaglia. Queste erano le forze di terraferma. Quanto alle forze sul mare, Ottone non poteva fare affidamento su una

A sinistra ritratto del generale bizantino Niceforo II Foca (912-969), acclamato imperatore romano d’Oriente nel 963. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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A destra valva di dittico che ritrae l’imperatore Ottone I con la moglie Adelaide e il figlio Ottone II, che rendono omaggio a Cristo. X sec. Milano, Castello Sforzesco. ottobre

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protagonisti liutprando di cremona Islanda, Groenlandia

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Sacro Romano Impero

T E R R A N E O

ZIRIDI

Incursioni e invasioni nel IX e X secolo Espansione scandinava Spedizioni musulmane Ungari Peceneghi e Uzi

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CRETA CRETA

Tripoli T i li

Alessandria Alessan ndriaa

FATIMIDI

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CANATO DEI BULGARI Bulgar B Bulg lga gar DEL VOLGA

flotta. Costantinopoli, invece, contava su una grande potenza, sulla terra e sulle acque, e presto Ottone sarebbe stato spazzato via da un profluvio di milizie, innumerevoli come le stelle in cielo o le onde del mare. Quel discorso risulta pronunciato a tavola, il 7 giugno 968, nel triclinio del Sacro Palazzo di Costantinopoli. L’ambasciatore di Ottone I, relegato a quindici posti di distanza da Niceforo per evidenziare la scarsa importanza che gli veniva attribuita – per giunta in un settore della mensa sfornito di tovaglia –, aveva dovuto subire un pasto alquanto lungo e «osceno», con pietanze condite in modo eccessivo, con fiumi d’olio e con una innominabile sostanza estratta dalle interiora dei pesci. A tanta smodatezza, degna di un convito di ubriachi, si univano i ghigni e le ingiurie del sovrano.

Romani dalle origini «turpi» Don

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CAZARI Tmutaracan GEORGIA

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I

Un vescovo «protorazzista»? L’opuscolo di Liutprando contiene indubbie esagerazioni, sia per quanto riguarda il ritratto caricaturale di Niceforo, sia la kafkiana rievocazione dell’ambiente. Benedetto Croce, nel 1936, ravvisa nelle parole del vescovo una pagina di «preistoria» del razzismo; eppure la pelle scura del «negus» Niceforo, paragonato a un etiope che ci si augura di non incontrare nottetempo, o la purezza dei Latini contrapposta alla corruzione dei Greci, non riflettono un’ideologia o un clima generale di ostilità e di diffidenza. Simili toni, infatti, prendono corpo e ragion d’essere in una situazione ben determinata, condizionata dallo stato di guerra, tanto che lo stesso Liutprando mostra un approccio diametralmente opposto nella precedente Antapodosis (La restituzione), opera in cui rievoca la missione del 949 a Costantinopoli, affidatagli dal marchese d’Ivrea Berengario II e in occasione della quale fu accolto con grandi onori da Costantino VII.

DA

Cesarea esarrea r re

La replica di Liutprando, però, fu lucida e spiazzante. Egli infatti si mostrò fiero della sua discendenza barbarica. Come il suo nome suggerisce, d’altronde, doveva essere proprio di stirpe longobarda. Ebbene, per Liutprando l’appellativo «romano» equivaleva a un insulto. Romolo, il fondatore dell’Urbe, non era forse un fratricida nato da un adulterio, che aveva congegnato un covo di criminali, tra cui un buon numero di assassini, schiavi in fuga e debitori insolventi? Questa turpe brigata era alle radici della romanità. Gli stessi imperatori antichi erano nati da quel seme. Longobardi, Sassoni, Franconi e quant’altri, facevano bene ad attribuire l’epiteto di «romano» a un nemico, bollandolo in tal modo come pregno di tutti i vizi del mondo. Se, poi, Niceforo non avesse mutato atteggiamento, cosí da dover dare la parola alle armi, sarebbero stati i fatti a dire se gli «imbelli» Longobardi valevano davvero meno dei «potenti» Bizantini (che amavano tanto definirsi «Romani»). L’episodio di cui abbiamo appena riferito è tratto da un brillante opuscolo scritto dallo stesso Liutprando nei primi mesi del 969, a ridosso degli eventi narrati. Nota

il giudizio degli storici

SIRIA SIR IA

A sinistra miniatura raffigurante l’ingresso trionfale di Niceforo II a Costantinopoli, dall’edizione manoscritta della Synopsis Historiarum di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. Alla morte di Romano II, fu acclamato imperatore dai soldati a Cesarea (963), ma sanò l’usurpazione sposando l’imperatrice vedova Teofano, reggente per i giovanissimi figli coeredi dell’impero Basilio II e Costantino VIII.

Damasco D Damasc co co Gerusalemme

Il Cairo

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protagonisti liutprando di cremona

come Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli, l’opera ci è giunta solo grazie alla preziosa trascrizione condotta nell’anno 1600 da Enrico Canisio su un codice oggi perduto, già conservato presso la biblioteca del duomo di Treviri. Sin dalle prime righe, indirizzate ai propri sovrani – gli Ottone padre e figlio e l’imperatrice Adelaide –, il vescovo di Cremona si propone di illustrare dettagliatamente le ragioni dell’insuccesso della propria missione, mettendo in primo piano i modi oltraggiosi con cui è stato accolto, la ripugnanza di Niceforo e del suo stesso ambiente. Lo splendore del rituale e la maestà del sovrano che tanto avevano colpito Liutprando nella precedente ambasceria del 949 erano ormai un lontano ricordo. All’arrivo, il 4 giugno 968, Liutprando si ritrova davanti alla Porta d’Oro sotto una pioggia battente, appiedato, perché non si consente che cavalchi in pompa magna per le vie della città. A lui e alla sua comitiva viene assegnata una specie di prigione: un ampio e scomodo palazzo di pietra assai lontano dalla corte, freddo d’inverno e asfissiante d’estate. Manca l’acqua e ogni richiesta va rivolta dietro moneta sonante a un custode direttamente fornito dall’inferno, che fa le creste sugli acquisti e propina quanto ci sia di piú avvilente, a partire da un vino allungato con pece, resina e gesso.

In alto ancora una miniatura dalla Synopsis di Scilitze raffigurante il vittorioso assedio di Niceforo a Chandax (Candia). XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

In basso Istanbul, l’interno di S. Sofia. Liutprando, nella Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli, narra con toni sferzanti l’ingresso di Niceforo II nella basilica.

Un «pigmeo con la faccia da porco»

L’incontro col sovrano avviene tre giorni dopo, la mattina di Pentecoste (a pranzo si svolgerà il discorso ricordato all’inizio). Niceforo è un mostro che viene dalla Cappadocia, «un pigmeo con la testa grossa», gli occhi piccoli degni di una talpa, una «faccia da porco» inghirlandata da una fitta chioma di capelli, il collo piccolo, la carnagione scura (secondo lo storico bizantino Leone Diacono, olivastra, ma bruciata dal sole nel corso di tante campagne militari), vestito di una vecchia tunica finissima di lino, sudicia, ingiallita e consunta, con ai piedi i calzari che andavano di moda a Sicione ai tempi degli antichi Greci, «arrogante nel parlare, volpe per l’ingegno, Ulisse per lo spergiuro e la menzogna!». A un primo colloquio segue il solenne ingresso in S. Sofia, nella proverbiale cerimonia della proeleusis («pro-

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cessione»). Lungo il percorso che va dal Sacro Palazzo alla Grande Chiesa è penoso vedere la gente che fa da ala al corteo, adorna di umili scudi e giavellotti e in larga parte sopraggiunta a piedi nudi, in ossequio al sovrano, mentre gli stessi nobili in veste da parata sono ridicoli, poiché hanno addosso capi ormai lisi a forza di essere usati. Il coro saluta in chiesa Niceforo come la Stella del Mattino, ma agli occhi di Liutprando un simile omaggio è grottesco: come si fa a paragonare al pianeta Venere, che annuncia la luce dell’alba, un «carbone spento» che cammina come una vecchia? Bisanzio e l’impero d’Occidente erano in rotta per la sovranità sul Mezzogiorno italiano. Su consiglio dello stesso Liutprando, Ottone I aveva sospeso le operazioni militari in Puglia, come segno di buona volontà, e proponeva un’alleanza matrimoniale come pegno di una «pace eterna» tra gli imperi. A suo figlio Ottone II Niceforo poteva offrire in sposa la figlia del defunto imperatore Romano II (959-963) e della consorte Teofano. Si trattava però di una proposta inaccettabile già solo da un punto di vista protocollare, perché la principessa era

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«porfirogenita»: appena nata, infatti, era stata avvolta dai preziosi ed esclusivi tessuti tinti di porpora che erano prerogativa degli eredi di un legittimo sovrano (che a sua volta aveva assunto il potere come erede diretto della dinastia regnante). La principessa, quindi, non poteva essere data in sposa all’erede di un re qualunque, quale era Ottone, nonostante la sua ingenua pretesa di essere riconosciuto come imperatore.

Ravenna e Roma a Bisanzio?

Una proposta del genere, per essere seriamente vagliata, avrebbe richiesto una contropartita ingente: tutta l’Italia, a partire da Ravenna e da Roma, sarebbe dovuta rientrare nell’orbita di Bisanzio. Cosí si pronunciò un collegio di alti funzionari e di consulenti presieduto dal prefetto Leone, fratello di Niceforo. Liutprando ignorò in blocco una tale follia, glissò sulla vessata questione del titolo imperiale, e controbatté che si era verificato un precedente significativo: ammesso che Ottone fosse solo un re, nel 927 il ben meno potente Pietro, zar dei Bulgari, non poté forse impalmare Maria, la figlia del

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protagonisti liutprando di cremona Simboli e metafore

La doppia natura dell’asino selvatico L’episodio della visita di Liutprando alla riserva di Niceforo (vedi a p. 39) introduce un’ampia riflessione. Una sentenza dell’Anticristo, libello profetico scritto in greco dall’antipapa Ippolito, condannato all’esilio in Sardegna nel 235, suona cosí: «Il leone e il leoncino, uniti, stermineranno l’onagro». Rapportandolo alla situazione del suo tempo, cosí Liutprando interpreta il vaticinio: Ottone I («il leone») e suo figlio Ottone II («il leoncino») «stermineranno l’onagro, cioè l’asino selvatico Niceforo, che non a torto è paragonato all’animale, data la sua vanagloria e il suo incestuoso matrimonio con la propria signora e comare». L’accusa di incesto derivava dal fatto che Niceforo aveva fatto da padrino al battesimo dei figli di primo letto della moglie

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Teofano, i porfirogeniti Basilio II e Costantino VIII, figli di Romano II. Secondo una severa norma canonica, infatti, il padrinato fondava un rapporto spirituale che non avrebbe consentito l’unione carnale di Niceforo con la madre dei due figliocci. La lussuria e la «vanagloria» dell’onagro derivano poi dal De rerum naturis seu universo (842) dell’enciclopedista Rabano Mauro. Ma al di là della lettura moralistica, è interessante sottolineare come l’onagro funzioni in chiave negativa come simbolo di appartenenza etnica. Nativo della «selvaggia» Cappadocia, Niceforo è rappresentato da un animale esotico «rozzo» e irrequieto, mentre lo stesso onagro, sin dall’epoca preislamica, veniva considerato in Persia come simbolo di forza, tenacia e vigoria sessuale.

principe Cristoforo? La risposta fu secca e implacabile: era senz’altro vero, «ma Cristoforo non era porfirogenito». Suo padre, infatti, Romano I Lecapeno (920-944), era salito al trono come co-reggente di fianco al giovane sovrano legittimo Costantino VII (913-959). Un affronto si aggiunse poi all’atteggiamento intransigente di Niceforo. Nell’ennesimo convito a cui dovette partecipare, a Liutprando fu assegnato un posto di second’ordine rispetto all’ambasciatore dei Bulgari. Era la goccia che fece traboccare il vaso. Non solo lo zar di quel popolo poteva stabilire agevolmente una pace con il sovrano di Bisanzio, con tanto di nozze, ma il suo rozzo rappresentante, «rapato, sudicio e cinto di una catena di bronzo», poteva essere tranquillamente anteposto all’ambasciatore di Ottone. Liutprando abbandonò la tavola e fu rincorso da Leone e da Simone, un funzionario di palazzo. Inviperiti per il suo gesto plateale, si giustificarono adducendo il fatto che gli accordi di pace con lo zar Pietro imponevano di anteporre il messo dei Bulgari al messo di ogni altro popolo, e ingiunsero a Liutprando di rimanere a pranzo, confinato nella mensa riservata ai servitori. Il vescovo di Cremona sopportò il diktat senza battere ciglio, anche perché gli venne servito un capretto davvero squisito, cucinato con maestria, tale da cancellare

A sinistra castello di Qusayr Amra (Giordania). Pittura murale raffigurante un onagro, asino selvatico di cui Niceforo possedeva numerosi esemplari. Prima metà dell’VIII sec. Nella pagina accanto Magdeburgo, cattedrale, cappella del Santo Sepolcro. Statue forse raffiguranti Ottone I e la prima moglie Editha. XIII sec. ottobre

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d’incanto ogni malanimo. Quella pietanza veniva direttamente dalla tavola del «santo» imperatore: è l’unico momento in cui Liutprando ha un moto di riconoscenza e di ammirazione per l’odiato Niceforo.

Una maledizione rosso porpora

Fu la porpora, però, a costituire per Liutprando una vera ossessione. Fece da ostacolo alla sua proposta di pace, e innescò l’ennesimo spiacevole incidente. Trovandosi a Costantinopoli, vale a dire in uno dei maggiori centri di manifattura tessile del Mediterraneo, Liutprando si era prodigato a raccogliere un gran numero di drappi istoriati da riportare a Cremona, per impreziosire la sua cattedrale. Ne aveva acquistati molti e altri gli erano giunti in dono da amici che aveva in città. Quando finalmente si apprestava a ritornare a casa, in precarie condizioni di salute, dopo un lunghissimo soggiorno forzato che aveva rasentato la prigionia, dovette subire un ulteriore affronto. Nel corso di un incontro piuttosto teso con il patrizio eunuco Cristoforo, il 17 settembre 968, scaturito da una «sciagurata» lettera in cui papa Giovanni XIII aveva definito Niceforo «imperatore dei Greci» anziché

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«dei Romani», venne ingiunto a Liutprando di restituire cinque magnifici drappi tinti di porpora. Sete lavorate in tal modo potevano essere indossate solo dai piú alti dignitari, potevano essere prodotte solo negli atelier del Sacro Palazzo, e ne era vietata l’esportazione nel modo piú assoluto. Per i funzionari bizantini quelle sete erano destinate alla corte di Ottone, ma era impensabile che quel misero sovrano potesse fregiarsi della porpora dei Romani. In merito a tali stoffe, veniva dunque negata l’apposizione del bollo di piombo che permetteva alle merci di passare i controlli doganali. Il vescovo, comunque, avrebbe ricevuto il rimborso per le somme investite nell’acquisto dei beni sequestrati. Liutprando reagí vivacemente a questa imposizione. Fece appello al fatto che Niceforo in persona lo aveva autorizzato ad acquistare e a riportare in patria tutto quel che avrebbe gradito, ma gli venne ribattuto che il «santo imperatore» non intendeva con questo autorizzare l’acquisto di merci vietate. A nulla serví il riferimento alla precedente missione svolta per conto del marchese Berengario (in seguito re d’Italia), quando Liutprando era ancora un semplice diacono, nella cui

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protagonisti liutprando di cremona

Acquaforte seicentesca raffigurante Teofano che aiuta il generale Giovanni Zimisce a introdursi in città, affinché possa uccidere suo marito, Niceforo. Nella pagina accanto il probabile

occasione egli poté riportare stoffe migliori e in maggior quantità senza alcun controllo, e a nulla giovò l’aver sottolineato che i mercanti di Amalfi e di Venezia trafficavano in sete di tal fatta in gran numero. I funzionari ribatterono con fermezza. La differenza di trattamento era dovuta al fatto che all’epoca della precedente missione sedeva sul trono il mite Costantino VII, incline ad accattivarsi le simpatie di tutti, mentre Niceforo era un sovrano tutto d’un pezzo, che non faceva sconti a chicchessia. Quanto alla condotta dei mercanti italiani, si trattava di un intollerabile contrabbando, che sarebbe stato severamente punito: «Non lo faranno piú; saranno perquisiti accuratamente, e se verrà scoperta qualcosa del genere, il colpevole avrà tagliati i capelli e sarà ucciso a colpi di frusta».

Le ragioni di un soggiorno forzato

Come si è accennato, Liutprando fu costretto a soggiornare al cospetto di Niceforo ben oltre il necessario. L’imperatore, infatti, prometteva a vuoto che il suo ospite sarebbe stato presto congedato, e inanellava incontri e conviti in varie circostanze, rinnovando il proprio sde-

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trionfo dell’imperatore Giovanni I Zimisce nel ricamo in seta di origine bizantina noto come sudario del vecovo Günther. XI sec. Bamberga, Museo Diocesano.

gno nei riguardi di Ottone e insistendo a richiedere senza alcuna contropartita la propria sovranità sui territori detenuti da Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e di Benevento. In realtà, ogni questione era stata chiusa piuttosto repentinamente, e il soggiorno era tirato per le lunghe onde lasciare Ottone sulle spine, impedendo a Liutprando di diffondere prima del tempo notizie sulle alleanze e sulle manovre in atto. Niceforo, infatti, non si faceva remore ad accogliere alla luce del sole Grimizone, messo di Adalberto, re d’Italia (con il padre Berengario II), detronizzato da Ottone nel 952. Offrendosi come ostaggio nella fortezza bizantina di Bari, Adalberto si alleava con Niceforo stesso mettendo a disposizione il proprio fratello Cona con un contingente di armati. Dal canto suo, Niceforo inviava un cospicuo donativo per imbaldanzire quei mercenari, oltre a un esercito «raccogliticcio» al comando di un personaggio sessualmente ambiguo («una certa uomo»), forse prescelto proprio a dileggio del nemico Ottone. Nel mentre, Niceforo si preparava ad assalire la Siria con ben altro impegno. Liutprando non ha alcun inteottobre

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resse a ricordarlo, ma il nobile sovrano si era segnalato in molteplici occasioni come un condottiero di solida tempra. La sua ascesa al trono fu determinata da una formidabile serie di vittorie contro munitissimi presidi musulmani. Aveva riconquistato Creta, Cipro e la Cilicia, e ora le imminenti operazioni avrebbero segnato la caduta di Antiochia e di Aleppo. Gli elevati costi di siffatte imprese erano ricaduti sulla popolazione con ingenti prelievi fiscali. Le scorte alimentari erano state riversate sul mercato a prezzi insostenibili. Proprio alla vigilia dell’invasione della Siria, come lo stesso Liutprando attesta, la carestia era giunta a Costantinopoli. Frattanto, il 25 luglio 968, durante un convito in località Umbria, a diciotto miglia dalla capitale, Niceforo chiese a Liutprando se Ottone disponesse di riserve con animali di un certo interesse, come quegli asini selvatici (onagri) della Persia che il sovrano bizantino possedeva in gran numero, e di cui era molto orgoglioso. Visto che Ottone aveva alcune riserve, ma di siffatti animali non aveva mai sentito parlare, Niceforo invitò l’ambasciatore a visitarne una, in un posto d’altura. Liutprando vede i famosi onagri qua e là, in mezzo a gruppi di capre, e non è minimamente affascinato, anzi. Gli sembrano in tutto e per tutto volgarissimi asini domestici, come se ne vedono dovunque. Nel mentre gli si affianca un cortigiano di Niceforo e gli chiede le sue impressioni, aspettandosi elogi sperticati sul conto di quegli animali favolosi. La risposta del vescovo è portentosa: «Non ne ho mai visti di simili in Sassonia», intendendo con ciò che il suo signore Ottone ha visto asini di qualità di gran lunga migliore.

Due capre come regalo

Ma il cortigiano non coglie affatto l’ironia e prospetta al vescovo una succulenta opportunità: se Ottone farà il bravo con Niceforo, il sovrano bizantino sarà ben felice di donargli un bel numero di onagri, «e al tuo signore verrà non piccola gloria, perché possiederà quel che nessuno dei suoi predecessori vide neppure!». E Liutprando rincara la dose. Giura di aver visto al mercato di Cremona asini della stessa identica qualità, con l’aggravante che erano animali domestici, non selvatici, e nonostante questo si muovevano allo stesso modo, anche se la loro groppa era gravata dalla soma. Il cortigiano capisce che la proposta non è andata a buon fine. Non potendo far tornare Liutprando a mani vuote, Niceforo gli regala due capre.

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L’alleanza tra Niceforo e l’ex re italico Adalberto (che finirà i suoi giorni in Borgogna tra il 972 e il 975) aveva dato buoni risultati all’inizio. Il principe Pandolfo Capodiferro era stato tratto prigioniero a Costantinopoli e Capua era stata assediata. Tutta l’Italia meridionale sembrava passata sotto l’egida di Bisanzio. Ma l’arrivo dei rinforzi d’oltralpe aveva rinvigorito le truppe di Ottone: l’assedio di Capua fu tolto e i Bizantini, largamente impegnati sul fronte siriaco, subirono una dura sconfitta ad Ascoli Satriano (969). Frattanto la bellissima e spregiudicata imperatrice Teofano si invaghí del generale Giovanni Zimisce, ben piú prestante del taurino Niceforo, che morí avvelenato, nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 969. Il nuovo imperatore Giovanni intavolò una pace con Ottone in base a cui Pandolfo, nel frattempo liberato, poteva continuare a dominare su Capua e Benevento restando fedele al sovrano germanico, mentre la Puglia e la Calabria rimanevano sotto l’egida bizantina. Il matrimonio tra Ottone II e la principessa Teofano, celebrato nell’Urbe il 14 aprile 972 da papa Giovanni XIII, coronò degnamente l’accordo. La soluzione fu praticabile perché la sposa non era... porfirogenita. Si realizzava cosí quel che Liutprando aveva caldeggiato alla luce del suo insuccesso. Niceforo era stato tolto di scena e Ottone aveva fatto valere le proprie ragioni con la forza. Le sospirate nozze avevano finalmente avuto luogo, ma forse Liutprando, che nell’estate del 972 risulta già deceduto, di quella cerimonia non seppe nulla. F

Da leggere U Alessandro Cutolo (a

cura di), Liutprando da Cremona, Tutte le opere, Bompiani, Milano 1945 U Massimo Oldoni e Pierangelo Ariatta (a cura di), Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, Europía, Novara 1987 U Benedetto Croce, La

Germania che abbiamo amata, in La Critica, 34 (1936); pp. 461-466. U Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1993 U André Guillou, Filippo Burgarella, L’Italia bizantina. Dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia, UTET, Torino 1988

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storie ducato di spoleto

Il terzo

di Chiara Mercuri

incomodo In alto particolare dell’elsa di una spada longobarda, dalla necropoli di Nocera Umbra (vedi anche a p. 42). VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Sulle due pagine veduta di Spoleto, dominata dalla trecentesca Rocca Albornoziana e con il Ponte delle Torri (XIII sec.) in primo piano. Presa dai Longobardi, la città umbra divenne capitale di un ducato indipendente, che mantenne la sua autonomia per ben cinque secoli.

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L’irruzione dei Longobardi in Italia sconvolse un equilibrio basato, innanzitutto, sul potere dell’impero bizantino e su quello della Chiesa. In seguito, all’interno della stessa compagine germanica, si affermarono entità autonome, capaci di imporsi come veri e propri Stati indipendenti. Primo fra tutti il Ducato di Spoleto, che per cinque secoli rappresentò una robusta e duratura «spina nel fianco», proprio nel cuore della Penisola

L L’

invasione longobarda in Italia fu fulminea e sanguinosa. Come racconta lo storico Paolo Diacono (720 circa-799 circa) nella Historia Langobardorum, la comparsa dei Longobardi fu preannunciata «di notte, da segni terribili: spade di fuoco nel cielo, corrusche di quel sangue che fu poi sparso». Era l’anno 568. A quell’epoca, l’Italia era una provincia dell’impero bizantino, erede dell’impero romano. I Bizantini l’avevano riconquistata da appena quindici anni, dopo una lunga e difficile guerra contro i Goti, durata dal 535 e 553 (nota come guerra «greco-gotica»). I Goti erano stati sconfitti, ma l’Italia ne era uscita impoverita e spossata. I Bizantini avevano organizzato la difesa su una serie di roccaforti, ma quando videro che i Longobardi si

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apprestavano all’invasione, e che si trattava di un popolo intero (cioè dei guerrieri con le famiglie e i carriaggi, oltre ad alcune tribú alleate), compresero che non avrebbero potuto affrontarli in una battaglia campale e che sarebbe stato quasi impossibile fermarli.

Mercenari rissosi

I temibili guerrieri di origine scandinava, forti – secondo alcuni – di almeno 100 000 uomini, superarono le Alpi dal Friuli – la porta della Penisola in età altomedievale – e tracimarono senza ostacoli nella Pianura padana. Per i generali bizantini, i Longobardi non erano certo sconosciuti: se ne erano serviti come truppa mercenaria nelle guerre contro i Goti, ma, al termine delle operazioni, si era deciso di rinunciarvi a causa della loro natura

orgogliosa e rissosa. E cosí i Longobardi se ne erano andati portando con sé il ricordo di una terra ricca e fertile, e quasi indifesa. La loro pulsione guerriera e il senso di indipendenza erano accentuati dalla scarsa consuetudine con i costumi e le istituzioni romane. Le usanze longobarde erano, se cosí si può dire, ancora tribali. «I nefandissimi longobardi» – come li definí papa Gregorio Magno – scelsero quindi di dirigersi verso un’Italia depressa e spopolata, la quale rappresentava invece per loro una regione ricchissima, straripante di città e villaggi. D’altra parte essi giungevano dalla Pannonia (l’attuale Ungheria), terra contesa tra molti popoli – tra cui i temibili Avari –, già devastata nel secolo precedente dagli Unni di Attila.

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storie ducato di spoleto Di fronte alla minaccia longobarda, le guarnigioni bizantine cercarono di organizzarsi, asserragliandosi nelle città piú importanti e in alcune ridotte strategiche. La forza d’urto longobarda si manifestò da subito come un’ondata inarrestabile; le grandi città imperiali del Nord caddero una dopo l’altra: Aquileia, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano. Alcune guarnigioni riuscirono a resistere a Mantova, Padova e soprattutto a Pavia (all’epoca ancora Ticinum), che si preparò a subire un lungo assedio. Ma la difesa si rivelò valida solo dove esistevano guarnigioni consistenti e, soprattutto, cinte murarie efficaci. Alboino, il re longobardo, si mostrò magnanimo con le città che si arrendevano subito; cosí, tutti i centri che non avevano speranza di poter resistere a lunghi assedi si consegnarono pur di essere risparmiati.

Saccheggi ed espropri

Tuttavia, l’impatto dei nuovi padroni sulle strutture urbanistiche e istituzionali fu ovunque brutale: come già ricordato, i Longobardi erano meno romanizzati rispetto ad altri popoli germanici (Goti, Burgundi o Franchi). Nelle città, il potere veniva preso da piccoli gruppi di guerrieri, che stabilivano un governo assoluto e diretto:

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

le grandi proprietà venivano requisite, le istituzioni municipali sciolte, furono perpetrati saccheggi ed espropri di massa. Non vi era alcun interesse a stabilire rapporti con i maggiorenti locali, né con i religiosi, in quanto i Longobardi erano di fede ariana, e in alcuni casi persino pagana. Gli abitanti delle città e delle campagne furono considerati come bottino e preda, e quindi ridotti in una condizione di semilibertà. Ciò accadde, però, solo nella

Umbone di scudo decorato con una scena di combattimento (in alto) e spada in ferro con impugnatura in oro (in basso), dalla necropoli longobarda di Nocera Umbra (PG). VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Nella pagina accanto l’assetto geopolitico dell’Italia nel periodo in cui i suoi territori furono quasi interamente controllati dai Longobardi.


F r a n c h i

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fase iniziale, come effetto del primo impatto; e presto la situazione si stabilizzò. I Longobardi, infatti, non avevano alcuna necessità o interesse a decimare la popolazione romanza: non si trattava di una guerra etnica, né religiosa, ma di gruppi di guerrieri – spesso allevatori e contadini – che s’insediava-

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no in una nuova terra in qualità di proprietari con le proprie famiglie e con i propri servi. Il loro concetto di proprietà era però sinistramente esteso a investire anche le persone. I Longobardi si allocavano per grandi clan familiari, tendevano a stabilirsi nelle città e nelle aree di campagna, dando vita a piccoli

centri del tutto nuovi. Erano tutti «liberi», in quanto guerrieri; combattevano e portavano le armi, a differenza dei romanzi (cioè le genti di cultura neolatina, n.d.r.), i quali non potevano piú farlo dal tempo degli Ostrogoti. I loro capi – fossero re o duchi – erano acclamati con adunanze pubbliche,

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storie ducato di spoleto A sinistra il Duomo di Spoleto (S. Maria Assunta). La chiesa sorse nel XII sec., sopra il precedente edificio distrutto nel 1155 durante l’assalto di Federico Barbarossa. In basso i resti del teatro romano (I sec. a.C.), la cui scena è stata parzialmente inglobata dalla chiesa di S. Agata (XI sec.) e dal monastero delle Benedettine (XIV sec.), oggi sede del Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto la basilica di S. Salvatore, fondata nel VI-VII sec.

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elettive, a cui tutti i liberi potevano partecipare. Erano – per tradizione – estremamente insofferenti nei confronti delle autorità centrali, comprese le proprie. Anche se, quando – dopo tre anni di gloriosa resistenza – Pavia cadde, ciò non impedí loro di darsi un re e stabilire una corte proprio in questa città, facendone la capitale dell’Italia medievale. Il potere militare venne diviso tra i duchi, assoggettati al re pavese, ma non tutti alle stesse condizioni: mentre i duchi dell’Italia settentrionale subirono l’autorità del re di Pavia in modo diretto, altri rimasero assai piú autonomi, se non del tutto indipendenti. La gran parte delle truppe longobarde si era stanziata nell’Italia settentrionale, ma un pugno di guerrieri si era lanciato alla conquista dell’Italia centrale. Qui, a cavallo degli Appennini, aveva dato vita a una sorta di enclave germanica,

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a capo della quale era stato posto Faroaldo I, con il titolo di duca. Lo Stato creato da Faroaldo riconobbe l’autorità regia, ma si mantenne fieramente autonomo. A tal punto da perdurare per cinque secoli, ben oltre la dominazione longobarda in Italia (dal 569 al 1198, anno in cui passò, di fatto, sotto il controllo della Chiesa). In questo arco di tempo, esso fu lo Stato egemone del centro della Penisola, mantenendosi aggressivo verso i vicini e invincibile per motivi militari e strategici: questo Stato longobardo è entrato nella storia con il nome di Ducato di Spoleto.

Un vicino scomodo

Il territorio del Ducato comprendeva le attuali Umbria e Marche, buona parte dell’Abruzzo e l’intera Sabina. Ma la sua sfera d’influenza e d’intervento – come vedremo – fu assai piú vasta. La sua posizione gli consenti-

va d’infastidire e contrastare potenti vicini: confinava con i Bizantini di Ravenna, con i duchi di Toscana, con i territori laziali ch’erano dominio pontificio; e, a sud, oltre gli ardui passi montani, era contiguo a un ducato «gemello», anch’esso longobardo, quello di Benevento, incuneato nei possedimenti bizantini dell’Italia meridionale. Dopo il primo urto, infatti, a cui aveva fatto seguito il rovinoso crollo nell’area padana, i Bizantini si erano riorganizzati. Grazie ai rifornimenti via mare, erano riusciti a tenere il controllo delle aree costiere, anche del Nord. Soprattutto, possedevano le città principali della Penisola, e alcune delle zone piú popolose e sviluppate: Ravenna, Roma, Napoli e gran parte del Meridione. Calabria e Puglia erano greche, e continuarono a esserlo a lungo. I territori italiani ancora imperiali furono posti sotto il comando dell’esarca, insediato a Ravenna, nella «Romania» (la Romagna, cioè la terra dei Romani, ovvero dei Bizantini). Ciò comportò una profonda frattura – mai cosí profonda da mille anni – tra le diverse aree della Penisola: l’Italia padana e appenninica da un lato, quella costiera e meridionale dall’altro. L’Italia longobarda fu investita da una vera e propria rivoluzione socio-economica, culturale ed etnica. Si creò perfino una nuova gerarchia urbana, poiché emersero nuove città-capitali: Pavia, Cividale del Friuli, Lucca, Spoleto e Benevento, città che divennero protagoniste assolute dell’epoca altomedievale, quando in età romana erano state centri piccoli e modesti. I Longobardi ebbero un impatto fortissimo e peculiare nell’area padana – la «Lombardia» deve il nome ai nuovi arrivati –, ma il loro dominio, come si è visto, si estese da subito all’area appenninica, giungendo fino ai contrafforti della Basilicata, attraverso la creazione dei ducati di Spoleto e Benevento, la loro prima linea. Riguardo al Ducato spoletino, i suoi duchi organizzarono la propria corte nella piccola ma monumenta-

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storie ducato di spoleto

In alto l’interno della basilica di S. Salvatore, in cui si fondono elementi classici e medievali. VI-VII sec. A destra I santi Giovanni e Paolo varcano la soglia del Paradiso, particolare dell’affresco che ne raffigura il martirio, staccato dalla chiesa a loro intitolata. Fine del XII sec. Spoleto, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto.

le capitale, l’antica città romana di Spoletium, al riparo delle mura che avevano respinto i Cartaginesi di Annibale dopo la battaglia del Trasimeno, nel 217 a.C. La posizione della città permise ai duchi – prima a quelli longobardi, poi a quelli franchi e, infine, ai grandi feudatari germanici – d’influire sia sul soglio pontificio di Roma che sul trono regio di Pavia, riuscendo perfino a infastidire il seggio del Sacro Romano Impero.

Crocevia strategico

Spoleto, infatti, si trovava al centro dell’asse viario piú importante e percorribile dell’Italia altomedievale: la via Flaminia. Essa collegava Roma con Ravenna, le due capitali dell’impero tardo-antico. Da Ravenna poi, attraverso un prolunga-

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mento, si raggiungeva la via Emilia che portava a Milano, altra capitale imperiale. Oppure, passando attraverso altre popolose città padane, ci si poteva fermare a Piacenza, e deviare sulla via Iulia Augusta, verso Arles (nella Gallia meridionale), ca-

poluogo della prefettura del pretorio di Gallia e di Spagna. L’intero sistema viario tardo-antico era infatti basato su tali gangli vitali, ed essi si rivelarono ancor piú essenziali quando le altre articolazioni viarie divennero sempre meno praticabili. ottobre

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formidabile posizione naturale e, al contempo, era dotata di mura poligonali ancora mai espugnate. Spoleto si trasformò cosí da municipium romano in un fortilizio invincibile piantato nel cuore della Penisola. Sotto la guida del fondatore, Faroaldo I, il Ducato spoletino mostrò subito la sua natura aggressiva, capace di mettere a profitto la propria posizione geografica: Faroaldo invase la Marsica, si spinse verso Roma – fermandosi a Orte – e attaccò Classe, il porto di Ravenna, mettendolo a ferro e fuoco. Già nel 601, il Ducato raggiunse l’Adriatico, conquistandone il litorale. Il Summus et Gloriosus Dux Langobardorum, seppur formalmente soggetto al re di Pavia, era di fatto indipendente. Governava attraverso propri ufficiali e funzionari, che spesso si sovrapponevano a quelli regi. Nelle città inviò i propri gastaldi, nei villaggi gli sculdasci, e nelle pievi rurali i decani (rispettivamente: responsabili del patrimonio fondiario; ufficiali che amministravano la giustizia; funzionari a capo della piú piccola circoscrizione amministrativa, la decania, n.d.r.). Era in grado di mobilitare un esercito di liberi, a cui però, quasi da subito – raccontano le cronache –, si unirono combattenti italici, forse provenienti dalle città, probabilmente arruolati tra artigiani e mercanti.

Un’integrazione limitata

Spoleto si trovava dunque lungo la dorsale di collegamento principale dell’Italia altomedievale, nel suo centro esatto: tra Ravenna e Roma, tra l’esarca di Costantinopoli e il pontefice, le due istituzioni superstiti del mondo antico.

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La città, appoggiata sul fianco dei Monti Sibillini, controllava i passi appenninici che collegavano la valle del Tevere, la Valle Umbra e l’interno dell’Abruzzo. Individuarla come capitale ducale non fu quindi casuale: era difesa da una

Il potere rimase tuttavia sempre nelle salde mani dei duchi longobardi, che avevano assoggettato il territorio sottoponendolo a una giurisdizione strettamente militare. L’integrazione – in qualche modo inevitabile – vi fu e fu progressiva, ma non a livello di élite. Si trattò piuttosto di un processo di cambiamento, dal quale i due gruppi etnici uscirono trasformati: i Romani presero costumi, caratteristiche e usanze longobarde, mentre questi ultimi divennero concilianti con il diritto e la lingua dei Latini. Nel 703, trascorsi ormai circa centotrenta anni dalla creazione del Ducato, Faroaldo II, discenden-

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storie ducato di spoleto te del fondatore, annunciò la propria adesione al cattolicesimo, che avvenne in modo piú o meno contestuale a quella del resto del popolo longobardo (negli ultimi anni del VII secolo). La conversione segnò l’affacciarsi sulla storia dell’Italia medievale di un nuovo protagonista, di un attore potente: l’abbazia di Farfa. In occasione della cerimonia, infatti, il devoto Faroaldo II le concesse innumerevoli terreni e proprietà, forse per espiare la distruzione compiuta da un gruppo di Longobardi al tempo dell’invasione. Accanto all’abbazia si era poi insediata una comunità di guerrieri seguiti dalle proprie famiglie, una fara (com’erano chiamati tali nuclei dai Longobardi), da cui prese il nome il centro di Fara Sabina. Le donazioni ducali nei confronti di Farfa proseguirono a lungo, finché l’ascesa dell’abbazia non finí con il ritorcersi contro l’autorità degli stessi duchi. Anche per tale ragione Faroaldo decise di erigere una chiesa abbaziale piú vicina alla corte, S. Pietro in Valle, oggi una delle maggiori memorie longobarde dell’Italia centrale (vedi box qui accanto), dov’egli, spodestato dal figlio, finí i suoi giorni da monaco.

L’ora di Carlo Magno

I duchi di Spoleto, potenti e orgogliosi (Tedicio nel 763 si definí Gloriosus et Summus Dux Ducatus Spoletani), gestivano il potere in maniera fin troppo indipendente, tanto da subirne le conseguenze. I pontefici di Roma, e prima ancora gli esarchi di Ravenna, furono spesso costretti a chiedere l’intervento del re dei Longobardi affinché mitigasse l’aggressività dello Stato appenninico. Ma, nella seconda metà dell’VIII secolo, la vicenda storica del regno longobardo stava per volgere ormai al termine. I pontefici, resisi indipendenti da Costantinopoli, decisero di chiedere la protezione e l’intervento dei Franchi di Carlo Magno. Il re dei Longobardi, Desiderio, tentò di resistere all’ingerenza franca, ma costretto infine ad affrontare l’esercito nemico in una battaglia

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S. Pietro in Valle

Da romitorio a sacrario dei duchi L’abbazia benedettina di S. Pietro in Valle fu costruita da Faroaldo II, il duca che si convertí al cattolicesimo intorno all’anno 720. L’abbazia fu creata a poche decine di chilometri da Spoleto, presso Ferentillo, nella Valnerina, a circa 25 km da Terni. Secondo la leggenda, essa sarebbe sorta su un romitorio, nel quale avevano dimorato due eremiti siriaci, Giovanni e Lazzaro. Sempre secondo la leggenda, a Faroaldo II sarebbe apparso in sogno san Pietro, che lo avrebbe invitato a costruire una chiesa e un monastero in suo onore. Recandosi a caccia in Valnerina, Faroaldo avrebbe individuato in un piccolo oratorio sorto accanto alla grotta nella quale avevano dimorato Giovanni e Lazzaro, il luogo per la sua fondazione. La leggenda da un lato simboleggia l’adesione dei duchi di Spoleto alla religione cattolica, dall’altro sottolinea come il sito scelto per la fondazione dell’abbazia «ducale» fosse già venerato dalla popolazione locale. Del resto la presenza di eremiti siriaci nelle montagne dell’area spoletina è ben documentata. L’individuazione del sito durante una battuta di caccia invece fa riferimento a un aspetto proprio della cultura longobarda, la caccia, esercizio tipico della casta guerriera, la quale prediligeva la – tuttora – selvaggia e boscosa Valnerina. La chiesa di S. Pietro in Valle divenne cosí un luogo di culto legato alla corte ducale. Ad aumentarne il prestigio concorse il fatto che lo stesso Faroaldo II, deposto dal figlio Trasamundo e costretto ad accettare la vita monacale, vi risiedette fino alla morte nel 728. Qui, l’ex duca fu sepolto in un sarcofago di età romana, tuttora visibile nella chiesa. Dopo di lui, furono numerosi i successori e i maggiorenti longobardi che lo scelsero come luogo di sepoltura, facendolo diventare una sorta di sacrario ducale. L’uso di riutilizzare pregiati sarcofagi di

Il chiostro (a destra) e una veduta generale (in basso) dell’abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo in Valnerina. Il monastero venne fondato nell’VIII sec. dal duca longobardo Faroaldo II, convertitosi al cattolicesimo, sul sito di un romitorio in cui avrebbero dimorato gli eremiti siriaci Giovanni e Lazzaro.

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storie ducato di spoleto età romana per dare sepoltura all’aristocrazia longobarda del Ducato, ha dotato S. Pietro in Valle della piú importante collezione di sarcofagi dell’Umbria. L’abbazia fu completamente ricostruita dopo il Mille, mentre la chiesa annessa conserva ancora tracce evidenti della cultura e dell’arte longobarda. Su tutto, la lastra marmorea dell’altare proveniente dall’antica recinzione del presbiterio, e realizzata al tempo del duca Ilderico (739-740), che presenta – caso eccezionale nel paesaggio artistico altomedievale – la firma dell’autore («Ursus Magester fecit»). La lastra mostra non solo la qualità dell’arte longobarda, nota anche per gli esempi friulani e lombardi, ma anche la peculiare sensibilità estetica, tecnica e simbolica legata all’eccezionalità dell’esperienza artistica longobarda in Italia. Molti decenni dopo l’insediamento nella Penisola, la rottura dell’arte longobarda rispetto all’arte greco-romana si mantiene evidente. Gli artisti longobardi, infatti, malgrado S. Pietro in Valle. Noè davanti all’Eterno, particolare di un affresco del ciclo con scene del Vecchio e Nuovo Testamento. XII sec.

vivano immersi in una diversa e piú ricca tradizione, ne restano impermeabili. Nelle sue peculiari connotazioni artistiche, S. Pietro in Valle si presenta come «la chiesa ducale» per eccellenza, la chiesa del potere laicolongobardo del Ducato. Gli altri prototipi di arte longobarda dell’area – S. Salvatore in Spoleto e il cosiddetto «Tempietto» sul fiume Clitunno –, sono invece esempi tipici di arte paleocristiana rivisitata e riattata in età longobarda a fini devozionali. Mentre l’altare di S. Pietro in Valle – in tutta la sua forza dirompente – presenta l’eccezionalità dell’esperienza culturale longobarda nel panorama tardoantico e medievale. Un suggestivo sentiero tra i boschi e i villaggi abbandonati dell’area lega tuttora l’abbazia alla città di Spoleto, lungo l’antica viabilità che la univa a Monteleone, difesa da un significativo sistema di castelli, fra le tre valli che tagliano l’Appennino centrale (la Valle Umbra, la Valnerina e la valle di Leonessa). Dopo la caduta della dinastia longobarda la chiesa e l’abbazia continuarono a essere oggetto di devozione, ma furono gravemente danneggiati nel corso di una delle incursioni saracene che il territorio subí alla fine del IX secolo. L’abbazia fu restaurata da Ottone III intorno al Mille, ma perdette poi progressivamente importanza. Significativi restauri – con l’apposizione di importanti cicli pittorici – furono eseguiti nel XII secolo, conferendole l’attuale aspetto. La chiesa è tutt’oggi visitabile. campale, a Susa, fu battuto. Carlo Magno entrò a Pavia e si fece nominare Rex Langobardorum. Mentre le truppe regie tentavano di resistere all’esercito di Carlo, Ildebrando, duca di Spoleto, optò per una decisione – per cosí dire – lungimirante: si recò a Roma con i suoi maggiorenti, e qui, come raccontano le cronache «lui e gli altri ottimati si fecero tosare i capelli alla foggia romana» (cioè corti). Nel costume longobardo, tipicamente germanico, alcuni elementi estetici erano propri del guerriero, indicavano il suo lignaggio, ne riflettevano l’orgoglio etnico. Tra questi vi era la folta capigliatura, che contrastava con quella adottata dagli Italici. Da un punto di vista simbolico, dunque, il taglio dei capelli stava a significare l’abbandono delle usanze germaniche e l’entrata nel costume roman-

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Lastra marmorea dell’altare maggiore dell’abbazia di S. Pietro in Valle, realizzata nell’VIII sec. dal maestro Orso, su commissione del duca Ilderico. L’opera, ed è un caso del tutto eccezionale, presenta la firma del suo artefice, «Ursus magester fecit», incisa in corrispondenza della figura che si vede sulla sinistra.

zo. Cosí, mentre l’Italia longobarda diventava carolingia, Ildebrando poté restare assiso sul suo trono con la benedizione del papa e quella, assai meno convinta, di Carlo Magno. Nonostante la conquista carolingia, i due ducati riuscirono dunque a restare indipendenti. Benevento, tramite funambolismi politici, divenne addirittura alleata dei Bizantini, egemoni nel Sud Italia. Spoleto riuscí a mantenersi autonoma sfruttando il fatto che sia l’imperatore, sia il papa, ambivano a rivendicare la giurisdizione sul suo territorio: tensione che durò a lungo, tra recriminazioni reciproche. A seguito della morte d’Ildebrando, però, il Ducato cadde nella disponibilità feudale dell’imperatore carolingio, che nominò un nuovo duca, scegliendolo tra i suoi guerrieri. I maggiorenti longobardi solo in parte furono soddisfatti: fu permesso

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loro di conservare intatte le cariche e le proprietà, ma dovettero accettare – primo di una lunga serie – un duca franco (vedi box a p. 53).

Confinanti agguerriti

Dopo l’800, il Ducato si trovò in una posizione estremamente difficile, non solo per le rivendicazioni territoriali del pontefice romano, ma anche per la presenza di confinanti agguerriti: i Longobardi del Ducato di Benevento; i Bizantini, desiderosi di rimettere piede nell’Italia centrale; i Saraceni, che erano riusciti a creare enclave fortificate tra Lazio e Campania. Il primo duca franco, Guinigisio, dovette destreggiarsi tra tali ostacoli, ai quali si aggiunse il comportamento di un suo potente feudatario, l’abate di Farfa, sorto come dal nulla sul suo territorio, che aveva preso ad atteggiarsi a potere indipendente.

Tuttavia, superata la fase di maggiore difficoltà, il Ducato poté trarre vantaggio, come altri grandi feudi italiani, dall’instabilità del potere imperiale. A seguito del declino dei successori di Carlo Magno, dalla metà del IX secolo, esso riacquistò la sua piena autonomia, e poté giocare un ruolo decisivo quando in Italia centro-settentrionale si andò costituendo un regno – con capitale l’antica Pavia – gestito dalla nobiltà italiana senza intermediazione imperiale (il Regnum Italiae di Berengario, dall’888, vedi «Medioevo» n. 186, luglio 2012). I duchi di Spoleto, insieme a pochi altri colleghi, tutti di stirpe franca – i duchi del Friuli, i marchesi d’Ivrea, i duchi della Tuscia – divennero a quel punto fondamentali per nominare (o spodestare) i re d’Italia. Una schiera di aristocratici che, per gelosia o desiderio d’indipendenza,

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storie ducato di spoleto Il Tempietto del Clitunno a Campello (PG), piccolo sacello a forma di tempio edificato tra il VII e l’VIII sec.

impedirono di fatto la nascita di uno Stato nazionale. Erano troppo ambiziosi per guardare alla sola Italia, e troppo invaghiti del trono (regio e pontificio che fosse) per permettere – come stava avvenendo in altre regioni d’Europa – che un’entità nazionale prendesse forma. Alcuni duchi di Spoleto, Guido II e il figlio Lamberto, riuscirono perfino a inserirsi nella convulsa lotta per il titolo imperiale, finché – grazie all’appoggio di pontefici da essi stessi nominati – poterono fregiarsi del prestigioso e vacillante titolo di imperatori del Sacro Romano Impero (891). Anche per i papi di Roma la prossimità con Spoleto si mutò spesso da salvifica in minacciosa: i duchi di Spoleto sottrassero piú volte la città al pericolo saraceno, giunto a minacciarla da vicino, ma, approfittando dei momenti di maggiore debolezza della sede pontificia, imposero sul trono di Pietro amici e parenti poco ispirati.

«Consoli di Roma»

Ciò fu particolarmente evidente all’epoca di Alberico I di Spoleto e di Marozia, quando, a seguito del prezioso contributo dato nella vittoriosa battaglia contro i Saraceni (Garigliano, 915), approfittarono per proclamarsi «consoli di Roma» e governarla come dominio personale. Fu la triste epopea dei Teofilatti (in particolare del figlio di Marozia, Alberico II), che si concluse solo con l’intervento di Ottone I e degli altri imperatori sassoni. Stanchi della ferocia e della conflittualità anarcoide dei principi italici, essi discesero in Italia e recisero per sempre l’indipendenza del suo regno e dei potentati locali, ristabilendo prerogative feudali anche sul Ducato. Dopo il Mille, Spoleto divenne un feudo imperiale come gli altri, andando di volta in volta in assegnazione al vassallo piú leale, in genere un principe tedesco. Tuttavia, la lontananza – fisica e politica

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– del feudatario favorí l’ascesa delle istituzioni comunali, che iniziarono a indebolire le prerogative feudali. Alla guida del Ducato si succedettero – a seguito di complesse transazioni ereditarie – anche grandi feudatari legati ad altri territori italiani, tra cui Matilde di Canossa. Il suo territorio si trovò cosí pienamente coinvolto nei conflitti intercomunali e nelle lotte tra pontefici e imperatori, le quali segnarono la

storia dell’Italia del XII e del XIII secolo. A causa di tali conflitti, intorno al 1100, l’unità territoriale e culturale del Ducato fu compromessa per sempre. Come nel resto della Penisola, le città – pur di diventare autonome rispetto alle contigue città egemoni o concorrenti – si proclamavano indifferentemente filo-imperiali o filo-papali, mentre all’interno delle mura cittadine le famiglie si scindevano tra fazioni ottobre

MEDIOEVO


tutti i duchi di spoleto

Da Faroaldo a Matilde di Canossa Nel 1801, l’abate Giancolombino Fatteschi, basandosi sul regesto di Farfa, stilò la Serie de’ duchi di Spoleto. L’elenco cronologico – in realtà solo parzialmente completo – che si presenta di seguito è tratto dal suo Memorie istoriche diplomatiche per la serie de’ Duchi e per la topografia de’ tempi di mezzo del ducato di Spoleto (Camerino, 1801). Si tratta di un documento estremamente interessante, anche se per la cronotassi scientificamente piú aggiornata si rimanda a I duchi longobardi, di Stefano Gasparri (Roma 1978). Accanto al nome del duca, nella lista del Fatteschi, è segnata la data d’inizio del suo governo. Per grandi linee, lo sviluppo del Ducato conobbe il seguente andamento: la fase longobarda, quella franca e quella feudale, in cui si ebbero figure legate ora al papato, ora all’impero. I duchi longobardi perdurarono dal fondatore Faroaldo I fino a Ildebrando (o Ildeprando). Nel 789, con Guinigisio (o Guinigiso o, meglio ancora, Winigis), ebbe inizio la serie dei duchi franchi. Tra essi vanno ricordati Guido II e Lamberto di Spoleto, che divennero re d’Italia (contro Berengario I), riuscendo anche a farsi nominare imperatori del Sacro Romano Impero (tra l’891 e l’898). A tale casa ducale succedette quella di Alberico di Spoleto che si legò – sposando la celebre Marozia – con la famiglia dei Teofilatti. Questa famiglia «governò» poi Roma e la sede pontificia per molti decenni del X secolo. Spesso unito con la Toscana o con Benevento (come nel caso di Pandolfo, duca beneventano, nel 967), dopo il Mille, con la ripresa del potere imperiale in Italia, il feudo fu spesso assegnato a principi germanici (lo era anche Vittore II, papa nel 1056). In tale fase vi furono frequenti coreggenze e complesse doppie o sovrapposte titolazioni, in genere per problemi ereditari, non sempre rintracciabili nell’elenco del Fatteschi. Una di tali eredità portò il Ducato nella disponibilità della celebre Matilde di Canossa, per tramite del marito Goffredo il Gobbo, che ne fu alla guida nel 1070. Il titolo ducale nemiche, tra guelfi e ghibellini. Per i Comuni d’Italia, da quel momento in poi, i nemici piú pericolosi divennero i «campanili» vicini, non piú i poteri forti ma lontani.

Lotte intestine

Anche le città del Ducato si rivoltarono contro Spoleto, che faticò a rimanere caput Umbriae. S’era aperta la difficile stagione delle autonomie comunali, si correva verso la fine del

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divenne anche una delle tante prede contese nella lotta che contrappose papi e imperatori. Dal 1198, di fatto, il feudo divenne patrimonio della Chiesa. DUCA

DATA

DUCA

DATA

Faroaldo Ariolfo ● Teudilapio ● Attone ● Trasmondo ● Faroaldo II ● Trasmondo II ● Ilderico ● Agebrando ● Lupo ● Aunolfo ● Alboino ● Gisolfo ● Teodicio ● Tasbuno ● Ildebrando ● Guinigiso ● Gerardo ● Suppone ● Adelardo ● Mauringo ● Acchideo ● Gerardo ● Escratone ● Berengario ● Guido ● Lamberto ● Suppone II ● Guido II ● Guido III ● Guido IV

569 591 602 660 663 703 724 739 740 745 753 757 760 763 770 773 789 820 822 823 824 826 829 834 836 843 867 871 876 880 894

A lberico onifazio B ●T eobaldo ●A scario ●S arlione ●O berto ●B onifazio II ●T rasmondo III ●P andolfo

897 922 929 938 940 942 945 960

● ●

mondo feudale. La Spoleto comunale mantenne e sviluppò – per atavico orgoglio – consuetudini di discendenza longobarda: l’uso di tenere le arringhe, assemblee dei cittadini (vestigia dell’adunanza dei liberi longobardi) nelle piazze principali, soprattutto di fronte al Duomo; la divisione dei quartieri cittadini in vaite, antico termine germanico per indicare i rioni; i launachil, consuetudine longobarda di assegnare ai

Capo di Ferro Landolfo ● Trasmondo IV ● Ugone ● Ademaro ● Romano ● Ranieri ● Ranieri II ● Ugone II ● Ugo III ● Papa Vittore II ● Gofferdo il Barbato ● Goffredo il Gobbo e Matilde ● Ranieri III ● Guarnieri ● Federigo ● Guelfo ● Bidelulfo ● Corrado Svevo ●

967 981 983 989 999 1003 1010 1014 1021 1036 1056 1057 1070 1082 1094 1134 1158 1168 1185

Comuni vicini o soggetti un drappo – o un berretto, o un anello – come segno di amicizia. Nonostante gli scontri interni tra città e fazioni, il territorio del Ducato continuò a fiorire, finché nel 1054, Federico Barbarossa decise di scendere in Italia per ristabilire l’autorità imperiale sui Comuni. Per Spoleto, a quel punto, orgoglio e ambizione si rivelarono fatali. L’imperatore germanico era in-

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storie ducato di spoleto tenzionato a «ricordare» alle città italiane la loro posizione giuridica di feudi imperiali, sottoposti a tassazioni, leggi e nomine imperiali. Dopo aver infierito in Italia settentrionale e a Roma, Barbarossa si accampò con i suoi cavalieri germanici a poche miglia delle mura di Spoleto. Pretese, come aveva fatto in altre regioni, il pagamento della tassa per il sostentamento dell’esercito, il foderum, segno di vassallaggio e riconoscimento di soggezione feudale. A tale richiesta, Spoleto rispose consegnando moneta falsa. Scoperto l’inganno, Federico minacciò gli Spoletini, ma essi, fiduciosi nelle loro mura possenti, risposero in maniera sfrontata, catturando alcuni tra i suoi funzionari. Non paghi, inviarono, nottetempo, una schiera di frombolieri e arcieri per tirare contro l’accampamento imperiale nella speranza di assassinare lo stesso imperatore. Secondo le cronache, destatosi nel cuore della notte, Barbarossa

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s’infuriò, scatenando le truppe contro i frombolieri, i quali – dopo aver resistito come potevano – ripararono dentro le mura. Cosí facendo si trascinarono dietro le avanguardie imperiali che dispiegarono tutta la propria forza per espugnare una delle porte e risalire verso il Duomo, posto a monte dell’abitato.

Una resistenza accanita

Gli Spoletini, che non si capacitavano di come gli imperiali avessero potuto oltrepassare le mura, si lanciarono in una difesa disperata: tentarono di fermare i nemici lungo le ripide stradine che ascendevano al Duomo e al palazzo comunale, cuore della città. La resistenza fu accanita, metro per metro, cosí da guadagnare tempo, affinché la popolazione potesse mettersi in salvo, fuggendo nei boschi del monte Luco, antistanti alla città. Di fronte a una simile reazione, l’imperatore cercò la prima linea e combatté co-

Un museo per il Ducato

Tesori nella Rocca Nel 2007 è stato aperto il Museo Nazionale del Ducato di Spoleto all’interno della Rocca Albornoziana di Spoleto, il suggestivo castello realizzato per volere del cardinale Albornoz nel XIV secolo. Il museo illustra le vicenda del territorio dalla tarda antichità alla costituzione del Ducato longobardo, fino ad arrivare al XV secolo. L’allestimento accoglie opere d’arte e materiali suddivisi in quindici sale. La collezione è composta principalmente da sarcofagi e iscrizioni funerarie provenienti dalle aree cimiteriali situate nei dintorni di Spoleto. Si possono ammirare anche notevoli mosaici pavimentali e decorazioni

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Museo Nazionale del Ducato di Spoleto Spoleto, Rocca Albornoziana piazza Campello Orario da aprile a ottobre: ma-sa, 9,30-19,30; do, 9,30-13,45; chiuso la domenica dalle 13,00 e il lunedí Info tel. 0743 223055

scultoree risalenti al VI secolo e frammenti scultorei appartenuti ad aule di culto di epoca longobarda e carolingio-ottoniana. Vi è anche esposta una ricca sezione pittorica

che documenta il periodo romanico, nonché tratti dello stile rinascimentale del XV secolo. Dal punto di vista architettonico, le opere piú importanti che presentano caratteri longobardi nel me un fante comune «con grande pericolo – dicono le cronache – per la sua stessa vita».

Un bagno di sangue

Fu una carneficina: la battaglia durò dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio, quando gli imperiali riuscirono finalmente a piegare la resistenza dei nemici. Durante il saccheggio, la città fu devastata dalle fiamme, scoppiate forse accidentalmente. Per la prima volta nella sua storia, Spoletium cadeva. Fu la sua fine. Il giorno dopo l’assalto – 28 luglio 1155 – Barbarossa decise di abbandonare la città a motivo «del puzzo di bruciato e la quantità di cadaveri in decomposizione che la impestavano». Come avvenne per altri Comuni, caduti vittima della furia imperiale In alto una sala del Museo Nazionale del Ducato di Spoleto, allestito nella Rocca Albornoziana. A sinistra rilievo con il martirio di san Biagio, dalla chiesa di S. Nicolò a Spoleto. XII-XIII sec. Spoleto, Museo Archeologico Nazionale.

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territorio spoletino sono: la chiesa di S. Salvatore e il Tempietto sul fiume Clitunno, ambedue inserite nel patrimonio protetto dall’UNESCO come vestigia della Italia Langobardorum. (si pensi a Milano, completamente distrutta nel 1162), Spoleto fu ricostruita, ma a differenza delle fiorenti città lombarde, non riuscí mai a risollevarsi e rimase sempre ancorata al ricordo di un irraggiungibile passato, piú che proiettata verso un futuro radioso. Appena qualche decennio dopo, nel 1198, essa si consegnò come un corpo senza vita a papa Innocenzo III. Segnò cosí non solo il proprio destino, ma quello di un’intera area dell’Italia: come i pontefici sognavano da secoli, il territorio del Ducato divenne la colonna vertebrale del loro dominio temporale, del futuro Stato della Chiesa, esteso dal Lazio fino alla Romagna. Un assetto che mantenne fino al Risorgimento, fino all’Unità d’Italia. Del Ducato longobardo, a parte qualche chiesa seminascosta tra i boschi dell’Appennino e il ricordo di una storia quasi leggendaria, non rimase piú nulla. F

Nei prossimi numeri ● Il Ducato di Benevento ● L’Italia normanna

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costume e società abiti da lavoro

Pochi

fronzoli di Sandra Baragli

per chi

sgobba «Dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei»: anche nei secoli dell’Età di Mezzo vestiti e accessori furono un chiaro segno identificativo della propria collocazione all’interno della società. Come confermano, oltre alle fonti scritte, le numerose e puntuali immagini miniate, dipinte e scolpite

L’

Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace. Particolare dell’affresco Gli effetti del Buon Governo in città e in campagna, di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Vi si vede una coppia di contadini vestiti dei loro semplici abiti da lavoro.

abbigliamento ha avuto, anche nella società medievale, una funzione «sociale», veicolando messaggi che molto dicevano sullo status della persona, sulla sua appartenenza a un gruppo e sulle sue condizioni sociali. Le classi dominanti dimostravano il loro prestigio e il loro potere anche attraverso le vesti, mentre diversa era la situazione dei ceti meno agiati: gli abiti da lavoro, che dovevano innanzitutto essere semplici e funzionali per permettere i movimenti, avevano soprattutto lo scopo di proteggere dalle intemperie. Per tutto il Medioevo, numerose sono le immagini di lavoro nei campi o di pastori, che prendono spunto soprattutto dagli episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, sia nell’arte monumentale – sculture, vetrate, affreschi, mosaici – sia nelle miniature, negli smalti, sui tessuti. Anche per lo studio dell’abbigliamento da lavoro, risultano di grande interesse le miniature con la rappresentazione dei mesi e, dal XII secolo, la diffusione del ciclo dei mesi in chiave monumentale, sia in pittura, sia in scultura, che ritrae i contadini nelle loro attività campestri nello scorrere delle stagioni, permettendoci di osservarne gli abiti e le attività (nonché gli attrezzi usati).

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costume e società abiti da lavoro Gli episodi biblici, i testi liturgici e i trattati tecnici sono anche l’occasione per rappresentare i mestieri artigiani (per esempio il cantiere edile nelle raffigurazioni della torre di Babele o il lavoro del falegname nelle rappresentazioni della costruzione dell’arca di Noè). Inoltre, con la nascita delle corporazioni e, a partire dal XII secolo, lo sviluppo delle città e il conseguente accrescersi dell’importanza delle attività artigianali e dei commerci, si diffuse sempre di piú l’usanza di raffigurare i lavoratori mentre svolgevano le loro attività (si pensi alle vetrate delle chiese donate dalle varie corporazioni, ma anche ai bellissimi Mestieri veneziani scolpiti come decorazione interna del terzo arco del portale maggiore di S. Marco a Venezia, o ai capitelli dei Mestieri di Palazzo Ducale, ancora a Venezia, solo per fare alcuni esempi) e i santi protettori delle varie professioni, con i loro strumenti.

Facio, santo e orefice

Segnale della nuova mentalità legata alla realtà cittadina dei secoli XII-XIII, che vide una rivalutazione progressiva del lavoro – fondata sull’idea che fosse utile agli uomini come mezzo di salvezza –, fu, infatti, anche la comparsa di santi che non appartenevano piú soltanto al clero e alla nobiltà, ma erano anche laici usciti dal vivace mondo urbano e addirittura appartenenti al mondo del lavoro artigianale, come l’orefice In alto miniatura raffigurante la trebbiatura, dalla Bibbia Morgan (o Maciejowski), Libro di Rut. Metà del XIII sec. New York, Pierpont Morgan Library. A sinistra miniatura del mese di Febbraio, da Les Très riches Heures du Duc de Berry. Opera dei fratelli Limbourg, 1413 circa. Chantilly, Musée Condé. All’interno della capanna due contadini si scaldano al fuoco sollevando la tunica e scoprendo i genitali (gli indumenti intimi venivano raramente usati dai ceti umili).

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costume e società abiti da lavoro Particolare di un capolettera miniato raffigurante una scena di mietitura, dalla Great Bible, Libro di Rut. 1405-1415. Londra, British Library. I contadini indossano corte tuniche, rimboccate in vita; due di loro portano scarpe di cuoio, mentre un terzo, al centro, ha solo le calze, probabilmente suolate; per proteggersi dal sole usano cappelli di paglia. La figura femminile, che è appunto la biblica Rut, indossa una lunga tunica e ha il capo avvolto in un ampio fazzoletto.

Facio da Cremona, vissuto tra il 1196 circa e il 1272. Le fonti iconografiche non sono vere e proprie «fotografie» del passato: talvolta esse sono frutto di una visione personale dell’artista o del committente (in alcune opere le rappresentazioni delle classi popolari possono riflettere la visione sprezzante degli aristocratici) e possono risentire anche di esigenze dettate da necessità estetiche. Tuttavia, dettagli come il vestiario erano molto spesso rappresentati rispettando le fogge del momento (anche in relazione all’uso e all’occasione in cui veniva indossato), pur con probabili modalità combinatorie dovute all’immaginazione dell’artista, tanto che l’analisi degli abiti è stata utilizzata anche come elemento ausiliario nella datazione della produzione figurativa. Piú difficile, invece, per quanto riguarda gli abiti da lavoro dei contadini e delle classi popolari, è riuscire a definire le differenze regionali, del resto probabili, per mancanza di documentazione sufficiente. Insieme alle fonti figurative – che nel Trecento si moltiplicano e riflettono la variegata composizione sociale –, ai documenti di archivio, alle leggi suntuarie, alle testimonianze dei moralisti e dei predicatori

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– che si scagliano contro quanti si aggirano per le vie cittadine abbigliati con una stupefacente varietà di fogge e colori – numerose informazioni si possono trarre anche dalle novelle fiorentine del Trecento. Nelle storie di Boccaccio e Franco Sacchetti sono presenti tutti gli strati della società (mercanti, lavoratori della lana, statisti, prelati, cavalieri, artigiani, prostitute...) e vi si trovano informazioni sostanzialmente esatte sulla struttura socio-economica. Nelle novelle viene sempre sottolineata l’importanza dell’immagine nel delineare il ruolo sociale dell’individuo, soffermandosi nella descrizione delle vesti come fondamentale segno di identità personale e dell’appartenenza a un gruppo. Dante stesso è descritto dal Boccaccio (Trattatello in laude di Dante, XX) come «d’onestissimi panni sempre vestito in quello abito che era alla sua maturità convenevole».

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In genere, tuttavia, i pochi abiti (o corredi) conservati integri, i documenti scritti, le pitture e le sculture – le fonti piú utilizzate per ricreare un mondo ormai scomparso – rappresentano soprattutto le classi sociali piú abbienti, gli uomini piú spesso delle donne e dei bambini, il mondo urbano piú di quello rurale e il punto di vista delle classi dominanti. Anche per questo motivo (oltre alla mancanza di valore estetico e artistico, essendo spesso le vesti dei ricchi veri capolavori) è piú difficile ricomporre un quadro vivace delle vesti da lavoro.

La sobrietà (forzata) dei contadini

Il lavoro dei campi era quello maggiormente praticato per tutto il Medioevo. Le arti figurative offrono un panorama relativamente abbondante sulle vesti dei contadini, i quali possedevano in genere pochissimi abiti, ottobre

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A sinistra miniatura con alcuni apicoltori, dall’Exultet (manoscritto liturgico miniato in forma di rotolo di pergamena) di Bari. Inizi dell’XI sec. Gli uomini raccolgono il miele senza alcuna protezione: maschere e guanti comparvero solo alla fine del Medioevo.

prevalentemente di colore grigio o scuro, panni grezzi non tinti, di qualità mediocre e poco confortevole (come la canapa per la biancheria) spesso tessuti in ambito domestico, che adattavano alle esigenze di movimento dei lavori agricoli con semplici accorgimenti, come rimboccare nella cintura le falde della veste. Una miniatura francese della metà del Duecento, oggi conservata alla Morgan Library di New York (vedi foto a p. 59), mostra bene questa abitudine: la tunica dei contadini è rimboccata in vita con una sottile corda e, talvolta, lascia intravedere le brache. Le mutande – indumento già conosciuto ma disprezzato dai Romani e usato invece dai barbari – in età medievale spesso non erano usate dalle persone di umile condizione, come mostra, per esempio, la miniatura dedicata al mese di febbraio nelle Très riches Heures

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In alto tondo in vetro raffigurante l’annuncio ai pastori. 1325-50 circa. Londra, Victoria and Albert Museum. L’uomo in piedi porta una corta tunica, un mantello con cappuccio, calze e stivali; il pastore seduto è invece avvolto in una lunga e pesante tunica con cappuccio.

du duc de Berry, del 1413, dove i contadini, per scaldarsi meglio davanti al fuoco, mentre fuori si gela, si alzano le vesti mostrando i genitali (vedi foto a p. 58, in basso).

Un cappuccio per ombrello

L’abbigliamento tipico del contadino consistette in genere nella tunica a maniche lunghe, di lana grezza, o di lino, e nel grembiule, che copriva i fianchi e poteva essere utilizzato anche per contenere le sementi da spargere sul campo. Gli uomini potevano indossare anche calzoni trattenuti in vita da una cintura. D’inverno si usava il mantello, con o senza cappuccio, talvolta solo un coprispalle, di panno pesante o anche di pelliccia. Per coprirsi la testa, oltre al cappuccio, si indossavano anche berretti o cappelli di feltro. Il cappuccio serviva anche come protezione dalla pioggia, in

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quanto nel Medioevo non si usava l’ombrello (usato invece nell’antichità). Indumenti di questo tipo sono indossati dai pastori rappresentati su un piccolo cerchio di vetro del 132550 con L’annuncio ai pastori (vedi foto a p. 61): il pastore, in piedi, appoggiato al tipico bastone, indossa un corto mantello con cappuccio sopra una tunica corta, calze e stivali. Legata in vita, un’ampia borsa lavorata a intreccio. Le borse, di varie misure, erano un accessorio molto diffuso in tutte le classi sociali (con modelli preziosissimi nelle classi agiate) e molto rappresentato indosso ai contadini o ai pastori. Il pastore, seduto, mentre suona la zampogna, indossa una pesante, lunga, tunica con cappuccio legata in vita, calze e scarpe. Mantello con o senza cappuccio, cappello in testa, tunica corta, calze e scarpe allacciate alla caviglia, indossano anche In alto Worcester, Cattedrale. La raffigurazione del mese di Luglio, nella misericordia di uno degli stalli. 1379 circa. I tre contadini vestono secondo la moda dell’ultimo quarto del Trecento, con farsetto modellato sul busto e ampio cappello. A destra un’altra figura di contadino tratta dagli Effetti del Buon Governo in città e in campagna di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico.

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i due pescatori che raffigurano il mese di Febbraio (con il segno dei Pesci) sulla Fontana Maggiore di Perugia, opera di Nicola e Giovanni Pisano (1278). In estate, durante i lavori di mietitura del grano o raccolta del fieno, i contadini lavoravano in camicia, talvolta solo con le brache e si riparavano dal sole con cappelli di paglia, sotto ai quali portavano a volte fazzoletti di stoffa legati sotto il mento (come è rappresentato nella già citata miniatura della Morgan Library).

Calze con la suola

I piedi erano protetti da calzature di cuoio fissate alla caviglia, da calze suolate (all’epoca si usava cucire la suola direttamente sulle calze; un’abitudine da cui deriva il nostro termine «calzolaio») o anche da stivali che arrivavano fino a metà gamba; d’estate, talvolta, potevano invece anche essere scalzi (come spesso vengono rappresentati). Le donne indossavano in genere una tunica lunga e un grembiule, indumento sempre presente, in entrambi i sessi, per chi praticava lavori manuali. La veste, talvolta accompagnata da una sottoveste leggera (come ben mostra la miniatura del mese di febbraio nelle Très riches Heures du duc de Berry prima citata), e il grembiule, perlopiú bianco, potevano essere arrotolati in vita e legati, per agevolare i movimenti. Per ripararsi dal freddo, sulle spalle si portava uno scialle. In testa le donne indossavano spesso fazzoletti di lino ottobre

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A destra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Particolare dell’affresco del mese di Febbraio raffigurante un fabbro. Opera del Maestro

Venceslao. 1400 circa. Per proteggersi, i fabbri indossavano gambali molto spessi e grembiuli di pelle lunghi fino alle caviglie.

che raccoglievano i capelli e assumevano varie forme a seconda delle mode. In genere non venivano usati vestiti particolari o protezioni in funzione delle attività praticate; anche per quanto riguarda gli apicoltori, e solo alla fine del Medioevo, sono attestate rappresentazioni che li mostrano provvisti di maschera e spessi guanti di protezione; in precedenza sono sempre raffigurati senza alcuna protezione e a mani nude. Cosí, per esempio, sono quelli di un Exultet (manoscritto liturgico miniato, a forma di lungo rotolo di pergamena, che prende nome dalla parola iniziale dell’inno con cui si dà l’annuncio della Pasqua, n.d.r.) dei primi anni del Mille (vedi foto a p. 60), nel quale i tre apicoltori si accingono a raccogliere il miele con mani e volto scoperto, vestiti semplicemente con tunica e lunghe calze. Interessante, in questo caso, è anche l’attenzione riposta dall’artista nel rappresentare la tecnica di battere su di un peltro per indurre gli insetti a raggrupparsi sull’albero. Guanti di pelle di pecora erano usati dai muratori e lavoratori che usavano attrezzi pericolosi; e anche i pastori e i pescatori, d’inverno, usavano caldi guanti di pelliccia per proteggersi dal freddo.

Dalla tunica al farsetto

Nel corso del tempo è possibile osservare qualche cambiamento anche nelle semplici vesti dei contadini, che risentono anch’esse delle variazioni della moda: gli abiti delle classi popolari, infatti, erano confezionati ispirandosi alle mode signorili, anche se la penetrazione degli stili dell’abbigliamento tra una classe all’altra non era certo veloce neanche in città e passavano alcuni anni perché le classi umili potessero accedere ai nuovi capi. Inoltre i doni o i lasciti di abiti nuovi o usati, gli abiti dati in elemosina ai poveri e infine il commercio di indumenti usati permettevano la circolazione dei vestiti dei ricchi anche presso le classi non agiate. Cosí, nel Trecento, anche per i contadini, la tunica si fece sempre piú corta fino a essere sostituita dal farsetto, una giubba corta che, grazie a fibbie e bottoni (questi ultimi costituiscono una «novità» che apparve in Italia nel XIII secolo) aderiva al corpo. Una «misericordia» della cattedrale di Worcester (nei sedili degli stalli di un coro, le misericordie erano piccole mensole, applicate alla faccia inferiore del ripiano mobile del sedile stesso, affinché, una volta rialzato, questo venisse a trovarsi in posizione adatta per servire di appoggio durante il tempo in cui l’ufficio divino richiede di stare in piedi, n.d.r.), con il mese di Luglio, mostra tre contadini, nell’atto della mietitura, vestiti secondo la moda dell’ultimo quarto del Trecento, con farsetto ben modellato sul busto e ampio cappello

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costume e società abiti da lavoro per ripararsi dal sole (vedi foto a p. 62, in alto). Le gambe erano ricoperte da calze che, per comodità durante il lavoro, potevano anche essere arrotolate alla caviglia. Non tutti i contadini erano indigenti e alcuni potevano permettersi anche vesti di qualità migliore, con tessuti colorati, qualche fazzoletto di seta, fogge piú alla moda e, talvolta, anche qualche semplice gioiello d’argento o bronzo, come attesta il fatto che, già a partire dal XII secolo, furono emanate disposizioni per impedire loro di usare vestiti considerati troppo lussuosi, sia in Italia che in altri Paesi europei. Le provvisioni fiorentine del 1472, per esempio, probirono ai contadini che lavoravano la terra, alle loro mogli e alle loro figlie, di portare «per alcun tempo drappo di seta d’alcuna ragione», pur consentendo alle donne di indossare nastri e cordelle come decorazione degli abiti e del copricapo. Un’immagine bellissima dello svolgersi delle attività agricole nel paesaggio agreste è data dal grande affresco del Buon Governo realizzato nel 1338-1339 da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (manifesto ideologico dei Nove, la magistratura che all’epoca – dal 1287 al 1355 – guidava Siena e che aveva commissionato l’affresco). Grandioso esempio di rappresentazione di vita cittadina «ideale», gli Effetti del Buon Governo in città e in campagna ben raffigura il differenziarsi delle vesti a seconda del ruolo sociale ricoperto. Ciascuno con abito di taglio e tessuto differente: sgargianti e alla moda le vesti dei piú facoltosi (colorati e allegri gli abiti da ballo delle fanciulle, di un elegante bicolore l’abito del signore impegnato nella caccia col falcone; del resto i coloranti erano molto costosi ed esibire vesti colorate era segno di distinzione), incolori le

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vesti degli umili. In campagna, infatti, si indossano vesti grigie o bianche, a seconda dei tessuti: nei campi gli uomini mietono il grano vestiti con corte tuniche di lino protette dal grembiule, brache che arrivano al ginocchio e cappelli di paglia in testa (vedi foto a p. 56). Le donne indossano una lunga veste di lino fermata in vita, uno scialletto leggero e un copricapo di stoffa. Un porcaio indossa una tunica grigia, con l’orlo sfrangiato e abbottonata davanti; dal colletto appena slacciato fuoriesce un fazzoletto rosso (quasi un «prezioso» tocco di vanità, contro il quale, abbiamo visto, talvolta si schieravano i legislatori), in testa un telo legato in piú punti forma il copricapo. Calze grigie coprono le gambe e ai piedi calza scarpe di cuoio allacciate.

Il benessere stimola la creatività

Con lo sviluppo della città e dei commerci l’aspetto esteriore dell’individuo acquistò un rilievo crescente e l’abito espresse sempre di piú il suo potenziale di distinzione, individuale e di classe. Fu cosí che, con il mutamento economico e politico che caratterizzò la società dalla seconda metà del Duecento, si poté assistere a un moltiplicarsi di professioni e, di conseguenza, a un aumento anche delle fogge degli abiti. Nel già citato affresco sugli Effetti del Buon Governo in città, Ambrogio Lorenzetti rappresenta anche la bottega di un calzolaio (il maestro artigiano e i suoi garzoni sono rappresentati con i loro grembiuli da lavoro): sul banco sono appoggiate scarpe in lavorazione e scarpe tenute in forma, insieme ad alcuni attrezzi del mestiere; a una stanga infissa nella parete sono appoggiate le calze suolate. I piedi, oltre che dalle calze suolate e dalle

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Stili e tendenze

Variazioni della moda

In alto Prat, cattedrale di S. Stefano, Cappella dell’Assunta. Particolare dell’affresco di Paolo Uccello raffigurante la Nascita della Vergine in cui si vede una serva che indossa una gamurra (abito che si portava sotto la sopravveste) scollata, con maniche strette. 1435-1436. Nella pagina accanto sant’Eligio nei panni di fabbro, in una tavola delle Scene della vita di Sant’Eligio, opera di Lorenzo di Niccolò di Pietro Gerini. 1390 circa. Avignone, Musée du Petit Palais. A destra Treviso, S. Caterina. Particolare delle Storie di Sant’Orsola raffigurante il principe Eterio (a cui Orsola era stata promessa in sposa) che si sveste prima d’essere battezzato. Opera di Tommaso da Modena, 1355-1358.

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Nel corso degli anni le linee e le forme dell’abbigliamento, maschile e femminile, cambiarono notevolmente. Tra Due e Trecento le vesti femminili tesero a essere attillate e a creare un effetto di verticalità, con lunghi strascichi e lunghe maniche. Il vero cambiamento, tuttavia, si ebbe nell’abbigliamento maschile, quando, nel Trecento, si diffuse tra i giovani l’uso di usare indumenti corti (in particolare, come già accennato, il farsetto, un capo corto coprente il busto, poteva essere foderato e imbottito di bambagia e allacciato da una fitta abbottonatura), accompagnati da calze lunghe di panno, che mettevano in risalto il corpo; le calze dovevano aderire bene alla gamba e, per realizzarle, erano perciò necessari abili artigiani – i calzaioli –, che tagliavano con abilità un solo pezzo di stoffa (in genere si usavano i perpignani, stoffe di lana leggera), che veniva cucito dietro per tutta la lunghezza. Per tenerle ben tese, le calze erano poi assicurate al farsetto con lacci. Sopra a calze e farsetto si poteva indossare una sopravveste: la guarnacca – originariamente aperta ai lati – o la cioppa – detta anche pellanda o sacco, una sopravveste sia da uomo che da donna, di varia foggia, che poteva essere anche foderata di pelliccia o di seta – nelle classi sociali piú abbienti – ed era un abito «per di sopra» molto diffuso per l’inverno. Tale composizione – sopravveste, farsetto con calze a esso allacciate – è messa in evidenza nell’affresco dedicato alle Storie di Sant’Orsola di Tommaso da Modena, nel quale, in un particolare del Battesimo del principe inglese è rappresentato il protagonista della storia narrata mentre si spoglia, mettendo in evidenza

i vari elementi del vestiario, tra cui la biancheria intima (un lusso per i meno abbienti!; vedi foto in basso). Sopra la cioppa, in inverno, si poteva indossare anche il mantello. Le donne portavano gonnelle dette anche gamurre o socche (vesti che si indossavano sotto a una sopravveste); la gonnella, di solito in tessuto di lana, costituiva il capo-base dell’abbigliamento da lavoro invernale. Indossa una semplice gamurra scollata con maniche strette, la serva che rapida scende le scale per rifocillare, come d’uso, la puerpera dopo il parto, nell’affresco di Paolo Uccello con la Nascita della Vergine, nella Cappella dell’Assunta della cattedrale di S. Stefano a Prato (vedi foto a sinistra).

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costume e società abiti da lavoro scarpe, potevano essere protetti anche da zoccoli. Altri artigiani e negozianti sono rappresentati intenti al loro lavoro, vestiti con semplici tuniche protette dal grembiule, cosí come i muratori che lavorano su un’impalcatura, alla costruzione di una casa: tra di loro, come manovale, lavora anche una donna (le donne erano spesso presenti nei cantieri edili come manovalanza sottopagata), vestita con una tunica bianca legata in vita. Il grembiule, piú o meno lungo, caratterizza quasi sempre le persone che lavorano: anche sant’Eligio, ritratto nella sua veste di fabbro da Lorenzo di Niccolò di Pietro Gerini, in una predella del 1390 circa, è rappresentato con tunica, calze e grembiule all’interno di una tipica bottega medievale, con i vari attrezzi e ferri di cavallo appesi al muro e un mantice che soffia sul fuoco (vedi foto a p. 64). I fabbri e coloro che facevano lavori che necessitavano di protezione (maniscalchi, falegnami, ma anche i macellai) potevano indossare anche La bottega del sarto, miniatura dal Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV sec. Vienna, Nathionalbibliothek. Nel tempo si diffusero abiti anche molto costosi, che divennero segno di distinzione sociale, con fogge sempre piú elaborate.

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grembiuli di pelle o di lino molto spesso: un coprente grembiule di pelle lungo fino alla caviglia e appuntato al petto con una spilla protegge il fabbro rappresentato nell’affresco del mese di Febbraio di Torre Aquila a Trento, intento a lavorare con incudine e martello per forgiare un pezzo di ferro (vedi foto a p. 63).

Il «farsetto bianchissimo» di Cisti

Un’immagine tratta da un Tacuinum sanitatis della fine del XIV secolo, ci introduce invece nella bottega di un sarto intento a provare l’abito appena cucito al proprio cliente (vedi foto in questa pagina). Se per l’esercizio potevano bastare l’ago, il ditale, il filo e le forbici, qui ben in mostra sul tavolo da lavoro (accanto ai due garzoni all’opera), l’imporsi di fogge sempre piú elaborate rendeva necessaria abilità e conoscenza del mestiere per accontentare una clientela esigente e ricca per la quale i sarti crearono abiti sempre piú stretti e costruiti. Il completo piú indossato dagli artigiani era costituito da farsetto e grembiule, gli stessi che caratterizzano Cisti, il fornaio protagonista di una novella del Decameron, che aveva «un farsetto bianchissimo indosso et un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali piuttosto mugnaio che fornaio il dimostravano» (Decameron, VI, 2). Gli artigiani piú ricchi, pur con un certo ritardo e con minori eccessi, tendevano a seguire le mode dei signori, mentre i meno abbienti indossavano abiti di aspetto modesto; in genere il guardaroba del popolo minuto era ridotto a pochi capi essenziali e – come riportano gli inventari dei beni appartenuti a poveri, contadini e donne di servizio negli archivi italiani, francesi e svizzeri – essi erano spesso anche «vecchi», «rattoppati» e «molto usati»: gli abiti erano per il popolo un genere troppo costoso per potersi permettere un cambio! Non dimentichiamo che farsi cucire un mantello, una cioppa, o una gonnella costituiva per molti salariati un fatto eccezionale: alla fine del Trecento, occorreva circa un mese di salario di un maestro muratore fiorentino, e quello di quasi due mesi di un manovale per farsene cucire uno. Non è un caso che Peronella, filatrice, protagonista di una novella di Boccaccio, moglie di un povero muratore, «guadagnando assai sottilmente», accenni al pericolo di dover impegnare «la gonnelluccia» e gli altri suoi «pannicelli» in caso di bisogno: «Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli, che non fo il dí e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio, che n’arda la nostra lucerna?» (Decameron, VII, 2). Le vivaci descrizioni delle novelle trecentesche, affiancate alle fonti figurative, ben rendono l’immagine anche dell’abbigliamento di alcuni professionisti: Sacchetti, per ottobre

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Miniatura raffigurante santa Elisabetta che fa esaminare a un medico le urine per sapere se è incinta, dalla Bibbia di Giovanni XXII. XV sec.

Montpellier, Musée Atger. Il dottore indossa la tipica sopravveste scarlatta, provvista dei batoli, le strisce di stoffa che ricadevano sul davanti.

esempio, si sofferma attentamente nella descrizione delle vesti per sottolineare l’ignoranza di Maestro Gabbadeo, un medico di Prato che «sempre portava una foggia (cappuccio) altissima, con un becchetto (fascia attaccata al cappuccio) corto da un lato, e largo che vi sarebbe entrato mezzo staio di grano, e con due batoli dinanzi che pareano due sugnacci di porco affumicati (cioè assai unti)» (Il Trecentonovelle, CLV). I «batoli», strisce di stoffa che ricadevano sul davanti, erano segni distintivi dei medici. Ne raffigura uno, intento a esaminare le urine di santa Elisabetta, una miniatura francese del XV secolo, (vedi foto in questa pagina): il medico, dall’aspetto austero, indossa, sulla tunica, una lunga sopravveste scarlatta con cappuccio e due strisce di stoffa che ricadono ai lati.

Abiti come uniformi

Medici, giudici e notai si distinguevano anche nell’abbigliamento; chi aveva un titolo dottorale, infatti, indossava la veste scarlatta, guanti e abiti lunghi, come ricorda ancora il Boccaccio (che non sembra avere avuto grande opinione dei medici, che riteneva boriosi e incapaci) in una novella: «Sí come noi veggiamo tutto il dí, i nostri cittadini di Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co’ panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co’ vai, e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedono anche veggiamo tutto il giorno. Tra’ quali un maestro Simone da Villa, piú ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò» (Decameron, VIII, 9) Nel complesso gioco delle apparenze che caratterizzarono la vita cittadina, l’abbigliamento «da lavoro» delle classi agiate era confortevole e di qualità, definendo non soltanto lo status economico della persona, ma la dignità e le funzioni di ognuno. Cosí Francesco Datini, impor-

tante e famoso mercante di Prato vissuto tra il 1331 e il 1410 (vedi «Medioevo» n. 198, luglio 2013), per le occasioni indossava vesti colorate (una cioppa «rosa vermiglio» foderata di vaio, oppure «paonazza» (viola) foderata di rosso, oltre a mantelli di vari colori e cappelli rossi), ma per lavorare indossava abiti foderati di bigio. F

Da leggere U Maria Giuseppina Muzzarelli, Guardaroba medievale, Il

Mulino, Bologna 1999 U Françoise Piponnier e Perrine Mane, Dress in the Middle Ages, Yale University Press, New Haven and London, 1997 (English Edition) U Laura Dal Prà e Paolo Peri (a cura di), Dalla testa ai piedi.

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Costume e moda in età gotica, Soprintendenza per i Beni Storico Artistici, Trento 2006 U Arsenio Frugoni, Chiara Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Editori Laterza, Roma-Bari 1997 U Luciano Bellosi, Moda e cronologia. B. Per la pittura del primo Trecento, Prospettiva, 11, ottobre 1977; pp.12-27.

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Didascalia aliquatur adi odis Padova, que veroCappella ent qui doloreium degli Scrovegni. Particolare dell’affresco della conectu rehendebis eatur controfacciata, tendamusam consent, con Enrico perspiti Scrovegni, committente proprietario conseque nisemaxim eaquisdella cappella earuntia cones stessa,apienda. nell’atto di offrire alla Vergine un modellino della chiesa. Gli affreschi furono eseguiti da Giotto, tra il 1303 e il 1305.

saper vedere

La Cappella degli

Scrovegni

di Chiara Mercuri, con contributi di Chiara Frugoni, Tomaso Montanari, Pietro Matracchi e Salvatore Settis

Inizia con questo Dossier una nuova serie dedicata alla «rilettura» delle principali realizzazioni artistiche e architettoniche del Medioevo. Prima tappa di questo percorso è il celebre capolavoro di Giotto con i suoi magnifici affreschi, le sue suggestioni senza tempo e... alcuni interrogativi irrisolti: su quali strutture poggia la cappella padovana, qual è la funzione della «cripta» sottostante, e perché, finora, non è stato mai evidenziato lo stretto legame che unisce il monumento al suo contesto urbanistico? La parola ad alcuni tra gli studiosi piú autorevoli in materia...


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a Cappella degli Scrovegni (intitolata a S. Maria della Carità) fu fatta erigere e affrescare, tra il 1303 e i primi mesi del 1305, dal ricco banchiere padovano Enrico Scrovegni, che, nel febbraio del 1300, aveva acquistato da Manfredo Dalesmanini la zona dell’arena romana di Padova. Qui fece costruire il proprio palazzo signorile, dotandolo appunto di una cappella privata. Nell’Ottocento, la famiglia dei Gradenigo, erede del ricco complesso, decise l’abbattimento del palazzo, ormai fatiscente e bisognoso di costosi restauri, e, nel contempo, intavolò trattative con il Victoria and Albert Museum di Londra per la vendita degli affreschi della cappella adiacente. Dopo aspre lotte intraprese contro i proprietari da un gruppo di cittadini illuminati, il Comune di Padova intervenne e, nel 1880, acquistò il piccolo gioiello dell’arte medievale, impedendo l’espatrio degli affreschi di Giotto. La piccola cappella palatina (lunga 29,26 m, larga 12,80 e alta 8,48), voluta come oratorio privato, doveva assolvere anche la funzione di cappella funeraria, come mostra l’insistenza nel testamento di Enrico affinché il suo corpo vi sia inumato, anche in caso di morte improvvisa, fuori dalla città. La stessa copertura a botte della cappella, dipinta d’un cielo azzurro trapuntato da piú di settecento stelle, suggerisce il richiamo alle volte stellate – metafora della notte eterna – dei mausolei ravennati.

Nel girone degli usurai

La famiglia di Enrico è stata oggetto nei secoli di una sorta di damnatio memoriae, sulla base del ritratto negativo che due noti contemporanei fecero del padre Rainaldo, presentato come usuraio. Il primo detrattore degli Scrovegni è il giudice padovano Giovanni da Nono, il quale parla di Rainaldo in maniera poco lusinghiera all’interno di un pamphlet velenoso sulla «Padova bene» del Trecento. Il secondo detrattore, ben piú famoso e influente del pri-

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mo, Dante Alighieri, pone Rainaldo nel settimo cerchio del terzo girone dell’Inferno, tra gli usurai. Dante non nomina direttamente Rainaldo Scrovegni, ma ne fa un ritratto inequivocabile, mettendogli in bocca la profezia della condanna di un altro padovano in vista (ancora vivente all’epoca della stesura della Commedia), Vitaliano del Dente. Questi era imparentato (oltre che con gli Scrovegni) con i della Scala, famiglia presso la quale Dante aveva trovato ricovero dopo l’esilio; l’acerrima inimicizia tra il ghibellino Cangrande della Scala

e la guelfa Padova dovette essere all’origine dell’antipatia dell’Alighieri per due tra i personaggi piú in vista della città. A peggiorare le cose, qualche decennio piú tardi, nel 1335, arrivò anche un’anonima cronaca redatta a Padova, che accentuava il profilo di Rainaldo in veste di usuraio. La prova della «mala» fortuna accumulata dagli Scrovegni, suggeriva l’anonimo, stava nel fatto che il figlio Enrico si sarebbe recato a Roma, presso il pontefice, per impetrare l’assoluzione dai peccati d’usura accumulati dal padre. ottobre

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L’interno della Cappella degli Scrovegni. Sulla sinistra, la parete Nord, con scene della vita della Vergine; sulla destra, la controfacciata, con il Giudizio Universale.

I prestiti concessi per ragioni di «pubblica utilità» non erano tuttavia osteggiati dalla Chiesa e dunque appare improbabile che Enrico sentisse la necessità di riscattare l’anima del padre. È infatti attestato che Rainaldo fu il grande finanziatore del Comune di Vicenza, mentre il figlio Enrico sostenne quello della natia Padova. A dimostrazione del fatto che sull’attività di erogatori di fondi degli Scrovegni non pendessero condanne canoniche vi è del resto la sepoltura in cattedrale dello stesso Rainaldo. Se fosse stato bollato come usura-

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io, non gli sarebbe stata accordata l’inumazione in terra consacrata, e men che meno in cattedrale.

Intenti autocelebrativi

La sollecitudine di Enrico nell’edificare e investire nella piccola cappella una somma spropositata di denaro non va dunque letta con finalità riabilitative agli occhi di Dio e della comunità cittadina, né è motivata dalla volontà di «ripulire» l’immagine dell’immensa ricchezza accumulata dal suo casato; essa è piuttosto riconducibile a un intento celebrativo di sé e della propria famiglia.

Dove e quando Cappella degli Scrovegni piazza Eremitani, 8 Orario tutto l’anno, 9,00-19,00; chiusura: Natale, S. Stefano, Capodanno; visite solo su prenotazione: Telerete Nordest, tel. 049 2010020 (lu-ve, 9,0019,00, sa, 9,00-18,00) oppure on line: www.cappelladegliscrovegni.it Info tel. 049 8204551

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Dossier Il giovane Scrovegni è deciso a continuare l’ascesa sociale intrapresa dal padre, il quale, anche grazie a una sapiente politica matrimoniale, ha trovato credito presso il ceto nobiliare cittadino. Rispetto al padre, Enrico non è piú preoccupato di riscattare le attività finanziarie della famiglia, è solo piú ambizioso. Abbandona, infatti, l’orizzonte locale delle relazioni paterne e si spinge alla conquista di spazi sempre piú ampi; frequenta e stringe alleanze con la classe magnatizia veneziana e col pontefice romano, e, a suggellare tali felici iniziative, arriva, nel 1301, il titolo di cittadino di Venezia «per meriti speciali», per sé e i propri eredi. Il fortunato connubio con la Chiesa è invece attestato dai munifici interventi a favore dell’edilizia religiosa cittadina: fa edificare a sue spese la chiesa di S. Gregorio e il monastero di S. Orsola; concede al Comune un prestito di 2000 libbre «sine aliquibus usuris» («senza alcun tasso d’interesse») per la costruzione del piú importante santuario

A destra pianta della città di Padova. XV sec. Padova, Biblioteca Civica. Nel riquadro è evidenziata l’area in cui sorge la Cappella degli Scrovegni. In basso particolare della statua di Enrico Scrovegni collocata nella sacrestia della cappella. 1305 circa.

cronologia

Per la maggior gloria di Enrico 1300 Enrico Scrovegni, ricco banchiere padovano, acquista il terreno un tempo occupato dall’arena della città romana, con l’intento di costruirvi un palazzo e una cappella. 1302 Il vescovo di Padova approva la costruzione della cappella intitolata a S. Maria della Carità, che sarà conosciuta come Cappella degli Scrovegni. 1303 Enrico affida la decorazione della cappella a Giotto (al quale alcuni riferiscono anche il progetto della cappella stessa), che la esegue tra il 1303 e il 1305. 1304 Papa Benedetto XI concede un’indulgenza di un anno e quaranta giorni a quanti visitino la cappella. 1305 Giotto porta a termine la realizzazione dei cicli affrescati con le storie di Cristo e della Vergine. Enrico Scrovegni ottiene da Venezia una reliquia di san Marco, cosí da incrementare l’afflusso dei fedeli alla sua cappella. 1880 Dopo aver rischiato l’abbattimento e la dispersione degli affreschi che la ornano, la Cappella degli Scrovegni viene acquistata dal Comune di Padova. 2000-2002 Gli affreschi della cappella vengono sottoposti a un intervento di restauro integrale.

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A destra acquerello di Marino Urbani nel quale si vedono il palazzo di Enrico Scrovegni, abbattuto nel 1827, che seguiva l’andamento curvilineo dell’arena, e la cappella, con la facciata dotata di un portico a tre archi. Inizi del XIX sec. Padova, Biblioteca Civica.

In basso l’esterno della cappella nel suo aspetto attuale.

cittadino, la chiesa di S. Antonio e la stessa costruzione della cappella dell’arena sembra rientrare in tale politica mecenatizia, finalizzata ad aumentare il proprio prestigio presso i concittadini.

Un affare d’oro

In quest’ultima impresa poi, Enrico può sfruttare un’occasione propizia: il nobile Manfredo dei Dalesmanini versa in una situazione di bisogno e gli Scrovegni ne approfittano per comprare il terreno dell’arena romana, centrale e prestigioso per i suoi resti archeologici. Qui, come già ricordato, fanno erigere la loro nuova dimora, dotandola di una cappella privata, che diverrà un vero e proprio status symbol, come lo sono, per l’epoca, i ricchi festini e i soldi messi a sostegno dell’edilizia cittadina. Per affrescarla, Enrico chiama il miglior pittore in circolazione, Giotto, già famoso per gli affreschi eseguiti ad Assisi dove il talentuoso fiorentino ha celebrato la vita e le virtú del santo piú acclamato del tempo. (segue a p. 76)

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Le pareti raccontano

Presentiamo, sulle due pagine, uno schema della distribuzione degli affreschi all’interno della Cappella degli Scrovegni. Registro superiore 1. Natività di Maria 2. Presentazione di Maria al Tempio 3. Consegna delle verghe a Simeone 4. Preghiera per la fioritura delle verghe 5. Sposalizio di Maria 6. Corteo nuziale di Maria 7. (Dio Padre affida a Gabriele l’annuncio a Maria; non illustrato)

8-9. (Annunciazione; non illustrato) 10. Cacciata di Gioacchino dal tempio 11. Gioacchino fugge dai pastori 12. Annunciazione di Anna 13. Sacrificio di Gioacchino 14. Sogno di Gioacchino 15. Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea

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Registro mediano 16. Gesú tra i dottori 17. Battesimo di Gesú 18. Nozze di Cana 19. Resurrezione di Lazzaro 20. Ingresso di Gesú in Gerusalemme

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Registro inferiore 29. Salita al Calvario 30. Crocifissione 31. Deposizione 32. Resurrezione 33. Ascensione 34. Pentecoste 35. Ultima Cena

21. Cacciata dei mercanti dal Tempio 22. (Tradimento di Giuda; non illustrato) 23. (Visitazione; non illustrato) 24. Natività di Gesú 25. Adorazione dei Magi 26. Presentazione di Gesú al Tempio 27. Fuga in Egitto 28. Strage degli innocenti 12

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36. Lavanda dei piedi 37. Bacio di Giuda 38. Gesú davanti a Caifa 39. Incoronazione di spine Nello zoccolo di sinistra vi sono quindi i sette Vizi capitali (40-46) e in quello di destra le sette Virtú (47-53). 15

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Qui sopra episodio del ciclo della vita della Vergine con la consegna delle verghe a san Simeone da parte dei suoi aspiranti mariti. Un annuncio divino aveva infatti fatto sapere che solo chi avesse ottenuto il miracolo di vedere fiorita una verga avrebbe potuto sposarla. L’ultimo del gruppo, con l’aureola, è Giuseppe.

La volontà di fare della propria cappella palatina un monumento innalzato al successo della propria famiglia ben si legge anche nell’immediato tentativo di Enrico di trasformarla in un polo cultuale cittadino, aprendola al pubblico. Egli non perde tempo e, per richiamare i fedeli, nel 1304, chiede e ottiene un’indulgenza di un anno e quaranta giorni per coloro che visiteranno la sua cappella nelle festività mariane: Nascita, Annunciazione, Purificazione e Assunzione. La bolla di Benedetto XI sancisce di fatto la trasformazione della cappella da privata in pubblica. Per attirare

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devoti non vi è nulla di piú efficace che garantire loro la parziale remissione dei peccati. Molti sono quelli che non possono permettersi il pellegrinaggio a Roma e per giunta il Giubileo si è concluso da pochi anni; cosí, in attesa del nuovo anno santo, la cappella di Enrico rappresenta per i Padovani un’alternativa efficace per prendersi cura del proprio destino ultraterreno.

I panni di san Marco

Una cappella prestigiosa doveva ospitare una degna reliquia e cosí, il 16 marzo del 1305, Enrico chiese al Gran Consiglio di Venezia parte dei panni di san Marco che gli vennero subito accordati. L’intento di richiamare la popolazione cittadina presso la cappella è anche attestato dal fatto che l’entrata principale si trovasse nella pubblica via. Un’entrata piú piccola, all’estremità della parete settentrionale, la metteva invece in comunicazione con il palaz-

zo di cui idealmente faceva parte. Il successo cultuale doveva infatti trasformarsi nella promozione della famiglia Scrovegni. I vicini frati eremitani l’avevano ben compreso, tanto che vollero contrastare l’impudente progetto d’Enrico. Attesero la morte dell’amico e protettore Benedetto XI, per mettere nero su bianco le loro rimostranze: a Enrico era stato accordato il permesso di costruire solo un piccolo oratorio a uso privato e con un solo altare, mentre egli aveva realizzato una sontuosa cappella dai molti altari, dotata, perfino, di un campanile. Gli Eremitani erano stati i primi a fare le spese di tale smodata ambizione: i fedeli disertavano la loro chiesa per recarsi nella vicina cappella dove in occasione delle festività mariane potevano lucrare l’indulgenza. A seguito delle proteste, il campanile venne abbattuto. La politica di Enrico subí una battuta d’arresto, ottobre

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A sinistra scena dal ciclo della vita di Gioacchino e Anna, genitori di Maria, con Gioacchino cacciato dal Tempio di Gerusalemme in quanto «maledetto dalla Legge», poiché sterile. A destra l’allegoria dell’Invidia, arsa nel fuoco, con la borsa del denaro e un serpente che esce dalla bocca, perfetta rappresentazione del desiderio per le cose altrui.

ma gli affreschi eseguiti all’interno della cappella poterono piú di ogni ostracismo, e gli valsero la fama nei secoli. Come è stato felicemente scritto: «La cappella degli Scrovegni e Giotto sono stati il migliore affare di Enrico» (vedi box a p. 84).

Gli affreschi

L’attribuzione a Giotto del ciclo, oltre che da motivi stilistici, è testimoniata dal poeta Francesco da Barberino, il quale soggiornò a Padova tra il 1304 e il 1308. Egli esalta la rappresentazione del vizio dell’Invidia dipinta da Giotto nella parete nord della cappella. Le scene si susseguono portando lo sguardo del visitatore dalla parete nord alla parete sud con andamento elicoidale, scendendo ogni volta di un registro fino ad arrivare alla teoria dei Vizi e delle Virtú che culminano nel Giudizio Universale della controfacciata. La narrazione comincia dalla

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parete di sinistra o Sud (guardando l’altare), e si compone di sei episodi che riguardano scene tratte dalla vita dei genitori di Maria, Gioacchino e Anna. Le loro storie non si trovano nei quattro Vangeli canonici, ma in quelli denominati «apocrifi», che, a partire dalla fine del Duecento, vennero ampiamente divulgati dalla Leggenda Aurea scritta dal domenicano Iacopo da Varazze. Certamente Giotto li conobbe per questa via, dal momento che la Leggenda Aurea fu una delle opere piú conosciute e copiate negli ultimi secoli del Medioevo. Essa raccoglieva le Vitae dei santi e, in piú occasioni, funse da base narrativa per i cicli pittorici bassomedievali. Secondo tale racconto, Gioacchino, divenuto anziano senza aver conosciuto la benedizione di un figlio, si reca presso il Tempio di Gerusalemme per portare l’offerta. Qui però viene scacciato in quanto sterile e dunque «maledetto dalla Legge».

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L’incontro tra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea di Gerusalemme. Le donne alle spalle degli sposi incarnano gli stati d’animo di Anna prima e dopo il concepimento: la figura in nero allude alla mestizia della sterilità, mentre quella in bianco è simbolo della rinascita alla vita di sposa e di madre.

Il Tempio è rappresentato in modo che si possa vederne l’interno e l’esterno: all’interno un sacerdote col filatterio sulla testa benedice un fedele; a far da contrasto a tale serena rappresentazione, all’esterno Gioacchino è invece scacciato. Ha il viso corrucciato e stringe tra le braccia l’inutile agnellino portato per il sacrificio. Nella scena successiva, Gioacchino non fa ritorno a casa, ma raggiunge i suoi pastori in un luogo sel-

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vatico e lontano, in modo da tenere nascosta la sua vergogna. Vergogna suggerita dallo sguardo basso che non incrocia quello dei pastori che invece si scrutano vicendevolmente con occhi interrogativi. A seguire vi è la scena nella quale Anna, rimasta sola, si aggira nella casa vuota, in cui viene visitata da un angelo che le annuncia l’arrivo di un figlio e il ritorno del marito. Fuori della porta della casa, è rappresentata un’ancella che fila e veglia.

I tormenti di Gioacchino

Nella scena seguente, Gioacchino – ancora tra i pastori – è visitato a sua volta da un angelo che gli dice di offrire in sacrificio ciò che gli è stato rifiutato al Tempio perché le sue preghiere saranno esaudite: avrà una figlia, alla quale dovrà mette-

re il nome di Maria, la quale, a sua volta, partorirà un figlio, il figlio dell’Onnipotente. Nel cielo blu è rappresentata la mano benedicente di Dio e, sopra l’ara su cui si vede lo scheletro dell’agnello bruciato, appare un angelo appena accennato. Nella scena successiva, Gioacchino, indeciso se tornare a casa o meno, si addormenta e sogna un angelo che lo esorta a tornare da Anna. Gli abiti da viaggio dei due pastori indicano che Gioacchino si accinge a partire. Segue l’incontro di Gioacchino e Anna presso la Porta Aurea di Gerusalemme. Dietro ad Anna, sta il gruppo delle amiche. Qui è rappresentata una singolare coppia: una delle donne è festante e vestita di bianco, mentre al suo fianco ve n’è un’altra vestita e velata di neottobre

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ro, quasi a simboleggiare i due stati d’animo di Anna prima e dopo il concepimento: la nera mestizia della sterilità e la rinascita alla vita di sposa e di madre. Nel registro mediano, sotto le storie di Gioacchino e Anna, si tro-

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vano cinque episodi legati alla vita di Gesú che si aprono con la Natività, a cui segue l’Adorazione dei Magi. Qui il mago inginocchiato (l’angelo gli tiene l’ostensorio d’oro portato in dono) sembra richiamare l’Enrico Scrovegni della controfaccia-

Episodio del ciclo della Vita e Passione di Gesú, con il tradimento di Giuda, rappresentato mentre stringe il Salvatore in un infido abbraccio e incrocia il suo sguardo un istante prima di baciarlo.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto particolare dello Sposalizio di Maria: Giuseppe, con in mano la verga miracolosamene fiorita, infila l’anello al dito della Vergine. A sinistra episodio della Passione: Gesú avvolto in una veste regale, è flagellato e insultato dai Giudei, mentre i soldati romani si tengono in disparte. Tale scelta riflette la tendenza dell’arte cristiana a colpevolizzare gli Ebrei, che si diffonde a partire dal XIII sec.

ta, il quale offre il modellino della cappella alla Vergine. Segue poi la Presentazione al Tempio di Gesú. Giuseppe reca le due tortore prescritte dalla Legge per cancellare l’impurità contratta da Maria attraverso il parto. Il vecchio Simeone (a cui è stato predetto che morirà solo dopo aver visto Cristo) prende in braccio il piccolo mentre, sulla destra, la

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profetessa Anna mostra un cartiglio su cui è scritto «Poiché costui sarà la redenzione del mondo», mentre con l’altra mano indica il bambino. Seguono la Fuga in Egitto e la Strage degli innocenti. In quest’ultima scena, tutti gli elementi architettonici sono ispirati, come nello stile di Giotto, alla città del Trecento: il palazzo comunale sulla sinistra (da cui vediamo sporgersi Erode), e il battistero sulla destra, riferimento anacronistico in quanto Gesú non è ancora stato battezzato da Giovanni e dunque il battesimo non è ancora stato istituito. Nel gruppo degli aguzzini, i Romani, vestiti con nobili costumi d’epoca imperiale, si discostano inorriditi dai Semiti, rappresentati in abiti vili e medievali, alla maniera di odiosi carnefici senza pietà che suscitano la disperazione delle madri piangenti.

Inversione di ruoli

Il XIII secolo rappresenta il tournant a partire dal quale l’arte cristiana insiste sulla colpevolizzazione degli Ebrei, sempre piú spesso raffigurati come torturatori, in particolare nel racconto della Passione, al posto dei Romani. Cosí come appaiono ebrei e comunque non piú soldati romani (secondo quanto riportato invece nei Vangeli), i protagonisti della farsa del «Re dei Giudei» seguita alla condanna di Pilato, come si può osservare nell’ultima scena del terzo e ultimo registro, dove di nuovo troviamo nel ruolo di carnefici gli Ebrei che sbeffeggiano il Cristo, mentre i Romani si tengono ai margini della scena con visibile sdegno. Nel terzo e ultimo registro, si svolge il racconto della Passione: dopo l’Ultima cena e il Lavacro dei piedi, troviamo la Cattura di Gesú, con Giuda che stringe il Salvatore in un abbraccio mortale. Celebre è lo sguardo serratissimo tra il tradito e il traditore, messo in risalto da una sapiente costruzione di linee che convergono sui volti dei protagonisti. A seguire, Gesú in giudizio da Pilato e in ultimo la scena della farsa del «Re dei Giudei», già citata. Al di sotto inizia il percorso del registro

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inferiore, costituito da sette allegorie a monocromo che simboleggiano le Virtú, le quattro cardinali – prudenza, forza, temperanza, e giustizia –, e le tre teologali: fede, speranza e carità. Ai lati delle storie troviamo infine le cornici: quadrilobi in cui si presentano scene tratte dall’Antico Testamento che precedono immagini del Nuovo, come loro prefigurazione. Nella parete destra o Nord, le storie di Gioacchino e Anna trovano il loro coronamento attraverso sei storie della vita della Vergine. Nella prima scena è raccontata la Nascita di Maria, nella seconda la Presentazione della bambina al Tempio. Si tratta dello stesso Tempio da cui era stato cacciato Gioacchino, visto però da un’altra angolazione. La rappresentazione della stessa struttura – secondo Chiara Frugoni – indica la piena riabilitazione di Gioacchino. Anna sostiene la piccola che sale pudica le scale del Tempio, mentre Gioacchino, ritratto nell’estrema sinistra con l’aureola, parla con un anziano con la barba e i capelli bianchi. In primo piano un servo è gravato da un pesante cesto contenente le offerte per il Tempio. Dalla terza alla quarta scena, viene raccontato il matrimonio della Vergine. Secondo il racconto della Leggenda Aurea, il sommo sacerdote del Tempio annuncia alle vergini ormai quattordicenni di tornare a casa per contrarre matrimonio. I giovani maschi sono invitati a tale scopo a portare le loro verghe nel Tempio come si vede nella terza scena, dove scorgiamo un Giuseppe timoroso. Nella scena successiva si osserva la preghiera per la fioritura delle verghe e a seguire lo Sposalizio di Giuseppe e Maria. Qui alle spalle di Giuseppe, un giovane alza la mano per colpire lo sposo. Ancora Chiara Frugoni vede in questa scena un riferimento esplicito a riti goliardici in uso nel Trecento, come indicano gli statuti comunali della città di Lucca, che vietano le percosse sulla testa durante gli «inanellamenti». Come riflesso delle consuetudini dell’epoca di Giot-

to va letto anche l’atteggiamento vergognoso e timoroso di Maria, ritratta secondo gli ammonimenti alle spose del poeta Francesco da Barberino. Nella sesta e ultima scena, Maria fa ritorno a casa seguita da sei ancelle e preceduta da due uomini maturi. La casa di Maria è rappresentata in festa come mostra un ramo fronzuto che sporge dal balcone e i musici che suonano.

La cacciata dei mercanti

Nel registro mediano si succedono sei scene tratte dalla vita di Gesú: la Predica tra i dottori, il Battesimo, le Nozze di Cana, il Miracolo di Lazzaro, l’Ingresso a Gerusalemme, la Cacciata dei mercanti dal Tempio. In quest’ultima scena si vede un Gesú particolarmente severo, che frusta i mercanti che fanno commercio di animali sull’area sacra, in contrasto con la serenità del Gesú che porta la croce del terzo e ultimo registro dedicato al racconto della Passione. Dietro al corteo, una Maria disperata viene bloccata affinché non raggiunga il figlio. Seguono la Crocifissione e la Deposizione. Quest’ultima è uno dei capolavori del ciclo: Cristo è stato appena deposto, quando in cielo si scatenano le grida degli angeli, suggerite dalle bocche spalancate e contratte in smorfie di dolore. Giovanni allarga le braccia in un gesto disperato, mentre la Maddalena torna un’ultima volta ad accarezzare sconfortata i piedi di Cristo. La Resurrezione è rappresentata dalla tomba vuota. Un angelo indica alla Maddalena il Cristo risorto. La donna allunga le braccia per toccarlo, ma lui esprime nel gesto l’ammonizione: «Noli me tangere». L’Ascensione è un tripudio di bianco sfumato, teso a suggerire il movimento dell’aria provocato dall’ascesa rapida. Segue, a chiudere, la Pentecoste, con i raggi di fuoco che scendono sugli Apostoli preparandoli alla missione evangelizzatrice. In ultimo, in corrispondenza delle Virtú rappresentate nella parete di sinistra, troviamo le sette

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A sinistra Deposizione dalla Croce, con Gesú compianto dalla Madonna, dalle pie donne e dagli Apostoli, mentre in cielo gli angeli gridano di dolore (vedi particolare in alto). Giovanni allarga le braccia disperato, e la Maddalena piange accarezzando i piedi di Cristo.

allegorie dei sette Vizi capitali: stoltezza, incostanza, ira, ingiustizia, infedeltà, invidia, disperazione. Il nome del vizio o della virtú è scritto in alto in latino e indica chiaramente che cosa rappresentino le personificazioni. Vizi e Virtú si fronteggiano dunque l’una dirimpetto all’altra e conducono al grande Giudizio finale dove verranno misurate con severità. Di grande impatto per il visitatore è l’affresco realizzato sulla parete dell’arco trionfale che mostra Dio in trono tra gli angeli, mentre al di sotto l’arcangelo Gabriele visita la Vergine. Scendendo ancora di registro, al di sotto dell’arcangelo Gabriele, troviamo Giuda che riceve trenta denari, mentre al di sotto dell’Annunciazione, la Visitazione. Il Tradimento di Giuda (Luca 22, I, 6) fa da pendant con il Concepimento di Maria. Il ventre fruttifero di Maria è messo in relazione antitetica con Giuda, le cui viscere scoppiano dopo il tradimento. Nella Visitazione (Luca I, 39-55) Elisabetta è rappre-

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sentata anziana. La sua storia è simile a quella di Gioacchino e Anna. Anche lei è un’anziana sposa che non ha conosciuto la gioia dei figli e resta incinta in età avanzata per generare il Battista. Sull’arco trionfale della chiesa vi è un’enorme Annunciazione, a ricordare l’origine della Salvezza dal peccato (come pure sottolinea la scelta del giorno della dedicazione della cappella, ovvero il 25 marzo, giorno appunto dell’Incarnazione). Maria torna a essere rappresentata anche sulla controfacciata mentre riceve il modellino della chiesa, vestita di rosso, il colore della carità, cui è intitolata la cappella.

L’offerta del modellino

Nella volta azzurra del soffitto, in due campi uguali, si trovano la Vergine e il Cristo Benedicente, gli intermediari della Salvezza presso Dio. Della Vergine, come abbiamo visto, sono state rappresentate le scene prima e dopo la nascita, occupanti l’intero registro superiore e gran parte della parete dell’arco trionfale. Maria è anche protagonista nella controfacciata dove, affiancata da san Giovanni e da santa Caterina d’Alessandria, riceve il modellino della cappella da Enrico Scrovegni, secondo un motivo ricorrente nell’arte medievale: il committen-

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Dossier L’opera d’arte come documento Da molti anni Chiara Frugoni ci ha abituati a guardare alle fonti iconografiche come fonti per la storia. Un affresco, un mosaico, una statua, in quanto prodotti artistici, entrano in una storia specifica che è quella dell’arte, che ci insegna come lo stile espressivo degli uomini cambi, secondo l’epoca, le circostanze, la formazione dell’artista, gli stili e le tendenze. Tra una statua di età classica e le rappresentazioni di un’urna longobarda vi è una distanza siderale in termini di tecnica espressiva e di contenuti espressi. La storia dell’Arte, cerca di interpretare l’oggetto d’arte, calandolo nel suo contesto di produzione. Chiara Frugoni ci ha abituati al processo inverso, usare un manufatto artistico per meglio comprendere il contesto in cui è stato prodotto. Se, dunque, la storia dell’arte torna all’oggetto come suo fine ultimo, la storia si serve di quell’oggetto come di un documento, uno dei tanti che possono far luce su un passato piú o meno lontano. Il bel libro della Frugoni sulla Cappella degli Scrovegni presenta dunque questo andamento, ci accompagna nella comprensione del ciclo di affreschi, con l’intento ultimo di farci leggere un’epoca. Cosí anche la cappella padovana non ha nelle sue pagine il semplice rilievo accordatole in quanto manufatto d’arte, ma in quanto cappella privata di una ricca famiglia all’apice dell’ascesa economica e sociale. La robusta conoscenza del periodo trattato e il rigore interpretativo hanno permesso alla studiosa di sgombrare il campo da tante erronee interpretazioni. Per troppo tempo si è sostenuto, infatti, che la cappella fosse stata edificata per riscattare l’anima del padre di Enrico Scrovegni dal peccato di usura. Una tesi che infastidisce non solo in quanto priva di fondamento, ma perché banalizza la società medievale. Chiara Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, Einaudi editore, Torino 2008

te in ginocchio che offre il modello dell’edificio che ha innalzato al titolare celeste della chiesa (un santo, la Vergine, Cristo, ma anche una reliquia o un semplice miracolo). Sempre sulla controfacciata, a fare da contraltare all’Annunciazione dell’arco trionfale, troviamo il Giudizio Universale: Dio assiso in trono tra i dodici Apostoli, con la gestualità delle mani, separa le due schiere dei beati e dei dannati. Il Giudizio completa e ribadisce il senso dell’annuncio salvifico fatto a Maria: sono qui rappresentate le due venute di Cristo nel mondo, la prima tramite la nascita da una donna, e la seconda quando discenderà dal cielo per dare inizio al Giudizio Universale. Nel XIII secolo, la rappresentazione del Giudizio Universale è frequente, come dimostrano le contro-

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facciate delle cattedrali di Chartres e di Reims. Il Giudizio ha a che fare con la concezione ultraterrena dell’uomo medievale, il quale per fede o per cultura indirizzava le proprie scelte condizionato dall’idea del giudizio divino che era al tempo stesso fiducia nella salvazione e nell’oggettività del bene operare.

Una tesi da rivedere

Dunque, la tesi secondo la quale Giotto sarebbe stato influenzato dalla lettura dell’Inferno di Dante nella scelta di raffigurare il Giudizio Universale appare infondata anche perché, come fa notare Chiara Frugoni, mancano i tempi per giustificare una tale suggestione: Giotto finí di affrescare la cappella nel 1304-1305, mentre la cantica dell’Inferno iniziò a circolare solo a partire dal 1306-1307.

A destra particolare dell’affresco del Giudizio Universale, con rappresentazione dell’Inferno, in cui le anime dei dannati, nude, vengono torturate e divorate da diavoli e mostri.

È importante anche notare come le allegorie dei Vizi e delle Virtú, nonostante il loro carattere apparentemente decorativo, in quanto avulse dal contesto puramente storico-narrativo dei registri superiori, contengano un preciso significato. La teoria di vizi, infatti, conduce alla Disperazione, rappresentata appesa nell’Inferno; le virtú invece conducono alla celebrazione della Speranza, che si leva in volo nel Paradiso dei beati. Inoltre, vizi e virtú si corrispondono sulle due pareti Nord e Sud, secondo un abbinamento per contrari. Le immagini della Giustizia e dell’Ingiustizia, poste al centro delle due pareti, servono a Giotto per suggerire la superiorità della prima sulla seconda. La giustizia, infatti, è rappresentata assisa in trono, proprio come il Cristo giudicante. Chiara Mercuri ottobre

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GIOTTO, PROBLEMI APERTI di Chiara Frugoni

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a Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto non è ancora stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ma le omissioni che la riguardano non si fermano qui e sono altrettanto sorprendenti. Il grandioso restauro del 2002, che ha restituito ai loro colori smaglianti gli affreschi, ha dimenticato la sottostante cripta. Essa si presenta in uno stato di sconfortante abbandono, come fosse una cantina mal tenuta.

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Le poderose sostruzioni in mattoni che dovevano salvare la cappella dalle bombe dell’ultima guerra, non sono state ancora rimosse. Il pavimento della cripta è una gettata di cemento sconnesso, sul quale costantemente scorre acqua che emerge dalla falda sottostante. I rivoli sul pavimento in leggera pendenza conducono, fra pozzanghere e fango, alla parete finale della cripta contro la quale è appoggiato un rozzo vascone, che sembra un abbeveratoio per il bestiame!

Su che cosa poggia?

La cappella è priva di una protezione sismica e manca una relazione scientifica che ne verifichi l’assetto statico, malgrado i tanti restauri l’abbiano dotata di un tetto d’acciaio e di un cordolo pesantissimo di ferro. Rimane poi ancor oggi un

mistero comprendere quali siano le fondamenta della cappella nella sua interezza: poggia su pali, oppure sui blocchi residui dell’arena romana? Pochi anni fa la stampa padovana aveva annunciato che, a circa 200 m dalla Cappella, sarebbe entrata nella fase operativa la costruzione di un grandioso Auditorium con una parte sotterranea che avrebbe comportato uno scavo di 19 m. Tale costruzione, come aveva evidenziato la commissione nominata dal Comune, in mancanza di particolari cautele, avrebbe potuto avere ripercussioni sul delicato equilibrio idrogeologico. Da qui l’allarme della stampa estera e italiana e l’appello, Save Giotto, che ebbe una vasta eco in Italia e all’estero e fu appoggiato, tra gli altri, da Italia Nostra e dal FAI. La crisi finanziaria ha, per il

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Dossier

In alto e a destra fotografie scattate durante il restauro del 2002, che ha restituito agli affreschi della Cappella degli Scrovegni gli splendidi colori originari. L’operazione non ha interessato l’ambiente sotterraneo del monumento, che necessiterebbe invece di urgenti interventi di risanamento strutturale e di bonifica.

momento, bloccato la costruzione dell’Auditorium, di committenza comunale, ma è difficile immaginare l’abbandono totale della cubatura prevista: la tentazione di costruire case, scavando i relativi garage mi pare plausibile. Nel frattempo è iniziata la costruzione di due gigantesche torri, alte piú di 100 m, di committenza privata, anch’esse poco distanti dalla cappella, per le quali sono stati già ultimati gli scassi profondi 27 m. Speriamo che, in anni non troppo lontani, gli organi competenti mettano finalmente in piena sicurezza gli affreschi di Giotto e l’intero edificio, cioè cappella e cripta, restituendo a quest’ultima la sua dignità.

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COSA

Qui sotto assonometria ricostruttiva della Cappella degli Scrovegni e del suo ambiente sotterraneo, «inseriti» nell’ellisse dell’arena di epoca romana. In basso particolare della decorazione del soffitto della cosiddetta «cripta», punteggiato da stelle a 8 punte.

c’è sotto? di Tomaso Montanari

I

l potere illusionista di Giotto rischia di far credere anche a noi che la Cappella degli Scrovegni si sostenga davvero in aria, per virtú divina. E invece no: come ogni opera d’arte, la cappella padovana è anche una «cosa», un oggetto materiale, che, come tutte le cose può «rompersi», anche irreparabilmente. Per evitare che questo succeda, è bene ricordarsi che la cappella è come un iceberg: la parte sommersa (anche fuor di metafora, come vedremo) non è meno importante di quella emersa. La nostra percezione della tutela e della conservazione del monumento non deve prendere in considerazione solo ciò che c’è sopra, perché cosí trascurerebbe un problema potenzialmente ancora piú grande: quello che c’è sotto. Questa sorta di selezione automatica, o di volontaria cecità, può insegnarci qualcosa di importante, e di assai piú generale, sulla nostra percezione dei principali monumenti artistici del passato: che tendiamo a ritagliare e a far levitare in un iperuranio privo di contesto, di nessi, di consistenza fisica. Sotto Giotto c’è qualcosa: un altro vano, lungo quanto la navata, con spesse mura che sorreggono una volta a botte a sesto ribassato.

Tutt’altro che secondario

Questo vano sotterraneo (del tutto impropriamente chiamato «cenobio», o «cripta») non è completamente ipogeo, ed è stato progettato in modo da avere prese d’aria e di luce, grazie a finestre a bocca di lupo che si vedono benissimo dall’esterno. Anche se ignoriamo quale fos-

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se la funzione originaria di questo ampio vano (che alcuni sostengono essere stato usato come refettorio o guardaroba: destinazioni in verità entrambe assai inappropriate per un ambiente sotterraneo), appare ben chiaro che si tratta di qualcosa di geneticamente solidale con la cappella: anzi è una parte della Cappella degli Scrovegni, non un locale accessorio, trascurabile. È ancora oggi possibile accedervi (previo permesso del Comune), attraverso una scala. Appena entrati, ci si accorge subito di tre cose sorprendenti: il sotterraneo è ancora occupato da tramezzi di mattoni costruiti durante la guerra per attutire l’onda d’urto di eventuali esplosioni; è ingombro di materiale accatastato e coperto da teli; il soffitto è decorato con stelle a otto punte, colorate, che risaltano contro un intonaco chiaro. Ma la presenza piú incongrua e inquietante è certo quella di alcune vasche che raccolgono l’acqua che

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Dossier Fotografia che evidenzia lo stato di degrado della cripta, col pavimento costantemente allagato a causa dell’innalzamento della falda freatica di superficie.

risale dalla falda superficiale (arrivata ad affiorare fino a pochi centimetri sotto il piano di calpestio del sotterraneo), dove alcune pompe entrano in azione: liberando il pavimento dall’acqua, ma anche (e non occorre essere ingegneri idraulici per dedurlo!), attirando continuamente altra acqua. Un marziano che non sappia quanto poco l’Italia destina al proprio patrimonio storico e artistico potrebbe chiedersi se sia decoroso che il sotterraneo proto-trecentesco costruito da Enrico degli Scrovegni come parte integrante della sua cappella versi oggi in questo stato. E, soprattutto, se non sia pericoloso, per Giotto, avere perennemente i piedi a bagno... Un minuto dopo, quel marziano, cercando di trovare un filo razionale, potrebbe supporre che magari sia sempre stato cosí. E, cioè, che il sotterraneo della cappella sia stato costruito per isolarla dall’umidità, e dunque mettendo in conto fin dall’inizio che sarebbe stato costantemente allagato. Ma quel marziano si sbaglierebbe: la presenza della decorazione del soffitto, con le sue stelle, dimostra che in una fase della sua esistenza (non troppo lontana dalla fondazione) il sotterraneo era in uso: un uso che non si sbaglierà nell’associare, non a quello di un locale di servizio, ma forse piuttosto alla condizione di ulteriore cappella, che si potrebbe immaginare destinata a una compagnia religiosa, a una confraternita, o al Terz’Ordine. Si deve dunque pensare che il progressivo deposito dei sedimenti

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nel letto del vicino Piovego, abbia fatto alzare la quota del letto del fiume e quindi quello della falda contigua, allagando costantemente il sotterraneo di Enrico, strappandolo al suo uso antico (qualunque fosse) e riducendolo nello stato attuale. Uno stato comunque non originario, che andrebbe risolto per questioni di decoro, ma ancor piú di sicurezza.

Parole profetiche

Chi di noi dormirebbe tranquillo sapendo che la propria cantina, a un certo punto della sua storia, è stata invasa dalle acque, e lo è ancora? O vogliamo forse meritare l’aspro rimprovero che Giorgio Vasari fa a chi mette a repentaglio, e proprio in un identico modo, certe pitture che egli attribuiva proprio a Giotto: «E meglio starebbono, se la stracurataggine di chi ne doveva aver cura non le avesse lasciate molto offendere dall’umido, perché il non avere a ciò, come si poteva agevolmente, provveduto è stato cagion che avendo quelle pitture patito umido, si sono guaste». Quando, circa dieci anni fa, l’allora Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, ISCR) ha restaurato gli affreschi di Giotto, non sarebbe stato male dare un’occhiata al piano di sotto. A cosa giova riportare a tutto il suo splendore questo superbo cielo di lapislazzulo, se dimentichiamo che le sue stelle continueranno a splendere solo se risaniamo, conserviamo e mettiamo in sicurezza queste altre stelle, piú umili, ma legate alle prime da un nesso che tendiamo a negare? Il fatto che possiamo dire di

amare Giotto senza chiederci cosa c’è sotto non è casuale: fa parte della progressiva erosione della dimensione contestuale dell’opera d’arte. L’adorazione estetica, la contemplazione a bocca aperta dei «capolavori» induce a dimenticare ogni forma di contesto. La stessa dimensione intellettuale che fa sí, per esempio, che il Ministero per i Beni Culturali abbia ritenuto normale inviare in esposizione in Russia la Conversione di Saulo di Caravaggio, opera letteralmente e storicamente comprensibile solo se letta nel suo contesto ambientaleluministico, architettonico, figurativo, storico, religioso, liturgico (la tela è normalmente custodita a Roma, nella Cappella Cerasi della basilica di S. Maria del Popolo, n.d.r.). O, ancora, il diffuso entusiasmo per la nuova illuminazione del Duomo di Firenze è un sintomo preoccupante di questa attitudine. Non solo i riflettori (i «padelloni») sono una pesantissima inserzione nel paesaggio urbano diurno, ma, soprattutto, la quantità e la qualità della luce tagliano fuori il monumento dal contesto urbano: lo sovraespongono «mediaticamente», distruggendo proprio la misura, il colloquio, il rapporto che unisce e cuce le emergenze architettoniche al tessuto continuo. Questa spettacolarizzazione luminosa ricorda molto la moda della mostra dei singoli capolavori: un identico esercizio di incomprensione. Se i cittadini di Padova e del mondo sapranno unirsi in una «una lega di difesa contro il minacciato vandalismo» avremo ancora a lungo Giotto tra noi. ottobre

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CREDENDO di far bene di Pietro Matracchi

L’

uso del cemento armato nel restauro si afferma e si diffonde in Italia durante la ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale. Innumerevoli edifici, oltre ad avere subito crolli ingenti, mostravano strutture superstiti gravemente danneggiate. In molti casi si ritenne opportuno rafforzarle mediante il cemento. A questo si aggiunse, spesso, un approccio erroneo, che teneva separati i problemi legati alla stabilità delle strutture da quelli relativi al restauro architettonico, con risultati che talvolta si sono rivelati potenzialmente (o di fatto) piú dannosi degli stessi bombardamenti. Superata la fase emergenziale della ricostruzione, il cemento armato continuò però a essere impiegato nel restauro, soprattutto nei cordo-

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li e nei solai di copertura, secondo una prassi ormai diffusa e di fatto mai messa in discussione. Sembrò dunque ovvio e giusto anche l’intervento alle coperture della Cappella degli Scrovegni all’inizio degli anni Sessanta del secolo passato.

Le prime indagini

Nel 1960 l’aggravarsi delle lesioni in chiave e all’imposta della volta a botte della cappella indussero a eseguire una serie di approfondimenti sugli interventi precedenti e sulle condizioni di stabilità in cui allora versavano le strutture. Il sistema di incatenamento originario, formato dalle cinque catene della volta a botte e da quella all’imbocco dell’abside, era stato integrato a piú riprese, al di sopra dell’arco di valico all’abside, nella parte centrale

dell’ambiente seminterrato e nella muratura della facciata. In occasione del secondo conflitto mondiale, come opera di protezione si aggiunsero nel seminterrato setti murari trasversali in mattoni. In una ulteriore indagine, le catene originarie della cappella, sottoposte a percussione, risultarono in parte disattive. Fu cosí deciso di compiere saggi in corrispondenza degli ancoraggi, che hanno messo in luce capochiave delle catene ancorati a conci di tracheite nella parte inferiore, a travi lignee in quella superiore. La marcescenza delle travi lignee aveva favorito la rotazione dei capochiave, fino al punto di determinare la rottura delle catene in prossimità degli ancoraggi. È verosimile che tali rotture siano state accelerate da un evento violento, come l’esplosione di ordigni in prossimità Maggio 1944: un operaio posiziona sacchetti di sabbia davanti al Giudizio Universale, nel quadro degli interventi di emergenza volti a scongiurare i danni che avrebbero potuto essere causati dai bombardamenti.

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Dossier Gli esiti del terremoto in Umbria del 1997 hanno dimostrato la vulnerabilità sismica negli edifici consolidati con il cemento armato. Fu infatti palese che gli edifici piú danneggiati dal sisma erano proprio quelli interessati da interventi strutturali, basati sull’utilizzo del cemento armato. Risulta infatti problematica la compatibilità fra rigidezza delle parti in cemento armato e deformabilità delle strutture murarie preesistenti.

Lesioni vecchie e nuove

Catene originarie 1884 1937 1957

Pianta, sezione e prospetto con il sistema di catene della Cappella degli Scrovegni nel 1960 (elaborazione su disegni G. Fabbri Colabich e G. Saccomani). Sono evidenziate le catene originarie della volta a botte e dell’abside, e i sistemi aggiunti successivamente.

della cappella nel secondo conflitto mondiale. Constatati i danni, si procedette ai rimedi, allora ritenuti tali. La scarsa qualità del materiale ferroso delle catene indusse a sostituirle completamente; inoltre, il sistema di ancoraggio primitivo venne abbandonato per le difficoltà operative che avrebbe comportato

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riproporlo. Si preferí dotare le nuove catene di capochiave – ovvero di ancoraggi – a piastra nervata apposti alle lesene esterne dei fianchi. La copertura lignea della cappella era costituita da puntoni sostenuti da pilastrini, che insistevano sull’estradosso della volta a botte della cappella. Fu deciso di sostituirla con capriate metalliche appoggiate a un cordolo in cemento armato. Infine, sulle falde del tetto fu eseguito un massetto in calcestruzzo connesso alla sommità dei cordoli: venne cosí creata la continuità fra le masse in conglomerato cementizio della copertura.

Sulla Cappella degli Scrovegni, i danni provocati dal terremoto del Friuli sono in questo senso eloquenti. Si sono riaperte vecchie lesioni della facciata e della volte a botte, ma si sono anche create nuove fratture nella parte della volta a botte adiacente alla facciata. Il primo riguarda l’accentuata riapertura delle lesioni della facciata, nonostante vi siano state inserite tre catene nel 1957; il secondo concerne l’ampiezza dei fenomeni di distacco degli intonaci dalle murature della facciata e della volta; il terzo è il danno agli affreschi della volta a botte concentrato nella zona della fascia decorativa prossima alla facciata. Tutto questo, con ogni probabilità, è da mettere in relazione all’effetto di punzonamento esercitato sulla facciata, durante il terremoto, dal cordolo e dalle solette in cemento armato della copertura. Non sono da sottovalutare neppure gli interventi di sostituzione dei paramenti laterizi esterni, eseguiti a piú riprese e particolarmente estesi in occasione del restauro di Eugenio Maestri, che ha conferito all’esterno della cappella un carattere quasi paradossale, di edificio neogotico. Tali cortine murarie, che si è giunti a ipotizzare di totale sostituzione, per effetto del punzonamento della copertura indotto dal terremoto potrebbero parzialmente distaccarsi, in quanto le parti ricostruite dei paramenti hanno solitamente una debole connessione con le murature preesistenti. Stante questa situazione, come ottobre

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A sinistra La copertura lignea della cappella prima della posa in opera delle attuali capriate metalliche. In basso stralcio di sezione con il progetto della nuova carpenteria metallica della copertura della cappella; in rosso sono indicati il cordolo e la soletta in cemento delle falde (elaborazione su disegno G. Fabbri Colabich e G. Saccomani).

si potrebbe dunque procedere? Innanzitutto, si potrebbe definire un programma di rilievo che preveda sezioni trasversali della cappella in corrispondenza di tutte le finestre e di ogni maschio murario compreso fra tali aperture; un’ulteriore sezione trasversale dovrebbe intercettare l’abside, una sezione longitudinale della cappella andrebbe eseguita con viste su entrambi i lati. Sono da allestire piante della cappella ai livelli del seminterrato, del portale di ingresso, delle monofore, delle catene trasversali e del sottotetto. I prospetti esterni da eseguire, con la rappresentazione dei paramenti laterizi, sono quelli dei fianchi e della facciata. Complessivamente sarebbero auspicabili 12 sezioni trasversali, una longitudinale con i prospetti di entrambi i lati, 5 piante e 3 prospetti esterni. In un simile lavoro di rilievo dovrebbe essere coniugati diversi strumenti operativi, lo scanner laser, il rilievo topografico e il rilievo manuale, soprattutto per le parti meno accessibili come i sottotetti, cosí da ricavare sempre piante e sezioni con spessori murari definiti (sarebbe molto meno utile, per esempio, ottenere piante con i soli profili interni).

Uno strumento prezioso

La disponibilità di un rilievo di dettaglio fornirebbe agli studiosi un potente strumento di analisi e di comprensione di innumerevoli aspetti. Innanzitutto consentirebbe di organizzare meglio le molte informazioni che già si possiedono, ma che risultano talvolta poco dominabili perché eccessivamente disperse. La fase diagnostica, con le even-

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tuali conseguenti proposte di intervento, dovrebbe essere seguita dall’utilizzo dei rilievi per un programma di manutenzione. L’efficacia della conservazione in molti casi è legata ad azioni non eclatanti, come quelle del giardiniere che, secondo un programma predefinito e continuamente registrato nel suo metodico divenire, svuota periodicamente i pozzetti dalle foglie secche, scongiurando un allagamento che potrebbe raggiungere le pareti e le superfici dipinte della Cappella degli Scrovegni. Un aspetto che esula dal rilievo, ma di fondamentale importanza ai fini di un quadro conoscitivo completo, riguarda le fondazioni del monumento. La cappella dovreb-

be sorgere sulle strutture radiali di un anfiteatro romano e, secondo le proposte avanzate, soltanto la parte absidale sembrerebbe non insistere su tali resti. Per la completa mancanza di dati circostanziati, si ignora l’effettiva correlazione fra cappella e sostruzioni romane. Simili informazioni potrebbero inoltre portare a una diversa diagnosi dei dissesti che hanno interessato la zona sud-est della cappella a seguito del terremoto del 1936: non è da escludere la correlazione fra il cedimento fondale della cappella allora registrato, a oggi connesso alle caratteristiche del terreno, e la mancanza in questa area del sostegno assicurato dalle strutture superstiti dell’anfiteatro.

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Dossier

LA FRETTA,

cattiva consigliera di Salvatore Settis

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accogliere dati certi, studiare, capire, e solo dopo agire. Questa regola elementare, mi pare, non è stata sinora osservata nel caso della Cappella degli Scrovegni. Mancano dati certi sull’analisi idrogeologica del terreno, sulla struttura delle fondamenta della Cappella, manca perfino un rilievo di dettaglio – elementare precauzione conoscitiva (vedi alle pp. 89-91) – , non conosciamo bene la funzione del cenobio, dei condotti d’acqua e dei setti che vi sono connessi, del relativo contesto archeologico. Peggio ancora: non sappiamo, ma a volte crediamo di sapere, e frettolosamente pretendiamo di sapere quel che ancora non è stato accertato. E le decisioni politiche vengono prese, in primis dal Comune di Padova, sulla base di conoscenze imperfette, di relazioni magari dettagliate ma ricche di reticenze e di zone d’ombra, insomma imponendo «la soluzione dall’alto, attraverso la penombra delle commissioni e la potenza occulta degli apparati di partito», secondo una diagnosi della vita politica italiana che spetta ad Adriano Olivetti (1901-1960) ma è ancora tristemente attuale.

Periferie senza regole

Sembra prevalere, in queste scelte politiche del Comune, la peggior consigliera possibile: la fretta. La fretta di adeguarsi ai progetti edilizi delle imprese, la fretta di decidere, la fretta di mostrarsi efficienti rispetto alle scadenze elettorali o ad aspettative di cittadini poco e male informati. Ma queste frettolose dichiarazioni e decisioni sono ispirate anche dalla passiva accettazione di quel che è alla radice dei terribili guasti del nostro patrimonio e dei

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nostri paesaggi, urbani e no: la disordinata crescita delle periferie, che assediano ormai anche le nostre città piú preziose (e Padova è certo fra queste). Questa miope prassi amministrativa risente delle pecche e delle falle che si riscontrano nella normativa di settore. Essa perpetua fino a oggi il peccato d’origine della legislazione di epoca fascista, e cioè il mancato raccordo fra tutela dei paesaggi e autorizzazioni urbanistiche (cioè tra la legge nr. 1497/1939 sul paesaggio e la legge 1150/1942 sulla regolazione urbanistica). Queste due norme non furono mai, e non sono ancora, opportunamente raccordate fra loro, creando un dissidio che si è insediato fin nella Costituzione, dove la tutela dei paesaggi (art. 9) è in capo allo Stato, ma sembra non includere i centri urbani; mentre la crescita delle città (art. 117) è posta in capo alle Regioni, che di solito subdelegano ai Comuni. Quasi che vi fossero, in Italia, città senza paesaggio e paesaggi senza città, e non quell’intima fusione di città e campagna che fece la gloria di quello che fu il Bel Paese. Un’adeguata considerazione dell’art. 9 Cost., che strettamente congiunge paesaggi e patrimonio artistico, avrebbe da tempo dovuto portare a una ricomposizione normativa, riconoscendo in ciascun centro storico un insieme da tutelare: un insieme che è simultaneamente «paesaggio», «patrimonio storico e artistico» e spazio urbano. Nessun tentativo di operare una simile ricomposizione è fino a oggi accaduto. Al contrario, le infinite contese e conflitti di competenza fra Stato e Regioni hanno portato a una paurosa segmentazione delle nozioni giuridiche e

delle prassi amministrative, in cui nei Comuni (anche sotto la pressione di difficili esigenze di bilancio) è prevalsa la cultura della «panurbanizzazione», che tende a considerare ogni area libera come suolo edificabile, senza considerazione per il contesto storico e monumentale.

Una pausa di riflessione

Che questo possa accadere oggi a Padova, in un’area della città che ancora accoglie una gemma preziosa come la Cappella degli Scrovegni, noi non vogliamo crederlo. Vogliamo, anzi, sperare che il Comune, la Soprintendenza, il Ministero racottobre

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La Crocifissione. Della Cappella degli Scrovegni mancano, a oggi, dati certi sull’analisi del terreno, sulla struttura delle fondamenta, e perfino un rilievo di dettaglio.

colgano l’invito che viene da noi e da tanti altri: fermare ogni decisione, prendere una pausa di riflessione di almeno uno o due anni, creare una forte e solida Commissione internazionale. Evitare ogni sospetto che la Commissione venga nominata per giungere a risultati precotti, per dar ragione a questo o a quello, ma sceglierne i membri, per esempio con l’aiuto delle grandi accademie, dai Lincei all’Accademia di Francia, a quella di Berlino, alla British Academy, in base a una competenza e autorevolezza da tutti riconosciuta. Raccogliere dati, vagliarli, sottoporli a pubblica discussione,

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a benefizio della comunità scientifica ma anche dei comuni cittadini. Uscire dalla «penombra delle commissioni» in nome della trasparenza e della scienza, ma anche in nome della democrazia.

Attualità di un monito

A me pare che, di fronte a una proposta come questa, le autorità preposte alla conservazione della cappella non abbiano altra scelta. Negare che una raccolta accurata dei dati sia preliminare a qualsiasi operazione, edilizia o meno, in un raggio assai vasto intorno agli Scrovegni, sarebbe una barbarie cosí grande che non posso davvero

credere che una città come Padova voglia macchiarsene. Parlando a Londra nel 1951 dei danni della guerra (il testo è stato pubblicato dalla rivista Il Ponte nell’ottobre 2012), Piero Calamandrei (1889-1956) disse testualmente: «La sparizione della Cappella degli Scrovegni corrisponderebbe a quella di tutte le copie della Divina Commedia». Era un paradosso, allora, perché i bombardamenti avevano fortunosamente risparmiato la cappella. Ma quel monito può tornare attuale, perché i monumenti non muoiono soltanto per le guerre, ma anche per la disattenzione degli uomini. Che questo non sia! V

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luoghi lalibela

Mistero di Franco Bruni

d’Africa

Grazie al reportage esclusivo realizzato per i lettori di «Medioevo», scopriamo insieme le chiese di Lalibela, in Etiopia, testimonianza affascinante della presenza cristiana nel cuore del continente nero: undici edifici scavati nella roccia ottocento anni fa, undici capolavori di architettura religiosa rupestre. Meta di pellegrinaggio e, piú di recente, anche del turismo, conservano intatti la bellezza e il fascino misterioso di antiche tecniche costruttive e di remote simbologie

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Q

uali motivazioni possono aver suggerito la costruzione, tra il XII e il XIII secolo, in un remoto villaggio dell’altopiano etiopico a oltre 2600 m d’altitudine, del complesso delle chiese rupestri di Lalibela? L’interrogativo rimane tuttora irrisolto e anche l’intero sito resta un mistero straordinario. Come straordinarie sono le tecniche costruttive impiegate negli undici edifici giunti sino a noi in egregio stato di conservazione, e oggi meta di pellegrinaggio. Ancor piú fa riflettere il contesto storico-politico in cui questi monumenti furono innalzati, o, meglio, «estratti» dalla viva roccia: un territorio caratterizzato da un’importante presenza «islamica», accompagnata dalle profonde tradizioni animistiche delle numerose tribú che hanno

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abitato e popolano le vaste terre d’Etiopia. Tutto ciò risulta tanto sorprendente quanto forte è l’impatto che il complesso, situato in uno scenario paesaggistico mozzafiato, suscita anche nel visitatore piú esigente. Circondata da Paesi di fede in prevalenza musulmana, l’Etiopia resta infatti una roccaforte della tradizione copto-cristiana, condividendo con l’Armenia la precoce adozione del cristianesimo a religione di Stato. Procedendo a ritroso di parecchi secoli – siamo nella prima metà del IV secolo d.C. – fu il re axumita Ezana a introdurre il cristianesimo nelle terre da lui goLalibela (Etiopia). Veduta del sito, con, al centro, il tetto della chiesa di S. Giorgio (Bet Giyorgis). La costruzione di questo e degli altri edifici di culto, 11 in totale, si colloca tra il XII e il XIII sec.

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luoghi lalibela ERITREA

YEMEN

Monti AxumAdigrat Simyen

ro zur

Az

Bedele

Gondar

LALIBELA Addis Abeba

GIBUTI

Golfo di Aden

sh

o Nil

Lago Tana

Aw a

SUDAN

SOMALIA

Diredaua

ETIOPIA

Gimma Awash

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Lago Turkana

KENYA

Sceb

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SOMALIA

In alto cartina dell’Etiopia con l’ubicazione di Lalibela, che si trova nel Nord del Paese, a oltre 2600 m di altitudine. A destra l’immagine a rilievo di un santo, scolpita all’interno della chiesa di Golgota-Micael-Selassie (Bet Golgotha-Mikael). L’accesso a questa parte del complesso è riservato ai soli uomini.

vernate, come confermano le iscrizioni – conservate ad Axum – che descrivono le sue campagne militari nel vicino Sudan. Lo stesso Ezana – come racconta Eusebio di Cesarea (265 circa-339 o 340) nella sua Storia ecclesiastica – nominò il siriano Frumenzio a capo della Chiesa copta etiope, la quale, fortemente unita a quella copta egiziana – di cui riconosceva il patriarca di Alessandria –, si è resa autonoma a metà del secolo scorso, arrivando a eleggere un proprio patriarca. Resistendo ai cruenti scontri che caratterizzarono l’avanzata araba tra la fine del XV e la metà del XVI secolo e, piú tardi, all’offensiva della tribú degli Oromo (provenienti dal Kenya, e che non pochi problemi causarono alla stabilità locale), le chiese di Lalibela, anche in virtú del loro isolamento geografico, non furono mai saccheggiate, preservando intatta nei secoli l’aura spirituale che ancora oggi vi si respira. Un’aura senza dubbio accresciuta dall’associazione tra questi monumenti e il valore simbolicosacrale delle grotte, strutture a cui

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le chiese di Lalibela si avvicinano, riproponendo un tema caro a tante culture antiche: quello del percorso verso l’oscurità dell’antro, simbolo dell’utero materno, sede delle divinità ctonie, nonché luogo magico/ spirituale/miracoloso per eccellenza. Non è un caso, del resto, che sia fitta la presenza di antri e grotte nei loca sancta della Palestina, descritti dai pellegrini sin dai primi secoli della cristianità.

Nomi evocativi

Ma il legame con la Palestina e in particolar modo con la città santa per eccellenza, Gerusalemme, non risiede solo nella prossimità tra l’elemento sacro e l’elemento rupestre, caro alla tradizione cristiana. A Lalibela tutto ci riporta ai loca santa gerosolimitani: il posizionamento dei monumenti, il percorso simbolico sotteso all’organizzazione spaziale delle singole chiese e, soprattutto, la loro denominazione. Raggruppate in due complessi separati da un canale artificiale, non a caso chiamato Giordano, le chiese ripropongono nella toponomastica altrettanti luoghi sacri di

Gerusalemme. Una scelta che la leggenda spiega con la visita che re Lalibela compí nel XII secolo in Palestina: impressionato dalla sacrale bellezza di quella terra, fece voto di ricostruire in Etiopia un complesso cultuale che rievocasse i luoghi sacri di origine del cristianesimo. Leggende a parte, impressionante risulta la tecnica costruttiva adottata nella realizzazione di questi imponenti complessi che, come già accennato, sono stati letteralmente «estratti» dal banco roccioso. Sarebbe infatti piú opportuno parlare di vere e proprie «sculture architettoniche» che il paziente lavoro di migliaia di uomini ha cesellato fino al minimo dettaglio, ricavando dalla pietra percorsi e tunnel attorno e tra i vari edifici; quest’ultimi sono veri e propri monoliti, trasformati in elaborati luoghi di culto che, a un occhio poco esperto, non lasciano trasparire il fatto che siano architetture ricavate da un unico blocco roccioso. Ma ancor piú stupefacente è la tecnica di lavorazione dei monoliti: a partire dall’escavazione degli spazi – piazzali e/o semplici passagottobre

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nella chiesa di maria A destra chiesa di Maria (Bet Maryam). Particolare delle decorazioni dipinte, comprendenti croci, motivi geometrici, animali: sono tra le piú antiche testimonianze pittoriche a oggi note in Etiopia. Qui sotto pianta del sito rupestre di Lalibela, con la dislocazione dei vari monumenti, raggruppati in due complessi principali, separati dal canale artificiale chiamato Giordano. In basso l’ingresso del tunnel di accesso al piazzale antistante la chiesa di Abba Libanos. A sinistra, in basso un particolare dell’architettura interna della chiesa del Redentore (Bet Medhane Alem).

Bet Meskel

Bet Golgotha-Mikael-Selassie

Bet Medhane Alem

Bet Maryam Bet Danaghel

tunnel

Bet Amanuel

Giordano Bet Merkorios

Bet Giyorgis

Bet Lehem

tunnel Croce monolitica

Bet Abba Libanos

Bet Gabriel-Rufael

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luoghi lalibela gi – tra la parte rocciosa e l’edificio stesso, ciascun blocco è stato scavato a partire dalle finestre, finemente decorate, e dalle porte, per poi proseguire il lavoro di asportazione al loro interno. Stupisce l’esatta corrispondenza tra gli elementi architettonici degli interni – spesso a pianta basilicale con navate – e la struttura esterna, se si pensa che l’intero edificio è stato scavato dall’interno cercando di riprodurre l’andamento strutturale esterno.

Quelle finestre delle chiese rupestri Una delle peculiarità delle chiese rupestri di Lalibela è la presenza di croci scolpite sulle pareti che, nella loro funzione di finestra/lucernario, riconducono a molteplici varianti, a loro volta portatrici di significati simbolici. Molte di esse si presentano nel modello axumita riproponendo le quattro travi protundenti lignee (fig. O), ovvero nella tipica forma delle stele axumite (keyhole; figg. I, L, M). Nello schema che segue ne presentiamo i modelli che ricorrono con maggior frequenza. Croce maltese

Già presente nelle monete

Croce gammata o svastica

D’origine sanscrita, con le braccia indifferentemente orientate in senso orario o antiorario, la croce gammata (dal gamma greco a cui si avvicina) è un simbolo piuttosto ricorrente in molti popoli antichi (chiesa di Maria). Fig. B

Modelli axumiti

Alla straordinaria abilità costruttiva si aggiunge la finezza decorativa degli esterni e degli interni, mentre le tipologie stilistiche dell’architettura axumita sono ben evidenti, nelle facciate, nelle porte e nelle finestre. Queste ultime seguono due modelli: uno contraddistinto da un’apertura rettangolare sormontata da un semicerchio somigliante alla toppa di una chiave (keyhole), modello che peraltro ricorre nelle stele di Axum e qui riproposto anche nelle porte di accesso agli edifici. L’altro elemento caratteristico è la presenza, ai quattro lati, delle finestre e delle porte di altrettanti corpi protundenti quadrati che ripropongono l’elemento ligneo delle travi che caratterizzava le finestre e le porte delle architetture axumite. Al diffuso modello axumita, che connota cosí profondamente il paesaggio architettonico-rupestre, si associa un altro elemento ricorrente: le finestre cruciformi nelle quali l’estro creativo si esprime attraverso una serie di varianti tipologicosimboliche. La cura del dettaglio architettonico e della decorazione di ogni singola chiesa, all’esterno come all’interno, si ritrova nell’impianto urbanistico dell’intero complesso. Il circuito di visita, apparentemente casuale, riflette in realtà un’organizzazione altamente simbolica: un percorso dalle tenebre alla rivelazione, che parte dal peccato originale, rappresentato dalla «Tomba di Adamo» – da cui si ha accesso al primo gruppo di cinque chiese –, e

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di re Ezana (prima metà del IV secolo), tradirebbe, secondo alcuni, l’influenza dei cavalieri templari nella costruzione del complesso (chiesa di Maria). Fig. A

Croce commissa Somigliante alla lettera greca tau, adottata in o tau Egitto nel IV secolo, riprenderebbe il modello della croce su cui fu crocifisso Cristo (chiesa di Maria). Fig. C Croce decussata Ha la forma della croce su cui fu martirizzato o di s. Andrea sant’Andrea. La forma a X, inoltre, ripete la prima lettera del nome di Christos (chiesa di Maria). Fig. D Croce immissa o croce latina

È la piú comune ed è legata alla tradizionale iconografia occidentale della croce del martirio di Cristo (chiesa di GolgotaMicael-Selassie, chiesa di Abba Libanos, chiesa di Emmanuel, chiesa del Redentore). Fig. E

A B

C

D

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Croce quadrata o croce greca

Con braccia della stessa

lunghezza. È la piú semplice

E

tra le croci attestate a Lalibela (chiesa di Maria). Fig. F

Croce del Calvario

Ha la forma della croce latina sovrastante una base a tre gradini, simbolo del monte Calvario. Lo stesso motivo dei tre gradini può ricorrere anche nei restanti bracci della croce (chiesa del Golgota). Fig. G

Gruppo di finestre cruciformi

F

(chiesa di Maria). Fig. H

H

G

Finestra a forma Riprende, nella forma, di stele axumita la tipica punta delle stele axumite (chiese del Golgota, di Gabriele e Raffaele, di S. Giorgio). Figg. I, L, M Stele axumita

Da notare l’originale disegno

Finestra di tipo axumita

Finestra della chiesa di Tana Qirqòs presso il lago Tana, i cui elementi lignei sono ripresi come modello nelle chiese rupestri di Lalibela. Fig. O

O

I

delle stele axumite il cui modello è riprodotto in molte finestre delle chiese rupestri di Lalibela. Fig. N

L

N

M

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termina con la chiesa del Redentore, passando prima per quelle del Golgota-Micael-Selassie, di Maria, della Croce, e delle Vergini. Percorrendo il tragitto che porta alla visita del primo complesso, l’impatto iniziale è forte, poiché ci si trova ben al di sotto del livello di calpestio del sovrastante pianoro roccioso: circondati da alte pareti perfettamente scavate, ma con la sensazione di passeggiare tra normalissimi edifici, in cui l’elemento «pietra» è, senza soluzione di continuità, il motivo conduttore dell’intero complesso. Alla pietra si associa un altro elemento altamente simbolico, l’acqua, nel suo uso sacrale/rituale e miracoloso, raccolta in vasche scavate nei pressi delle chiese, attraverso i numerosi canali di scolo sapientemente scavati per il drenaggio delle acque piovane.

Un dedalo di gallerie

Nel primo complesso si ritrovano tutte le caratteristiche architettoniche descritte, e, in particolare, le pregevoli tracce di decorazione pittorica negli interni. Attraverso percorsi scavati nella roccia – un intricato sistema di tunnel –, si possono visitare le varie chiese, tutte tradizionalmente orientate a est. La prima chiesa del Golgota-MicaelSelassie (Bet Golgotha-Mikael), che si presenta in parte collegata al pianoro roccioso nel lato est, è circondata da tre ampi gradini. L’interno, piuttosto articolato, colpisce per la presenza di tre ambienti, di cui il primo a impianto basilicale con otto pilastri cruciformi. Il secondo, Bet Mikael, il cui accesso è riservato solo agli uomini, presenta alle pareti, in bassorilievo, alcune figure di santi in abito sacerdotale non ben identificate, di cui una con turbante (forse il patriarca di Alessandria?). Nella chiesa del Golgota-Micael-Selassie si trova l’ambiente che è considerato il piú sacro di tutto il complesso: la cosiddetta «cripta di Selassie», contenente tre altari monolitici finemente decorati con croci, uno dei quali, quello centrale, presenta la raffigu-

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luoghi lalibela Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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A sinistra la chiesa di GolgotaMicael-Selassie (Bet GolgothaMikael). Il primo occidentale a dare notizia dello straordinario sito rupestre di Lalibela fu Francisco Alvares (1465 circa-1536/41), missionario ed esploratore portoghese, che vi giunse agli inizi del XVI sec., inviato come ambasciatore del regno lusitano in Etiopia.

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razione in bassorilievo dei quattro evangelisti sui quattro lati. Al primo complesso appartiene un’altra chiesa di notevole pregio architettonico, quella di Maria (Bet Maryam). Con impianto basilicale a tre navate e unica ad avere un secondo piano (non visitabile), vi si accede attraverso tre portici, sostenuti, un’altra prerogativa di questa chiesa, con due entrate ciascuno nella forma di stele axumita, separate da un pilastro. Collocata in un ampio piazzale a forma trapezoidale, la chiesa, insieme alle altre due che l’accompagnano – delle Vergini (Bet Danaghel) e della Croce (Bet Meskel) – restituisce appieno il senso della grandiosità del complesso e dell’immane sforzo impiegato nel ricreare edifici e piazzali al di sotto del piano di calpestio. Un’altra caratteristica della chiesa di Maria è la presenza, al suo interno, di ampie decorazioni raffiguranti croci, motivi geometrici, animali, che

In alto sacerdoti e fedeli riuniti nella chiesa di Maria (Bet Maryam) per festeggiare la Natività.

sono tra le piú antiche testimonianze pittoriche etiopiche. Interessante è poi la disposizione simbolica delle finestre del versante orientale.

Trinità e Crocifissione

La serie superiore, composta da tre finestre, raffigurerebbe la Trinità; al di sotto, isolata, si apre una finestra a croce latina, mentre nella serie inferiore altre tre finestre farebbero riferimento alla Crocifissione; la finestra posta a destra rappresenterebbe il ladrone che, chiesto il perdono a Cristo, divenne meritevole del Paradiso, che sarebbe da identificare con la piccola apertura sovrastante la finestra stessa; la finestra posta a sinistra richiamerebbe invece la storia del secondo ladrone che, avendo insultato Gesú, si rese indegno della

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luoghi lalibela A sinistra il passaggio ipogeo antistante la chiesa di Maria. Si noti il solco pavimentale utilizzato per il drenaggio delle acque piovane. A destra il ponticello che, superando un fossato, collega le chiese di Gabriele e di Raffaele (Bet Gabriel-Rufael). In basso un antico libro sacro, databile al XII sec., custodito nella chiesa di Gabriele e Raffaele.

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grazia, simboleggiata dalla presenza di una apertura, stavolta al di sotto della finestra. Attraverso una galleria – sia il primo che il secondo complesso hanno una serie di tunnel che collegano le varie chiese e addirittura lunghissimi tunnel colleganti i due complessi tra loro – si accede all’ultima grande chiesa del primo complesso: quella del Redentore (Bet Medhane Alem), l’unica con le quattro facciate contornate da trentaquattro colonne, anch’esse interamente ricavate dalla roccia. È la piú imponente tra le chiese di Lalibela, con il suo tetto a doppio spiovente finemente decorato,

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e porte e finestre disposte su due ordini, entrambi in tipico stile axumita. L’interno, che si presenta a pianta basilicale a cinque navate divise da ventotto pilastri finemente scolpiti e precedute da un piccolo atrio/nartece, ci rimanda all’atmosfera delle chiese romaniche d’Occidente. Se il primo complesso costituisce un insieme tutto sommato abbastanza omogeneo di stili architettonici, specificamente destinati a finalità cultuali, visitando le sei chiese del gruppo sud-orientale, collegate al primo da un lungo tunnel, ci si presenta uno scenario piú diversificato rispetto al primo

La chiesa di Gabriele e Raffaele. Dominata da una facciata maestosa, scandita da grandi archi, ha un aspetto che ne suggerisce una destinazione originaria diversa dall’attuale. È probabile, infatti, che prima d’essere adibita a luogo di culto, l’edificio fosse stato utilizzato come residenza reale.

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luoghi lalibela Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto ancora una veduta della chiesa di S. Giorgio (Bet Giyorgis). L’edificio, le cui facciate sono scandite da cornici marcapiano, è caratterizzato da porte e finestre realizzate in stile axumita. A destra la chiesa della Croce (Bet Meskel), sulla cui facciata si sussegue una teoria di archetti ciechi. Nel 1978 l’UNESCO ha inserito le chiese rupestri di Lalibela nella Lista del Patrimonio dell’Umanità.

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gruppo; come differenti furono, probabilmente, gli impieghi di alcune di queste «chiese»/edifici. Dubbia è la destinazione delle prime due chiese, collegate tra di loro, quelle di Gabriele e di Raffaele (Bet Gabriel-Rufael), dominate da una monumentale facciata solcata da sette alti archi (simbolo dei sette arcangeli dell’Apocalisse?) a volta axumita e al cui interno si aprono finestre nella tipica forma a stele (keyhole). Si accede alle due chiese, precedute da un alto piedistallo che sovrasta un profondo fossato, tramite un ponticello. L’inusuale aspetto della facciata e dell’accesso rispetto alle altre chiese, le rende piú simili a una residenza reale, lasciando supporre che la destinazione religiosa sia avvenuta in un secondo momento. L’interno delle due chiese, collegate fra loro, è fortemente irregolare, e sicuramente piuttosto lontano dall’impianto basilicale degli altri edifici; comunque la presenza di croci in bassorilievo nei soffitti è un indizio importante sulla destinazione liturgica di questi spazi.

Legno e pietra

L’intrico di tunnel che collegano le varie chiese tra loro appare come un vero e proprio labirinto, in cui alla fine di ogni percorso si erge imponente la facciata di una

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chiesa, suscitando ogni volta un senso di stupore; come quello che ci coglie di fronte alla chiesa di Emmanuel (Bet Amanuel), la piú finemente decorata del secondo complesso. Il monolite, circondato da un ampio camminamento, si distingue per le facciate che imitano l’alternanza di travi lignee e muratura tipiche dell’antica architettura axumita, con vari registri marcapiano e un triplo ordine di finestre: il piú alto con finestre rettangolari con quattro elementi protundenti laterali realizzati a imitazione degli elementi lignei della finestra axumita; l’ordine mediano nella tipica forma a punta di stele axumita (keyhole); infine il terzo, identico al primo, ma con aperture a croce latina all’interno. All’elaborato aspetto esterno, contraddistinto anche dalla presenza della base a tre gradini che attornia l’edificio e da piú ampi piedistalli innanzi ai tre accessi, corrisponde un interno altrettanto ricco, con matronei che si affacciano nell’interno basilicale a tre navate, e bei fregi di false finestre all’interno della navata principale. Conclude la visita del secondo complesso la chiesa di Abba Libanos (Bet Abba Libanos), dedicata al piú importante tra i santi etiopi, che presenta un ulteriore modello costruttivo. In questo caso non si tratta di un vero proprio monolite, ma di una chiesa ipogea, essendo il tetto direttamente collegato al banco di roccia sovrastante, mentre totalmente scavati sono l’ampio piazzale antistante e il tunnel che circonda i tre lati della chiesa. La chiesa è riccamente decorata nella facciata con tre ordini di finestre, e scandita da quattro paraste. Una galleria la collega alla piccola cappella di Bet Lehem (letteralmente, «casa del Pane»). Basterebbe la visita di una sola di queste chiese per capacitarsi del talento che anonimi architetti e mastri hanno dimostrato nell’edificazione di questi monumenti. Ma la nostra esperienza resterebbe ancora limitata se non si dedicasse la tap-

pa finale di questo itinerario «rupestre» a un vero e proprio capolavoro assoluto: la chiesa di S. Giorgio (Bet Giyorgis). È senz’altro la piú sensazionale, e la sua collocazione isolata rispetto agli altri due complessi la rende ancor piú eccezionale e unica. Si tratta di una chiesa a pianta a croce greca, incassata in un profondo piazzale quadrilatero che la circonda e a cui si accede attraverso un tunnel dal piano di calpestio.

Foglie di acanto

Mirabile è l’esterno che presenta sul piano del tetto, incise nella roccia una dentro l’altra, tre croci, a rimarcare l’inusuale perimetro dell’edificio; una decorazione che nasconde anche un secondo scopo: il drenaggio dell’acqua attraverso i solchi scolpiti. L’intero edificio è segnato da cornici marcapiano, mentre sia le finestre che le porte di accesso ripropongono ancora una volta il modello axumita; in particolare, le finestre dell’ordine superiore, che si presentano nella forma adottata nelle stele di Axum, esibiscono un elemento decorativo originale a foglie di acanto, che si prolungano dalla doppia modanatura che circonda le finestre. Anche l’interno rispecchia fedelmente l’impianto a croce greca esterno, e si presenta senza pilastri, eccetto quelli cruciformi d’angolo delle quattro cappelle. La croce è l’elemento dominante dell’edificio e ritorna scolpita nel soffitto nei lati nord, est e sud. Cinque secoli sono passati da quando Francisco Alvarez, un cappellano portoghese al seguito del suo ambasciatore, descrisse nel 1520 con totale ammirazione la bellezza delle chiese rupestri di Lalibela. Sopravvissute indenni alle invasioni arabe e degli Oromo, sono la manifestazione piú sorprendente della presenza cristiana in Africa centrale; un luogo di pellegrinaggio, ancora oggi tra i piú frequentati dell’Etiopia, che ha saputo preservare quell’antica atmosfera di luogo santo che neanche lo sfruttamento turistico degli ultimi anni è riuscito a scalfire. F

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caleido scopio

Mastro Cecco? Abita in teatro cartoline • L’edificio per spettacoli costruito ai tempi della Bevagna romana ha

avuto una continuità di vita lunghissima. Che da alcuni anni conosce una nuova e fortunata stagione, grazie alla suggestiva ricostruzione di una casa del Trecento

L

a ittadina umbra di Bevagna, uno dei borghi piú belli d’Italia, è da tempo alla ribalta per l’annuale Mercato della Gaite, un’accurata ricostruzione storica della vita quotidiana locale datata tra il 1250 e il 1350, cosí come si svolgeva nei quattro quartieri (detti appunto gaite) in cui era suddivisa la cittadina, e della quale «Medioevo» ha piú volte dato notizia. Cinta da mura medievali turrite e lambita dal fiume Topino, un affluente del Tevere, Bevagna sorge sull’antica Mevania – importante municipio romano e già sede di un abitato umbro –, posta in posizione strategica lungo la via Flaminia, da cui è attraversata. La navigabilità del Topino (l’antico Tinia), che confluiva nel Tevere, contribuí a farne uno snodo commerciale di grande rilievo. Commerci e contatti diretti con Roma ne favorirono lo sviluppo e la floridezza economica, testimoniata da reperti archeologici e monumenti di notevole rilievo.

adrianea presso via Porta Guelfa, del tempio coevo inglobato nella chiesa della Madonna della Neve, o, ancora, dei numerosi lacerti di antiche strutture visibili un po’ ovunque, sia in città che nel territorio. Eccezionale è poi la sorte toccata al teatro romano (databile al I-II secolo d.C.), nella via omonima, mai abbandonato, ma anzi sempre intensamente vissuto e trasformato, sino a divenire la base per un intero e caratteristico isolato di case di abitazione. L’edificio sorgeva in prossimità del Foro e del tratto urbano della via Flaminia (attuale corso Matteotti), e ne sono attualmente visibili, perfettamente conservati, due imponenti ambulacri semicircolari con la volta a sostegno della cavea, racchiusi in case private e locali pubblici. Oggi è possibile ripercorrere un tratto degli ambulacri romani, di grande suggestione, che un sapiente e attento restauro ha reso fruibile al pubblico. Da una decina

d’anni, infatti la Compagnia delle Arti, formata da cultori e storici di Bevagna accomunati dalla passione per il mondo medievale, ha qui ricostruito con precisione filologica la casa di un mercante del Trecento ricavata all’interno del teatro, visitabile con le guide dell’associazione.

Il butto e la fornace Ripulendo l’ambulacro maggiore sono stati riportati alla luce le antiche murature e un butto risalente al XIV-XV secolo, che ha restituito ceramiche grazie alle quali è stato possibile datare le varie fasi di utilizzo del luogo, probabilmente pertinente a un’officina che sfruttava il banco d’argilla sul quale poggia il teatro; restano tracce anche della fornace utilizzata per la cottura del vasellame. Infine, sono stati ritrovati sei pozzi-cisterna, uno dei quali con acqua sorgiva, e un canaletto di adduzione idrica. L’acqua doveva

La seconda vita delle antichità La continuità di vita – Bevagna fu sede vescovile fino al IX secolo, poi gastaldato longobardo, e, nel pieno Medioevo e in età moderna, importante centro umbro – ha fatto sí che gli edifici post-antichi abbiano riutilizzato le costruzioni romane, inglobandole e riadattandole. È il caso, per esempio, dello splendido pavimento musivo con raffigurazioni marine pertinente a un grande impianto termale di età

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Nella pagina accanto, in alto disegno ricostruttivo del teatro romano di Mevania, l’odierna Bevagna (Perugia). A destra la «ruota vitruviana», che, alimentata ad acqua, poteva fornire l’energia per azionare motori e magli. suppellettili è rigorosa, minuziosa e nel contempo affascinante, fondata su letture di testi, atti notarili, inventari, libri delle corporazioni e confronti iconografici con raffigurazione pittoriche coeve.

originariamente servire agli apprestamenti idrici del teatro e oggi alimenta una grande «ruota vitruviana» in legno, realizzata a mano, che, pompando l’acqua, crea un meccanismo a motore del tipo di quelli impiegati in età romana per la movimentazione delle scenografie. Nella fase medievale la ruota azionava motori e magli per le lavorazioni artigianali, fungendo anche da ruota di mulino.

Attualità del Medioevo

Una ricostruzione accurata Perduta la funzione scenica, il teatro si trasformò in luogo di lavoro e abitazione, e, a partire dall’XI secolo, se non prima, l’ambulacro fu soppalcato e trasformato in casa. Nasce cosí la «Casa di mastro Cecco», nome di fantasia attribuito a un ipotetico agiato commerciante del XIV secolo che, insieme alla sua famiglia, poteva aver risieduto nell’antico teatro romano. La struttura è quella classica della «casa e bottega» di pompeiana A centro pagina e a sinistra alcuni particolari della Casa di mastro Cecco, ricostruita dalla Compagnia delle Arti all’interno del teatro romano di Bevagna, secondo i dettami tipici del XIV sec.

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memoria, con il piano terra destinato all’attività produttiva e il piano superiore ad abitazione del proprietario. Una ripida scaletta conduce appunto al primo piano, dove, in un unico vasto ambiente, sono allestiti la cucina e la dispensa, il camino, con accanto il letto incortinato, la culla, gli abiti, l’altarolo. La stanza accanto è dominata dalla tavola da pranzo, elegantemente apparecchiata, e ospita anche il telaio, lo scrittoio con la libreria e l’occorrente per scrivere, alcuni giocattoli e, infine, la tina da bagno circondata da cortine. Insomma, tutto il necessario per una vita agiata, svolta tra intimità domestica e rappresentanza sociale. Dal letto al telaio alla tinozza da bagno, dai tessuti alle posate, tutto è stato realizzato a mano da provetti artigiani locali, prendendo a modello oggetti e materiali in uso tra il 1100 e il 1300. La ricostruzione dell’ambiente, dei mobili e delle

E cosí, al cospetto di vesti, cibarie, altarini, oggetti scaramantici, tavole apparecchiate, si ha la sensazione di entrare in una casa nella quale mancano solo i proprietari. Ma il punto di forza della visita, vero e proprio viaggio nel tempo, sta nella capacità espositiva delle guide della Compagnia delle Arti e nella strategia di comunicazione usata per coinvolgere chi partecipa al tour, secondo un modello di «visita dinamica», in cui il Medioevo non è relegato in un passato lontano, ma rappresenta l’humus su cui si sono impostati usi e costumi tuttora diffusi. Si pensi alla valenza simbolica e di status symbol degli oggetti, dalle candele di sego o di cera d’api, all’uso del vetro, ai valori legati al telaio e alla tessitura e quindi al mondo femminile, oppure al significato beneaugurante di semplici oggetti da cucina come il mortaio e la macina, agli altarioli da camera dove ai santi si affiancano oggetti scaramantici e apotropaici di antichissima tradizione. Per informazioni: Compagnia delle Arti, Via del Teatro Romano 11, 06031 Bevagna (Perugia); tel. 0742 360229 oppure 333 1207957 Francesca Ceci

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caleido scopio

Atti e segreti libri • Se adeguatamente analizzati, i registri notarili

possono essere una miniera di informazioni di straordinaria ricchezza. Una riprova eloquente viene da questa nuova grande opera sulla storia della città di Lecco nell’età medievale

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rutto del lavoro decennale di una équipe di studiosi (finanziato dalla Fondazione Ercole Carcano di Mandello Lario e dalla Fondazione della provincia di Lecco), la ponderosa opera in due volumi comprende una prima parte con saggi introduttivi sul periodo storico, sull’economia lecchese e sull’attività dei notai della zona, e una seconda contenente l’edizione dei regesti degli atti notarili (quasi 4000) concernenti Lecco e il suo territorio nel periodo compreso tra il 1343 e il 1409, quando cioè a Milano, da cui il centro lariano era dominato, signoreggiavano i Visconti. Per un’area come quella lombarda e soprattutto per il periodo visconteo, per il quale la documentazione di carattere pubblico è andata in gran parte perduta, gli atti dei notai rappresentano la sola fonte a cui si possa fare riferimento per approfondire le conoscenze sui settori piú vari della vita civile, familiare, economica, religiosa e a volte anche politica, di ciascuna comunità. E la situazione di Lecco, in ragione della posizione geografica e dei ricchi giacimenti minerari, risulta particolarmente interessante, sia dal punto di vista politicomilitare che da quello economico, commerciale e manifatturiero. Da qui il carattere meritorio della pubblicazione, i cui curatori hanno dovuto, tra l’altro, individuare materialmente i notai attivi a Lecco, dispersi tra il Fondo Notarile dell’Archivio di Stato di Milano, e,

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in piccola parte, in quello di Como: impresa, già questa, notevolissima. Dato poi il numero ragguardevole di professionisti al servizio della comunità (76 per un totale di oltre 54 000 documenti, tra il 1376 e il 1499), la pubblicazione è stata limitata agli atti dei primi cinque conservati all’Archivio di Milano, oltre a un sesto conservato a Como.

Tensioni e scontri politici La tensione fra una città dalla crescita straordinaria come Milano, e i centri demici dell’area pedemontana come Monza, Cantú, e, soprattutto, Lecco, partendo dalla plurisecolare signoria dell’arcivescovo ambrosiano su quest’ultima comunità (che fin dall’XI secolo costituiva una fortezza arcivescovile d’importanza strategica all’imbocco dell’Adda e del lago di Como), riaffiora sistematicamente fra Due e Trecento, per assumere, in età viscontea, la forma dello schieramento politico guelfo o ghibellino, nei confronti dei signori della capitale del dominio. Il borgo costituiva infatti uno dei centri piú importanti del territorio settentrionale dominato da Milano, e poteva contare su autonome capacità produttive e commerciali, che avevano il loro fulcro nella manifattura laniera e nello sfruttamento delle vene ferrose. Dagli anni Trenta-Quaranta del Trecento poi, in seguito all’affermazione del dominio sovracittadino dei Visconti, Lecco

Carmen Guzzi, Patrizia Mainoni, Federica Zelioli Pini (a cura di) Lecco viscontea. Gli atti dei notai di Lecco e del suo territorio (1343-1409) Fondazione Ercole Carcano, Cattaneo Editore, Lecco, 2 volumi, 1440 pp., 580 ill. 48,00 euro ISBN 88-97594-07-9 www.cattaneoeditore.it ottobre

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Nella pagina accanto, in alto l’emblema di una famiglia nobiliare lecchese. In alto e in basso due tavolette da soffitto

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lignee quattro-cinquecentesche, dipinte con ritratti. Come molte altre sono state individuate in dimore patrizie sul lago di Como.

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caleido scopio mestieri; il paesaggio urbano e gli spazi domestici; Milano e i Visconti; la cultura libraria; gli emblemi delle piú importanti famiglie lecchesi tratte dalle principali raccolte di stemmi relative a quel territorio.

Arti e mestieri

Una delle mappe censite nel corso della ricerca sugli atti notarili riferibili alla città di Lecco e ora pubblicate nell’opera dedicata alla storia del centro lariano in età viscontea.

assunse la funzione determinante di porto di smistamento delle merci provenienti dalla parte orientale e da quella occidentale della Lombardia. Ad aumentare la situazione di conflitto tra i signori di Milano e la comunità di Lecco contribuí in modo non trascurabile l’inasprimento fiscale, attuato a partire dagli anni Novanta del Trecento, con continue rideterminazioni verso l’alto dell’estimo, la tassa sui beni immobili, sulla quale si basava l’imposizione fiscale gravante sul Lecchese. L’opera è corredata da un

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ricchissimo apparato iconografico, che occupa ben 215 pagine, per un totale di 580 immagini, divise in sezioni, ciascuna delle quali preceduta da un’introduzione: in primo luogo la cartografia dell’area del lago di Como e della Penisola, con numerose mappe molto antiche e rare, alcune delle quali risalenti al XIV secolo, tra cui una splendida carta trecentesca dell’Italia, rovesciata e stilizzata, contenente l’indicazione delle principali località. Le altre parti della sezione iconografica riguardano il lavoro dei campi, con allevamento, pastorizia, pesca, caccia; il commercio e i

In particolare, per quanto riguarda il lavoro nei campi e i mestieri, accanto alle tradizionali immagini, relativamente note, tratte dai Tacuina sanitatis trecenteschi e quattrocenteschi, compaiono anche illustrazioni pressoché sconosciute, reperite nelle chiese del lago di Como: gli affreschi duecenteschi dell’abbazia di Piona raffiguranti il ciclo dei mesi con le attività dei contadini (la preparazione dei sostegni per le viti, la costruzione delle botti, la mietitura); il Giudizio Universale della chiesa di S. Giorgio a Mandello Lario (XV secolo), in cui sono rappresentati i castighi inflitti a coloro che si erano macchiati di frode nello svolgimento della propria attività (uomini politici, notai, medici, speziali, tintori, follatori, pellicciai, barbieri, mugnai, pescatori, coniatori di monete false). Anche la sezione degli ambienti domestici contiene un’eccezionale e pressochè sconosciuta serie di tavolette da soffitto lignee quattrocinquecentesche, dipinte con scene di vario genere (scene di caccia, figure mitologiche, ritratti), e collocate in svariate dimore patrizie disperse lungo le rive del Lago di Como, manufatti rari, o comunque di difficile reperimento (sia per la loro dispersione, sia perché contenute spesso in case private), che la pubblicazione ha il merito di aver raccolto e fatto conoscere forse per la prima volta. Completano l’opera accuratissimi indici dei nomi di persona e di luogo contenuti nei documenti notarili regestati, indispensabile ausilio per chi voglia intraprendere ricerche sulle famiglie e sulle località del lecchese, e un’altrettanto indispensabile classificazione degli atti per materie. Maria Paola Zanoboni ottobre

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Lo scaffale Bruno Figliuolo (a cura di) Storia di Cividale nel Medioevo Economia, società, istituzioni

Città di Cividale del Friuli, 380 pp., 32 tavv. col.

25,00 euro ISBN 978-88-97442-05-9 www.cividale.net

Prima storia cittadina del Friuli, dalle origini romane fino alla conquista del patriarcato da parte di Venezia nel 1420, l’opera mira a individuare le tracce della vicenda «urbana» di Cividale, indipendente e autonoma dal territorio circostante. Tracce inequivocabili, che dimostrano l’esistenza, nel Medioevo, di una realtà cividalese estremamente vitale, per nulla offuscata dalla vicina Aquileia – sede vescovile – e capace di esercitare un efficace controllo economico e amministrativo sul proprio territorio. Il testo analizza vari aspetti della storia della comunità di Cividale, grazie alla ricerca archivistica resa possibile dall’imponente opera di tutela e conservazione del patrimonio storico effettuata dall’amministrazione della città fin dall’Ottocento. I primi capitoli seguono l’evoluzione storica

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della cittadina friulana, dai primi insediamenti risalenti al Paleolitico Medio alla fondazione di Forum Iulii in epoca cesariana, dalla presenza longobarda al grande sviluppo in senso cittadino del XIII e del XIV secolo. La seconda parte della trattazione si addentra nello specifico della vita economica e sociale; ecco, per esempio, l’importanza rivestita dalla presenza delle grandi compagnie «straniere», toscane soprattutto, attirate dalla combinazione favorevole di fattori produttivi e demografici: «La cosiddetta rivoluzione commerciale del XII secolo (…) ha toccato senz’altro anche il patriarcato di Aquileia (…) Si intensificano gli scambi ma soprattutto si diffonde a tutti i livelli della scala sociale l’uso della moneta. Le società toscane si trovano a operare su di un terreno già fertile, giacché sono in grado di rispondere

meglio a queste nuove esigenze finanziarie (...) Ma esse giungono nell’area soprattutto attirate dalla possibilità di trovarvi grano a buon mercato e di poterlo commerciare liberamente. La crescita demografica di molte città italiane, infatti, divenute ormai troppo popolose per essere nutrite unicamente dal proprio contado, ha reso assai lucroso il commercio delle derrate di prima necessità, anche a lunga distanza». Particolarmente interessante è il capitolo che affronta la questione delle diverse origini della nobiltà «delle armi» e dell’aristocrazia «del patrimonio» e degli incarichi pubblici, di piú recente formazione: qual era il discrimine tra le due classi? Era una dicotomia netta o presentava confini piú sfumati di quanto riportato dalla storiografia? Come si entrava a far parte della nobiltà? I capitoli finali sono dedicati al ruolo degli ospedali e delle confraternite nel Basso Medioevo e all’amministrazione civica nel Trecento. Corredano il volume tabelle esplicative e tavole con foto a colori. Un’opera di elevato livello scientifico, che,

pur non pretendendo di essere esaustiva – «Il lettore, ovviamente, non vi troverà tutto quello che vorrebbe e che anche a noi sarebbe piaciuto si trovasse» scrivono gli autori –, si propone, con successo, di «dimostrare come a Cividale si rappresentino le medesime problematiche storiche ben piú ampie e generali che la piú avvertita storiografia internazionale (…) ha evidenziato per altre aree geografiche». Giorgio Rossignoli Simone Baiocco e Marie Claude Morand (a cura di) Uomini e santi L’immagine dei santi nelle Alpi Occidentali alla fine del Medioevo Officina Libraria, Milano, 247 pp., ill. col.

28,00 euro ISBN 978-88-97737-13-1 www.officinalibraria.com

Il volume, che ha accompagnato un ciclo di sei esposizioni allestite in Italia, Francia e Svizzera, è uno dei frutti del progetto internazionale Sculpture médiévale

dans les Alpes, nato nel 2002 e finalizzato, appunto, allo studio della scultura medievale. In questo caso, grazie ai contributi riuniti nell’opera, viene appunto affrontato il tema della raffigurazione dei santi, che ha sempre occupato, nell’ambito della piú generale produzione artistica, un posto di rilievo, dovuto, innanzitutto, al fondamentale ruolo di committente esercitato dalla Chiesa. Le pitture e le sculture a soggetto religioso che fanno da filo conduttore del volume divengono, di fatto, i puntelli sui quali i vari autori costruiscono riflessioni che vanno ben oltre la sola esegesi artistica. Statue e dipinti sono infatti funzionali a riflessioni di taglio storico (ma non solo), che aprono finestre di grande interesse su vari contesti geografici e culturali dell’area alpina occidentale, come nel caso, per esempio, dei saggi sulle diocesi del ducato di Savoia o del rapporto tra religione e politica nel Vallese. Da sottolineare, in una pubblicazione che nasce da osservazioni di tipo iconografico, l’ottima qualità del corredo di fotografie e illustrazioni che accompagnano i testi. Stefano Mammini

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caleido scopio

Virtuosi dell’arpeggio musica • La tiorba e la chitarra conobbero un

grande successo tra XVI e XVII secolo, rivelando grandi potenzialità, capaci di affrancarli dal solo accompagnamento delle voci

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ppartenente alla famiglia del liuto, la tiorba ha conosciuto tra la fine del Cinquecento e la prima stagione barocca una grande diffusione, emancipandosi gradualmente dall’originaria funzione di supporto armonico al canto e affermandosi come strumento solista con una propria letteratura virtuosistica. D’altronde, le limitate sonorità del liuto poco si adattavano all’utilizzo con organici vocali-strumentali sempre piú nutriti e il problema fu risolto dalla tiorba, grazie a una cassa armonica piú ampia e all’aumentato numero (da 14 a 16) nonché alla disposizione delle corde, che ne ampliavano sensibilmente la potenza sonora. Nel XVII secolo ebbe un crescente successo anche la chitarra, e proprio alla letteratura per tiorba e chitarra spagnola è dedicata la raffinata antologia Dans la nuit (EL 132329, 1 CD, www.soundandmusic.it), che ci guida tra le delicate e affascinanti sonorità dei due strumenti, proposte dal tocco sensibile di Simone Vallerotonda.

Alle corte del re Sole Una scelta antologica che si concentra geograficamente nella Francia del Re Sole, dove furono attivi l’italiano Francesco Corbetta e il suo discepolo Robert de Visée, che dettero grande impulso alla diffusione di questi strumenti: il Corbetta divenne un rinomatissimo compositore di musiche per chitarra, molto richiesto dalle corti europee, mentre de Visée ottenne il titolo di maître de guittare di Luigi XIV. Nel CD se ne ascoltano movimenti di

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danza, chaconnes, sarabandes, passacailles, tratti dalle numerose raccolte a stampe e manoscritte pervenuteci. Simone Vallerotonda si destreggia tra i brani per chitarra di Corbetta e quelli per tiorba di de Visée in maniera egregia, con momenti di grande virtuosismo, come nel caprice de chacone di Corbetta. Tra i brani di de Visée, a cui le basse risonanze tipiche della tiorba danno una impronta decisamente piú solenne, ricorrono alcuni omaggi del compositore ad altrettanti celebri musicisti dell’epoca come accade in Les Sylvains de M. Couperin e l’Entrée des Espagnols de M. Lully, in cui vengono trascritte per la tiorba musiche del grande Seicento francese. E su questa impronta si

collocano anche altre due bellissime trascrizioni per tiorba dello stesso Vallerotonda dedicate a due tra i piú famosi brani per viola da gamba di Marin Marais. Nella sua versatilità di liutista/ tiorbista/chitarrista, nonché di trascrittore, Simone Vallerotonda si conferma tra i piú talentuosi rappresentanti della nuova generazione di musicisti dediti alla musica antica. Franco Bruni

La pastorella innamorata I

spirata alla storia d’amore tra Robin e Marion, a cui Adam de la Halle dedicò, nel XIII secolo, quel Jeu de Robin et Marion che può essere considerato come la prima grande opera teatrale francese, l’antologia Je voy le bon tens venir. Polyphonies et danses autour de 1400 (Alpha 189, 1 CD, www. soundandmusic.it) propone brani che risentono del linguaggio arsnovistico trecentesco, ormai aperto alla sensibilità cantabile che va affermandosi nel Quattrocento. Il Jeu de Robin et Marion – le cui origini risalgono a ben prima dell’opera di de la Halle – narra le vicende amorose della pastorella Marion e di Robin, personaggi celebrati anche da numerose composizioni musicali, come quelle qui presentate, nelle quali vengono messi a confronto generi in voga alla fine del Trecento, in un incontro/scontro tra stili piú aulici, legati al mondo cortese, e movimenti di danza piú vicini all’elemento popolare.

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Alle radici del pop C

on uno sguardo rivolto allo strato piú basso della società, a quel mondo popolano in cui i protagonisti, calate le vesti dei personaggi della poesia aulica, incarnano i sentimenti e le passioni piú veraci, l’antologia Musica disonesta. Miti e racconti dall’Umanesimo (Tactus, TC 490001, 1 CD, www.soundandmusic.it) propone un viaggio musicale accattivante, che fa emergere la vox populi in tutta la sua colorita varietà espressiva. In questa insolita scelta il gruppo Anonima Frottolisti non poteva non soffermarsi, in particolar modo, sul genere della frottola, strettamente legato alla «ballata» popolare, e costruito su una struttura strofica intervallata da ritornelli: tipico esempio di un movimento d’origine popolare riassorbito nella tradizione «colta», pur mantenendo, come nei testi qui proposti, un carattere fortemente popolaresco. Le forme dialettali e un linguaggio ricco di doppi sensi e, a tratti, scurrile, caratterizzano questi brani, tutti volti all’effetto immediato, connotati da uno stile meno esigente rispetto alla grande tradizione polifonica e dove è piuttosto il contenuto «rustico» a determinare l’andamento musicale delle composizioni. Nell’antologia compaiono celebrità che dettero un contributo significativo nel campo della frottola, come il Tromboncino e Marchetto Cara, entrambi attivi alle corti di Ferrara e Mantova durante il XV secolo.

Altri rappresentanti del periodo sono Michele Pesenti e Ludovico Fogliani che, accanto ad altri brani anonimi, mettono in risalto un mondo fatto di ironia, giochi di parole e facezie ben sintetizzato nel brano di chiusura Son piú matti in questo mondo. Avvalendosi di un ampio organico strumentale, l’Anonima Frottolisti, diretta da Luca Piccioni e Massimiliano Dragoni, dispiega una varietà di colori e combinazioni strumentali notevoli, con flauti, tromboni, viole, percussioni, liuti, bombarde, che, insieme ai quattro solisti di canto, concorrono a incarnare il tono popolareggiante e licenzioso di questo repertorio, enfatizzato da un approccio vocale appropriato al contesto. F. B.

Les Musiciens de Saint-Julien, diretti da François Lazarevitch, ricreano con successo suggestioni e atmosfere ispirate a questo mondo, soprattutto nei brani in cui l’utilizzo delle cornamuse infonde un carattere decisamente bucolico al pezzo. Vari sono i generi eseguiti, tra cui il virelai, il rondeau, il motet, la ballade, diffusi nella Francia del XIV-XV secolo, ma ampiamente praticati anche nel resto d’Europa. Tra gli autori scelti per l’antologia figurano alcune eccellenze del panorama musicale dell’epoca: il fiammingo Johannes Ciconia, con la ballata Gli atti col dançar, e Matteo da Perugia, con il brano Pour dieu vous pri, senza dimenticare lo stesso Adam de la Halle, che, oltre all’arte della scrittura, si dedicò anche alla composizione musicale. Molto belle sono le combinazioni tra i vari strumenti della tradizione medievale, con accostamenti a volte insoliti ma, artisticamente parlando, funzionali alla fruizione di un linguaggio non sempre facilissimo; come felici risultano gli impasti tra le tre voci maschili e gli strumenti con soluzioni sonore sempre originali e godibilissime. F. B.

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