Medioevo n. 197, Giugno 2013

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Mens. Anno 17 n. 6 (197) Giugno 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 6 (197) Giugno 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

dossier

eretici

Quando la chiesa disse «no»

milano

I segreti di piazza Mercanti

l’arte della guerra

Come umiliare il nemico

giugno 1289

La battaglia di Campaldino



sommario

Giugno 2013 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

restauri Sacra maternità

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itinerari Tesori di Piemonte

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mostre Lo scriptorium: una fucina d’arte Alla ricerca di un mito

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appuntamenti Un anno per Boccaccio Omaggio al vescovo Sia lode al Battista L’Agenda del Mese

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immaginario L’anima Vedere l’invisibile di Lorenzo Lorenzi

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52 94 CALEIDOSCOPIO

STORIE battaglie Campaldino La vittoria del sommo poeta di Federico Canaccini

28

di Alessio Montagano

Alberto Magno

di Francesco Colotta

Monete ossidionali

Assedio e disonore

personaggi Penso, dunque credo

costume e società

40

40

60

luoghi milano Piazza, bella piazza...

di Maria Paola Zanoboni

Dossier

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cartoline La munificenza di Ascherio

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tesori di carta Dalla Northumbria al Monte Amiata

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libri Una lettura dolce come il miele Lo scaffale

109 110

musica Finezze nascoste Musiche e danze per i reali di Spagna Al calar del sole

eresia e repressione di Fabio Brioschi

111 112 113

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Ante prima

Sacra maternità restauri • La tenera immagine

della Vergine che allatta il Bambino dipinta dal Maestro di Signa per l’antico ospedale fiorentino di S. Lucia ha ritrovato la lucentezza dei suoi colori originari. Un gioiello «minore», ma carico di grande e umana intensità

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ino agli ultimi anni dell’Ottocento, Firenze era cinta da mura possenti, costruite tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento per opera dell’architetto Arnolfo di Cambio. Quando la città diventò capitale d’Italia, nel 1865, si decise di abbattere la cerchia medievale, per realizzare l’ampliamento del tessuto urbano, attraverso un anello di viali proprio lungo il perimetro della fortificazione. In prossimità di porta san Frediano, ubicata nella zona occidentale dell’Oltrarno, si trovava l’ospedale per pellegrini intitolato a santa Lucia, sul cui muro era collocato il tabernacolo raffigurante la Madonna del Latte, recentemente restaurato. L’immagine, risalente ai primi decenni del XV secolo, accoglieva e salutava i viandanti in entrata e in uscita, che percorrevano la via Pisana.

Lo spostamento dell’opera Nel 1642, per realizzare l’apertura di un nuovo ingresso nell’edificio ospedaliero, divenuto monastero dell’Arcangelo Raffaello, l’affresco venne staccato dalla parete e trasportato, con la porzione di muratura sottostante, nella vicina via San Giovanni, dove è attualmente visibile.

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La scena rappresenta la Vergine che porge il seno al Bambino, seduta su un trono marmoreo dalle forme classiche, davanti al quale è inginocchiata una coppia di angeli con strumenti musicali, mentre altri due si presentano in atteggiamento adorante. Tale iconografia divenne molto popolare nella scuola pittorica toscana e nel Nord Europa a partire dal Trecento, proponendo icone sempre piú realistiche e umanizzate.

Firenze, via San Giovanni. L’edicola in marmo bianco e pietra serena che custodisce l’affresco raffigurante una Madonna del Latte, attribuito a un artista noto come Maestro di Signa. L’opera, realizzata nei primi decenni del XV sec., era in origine collocata sul muro esterno dell’ospedale di S. Lucia, in prossimità di porta San Frediano. Venne spostata nel 1642, per consentire l’apertura di un nuovo ingresso al nosocomio.

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Nonostante le lacune conservative e i ritocchi, è riconoscibile la mano di un artista noto come Maestro di Signa, pseudonimo derivatogli dal ciclo pittorico da lui eseguito appunto nella pieve di S. Giovanni Battista a Signa, paese della campagna fiorentina. Seppur considerato una personalità minore nel panorama delle grandi committenze, il pittore si formò presso Bicci di Lorenzo, a capo di una attiva bottega nel quartiere di Oltrarno e prolifico esponente dello stile gotico internazionale. Durante il suo apprendistato, ebbe modo di conoscere e approfondire le manifestazioni di rinnovamento proposte dal Rinascimento e, contemporaneamente la linea di mediazione ancora adottata dal laboratorio di Bicci. L’ignoto Maestro di Signa ebbe fortuna soprattutto nel contado, lasciandoci un consistente numero di opere devozionali, testimonianza del suo gusto per la tradizione,

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mediata attraverso la ricerca di un aggiornamento del suo linguaggio figurativo.

Marmo bianco e pietra serena L’attuale disegno compositivo del tabernacolo, commissionato dalla famiglia Vitali, proprietaria della casa sita all’angolo tra via San Giovanni e borgo San Frediano, con la sua elegante edicola in marmo bianco e pietra serena, è frutto di complesse vicissitudini e restauri succedutisi nel tempo. Quest’ultimo intervento conservativo ha permesso di consolidare la pellicola pittorica con pigmenti naturali e di sistemare la base deteriorata dall’umidità, con la ricostruzione del supporto in legno e masonite e della cornice. Il principale obiettivo era il recupero estetico dell’opera di pregevole fattura, per favorire la corretta lettura dei valori scultorei e cromatici, pesantemente offuscati da depositi di varia natura e da un

Errata corrige con riferimento all’articolo «L’universo secondo Ildegarda» (vedi «Medioevo» n. 195, aprile 2013), desideriamo segnalare che, a p. 59, è stato erroneamente inserito Tommaso d’Aquino tra i filosofi che ispirarono le speculazioni di Ildegarda di Bingen. Circostanza che, naturalmente, non poté verificarsi, dal momento che il celebre pensatore e teologo nacque circa cinquant’anni dopo la morte della mistica tedesca. diffuso e deturpante proliferare di microrganismi. Adesso, il tabernacolo della Madonna del Latte, il cui culto si diffuse soprattutto nelle campagne, è visibile anche nelle ore notturne, grazie a due tubolari a led collegati all’illuminazione pubblica. Mila Lavorini

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Ante prima

Tesori di Piemonte itinerari • Oltre 100 percorsi costituiscono un’imperdibile occasione per chi

voglia conoscere le vestigia dell’arte e dell’architettura medievale nei luoghi piú preziosi e segreti della regione. Da giugno a ottobre, tra trekking e visite guidate

S

ono tanti e di segno diverso, gli itinerari messi a punto per Gran Tour 2013, iniziativa che propone 130 percorsi alla scoperta di tesori nascosti in tutto il Piemonte. La manifestazione, giunta alla VI edizione, scommette sull’intreccio fra natura, arte e storia, per avvicinare turisti e curiosi alle eccellenze di un territorio che offre molto, anche in termini di gastronomia. Oltre a circuiti che toccano musei defilati, archivi di design, dimore storiche, biblioteche, sono in calendario, fino all’autunno inoltrato, anche numerose proposte legate all’Età di Mezzo. Per il trekking sulle orme dei pellegrini lungo il tratto canavese della via Francigena, la prima tappa è Cesnola (To), un borgo circondato da vigneti a terrazze, proprio alle falde dei monti fra Piemonte e Valle d’Aosta, che gli amanti dell’arrampicata conoscono per la falesia. Da lí si può raggiungere a

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piedi il complesso paleocristiano di Settimo Vittone (To), con la pieve di S. Lorenzo e il battistero di S. Giovanni, che rientrava fra le soste obbligate per i devoti in viaggio alla volta di Roma o di Santiago di Compostella. Tutelato da FAI, il complesso carolingio è fra le poche architetture preromaniche a pianta centrale della regione. All’interno, inoltre, sia la pieve che il battistero conservano vari cicli di affreschi, realizzati da pittori attivi tra il 1100 e la fine del 1400.

Due immagini di Lanzo Torinese: il ponte del Diavolo (in alto) e la torre di Aimone (in basso).

Cantine scavate nella roccia Sempre in giornata, camminando fino a Borgofranco d’Ivrea, meritano una tappa i caratteristici balmetti, circa duecento piccole grotte naturali, scavate nella roccia, che sembrano formare una sorta di villaggio a sé stante: sono ambienti molto freschi, usati fin dal Medioevo per la maturazione del vino e del cibo, attorno ai quali, nel corso dei giugno

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secoli, è stata costruita una fitta rete di cantine (sabato 22 giugno). Un altro borgo, Lanzo Torinese (To), adagiato nell’omonima valle e circondato dal verde, riporta all’epoca cortese, grazie all’itinerario fra chiese, cappelle, torri e ponti. Tappe principali sono la chiesa dei santi Giacomo e Filippo, con la meridiana e le decorazioni gotiche in cotto, e la torre di Aimone, che il castellano di Challant fece costruire nel Trecento, come porta di accesso alla parte vecchia dell’abitato, ancora oggi punteggiata di dimore che si sviluppano soprattutto in altezza. Poi c’è il ponte del Diavolo, una struttura a una campata a schiena d’asino, lunga 37 m, considerata cosí perfetta da essere appunto tradizionalmente attribuita al diavolo (sabato 13 luglio). Un paesaggio diverso circonda le strade del Conte Verde, Amedeo VI di Savoia (1334-1383), un combattente valoroso che diede uno

statuto ai suoi domini, nel solco dell’opera di Pietro II. Lungo queste vie, battute da pellegrini e militari, si toccano strutture, anche profane, che hanno un rapporto forte con la roccia e con l’acqua: si va dall’ex convento di S. Maria del Monte Carmelo del Colletto, sorto a Roletto (To) su un insediamento religioso precedente, a Frossasco (To), con le chiesette, la cinta muraria e la cappella mariana del Boschetto. Poi meritano una visita il castello trecentesco di Osasco (To) e la chiesa parrocchiale di Garzigliana (To; domenica 21 luglio).

Come una caccia al tesoro Fra settembre e ottobre il programma di Gran Tour prevede altri due percorsi legati al Medioevo. Il primo, a Chieri (To), lungo l’antica via dei tintori, si snoda fra torri e mura, con soste ai cortili sui quali si aprivano le botteghe degli artigiani che tingevano i tessuti (domenica 15 settembre). In ottobre è in

calendario Dalle vigne di pietra alle pietre dei santi, una sorta di caccia al tesoro fra i sentieri astigiani del romanico, che raggiungono abbazie, chiese, cripte, boschi. Fra i luoghi da non mancare figurano la cripta di S. Anastasio ad Asti, Cinaglio con la chiesa duecentesca di S. Felice, Chiusano e il Giardino dei Poeti. E ad alcuni chilometri di distanza vale una sosta l’abbazia mariana di Vezzolano (At), che ha avuto una stagione artistica particolarmente felice fra il XII e il XIII secolo (domenica 13 ottobre). Ulteriori informazioni e il programma completo di Gran Tour 2013 possono essere richiesti al numero verde 800 329329, attivo tutti i giorni, dalle 9,00 alle 18,00 (chiuso dal 16 al 23 agosto); allo stesso scopo è possibile inoltre consultare i siti web: www.piemonteitalia.eu; www.provincia.torino.gov.it; www.torinocultura.it Stefania Romani

LO LEGGI COME TI PARE

MEDIOEVO

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9 IN ORIZZONTALE...


Ante prima

Lo scriptorium: una fucina d’arte mostre • Tra l’XI e il XIV secolo

in Abruzzo fiorisce una produzione libraria miniata di grandissimo pregio. Un patrimonio spesso poco noto, al quale è ora dedicata una ricca rassegna allestita a Chieti

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a miniatura è una delle espressioni artistiche che hanno maggiormente caratterizzato l’Età di Mezzo, tanto da esserne diventata, oggi, una delle icone. Tra le piú recenti iniziative che la vedono protagonista si colloca la mostra allestita a Chieti, in Palazzo de’ Mayo, che, tuttavia, non si limita a esaltare ancora una volta solo il valore estetico di queste raffigurazioni. L’esposizione, infatti, documenta una realtà ben circoscritta, cioè quella della produzione libraria miniata affermatasi in Abruzzo tra l’XI e il XIV secolo, e, soprattutto, presenta materiali spesso inediti, nonché, in un caso, miniature recuperate sul mercato antiquario – al quale erano approdate in seguito al trafugamento – e salvate dalla dispersione. Grazie ai prestiti concessi da istituzioni pubbliche, ecclesiastiche e private italiane e straniere, è stato possibile riunire una settantina di opere che dunque documentano la vivacità della produzione abruzzese,

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In basso pagina miniata del Messale Orsini. 1400-1405. Chieti, Curia Arcivescovile.

che ebbe tra i suoi centri di produzione principali lo scriptorium della cattedrale di S. Giustino a Chieti, oppure quelli di S. Liberatore alla Maiella, S. Clemente a Casauria e S. Maria della Vittoria presso Scurcola Marsicana.

Le acquisizioni piú recenti Le ricerche effettuate dai curatori della mostra nell’ultimo decennio hanno permesso di scoprire nuovi manoscritti, artisti e botteghe, facendo emergere una rete di rapporti differente rispetto a quanto era stato fissato nella storiografia precedente. Molti codici sono nati dalla collaborazione di più artisti, la cui presenza è rilevabile anche all’interno di una piccolissima immagine, e talvolta anche di provenienza diversa. All’interno del Messale di Offida, per esempio, giugno

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lavorano almeno due artisti; questo manoscritto è un’eccellente testimonianza del sistema del lavoro delle botteghe attive nel tardo Medioevo: artisti diversi fondono i propri interventi in modo da creare una grande uniformità stilistica pur mantenendo caratteri autonomi. Spesso gli artisti si trasferivano a Roma e Napoli, immettendo nelle capitali, del regno e del papato, componenti abruzzesi determinanti; altro interessante scambio avveniva tra l’Abruzzo e la Puglia, regione nella quale sono stati rintracciati numerosi codici abruzzesi. Rispetto a quelli di altre aree italiane, i miniatori abruzzesi firmano le loro opere con notevole orgoglio; essendo quasi tutte in lettere d’oro, mostrano un alto grado di autoconsapevolezza e un mercato librario di appartenenza di alto pregio. (red.)

In alto miniatura raffigurante la Crocifissione. Fine del XIII sec. Tagliacozzo, convento di S. Francesco. Nella pagina accanto iniziale istoriata con la raffigurazione della Pentecoste. Metà del XIV sec. Guardiagrele, Museo di S Maria Maggiore.

Dove e quando

«Illuminare l’Abruzzo. Codici miniati tra Medioevo e Rinascimento» Chieti, Museo Palazzo de’ Mayo fino al 31 agosto Orario giugno: ma-ve, 10,00-13,00; sa-do, 10,0013,00 e 16,00-20,00; luglio e agosto: ma-do, 19,00-23,00; lu chiuso Info tel. 0871 359801; e-mail: info@ fondazionecarichieti.it; www.fondazionecarichieti.it

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Ante prima

Alla ricerca

di un mito

mostre • Creatura leggendaria, legata al concetto

di purezza e innocenza, l’unicorno è stato scelto dal Metropolitan Museum di New York come simbolo dei festeggiamenti per il 75° compleanno dei Cloisters, la sezione medievale del museo

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he Cloisters, la sezione del Metropolitan Museum of Art di New York dedicata all’arte e all’architettura dell’Europa medievale, compie 75 anni e, per festeggiare la ricorrenza, propone una mostra sul tema dell’unicorno, la leggendaria creatura che, nell’Età di Mezzo, fu considerata simbolo di castità, nonché emblema di forza e di generosa

A destra acquamanile in lega di rame in forma di unicorno. Produzione tedesca, 1425–1450 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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In alto miniatura raffigurante un unicorno ammansito da una fanciulla, da un bestiario inglese. Ante 1187. New York, The Morgan Library & Museum.

vittoria. L’esposizione riunisce una quarantina di opere, selezionate fra quelle della collezione permanente del Met e ottenute in prestito da istituzioni pubbliche e private. Tra le prime, spicca il magnifico ciclo degli arazzi dell’Unicorno, una serie di sette tessuti, in lana e seta, considerati come una delle piú alte espressioni dell’arte tardomedievale. Realizzati forse a Bruxelles, o Liegi, tra il 1495 e il 1505, gli arazzi rappresentano una caccia al mitico animale, tema che è stato interpretato come una metafora di carattere religioso, giugno

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avente come protagonista Gesú Cristo, oppure come composizione celebrativa del matrimonio. Il ciclo appartenne a lungo ai conti francesi de La Rochefoucauld e fu quindi acquistato da John D. Rockefeller Jr., che lo donò al Met proprio in occasione della fondazione dei Cloisters, nel 1938. Proviene invece dalla Morgan Library and Museum il prezioso bestiario scritto e miniato in Inghilterra prima del 1187, e donato al priore agostiniano di Redford dal canonico di Lincoln. Un’opera in cui l’unicorno è raffigurato con il capo dolcemente posato nel grembo di una fanciulla. Un’immagine simile a quella che troviamo, per esempio, in un piatto in maiolica del tardo XV secolo, realizzato in occasione delle nozze tra Mattia Corvino, re d’Ungheria, e Beatrice d’Aragona: sono rappresentazioni in cui l’animale viene scelto come metafora dell’amore e del matrimonio, immagine di un’alleanza felice, rinsaldata dall’intreccio degli stemmi nobiliari degli sposi.

Qui sotto desco da parto con il trionfo della Castità. Tempera e foglia d’oro su legno. Produzione fiorentina, 1450-60 circa. Raleigh, North Carolina Museum of Art.

Allegorie e ammonimenti Su un desco da parto – un tondo dipinto su entrambi i lati che veniva offerto come dono cerimoniale alle donne delle famiglie piú abbienti che avevano appena partorito – di produzione fiorentina, compare invece una coppia di unicorni che tirano una carrozza dorata, simbolo di castità. Frequente era anche l’utilizzo dell’unicorno, insieme ad altri animali, per ammonimenti e lezioni di carattere morale: è quanto accade, per esempio, nel Meshal ha-Kadmoni una raccolta ebraica di antiche fiabe compilata nel XIII secolo e della quale è esposta nei Cloisters la prima edizione a stampa, pubblicata a Brescia nel 1491. Alla stessa epoca risale poi la Peregrinatio in Terram Sanctam, diario illustrato di un viaggio in Terra Santa, stampato in Germania nel 1486 e nel quale si legge che l’incisione

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In basso uno degli arazzi dell’Unicorno, raffigurante l’animale in cattività. 1495-1505. New York, The Metropolitan Museum of Art.

raffigurante l’unicorno si basava sull’osservazione di un animale realmente esistente! A corollario dell’esposizione vera e propria, vale la pena di segnalare che i suoi curatori hanno messo a coltura, nel Bonnefont Garden, piante dello stesso tipo di quelle che si possono vedere negli arazzi dell’Unicorno, la cui fioritura è prevista in coincidenza con l’apertura della rassegna. (red.) Dove e quando

«La ricerca dell’unicorno» New York, The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 18 agosto (dal 15 maggio) Orario martedí-domenica, 9,30-17,15; chiuso lunedí Info www.metmuseum.org

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Ante prima

Un anno per Boccaccio appuntamenti • Il settimo centenario della nascita di Giovanni Boccaccio viene

celebrato con un programma ricco di eventi. Le iniziative culturali – mostre, convegni, pubblicazioni, spettacoli – si succederanno fino al 2014: un calendario davvero nutrito, realizzato grazie all’impegno di istituzioni italiane e straniere

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ontano dai circuiti turistici e «appollaiato» sulla cima di una collina conica, sorge Certaldo, villaggio medievale, situato a circa 40 km da Firenze. Si raggiunge tramite una funicolare che parte dal borgo cresciuto ai piedi di questo minuscolo e silenzioso paese, costruito quasi interamente in mattoni e la cui unica strada pavimentata è intitolata a Giovanni Boccaccio, l’autore del Decameron. Lo scrittore nacque nel 1313 in un luogo ancora sconosciuto, ma trascorse qui i suoi ultimi anni, prima della morte, avvenuta nel 1375. Un’esistenza piena di punti oscuri quella del Boccaccio, probabile frutto della relazione clandestina tra suo padre, trasferitosi a Parigi per seguire la propria attività commerciale, con un’aristocratica francese. D’altronde anche la vita sentimentale del poeta è avvolta nel mistero: non sappiamo se la leggiadra Fiammetta, la donna amata, sia esistita veramente oppure sia stata una creazione della sua fantasia, né è certo se abbia effettivamente avuto una figlia, di nome Violante, scomparsa precocemente.

L’ultima dimora Certa pare essere, invece, l’iniziale sepoltura del corpo di Giovanni nella chiesa intitolata ai santi Michele e Jacopo di Certaldo. Nel 1783, però, la tomba fu aperta e le spoglie furono sparse nel cimitero attiguo. In occasione del VII Centenario della nascita del Boccaccio, è previsto un nutrito programma di eventi che si svolgeranno in Italia e all’estero Giovanni Boccaccio nell’affresco di Andrea del Castagno, da Villa Carducci. 1450 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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e si protrarranno fino al 2014. Tra i convegni, segnaliamo L’influenza di Boccaccio nella letteratura occidentale, che si svolge presso l’Università «La Sapienza» di Roma dal 2 al 9 giugno; Boccaccio politico, promosso dall’Università di Bologna, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica e dall’American Boccaccio Association, previsto per la seconda settimana di settembre; e Boccace et la France, dal 24 al 26 ottobre, alla Sorbona di Parigi.

Tra mostre e letture teatrali Certaldo Alto ospita, invece, l’esposizione De claris mulieribus, La citè des dames, in omaggio a Boccaccio e a Crhistine de Pizan, dal 1° al 30 giugno, mentre dal 13 luglio al 1° settembre, il museo Pecci di Prato, in collaborazione con Premio Celeste e Comune di Certaldo, presenta al Caffè Letterario le Murate di Firenze Omaggio degli artisti contemporanei a Boccaccio, nell’ambito della manifestazione Concreta 2013. Alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze sarà, inoltre, allestita la mostra di manoscritti dal titolo Boccaccio autore e copista, dal 12 ottobre 2013 al 30 maggio 2014. Mensilmente a Certaldo, in Casa Boccaccio si terrà 10 di 100. Il Decameron in 10 novelle, letture teatrali dal Decameron. E anche l’Università di Boston renderà omaggio allo scrittore con un evento in programma per il 23 novembre. Un piccolo spazio è dedicato a ricordare il 21 dicembre, giorno della morte del letterato, con una conferenza, in programma a Certaldo, la terza settimana del mese. Per ulteriori informazioni, si può consultare il sito web: www.boccaccio2013.it Mila Lavorini giugno

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Omaggio al vescovo appuntamenti • Il 23 giugno, la Festa dei Gigli in onore di san Paolino a Nola

celebra le vicende del patrono e degli abitanti della città, deportati in Africa durante le invasioni dei Vandali e poi rientrati, accolti dal giubilo popolare

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ll’inizio del V secolo, dopo la presa di Roma, i Vandali saccheggiarono anche la cittadina campana di Nola e deportarono molti dei suoi abitanti in Africa come prigionieri. Secondo una leggenda, fra loro vi era il giovane figlio di una vedova, che si rivolse al vescovo nolano Paolino per ottenere il denaro necessario per il riscatto. Paolino, avendo già venduto tutto ciò che aveva per liberare altri prigionieri, offrí se stesso: si recò quindi in Africa, dove i Vandali accettarono lo scambio, trattenendolo come giardiniere e lasciando andare il giovane. Diversi anni piú tardi Paolino fu liberato insieme ai suoi concittadini e tutti tornarono a Nola su una nave carica di frumento, fra l’entusiasmo dei Nolani che accolsero il loro pastore portandolo in processione con alcuni gigli. Questa cerimonia floreale divenne il modo per commemorare l’avvenimento e omaggiare il vescovo anche dopo la sua morte, avvenuta il 22 giugno del 431.

di scuro detto il «Turco», a ricordo del mare attraversato da Paolino per tornare in patria. I Gigli e il veliero sono portati a spalla da «paranze» di uomini, guidati da un capoparanza, che con abilità li fanno ballare, ruotare e avanzare al ritmo di marcette suonate da una fanfara che trova posto sulle stesse macchine. Dalla mattina fino a

Da fiori a obelischi Ancora oggi nella domenica successiva al 22 giugno, quest’anno il 23, la Festa dei Gigli in onore di san Paolino si ripete con la stessa passione, anche se con elementi mutati nei secoli. Oggi i Gigli sono otto pesanti obelischi di legno, alti circa 25 m e ricoperti da artistici addobbi di cartapesta. Assieme a essi partecipa alla cerimonia anche un grande veliero, con a bordo un uomo col volto colorato

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Nola. La folla gremisce piazza Duomo durante la Festa dei Gigli. notte, i Gigli percorrono le strade del centro storico, tra il tripudio della popolazione e la meraviglia dei turisti. Nel Medioevo i Gigli, partendo dai veri e propri fiori, sono diventati dapprima castelletti, poi hanno assunto la forma di obelischi, trascinati sulle strade con l’utilizzo di cinghie fino al Settecento e

successivamente sollevati da terra da «paranze» di uomini con l’utilizzo di barre orizzontali. Ancor piú recente è la tradizione delle orchestrine musicali, apparse nel Novecento.

«Ballate» e «girate» La festa inizia la domenica precedente a quella ufficiale, col trasporto dei Gigli spogli dai luoghi di costruzione alle abitazioni dei rispettivi maestri di festa. Fino al 22 giugno si procede alla loro vestizione con addobbi in cartapesta. Dopo una prima spettacolare esibizione nella serata del sabato, la domenica mattina, in una piazza Duomo gremitissima, le strutture lignee rendono omaggio a san Paolino effettuando una «ballata», le cui note sono emesse dai suonatori seduti sugli stessi obelischi. Nel primo pomeriggio i Gigli e il veliero vanno in corteo per il centro storico secondo un percorso invariato dal XV secolo: partono da piazza Duomo, percorrono il primo tratto di via San Felice, poi tra «ballate» e «girate» transitano su altre strade fino a piazza Marcello e infine si infilano in via De Notarsi, nell’ultima difficile tappa: si tratta infatti di una strada molto stretta, per cui si rende necessario ridurre il numero di portatori, con conseguente instabilità degli obelischi. La festa si conclude col ritorno «a casa» dei Gigli, che il giorno successivo vengono trasportati davanti al palazzo di Città, dove restano per alcuni giorni. Tiziano Zaccaria giugno

MEDIOEVO



Ante prima

Sia lode al Battista appuntamenti • Uno spettacolare carosello equestre, in cui i fantini fanno

ampio sfoggio della loro abilità, destreggiandosi tra la folla che si riversa nelle strade del centro storico, costituisce il cuore dei festeggiamenti dedicati al santo patrono di Ciutadella de Menorca, nelle Baleari

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gli inizi della nostra era la cristianità si diffuse rapidamente nelle Isole Baleari, dove Ciutadella de Menorca divenne sede vescovile già nel IV secolo. L’antica cittadina di origine cartaginese fu poi governata a lungo dai Mori, col nome di Madina al Jazira e Madina al Manurqa, finché, nel 1287, venne riconquistata da Alfonso III e divenne parte della corona d’Aragona. Divenuta un importante centro commerciale, nel 1558 Ciutadella de Menorca fu messa sotto assedio da una potente flotta turca, forte di 140 navi e 15mila soldati, comandata dall’ammiraglio ottomano Ariadeno Barbarossa, il quale, dopo otto giorni di battaglia, riuscí a entrare in città e fece prigionieri

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i sopravissuti, portandoli come schiavi in Turchia. Col tempo la cittadina spagnola riuscí comunque a tornare alla vita di sempre e riprese le proprie tradizioni cristiane, prima fra tutte quella che, fin dal XIV secolo, celebra il patrono san Giovanni nella giornata del 24 giugno.

Il pellegrinaggio dei cardatori Già nel Medioevo i cardatori di lana andavano in pellegrinaggio al santuario di S. Juan de Missa per onorare il patrono; a guidarli erano i rappresentanti delle istituzioni locali, della chiesa, della nobiltà e La folla si stringe intorno a uno dei cavalieri impegnati nei caroselli che animano la festa di san Giovanni.

del consiglio degli anziani, tutti a cavallo. Oggi le celebrazioni iniziano il 17 giugno col «dia des bè» («il giorno dell’agnello»), quando un contadino che indossa i panni di san Giovanni Battista, vestito con pelle di capra, attraversa le strade del centro storico con un agnello sulle spalle. A mezzogiorno del 23 giugno i fantini rappresentanti le varie delegazioni cittadine si radunano davanti alla casa del «caixer senor», il fantino piú anziano, che presiede la festa. Qui, il «primer toc de fabiol», ovvero il suono di un flauto, accompagnato al tocco di un tamburello, segna l’inizio della festa. Nelle ore successive, oltre un centinaio di fantini entrano a cavallo nella centrale plaza del Borne, mescolandosi alla folla al ritmo di musica tradizionale. Nel pomeriggio inoltrato la comitiva dei cavalieri, seguiti da centinaia di fedeli, si avvia al santuario di S. Juan de Missa, situato a circa 6 km da Ciutadella, per la messa di benedizione della città. Verso sera, cavalli e fantini tornano in centro storico per una parata fra le strade addobbate a festa. Il giorno seguente, il 24 giugno, dopo la messa mattutina nella Cattedrale, dal pomeriggio fino a tarda notte il centro storico è animato da affascinanti caroselli cavallereschi, quali s’ensortilla, carotes e correr abraçat. Per assistervi, la folla si avvicina pericolosamente ai cavalli, costringendo i fantini a vere e proprie acrobazie per eseguire i giochi medievali. T. Z.

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Viva la libertà! P

er la Repubblica di San Marino evocare il Medioevo significa esprimere la propria essenza. È infatti durante l’Età di Mezzo che la piccola comunità religiosa – fondata dal santo Marino, secondo la tradizione, nel 301 a.C. – evolve in uno Stato organizzato, dapprima denominato Comune e successivamente Repubblica, dando vita alle istituzioni che ancora oggi ne rappresentano il cuore pulsante. La capitale, arroccata sul Monte Titano, e circondata da tre ordini di mura costruite tra l’XI e il XIV secolo, ha mantenuto pressoché inalterata la propria struttura attraverso i secoli. Rappresenta perciò uno scenario unico, inserito dal 2008 nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Un palcoscenico naturale di rara suggestione per un fantastico viaggio nel tempo, che culmina nelle Giornate Medioevali, in scena dal 25 al 28 luglio. Un’avventura avvincente fatta di suoni, colori, profumi e sapori, uniti per creare atmosfere impalpabili che avvolgono le contrade, le piazze e gli angoli piú remoti della città vecchia. Dalla sua posizione privilegiata – il punto piú alto è situato a 750 m sul livello del mare – la città offre splendide vedute sulla riviera adriatica e sui sinuosi rilievi del Montefeltro.

Spettacoli, giochi e scene di vita quotidiana

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Gran finale con le balestre Come sempre, la serata finale è dedicata al tiro con la balestra, una tradizione radicata nella storia secolare della Repubblica e magistralmente ripresa nel 1956 con la costituzione della Federazione Sammarinese Balestrieri. Dalle locande si spandono profumi soavi: sono i piatti appositamente preparati per l’occasione, ispirati a ricette del XIV e XV secolo, serviti alla maniera medioevale. Ancora una volta, nella fioca e tremolante luce delle torce che proiettano ombre misteriose sulle antiche mura, seguendo il ritmo cadenzato dei tamburi, San Marino ritrova il suo passato. Le Giornate Medioevali rappresentano una splendida occasione per un soggiorno in Repubblica. Per saperne di piú: Ufficio di Stato per il Turismo; tel. 0549 882914; e-mail: info@visitsanmarino.com; www.visitsanmarino.com

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informazione pubblicitaria

Guarnigioni, duelli, saltimbanchi, giullari e musici si avvicendano lungo le strette e ripide vie, contornate dalla pietra arenaria dei vecchi palazzi. Di fronte alla Basilica che conserva le reliquie del Santo, nel luogo in cui sorgeva l’antica pieve, gli arcieri riorganizzano le Cerne, l’ingegnoso sistema difensivo che ha saputo preservare, in epoca di conflitti e invasioni, il bene piú caro al popolo

del Titano, la libertà. La Guaita, la fortezza piú antica, probabilmente già in essere prima del Mille, riacquista la sua funzione di posto di guardia e luogo di protezione per la popolazione. A renderla viva sono i giochi dei fanciulli, le attività domestiche e artigianali, le gesta degli armigeri che si addestrano per difendere l’inviolabilità della Torre, definita da Benvenuto da Imola Mirabile Fortilitium. Al calare del sole, il cuore della festa è presso la Cava dei Balestrieri, suggestivo anfiteatro scavato nella roccia. Le luci e gli animi si accendono, l’emozione sale e ha inizio lo spettacolo principale, quello piú atteso. I gruppi storici sammarinesi portano in scena vicende legate alla storia del paese, mentre prestigiosi ospiti da città storiche vicine e lontane completano il quadro fornendo una visione di ampio respiro.


agenda del mese

Mostre tortona S. Marziano e S. Innocenzo. Tortona paleocristiana tra storia e tradizione U Palazzo Guidobono fino al 15 giugno

La diocesi di Tortona, una tra le piú antiche del Nord Italia, celebra i suoi 1700 anni con una mostra che riunisce reperti archeologici, manoscritti miniati e testi a stampa. Allestita nel medievale Palazzo Guidobono (sorto come dimora signorile nel XV secolo), l’esposizione si articola in otto sezioni, rispettivamente dedicate: alla ricostruzione storica della città tra il I e il V secolo d.C., alla figura di san Marziano (II secolo d.C.), a quella di sant’Innocenzo (IV secolo d.C.), ai santi legati a san Marziano, alle chiese intitolate a san Marziano e a sant’Innocenzo erette nell’area lombardoligure-piemontese, all’archeologia e alla didattica, con il laboratorio Le pietre raccontano. La rassegna è dedicata alla riscoperta delle radici della comunità cristiana tortonese e nasce dall’invito ad aderire alle celebrazioni collegate all’anniversario dell’Editto di Tolleranza, emanato dall’imperatore Costantino nel 313. info tel. 0131 816609; e-mail: www.comune. tortona.al.it; www.diocesitortona.it

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a cura di Stefano Mammini

Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali,

probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it

firenze Esposizione straordinaria delle lunette del Beato Angelico da S. Antonino U Museo di San Marco, Sala del Lavabo fino al 30 giugno

È stata prorogata, fino al 30 giugno, l’esposizione, nella Sala del Lavabo del Museo di San Marco, di due lunette affrescate dal Beato Angelico, staccate in antico dal chiostro di S. Antonino. Si tratta della lunetta con San Pietro martire che invita al silenzio, proveniente dalla parete sopra la porta di comunicazione tra il chiostro e la chiesa, e di quella con Cristo pellegrino accolto da due domenicani, che era collocata nella parete sopra la porta di accesso nell’antico Ospizio dei Pellegrini. Non si tratta di una mostra, ma di un’occasione conoscitiva offerta dal Museo e, al tempo stesso, di un’operazione di valorizzazione delle proprie opere, grazie al sostegno della Fondazione Friends of Florence, che ne ha finanziato il restauro. Il loro recupero rientra nell’ ambito del progetto di intervento nell’intero chiostro, intrapreso da tempo dalla Soprintendenza con l’insostituibile apporto finanziario della Fondazione. L’esposizione offre ai

visitatori l’opportunità di avere una visione ravvicinata delle due opere, prima che sia effettuata la loro ricollocazione in parete. La presentazione delle due lunette è accompagnata da un video sul restauro eseguito nel 2012 da Bartolomeo Ciccone e Giacomo Dini. info www.polomuseale. firenze.it cortona IL TESORO DEI LONGOBARDI U Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 30 giugno

Nata dal dialogo tra la Consulta dei Produttori Orafi e Argentieri di Arezzo e il MAEC, la mostra si inserisce nel programma degli eventi previsti dal protocollo d’intesa tra Comune di Cortona e Comune di Cividale del Friuli per la valorizzazione della

storia longobarda in Toscana e della storia etrusca in Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione si divide in tre parti. La prima propone un inquadramento generale del popolo longobardo, dai tempi dell’arrivo in Italia fino alla conversione al cristianesimo. In questa prima parte sono esposti 56 oggetti relativi alle due sepolture, una maschile e una femminile, della Necropoli «della Ferrovia» di Cividale, e reperti di età longobarda provenienti dal territorio di Cortona. La seconda parte presenta oggetti diversi provenienti da scavi ottocenteschi della necropoli di Cividale del Friuli, nonché la copia del celebre disco in oro con figura del cavaliere e oggetti provenienti dal monetiere del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La terza parte presenta una trentina di pezzi di altissimo artigianato, ispirato al mondo longobardo, creati dai maestri orafi aretini. info tel. 0575 637235; www.cortonamaec.org milano Il grande alfabeto dell’umanità U Pinacoteca Ambrosiana fino al 30 giugno

Inserita nell’ambito delle celebrazioni per i 1700 anni dell’editto di Costantino, la mostra presenta codici biblici ed edizioni storiche della Bibbia, giugno

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che ripercorrono la tradizione ebraico-cristiana. Fra i codici concessi in prestito dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Vaticana e dalla Trivulziana, sono da segnalare salteri con il doppio testo in greco e latino, alcuni esemplari miniati, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, un Libro dei Re etiopico del 1344, con raffigurazioni molto sintetiche. info www.associazione santanselmo.org Napoli Restituzioni 2013. Tesori d’arte restaurati U Museo di Capodimonte e Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano fino al 9 luglio

Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. Opere che coprono un arco cronologico compreso tra l’VIII secolo a.C. e il primo Ottocento. Tra i molti capolvaori presenti, possiamo ricordare il magnifico trittico in alabastro con le Storie della Passione (metà del XV secolo), restaurato nel laboratorio del Museo di Capodimonte, il dipinto di Dosso Dossi, Madonna col Bambino e Santi Sebastiano e Giorgio, della Galleria Estense di Modena. Terminata l’esposizione, tutte le opere torneranno ai loro luoghi di origine, in una vera e completa «restituzione» al patrimonio del Paese. info www.restituzioni.com zurigo ANIMALI. Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna U Museo nazionale fino al 14 luglio

nel nostro immaginario. La mostra allestita a Zurigo ripercorre una storia millenaria che ha visto trasformarsi miti e leggende. Imponenti arazzi provenienti da palazzi reali, pregiate sculture in avorio conservate in gabinetti di curiosità, nonché opere di oreficeria

antica prodotte in area mediterranea rievocano le proprietà e il simbolismo associati a determinati animali. info www.animali. landesmuseum.ch

versailles Tesoro del Santo Sepolcro. Doni delle corti reali europee a Gerusalemme U Castello, Sala delle Crociate fino al 14 luglio

La mostra riunisce oltre 250 oggetti e opere d’arte, provenienti da un tesoro voluto per esaltare lo splendore della basilica del Santo Sepolcro, nonché di quelle di Betlemme e di Nazareth, e formatosi grazie ai doni inviati nei Luoghi santi dai piú importanti re d’Europa. Un insieme, quindi, assai variegato, nel quale sono confluiti manufatti assai diversi per provenienza, stile e ambito cronologico: solo per fare un esempio, si va da smalti limosini del XII secolo a una ancor piú antica campana di

Il successo che le loro storie riscuotono nel cinema e nella cultura popolare dimostra quanto gli animali, reali o fantastici, siano saldamente ancorati

L’esposizione presenta oltre 250 manufatti restaurati nello scorso biennio da Intesa fabbricazione cinese. Dalla fine del XIV secolo, il fenomeno si intensifica e, limitandoci alle sole donazioni di origine regale, giungono in Terra Santa lampade in oro e argento,

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candelabri, vasi liturgici impreziositi da smalti e pietre preziose, paramenti sacri… Un tesoro spettacolare, i cui rappresentanti, oltre che a Versailles, sono attualmente esposti anche nella Maison de Chateaubriand a Châtenay-Malabry. info www. chateauversailles.fr Firenze Percorsi di meraviglia. Opere restaurate del Bargello U Museo Nazionale del Bargello fino al 18 agosto

Protagonista della mostra è il monumentale arazzo quattrocentesco raffigurante l’Assalto finale a Gerusalemme, tornato a splendere dopo il restauro. Databile intorno al 1480, l’arazzo, prodotto dalla manifattura di Tournai, giunse al Bargello nel 1888, in seguito alla donazione della Collezione Louis Carrand. Imponente per dimensioni (4,32 x 4,02 m) e spettacolare per la vivacità narrativa e cromatica, fu realizzato su un cartone attribuito al Maestro di Coetivy, miniatore noto anche come pittore e disegnatore di vetrate. L’opera è esposta insieme a quattro valve di specchio in avorio trecentesche, di arte francese, e a oreficerie e smalti, di grande varietà e di grande pregio artistico, sempre appartenenti alla raccolta di arti applicate del Bargello,

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agenda del mese

restaurate negli ultimi due anni. Una seconda sala è invece dedicata al grande altorilievo in terracotta policroma raffigurante la Madonna in trono col Bambino e angeli, risalente al 1420, realizzato da Dello Delli. info tel. 055 2388606; e-mail: museobargello@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it Firenze La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460 U Palazzo Strozzi fino al 18 agosto

In undici sezioni, la mostra documenta la genesi del Rinascimento nel capoluogo toscano, soprattutto attraverso la scultura. Partendo dalla riscoperta dell’antico nella «rinascita» che, a cavallo tra Duecento e Trecento, ebbe come protagonisti Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio, si passa all’assimilazione della ricchezza espressiva del Gotico, di derivazione francese,

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per giungere, infine, all’alba del Rinascimento; il tema è esplicitato nella prima parte del percorso dove troviamo le due formelle «di prova» con il Sacrificio di Isacco di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi eseguite per il concorso indetto

nel 1401 per la seconda porta del Battistero fiorentino e il modello della Cupola brunelleschiana. È nei luoghi di solidarietà e di preghiera come chiese, confraternite e ospedali che si concentra la committenza artistica piú prestigiosa, creando un connubio perfetto tra Bellezza e Carità. Attorno al simbolo della città, il modello ligneo della cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi, il percorso espositivo presenta tipologie scultoree determinanti anche per l’evoluzione delle altre arti figurative, a diretto confronto con i classici. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org

Siena RESURREXI. Dalla Passione alla Resurrezione U Cripta e Museo dell’Opera fino al 31 agosto

L’itinerario si sviluppa principalmente in due sedi: nella Cripta, un ambiente interamente affrescato, e nel Museo dell’Opera istituito nel 1860 per conservare i capolavori provenienti dalla cattedrale. Il ciclo figurativo che si dispiega lungo le pareti della Cripta annovera episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nelle suggestive sale attigue all’ambiente affrescato, dove si ammirano parte delle antiche strutture della basilica, riconducibili al periodo che va dal XII al XIV secolo, sono esposti alcuni codici miniati provenienti dalla cattedrale e appartenenti alla liturgia pasquale. Uscendo dalla Cripta, e attraversando l’antico portale gotico del Duomo Nuovo, si giunge al Museo dell’Opera, dove, al primo piano di una sala climatizzata, è possibile ammirare le Storie della Passione dipinte da Duccio di Buoninsegna sul retro della grande pala d’altare con la Maestà realizzata per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311. info tel. 0577 286300: e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it Roma Costantino 313 d.C. U Colosseo fino al 15 settembre

Dopo essere stata presentata a Milano, giunge a Roma la grande rassegna che celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. info tel. 06 39967700; www.pierreci.it roma Il Tesoretto di Montecassino U Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre

È la prima esposizione del cosiddetto Tesoretto di Montecassino, costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro databili tra i secoli XI-XII. Proviene dal Lazio meridionale, ove fu rinvenuto nel 1898, presso la Badia di Cassino. Il prezioso insieme fu quindi separato: le monete vennero depositate giugno

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presso il Medagliere del Museo Nazionale Romano, mentre la fibula fu affidata al Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. L’accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ne ha favorito la riunificazione, in attesa di una sua definitiva sistemazione. Le fibule erano impiegate per la chiusura di capi di vestiario e di mantelli, costituendo un elemento di continuità con l’abbigliamento dei tempi piú antichi, sia femminili che maschili. In questo caso la preziosità dell’oggetto e la sua squisita fattura, memore della precedente tradizione classica, fanno pensare a una committenza di alto rango. Le monete che compongono il gruzzolo rappresentano uno spaccato della monetazione aurea dei Normanni di Sicilia. Si tratta di 29 tarí in oro emessi dalle zecche siciliane di Palermo e

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Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati. info tel. 06 54228199 firenze Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze U Museo delle Cappelle Medicee fino al 6 ottobre

La rassegna celebra Leone X, primo papa di casa Medici, a cinquecento anni dall’elezione al soglio pontificio. La mostra segue la vita di Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, dalla nascita a Firenze, nel 1475, fino al 9 marzo 1513, quando

venne eletto papa, e al suo breve ritorno in patria nel 1515. Uno dei capitoli salienti del percorso è quello in cui si rievocano il pontificato di Leone X e i suoi riflessi su Roma. Gli anni del papato leonino furono celebrati come una nuova «età dell’oro», in cui la capitale della cristianità poté rivivere per opera non solo di artisti, ma anche di poeti e di umanisti, le istanze del mondo classico. Sono gli anni in cui si iniziarono o si proseguirono le grandi fabbriche dell’Urbe: fra le altre la basilica di S. Pietro, mentre Raffaello dette seguito a imprese pittoriche straordinarie. info www.polomuseale. firenze.it perugia RAFFAELLO E PERUGINO. Modelli nobili per Sassoferrato a Perugia U Nobile Collegio del Cambio fino al 20 ottobre (dal 22 giugno)

La mostra, che propone il confronto fra tre grandi maestri – Perugino, Raffaello e Sassoferrato –, è la prima importante estensione fuori dalla Toscana del progetto «La città degli Uffizi». Per Raffaello si tratta di un ritorno a Perugia, che avviene attraverso il celeberrimo Autoritratto (dipinto tra il 1504 e il 1506),

Tivoli Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna U Villa d’Este fino al 20 ottobre

capolavoro collocato nella Sala dell’Udienza del Nobile Collegio, la stessa che, con il suo maestro Perugino, lo vide all’opera, probabilmente come semplice collaboratore, agli esordi della carriera. Insieme al suo Autoritratto giungono dagli Uffizi quello del suo maestro, il Perugino appunto, e quello non meno straordinario di un artista posteriore che ai due ispirò il proprio lavoro, ovvero Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato. Un gioco di autoritratti in cui si esemplifica la nuova consapevolezza degli artisti del Rinascimento. info tel. 075 5728599

Le sale della villa tirburtina ospitano oltre sessanta opere, rare e talvolta inedite, tra dipinti, sculture, armi, utensili e stampe inerenti alle cacce principesche, praticate nelle corti italiane tra il Cinque e il Settecento. Manifestazione del potere e dell’eleganza delle élite di tutta Europa, la caccia fu, sin dal Medioevo, uno dei piú importanti momenti di aggregazione sociale. La mostra trova una sede eccezionale a Villa d’Este, decorata con temi venatori già nei primi decenni del Seicento dalla scuola di Antonio Tempesta. Inoltre, la villa, il suo parco e i boschi circostanti furono, sin dall’inizio del Cinquecento, i palcoscenici delle leggendarie cacce degli Estensi e dell’aristocrazia papale. info tel. 0774 335850; www.villadestetivoli.info

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battaglie campaldino

Firenze, chiesa della SS. Annunziata. Particolare del monumento sepolcrale di Guglielmo di Durfort, balio di Amerigo di Narbona, che, nelle file guelfe, trovò la morte nella battaglia di Campaldino a causa di un colpo di balestra.


11 giugno 1289

La vittoria del sommo

poeta

di Federico Canaccini

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uella di Campaldino è forse una delle battaglie Forse il meglio note del Medioevo italiano. La sua fasanguinoso ma, oltre che per alcune novità tattiche, è doscontro nella vuta in gran parte alla partecipazione di Dante AlighieMolto è stato detto e scritto su questo evento, e qui piana ai piedi di ri. ne ripercorreremo la fortuna, soffermandoci sulle sue Poppi, in cui si modalità e cercando di fornire qualche spunto nuovo. quando, nel 1289, la battaglia tra la guelfa Firenze confrontarono e il Da Comune di Arezzo (al tempo sotto guida ghibellina) i ghibellini di fu combattuta, Campaldino è stata al centro di molte e attenzioni. Nel periodo successivo allo scontro, Arezzo e i guelfi diverse Firenze volle celebrare il santo di quel giorno, Barnadi Firenze, non ba, apostolo prima quasi ignoto, edificando in città una a lui dedicata. Vi fu poi il tentativo, fallito, di imavrebbe goduto chiesa porre al Comune di Scarperia, nella valle del Mugello, il di tanta celebrità nome del santo dell’11 giugno. E, comunque, nell’imfiorentino, il giorno di san Barnaba rimase se non vi avesse maginario quello di una vittoria clamorosa che però, di fatto, non partecipato portò a svolte epocali nello scacchiere politico toscano. un testimone Il mistero del cadavere scomparso d’eccezione… Tra i Fiorentini, come abbiamo detto, militava anche

l’Alighieri che, esule in Casentino, cantò lo sfortunato insepolto Buonconte da Montefeltro, dandogli eterna fama nel V canto del Purgatorio. E cosí l’episodio storico si innestò anche nel mito, e la sparizione del cadavere del condottiero ghibellino portò il poeta esule a fantasticare sulla sua sorte. La successiva riconosciuta grandezza di Dante fece dell’episodio militare svoltosi in Casentino una delle battaglie degne di nomea. E il monumento eretto sulla piana nel 1921, venne infatti innalzato in occasione del secentenario della morte del poeta. Una novella di Emma Perodi (giornalista e scrittrice di racconti per l’infanzia, 1850-1918), conferí un te-

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battaglie campaldino nore fantastico all’episodio. L’ombra del Sire di Narbona, inserita tra le Novelle della Nonna, atterrí infatti piú di un bimbo casentinese e la piana di Campaldino, evitata per lunghi anni dopo quel 1289, si popolò cosí anche di spettri, entrando nella favolistica. Si è però dovuto attendere il 1989, settecentenario della battaglia, perché si mettesse ordine tra quanto di storico e fantasioso era andato accumulandosi nei secoli. Il convegno organizzato nell’occasione, e con esso una mostra dislocata in piú sedi, in Casentino, produsse numerosi contributi, su aspetti diversi dell’episodio: dalla religiosità alla prassi guerresca, dalle armi ai personaggi coinvolti, dalla cronachistica fino agli aspetti tecnici legati alla realizzazione di diorami e plastici. La mostra terminò e di Campaldino non si sentí piú parlare per oltre un decennio. Negli ultimi anni, invece, si sono moltiplicate le rievocazioni. Il Comufirenze Particolare di una veduta della città del giglio, stampata a Norimberga nel 1493. La battaglia di Campaldino fu il culmine di un conflitto che si trascinava da anni tra i Fiorentini, di parte guelfa, e la città di Arezzo, schieratasi con i ghibellini.

ne di Poppi ha infatti riallestito il plastico, con una nuova esposizione permanente. Sono state disseppellite, analizzate e traslate in Duomo le ossa un tempo deposte nella chiesa di Certomondo e appartenenti, un tempo, al vescovo Ubertini. Hanno visto la luce numerose pubblicazioni, biografie, opuscoli, fumetti e romanzi. E, infine, sono state allestite mostre pittoriche sullo scontro e, ogni anno, un’iniziativa diversa, di piccolo o grande respiro, anima il museo attivo nel Castello di Poppi (vedi box a p. 33).

Firenze ridotta in macerie

Dopo l’effimero governo ghibellino, ottenuto a seguito della vittoria presso Montaperti con l’aiuto di Manfredi (vedi «Medioevo» n. 164, settembre 2010), l’astro svevo si è eclissato prima a Benevento (1266), poi a Tagliacozzo (1268) e definitivamente a Napoli, con la decapitazione di Corradino. I ghibellini sono in difficoltà e vengono espulsi dalle città toscane, tornate tutte guelfe. Come avevano fatto i ghibellini, sono ora i guelfi ad accanirsi sui vinti espropriando e distruggendo i loro beni. Firenze è un cumulo di macerie. All’arrivo dei ghibellini erano stati distrutti e rasi al suolo 103 palazzi, 580 case, 85 torri; parzialmente demoliti 2 palazzi, 16 case e 4

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EMILIA-ROMAGNA EMILIA EMI LIA-ROMAG ROMAGNA NA

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Livorno Isola di Gorgona

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Arezzo Cortona

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Montepulciano Isola di Capraia Populonia Follonica Piombino Portoferraio

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Isola d’Elba Isola Pianosa

Talamone Isola del Giglio

Orbetello LAZIO LAZIO

Nave a Rovezzano Badia a Ripoli

FIRENZE

torri; caddero abbattuti 10 capannoni per la stenditura dei panni e 21 mulini e nel contado i danni furono addirittura piú ingenti. Ora altrettanto fanno i guelfi, riducendo la città in rovina. Negli anni Settanta del XIII secolo la lotta si trascina stancamente. I ghibellini sono costretti all’esilio e trovano rifugio in alcuni capisaldi come Pisa, ma la Toscana è ormai in mano ai guelfi e a Carlo d’Angiò. In Romagna, invece, i ghibellini ottengono maggior successo. Al comandi di Guido da Montefeltro, la Romagna diviene quasi tutta ghibellina e proprio lí portano rinforzo gli esuli toscani: il conte Guido Novello, Guglielmo dei Pazzi del Valdarno e gran parte dei fuorusciti ghibellini. Ad Arezzo il popolo aveva assunto il potere, esautorando i magnati e mettendo un capitano a capo del governo, ma si trattò di una breve parentesi. Nel 1287, infatti, i magnati, sia guelfi che ghibellini, si allearono, accecarono il capitano del popolo, «presono e misono in una cisterna, e quivi si morí». In seguito, però, i ghibellini, sospettando che i guelfi di Arezzo congiurassero contro di loro con l’appoggio segreto di Firenze, li espulsero con l’aiuto di Buonconte e di Guglielmo Pazzo. L’aiuto da prestare ai guelfi aretini divenne per Firenze il casus belli contro Arezzo. O meglio, contro la parte ghibellina giugno

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Pontassieve

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Borgo alla Collina Poppi

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Ponte a Caliano

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campaldino La piana di Campaldino con gli eserciti schierati, in un dipinto di Luca Ferrotti. La battaglia si combatté l’11 giugno 1289: i guelfi fiorentini, erano capitanati da Amerigo di Narbona, mentre al comando dei ghibellini aretini era Buonconte da Montefeltro. Lo scontro fu vinto da Firenze, grazie a una carica decisiva, guidata da Corso Donati.

Porta San Clemente

Ponte alla Chiassa

Cartina del territorio in cui è compresa la piana di Campaldino. Le località contrassegnate dal colore rosso indicano le tappe dell’esercito guelfo nella marcia di avvicinamento al sito dello scontro; quelle in blu le tappe dei ghibellini (nelle due ipotesi elaborate dagli studiosi).

AREZZO arezzo Una veduta della città in un dipinto del pittore e miniatore Bartolomeo della Gatta (1448-1502). Arezzo, Museo Statale di Arte Medievale e Moderna. L’espulsione dei rappresentanti della parte guelfa, sospettati di possibili alleanze con i Fiorentini per rovesciare il governo ghibellino, fu una delle cause della guerra tra i due capoluoghi toscani.

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battaglie campaldino della città, rappresentata da grandi casate nobiliari, che controllavano le vie di comunicazione del Valdarno, del Casentino e della Chiana. Tra il 1287 e il 1289, il conflitto tra Arezzo e Firenze si tradusse in ripetuti incendi e saccheggi, come nel caso delle incursioni dei ghibellini contro Firenze. Guglielmo Pazzo e Buonconte risalirono il Casentino, dove signoreggiava il loro alleato Guido Novello, e piombarono su Pontassieve, mettendola a ferro e fuoco. Poi proseguirono fino a San Donato in Collina, a pochi chilometri da Firenze. Anche i guelfi fecero la loro parte e, attraversato il Valdarno, devastarono le terre in cui sorgevano i castelli dei Pazzi e degli Ubertini.

Una battaglia mancata

Nel 1288 i due eserciti si fronteggiarono per la prima volta in Valdarno, luogo deputato agli scontri tra le due città. Da un lato la Lega guelfa, una coalizione che raccoglieva le principali città toscane e altri alleati, come Bologna. Dall’altro gli Aretini e i loro alleati ghibellini, rappresentati in gran parte da nobili che dominavano nel contado e dai fuorusciti fiorentini che, cacciati dai guelfi, avevano riparato ad Arezzo. Ma la battaglia non vi fu. Forse entrambe le parti considerarono troppo rischioso attaccare e cosí, girate le insegne, preferirono

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tornare rispettivamente a Firenze e ad Arezzo. Il pericolo che poteva venire dall’impegnare cosí tanta popolazione in una battaglia campale era talmente forte che i Fiorentini, per evitare lo scontro, tentarono di ricorrere anche alla diplomazia. Sembra che il ricco Vieri de’ Cerchi fosse stato inviato a Bibbiena in missione segreta per contrattare con l’Ubertini la resa di Arezzo e la vendita di molti suoi castelli. La missione sarebbe forse andata a buon fine, ma il progetto venne alla luce e il vescovo rischiò il linciaggio, al quale scampò grazie al nipote, Guglielmo Pazzo. Al vecchio Guglielmino restava ormai solo una strada: la guerra. La guerra, nel Medioevo, era stata in parte regolata dalle «paci di Dio» (periodi di sospensione alle guerre private o alle rappresaglie imposti dalla Chiesa, n.d.r.). Nel XIII secolo, però, il vigore iniziale di questo fenomeno era un lontano ricordo. I mesi estivi erano solitamente riservati alle operazioni militari, in particolare gli assedi. Venivano presi di mira castelli strategici, posti a difesa di ponti, valichi e strade di passaggio. Oppure potevano essere cinte d’assedio vere e proprie città. Fu questa la sorte riservata ad Arezzo, nell’estate del 1288, quando la Lega guelfa intraprese una marcia nel

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A destra Sandro Botticelli, Madonna con Bambino in trono con i Santi Caterina d’Alessandria, Agostino, Barnaba, Giovanni Battista, Ignazio, Michele e angeli, olio su tavola noto anche come Pala di San Barnaba (terzo da sinistra). 1487. Firenze, Galleria degli Uffizi. La coincidenza tra la festa del santo e la vittoria di Campaldino indusse i Fiorentini a dedicare una chiesa all’apostolo. Sulle due pagine il castello dei conti Guidi a Poppi (Arezzo), che ospita il Museo della battaglia di Campaldino, e, sulla sinistra, il busto di Dante Alighieri collocato all’ingresso della fortezza.

Valdarno, distruggendo almeno 40 castelli e circondando la città di cui era podestà il conte di Poppi, Guido Novello. I Fiorentini e i Senesi costruirono torri mobili, steccati, scavarono gallerie e bersagliarono la città con lanci di catapulte. Ma l’assedio non venne portato con i mezzi adatti per snidare il nemico. Una tempesta si abbatté sui guelfi che persero molte macchine ossidionali e si decise di abbandonare l’impresa. Mentre i Fiorentini ripresero la via del Valdarno, i Senesi intrapresero quella della Val di Chiana, una via rischiosa, giacché circondata da paludi. Per i ghibellini fu l’occasione propizia per mettere in opera un agguato. Presso Pieve al Toppo, là dove si trovava l’unico guado agibile, Buonconte e Guglielmo Pazzo sbaragliarono le truppe senesi, infliggendo loro numerose perdite. Furono uccisi anche Ranuccio di Peppo Farnese, comandante del contingente senese, e quel Lano

Maconi ricordato da Dante tra gli scialacquatori. L’episodio ebbe una vasta eco in tutta la Toscana: i ghibellini festeggiarono la vittoria colta in modo inaspettato, i guelfi temettero per l’andamento della campagna militare che ormai si trascinava da due anni.

La bandiera degli Angiò

La liberazione di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, fu motivo di giubilo, soprattutto in Firenze. Il re di Sicilia, infatti, soggiornando nella città del giglio, lasciò, su richiesta del Comune, un comandante di origini francese, Amerigo di Narbona, accompagnato da un maestro d’arme e da un contingente di cavalieri. Inoltre Carlo II permise al comune fiorentino di sventolare la bandiera degli Angiò durante la campagna. Forte di questi aiuti e di questi prestigiosi capitani, la Lega guelfa si riuní per decidere come porre fine al pro-

Tutti i segreti della battaglia Nel 1989, all’indomani delle celebrazioni e dei festeggiamenti per il settecentenario della battaglia, nel castello dei conti Guidi di Poppi è stato realizzato un museo permanente dedicato a Campaldino. Vi si può ammirare un grande plastico della battaglia, con oltre 4000 figurine (tra cui quelle riprodotte nell’articolo), corredato da schede esplicative e pannelli dedicati ai personaggi principali. Una sezione è dedicata alla guerra d’assedio e vi sono esposti alcuni modelli di macchine belliche medievali. Ai piedi del castello si stende la piana della battaglia, dove sorge anche la chiesa di Certomondo, nella quale riposava il vescovo Ubertini, prima che, nel 2008, le sue spoglie fossero traslate nel duomo di Arezzo. Info Castello dei conti Guidi – Poppi (Arezzo), piazza della Repubblica, 1; orario fino al 01.11, tutti i giorni, 10,00-18-00; luglio e agosto, tutti i giorni, 10,00-19,00; contatti tel. 0575 520516; www.castellodipoppi.it

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battaglie campaldino La testimonianza di Dante

La Commedia come manuale dell’arte militare Cosí, nell’incipit del canto XXII dell’Inferno, Dante Alighieri rievoca le scorrerie e le feste cavalleresche a cui assistette in terra aretina: Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane. Questi versi ci offrono, di fatto, una esposizione accurata di operazioni militari, cosí come apparivano agli occhi di chi, non molti anni prima, vi aveva preso parte. La terminologia è importante, e da casi come questo possiamo ricostruire ciò che i comandanti si dicevano nelle concitate fasi di un Consiglio di guerra. Stormo alle nostre

orecchie suona in un modo completamente scevro di significati bellici, legato come è al volo degli uccelli. Ma ai tempi di Dante forte doveva essere il legame con le origini germaniche del termine sturm, battaglia, assalto, che anche foneticamente sembra rievocare il tumulto dell’assedio. Per indicare una parata militare veniamo a conoscenza del termine mostra che nell’espressione utilizzata nell’Inferno, come dice il commentatore Chimenz, indica il disporsi per essere passati in rivista, o meglio, l’eseguire evoluzioni durante le riviste. E se fedir torneamenti e correr giostra è abbastanza comprensibile, resterebbe oscuro il termine gualdana, di origine germanica. Il vocabolo indica scorreria di uomini armati in territorio nemico. La radice germanica del termine wald è quanto mai significativa. Oltre al legame con il bosco, wald, sottolineerei quanto fare la guerra sia cosa da uomini, e cosa da uomini forti, validi e valorosi, o baldi giovani, aggettivi legati alla prestanza, fisica o morale. Un dato interessante da notare è l’impiego del verbo vedere, che nella Commedia è usato con valore esponenziale, riferito perciò a una diretta esperienza vissuta da Dante: come ha scritto Silvio Abbadessa, è in qualche modo la firma del poeta.

Tavola di Gustave Doré raffigurante la morte di Buonconte da Montefeltro, descritta da Dante nella Divina Commedia. Il condottiero ghibellino morí nella battaglia di Campaldino, ma il suo cadavere non fu ritrovato. Nella pagina accanto San Gimignano, Palazzo Comunale. Particolare degli affreschi raffiguranti la battaglia di Campaldino. 1292.

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blema aretino. Diverse erano le opinioni sulla via da seguire: chi proponeva la consueta via del Valdarno, agile e in pianura, ma scontata; chi la tortuosa e rischiosa via attraverso il passo della Consuma. Alla fine prevalse questa seconda opzione, forse uno dei motivi che portarono al successo dei guelfi. Partiti da Badia a Ripoli il 2 giugno, dove avevano portato le insegne di guerra, i guelfi lasciarono infatti intendere che avrebbero seguito la via del Valdarno. Ma poi, inaspettatamente, superarono il fiume e si inerpicarono su per le foreste in direzione della Consuma, cogliendo di sorpresa il nemico. Si trattava di un esercito di 12 000 uomini in cui erano confluite tutte le città guelfe di Toscana – Firenze, Siena, Lucca e Pistoia, Colle, Prato, S. Gimignano – e poi i rinforzi da Bologna, da Maghinardo Pagani da Susinana, condottiero romagnolo detto «il Demonio», e ancora i fuorusciti guelfi di Arezzo che volevano rientrare in città.

Il vescovo Ubertini e i suoi ghibellini radunarono tutti i loro alleati in un rapido sforzo, riuscendo a mettere insieme un esercito di circa 8000 uomini, schierando truppe provenienti oltre che da Arezzo dalle valli circostanti, dal Valdarno, dal Casentino, e poi da Orvieto e da Amelia, dal Montefeltro e anche da Firenze, con diversi membri delle famiglie di fuorusciti, espulse da quasi trent’anni. Discendendo attraverso i monti i primi, e risalendo la valle dell’Arno i secondi, i due eserciti rivali si trovarono l’uno contro l’altro il 10 giugno, nella piana ai piedi di Poppi, in un luogo detto Campaldino.

La paura serpeggia tra gli armati

All’alba dell’11 di giugno 1289, un afoso sabato, dedicato a san Barnaba, i circa 20 000 uomini convenuti sulla piana casentinese dovettero ascoltare la messa, in molti confessarsi, in tantissimi avere paura. Tutti,

cavalli e cavalieri

Macchine da guerra a quattro zampe Alcuni personaggi celebri combatterono l’intera battaglia, trovandosi in prima linea: Dante, Vieri de’Cerchi, Filippo Adimari detto Argenti (che l’Alighieri pone tra i violenti e che deve il suo soprannome all’uso di commissionare i finimenti del proprio cavallo in argento). Nel corso del primo urto è probabile che molti di essi abbiano perso il proprio cavallo. E, in molti casi, doveva trattarsi di bestie particolarmente belle e potenti. Siamo informati del

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rimborso erogato dal Comune per il cavallo morto al Cerchi e all’Argenti. Ma anche Giano della Bella e Baschiera della Tosa perdettero la propria cavalcatura. Qui, rispetto a un ronzino, che valeva dai 4 ai 10 fiorini, si parla di cifre da capogiro: a Gianni Adimari vennero pagati 70 fiorini d’oro di indennizzo, e la stessa cifra fu erogata a Neri dei Bardi. Costui, ricorda il documento, asserisce di aver perduto il cavallo

durante l’assedio portato con insuccesso dai guelfi contro Arezzo. La città, priva ancora di buona parte delle mura, si difendeva con steccati e fossi, costruiti per proteggerne i nuovi sobborghi. E proprio presso questo steccato, erectum ab arretinis, esalò l’ultimo respiro il cavallo di Neri. Bestie possenti, muscolose, addestrate e perciò, preziose. Non una semplice cavalcatura, ma una vera e propria macchina da guerra.

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battaglie campaldino

Prima fase

Carica dei feditori ghibellini 10

9

6 A sinistra riproduzione in scala di Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, e di Guidarello d’Orvieto, che porta l’insegna imperiale. Fedele all’insegnamento dato da Gesú a san Pietro nel Giardino degli Ulivi, il presule è armato solo di mazza, in quanto i clerici potevano utilizzare solo armi da botta.

vecchi e giovani (si era infatti arruolabili dai 14 ai 70 anni), avevano la consapevolezza del rischio di perdere la vita in quella valle lambita dall’Arno, baciata dal sole che sorgeva appena là, sopra il monte della Verna dove san Francesco aveva ricevuto pochi decenni prima le stigmate. I guelfi dovevano avere l’occhio sinistro chiuso, colpiti in pieno viso dal sole. I ghibellini invece, che combattevano col sole alle spalle, avevano il vantaggio di avere un’ottima visuale. Ma di contro vedevano benissimo il numero ben piú consistente dei nemici. I ghibellini, per lo piú membri di nobili famiglie di antico casato, si schierarono in modo consueto. Essi erano legati molto alla tradizione cavalleresca, e poco avvezzi alle trasformazioni sociali che invece andavano travolgendo Firenze, piú aperta ai commerci e agli influssi esterni. Davanti a tutti schierarono dodici valenti cavalieri che si facevano chiamare «paladini». Poi una potente schiera di cavalleria, seguita subito

F

3

G

C 8 7

5

B

2

D E

4

A 1

ARNO

Fiorentini e guelfi

1. Corno destro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 2. Feditori fiorentini 3. Corno sinistro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 4. Fanteria 5. Schiera grossa di cavalleria 6. Fanteria 7. Salmerie e fanterie

8. Cavalleria di riserva 9-10. Riserva di Corso Donati, cavalleria e fanteria

Aretini e ghibellini

A. Arcieri e balestrieri B. Feditori aretini C. Arcieri e balestrieri D. Grosso di cavalleria E. Fanteria F-G. Riserva di Guido Novello, cavalleria e fanteria.

Guelf i H

I

J

♦ H. Guglielmo

L

M

♦ J. Vieri

de’ Cerchi; ♦ K. Donati;

O

N

♦ L. Dante Alighieri;

di Durfort (colori sconosciuti);

♦ I. Gherardo Ventraia Tornaquinci;

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K

♦ M. Maghinardo ♦ N. Barone

Pagani da Susinana; de’ Mangiadori da San Miniato; ♦ O. Cecco Angiolieri

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Terza fase

Seconda fase

La tenaglia si chiude

Arretramento del centro fiorentino 10

9 F 2

8 7

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C

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A

D B 5

4 1

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E

1

ARNO

ARNO

In alto, sulle due pagine la sequenza delle fasi della battaglia di Campaldino. A sinistra riproduzione in scala di Dante Alighieri, che, all’età di 26 anni, combatté a Campaldino tra i feditori fiorentini. A destra riproduzione in scala di Vieri de’ Cerchi, un ricco mercante che combatté anch’egli nelle prime file dello schieramento fiorentino.

Ghibellini P

Q

R

♦ P. Ubertini; ♦ Q. Fieschi

(Liguria); ♦ R. Pazzi di Valdarno; ♦ S. Montefeltro;

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S

T

U

V

♦ T. Tarlati; ♦ U. Ordelaffi

(Romagna); ♦ V. Lamberti (fuoriusciti fiorentini); ♦ W. Scolari (fuoriusciti fiorentini);

W

X

Y

Z

♦ X. Guido

di Bagno; Guidi di Romena; ♦ Z. Guido Novello;

♦ Y. Conti

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battaglie campaldino da un’altra. Grazie alla carica di questi due corpi di cavalieri, Buonconte e Guglielmo Pazzo, comandanti della cavalleria, volevano sfondare le linee nemiche. A seguire c’era infatti tutta la fanteria accompagnata da due deboli ali di arcieri e di balestrieri. Il conte Guido era stato lasciato di riserva presso la chiesa di Certomondo. Egli sarebbe dovuto intervenire, coi suoi 150 cavalieri, in caso di pericolo. Il vescovo Ubertini aveva accanto il vicario imperiale, Percivalle Fieschi, e il vessillifero, Guiderello da Orvieto. Il vescovo doveva essere armato di un martello o di una mazza, ma non di una spada. Infatti, in ossequio a quanto Gesú aveva detto a san Pietro nel Giardino degli Ulivi – «Rimetti la spada nel fodero!» – i clerici potevano utilizzare solo armi da botta.

Un «città» cinta da scudi

Giunto sulla piana, Guglielmino avrebbe chiesto: «A quale città appartengono quelle mura?». Gli avrebbero risposto: «Sono gli scudi dei nemici». In effetti i guelfi avevano disposto ai lati dell’esercito due enormi ali di pavesari, soldati cioè protetti da un pavese, uno scudo alto un metro e mezzo circa, dietro a cui si asserragliavano uomini armati di tutto punto. Al centro, invece, la disposizione era consueta: la prima era una schiera di

feditori, cavalieri pronti alla carica. Tra questi spiccano alcuni nomi celebri, oltre al già ricordato Dante Alighieri, all’epoca un ignoto poeta ventiseienne; Vieri de’ Cerchi, ricco mercante che, pur malato di gotta, volle combattere in prima fila. E per dare l’esempio ai timorosi fiorentini che non volevano prendere i primi posti, nominò accanto a sé figli e nipoti. L’essere i primi a caricare, disse Vieri, garantiva infatti almeno ai giovani di non rimanere bloccati dall’orrore dei corpi mutilati a battaglia iniziata. Seguiva poi la schiera grossa di cavalleria. Al centro sventolavano i vessilli di Firenze, di Carlo d’Angiò e lí combattevano il giovane Amerigo di Narbona e i mercenari francesi accanto al balio Guglielmo di Durfort. Nei reparti senesi vi era anche Cecco Angiolieri, un poeta scanzonato, spesso assente dalle fila dell’esercito. Venivano poi i fanti e tutte le salmerie, costituite da migliaia di muli che avevano accompagnato l’esercito nella lunga marcia da Firenze, e che ora venivano sistemati come un muro per frenare la carica nemica. Anche i guelfi decisero di lasciare truppe di riserva. Esse furono costituite dai contingenti mandati da Lucca e Pistoia, e il loro comando fu affidato al cavaliere Corso Donati, di «corpo bellissimo», ma pieno di «pensieri maliziosi», come scrisse di lui il cronista Giovanni Villani.

I prigionieri

Case e cantine trasformate in carceri A battaglia conclusa, centinaia furono i «prigioni», cioè le persone catturate e stipate nelle galere del Comune o in semplici abitazioni o cantine, risistemate per l’occasione: «A Firenze ne giunsero legati piú di 740», scrisse il Villani. I prigionieri, però, non furono solo quelli fatti dai Fiorentini: Aretini o ghibellini. Anche questi ultimi, infatti, dovettero tornare a casa trascinando con sé piú d’un nemico, se, leggendo tra le Provvisioni, si incontrano piú volte scambi con fiorentini detenuti in Arezzo. Sette Aretini furono rilasciati in cambio di due Lucchesi e due Pistoiesi, e non è inutile domandarsi perché questi ultimi «valessero» quasi il doppio degli Aretini. Oppure conosciamo il caso del rilascio di 8 guelfi presi a Campaldino, questa volta scambiati con egual numero di ghibellini: per 7 di loro richiese grazia il Comune di Siena, essendo costoro di Lucignano e Mariano, mentre per l’ottavo intercedette l’abate di Capolona. Alla fine della battaglia, nella confusione, nel polverone prima, e nell’acquazzone poi, le modalità di cattura furono dettate anche dal buon senso o dall’impulso. Cosí accadde che Finuccio di Rinaldo del contado aretino, scambiato a Campaldino per ghibellino, ma sempre zelante guelfo, languiva nelle prigioni fiorentine ancora nel luglio del 1290. Gli era andata comunque meglio che a Maiano, suo fratello, il quale – guelfo! –, venne fatto prigioniero dai ghibellini e detenuto ad Arezzo, dove fu anche accecato, pena riservata perlopiú ai traditori.

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storie di naja

Sandro e Giovanni: due bolognesi assai... maneschi Nel corso del viaggio i rapporti tra i soldati non dovevano essere idilliaci. Conosciamo qualche episodio che ci illumina su questo brulichio di uomini. Sbirciando tra i mugugnanti guelfi, tra le migliaia di soldati, è divertente soffermarsi sul contingente bolognese. Accanto ai 200 cavalieri montati, il Comune inviò anche reparti di fanteria, tra cui dovevano trovar posto tal Sandro di Uguccione e Giovanni di Brunetto. Nella pagina accanto riproduzione in scala di uno dei discendenti di Farinata degli Uberti che combatterono a Campaldino.

Il servizio di leva non trascorre facilmente, e basta un nonnulla, talvolta, per trovare il pretesto per alzar le mani. Tanto fecero i due Bolognesi, che il capitano del contingente in persona dovette pregare il Comune fiorentino affinché li scarcerasse: i due infatti avevano animato una rissa. Le multe inflitte loro ci danno la misura di come dovette andare: se Sandro sborsò

In basso la colonna innalzata a Campaldino nel 1921, sesto centenario della morte di Dante Alighieri, a ricordo della battaglia combattuta nel 1289.

Al grido di «San Donato Cavaliere!», i cavalieri ghibellini caricarono a spron battuto, seguiti dai propri fanti. I guelfi risposero con il loro grido di guerra «Narbona Cavaliere!», preparandosi a ricevere la carica di 600 cavalieri. L’urto fu violentissimo. Una volta rotte le lunghe lance, i cavalieri furono impegnati in un durissimo corpo a corpo, con spade, asce e mazze. La giornata era afosa e la polvere sollevata dai cavalli, tantissima. Amerigo di Narbona fu ferito al volto. Il suo balio, Guglielmo di Durfort, colpito a morte da un colpo di balestra. In un primo momento sembrò che la carica dei ghibellini avesse avuto successo. Ma, in realtà, le salmerie avevano retto bene e la spinta di Buonconte e di Guglielmo Pazzo andava esaurendosi.

Manovra a tenaglia

A questo punto la tattica dei guelfi fu chiara: le due ali di pavesari iniziarono a serrarsi come una tenaglia sui ghibellini, che rimasero chiusi in una morsa. Corso Donati, che sarebbe dovuto intervenire solo in caso di pericolo, pena la morte, volle fare di testa sua e si gettò nella mischia coi suoi, facendoli sbandare ulteriormente su di un fianco. L’unico che forse avrebbe potuto liberare i ghibellini da quella tenaglia, era il conte Guido, ma, vista la mala parata, preferí ritirarsi, senza dare colpo di spada. Per la sua fazione la battaglia era perduta.

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200 libre, per i colpi inferti, ben piú gravi danni dovettero provocare quelli di Giovanni, al quale fu commminata una sanzione di 550 libre. E diversamente conciate saranno apparse le vittime della bravata. Cassino, famiglio di ser Paniccia de’ Frescobaldi, sarà stato piú presentabile del povero Gualtieri servo di Tornaquincio di Bonsostegno, sul quale si era scagliato il piú esagitato dei due Bolognesi.

Quando la bandiera con l’aquila imperiale venne catturata, tra le fila ghibelline scoppiò il panico. Alcuni si buttavano, ad altissimo rischio, sotto i ventri dei cavalli e, con un coltellaccio, li sbudellavano, in modo da diminuire il numero di cavalieri. Simili atti «poco cavallereschi» erano stati già adottati in precedenza. A Benevento nel 1266 i cavalieri angioini si gettarono a segare i tendini dei cavalli nemici per diminuire le fila di cavalleria. Ma ai ghibellini aretini ciò non bastò per risollevare le sorti dello scontro. Nella morsa rimasero intrappolati tutti i comandanti ghibellini: Buonconte da Montefeltro, Guglielmo dei Pazzi e suo zio, l’anziano vescovo Ubertini, col quale aveva voluto scambiare le proprie insegne per salvargli la vita. Invano. Era anche questo divenuto un gesto usuale nelle battaglie. Cosí aveva fatto Manfredi a Benevento e altrettanto Carlo d’Angiò a Tagliacozzo. Morirono molti dei fuorusciti fiorentini: Fifanti, Abati, Lamberti e anche i figli e i nipoti di Farinata degli Uberti. Dovettero morire oltre 1700 ghibellini e oltre 2000 furono catturati e portati a languire nelle prigioni di Firenze. Le armi del vescovo, riconosciuto dalla tonsura, furono portate in trionfo a Firenze, e appese a testa in giú, come quelle di un nemico sleale: vi rimasero sino a che Cosimo III non le fece togliere agli inizi del Settecento. Alla fine dello scontro, mentre i guelfi inseguivano i fuggiaschi per farli prigionieri in modo da ottenere un cospicuo riscatto, un terribile temporale si abbatté sulle teste dei combattenti. E l’unico testimone del nubifragio fu Dante, che lo descrisse nel V canto del Purgatorio. E finalmente viene suonata la fine della battaglia. F

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personaggi alberto magno

Penso, dunque credo

di Francesco Colotta

Uomo dall’intelletto finissimo, Alberto Magno assunse ruoli di primo piano nell’ambito dell’ordine domenicano e, piú in generale, nella gestione di importanti questioni ecclesiastiche. Accanto all’impegno in campo religioso, però, coltivò sempre una passione fortissima per la speculazione scientifica, meritandosi, non a caso, l’appellativo di doctor universalis Alberto Magno nel ritratto dipinto da Giusto di Gand per lo studiolo del duca di Montefeltro. 1472-76. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Nella pagina accanto Colonia in una xilografia del XV sec. Bavarese d’origine, il doctor universalis soggiornò a lungo nella città renana, di cui si dice avesse perfino curato la costruzione del duomo (vedi box a p. 42).

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I

l domenicano e santo Alberto Magno, noto anche come doctor universalis, è l’incarnazione ideale del filosofo rivoluzionario. Egli, infatti, riuscí nell’impresa di avvicinare due universi che apparivano distanti, se non ostili tra loro: l’aristotelismo e il pensiero cristiano, vale a dire la ragione e la fede. Fino all’inizio del Duecento la tradizione scolastica latina aveva monopolizzato l’ambito della teologia, non preoccupandosi di fornire un supporto razionale alle verità rivelate della religione. Ma i tempi per un’inversione di rotta erano maturi. Già nel XII secolo, attraverso le crociate, i popoli dell’Occiden-

te erano entrati in contatto con il Vicino Oriente, subendo l’influenza di culture imbevute di saperi scientifici. Nel mondo arabo, per esempio, il medico Avicenna, nell’XI secolo, aveva saputo conciliare la scienza con i dogmi dell’islamismo servendosi proprio delle argomentazioni di Aristotele. Alberto Magno lo fece nell’Europa cattolica sentendo il bisogno insopprimibile – come sottolinea il suo biografo italiano, Angiolo Puccetti – «di accorrere sui campi sterminati della vita pratica, dove gli uomini gemono, si agitano, furoreggiano, cadono, nel quotidiano, estenuante combattimento». L’anno di nascita di Alberto

Magno viene fissato comunemente tra il 1193 e il 1206. Era originario di una piccola città dell’odierna Baviera, Lauingen, e discendeva da una famiglia facoltosa, i Bollstäd, appartenente alla nobiltà militare. Nell’età dell’adolescenza si distinse come promettente cavaliere e non per le doti dell’intelletto, che fiorirono solo in seguito grazie a un’istruzione di livello consono al suo rango sociale. Probabilmente i genitori desideravano avviarlo a un brillante futuro da soldato, ma compresero presto che il suo carattere docile e riflessivo


personaggi alberto magno era poco adatto alle rudezze del mestiere delle armi. La formazione lo portò lontano dalla terra d’origine: in compagnia dello zio, si trasferí a Padova dove si era formato il primo nucleo di quello che, nel 1222, divenne un ateneo vero e proprio, specializzato in materie come la filosofia e le scienze naturali, le cosiddette «arti liberali». In questo clima culturale Alberto sviluppò la sua inclinazione per la ricerca empirica, approfondendo le opere di Aristotele. Di pari passo cresceva in lui la vocazione religiosa che, all’età di 16 anni, si era radicata nei suoi sentimenti piú profondi dopo un’apparizione mariana. La Vergine, in quella circostanza, gli aveva indicato la strada da percorrere in futuro: l’ingresso in convento nelle fila dei Domenicani. Si trattò comunque di una scelta sofferta su cui incise il magnetico influsso del gran maestro dell’Ordine dei Frati Predicatori, Giordano di Sassonia, del quale si diceva che possedesse un eloquio capace di folgorare gli ascoltatori.

La passione per la scienza

Alberto visse con un certo disagio il suo primo periodo di militanza tra i Domenicani, a causa della distanza culturale con i maestri. Si sentiva in parte frustrato per non poter coltivare in modo compiuto la sua inclinazione verso le scienze positive in un ambiente nel quale dominavano le dispute teologico-

Un intelletto polivalente

Architetto e capomastro? Che cosa lega Alberto Magno al duomo di Colonia (foto qui a destra)? Secondo una tradizione popolare fu il filosofo tedesco a progettare la cattedrale e anche a dirigerne i lavori. La leggenda racconta che l’arcivescovo della città renana chiese ad Alberto di tracciare il piano di una grande chiesa. Il domenicano, chiuso nella sua cella a meditare, chiese alla Vergine di aiutarlo nella realizzazione della difficile impresa. La Madonna apparve insieme ai Santi Quattro Coronati (Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio, protettori degli scultori e degli architetti), che con squadre, regoli, compassi e livelle disegnarono il piano dettagliato di uno splendido duomo. La tradizione prese, a ogni modo, spunto da alcuni indizi reali. Il filosofo era ferrato anche in edilizia e potrebbe aver partecipato, come semplice osservatore o consulente, alla progettazione dell’edificio. esegetiche. I libri dei filosofi, dei naturalisti non erano oggetto di discussione e potevano essere consultati solo su dispensa delle massime autorità dell’Ordine. Di norma venivano considerati testi pericolosi ed erano letti solo di sfuggita, per alcune, rare esigenze di documentazione. Il demonizzare i saperi profani rispondeva a una logica eccessivamente «monastica», secondo la quale il raggio d’azione di un frate doveva esplicarsi soprattutto nella sfera mistica. Tuttavia, lo studio dei testi sacri non mancò di affascinare Alberto, contribuendo a fargli superare il difficile impatto iniziale. Poté comunque studiare a fondo le scienze naturali e, in poco tempo, sbalordí i suoi maestri per il livello complessivo del suo sapere. Per questo motivo, nel 1228, l’Ordine lo promosse al ruolo di lettore nel convento di

Allievi illustri Alberto Magno ebbe molti seguaci nel XIII sec. tra i suoi studenti tedeschi. In suo onore a Colonia si formò una scuola detta «albertina», nel cui ambito, però, le tesi neoplatoniche prevalsero su quelle piú strettamente aristoteliche. Tra i maggiori esponenti si possono ricordare Ugo Ripelin di Strasburgo, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Vriberg e Bertoldo di Moosburg.

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Colonia. La città renana stava per vivere un periodo di straordinaria rinascita culturale che culminò nel XIV secolo, con la fondazione di una grande università. Alberto si fece valere nell’attività didattica tanto da meritarsi l’assegnazione di altri importanti incarichi come lettore, nei conventi di Hildesheim, Friburgo, Ratisbona e Strasburgo. Nel 1245 si uní alla cerchia dei suoi studenti un giovane italiano, Tommaso dei conti d’Aquino, anch’egli destinato a rivoluzionare la filosofia medievale. Presto il maestro si accorse delle prodigiose qualità intellettuali del nuovo arrivato e lo difese piú volte dalla goliardia dei compagni che ironizzavano sulla sua indole taciturna: «Ah, voi lo chiamate bue muto! – li rimproverò un giorno Alberto – Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un’estremità all’altra della terra».

Il rogo dei Talmud

Il 1245 segnò anche la consacrazione accademica con il conseguimento del magistero in teologia presso l’Università di Parigi. La capitale francese era il piú importante centro di studi sacri e molte grandi personalità della cultura cattolica l’avevano frequentata: i papi Celestino II, Adriano IV, Innocenzo III, Gregorio IX, Martino IV giugno

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personaggi alberto magno studenti a parigi

Fatui, presuntuosi, idioti, crudeli... Anche nel Medioevo all’Università di Parigi, l’odierna Sorbona, accorrevano studenti da tutta Europa. Nel XIII secolo la cronaca del predicatore Jacques de Vitry, Historia occidentalis, tentò di classificare i comportamenti tipici di ogni comunità etnica: gli Inglesi venivano descritti come «ubriaconi e poltroni», i Francesi come «fatui, voluttuosi ed effeminati», i Tedeschi erano rimproverati per i loro «ciechi furori e le ingiurie oscene», mentre dei Normanni si metteva in risalto la loro «vanità presuntuosa» e dei Borgognoni si diceva solo che erano «bruti e idioti». Lo spietato resoconto di Jacques de Vitry non risparmiava gli Italiani: i Patavini erano noti per la loro «perfidia e avarizia», i Lombardi per la malizia e la viltà, i Siciliani erano considerati troppo «crudeli», mentre i Romani venivano definiti «distruttori del riposo pubblico, collerici e rabbiosi fino a mordersi le mani».

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e filosofi come San Bonaventura, solo per citare alcuni dei nomi piú noti. Alberto si fermò per tre anni nella capitale francese e, poco prima di lasciarla, insieme ad altre personalità del mondo cristiano francese, sottoscrisse un documento che condannava il Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo: quel libro, secondo gli accusatori, conteneva «innumerevoli errori, abusi, bestemmie, cose nefande che offendono il pudore di chi riferisce e ascolta». Un giudizio pesante, in seguito al quale molte copie del testo rab-

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binico furono bruciate in piazza a Parigi nel 1248. Tornato in Germania, Alberto ricevette l’incarico di dirigere lo Studium Generale di Colonia, che poi divenne uno dei centri universitari piú importanti d’Europa. Accanto a sé, come principale collaboratore, volle il suo allievo prediletto, Tommaso d’Aquino. Nel frattempo proseguiva instancabilmente la sua esplorazione dell’universo scientifico, e non solo nel campo della pura teoria. Talvolta Alberto si chiudeva nel suo laboratorio di fisica e chimica per compiere esperimenti con alambicchi e

altri strumenti da lui inventati per l’occorrenza. L’Inquisizione guardava con sospetto queste pratiche, sebbene volte a fini empirici, e le assimilava ad atti di stregoneria.

L’elezione a provinciale

Il filosofo renano aveva un’indole modesta, come del resto prescriveva l’etica domenicana, e dovette accettare malvolentieri la decisione dei superiori dei conventi tedeschi che lo elessero provinciale di Germania nel 1254. Si trattava di una carica prestigiosa che lo dotava del potere di amministrare un vastissimo

Ignorando i pronunciamenti del suo maestro generale, nel 1260 Alberto Magno assunse la guida della diocesi di Ratisbona territorio comprendente l’Austria, la Baviera, la Svevia, la Sassonia, l’Olanda, i Paesi Renani, il Brabante, la Slesia, la Westfalia, la Frisia e l’intera Prussia. Alberto rinunciò ad agi e onori, attraversando quelle regioni a piedi, munito solo di un bastone e della bisaccia da pellegrino. Seppur umile e incline soprattutto allo studio, il pensatore domenicano aveva in precedenza dato prova di possedere un indubbio talento nella gestione di eventi politici anche esplosivi, come la guerra che opponeva le autorità ecclesiastiche al governo locale di Colonia. La città, che faceva parte dell’Hansa (la potente alleanza commerciale del Nord Europa), aspirava a una maggiore autonomia municipale e non intendeva riconoscere alcuna autorità al principe-arcivescovo. Alberto Magno, insieme a un altro esponente dei Frati PreMiniatura raffigurante una lezione di teologia alla Sorbona. Fine del XV sec. Troyes, Bibliothèque. Il collegio, fondato intorno al 1257 dal canonico Robert de Sorbon a beneficio degli studenti piú abbienti, divenne ben presto la punta di diamante dell’ateneo parigino e fu il piú autorevole centro di studi teologici attivo in Europa fino a tutto il XV sec.

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dicatori, ricevette l’incarico di dirimere la questione con un giudizio arbitrale che sancí una tregua tra i litiganti nel 1252. La sua fama di grande saggio e di abile diplomatico varcò anche le porte della Santa Sede, giungendo alle orecchie del papa, che era alle prese proprio con un caso riguardante i Frati Predicatori. Alessandro IV chiese un parere ad Alberto sul feroce libello De novissimis temporum periculis, scritto dal teologo Guglielmo di Saint-Amour, che metteva in cattiva luce l’operato dei Domenicani all’Università di Parigi. Il provinciale di Germania difese il suo Ordine e convinse il pontefice a non dar credito alle terribili accuse contenute nel libro. Il volume venne infine giudicato eretico, anche a causa degli attacchi infamanti che lanciava contro l’istituzione-Chiesa e fu bruciato nel 1256 all’interno della cattedrale di Anagni. Gli impegni politici per Alberto non erano finiti. Nel 1260 Alessandro IV pensò di affidargli la diocesi di Ratisbona, diventata vescovato, che stava vivendo un momento di gravissima tensione interna. Era una carica di enorme importanza strategica e dotava il titolare di rilevanti poteri civili: la diocesi, infatti, possedeva il profilo giuridico di stato temporale del Sacro Romano Impero.

L’appello del maestro

La nomina del pensatore di Lauingen fu osteggiata in modo violento dal maestro generale dei Domenicani, Umberto di Romans, che non intendeva perdere una delle sue menti piú brillanti. Piú volte Umberto tentò di indurre il suo sottoposto a rifiutare l’incarico, inviandogli lettere disperate e ammonitrici: «Chi, io dico – scrisse in una di queste missive –, potrebbe credere che voi sull’ultimo della vostra vita, vogliate cosí macchiare la vostra gloria e l’Ordine, che avete reso cosí glorioso?». L’appello del maestro generale intendeva richiamare il destinatario ai suoi doveri di frate avverso agli sfarzi del potere.

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personaggi alberto magno Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Alberto, però, non se la sentí di contraddire la volontà del papa. Era lui l’uomo giusto per quell’incarico. Dopo il suo insediamento, infatti, le lotte politiche interne cessarono e la situazione finanziaria della diocesi migliorò sensibilmente, grazie a un’efficace azione di risanamento. Ligio ai costumi domenicani, si tenne lontano, anche da presule, da ogni lusso e per la sua abitudine di indossare sempre abiti modesti venne ribattezza-

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to «vescovo scarpone». Al vertice della diocesi non intendeva restare a lungo e, nel momento in cui capí di avere nemici interni, decise di rassegnare le dimissioni.

Uomini per la crociata

Altre importanti missioni politiche lo impegnarono in seguito, in particolare nel 1263, quando ricevette la convocazione del neopontefice Urbano IV a Roma. Il papa gli chiese di reclutare in Germania il maggior

Particolare di una miniatura raffigurante Alberto Magno intento all’osservazione degli astri celesti, dall’edizione di un’opera scritta dallo stesso filosofo e teologo tedesco proveniente dall’abbazia di Saint-Amand. XIII sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale. I testi del doctor universalis, in virtú dell’enciclopedismo del suo autore, possono essere considerati come una autentica summa dei saperi del suo tempo, e rivelano il suo valore di scienziato oltre che di filosofo. giugno

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sede gli aveva mosso l’arcivescovo Étienne Tempier. Gli anni finali dell’esistenza di Alberto segnarono un ritorno al passato, con la predicazione nei conventi dell’Ordine e una nuova, profonda immersione nello studio delle scienze naturali. Morí nel 1280 e fu sepolto nella chiesa di S. Andrea a Colonia, la città che sentiva piú sua. Nel 1622 venne beatificato, ma la sua canonizzazione si ebbe, invece, solo nel 1931, sotto il pontificato di Pio XI.

Il «Varrone germanico»

L’azione intellettuale esercitata da Alberto Magno sul Medioevo «è stata probabilmente la piú potente di tutte, senza eccettuare san Tommaso d’Aquino, la cui opera si estende a un dominio meno vasto, ma fu piú profonda e durevole». Quest’opinione, espressa dal medievista belga Pierre Mandonnet, fu condivisa da molti storici e filosofi in età contemporanea. Alcuni

definirono Alberto il «Varrone germanico» perché, come lo scrittore dell’antica Roma, vantava un sapere enciclopedico. Gran parte dello scibile umano aveva trovato spazio negli studi del pensatore domenicano, che si documentava su testi greci, arabi, ebrei ed egiziani, vista l’assenza di una tradizione scientifica nel mondo latino e germanico. Questo amore sconfinato per lo studio della natura perseguiva un obiettivo ben preciso: dotare la cultura cattolica di un sistema filosofico razionale che potesse giustificare e spiegare meglio le verità rivelate. Si trattava non soltanto di un’esigenza dottrinale, ma di una necessità storica imposta dalle grandi trasformazioni in atto nella società medievale che avevano reso accessibile il potere alle forze produttive. I dogmi imposti dall’alto, recepiti solo con un atto di fede, non potevano garantire una predicazione efficace di fronte al diffondersi delle logiche mercantili e del sapere scientifico.

A destra una pagina miniata tratta anch’essa dall’opera di Alberto Magno proveniente dall’abbazia di Saint-Amand e conservata presso la Bibliothèque municipale di Valenciennes.

numero possibile di fedeli per una crociata in Terra Santa che stava pianificando, ma il progetto naufragò quasi subito per la scomparsa prematura del pontefice. Nel 1274 morí Tommaso d’Aquino, e la notizia lo turbò a tal punto da fargli affermare che la luce della Chiesa ormai si era «estinta». In omaggio al geniale alunno, Alberto compí nel 1277 il suo ultimo faticoso viaggio, a Parigi, per difendere Tommaso dalle accuse di eresia che in quella

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personaggi alberto magno

Maestro di Dante

Dal De intellectu alla Commedia Dante Alighieri considerava Alberto Magno uno dei suoi maestri. Grazie al pensatore tedesco l’autore della Divina Commedia conobbe la storia della filosofia greca. Dante maturò, poi, convinzioni simili a quelle del domenicano di Lauingen sui rapporti tra teologia e studio delle scienze naturali: esistevano una verità di fede e una di ragione, anche se alla fine, a prevalere era la prima. Nel Convivio il poeta fiorentino teorizzò la similitudine tra luce e bontà divina riprendendo la tesi di Alberto Magno contenuta nel De intellectu et intelligibili. Per entrambi, poi, l’anima umana era posta a un livello intermedio tra la materia e il puro intelletto divino. Nella Divina Commedia Dante collocò Alberto Magno nel Paradiso, tra gli spiriti sapienti, accanto a Tommaso d’Aquino, Pietro Lombardo, il re Salomone e il giurista Graziano.

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Le nuove élite borghesi, ma anche altri ceti sociali, si appassionavano intorno alle dispute sulla fisica, l’astronomia, il diritto, l’arte, l’etica, la medicina, l’economia, la letteratura. E la cultura cristiana non poteva rischiare di perdere il contatto con i sentimenti popolari piú diffusi. Anche la rigida tradizione scolastica, pertanto, sebbene ancorata alle ferree tesi volontaristiche di sant’Agostino, seguí il corso della storia.

Una rinascita pagana?

Alberto Magno e in seguito Tommaso d’Aquino individuarono nella logica aristotelica il sistema ideale per costruire una teoria razionalista dell’universo, culminante con la figura di un motore immobile divino. Questa intuizione, osserva lo storico della filosofia Cesare Vasoli, «operò all’interno dello giugno

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Da leggere U Girolamo Wilms, Sant’Alberto Magno. Scienziato, filosofo

e santo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992. U Alain De Libera, Introduzione alla mistica renana.

Da Alberto Magno a Meister Eckhart, Jaca Book, Milano 1999. U James Weisheipl, Sant’Alberto Magno e le scienze, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1993. U Alberto Magno, L’unità dell’intelletto, Bompiani, Milano 2007. U Antonio Petagine, Aristotelismo difficile. L’intelletto umano nella prospettiva di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, Vita e Pensiero, Milano 2004. U Cesare Vasoli, La filosofia medievale, Feltrinelli, Milano 1980. Miniatura con Dante e Beatrice che incontrano Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, da un’edizione della Divina Commedia. 1444-50. Londra British Library. Sotto di loro siedono dieci dottori della Chiesa, tra cui Beda, Ambrogio, Isidoro e Boezio.

stesso aristotelismo, e nell’ambito di una pura discussione filosofica, una delle piú geniali “conquiste” che sia mai stata compiuta dal pensiero cattolico ortodosso». La rivoluzione introdotta dai due domenicani incise in modo indelebile sul destino del pensiero cristiano che molti secoli dopo adottò il tomismo di derivazione albertina come filosofia «ufficiale». Non mancarono, comunque, resistenze da parte dei teologi tradizionalisti che vedevano con sospetto il diffondersi di una dottrina scientifica arricchita da influssi arabo-islamici. In fondo la diffidenza della cultura cattolica occidentale era comprensibile considerato che per la prima volta nella storia della Chiesa una sapienza «pagana» si affiancava alla teologia con la pretesa di spiegare il mistero della vita. Alberto Ma-

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gno, però, non aveva compiuto un’operazione spregiudicata di fusione tra le tesi di Aristotele e le verità della fede. Nei suoi scritti tenne sempre a precisare che l’ambito della filosofia e della teologia dovevano restare separati: per le questioni religiose il punto di riferimento restavano sempre i padri della Chiesa, mentre per le discipline scientifiche occorreva prestare fede agli studiosi della realtà fisica.

Ambiti separati

La ragione filosofica poteva, quindi, procedere in modo autonomo nel suo campo specifico senza alcuna interferenza? In realtà la separazione tra i due ambiti non appariva assoluta in quanto le conoscenze razionali e l’ordine delle cose contenevano sempre riflessi di origine trascendente.

Sebbene ispirato dalla logica aristotelica, Alberto non cancellò la tradizione neoplatonica, che è ben individuabile nella sua teoria degli universali ante rem (idee del creatore) e in re (forme rintracciabili nelle cose): attraverso la conoscenza, le forme in re potevano essere riportate in una dimensione simile allo stato originario, cioè alla loro pura essenza contenuta nella mente di Dio. Un altro tributo a Platone è contenuto nell’analisi della controversa tesi sull’eternità del mondo, sostenuta da Aristotele. Alberto, pur restando nel dubbio, dichiarò piú verosimile l’ipotesi che la creazione fosse avvenuta in un determinato momento della storia. Le informazioni storiche riportate dal domenicano tedesco sulla filosofia greca non furono esenti da critiche. Pur riconoscendo la sua originalità speculativa, piú di un commentatore sottolineò i refusi che Alberto aveva compiuto nella sua analisi sulla sapienza ellenica: definí Pitagora e Platone stoici, Socrate un macedone, Anassagora ed Empedocle epicurei. Ad Alberto Magno si contestò, inoltre, la timidezza nel tentare un’organica riforma del pensiero aristotelico in modo da renderlo perfettamente conciliabile con i dogmi cristiani. Ma di quest’operazione aveva solo gettato i semi: le piante germogliarono in seguito, grazie alle intuizioni del suo discepolo Tommaso d’Aquino. F

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immaginario l’anima

Vedere l’invisibile di Lorenzo Lorenzi

Affreschi e sculture medievali offrono una straordinaria visualizzazione del concetto di «anima»: somigliante a un corpo umano con funzioni fisiche e psichiche, abbigliata e adorna di monili, essa appare talvolta sotto forma di animale alato o di vegetale rampicante... Giotto, Dormitio Virginis. Tempera e oro su tavola, 1312-14 circa. Berlino, Gemäldegalerie.

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L L’

anima è il fondamento estetico ed etico del cristianesimo, per il quale rappresenta la porta dell’aldilà, nonché il veicolo della comunicazione fra la dimensione umana e quella divina. L’arte medievale ne visualizza la struttura formale, «a-spirituale» talvolta con precisi risvolti sentimentali. L’esigenza di far comprendere al volgo la creazione divina dell’uomo, che ritorna a Dio dopo la morte, costituiva il limite maggiore per l’artista, vincolato dalle indicazioni di una committenza ecclesiastica desiderosa di insegnare per immagini – la cosiddetta biblia pauperum – il mistero del mondo. Affreschi e sculture visualizzano i concetti di animus, spiritus, mens, che nella lingua latina significano vento, forza, emozione, passione divina, nonché quelli di

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matrice classica, dunque psyche (realtà razionale e vitale dell’uomo, unione di pensiero ed essere) e pneuma: soffio vitale, trasfigurato nel cristianesimo in Spirito Santo, quale lume che vivifica la natura e che investe, fecondandola, la Vergine al fine di riscattare l’umanità per mezzo di Cristo.

Vestita di panni pregiati e candidi

L’ascesa a Dio, la resurrezione, il paradiso e l’inferno, il giudizio universale, la pesatura delle anime (psicostasia), l’ars moriendi, sono solo alcuni dei temi in cui l’anima è ritratta nelle sembianze di essere umano, vestita di pregiati e candidi panni, espressiva, mentre mima gioia o malinconia, quasi un doppio del corpo se non addirittura il corpo stesso, risorto nella luce della bontà divina; questo perché ogni teoretica dell’anima pone il problema della sua natura, struttura e attività.

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A sinistra Guariento, San Michele pesa le anime. Tavola, 1350. Padova, Musei Civici. Nella pagina accanto Firenze, S. Maria Novella, cappellone degli Spagnoli. Andrea di Bonaiuto, Resurrezione di Cristo. Affresco, 1365-67 circa.

Psyche

La lezione dei classici Il Medioevo recepisce il concetto di anima forgiato dalla filosofia classica, quale principio responsabile dell’attività vivente e cosciente (raziocinante e morale) dell’individuo, riprendendo le teorie di Aristotele e Plotino. Per il primo (383-322 a.C.) la psyche è forma del corpo, struttura sostanziale, atto di ogni corpo organico e fa sí che la cosa vivente sia un essere vivente. È dunque un complesso di funzioni inseparabili dal corpo, organizzate su tre livelli: anima vegetativa (propria delle piante); anima sensitiva (contenente la vegetativa),

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responsabile del desiderare e del percepire la realtà attraverso i sensi; e anima razionale (contenente le precedenti), capace di pensare e giudicare il vero e il falso: ha in sé le forme intellegibili, cioè le essenze delle cose intuite mediante astrazione. L’attività della psyche si fonda sulla contemplazione delle idee elevate, disprezza le cose mondane e corruttibili: in questo senso è da leggersi il mito di Psiche, fanciulla che doveva accettare le attenzioni del suo amato senza vederlo, l’amore infatti è pura energia sovrastante il divenire.

Platone (428-348 a.C.) sostiene che l’anima, quale principio immateriale e immortale, conosce le idee, è soprasensibile e vive nel corpo come in una prigione anelando a ritornare all’originario mondo. Una concezione fatta propria da Plotino (205-270), che la rinforza partendo dall’Uno, il principio infinito di tutta la realtà, che si effonde mediante tre sostanze (ipostasi): l’Uno stesso, l’Intelletto e l’Anima; questa dà vita e ordine al mondo materiale attraverso la contemplazione dell’Intelletto, che a sua volta contempla l’Uno. giugno

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La speculazione medievale attinge da Aristotele, che vede nell’anima l’atto primo e la struttura sostanziale della figura, capace di dare vita biologica, percettiva, nonché razionale-intellettiva all’essere-uomo: è il tutto dell’individuo che diviene individualità concreta. Su questa linea si muove san Tommaso (1225/26-1274), il quale, facendo proprie anche le indicazioni del Vangelo, afferma come l’anima sia principio vitale che riceve sostanzialità da Dio, indi attività autonoma e incorporea, autocoscienza che desidera esistere e perciò immortale. L’essere dell’anima rimane tale anche dopo la distruzione della materia, dunque nel giorno della resurrezione ognuna riprenderà il suo corpo cosí come è stato creato in origine, ritornando l’uomo a novella unità individuale; questo spiega perché le anime dei santi e quella del Redentore siano effigiate in corpi che sembrano vivere nell’immanenza. Negli affreschi di Andrea di Bonaiuto in S. Maria Novella, a Firenze, le anime del paradiso hanno fattezze e posture umane (foto in questa pagina). Il Redentore ha gravità corporea, gli spiriti in preghiera partecipano del

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suo mistero con gestualità ed emozione: il discrimine fra la patria celeste, cioè luogo della contemplazione dell’immutabile unità generatrice di vita, e la patria umana, composta da fedeli oranti che partecipano della natura divina del Cristo, sembra annullato; ciò si evince anche nel Trionfo di San Tommaso, che inscena una sorta di concilio, ma, in realtà, è una sinfonia di anime sapienziali nella sfera intelligibile. Cosí riferisce la sequenza degli stalli presso i quali sostano le personificazioni delle scienze, in alto la figura di san Tommaso è assisa tra gli evangelisti e i personaggi dell’Antico Testamento, mentre ai suoi piedi stanno i depositari degli errori dottrinali, Sabello, Averroé, Ario; al culmine si trovano infine le virtú teologali e cardinali svolazzanti.

Le anime al vaglio dell’arcangelo

Nella tavola della psicostasia di Guariento si rappresentano anime di luce che avrebbero dovuto essere scevre da ogni urgenza fenomenica (gravità fisica e contrappunto fisiognomico); su tutti l’arcangelo appare biologicamen-

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immaginario l’anima

Simboli vegetali La mistica Ildegarda di Bingen (attiva nel XII secolo), nel Liber Scivias, intuisce l’anima divina in un albero, mentre Dante scrive: «Allor porsi la mano un poco avante, / e colsi un ramicel da un gran pruno; / e ‘l tronco suo gridò: Perché mi schiante?» (Inferno XIII, 31-33): tali sono le anime dei suicidi, che, come alberi terrestri, grondano sangue e soffrono. Presso gli antichi popoli nomadi, la pianta è simbolo sia della vita, poiché

Ricchissima è la simbologia legata al concetto dell’anima, con immagini e allegorie sovente riferite a piante e animali 56

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A sinistra Firenze, S. Croce, cappella Peruzzi. Giotto, Assunzione di San Giovanni Evangelista. Affresco, 1320 circa. Nella pagina accanto Firenze, Duomo. Rilievo di Nanni di Banco con la Madonna della Cintola. 1391-1423.

fruttifica, sia della sapienza divina (Proverbi 3,18), cosí le anime dei giusti alla loro morte si chiameranno «querce di giustizia» (Isaia 61,3) e andranno a esornare la piantagione del Signore per manifestarne la gloria. Se in Giobbe (17,7) è simbolo di resurrezione, poiché germoglia anche se tagliato al suolo, in Agostino l’albero di fico fonda il senso della grazia misericordiosa, epifania dello Spirito Santo. Nella speculazione patristica,

il melograno è espressione della Chiesa in qualità di madre dell’umanità, della Passione e della Resurrezione di Gesú: il frutto che si apre al calore della luce diviene simbolo del percorso dell’anima verso Dio. Nella cultura ebraica, i grani tondeggianti sono il segno di elevatio animae verso la perfezione. Connessa al tema dell’immortalità dell’anima è anche l’edera; una massima di Hohberg (1675), che forse riprende una tradizione

te vivente (foto a p. 54): le vesti bianche dai bordi dorati si appoggiano alle membra, la tunica cinge i fianchi e una pantofola rossa si fa spazio fra i drappeggi (richiamo alla moda dell’epoca); la mano sinistra sorregge una bilancia a due coppe, sulla quale stanno le azioni compiute in vita dal soggetto posto al giudizio e visualizzate alla stregua di minuscoli uomini; un diavolo tira giú la coppa dei vizi e il santo lo infilza per mezzo di una lancia. Dal corpo del dannato escono fiotti di sangue, come se tutto si svolgesse nella dimensione della temporalità. Anche l’Assunzione di San Giovanni Evangelista di Giotto (foto in alto) presenta i caratteri terrigeni sopra enunciati, ma invertiti nelle proporzioni: nel dipinto

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antica, recita come essa «si avvinghia a una quercia con veemenza, non la si può tagliare. Quando Dio è davvero nell’anima di un uomo egli si volge subito verso l’alto e nessun male lo può piú toccare». Lo Spirito Santo è simboleggiato anche dalla mandorla: infatti, nell’iconografia medievale Gesú bambino e Maria risorti compaiono in Paradiso all’interno di una mandorla rilucente responsabile dell’unione della sfera terrestre con quella celeste.

di cui sopra, l’arcangelo, espressione del Bene, appare gigante in relazione ai soggetti presenti, nell’opera giottesca è il mondo dei vivi a emergere, occupando parte della scena, compreso l’evangelista nell’atto di essere accolto in cielo; egli ascende con tutto il peso corporeo, vestito di abiti quotidiani e dimessi, grazie alla mano tesa da Cristo che lo accoglie a sé in virtú di un’intensa stretta muscolare.

Una cintura per san Tommaso

Il rilievo fiorentino della Madonna della Cintola di Nanni di Banco (foto a p. 56) propone l’empireo e l’immagine dell’Onnipotente sotto forma di mandorla, simbolo

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immaginario l’anima animali alati

Un battito d’ali verso la redenzione Nella tradizione classica e in quella cristiana, l’anima è variamente rappresentata da figure zoomorfe che ascendono al cielo per mezzo di ali. Tra le piú antiche è la farfalla, che, nascendo come bruco incolore, si trasforma in iridescente immagine cinetica, elevandosi a un livello piú alto di bellezza ed energia per mezzo del frenetico battito. La crisalide è l’uomo che contiene la possibilità dell’essere, e l’animale alato che ne esce la sua resurrezione; una farfalla posata sulla mano di Gesú bambino simboleggia la redenzione. Virgilio associa all’anima l’ape e nelle Georgiche scrive come essa abbia «una parte della mente divina e il respiro dell’etere»; nell’Eneide l’insetto è espressione d’immortalità dell’anima, paragonando lo stuolo di api alle anime che volano presso il Lete. Nella tradizione post-biblica, è definita beata nell’Exultet pasquale e associata alla

In alto Duccio di Buoninsegna, Resurrezione di Lazzaro. 1308-11. Fort Worth, Kimbell Art Museum. La tavola era parte della decorazione posteriore (successivamente

smembrata) della Maestà realizzata dal maestro senese per il Duomo della città. A destra Meister E.S., Ars moriendi. Incisione, 1450 circa. Oxford, Ashmolean Museum.

dell’anima divina, entro cui splende l’anima di Maria in trono nella figura di regina della pace; la posa cinetica delle gambe in movimento e i gesti delle mani che porgono la sacra cintola a san Tommaso orante in basso strutturano un’architettura razionale, contornata da aerei angeli, che fanno non poca fatica nel sorreggerne l’ogiva (due cerchi che si intersecano a simboleggiare la comunicazione dei due mondi); evidente è lo sforzo delle loro braccia possenti in relazione all’impegnativa e sintetica visione dell’anima della Madre entro quella del Figlio, che è Dio stesso. Il dialogo delle anime è protagonista nella Dormitio Virginis di Giotto, tavola in cui il Figlio, nelle sembianze di un infante vestito con abiti da adulto, accoglie Maria (foto alle pp. 52/53); straordinario è il passaggio inverso che lega Gesú e la Madre da cui è stato generato: come

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Vergine, visto che in entrambe il sesso femminile non viene violato da quello maschile; il miele, simbolo di resurrezione, è ritenuto Logos divino concretato nel corpo di Cristo. Talvolta può assumere l’aspetto di uno sparviero: l’aquila che si unisce al corpo del Redentore (Luca, 17,37) è interpretata, dal tardo antico, come rinnovamento. Il desiderio di elevarsi verso le alte vette del sole e della giustizia è desiderio di Dio: sui fonti battesimali romanici e gotici si trova l’immagine dell’aquila, che, come acqua mistica, fa risorgere l’uomo alla purezza della luce divina, in riferimento al mito della Fenice che rinasce dalle sue ceneri. Ancora in ambito cristiano, riluce il concetto di anima associata alla colomba, comparendo nel Nuovo Testamento come verbo d’amore e sostanza divina di Gesú (anima mundi). Gregorio Magno narra che san Benedetto ebbe notizia della morte di santa Scolastica vedendo l’anima di lei salire in cielo sotto forma di bianca colomba. alla nascita lei teneva in braccio l’infante Redentore, ora è il Messia risorto a custodirla, perché simile a lui quand’era bambino, cioè fragile e bisognosa d’affetto.

«Lazzaro vieni fuori!»

Pisanello (al secolo Antonio Puccio), Ritratto di giovane principessa, forse identificabile con Lucia d’Este. 1435-1440. Parigi, Museo del Louvre. Intorno al profilo della nobildonna volteggia una farfalla dai vivaci colori, insetto spesso utilizzato come allusione all’anima.

Talvolta l’anima può mostrarsi priva di abbigliamento, ma sempre impigliata all’interno di una struttura fisica riferisce l’adeguata preparazione del vivo a una morte per la quale la nudità appare bandita. La Resurrezione buona, che consente di ascendere dolcemente al purgadi Lazzaro di Duccio di Buoninsetorio o al paradiso: da qui le pratiche gna (foto a p. 58, in alto), narrata nel meditative in funzione purificante Da leggere Vangelo di Giovanni (11, 1-44), preal fine di assurgere al bene. Nelle senta il protagonista coperto dalle incisioni si raffigura il moribondo U Aristotele, De Anima, a cura di bende funebri nel momento della nella camera da letto, in attesa del Giancarlo Movia, Bompiani, Milano ricongiunzione dell’anima col cortrapasso, mentre in alto volteggiano 2001 po voluta dal Messia, che afferma: angeli e demoni che si contendono U Bonaventura da Bagnoregio, «Lazzaro vieni fuori!». L’opera pittol’anima in battaglia. Itinerario dell’anima a Dio, rica mostra il miracolo effigiando il Significative sono le incisioni Bompiani, Milano 2002 risorto nel mondo dei vivi, con un sul tema di Meister E.S., affollate U Vito Mancuso, L’anima e il suo corpo che sembra ancora appartedi personaggi viventi e trascendendestino, Raffaello Cortina Editore, nere al momento precedente l’interti: in una delle versioni, alle spalle Milano 2007 vento messianico, a significare che del malato, sostano Cristo, la VergiU Raoul Manselli, Il soprannaturale la resurrezione, quale ricongiunne e l’Evangelista, immobili e soavi, e la religione popolare nel zione dei due mondi, non prevede fiduciosi della sua moralità; ai lati Medioevo, Edizioni Studium, Roma espressamente la ricostituzione del diavoli deformi, nudi, pelosi, dai 1985 corpo alla stregua di fisico ringiovavolti mostruosi, alzano le coperte, nito, bensí la continuazione biologica accarezzano e blandiscono il morendi quello precedente, diversamente è l’anima a conser- te con parole dolci: fra gli astanti viventi in preghiera e vare memoria del trapasso; essa esprime pertanto la i risorti (beati e dannati) non sembrano esserci diffesintesi tra fisica e metafisica ovvero struttura figurale renze. Ogni personaggio mostra nei gesti, nelle pose e illuminata della luce dell’intelletto divino. nelle espressioni, caratteristiche umane a sunteggiare Una tarda iconografia che fa capo all’ars moriendi, che l’anima è sempre una sostanza che pensa, che perdiffusasi nel XV secolo per mezzo di una serie di tratta- cepisce e che desidera, indipendentemente dalla sua ti inerenti la predicazione domenicana e francescana, locazione e dalla sua moralità. F

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costume e societĂ monete ossidionali

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Assedio e disonore

di Alessio Montagano


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a varietà dei riti usati nell’Italia medievale per mortificare i nemici militari in occasione dell’assedio, proprio nelle immediate vicinanze delle mura urbane, costituisce una straordinaria fonte di lettura per tutti gli appassionati di quel periodo storico. Quando un esercito organizza un assedio, accanto alle operazioni piú propriamente belliche, compie di norma anche azioni che mirano a irridere e provocare l’avversario. La guerra d’assedio, d’altronde, è sinonimo di operazione di lungo periodo e la sua finalità precipua è quella di indebolire il rivale, anche nel morale, e di portarlo alla resa volontaria. Spesso, in questa prospettiva, si addobbano cavalieri e si fanno correre palii per sottolineare l’inferiorità dei nemici costretti ad assistere, asserragliati, all’insolente gioia degli assedianti. Capita anche che si sacrifichino animali – asini, gatti, capponi e montoni – mentre talvolta, come feroce monito, si organizzano strazianti esecuzioni capitali di sventurati prigionieri. Ma l’esibizione, durante gli assedi, può assumere anche connotazioni e significati diversi. In molti casi, riportati nelle cronache cittadine, il messaggio inviato agli assediati intende esprimere la potenza dell’assediante sul territorio nemico, attraverso la coniazione di monete con l’impronta della propria identità politica. Lo fanno, per esempio, i Fiorentini nel 1256, quando, venuti in soccorso dei Lucchesi, sconfiggono i Pisani sulle rive del

A sinistra particolare della decorazione di un cassone nuziale, raffigurante la presa di Pisa. 1460 circa. Dublino, National Gallery of Ireland. La scena si riferisce alla caduta della città, nel 1406, per mano dei Fiorentini, guidati da Gino Capponi. In simili circostanze, come narrano le fonti, era diffusa l’usanza di battere monete che schernivano gli sconfitti.

Tra il XIII e il XIV secolo i campi di battaglia della Toscana sono teatro di numerose coniazioni da parte degli eserciti assedianti. Emesse per assoldare le compagnie militari, quelle monete riflettono un interessante aspetto psicologico della guerra medievale: la sfida e l’umiliazione dell’avversario nella lunga attesa


costume e società monete ossidionali Serchio (nel comune di Bagni di San Giuliano, a nord di Pisa) e, per celebrare la vittoria su una delle storiche rivali «tagliarono uno grande pino, e battero in sul ceppo del detto pino i fiorini d’oro; e per ricordanza, quegli che in quello luogo furono coniati, ebbono per contrassegna trà piedi di San Giovanni quasi come uno trefoglio, a guisa d’uno piccolo albero: e de’ nostri dí ne vedemmo noi assai di quelli fiorini».

Un trifoglio per san Giovanni

La moneta di cui parla il cronista fiorentino Giovanni Villani è stata identificata in una tipologia di fiorini d’oro, molto arcaica dal punto di vista iconografico, che si differenzia da quella comune per la presenza accanto al piede sinistro di san Giovanni, sul bordo inferiore destro, di un «trifoglio» dal lungo stelo. Non contenti della disfatta subita, i Pisani, nel settembre del 1264, alleati con i Senesi e i Pistoiesi, compiono una nuova scorreria Miniatura raffigurante la coniazione del fiorino d’oro a San Jacopo al Serchio, da un’edizione della Nuova cronica di Giovanni Villani, contenuta nel ms. Chigiano. Metà del XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Piuttosto precisa è la rappresentazione della battitura sul ceppo di pino; i rami tagliati, pieni di pigne, giacciono da un lato.

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nella campagna lucchese e coniano alle porte della città grossi d’argento detti «aquilini», cosí chiamati per essere caratterizzati nel dritto dall’aquila rapace coronata, emblema ghibellino del Comune di Pisa. L’emissione di tali monete ha inizio sabato 29 settembre, in occasione di una corsa di cavalli, e continua sino al venerdí successivo 5 ottobre, come ci testimonia un cronista pisano contemporaneo all’evento: «arrivammo a Prato [di Lucca], proprio fino alle porte e alle mura della città, e lí, a perenne memoria, in pubblico riconoscimento delle nostre imprese e a eterno disonore dei nostri nemici (…) facemmo battere le nostre nuove monete da due soldi con l’emblema della nostra Aquila vittoriosa coronata; e inoltre facemmo cavalieri molti soldati, e lanciammo dentro la città molti quadrelli dalle balestre e molte verghe sardesche [una sorta di giavellotto], che uccisero molti di coloro che presidiavano le mura o stavano nella città, e ci mettemmo a giocare a massascudo [cioè battaglie simulate tra combattenti armati di clave e scudi] e danzammo danze gioiose». La vendetta si consuma però qualche anno dopo, nel 1269, quando i Lucchesi, «per ricordanza e vergogna de’ Pisani», dopo aver devastato e saccheggiato il contado pisano, arrivano fino alle mura della città avversaria e «feciono battere loro moneta e tornarono sani e salvi».

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Dritto e rovescio del fiorino d’oro con il trifoglio coniato a San Jacopo al Serchio dalla Repubblica fiorentina, all’indomani della vittoria riportata nel 1256 sui Pisani. L’identità dell’autorità emittente si desume dal giglio fiorentino con attorno il nome FLORENTIA e dalla figura del patrono cittadino con la scritta S•IOHANNES B(aptista).

Nel 1287 la città di Pisa viene, ancora una volta, fatta oggetto del bruciante insulto della battitura di moneta avversaria sul proprio territorio. Ma in questa occasione per opera dei Genovesi e per la prima volta via mare. Dopo la disastrosa sconfitta navale della Meloria subita dai Pisani tre anni prima, una piccola spedizione genovese, formata da cinque galere capitanate da Niccolino di Petraccio e Benedetto Zaccaria, fanno breccia tra le catene di ferro che sbarravano l’ingresso del porto (Porto Pisano, vicino all’ordierna Livorno) e, preso possesso della postazione avversaria per una settimana, battono moneta in signum victorie.

Il trionfo di Castruccio Castracani

Si deve attendere il secolo successivo per ritrovare un nuovo episodio di coniazione «per dispetto». È ancora una volta Giovanni Villani a darne conto. Nel settembre 1325 il signore di Lucca Castruccio Castracani, di aperta fede ghibellina, ottiene una incredibile vittoria sui Fiorentini ad Altopascio e, due mesi dopo, direttosi verso il capoluogo toscano, a «dispetto de’ Fiorentini fece battere moneta picciola in Signa co la ‘mpronta dello ‘mperadore Otto [Ottone IV di Brunswich], e chiamarsi i castruccini». Il castello di Signa, del resto, rappresentava una posizione strategica per l’approvvigionamento della città nemica, soprattutto dopo la costruzione del ponte sull’Arno, unico, in questo secolo, a collegare le due sponde del fiume toscano, e anche la piú importante via di comunicazione con Pisa. Come di consueto, dopo la battitura di moneta, si fanno correre tre palii e ciò avviene «in su una isola d’Arno, che si vedea apertamente di Firenze»: uno con i cavalli, uno di uomini a piedi e un terzo, particolarmente piú dileggioso, con le prostitute. Ritroviamo questo costume anche in occasione della presa di Arezzo da parte dei Perugini, nel 1335. Racconta la cronaca trecentesca del Graziani che il 12 novembre di quell’anno la milizia perugina «puose campo et oste al domo de la città de Arezzo» e fece «battere nel dicto domo al conio de la moneta del comune di Peroscia». Dopo la rituale

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coniazione di moneta ossidionale si aggiunge un ulteriore elemento di infamia per la popolazione sconfitta, facendo radunare sotto le mura della città tutte le meretrici che erano al seguito dell’esercito e che, discinte, vengono fatte correre: «anco ce fecero currere el palio denante a la porta de Arezzo da le putane alzate fino alla centura». Al Trecento sono attribuibili due ulteriori episodi di coniazione alle porte della città assediata: in terra pisana prima, e in quella fiorentina poi, il secondo a ritorsione del primo a distanza di qualche mese. Nel primo caso però, il consueto racconto del cronista è corroborato dalla registrazione di alcune uscite contabili, contenute nel Libro della Zecca di Firenze, destinate al pagamento degli incisori dei conii «speciali» inviati in campo di battaglia. Siamo nella tarda primavera dell’anno 1363: Matteo Villani (fratello di Giovanni e continuatore della sua Cronica, n.d.r.) scrive che Pietro Farnese, capitano fiorentino, mossosi da Empoli il 18 maggio, ha occupato il contado limitrofo a Pisa e lí, «a Rignone [moderna Riglione sull’Arno, 3 km a sud-est della città] e allo Spedaluzzo [moderno Spedaletto, l’»Ospedale» a ovest di Riglione] fe’ battere moneta dell’oro e d’argento e di quattrini: in quella d’argento sotto i piè di san Giovanni sta una volpe al rovescio». L’allusione alla volpe morta, secondo gli storiografi, è riconducibile a una duplice lettura interpretativa: alla

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In alto particolare di un ritratto di Castruccio Castracani. Olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi, detto il Bustino. Inizi del XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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disfatta dei Pisani, come si desume dalle parole di Dante che, nella Divina Commedia allude alle «volpi» per indicare gli astuti e odiati vicini, oppure all’arme del Farnese, impressa sulla tomba di Pietro, commemorata con il riferimento al trionfo pisano. Il riferimento a conii preparati per i tre metalli rappresenta semplicemente una formula di rito: appare infatti difficile che i Fiorentini alterassero l’iconografia del fiorino d’oro, la cui rinomanza internazionale era legata all’immutabilità del suo aspetto e della sua lega, e, d’altra parte, vi sarebbe stato poco spazio sul quattrino per apportare modifiche cosí significative rispetto al conio consueto. Un’ulteriore descrizione delle monete battute in quell’occasione si trova anche nella cronaca del Sercambi, che ci testimonia che il fiorino aveva «san Iohanni [che] tenea in mano le chatene del porto di Pisa dall’uno lato, e da l’altro il giglio». Quelle «catene», attribuite fantasticamente dal cronista lucchese all’episodio dell’assedio genovese del 1287,

Dritto e rovescio della bolla in piombo della città di Pisa del 1179. Nel dritto compare l’aquila imperiale ad ali spiegate, simbolo ghibellino della città, sopra un capitello. Nel rovescio la Vergine, seduta in trono con il Bambino in braccio: ai suoi lati corre la scritta MATER DEI. Si tratta del piú antico sigillo pisano.

non sono altro che il segno identificativo dello zecchiere in carica per quel semestre, Tommaso di Lippo di Marino Soldani, apposto proprio sopra la mano destra benedicente del santo patrono fiorentino raffigurato nel rovescio della moneta, come d’uso in tutte le emissioni repubblicane a partire dalla seconda metà del XIII secolo.

Cronache scritte e illustrate

Dritto e rovescio del denaro piccolo lucchese detto «castruccino», dal nome di Castruccio Castracani. Nel dritto è rappresentato l’imperatore Ottone, a mezzo busto, con la dicitura: OTTO REX. Nel rovescio LVCA, con le lettere disposte a croce, e attorno: INPERIALIS. Il signore di Lucca fece coniare la moneta dopo la vittoria ottenuta nel 1325, ad Altopascio, ai danni dei Fiorentini.

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La ritorsione avviene poco dopo, nella tarda estate dello stesso anno, presso il quartiere fiorentino di Rifredi («al borgo san Domnino, che è presso Fiorenza a tre miglia»). Giovanni Sercambi, che al gusto di raccontare con la prosa unisce quello di illustrare con il disegno, lascia una vivace testimonianza iconografica dell’avvenimento. Nella miniatura del suo manoscritto, infatti, vengono rappresentati i coniatori che battono moneta sotto le tende; subito fuori dai padiglioni, alcuni cavalieri inginocchiati ricevono l’investitura dal capitano con il gesto del colpo sulla guacia; da una forca penzolano i corpi degli asini impiccati, mentre alcuni cavalieri, con fruste e speroni, corrono in gara verso i due palii tenuti da due personaggi sulla linea del traguardo. Sullo sfondo appa-

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costume e società monete ossidionali Il grosso fiorentino da 5 soldi, detto «guelfo della volpe», e coniato in argento a Riglione, presso Pisa. La moneta è cosí chiamata perché, sotto ai piedi del Battista, compare una volpe morta con le zampe all’aria. Nel diritto vi è invece il giglio fiorentino con la legenda: DET TIBI FLORERE XPS (Cristus) FLORENTIA VERE («che Cristo ti faccia fiorire veramente, Firenze»). Tale invocazione viene introdotta nei conii dei grossi d’argento alla metà del Trecento, periodo in cui la città cercava di uscire dalle gravi crisi economiche, preannunciate tra il 1342 e il 1346 dal fallimento delle compagnie dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli e dei Bonaccorsi, e dalla peste del 1348, che eliminò i due terzi della popolazione urbana. In basso illustrazione a commento della cronaca di Giovanni Sercambi per l’anno 1363: i Pisani danno luogo a una coniazione «per dispetto», come ritorsione per la battitura fiorentina avvenuta a Riglione.

iono le mura urbane di Firenze, identificata dal vessillo col giglio comunale. Ma quali tipologie di monete vengono coniate durante l’assedio? Una cronaca anonima senese, contemporanea all’evento, ci riferisce che i Pisani «baterono la moneta in sulle porti, choniata d’un Aquila cho ‘l Leone sotto a’ piedi e furo fiorini e grossi». Queste emissioni, caratterizzate dalla presenza di un «leone» (ovvero il Marzocco, simbolo guelfo del potere popolare fiorentino) in luogo dell’usuale capitello su cui svetta l’aquila federiciana (simbolo dei ghibellini pisani), nella realtà non sembrano trovare riscontro tra i pezzi numismatici attualmente conosciuti. Si conosce invece un sigillo trecentesco con

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l’aquila ghibellina che ghermisce il leone guelfo, conservato al Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. Di tutt’altro parere è Sercambi, il quale afferma che i Pisani «fenno bactere fiorini et grossi d’ariento; li fiorini del cugno la vergine Maria dall’uno [dritto] e dell’altro l’aguila [rovescio]. E’l grosso ebbe simile segno, salvo che socto l’aguila era il comune». Mentre riusciamo a identificare con sufficiente ragionevolezza la tipologia numismatica del fiorino d’oro pisano a cui il cronista lucchese si riferisce, non possiamo dire altrettanto per il nominale d’argento. Tuttavia, se interpretiamo la frase «sotto l’aquila c’era il Comune» nel senso «dietro all’aquila c’era il Comune» (ovvero nell’altra faccia della moneta, che per l’appunto sta sotto a quella a cui si rivolge lo sguardo), possiamo individuare una rara moneta grossa pisana le cui caratteristiche iconografiche sembrano corrispondere alla descrizione fattane nella cronaca lucchese: quella cioè che nel dritto presenta la solita aquila rapace con la dicitura «Federico Imperatore» e nel rovescio la parola PISA disposta a croce con attorno «Moneta del Comune Pisano». Questa ipotesi trova peraltro conforto nel fatto che non avrebbe avuto alcun senso rappresentare il simbolo comunale cittadino al di sotto degli artigli dell’aquila rapace, in quanto una simile scelta avrebbe sicuramente assunto un significato irrisorio.

Coniazioni poco accurate

Non tutte le emissioni di «emergenza» prodotte in circostanze belliche vengono però coniate con la stessa perizia praticata nella sede ufficiale delle zecche cittadine. Infatti, molte delle monete definite in numismatica «ossidionali», perché coniate durante un assedio (dal latino obsidium) per pagare il soldo alle truppe, presentano irregolarità sia della forma, ma anche del valore, spesso non in linea con lo standard monetario usato in

Le monete battute in occasione degli assedi sono spesso irregolari nella forma e nel valore

toscana tra impero e papato Inizi del XII Durante il conflitto tra l’imperatore secolo Enrico IV e il figlio Enrico V, le città toscane si dividono in due schieramenti: Lucca, Firenze, Arezzo e Pistoia si schierano con Enrico IV, mentre Pisa, Volterra e Siena appoggiano il figlio. Lo scontro tra le due città confinanti, Lucca e Pisa, nascondeva altri interessi: il libero transito delle merci lungo il fiume Arno e il possesso della sua foce. 1104-1105 I Lucchesi sconfiggono i Pisani a Massa Pisana e Ripafratta. 1106 Morte di Enrico IV; Enrico V diventa imperatore del Sacro Romano Impero. 1111 Enrico V conferma a Lucca i privilegi concessi dal padre. 1125 Morte di Enrico V. Nascita in Germania delle fazioni dei guelfi e dei ghibellini nella lotta tra papato e impero per la successione al trono. I Comuni italiani si schierano chi con i guelfi (papato) chi con i ghibellini (impero). 1256 I Fiorentini (guelfi) sconfiggono l’esercito pisano (ghibellini) sulle rive del fiume Serchio. 1260 Sconfitta dei guelfi nella battaglia di Montaperti. 1315 I Pisani vincono i Fiorentini a Montecatini. 1325 Lucca (roccaforte ghibellina tra il 1314 e il 1328) vince i Fiorentini ad Altopascio. 1331 Firenze occupa Pistoia. 1337 Firenze conquista Arezzo. 1406 Firenze conquista Pisa. 1421 Firenze occupa Livorno.

A destra ancora un particolare della decorazione di un cassone nuziale, raffigurante la presa di Pisa. 1460 circa. Dublino, National Gallery of Ireland.

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costume e società monete ossidionali

In alto dritto e rovescio del fiorino d’oro pisano. Roma, Museo Nazionale Romano. L’aquila ghibellina coronata è accompagnata dalla legenda: FEDERICVS IMP(er)ATOR, mentre la Vergine in trono con il Bambino in braccio dall’invocazione: P(ro)TEGE VIRGO PIS(a). Alla sua destra compare il simbolo di zecca della croce (forse riferibile a Pisa).

genere nell’area, né corrispondente al contenuto del titolo metallico prescritto. Per questo motivo molte di queste monete vengono ritirate dopo gli eventi bellici, per essere nuovamente rifuse. Nella Vita di Francesco Ferrucci, capitano dell’esercito fiorentino ed emblema della resistenza repubblicana nel 1530, Filippo Sassetti narra che, durante l’assedio di Volterra, «il Ferruccio, con quella maggiore sollecitezza che fusse possibile, attendeva a far coniare monete di quegli argenti, valendosi di ciò dell’opera d’uno orefice fiorentino che era nel suo esercito, e di certi torselli e punzoni statili mandati a questo effetto di Firenze: ma, perché vi mancavano la maggior parte degli strumenti principali, batte certe monete quadre, di valore di mezzo fiorino». «Quegli argenti» citati da Sassetti non sono altro che il bottino delle requisizioni avviate dal Ferrucci prima a Empoli e poi a Volterra, che lui stesso confessa in prima persona nelle lettere destinate ai Dieci di Balía: «preso tutti gli arienti superflui délie Chiese nel medesirao modo, e dipoi tolto

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A sinistra e in basso dritto e rovescio di un grosso ghibellino pisano in argento. Presenta da un lato l’aquila rapace con attorno la legenda: FREDERICVS IMPERATOR; dall’altro la scritta PISA e il riferimento al Comune: MONETA PISANA COMVNIS.

tutti gli arienti, nappi, e taze, e forchette, e chucchiai, e anella doro, e dariento duomini, e donne, e messi in zecha a battere, e che per 3 anni non si potessi portare anella per persona doro, e dariento». La battitura avviene sul luogo assediato, principalmente per «mantenere queste bande [compagnie militari] e augumentarle» e i rispettivi conii vengono richiesti direttamente alla zecca «ufficiale» attraverso il corrispondente repubblicano: «Et mandate quattro torselli delle stampe mandate, et dua altre stampe di quattro grossi o giugno

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barili, con loro torselli doppi: et non si manchi subito». In particolare, per trovare l’intrinseco da monetare in quattrini, Ferrucci requisisce uno dei simboli piú rappresentativi della città, cioè «la campana grossa del palazzo loro, che penso sia rebbella’ per avéra sonato a martello contro alli ordini piú volte».

Dritto e rovescio del grosso fiorentino in argento detto «barile». La denominazione della moneta, i cui conii vengono richiesti dal Ferrucci in occasione dell’assedio di Volterra, è dovuta al fatto che essa veniva spesa per pagare il dazio di un barile di vino e due di olio. La sua introduzione, nel 1504, fu voluta principalmente per avere un pezzo di taglio maggiore, cosí da semplificare i pagamenti in prossimità delle gabelle cittadine da parte dei vetturali che arrivavano dal contado. Nel rovescio compare, per la prima volta nella monetazione fiorentina, il battesimo di Cristo sulle rive del Giordano da parte del Battista.

Monete di cuoio

Talvolta, a causa della carenza del metallo da monetare e dall’urgenza dettata dalla condizione dell’assedio, vengono addirittura fatte coniazioni con materiale non metallico, come il cuoio. Federico II, in occasione dell’assedio di Faenza nel 1240-41, rimasto senza moneta dopo aver impegnato anche «i suoi gioielli e vasellamenti», pagò i cavalieri e «chi serviva l’oste» con una tessera di cuoio che aveva impressa la sua figura, garantendo il valore corrispettivo «d’uno agostaro d’oro». In questo caso non vi è alcun intento irrisorio nei confronti della città sotto assedio, ma si persegue soltanto la finalità del mantenimento delle soldatesche sveve che, secondo quanto ci riferisce lo storico Franco Cardini, insieme a quelle angioine, in quel periodo erano già composte perlopiú da assoldati mercenari tedeschi, francesi e catalani. Del resto, una volta ingaggiate, era molto difficile e pericoloso licenziarle: i venturieri infatti, se non stipendiati, diventavano disoccupati terribili, «dei fuorilegge al di sopra della legge», a partire dal momento in cui erano liberi di scorrazzare per territori inermi e di rifarsi ampiamente, con il saccheggio, degli stipendi perduti. Tale «condotta» finiva per tramutarsi quindi in una sorta di ricatto permanente di una Compagnia su un governo, ricatto sovente troncato soltanto dalla defezione della Compagnia stessa, attratta da condizioni piú al-

lettanti fattele da un altro governo, magari avversario di quello che essa aveva fino ad allora servito. Insomma, come direbbe Tacito, «Pecunia nervus belli». Dello stesso avviso è Luigi XII, il quale, in occasione della presa di Milano nel 1499, alla richiesta di cosa fosse necessario per espugnare la città, risponde: «Tre cose: denaro, denaro, denaro». Forse, senza le continue guerre intestine che hanno afflitto, ma nello stesso tempo forgiato, la storia della Toscana nell’età comunale, la nostra scienza sarebbe priva di quella caratteristica, prevalentemente regionale, che nei secoli successivi si è poi diffusa in tutta Europa sino al XIX secolo: cioè la battitura di moneta di emergenza in occasione di un assedio bellico. F

Da leggere U Duccio Balestracci, La festa in armi.

Giostre, tornei e giochi del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2011. U Salvatore Bongi, Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, Istituto storico italiano, Tipografia Giusti, Lucca 1892. U Franco Cardini, La guerra nella Toscana bassomedievale in Guerre e Assoldati in Toscana 1260–1364, Museo Stibbert, S.p.e.s. Firenze 1982; pp. 21-34. U Chiara Frugoni (a cura di), Il Villani

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illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, Biblioteca Apostolica Vaticana, Sesto Fiorentino 2005. U Philip Grierson, Coniazioni per dispetto nell’Italia medievale in Quaderni Ticinesi di Numismatica e Antichità Classiche, VIII, pp. 345-358. U Alessio Montagano, Monete Italiane Regionali (M.I.R.), Toscana zecche minori (2007) e Firenze (2011), Ed. Numismatica Varesi, Pavia.

U Aldo A. Settia, Rapine, assedi,

battaglie. La guerra nel medioevo, Laterza, Roma-Bari 2002 U Mario Traina, Gli assedi e le loro monete, Renato Giannantoni Numismatico ed., Bologna 1977. U Gian Maria Varanini, I riti dell’assedio. Alcune schede dalle cronache tardomedievali italiane, disponibile on line su www.retimedievali.it U Monica Baldassarri, Zecca e monete del Comune di Pisa, Felici editore, Pisa 2010.

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di Fabio Brioschi

Particolare del dipinto di Pedro Berruguete San Domenico Guzmán presiede un autodafé. 1493-99. Madrid, Museo del Prado (vedi a p. 91).

Eresia e

repressione

Mentre nell’Alto Medioevo furono gli Ordini monastici a rappresentare lo spirito del cristianesimo delle origini, dopo l’anno Mille una serie di profonde trasformazioni politiche e sociali determinò un quadro diverso: vasti strati della popolazione, traditi da un clero assai poco ligio ai dettami evangelici, si identificarono nei richiami lanciati da una nuova figura religiosa, il predicatore ereticale. Si diffuse, cosí, un fenomeno di contestazione ritenuto pericolosamente «eversivo» dalla Chiesa di Roma, la quale non tardò a mettere in atto la sua risposta…


Dossier una nuova spiritualità

S S

olo a nominarla, la parola «eresia» evoca l’immagine di un abisso costellato da roghi, processi, sadiche figure di inquisitori, abiure estorte con la violenza della tortura. Aspetti certamente non secondari della storia dell’eresia medievale, o meglio, del

La storiografia classica e contemporanea parla di «movimenti ereticali», ossia di una pluralità di esperienze diverse che puntellarono la storia del cristianesimo medievale. Ne scaturisce non piú una storia dei sanguinosi processi inflitti ai protagonisti piú o meno consapevoli dei

cristianesimo tout court; ma quella dell’eresia è una storia, soprattutto tra il XII e il XIV secolo, di vicende umane delicatissime, di sentimenti profondi e di ambiziose aspirazioni di rinnovamento spirituale. Sarà forse meglio, allora, scindere fin da subito, come fanno le piú recenti e moderne tendenze storiografiche, la storia dell’eresia da quella della sua antagonista: l’Inquisizione.

In alto Assisi, basilica inferiore di S. Francesco. Particolare di uno degli affreschi, attribuiti a Giotto e alla sua bottega, con la rappresentazione allegorica della Povertà. 1334 circa. La rinuncia ai beni materiali e ai privilegi di cui anche il clero spesso godeva era una delle parole d’ordine ricorrenti dei movimenti ereticali sorti e diffusisi in Italia e in Europa.

Un fenomeno complesso

Fatta questa premessa, è possibile parlare di eresia in senso lato? È legittimo provare a fare una sintesi di ciò che venne considerato eretico nei secoli medievali? Esiste un filo rosso che attraversa i secoli dal XII al XIV e riguarda l’ambizione al rinnovamento spirituale della società, in alternativa, quindi, al modello proposto e incarnato dalla Chiesa romana, ma non si può esaurire tale ambizione alla sola opposizione alle gerarchie cattoliche.

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movimenti ereticali, bensí la descrizione del contesto entro il quale, alla richiesta di un forte rinnovamento spirituale, la Chiesa cattolica romana rispose con una netta chiusura. Quali strade presero i movimenti per seguire le proprie aspirazioni e quali strumenti la Chiesa mise in campo per contrastare quella che era percepita come una minaccia di sovversione dell’ordine costituito?

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L’arco temporale prescelto ha una valida ragion d’essere, sebbene l’eresia, nel senso di una asserzione spirituale differente e contrapposta a quella dominante proposta dalla Chiesa cattolica, sia esistita anche prima e dopo il periodo considerato. Né, del resto, la storia della Chiesa medievale e quella dei movimenti ereticali possono prescindere l’una dall’altra.

La definizione «movimento ereticale» verrà usata per semplicità e per la sua immediatezza, ma il termine stesso è una «invenzione» storiografica: il Medioevo non conosce il concetto di «movimento», bensí quello di «setta», quindi di un gruppo ristretto e antagonistico, che si contrappone a «ordine», ossia a tutto ciò che è istituzionale e che ruota attorno alle gerarchie ecclesiastiche.

Le esperienze ereticali di questo periodo si incanalarono in due filoni principali: il catarismo, che proponeva un modello istituzionale e teologico del tutto diverso rispetto alla Chiesa cattolica, e i movimenti pauperistico-evangelici, che, invece, rifacendosi al Vangelo, chiedevano una vigorosa riforma in senso evangelico della Chiesa di Roma. In questo periodo storico le

domenico di guzmÁN Nato da nobili origini nel 1170 a Caleruega, in Castiglia, Domenico entrò a far parte dei canonici regolari della cattedrale di Osma nel 1199. Nel 1206 fu inviato in Linguadoca per predicare contro l’eresia dei catari di Albi e, durante questa esperienza, comprese come l’arma migliore contro gli eretici fosse una condotta di vita esemplare e una solida preparazione teologica, con le quali sfidare anche in dibattiti pubblici i fautori dell’eterodossia. A partire da questa concezione, Domenico volle costituire un nucleo di religiosi che, a imitazione degli apostoli, dedicasse la propria vita e la propria missione alla predicazione. Nel 1216 ottenne da papa Onorio III l’approvazione dell’ordine dei Predicatori. Particolare della predella di una pala d’altare dipinta dal Beato Angelico, raffigurante san Domenico che consegna agli Albigesi un’opera nella quale vengono confutate le loro eresie e, nel riquadro successivo, gli eretici che tentano, senza successo, di distruggere il volume, bruciandolo. 1430-32. Parigi, Museo del Louvre.

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Dossier alla costruzione di un ordo giuridicamente e dottrinalmente inattaccabile e a esclusivo appannaggio del clero, la domanda popolare si poneva, invece, l’obiettivo di un rinnovamento dei costumi morali dei religiosi e di un maggior coinvolgimento dei fedeli nella vita e nei destini della Chiesa universale. La dignità dei sacerdoti e la perfetta conduzione di una vita ispirata al Vangelo divennero obiettivi irrinunciabili per moltissimi fedeli, poiché in quel tempo il clero era considerato un tramite ineliminabile nel rapporto Lago Maggiore Seprio

Chieri Asti

Come gli apostoli

Roda no

Baleari BBa aleeari

Lago di Como

Bergamo Lago di Garda Treviso Concorezzo Desenzano Vicenza Brescia Milano Lodi Verona Sirmione Pavia Cremona Mantova Bagnolo Po Piacenza Alessandria Ferrara Parma Acqui Bologna

MAR ADRIATICO

Vescovadi Diaconie Luoghi di rifugio dei catari della Linguadoca dopo il 1244

Pisa

Prato

Rimini Firenze

Arno

Siena

Altre località importanti in cui sono segnalate eresie

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Cuneo

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Nel solco della Riforma gregoriana nacque e si diffuse un po’ dappertutto in Europa un nuovo modo di pensare la Chiesa e il suo ruolo: l’essenza del cristianesimo non si sarebbe compiuta nella Chiesa quale istituto di salvezza, o nella sua dottrina, bensí in una forma di vita religiosa stringente e impegnativa per ogni cristiano che avesse voluto dirsi tale. Per questo diffuso spirito di riforma la prima necessità era quella di attenersi fedelmente agli insegnamenti del Vangelo, lasciando i beni terreni per seguire l’esempio del Cristo, operando per il Nuovo Testamento cosí come avevano fatto gli apostoli. La Chiesa sarebbe stata in grado di uniformarsi a questo modello? Il suo ordinamento salvifico e il suo edificio dottrinale avrebbero dovuto, prima di tutto, provare la loro validità proprio alla luce di quelle norme evangeliche di vita cristiana: i modelli della povertà e della vita apostolica divennero per un numero di fedeli sempre crescente il punto focale di una nuova concezione del cristianesimo. Se la riforma della Chiesa, voluta dalle sue stesse gerarchie, mirava

Direzione D del movimen de nto movimento cataro

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esperienze di rinnovamento spirituale ebbero a grandi linee caratteristiche comuni e si inserirono fra la definitiva riuscita della riforma della Chiesa, che stava per culminare nell’affermazione della ierocrazia papale, e l’apocalittica fine dell’avventura dolciniana (vedi box a p. 86), che segnò una rottura con le esperienze successive e con i metodi usati dalla gerarchia ecclesiastica. La storiografia classica inserisce la nascita dei movimenti ereticali nell’alveo della riforma della Chiesa dell’XI secolo, quando le aspirazioni al risanamento dei costumi del clero e a una maggiore adesione al modello evangelico liberarono una serie di energie positive, richiamando all’azione le masse popolari in veste di protagoniste (ne è un valido esempio l’esperienza della Pataria milanese, nella quale fu parte grandemente attiva il popolo di Milano).

Orvieto

Val di Spoleto

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Viterbo

In alto, sulle due pagine cartine nelle quali sono riportate le sedi principali del catarismo, le direttrici della sua diffusione dall’Oriente all’Occidente e la presenza dell’eresia nell’Italia centro-settentrionale. Albi, in Linguadoca, fu probabilmente la prima sede episcopale catara. Il vescovo bulgaro Niceta fondò, intorno al 1165, le diocesi di Tolosa, Agen e Carcassonne, mentre Razès si aggiunse nel 1225. In Italia i primi episcopati erano quelli della Toscana, della Lombardia e della Marca di Treviso. Nei Balcani e nell’impero bizantino i vescovadi erano perlopiú legati alla personalità dei vescovi, in genere itineranti. Quelle di Drugonthia e di Bulgaria erano considerate le Chiese madri di tutte le altre.

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In basso, sulle due pagine Carcassonne. Un tratto della cinta muraria e il castello, che, nonostante i restauri ottocenteschi dell’architetto Eugène Viollet-le-Duc, è uno degli esempi migliori di architettura militare in Francia. La città transalpina fu elevata a diocesi dal vescovo Niceta e fu una delle roccaforti catare.

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con Dio e, quindi, come strumento di salvezza: un sacerdote corrotto moralmente e impreparato dal punto di vista dottrinale avrebbe potuto inficiare l’efficacia dei sacramenti impartiti e dunque rendere vana l’aspirazione alla salvezza dei fedeli.

Accuse di corruzione

Miniatura raffigurante l’espulsione degli Albigesi da Carcassonne, all’indomani della presa della città da parte di Simone di Montfort, nel 1209, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1415 circa. Londra, British Library.

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Cosí, nel corso del XII secolo, cominciarono a comparire in Europa i primi predicatori che diffondevano la convinzione della necessità di abbandonare i beni terreni, sull’esempio di una Chiesa primitiva tradita dal clero contemporaneo, e di riprendere in prima persona il Vangelo come fonte di ispirazione e di esempio personale (vedi box a p. 78). Focolai piú o meno piccoli di critica alla Chiesa romana si diffusero un po’ ovunque e a Roma cominciarono ad arrivare segnali inquietanti di una contestazione che andava allargandosi a macchia d’olio, incontrando il favore di molte comunità, cittadine e rurali. Con una grande novità: molti di coloro che chiedevano di farsi esempio vivente di vita evangelica erano laici. Che cosa comportava tutto ciò? Essenzialmente la messa in discussione del monopolio clericale sulla salvezza delle anime: una dequalificazione del ruolo sacerdotale davvero epocale. L’aspirazione a una Chiesa povera traeva il suo fondamento da un passo degli Atti degli Apostoli nel quale la prima comunità cristiana di Gerusalemme veniva descritta come tale. Il modello principale era, ovviamente, l’immagine del Cristo umile e diseredato. Tuttavia, per la Chiesa romana, la povertà della prima comunità di Gerusalemme divenne un modello stringente solo per chi avesse scelto la via del monastero, e non indicativo per tutti i fedeli. L’aiuto agli indigenti rimase certamente una delle peculiarità della religione cristiana, ma l’aspirazione alla povertà venne relegata nell’ambito di una particolare scelta di fede: ecco allora che l’imitatio Christi fu riservata unicamente ai religiosi che abbracciavano la vita monastica e preclusa ai semplici

laici, ma ancor di piú alle gerarchie ecclesiastiche. Per tutto il Medioevo, e sino all’XI secolo, i grandi ordini monastici furono dunque gli interpreti piú veritieri dell’esempio primitivo, con la scelta di professare la povertà volontaria dei propri monaci, ma senza che ciò divenisse un obbligo per l’ordine stesso, inteso come istituzione religiosa. In passato gli storici hanno legato la rinascita di questa esigenza religiosa alle profonde trasformazioni politiche e sociali avvenute a partire dall’XI secolo e, quindi, a una maggiore consapevolezza e voglia di partecipazione da parte di ampi settori popolari della società cristiana. Se questo approccio pare innegabile, tuttavia altri storici hanno posto maggiormente l’accento su una rinascita dell’evangelismo, un ritorno ai testi della rivelazione cristiana che spinse le masse a rivendicare una Chiesa diversa. Dalla lettura e dalla diffusione sempre maggiore di testi del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa riemerse sempre piú netta non solo l’esigenza di tornare al modello della Chiesa primitiva, povera e largamente partecipata dai fedeli, ma anche il dovere della predicazione missionaria. Da qui alla predicazione itinerante il passo fu breve.

Evangelismo e povertà

L’aspirazione popolare era quella di avere, quanto meno, un clero capace di soddisfare l’immagine della comunità primitiva, cosí ben descritta negli Atti degli Apostoli, e su quell’ambizione faceva leva l’insegnamento di eremiti, monaci, predicatori itineranti. Le folle furono mosse da visioni ideali della Chiesa delle origini e della santità apostolica, che si mescolarono anche a interessi e speranze terrene. L’aspetto pauperistico prese velocemente piede nelle parole dei predicatori itineranti, che cominciarono a richiamarsi addirittura all’esempio totalizzante del Cristo, misero, abbandonato e deriso: qui si sentiva forte lo scarto fra gli ordi-

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Dossier ni monastici, i cui membri vivevano in povertà, ma i cui conventi potevano detenere ricchezze enormi.

La minaccia catara

Il nome dei catari avrebbe fatto tremare le vene ai polsi anche al piú sprovveduto fra i fedeli della Chiesa romana, la quale, tra il XII e il XIII secolo, si impegnò in uno sforzo immane per contenerne la diffusione. Agli inizi del Trecento, tuttavia, Roma ne uscí vittoriosa, con la distruzione e la cancellazione dalla memoria collettiva delle tracce di quella che era stata la minaccia piú grande per l’ortodossia cattolica. Risale all’anno 1144 la prima testimonianza dell’esistenza di una formazione catara in Europa; ne narra il monaco premostratense Evervino di Steinfeld, in una lettera a Bernardo di Clairvaux: «Essi dico-

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no che la chiesa è soltanto di presso loro, al punto che essi seguono con coerenza le vestigia del Cristo e rimangono i veri imitatori della vita apostolica, perché non cercano le cose che sono del mondo, non possedendo casa, né campi, né proprietà alcuna: cosí come il Cristo non ebbe possessi, né ai suoi discepoli concesse di averne. (...) Di loro stessi dicono: “Noi, poveri del Cristo, senza una sede stabile, fuggendo di città in città, come agnelli in mezzo

ai lupi, siamo perseguitati come lo furono gli apostoli e i martiri, conducendo una vita santa e durissima nel digiuno e nell’astinenza, perseverando giorno e notte in preghiera e lavori (...). Noi sopportiamo ciò poiché non siamo del mondo: voi invece che amate il mondo, avete pace con il mondo, perché siete del mondo”» (vedi box a p. 81). Se ne trae l’immagine di un gruppo non solo organizzato, ma in netta contrapposizione con

Il potere dei predicatori

Folle in delirio e pronte al pianto Secondo la medievista Maria Giuseppina Muzzarelli, i predicatori medievali erano comunicatori di massa ante litteram. Oltre a essere considerato un genere letterario di primaria importanza nella nascita e nello sviluppo della lingua volgare, la predicazione è uno dei fenomeni religiosi e al tempo stesso sociali piú rilevanti del secondo Medioevo. Nel tardo Medioevo la fama di alcuni religiosi che andavano predicando di città in città era tale da richiamare folle immense, alle quali impartivano insegnamenti dottrinali e norme di comportamento. La tecnica oratoria e le immagini che sapevano evocare potevano portare alle lacrime e alla disperazione l’intero uditorio e non di rado potevano causare anche tumulti. L’usurpazione di questo ufficio da parte dei laici fu uno dei principali capi d’accusa nei confronti dei predicatori eterodossi, che intrattenevano i propri uditori con la loro personale interpretazione delle Sacre Scritture.

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In alto miniatura raffigurante la morte di Simone di Montfort durante la battaglia di Tolosa, nel 1218, da un’edizione dell’Histoire de la croisade contre les albigeois. XIII sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una predica, da una edizione manoscritta del Decretum Gratiani. XIV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati.

l’istituzione ecclesiastica cattolicoromana, che si richiamava esplicitamente a una tradizione religiosa cristiana – si autodefinivano «buoni cristiani» –, ma diversa da quella cattolica ufficiale, sopravvissuta attraverso contatti e scambi con l’area balcanica e greca, da cui aveva ereditato un dualismo moderato. Tra gli anni Quaranta e Sessanta del XII

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secolo, infatti, diverse autonome manifestazioni ereticali avevano cominciato a convergere verso modelli estremamente spiritualizzati, connotati da una moralità rigorosamente ascetica, da cui trassero il nome di catari, vale a dire «puri».

Dualismi bizantini

Tali modelli sarebbero stati ereditati tramite contatti con religiosi bogomili (seguaci del movimento eretico cristiano diffusosi nei Balcani nel X secolo, che prende nome dal pope bulgaro Bogomil; vedi box a p. 81) espulsi da Bisanzio nel 1143 dall’imperatore Manuele Comneno. Notizia certa di un contatto si ha negli anni Sessanta del XII secolo, quando a San Felix de Caraman, nei pressi di Tolosa, si riuní un concilio di reli-

giosi catari, a cui partecipò il vescovo dualista Niceta di Bisanzio. Durante i lavori, i rappresentanti delle Chiese del Nord e del Sud della Francia si confrontarono alla presenza di delegati italiani, e si diedero una fisionomia strutturale piú certa: Niceta impose il consolamentum, cioè il battesimo spirituale attraverso l’imposizione delle mani, a sette vescovi e, da quel momento, il catarismo poté presentarsi come alternativa istituzionalizzata alla Chiesa cattolica. Mentre nel Nord Italia l’unitarietà degli intenti durò poco e diede vita a ben sei chiese distinte e indipendenti fra loro – fra cui le piú importanti a Concorezzo, a poca distanza da Milano, e a Desenzano sul Garda – nel Sud della Francia le quattro diocesi fondate

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Il castello di Puilaurens (Francia). All’epoca della crociata albigese, la fortezza apparteneva alla casata dei Saissac, sostenitori dei catari, e costituí il rifugio di numerosi «boni homines». All’indomani della repressione del movimento, divenne uno degli avamposti fortificati del regno di Francia nei Pirenei. Nella pagina accanto la pietra tombale del pope bulgaro Bogomil, fondatore di un movimento eretico diffusosi nei Balcani nel X sec. XIV-XV sec., Spalato, Museo Archeologico. giugno

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da Niceta cercarono un coordinamento sempre piú stretto grazie anche al sostegno politico dei conti di Tolosa.

La crociata albigese

La grande diffusione dell’eresia catara in gran parte dell’Europa si inserisce nel piú ampio contesto del fervore religioso e spirituale dell’epoca, ma si caratterizza anche per la solidarietà estesa che, soprattutto in Linguadoca, il movimento cataro seppe raccogliere in vasti strati della popolazione. A nulla erano valse le missioni dei legati pontifici per restringere gli spazi politici intorno ai buoni cristiani, né tanto meno i numerosi dibattiti teologici condotti sulla pubblica piazza per sconfessare gli eresiarchi; la soluzione individuata da papa Innocenzo III fu quella della vera e propria crociata contro gli Albigesi, cosí chiamati dal nome della città di Albi, nella Francia meridionale. Nel 1208 il pontefice dichiarò aperta la missione, a cui parteciparono soprattutto signori e cavalieri del Nord, desiderosi di mettere presto mano alle ricchezze dei «colleghi» meridionali. Si ebbero violenze e stragi, e l’elemento religioso lasciò sin troppo spesso spazio a quello politico: la crociata fu innanzitutto una guerra di conquista dei baroni dell’Île-de-France, guidati da Simone di Montfort, per estendere il potere del re di Francia su un’area che sfuggiva al suo controllo. La crociata ebbe fine nel 1229 e fu seguita da una repressione inquisitoriale feroce, affidata all’ordine domenicano, che proprio allora faceva il proprio esordio in seno alla Chiesa romana (vedi box a p. 73). Nel 1244, alla caduta di Montsegur, ultimo baluardo della difesa militare catara, il movimento ereticale francese era quasi completamente estirpato, battuto sul terreno dell’isolamento politico e sociale, piú che sconfitto dal punto di vista religioso.

bogomilismo e dualismo

Noi siamo i «veri» cristiani I catari si definivano pauperes Christi, boni homines, boni christiani, per sottolineare l’appartenenza alla cristianità, ma in alternativa ai cristiani «finti» e «cattivi» della Chiesa romana. Il termine, di origine greca, significa «puro» e sottolinea il rifiuto della materialità del mondo come elemento antitetico e negativo rispetto alla spiritualità. Fin dalle origini, credettero quindi in un dualismo moderato, forse ispirato da alcuni passi del Nuovo Testamento che alludono a Dio in antitesi a Mammona, oppure a Dio in contrasto con il principe di questo mondo, quindi a un principio benefico contrapposto a uno malefico. Sulle loro tendenze dualiste se ne innestarono, nel corso del XII secolo, altre, piú rigoriste, importate dall’area balcanica e dall’Oriente bizantino, note come bogomilismo, dal nome del pope bulgaro dualista Bogomil (Teofilo, in lingua latina). Elementi caratteristici della dottrina e prassi catare furono il rifiuto dei sacramenti, dell’idea di inferno e dell’incarnazione, dell’Antico Testamento, della proprietà privata. La chiesa era retta da un vescovo, mentre i fedeli si dividevano in credenti «perfetti» e «semplici»; solamente i primi praticavano rigorosamente la morale che imponeva l’astensione dal matrimonio, dai rapporti sessuali, dal mangiare carne, latte, uova. I perfetti ricevevano il consolamentum dal vescovo, un battesimo che avveniva tramite l’imposizione delle mani. Solo alcuni fra di loro conducevano una vita ascetica talmente dura da causare talvolta l’endura, ossia la morte per fame.

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Dossier i grandi eretici

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ropugnatori dei movimenti eretici furono personaggi che avevano alle spalle storie personali spesso assai diverse tra loro. Accomunati, però, dal promuovere un ascetismo esasperato e dal rifiuto dei sacerdoti indegni e della gerarchia ecclesiastica. Qui di seguito proponiamo dunque il breve profilo di alcuni dei piú famosi tra loro.

pietro di bruis La predicazione ereticale di Pietro di Bruis fu una delle prime di cui si ebbe notizia nel corso del XII secolo. La sua figura destò grande preoccupazione in Pietro il Venerabile, abate del potente monastero di Cluny negli anni Trenta del XII secolo, il quale scrisse un trattatello contro gli eretici a uso e consumo del clero della diocesi di Arles, il Contra Petrobrusianos hereticos. Pietro di Bruis era originario delle HautesAlpes ed era stato chierico in cura d’anime, quindi un religioso a tutti gli effetti, ma di tutta la sua vicenda sappiamo solo ciò che il Venerabile abate ci ha tramandato: rifiuto del valore salvifico del battesimo, superfluità degli edifici sacri, rifiuto della croce, inefficacia dell’eucarestia, inutilità delle pratiche per i defunti. Se analizzati con maggiore attenzione, i cinque schematici punti della dottrina petrobrusiana rivelano un livello di critica e di rielaborazione assai profondo. Innanzitutto, il rifiuto del battesimo come atto intrinsecamente salvifico porta alla concezione della fede come consapevole scelta personale, questa sí azione salvifica; secondariamente il rifiuto delle chiese come luoghi deputati al culto apre alla presenza di Dio in ogni luogo; la croce viene rifiutata perché strumento di tortura del Cristo, quindi è impossibile adorarne l’immagine; l’eucarestia non ha valore, poiché i sacerdoti non hanno il potere di rinnovare il sacrificio del corpo e del sangue di Cristo celebrato una volta per tutte nella Santa Cena; coerentemente con le responsabilità personali, nessun rito per i defunti può cancellare il bene e il male e le scelte compiute in vita. Per vent’anni Pietro di Bruis predicò in giro per le montagne e le città del Mezzogiorno di Francia, riscuotendo anche notevole successo, sia tra le popolazioni urbane che presso i contadini. Secondo Pietro il Venerabile, l’eretico trovò la morte fra le fiamme in una data compresa fra il 1132 e il 1139, nei pressi di Saint-Gilles sul delta del Rodano.

arnaldo da brescia Alla metà del XII secolo uno dei protagonisti del fenomeno ereticale fu Arnaldo da Brescia, vero e proprio spauracchio delle gerarchie ecclesiastiche, anche dopo la sua morte. Fu canonico regolare a Brescia negli anni Trenta del XII secolo, dove, forse, sobillò il popolo contro l’arcivescovo Manfredo; si pose a fianco di Abelardo nel concilio di Sens del 1140; fu poi magister di divinae litterae nella canonica parigina di Sant’Ilario. Arnaldo ebbe una gioventú sfuggente e movimentata, finché papa Eugenio III gli permise di entrare a Roma come penitente. Era il 1145 e Arnaldo entrò in contatto con gruppi di cives romani che miravano a riformare la politica cittadina: la predicazione patarinico-evangelica del bresciano riemerse cosí in un ambiente particolarmente fertile. L’esperienza del Comune romano e la partecipazione di Arnaldo alla vicenda si interruppero, però, nel 1155, quando Adriano IV lanciò l’interdetto sulla città, chiedendo e ottenendo l’espulsione del canonico bresciano. Arrestato dai soldati di Federico I, fu consegnato al pontefice, che lo fece impiccare e ne mandò al rogo il cadavere. Le sue ceneri vennero disperse nel Tevere.

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i poveri di lione Poveri di Lione era il nome del nucleo originale di fedeli unitisi intorno a Valdo di Lione, un ricco commerciante che, negli anni Settanta del XII secolo, lasciò ogni bene per dedicarsi in povertà alla predicazione del Vangelo. Gli esordi di questo gruppo e quella che di lí a pochi anni fu l’esperienza francescana, presentano piú d’una analogia, ma ebbero esiti ben diversi. Due sono gli elementi iniziali del movimento valdese: la critica senza sconti al clero corrotto e la volontà di praticare in prima persona la povertà; una sola la certezza dei seguaci di Valdo: il Nuovo Testamento come unica guida. Fin dall’inizio i valdesi (che poco o nulla hanno a che fare con i valdesi contemporanei) incontrarono l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche locali. La predicazione valdese ottenne inizialmente un successo strepitoso nella Francia meridionale e da qui ebbe ampia eco in Italia settentrionale, da dove si diffuse in Europa. Sebbene avessero tentato di farsi riconoscere dalla Chiesa romana in occasione del III Concilio Lateranense del 1179, nel 1184 vennero scomunicati da Lucio III. Dopo la morte di Valdo, avvenuta probabilmente fra il 1205 e il 1207, Innocenzo III riuscí a guadagnare all’obbedienza romana alcuni gruppi valdesi, noti come «poveri cattolici» e «poveri riconciliati», i quali, in pochi decenni, vennero assorbiti da altri ordini religiosi.

A destra miniatura raffigurante un sabba, rito satanista la cui pratica fu attribuita anche ai valdesi, dal Traité Du Crime De Vauderie di Jean Tinctor. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale. Nella pagina accanto, in basso il monumento di Odoardo Tabacchi ad Arnaldo da Brescia, inaugurato nella città lombarda nel 1882.

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il monaco enrico Il testimone di Pietro di Bruis fu raccolto dal suo presunto discepolo, il monaco Enrico, personaggio dal profilo biografico incerto, ma capace di suscitare l’interesse e l’acrimonia di Bernardo di Clairvaux. In una lettera del 1145 indirizzata al conte di Saint Gilles, il cistercense definí Enrico homo apostata, perché aveva lasciato l’abito monastico per farsi povero predicatore e vivere mendicando. Anche nel caso enriciano, l’elemento centrale della predicazione ereticale consisteva nella piena responsabilizzazione di ogni cristiano nel suo rapporto con Dio. Convinzione che valeva, a maggior ragione, per i sacerdoti, la cui indegnità si ripercuoteva sulla validità sacramentale. L’esperienza di Enrico assunse cosí una doppia valenza, in quanto si fondava su un passato prossimo patarinico-riformatore, ma guardava già al diritto/dovere di ogni cristiano di farsi testimone del Vangelo.

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In basso e nella pagina accanto scene di vita quotidiana, dall’Historia Ordinis Humiliatorum. XV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

gherardo segarellI «Nuovi apostoli» è il nome di una setta che, per un quarantennio, seminò il terrore fra le gerarchie ecclesiastiche dell’Emilia prima e di tutta l’Italia settentrionale poi. Fondatore e capo indiscusso ne fu Gherardo Segarelli, immigrato a Parma dal contado intorno alla metà del XIII secolo per farsi apostolo del Cristo. Nata come esperienza religiosa ortodossa, quella che fu poi definita come una setta ereticale proponeva un modello di vita pauperistica ed evangelica, che metteva i suoi adepti in diretta competizione con gli Ordini Mendicanti allora in espansione. Inizialmente gli apostolici e Segarelli avevano ottenuto la simpatia del vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, e incontravano il

gli umiliati Vicenda parallela a quella dei Poveri di Lione (vedi a p. 83) fu quella degli umiliati, seppur con esiti diversi. Essi furono un movimento religioso a sfondo pauperistico ed evangelico sorto nelle principali città lombarde, nella seconda metà del XII secolo. I primi umiliati erano laici, spesso sposati, vestivano poveramente e vivevano della lavorazione dei panni di lana. Si riunivano in comunità per pregare e si dedicavano

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alla predicazione pubblica. Sebbene fossero stati inizialmente accolti in seno alla Chiesa, vennero frettolosamente scomunicati nel 1184 da Lucio III, per non aver voluto rinunciare alla predicazione. Il merito del loro ritorno alla Chiesa fu di Innocenzo III, che, nel 1201, acconsentí alla loro attività e li suddivise in tre ordini: il primo formato da religiosi, il secondo da laici che vivevano in comunità professando la castità, il terzo da laici sposati, che vivevano seguendo un

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armanno pungilupO

In alto la facciata della cattedrale intitolata a san Giorgio, a Ferrara, città natale di Armanno Pungilupo. Il predicatore fu sepolto all’interno della chiesa nel 1269, immediatamente dopo la morte, ma, nel 1301, i suoi resti vennero esumati, cremati e dispersi. Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante la vestizione di un monaco.

XIV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati.

sostegno convinto e materiale dei cittadini parmensi. Per andare incontro alle crescenti necessità organizzative avevano addirittura chiesto consiglio a un notaio della curia romana, il magister Alberto. Se l’avversione dei Mendicanti dovette manifestarsi già alle origini del movimento degli apostolici – il frate francescano parmense Salimbene de Adam, loro contemporaneo, li descrisse come porcari ignoranti, usurpatori della missione dei veri Mendicanti – il passaggio da movimento ortodosso a setta ereticale si registrò grazie alla promulgazione del canone Religionum diversitatem nimiam del concilio di Lione del 1274: ogni ordine religioso di stampo mendicante sorto dopo il 1215 avrebbe dovuto arrestare la propria evoluzione ed entrare nei ranghi degli ordini già approvati dalla sede apostolica. Nel 1286 la bolla Olim felicis recordationis di Onorio IV impose alle autorità ecclesiastiche di perseguire la setta degli apostolici, ai quali era data la possibilità di lasciarne l’abito per entrare in un ordine riconosciuto. Finiti nel mirino dell’Inquisizione, gli apostolici vennero dispersi e molti furono mandati al rogo, fra cui, nel 1300, il fondatore Gherardo Segarelli. Chi riuscí a fuggire si ritrovò unito sotto le insegne di fra Dolcino sulle montagne della Valsesia nei primi anni del XIV secolo.

Propositum, cioè una regola di vita. Dopo una rapida diffusione in Italia, nel XIII secolo subirono un rapido processo di clericalizzazione e vennero impiegati nella battaglia antiereticale, poiché la loro affinità con gli eretici, ma da un versante ortodosso, offriva ai fedeli un’alternativa alla proposta ereticale: essi, infatti, professavano il voto di povertà, si mantenevano esclusivamente grazie al loro lavoro e predicavano il Vangelo.

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Si può essere santi ed eretici al tempo stesso? È il caso di Armanno Pungilupo, un predicatore che, all’indomani della morte, divenne oggetto di culto da parte dei fedeli della sua città, Ferrara, e dei canonici della cattedrale. Armanno morí nel 1269 e sulla sua tomba, approntata in tutta fretta nella cattedrale, cominciò a radunarsi una folla enorme di fedeli, attratta dai molti miracoli che lí si diceva fiorissero quotidianamente. La grande fama del Pungilupo sucitò l’attenzione dell’inquisitore frate Aldobrandino, il quale scoprí, con somma sorpresa, un passato a dir poco discutibile del ferrarese: nel 1254 Pungilupo aveva abiurato ogni eresia di fronte al tribunale della fede, ma risultava che, anche dopo tale atto, avesse avuto rapporti con eretici dualisti e pronunciato prediche eterodosse. Per conto loro, nel 1272, i canonici sostenitori del culto di Armanno risposero che il presunto santo, o eretico, a seconda di chi lo giudicava, era stato in passato piú volte accolto in penitenza e ammesso alla confessione. Di certo non aiutava il fatto che, secondo quanto detto dagli inquisitori, gli eretici della zona visitassero la sepoltura di Armanno ridendo di come uno di loro fosse divenuto santo. I contenuti dell’attività ereticale del Pungilupo sono noti solamente attraverso la ricostruzione dell’inchiesta inquisitoriale; azioni, piú che parole, sono al centro del suo universo religioso: l’accompagnamento al rogo di un eretico, i numerosi incontri con eretici dualisti, con i quali condivise pratiche penitenziali. Qualche storico l’ha definita una religiosità del «fare», delle opere buone. Nonostante l’opposizione dei canonici, che avevano continuato a promuoverne il culto, i resti di Armanno Pungilupo vennero esumati, cremati e dispersi nel 1301.

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Dossier fra dolcino La fine cruenta della ribellione guidata da Dolcino Tornielli, piú noto come fra Dolcino, sui monti dell’alta Valsesia (oggi in provincia di Vercelli), ha garantito alla sua vicenda una fortuna storica notevole. Assunta la guida degli apostolici alla morte di Gherardo Segarelli, Dolcino vi impose un orientamento radicale, proclamandosi apostolo e profeta, accentuando il rifiuto della Chiesa e promuovendo la comunanza dei beni e ricevendo l’entusiastica adesione di masse di fedeli che aspiravano ancora al rinnovamento spirituale della Chiesa. Nulla si sa delle sue vicende personali prima del 1300, data della prima lettera scritta ai propri fedeli. Dopo avere predicato a Bologna nel 1301 si ritirò in montagna dove raccolse molti seguaci. La sua predicazione era impregnata da una profezia millenaristica, derivata da Gioacchino da Fiore: la fine del mondo era prossima e la Chiesa sarebbe stata distrutta da Federico III d’Aragona, dopo di che sarebbe stata rifondata e ricondotta alle originali purezza e povertà evangeliche. Gli apostolici scelsero di salire sulle montagne in attesa che i tempi si compissero, ma, nel 1306, papa Clemente V indisse una vera e propria crociata contro di loro, da cui derivò una resistenza armata che si protrasse per circa un anno. L’isolamento in montagna, dunque, fu una conseguenza dell’attesa del compimento dei tempi piú che un atto di ribellione vero e proprio: la testimonianza del disagio profondo di larghi strati del popolo cristiano di fronte a una Chiesa fortemente mondanizzata. Gli scontri armati ebbero fine con la cattura di fra Dolcino e dei suoi seguaci; l’eretico finí sul rogo insieme alla moglie Margherita da Trento, il 2 giugno 1307. Agli inizi del XIV secolo, con l’esperienza di Dolcino e degli apostolici, si esaurí il composito movimento di riforma e innovazione della vita cristiana.

Gioacchino da Fiore

Le tre età del mondo Gioacchino da Fiore è il mistico che piú di ogni altro ha influenzato e sconvolto la teologia medievale, proponendo una visione escatologica della storia umana molto complessa. Nacque a Celico (oggi in provincia di Cosenza), nel 1130, e morí a San Giovanni in Fiore nel 1202. Uní in un’unica profonda visione la teologia trinitaria e la sua concezione della storia, sostenendo che a ciascuna delle tre persone divine corrispondesse una delle tre epoche in cui la storia si divide: l’età del Padre era compresa fra la creazione e la venuta del Cristo, mentre l’età del Figlio, che si stava per concludere mentre Gioacchino scriveva, avrebbe lasciato posto all’età dello Spirito Santo, durante la quale si sarebbe compiuta la sua visione escatologica. In ogni età l’azione della Trinità si sarebbe manifestata in modo differente nella Scrittura: al Padre competeva l’Antico Testamento, al Figlio il Nuovo e allo Spirito Santo la

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concordia fra i due libri, che avrebbe dovuto svelare il vero significato delle Sacre Scritture, offuscato dalla littera del testo. Gioacchino stravolgeva cosí la visione della storia trasmessa da Agostino alla teologia medievale: non piú una visione cristocentrica basata su un seconda venuta del Cristo, che avrebbe posto una fine alle vicende terrene, bensí un percorso che sarebbe culminato in un’età di libertà e di concordia sulla terra, alla cui base si sarebbero trovati l’ideale di vita monastico e il rinnovamento del ruolo della gerarchia ecclesiastica. Le sue opere e le sue idee diedero vita a un vasto movimento culturale e religioso e ispirarono sia la religiosità ortodossa, sia alcuni movimenti ereticali, fra i quali i seguaci di fra Dolcino. La Trinità, particolare di un trittico dipinto da Nardo di Cione e bottega. 1365. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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costruire la repressione: nasce l’Inquisizione

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ome reagí la Chiesa di Roma di fronte all’ondata di protesta, animata da una rete sempre piú vasta di predicatori? La risposta cattolica fu inizialmente affidata alla repressione dei vescovi locali, ma presto dalla città di Pietro si manifestò l’intenzione di assumere in modo centralizzato la gestione del problema, la qual cosa permise ai pontefici di affermare, passo dopo passo, la supremazia definitiva non solo sul corpo della Chiesa, ma sull’intera società medievale. Chi, dunque, era da considerarsi eretico e perché, verrebbe da domandarsi, se tutto ciò che si chiedeva era di seguire semplicemente e in povertà il Vangelo? Fu papa Gregorio VII a dare la prima

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risposta già alla metà dell’XI secolo: «Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae» («Che non sia da considerare cattolico colui il quale non è in comunione con la Chiesa romana», come si legge nella XXVI sentenza del Dictatus papae), un criterio teologico e allo stesso tempo giuridico per definire ciò che poteva essere considerato ortodosso e ciò che non lo era. La regola della fede venne riposta unicamente nella Chiesa di Roma e per questa via i vertici ecclesiastici decisero di richiamare le popolazioni europee al rispetto di normative universalmente valide. A giudicare tale azione con un metro contemporaneo la conseguenza piú palese e dannosa fu che la grande ricchezza spirituale e

L’agitatore della Linguadoca, olio su tela di Jean-Paul Laurens. 1887. Tolosa, Musèe des Augustins. Protagonista della scena è Bernard Délicieux, un francescano nato a Montpellier nel 1260, che si oppose strenuamente all’attività dell’Inquisizione durante la repressione dell’eresia catara e fu per questo dichiarato nemico e condannato al carcere a vita.

umana delle molte sensibilità che si mossero e si misero in gioco venne annullata. Inizialmente, infatti, la prima reazione della Chiesa romana fu quella della chiusura, del rifiuto totale di dare accoglienza alle richieste provenienti dai movimenti religiosi, bollati quindi come ereticali. Solo lentamente, ma con sempre maggiore decisione,

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Dossier da Roma cominciarono ad arrivare decretali ed encicliche che elencavano con minuzia i movimenti da condannare e le modalità per attuare una corretta repressione (vedi box in questa pagina).

Particolare di un ritratto di Gregorio VII. Olio su tela di Giuseppe Franchi. Primo quarto del XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

I primi inquisitori

Solo al passaggio fra XII e XIII secolo l’azione del papato nei confronti dei movimenti ereticali assunse una propensione diversa, principalmente a causa del preoccupante diffondersi del catarismo, ma soprattutto grazie a due fra le piú importanti esperienze religiose dell’intero Medioevo, quelle dei Poveri di Lione e degli Umiliati (vedi box alle pp. 83 e 84). Le nuove impostazioni adottate da Roma prevedevano una doppia linea d’azione: da una parte si fece ricorso alla tecnica della terra bruciata intorno ai protagonisti della contestazione religiosa; dall’altra si cominciò a di-

scernere fra i vari gruppi, tentando il recupero di quelli meno «eversivi». Tale percorso portò gradualmente le gerarchie ecclesiastiche a imporre l’ortodossia come metro di valutazione non solo per le eresie, ma per l’intera contemporaneità. Il disegno ierocratico, ossia la progressiva affermazione di Roma come vertice di tutta la cristianità, si accompagna alla definizione sempre piú precisa di un contesto repressivo. Dagli anni Trenta del XIII secolo sul territorio europeo cominciano ad agire i primi inquisitori delegati dalla sede apostolica, gli inquisitores haereticae pravitatis. L’Inquisizione come istituzione era ancora di là da venire, ma dalla sede pontificia partiva una nuova strategia per avversare l’eresia che andava ampiamente diffondendosi. Una strategia che, attraverso l’istituzione di una rete di agenti direttamente controllati da Roma, e a questa solo

gregorio vii

Un campione della Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, è il papa della riforma e della libertas Ecclesiae. Fu elevato al soglio pontificio a furor di popolo nel 1073, alla morte del predecessore Alessandro II. Nei confronti del clero adottò una politica di grande rigore morale e lottò a fondo contro il nicolaismo e la simonia (da lui interpretata in senso largo, ossia ritenendo simoniaca ogni accettazione di una carica ecclesiastica da mani laiche indipendentemente dal sussistere o meno della corruzione venale vera e propria). La libertas Ecclesiae, cosí come intesa da Gregorio VII, andava molto al di là della semplice richiesta di indipendenza dei chierici dalle ingerenze laiche: il suo obiettivo era affermare la supremazia della monarchia papale nei confronti degli altri vescovi e dei principi secolari. Funzionale a questa impostazione era anche l’opera di sistemazione del diritto canonico che da lui prese spunto e che trova l’apice nella redazione del Dictatus papae, ventisette sentenze

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teocrazia papale su svariati temi, quali l’autorità del papa sugli altri vescovi, il suo diritto a giudicare senza essere giudicato, il diritto di deporre gli imperatori e di sciogliere i sudditi dai giuramenti di obbedienza. L’azione di Gregorio VII mirava a rendere definitiva la dipendenza stretta del clero dal pontefice e ad affermare la fine del potere laico sulla Chiesa, ma, al tempo stesso, poneva le basi per lo scontro radicale fra papato e impero, noto come «lotta per le investiture». Nel 1077 il radicalizzarsi dello scontro fra Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV portò al famoso episodio di Canossa, durante il quale l’imperatore si umiliò per evitare la ribellione dei grandi signori tedeschi, resi liberi dall’obbedienza grazie alla scomunica gettata da Gregorio su Enrico. Pochi anni dopo lo scontro riprese e di fronte all’avanzata militare imperiale su Roma papa Gregorio si rifugiò a Salerno, ospite del normanno Roberto il Guiscardo. Nella città campana Gregorio morí il 25 maggio 1085. giugno

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referenti, presupponeva un deciso cambio di procedura. Gli inquisitori erano giudici ecclesiastici straordinari, la cui competenza si affiancava a quella dei vescovi, che comunque rimanevano giudici diocesani ordinari e che presiedevano l’ufficio inquisitoriale. Le loro competenze riguardavano esclusivamente la ricerca dell’eresia, ma con limiti territoriali ben piú ampi rispetto a quelli dei vescovi. In questo modo la strategia divenne piú aggressiva e proattiva rispetto a quella di questi ultimi: se prima l’azione del presule era motivata dalla notizia certa della presenza eterodossa sul territorio della diocesi, ora l’inquisitore promuoveva le indagini anche in assenza di delazioni da parte dei fedeli e, soprattutto, non era vincolato ai confini di alcuna diocesi.

Il braccio secolare

La questione della tortura e delle punizioni corporali inflitte agli eretici è paradigmatica, ma può essere considerata solo il primo passo: con il canone Sicut ai beatus Leo, approvato durante il Concilio Lateranense III del 1179, si stabilí che fossero i «principi cattolici» a impartire le pene corporali agli imputati di eresia. La Chiesa, attraverso i suoi inquisitori, avrebbe celebrato i processi, ma sarebbe stato il braccio secolare a eseguire la pena. Duchi, baroni, conti, divennero responsabili in prima persona del rispetto dell’ortodossia religiosa e se ne fecero garanti, prestando l’opera dei propri soldati nella repressione. Con la decretale Ad abolendam del 1184 (il termine decretale indica la promulgazione di una norma da parte del pontefice, n.d.r.), papa Lucio III compí un ulteriore passo avanti: i nobili che non si fossero resi protagonisti della repressione antiereticale sarebbero stati scomunicati e sulle loro terre sarebbe caduto l’interdetto. Il papato andava dunque affermando la propria supremazia politico-giurisdizionale e premeva affinché l’eresia fos-

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Innocenzo III

Due spade per il pontefice Al secolo Lotario dei Conti di Segni, Innocenzo III, fino al momento dell’elezione – avvenuta nel 1198 alla morte di Celestino III –, si tenne in disparte dai grandi affari politici, occupandosi prevalentemente di questioni giuridiche e teologiche. Una volta eletto papa si dedicò a riprendere il programma riformatore di Gregorio VII, riportando in auge la dottrina delle «due spade» di Bernardo di Clairvaux: potere spirituale e potere temporale spettano entrambi al papa, che detiene direttamente il primo e delega il secondo ai principi laici. L’azione politica di Innocenzo si svolse secondo direttrici che prevedevano la ristrutturazione del potere temporale della Chiesa e l’affermazione della sua indipendenza da ogni intromissione laica. Secondo tale ottica il papato era autorizzato a intervenire nelle questioni imperiali, cosí come fece nella contesa per il trono fra Ottone di Brunswick e Filippo di Svezia. Nel 1209, quando Ottone riuscí a farsi eleggere imperatore, venne meno alla promessa di non intromettersi nelle questioni ecclesiastiche e allora Innocenzo si schierò dalla parte del nuovo contendente, Federico II di Svevia. Fu fautore della crociata contro gli Albigesi del 1208 e favorí quelle in Europa del Nord per l’evangelizzazione dei territori baltici, cosí come promosse quella contro la Spagna islamica. Morí nel 1216.

Miniatura raffigurante un gruppo di eretici mandati al rogo per ordine dell’Inquisizione. Tolosa, Bibliothèque municipale.

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Dossier Domenicani e Francescani

Gli agenti del papa Il ruolo di Domenicani e Francescani nell’inquisizione dell’eresia è oggetto di un interessante dibattito, piú antico per i confratelli di san Domenico, piú recente per quelli del Poverello d’Assisi. In entrambi i casi, tuttavia, i recenti studi storiografici hanno quasi letteralmente ribaltato l’immagine dei due ordini rispetto al tema della repressione ereticale: da un lato sembrerebbe che la scelta di affidare ai Domenicani l’inquisizione non sia stata poi cosí totalizzante nei confronti dell’ordine intero; dall’altro, dopo secoli di immagini edulcorate dei Minori, si comincia a delineare un quadro meno innocente nei confronti della loro partecipazione alla repressione. Gregorio IX affidò in modo prevalente, ma non esclusivo, il compito di inquisitori ai Predicatori, individuati come agenti della sede apostolica in soccorso dell’autorità vescovile. Ma, in effetti, la scelta del pontefice ricadde in gran parte su singoli frati e meno sull’ordine in quanto tale. Il ruolo effettivo dello stesso Domenico, che nell’immaginario collettivo è ritenuto l’inquisitore per eccellenza, è stato decisamente rivisto dalle ultime opere storiografiche. I Predicatori erano impegnati nel Mezzogiorno di Francia, questo sí istituzionalmente, a combattere l’eresia attraverso la predicazione e per questo alcuni di loro vennero scelti personalmente dal pontefice per quello che potremmo definire un salto di qualità: l’attenzione del frate si doveva spostare dall’errore all’errante, dall’aspetto teologico a quello giudiziario. I Predicatori passarono cosí dall’officium sanctae praedicationis all’officium haereticae pravitatis. se equiparata a un crimine vero e proprio, ma lo faceva affermando al contempo un forte orientamento ierocratico, ossia costruendo la superiorità del potere religioso su quello temporale, e concentrando ancora di piú questo potere nella figura del papa. La Ad abolendam, tuttavia, è importante anche per un altro motivo, essendo la prima lista ufficiale di movimenti religiosi ritenuti eretici: catari, patarini, umiliati, poveri di Lione, passagini, iosefini, arnaldisti. Il passo successivo lo compí Innocenzo III con la decretale Vergentis in senium del 1199, con la quale l’eresia venne equiparata al crimen lesae maiestatis. Mentre la repressione antiereticale si affinava e al

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Diametralmente opposta, per certi versi, è la vicenda dei Minori, sulla cui partecipazione alla pratica dell’inquisizione piú di uno storico si era espresso in termini di «dolorosa sottomissione» alla volontà pontificia. In realtà, all’interno dell’ordine non vi fu praticamente mai alcun dibattito sulla partecipazione dei confratelli alla pratica inquisitoriale. Fu, probabilmente, una piana accettazione che non suscitò particolari riflessioni, nemmeno quando papa Innocenzo IV affidò loro ufficialmente l’Inquisizione nel 1254: forse, come sostengono alcuni storici, Grado Giovanni Merlo in primis, la compatibilità fra la missione religiosa dell’ordine e l’Inquisizione turba piú i moderni che i protagonisti duecenteschi.

tempo stesso si inaspriva, la decretale rappresentava un atto di piú precisa concezione teorico-giuridica del potere monarchico del papa: in quanto monarca, di fronte al carattere ormai generalizzato dell’eresia e in relazione al compenetrarsi di diritto canonico e diritto romano, vedeva definite le prerogative del suo potere tout court.

L’ereditarietà della colpa

Innocenzo III, in sostanza, agiva come un sovrano modello per l’intera cristianità: nei territori del Patrimonio di San Pietro spettava al suo potere di imporre le pene conseguenti all’equiparazione del delitto di eresia a quello di lesa maestà, mentre gli altri sovrani avreb-

bero dovuto fare altrettanto nelle loro terre. Chi si conformava al modello papale legittimava l’esercizio della propria autorità sovrana: in questo modo la repressione dell’eresia diventava uno degli elementi costitutivi del potere regale. Il corollario che ne discese fu che gli eretici veri e propri, ma anche i loro figli e tutti coloro che vi fossero entrati in contatto o li avessero favoriti dovevano essere isolati dal resto della società: la coercizione lasciava il passo a qualsiasi tentativo di persuasione. L’eresia appariva a un tempo delitto religioso-dottrinale e crimine di natura politica, ma, al tempo stesso, si apriva la possibilità di un rovesciamento, per cui il crimine giugno

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Pedro Berruguete, San Domenico Guzmán presiede un autodafé. 1493-99. Madrid, Museo del Prado. Derivato dal portoghese àuto da fé (in spagnolo auto de fe), cioè «atto di fede», il termine autodafé indica la cerimonia pubblica e solenne nel corso della quale, in Spagna, gli eretici venivano condotti in chiesa, dove, posti su un apposito palco, venivano ammoniti e interrogati dall’inquisitore. Nel quadro si vede san Domenico (1), su un tribunale mobile, insieme a sei giudici, che sovrintende al giudizio di alcuni Albigesi. Alcuni imputati sono già stati messi al rogo (2), mentre altri due, in primo piano, attendono il proprio turno (3): indossano il sanbenito, un mantello riservato a coloro che venivano condannati dall’Inquisizione, recante la scritta «eretico condannato». Nella pagina accanto Assisi, basilica superiore di S. Francesco. Affresco raffigurante san Francesco che libera Pietro di Alife, uno dei miracoli postumi del santo. Attribuito al Maestro di Santa Cecilia, uno degli allievi di Giotto, 1295-99 circa. Accusato di eresia, Pietro era stato arrestato a Roma e preso in custodia dal vescovo di Tivoli; nel carcere, grazie all’intervento del santo, l’uomo è liberato dai ceppi e al vescovo non resta che riconoscere il prodigio.

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Dossier politico – quale, per esempio, l’opposizione ghibellina al potere pontificio – sarebbe stato punito come eresia (vedi box a p. 89). Innocenzo III, però, riuscí a recuperare all’ortodossia diversi gruppi ereticali; il suo pontificato, infatti, si caratterizzò da un lato per l’inasprimento della lotta antiereticale, dall’altro, per la sua volontà di trovare una collocazione per i movimenti, all’interno dell’ordinamento ecclesiastico. La grande innovazione fu quella di istituzionalizzare le eterogenee esperienze che via via si manifestavano, secondo un disegno che tendeva a ricondurle nell’ambito delle già consolidate correnti monastiche e canonicali.

il processo inquisitoriale

Gli eretici alla sbarra L’innovazione piú significativa introdotta nella repressione ereticale dagli inquisitori medievali fu lo spostamento dell’attenzione dall’errore dottrinale al peccatore che si fosse macchiato di errore nella fede: quello che interessava l’inquisitore non è il cosa, ma il chi. Delegato dalla sede apostolica, l’inquisitore aveva un mandato straordinario, che gli permetteva di muovere una macchina giudiziaria di dimensioni notevoli. Prima di iniziare il proprio lavoro alla ricerca degli eretici, l’inquisitore promulgava due editti: uno di fede, che imponeva a tutti i cristiani l’obbligo di denunciare gli eretici noti, l’altro di grazia, attraverso il quale si accordava il perdono agli eretici che si fossero presentati spontaneamente. Gli accusati di eresia venivano, dunque, portati alla presenza dell’inquisitore che li interrogava; i rei confessi erano condannati a pene mortificanti, quali l’obbligo di portare un contrassegno infamante o il carcere a vita, mentre i recidivi venivano affidati al braccio secolare, per essere Incisione raffigurante la ruota, uno degli strumenti di tortura utilizzati dall’Inquisizione. L’esecuzione di simili pratiche era affidata a personale non religioso.

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arsi sul rogo. Per chi era riconosciuto eretico si profilava la confisca dei beni e addirittura la distruzione di ogni casa in cui avesse abitato; multe e sanzioni erano inoltre previste per chi non avesse denunciato di essere a conoscenza dell’esistenza di eretici. Accanto all’inquisitore operavano anche un consiglio formato da laici e da religiosi e il vescovo locale, al fine di garantire il corretto svolgimento del processo, sebbene gli accusati non potessero godere di una difesa d’ufficio, ma solo della propria testimonianza. La tortura, consentita da Innocenzo IV nel 1252, veniva praticata da personale non religioso, e, in genere, prevedeva metodi molto cruenti, quali tratti di corda, carboni ardenti, cavalletto. Terminati gli interrogatori, l’inquisitore chiedeva il parere del consiglio, quindi convocava un’adunanza pubblica in cui veniva letto il verdetto. Tale ultimo atto prendeva il nome di sermo generalis e chi vi assisteva poteva godere di quaranta giorni di indulgenza. È questo uno dei fondamentali momenti di rottura nella storia dell’eresia medievale: l’inserimento nel cattolicesimo ufficiale di alcuni movimenti pauperisticoevangelici, unitamente all’inasprirsi della repressione antiereticale, contribuí a distinguere nettamente l’ortodossia dall’eterodossia, poiché quei gruppi che contestavano la crescente potenza politico-giuridica del papato assunsero posizioni, dal punto di vista dottrinale, via via piú radicali. Senza questo passaggio, per esempio, la proposta francescana e la piú generale ondata mendicante del XII secolo non avrebbero mai trovato la giusta soglia di attenzione a Roma.

Le norme di Federico II

L’impegno della Chiesa finalizzato a disciplinare ogni forma di sperimentazione religiosa si svolse contestualmente all’affinamento degli strumenti di repressione antiereticale. Tra gli anni Trenta e Quaranta del XIII secolo, Federico II – per cercare l’accordo con la Chiesa romana, e su richiesta del papato – emanò una compiuta legislazione contro gli eretici, che accoglieva le norme previste in precedenti decretali pontificie. Piú o meno negli stessi anni, nel 1231-1232,

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Gregorio IX precisò le prerogative dell’ufficio inquisitoriale, istituendo ufficialmente l’Inquisizione, che, di lí a poco, venne affidata ai Domenicani prima e ai Francescani poi (vedi box a p. 90). Accanto alle sistemazioni giuridiche, tuttavia, si mise mano anche alla regolamentazione dei processi, necessaria per renderli equi, secondo il punto di vista degli inquisitori. Diversi furono i manuali prodotti, proprio a partire dall’età del pontificato di Gregorio IX: su tutti fu quello del domenicano Bernard Gui, la Practica officii inquisitionis del 1321, a ottenere la maggiore diffusione (vedi box in queste pagine). L’affermazione a tutto campo della potenza del papato, tuttavia, fece sí che fra i secoli XIII e XIV si riaccendesse la polemica contro la secolarizzazione della sede apostolica; questa volta, però, la polemica venne messa in campo dall’interno del fronte cattolico, vale a dire dagli zelatori della regola francescana, gli spirituali. Ciononostante, il papato si fece via via piú intollerante verso ogni forma di disobbedienza, politica o religiosa, facendo ricadere tutte le manifestazioni che minacciavano l’autorità papale entro la definizione di eresia. Nonostante la critica mossa dagli spirituali, molti dei quali fi-

nirono perseguitati e arsi sul rogo, il pericolo cataro e il dissenso pauperistico-evangelico vennero isolati e messi all’angolo; in questo modo la cristianità esauriva una lunga fase storica apertasi nell’XI secolo. La ricerca di autenticità cristiana aveva dato vita a lotte religiose e morali drammatiche, che si erano inserite o sovrapposte a tensioni di natura diversa, politica, sociale ed economica.

Obbligati all’obbedienza

Da quel momento esperienze e sperimentazioni religiose sarebbero state accettate solamente quando avessero fatta salva l’obbedienza romana, e a condizione che si coordinassero con l’ordinamento ecclesiastico culminante nel papato. Gli Ordini mendicanti, Predicatori e Minori in particolare, furono un elemento di importanza primaria in questo senso: grazie alle confraternite devozionali legate ai Mendicanti, tanta parte della vita religiosa dei laici venne sottratta alle influenze «negative» e incanalata in un ambito ortodosso. La funzione dell’Inquisizione medievale non si esaurí di colpo, rimanendo giudice ultimo a garanzia del rispetto dell’ortodossia romana. Di lí a poco nuovi nemici divennero oggetto delle attenzioni degli inquisitores haereticae pravitatis: musulmani, Ebrei e soprattutto quelle donne che la Chiesa definiva «streghe». V

Da leggere U Herbert Grundmann, Movimenti

religiosi nel medioevo, Il Mulino, Bologna 1974 U Ovidio Capitani, Medioevo ereticale, Il Mulino, Bologna 1977 U Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 1989 U Grado Giovanni Merlo, Contro gli eretici, Il Mulino, Bologna 1996 U Grado Giovanni Merlo, Inquisitori e Inquisizione del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2008

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Piazza, bella piazza... di Maria Paola Zanoboni

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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ebbene profondamente rimaneggiato e rifatto in epoche diverse, il complesso di edifici di piazza Mercanti è uno dei rarissimi e piú antichi esempi di architettura medievale di Milano, e, forse, l’unico angolo rimasto che conservi ancora vestigia risalenti al XIII-XIV secolo. L’edificio piú antico, databile agli inizi del XIII secolo, è il Broletto Nuovo, o palazzo della Ragione, che campeggia al centro della piazza, confinante, sul lato verso il Cordusio, con casa dei Panigarola/badía dei Mercanti (in buona parte ricostruzione otto-novecentesca degli architetti Luca Beltrami e Antonio Cassi Ramelli, con l’utilizzo di resti medievali). Di fronte al Broletto, sulla medesima piazza, si trovano le seicentesche «Scuole palatine» e la trecentesca loggia degli Osii. Di fronte all’altra facciata del Broletto, sul lato opposto di via Mercanti, si erge il cinquecentesco palazzo dei Giureconsulti, oggi sede della Camera di Commercio. La piazza formava in origine un complesso chiuso, al centro del quale campeggiava il Broletto Nuovo: quello oggi visibile è dunque circa la metà dello spazio originario, dopo le demolizioni ottocentesche con cui si venne a creare un passaggio diretto tra piazza del Duomo e piazza Cordusio mediante l’odierna via Mercanti.

Sei porte per sei rioni

Nel cuore di Milano, pur tra rifacimenti e restauri che hanno in molti casi alterato irrimediabilmente le fisionomie originarie, si conserva un lembo importante dell’agglomerato urbano medievale. Nell’area di piazza Mercanti si concentravano infatti le sedi di alcune delle principali istituzioni deputate all’amministrazione della giustizia e al governo cittadino, nonché una scuola che si dice avesse avuto tra i suoi docenti anche sant’Agostino

Nella doppia piazza originaria si aprivano sei porte, corrispondenti ai sei rioni cittadini, facendo cosí di questo spazio il fulcro della vita economica e amministrativa della città. A mezzogiorno si trovava porta Vercellina (o di San Michele al Gallo), tuttora esistente, incorporata nell’edificio delle Scuole palatine; porta Cumana, verso il Cordusio (etimologicamente curia Ducis, «corte del Duca», in cui si svolgeva la vita politica e amministrativa di Milano ai tempi di Alboino, re dei Longobardi dal 560 al 572, che fece realizzare tale spazio). La contrada in corrispondenza di questa porta era detta anche «dei fustagnari», perché qui gli sbiancatori di fustagno potevano lavorare utilizzando l’acqua del fiume Nirone. Vi erano poi porta Nuova, o «dei Fabbri», rivolta verso la contrada di Santa Margherita, sede degli armaioli; porta Orientale, o di Sant’Ambrogio, che, aperta sotto l’omonima cappella del palazzo del Podestà, in corrispondenza della Pescheria, metteva in comunicazione piazza Mercanti con quella del Duomo; porta Romana, situata sotto la residenza podestarile in direzione del Duomo; e, infine, porta Ticinese, in direzione sud-ovest. Occupata al centro dal gran portico giudiziario-amministrativo del Broletto, la piazza era racchiusa da altri portici con sale sovrapposte, da modesti edifici riservati alla residenza del podestà, alle carceri, e alle sedi delle corporazioni piú importanti, tra cui quella dei mercanti. Sulla piazza i trombettieri comunali e poi quelli ducali annunciavano le nuove gride. Particolare della facciata del palazzo della Ragione, fatto costruire tra il 1228 e il 1233 dal podestà Oldrado Grassi da Tresseno, ritratto nella statua equestre inserita tra i due archi.

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luoghi milano A sinistra uno scorcio di piazza Mercanti, con il palazzo della Ragione sulla sinistra. Il pozzo che si vede sulla destra è stato ricollocato in questa posizione all’indomani del riassetto degli spazi operato nel XIX sec. A destra pianta seicentesca della città di Milano. Evidenziata dalla cornice è l’area di piazza Mercanti.

Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo l’apertura della nuova piazza del Duomo e la sistemazione del nucleo urbano formato dal foro Bonaparte, dalla via Dante e da piazza Cordusio, l’antica piazza Mercanti venne trasformata radicalmente: furono abbattuti il lato orientale e quello occidentale, cosí da ridurre la parte settentrionale dell’antico centro in un corridoio di transito tra la piazza del Duomo e i nuovi quartieri (via Mercanti). Il livello della piazza venne abbassato di mezzo metro e livellato a quello di piazza del Duomo e del Cordusio. Da qui la necessità di costruire alcuni gradini per raggiungere il portico del palazzo della Ragione, quello dei Giureconsulti e le Scuole palatine, mentre si rese necessario allungare i pilastri della loggia degli Osii.

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Il palazzo della Ragione, o Broletto Nuovo (cosí chiamato per distinguerlo dal Broletto Vecchio, o palazzo dell’Arengo, che sorgeva in corrispondenza dell’attuale Palazzo Reale), venne fatto costruire tra il 1228 e il 1233 dal podestà Oldrado Grassi da Tresseno. Prima di diventare, nel 1288, sede comunale per le adunanze del Consiglio Generale, fu inaugurato come Tribunale di Provvisione (da qui l’appellativo di «palazzo della Ragione»). Questa funzione di polo amministrativo-giudiziario si mantenne per secoli,

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B Palazzo dei Giureconsulti C Casa dei Panigarola D Scuole Palatine E Loggia degli Osii

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accanto a quella economico-finanziaria. La piazza venne completata nel 1251 sotto il governo del podestĂ Enrico Riva da Mantova. Sotto i portici del Broletto sostavano i mercanti per la compravendita delle merci, si allineavano i banchi dei notai per la stipulazione di contratti di ogni tipo, molti dei quali riguardanti le mercanzie, e quelli di banchieri e cambiavalute, la cui funzione di prestatori e di

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trattatari di lettere di cambio era altrettanto essenziale al commercio. Sopra i grandi archi del portico troneggiava la sala delle adunanze, lunga 50 m e larga 18, sede dei giudici civili e criminali, dei giudici dei dazi, delle vettovaglie e delle strade, nonchĂŠ sala di riunione per il Consiglio Generale dei cittadini. Il palazzo, che rappresenta il piĂş notevole esempio di architettura medievale a Milano, consiste so-

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Casa dei Panigarola In alto l’edificio noto come casa dei Panigarola, dal nome della famiglia che aveva in custodia gli Statuti di Milano, che in questa struttura si conservavano. A destra nel portico di casa Panigarola è murata una lapide, che doveva in origine trovarsi nel vicino palazzo della Ragione, con una iscrizione firmata da Tommaso da Caponago, un giureconsulto del XV sec. Nel testo, il giurista consiglia ai cittadini di evitare le contese giudiziarie, in quanto le controversie legali possono spesso causare la rovina di chi le ha promosse. Nella trascrizione qui riportata, l’asterisco indica la presenza di abbreviazioni, che nell’epigrafe sono espresse da appendici grafiche sulla relativa lettera.

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I consigli di un giurista In controv*sys causar* corporales inimicitie oriuntur fit amissio expensar* labor animi exercetur corpus cottidie fatigat* multa et inhonesta crimina inde c*sequunt* bona et utilia opera posponuntur et qui sepe credunt obtinere frequenter subcumbunt et si obtine*t co*putatis laborib*s et expensis nichil acquirunt Thomas de Caponago 1448

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stanzialmente in un unico grande salone di 1000 mq circa, costruito su pilastri che formano un sottostante portico terreno (sopraelevato di alcuni gradini rispetto all’attuale livello della piazza). Il portico consta di sette campate per lato sui lati lunghi, e di due su quelli minori, con archi a tutto sesto, a eccezione delle due estreme, aperte da archi acuti. Le facciate, di uno splendido cotto a vista (ripristinato soltanto nel 1871 eliminando l’intonaco che lo ricopriva), sono scandite da trifore corrispondenti agli archi del portico. Attualmente un passaggio aereo sul fianco ovest, verso il Cordusio, collega il palazzo con la casa dei Panigarola, mentre in origine un analogo pontile in legno con una scala collegava il salone, verso est, con la casa del Podestà e con le carceri. L’edificio mantenne le sue caratteristiche stilistiche e funzionali, come sede di varie magistrature cittadine, fino al 1771, quando Maria Teresa d’Austria decise di destinarlo ad archivio notarile, avviando radicali lavori di trasformazione. Venne cosí costruito il sopralzo tuttora visibile in corrispondenza delle finestre ogivali dell’ultimo piano, rimuovendo la copertura delle gigantesche capriate in legno, e realizzando le volte attuali. La monumentale scaffalatura contenente l’Archivio è stata rimossa soltanto nel 1961 ripristinando l’originaria aula vuota attualmente utilizzata per conferenze, convegni e mostre. Vi rimane ancora qualche traccia di affreschi settecenteschi e un frammento di una Crocifissione quattrocentesca.

Un collage di architetture antiche

La casa dei Panigarola costituisce un autorevole esempio di ricostruzione otto-novecentesca realizzata con resti di edifici medievali. Venne iniziata nel 1899 dall’architetto Luca Beltrami (autore della ricostruzione della torre del Filarete e del salvataggio di quanto rimaneva del Castello Sforzesco) grazie al recupero di strutture trecentesche, per occupare l’area dell’abside della demolita chiesa di S. Michele al Gallo e della Badía dei Mercanti, fatta costruire nel 1336 da Azzone Visconti accanto alla loggia degli Osii (nell’area oggi occupata dalle Scuole palatine) come sede dei banchieri e dei cambiavalute. La ricostruzione di Beltrami è costituita dalla monofora ad arco acuto con elaborate decorazioni in cotto, posta perpendicolarmente al Broletto e con esso confinante sul lato verso piazza Cordusio. Le altre campate dell’edificio sono state aggiunte soltanto nel 1967 da un autorevole restauratore milanese, Antonio Cassi Ramelli, che utilizzò anch’egli elementi decorativi e murari di edifici preesistenti, come la porta e la finestra cinquecentesche della Camera dei Mercanti, rimontate sotto il portichetto di sinistra. In quest’operazione vennero utilizzate anche le porte e le finestre settecentesche dell’Ufficio degli Statuti di Milano, o Ufficio Panigarola (dal nome della famiglia che fin dal XIV secolo aveva in custodia queste scritture), per cui il complesso nel suo insieme ha mantenuto appunto

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Scuole palatine Particolare di uno dei busti imperiali che sormontano le doppie colonne della facciata delle Scuole palatine, l’unica parte dell’edificio che conservi i suoi elementi originali, sopravvissuti ai pesanti ritocchi operati nel XIX sec.

il nome di «casa dei Panigarola». Attualmente l’edificio ospita il ristorante «Al Mercante».

Le lezioni di sant’Agostino

L’edificio delle Scuole palatine che possiamo ancora vedere venne costruito tra il 1644 e il 1647, accanto alla loggia degli Osii, dall’architetto Carlo Buzzi per sostituire il portico di Azzone Visconti, risalente al 1336, distrutto da un incendio. La facciata, pesantemente ritoccata nel 1896, è il solo elemento originale della costruzione rimasto dopo le modifiche ottocentesche. L’istituzione scolastica che aveva sede in quest’area doveva comunque avere origini antichissime, ed esistere già in epoca romana: sant’Agostino, prima della conversione, vi avrebbe insegnato retorica. Durante il periodo medievale risorsero nel Trecento, quando Matteo Visconti donò per uso scolastico il portico di Azzone, sede che fu fatta poi ampliare da Giovanni Maria Visconti, prosperando nel secondo Quattrocento, sotto gli Sforza, col nome di «Scuole del Broletto». Nel 1773 Maria Teresa d’Austria trasferí l’istituzione scolastica nel palazzo di Brera.

Qui si leggevano bandi e sentenze

Situata di fronte al Broletto Nuovo sul lato meridionale della piazza, la loggia degli Osii fu fatta costruire per la

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luoghi milano prima volta nel 1251, in marmo, dal podestà Giovanni de Ripa. Nel 1316 Matteo Visconti la fece riedificare, ingrandita, da Scoto da San Gimignano, dopo aver acquistato le case degli Osii (importante famiglia milanese), situate accanto alla struttura precedente, abbellendola con due porticati, uno superiore e l’altro inferiore. Soltanto in seguito, nel 1336, Azzone Visconti vi fece aggiungere il balcone sporgente sorretto da eleganti mensole, dal quale veniva data pubblica lettura dei bandi e delle sentenze. Era questa appunto la funzione precipua della loggia. Il balcone è probabilmente opera dell’importante scultore pisano Giovanni di Balduccio, molto attivo alla corte di Azzone Visconti e autore, tra l’altro, del suo monumento sepolcrale e di alcune statue per le porte cittadine. La nuova costruzione fu decorata con le statue dei patroni della città e con una fascia recante gli stemmi dei quartieri milanesi. Numerose modifiche furono apportate nel corso dei secoli: l’aspetto attuale è frutto di un restauro del 1904, che eliminò le aggiunte settecentesche e sostituí con nuove colonne i pilastri seicenteschi del portico al piano terra, pilastri che avevano a loro volta sostituito le colonne originarie (alle quali si ispirano le attuali). Vennero al tempo stesso riaperte le arcate che erano state murate, e liberato da un soppalco il loggiato del primo piano. La loggia è organizzata secondo un ritmo di cinque arcate montate su due ordini sovrapposti. Il piano terra è aperto da arcate a tutto sesto rette da pilastri (sostituiti nel XVII secolo) con capitelli fogliati; il piano superiore è scandito da arcate a sesto acuto e caratterizzato

Loggia degli Osii

Statue di patroni della città (in alto) e l’emblema dell’aquila imperiale affiancato da due «bisce» viscontee (in basso) che ornano la loggia degli Osii (a destra). La prima fondazione dell’edificio risale al 1251, mentre il balcone sporgente da cui si dava pubblica lettura di bandi e sentenze, fu aggiunto nel 1336, per iniziativa di Azzone Visconti.

Palazzo dei Giureconsulti Particolare della facciata del palazzo, la cui costruzione fu avviata nel 1561, per volontà e grazie a una donazione di papa Pio IV, e che venne destinato a ospitare il Collegio dei Giureconsulti, dal quale uscivano i membri delle pricipali magistrature della città e del Ducato.

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alla base dei sostegni da un’ampia fascia con stemmi in rilievo (in parte rifatti), con le insegne delle porte della città e delle famiglie che le avevano in consegna. Al centro si trova il balcone (da quale si leggevano gli editti del Comune), sostenuto da mensole, recante al centro l’aquila imperiale tra due «bisce» viscontee e le sigle di Galeazzo Maria Sforza e della madre Bianca Maria. Conclude la struttura una pseudogalleria di arcatelle (in realtà una sequenza di cinque trifore). In quella centrale trovano posto le statue della Madonna in trono col bambino e dei santi patroni della città (copie, gli originali sono in collezione privata). Il paramento lapideo è caratterizzato dall’alternanza di bande bianco-nere, secondo una moda diffusa in area lombarda e toscana nel Duecento.

Una campana per dare l’allarme

Di fronte al Broletto, sull’altro lato di via Mercanti, si erge il cinquecentesco palazzo dei Giureconsulti, la cui parte piú antica è costituita dalla torre, fatta costruire da Napo Torriani nel 1272 per contenere una campana che avrebbe annunciato l’ora del coprifuoco o eventi particolarmente gravi, come lo scoppio di un incendio. Il palazzo fu invece iniziato soltanto nel 1561 (su progetto dell’architetto Vincenzo Seregni), per volontà e grazie a una donazione di papa Pio IV, e venne destinato a ospitare il

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Da leggere U Alessandro Visconti, Le Scuole Palatine di Milano,

La Famiglia Meneghina, Milano 1927 U Paolo Mezzanotte, Giacomo C. Bascapè, Milano nell’arte

e nella storia, C. Bestetti, Milano-Roma, 1968 [1948] U Gianni Mezzanotte, La piazza dei mercanti a Milano,

Il Polifilo, Milano 1989 U Valentino De Carlo, Le strade di Milano, Newton Compton,

Roma 1993; pp. 1192-1202 U Livia Negri, I palazzi di Milano, Newton Compton,

Roma 1998

Collegio dei Giureconsulti, dal quale uscivano i membri delle pricipali magistrature della città e del Ducato. Nel 1601 la torre duecentesca (ancora esistente come nucleo centrale) venne rivestita e inglobata da una torre barocca dotata di orologio, mentre nel 1655 i lavori di costruzione furono ripresi fino a includere la volta della Pescheria Vecchia. Ulteriori modifiche vennero apportate nell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Nel 1809 il Demanio cedette l’edificio alla Camera di Commercio, che dapprima vi collocò la Borsa (1809-1901), poi ne fece la propria sede (1911), funzione che il palazzo conserva tuttora. F

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La munificenza di Ascherio

cartoline • Sorta nel 1180 grazie alla fondazione

di un laico, l’abbazia di Acqualunga è citata per la prima volta in un atto di Federico II, stilato nel 1227. Del complesso oggi si conserva unicamente la splendida chiesa, ornata da affreschi rinascimentali

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na striscia di terra in mezzo alle acque: si potrebbe definire cosí l’area in cui si innalza l’abbazia di S. Maria ad Acqualunga (Pavia). Questo abitato rurale, circondato dai boschi e dalle risaie della Lomellina sud-occidentale, al confine con il Piemonte, è formato da una chiesa e da qualche cascinale e prende nome dal vecchio canale del Po, denominato appunto Acqua Lunga.

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Attualmente frazione del Comune di Frascarolo e parrocchia della diocesi di Vigevano, in passato Acqualunga è stata un centro di ampi interessi religiosi e politici. Chi giunga alla chiesa abbaziale, lontana dalle grandi vie di comunicazione e dalle principali cittadine della provincia, viene accolto da un suggestivo esempio di architettura medievale, recentemente recuperato. È difficile

immaginare che la minuscola località, il cui toponimo compare già nel 1250 nell’elenco delle terre del contado di Pavia, come Acqualunga, nella contea di Lomellina, sia stata oggetto d’interesse da parte di imperatori, papi, vescovi e abati. A fondare l’abbazia cistercense, attorno al 1180, fu il redditus Ascherio. Un laico, che «donò» se stesso alla comunità monastica, compiendo tale scelta di redditio in età adulta, dopo aver avuto un figlio. Inizialmente subordinata alla casa-madre di Rivalta Scrivia (Alessandria), Acqualunga divenne ente religioso autonomo nel 1204, con proprio abate e dodici monaci.

Sotto l’alta protezione imperiale Il manufatto è citato per la prima volta il 6 aprile 1227, in un atto con cui Federico II dispose che l’abbazia fosse sottoposta all’alta protezione imperiale, decretandone la completa esenzione da ogni tipo di carico fiscale. Tale privilegio fu rinnovato dall’imperatore Enrico VII, che, giugno

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il 2 gennaio 1311, riconfermò le disposizioni di Federico II. Alla metà del Quattrocento iniziarono a comparire gli abati commendatari, nominati dal papa a capo dell’organismo ecclesiastico, ma esentati dall’obbligo di risiedervi. Nel 1503 papa Pio III assegnò Acqualunga all’abate Galeazzo Visconti de Pietra, che fu poi chiamato, nel 1530, a reggere l’appena costituita diocesi di Vigevano. Da allora le rendite dell’abbazia risultano aggregate ai possedimenti della diocesi di Vigevano e il vescovo è anche abate di S. Maria di Acqualunga.

Abati senza obbligo di residenza Oggi dell’antico monastero rimane soltanto la chiesa, priva di transetto e connotata da un coro di forma rettangolare, a terminazione piatta, secondo i dettami dell’architettura cistercense. All’esterno la facciata a campana riprende i volumi interni. Caratterizzata dal taglio a frontone cuspidato, anche se la parte di destra è stata resa piatta a seguito di successive modifiche, è scandita in tre zone distinte da contrafforti, che terminano notevolmente al di sotto del colmo, seguendo una tipologia tipica di altre chiese lomelline. La navata destra ha un tetto trasversale alla facciata, per raccordarsi all’edificio laterale del convento, mentre il campanile quadrangolare è collocato

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Il buen retiro degli aironi Fin dal Medioevo il luogo in cui si insediano in gruppo gli aironi di una o piú specie, per costruire il proprio nido e riprodursi, viene detto «garzaia». Il nome deriverebbe dal termine dialettale «sgarza», che significa airone. In genere le garzaie si trovano nelle zone con vegetazione palustre, in corrispondenza di ciuffi di alberi, soprattutto salici, pioppi, ontani e farnie e vicino a corsi d’acqua, risaie, piccoli bacini lacuali dove gli uccelli possono trovare cibo per sé e per i piccoli. In Lomellina esistono molte garzaie protette e tutelate, che ospitano numerose specie avicole come gli aironi cinerini, gli aironi rossi, le nitticore, le garzette e le sgarze ciuffetto. La Riserva Naturale Garzaia Abbazia di Acqualunga a Frascarolo, compresa tra due anse meandriche abbandonate del fiume Po, consta di tre nuclei boschivi distinti, in uno dei quali è insediata la colonia di aironi piú interessante della regione. Infatti sono presenti, caso unico in Lombardia, tutte e cinque le specie di aironi gregari che nidificano in Italia. Si possono inoltre incontrare lepri, scoiattoli, volpi, tassi, donnole, puzzole, falchi di palude e poiane. L’accesso libero è vietato. Le visite all’area di riserva sono consentite solo con guide e previa autorizzazione della Provincia di Pavia, che ne è l’Ente gestore, mentre la fascia di rispetto, attraversata dalla strada che collega Acqualunga a Castellaro de Giorgi, è percorribile anche in auto. Info: Ufficio Riserve Naturali Provincia di Pavia tel. 0382 597859 o 597831; per le visite guidate: Studio Selva, Gambolò (Pavia), Via Mortara, 74 – tel. 339 4518087; e-mail: info@studioselva.net Nella pagina accanto veduta aerea del complesso abbaziale di Acqualunga (Pavia). In questa pagina la chiesa abbaziale, con, in primo piano, il campanile a pianta quadrangolare.

all’incontro tra la nave laterale e il presbiterio, quest’ultimo posto con l’altare in corrispondenza della navata centrale. Nella testata esterna del coro si osserva invece un ampio rosone, ora murato, fiancheggiato da due lesene, che non giungono fino al tetto, in base a un modulo assai frequente in Lombardia. Al di sopra di tali lesene è collocato un fregio ad archetti, che denota un ipotizzabile rifacimento rispetto a quelli presenti nel fianco settentrionale della chiesa, e precisamente sulla terminazione della navata laterale sinistra. La struttura potrebbe risalire ai primi decenni del XIII secolo: la stessa navata sinistra presenta i tradizionali contrafforti, visibili anche in facciata.

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caleido scopio Piccolo mondo rurale A pochi chilometri dall’abbazia di Acqualunga si può visitare un interessante Museo del contadino. L’esposizione, allestita nel complesso rurale ristrutturato, compreso tra gli edifici del castello medievale di Frascarolo, è suddivisa in tre sezioni: la casa, i mestieri e la terra. Gli ampi locali, ricavati da una ex stalla, accolgono circa un migliaio di oggetti: dai carri agli aratri, dai gioghi alle falci e ai rastrelli, e poi incudini di fabbri, pialle di falegnami, bilance di negozianti, barche e remi di barcaioli. Fra le curiosità vi sono raccolte di macinini del caffè, ghiacciaie, macchine da cucire, vecchie radio, forme per fare il burro e soffietti per incipriare le parrucche. Info: Museo del Contadino presso il castello di Frascarolo; via Al Castello 1, 27030 Frascarolo (Pavia); e-mail: remo.danovi@museodelcontadino.it Ai lati del portale d’accesso si notano alcuni frammenti di una complessa partitura pittorica. Disposti simmetricamente nell’intento di inserire l’arco gotico dell’ingresso entro una decorazione rinascimentale di profilo rettangolare, i lacerti dovevano suggerire l’articolazione architettonica in nicchie, fregi e cornici.

lascia supporre che siano state adottate iconografie religiose della tradizione locale. All’interno l’edificio cultuale è costituito da una grande aula rettangolare, divisa in tre navate da possenti pilastri a fascio. Sopra i semplici capitelli modanati si sviluppano archi a sesto acuto, che sostengono volte a crociera archiacute, decorate con elementi

Una galleria di ritratti anonimi La sezione piú leggibile dell’insieme è rappresentata da parti del fregio sovrapposto alle nicchie; in esso si susseguono teste in posizione frontale o di profilo entro patere. Che, simili nella conformazione alla serie di tondi inseriti nel basamento della Certosa di Pavia, sono divise da una piccola lastra, prospetticamente scorciata e ornata da un balaustrino sulla superficie verso lo spettatore. Mentre alla Certosa, come nei portali di palazzi patrizi, i profili raffigurati sono quelli degli imperatori romani o di personaggi famosi dell’antichità, ad Acqualunga i busti, privi di ogni indicazione che ne permetta il riconoscimento e non immediatamente riconducibili a modelli iconografici desunti dalla monetazione o da altre serie contemporanee, forse sono santi protettori contro la peste, poiché la collocazione in facciata

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Particolare dell’affresco monocromo, dipinto nel presbiterio della chiesa, raffigurante due monaci cistercensi ai lati di un tronco vegetale molto stilizzato.

architettonici traforati di gusto neogotico ottocentesco su fondo blu. Queste decorazioni, connotate da un timbro monocromatico con forti effetti chiaroscurali, contribuiscono a creare un’efficace atmosfera luminosa, integrandosi con la luce naturale proveniente dalle finestre circolari.

Due religiosi cistercensi Senza dubbio l’abbazia medievale fu interamente affrescata in età rinascimentale. Resti di affreschi sono distribuiti nello sfondato, che affianca il lato meridionale del presbiterio, sulla parte alta della parete. Si tratta in questo caso di immagini di santi, separate da un elemento architettonico verticale, la cui sezione inferiore risulta la parte piú comprensibile della composizione. Curiose, sulla fronte del pilastrino, sono le figure di due religiosi appartenenti alla famiglia cistercense, dipinte a monocromo su di un piedistallo, ai lati di un tronco vegetale molto stilizzato. Nel corso dei restauri le decorazioni murali e pittoriche, ove necessario, sono state integrate con colori a base di latte di calce, contraddistinte da una tonalità di fondo in grado di mantenere un’adeguata assonanza visiva con le porzioni architettoniche riportate alla luce. I dettagli ancora leggibili delle immagini a fresco rimandano a moduli iconografici affermatisi nel Quattrocento e rimasti in auge sino ai primi decenni del Cinquecento, qui certamente ripresi nell’ultima fase del loro successo e quando erano ormai superati per i maestri piú aggiornati. A inquadrare il problema della cronologia si può osservare che, a partire dal 1530, anno in cui Acqualunga fu riunita alla nuova diocesi di Vigevano, dovettero essere programmati e realizzati alcuni adeguamenti degli spazi in funzione delle esigenze vescovili. Chiara Parente giugno

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Dalla Northumbria al Monte Amiata tesori di carta •

La Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze custodisce il Codex Amiatinus, la prima versione della Bibbia, esemplare superstite di tre manoscritti commissionati nell’VIII secolo nel Nord dell’Inghilterra

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etta anche Vulgata, la Bibbia Amiatina è stata la prima versione in lingua latina delle Sacre Scritture a circolare nell’Occidente cristiano. Siamo nell’VIII secolo della nostra era e nei monasteri gemelli di Wearmouth-Jarrow in Northumbria, nell’Inghilterra settentrionale, venne prodotto il codice che contiene il libro sacro, su commissione dell’abate Ceolfrith. In realtà, i manoscritti commissionati erano tre, ma due sono andati dispersi, e ne rimangono solo alcuni piccoli frammenti. Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con la denominazione di Codex Amiatinus (Laurenziana, Amiatinus 1) ed è uno dei vanti del suo patrimonio. Ma per quale motivo si fa riferimento alla zona dell’Amiata?

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Dalle ricerche effettuate sembra ormai certo che il celebre codice sia stato conservato per secoli nell’abbazia di S. Salvatore del Monte Amiata, da dove giunse alla biblioteca fiorentina in seguito alla soppressione dell’ordine cistercense decretata dal granduca Pietro Leopoldo nel 1782. La storia della Bibbia Amiatina parte dunque da

La miniatura a doppia pagina che compare in apertura della Bibbia Amiatina: raffigura, schematicamente, il tabernacolo del tempio di Gerusalemme, nella cui parte centrale, detta Luogo Santissimo, si custodivano, tra gli altri, l’Arca dell’Alleanza e la Menorah (il candelabro a sette bracci).

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caleido scopio Ancora una pagina miniata della Bibbia Amiatina. VIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. La raffigurazione, che precede il Nuovo Testamento, mostra una ruota riccamente colorata composta di due strati, uno liscio e l’altro decorato: al centro si trova un Cristo benedicente, affiancato da due angeli.

lontano. Beda il Venerabile attesta che l’abate Ceolfrith, durante un suo viaggio a Roma, accompagnato da Benedetto Biscop, fondatore del monastero di S. Pietro a Wearmouth, entrò in possesso di un manoscritto che riproduceva

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la Bibbia nella traduzione di san Girolamo.

Uno dono per il pontefice Ceolfrith e Benedetto portarono il codice a Wearmouth-Jarrow e qui venne utilizzato come modello per

quella che poi divenne la Bibbia Amiatina, e in particolare per le raffinate miniature. Ripresa dopo qualche anno la strada per Roma, l’abate portò con se la preziosa Bibbia per farne dono a papa Gregorio II, da poco elevato al soglio giugno

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caleido scopio L’abbazia di S. Salvatore del Monte Amiata. La Bibbia oggi conservata nella Biblioteca Medicea Laurenziana è detta «Amiatina», poiché si ritiene che qui sia stata conservata dopo essere giunta in Italia, portata dall’abate Ceolfrith. Questi intendeva farne dono a papa Gregorio II, ma non riuscí a raggiungere Roma. pontificio. Già avanti negli anni, il religioso non giunse mai nella città eterna, morí in Borgogna durante il viaggio, intorno al 717, e del codice non si ebbero piú notizie. Riapparve in circostanze non precisate circa un secolo dopo, nell’abbazia di S. Salvatore del Monte Amiata, dove rimase per circa mille anni. Secondo gli studi piú recenti, il codice, composto da 1040 fogli di pergamena perfettamente conservati, sarebbe stato prodotto tra il 668 e il 716. La scrittura è a caratteri onciali, ampi e tratteggiati con grande cura, e il testo è su due colonne per pagina. Misura 34 cm di larghezza e circa 50 di altezza, per 18 di spessore. In rapporto al notevole volume del libro, le miniature non sono molte; tuttavia, proprio in apertura, ce n’è una, a doppia pagina, che raffigura il tabernacolo nel tempio di Gerusalemme. Si tratta di una rappresentazione schematica, che dovette essere elaborata sulla falasariga di quelle che già apparivano nei codici piú antichi, dopo la descrizione fattane da Cassiodoro nel VI secolo (vedi foto a p. 105).

Le dispute sul dogma trinitario Tra le raffigurazioni del Codex vi è quella del sacerdote ebreo Ezra, che parrebbe essere una sorta di monito per il romano pontefice affinché unisca la saggezza dell’Antico con la spiritualità del Nuovo Testamento. All’interno del manoscritto, la suddivisione delle Sacre Scritture bibliche presenta medaglioni miniati raffiguranti una colomba, un busto umano e un agnello. Secondo gli studiosi tali raffigurazioni sarebbero da ricondurre ai vivaci dibattiti che si svilupparono nel corso dell’VIII secolo intorno al dogma trinitario.

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Alla fine del Cinquecento il manoscritto fu impiegato per approntare l’edizione sistoclementina della Bibbia. Di questo fatto resta testimonianza sul verso del secondo foglio di guardia, al quale è attaccato un cartiglio che reca la seguente nota manoscritta: «La presente Bibia A dí 12 di luglio 1587 fu portata al illustrissimo Card. Antonio Carafa per l’opera dell’emendatione della Bibia latina vulgata per ordine di S. Santità Sixto V in Roma e fu restituita a dí 19 di gennaro 1592 alli Reverendi Padri D. Marcello Vanni et D. Stefano Bizzotti Monaci di Monastero di S. Salvatore in Montamiata. Io Arturo de’ conti d’Elci». Fino al 1979 questa versione della Bibbia è stata l’unica riconosciuta ufficialmente dalla chiesa cattolica.

Nel 2000 le edizioni SISMEL hanno riprodotto su cd l’originale del Codex Amiatinus, ripreso dal manoscritto conservato presso la Laurenziana. A curare questa singolare quanto preziosa riproduzione è stata un’équipe coposta da Luigi Ricci, Giacomo Baroffio, Lucia Castaldi, Melania Ceccanti, Simone Nencioni. Oltre alle 2058 immagini, relative ai fogli del codice, sono state inserite alcune schede dettagliate di analisi e approfondimento relative a 7 nuclei tematici e 13 sottonuclei tematici concernenti la descrizione esterna. Dalle brume della Northumbria, dunque, il Codex Amiatinus giunge a noi moderni attraverso le tecnologie piú avanzate e sofisticate. Alessandro Bedini giugno

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Una lettura dolce come il miele libri • Un’ambientazione degna delle Mille

e una notte trasporta il lettore in un Medioevo «multiculturale», nel quale si fondono tradizioni orientali d’impronta buddhista e novella cristiana. È questa l’atmosfera trasmessa da una nuova edizione della Storia di Barlaam e Ioasaf

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er milioni di Occidentali, l’incontro con la visione buddhista del mondo – con quella speciale vicenda interiore di rinuncia e di ascesi, di nuova appropriazione di sé per esiti pacifici – è stato favorito dalle pagine del fortunato Siddharta, il romanzo che lo scrittore tedesco Hermann Hesse pubblicò nel 1922. Ma la cultura che definiamo occidentale si era già misurata con la vicenda del Buddha intorno all’anno Mille. In quell’epoca, presso la recente fondazione monastica del Monte Athos, un monaco georgiano di illustri natali, Eutimio, aveva ripreso la vicenda dell’Illuminato (originaria del V secolo a.C. e arrivata nell’Egeo attraverso innumerevoli filtri orientali), e l’aveva riplasmata in una «storia edificante cristiana» secondo i canoni dell’agiografia bizantina in lingua greca.

Il Bodhisattva e l’asceta Da queste premesse ha origine la Storia di Barlaam e Ioasaf, volume destinato non solo agli appassionati di cultura bizantina, ma anche a chi voglia indagare sui rapporti culturali e religiosi tra Oriente e Occidente, e a chi auspichi, come già in passato è avvenuto, il dialogo e la convivenza pacifica tra i seguaci di credi diversi. Il racconto, che si svolge in un’atmosfera da Mille e una notte, ha

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come protagonisti Ioasaf (il «Bodhisattva»), recluso dal padre in un palazzo incantato per essere protetto dai mali del mondo, e Barlaam: un asceta che riesce a intrufolarsi nel palazzo sotto mentite spoglie per fargli arrivare la «perla preziosa» della buona novella cristiana. La sostanza di una notevole impalcatura teologica, un bel piglio narrativo, l’inserimento felice di mirabili fiabe (apologhi) di matrice orientale, vengono amalgamate da Eutimio per dare vita a una narrazione impareggiabile che ambisce a essere «utile all’anima».

Tradizioni a confronto In essa si coglie, oltre a un talento letterario raro, anche il carattere «meticcio» di un Medioevo aperto, capace di mettere a confronto e di fondere con esiti inattesi tradizioni diverse. Tanto che la fiaba (o Storia) di Barlaam e Ioasaf ebbe grande fortuna anche dopo Eutimio (Jacopo da Varazze, Marco Polo, Lev Tolstoj e innumerevoli altri). Il testo era già stato tradotto nel 1980 da Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, che in questa recente e pregevole edizione Einaudi lo ripropongono in una nuova veste, arricchita dai piú recenti contributi critici (spiccano quelli di Robert Volk, che risultano decisivi per

Anonimo Storia di Barlaam e Ioasaf La Vita bizantina del Buddha a cura di Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, Einaudi, Torino, 314 pp. 35,00 euro ISBN 9788806203955 www.einaudi.it

l’attribuzione dell’opera a Eutimio). L’ampio saggio introduttivo di Silvia Ronchey consente anche al lettore non specialista di seguire l’evoluzione del nucleo narrativo, dalle versioni orientali della vita del Buddha alla prima cristianizzazione georgiana (da cui dipese Eutimio), e oltre. Traduzioni, note al piè e apparati sono invece stati rivisitati da Paolo Cesaretti con un lavoro puntuale e prezioso, che conferisce alla resa italiana una piacevole patina arcaizzante. Resta l’emozione di questa storia: riprendendo le parole di uno dei memorabili apologhi che in essa sono raccolti, potrebbe definirsi un invito a «concentrarsi sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele» che solo la lettura sa dare. Marisa Ranieri Panetta

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Lo scaffale Élisabeth Lesnes, Jean-Michel Poisson Calathamet Archéologie et histoire d’un château normand en Sicile

École française de Rome, Rome-Officina di studi medievali, Palermo, 502 pp., ill. col.

90,00 euro ISBN 978-88-6485-068-9 www.medioevo-shop.net

Oggetto di ripetute e sistematiche campagne di scavo (1978-1989), che hanno visto la fruttuosa collaborazione tra l’École française de Rome, il Centre de Recherches historiques di Parigi e gli Istituti di storia medievale e di archeologia

dell’Università di Palermo, il sito di Calathamet, nella Val di Mazara tra Trapani e Palermo, è un esempio emblematico di come un abitato di fondazione musulmana sia andato trasformandosi prima, durante e dopo l’invasione normanna dell’XI secolo. Lo studio

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dell’insediamento, che ha coinvolto competenze diverse – storiche, archeologiche, geologiche, zoologiche, numismatiche, ecc. – ha permesso, proprio grazie all’approccio multidisciplinare, l’analisi del contesto materiale (XI-XVI secolo), in un percorso sincronico e diacronico, nonché quello delle varie fasi dello sviluppo architettonico: a partire dall’abitato riconducibile alla tradizione islamica sino all’elevazione nel XII secolo, su edifici preesistenti, del castello dato in feudo alla famiglia normanna dei Thiron. Alla fine del XII secolo Calathamet divenne una delle maggiori fortificazioni della Sicilia occidentale, per essere poi progressivamente abbandonata alla fine del XIV secolo. La ricchezza dei dati scaturiti dalle indagini effettuate confluiscono, oggi, in questo corposo volume, che alterna saggi sulla storia e l’evoluzione dell’abitato firmati dai massimi specialisti della storia del Mediterraneo e della Sicilia – Henri Bresc, Geneviève BrescBautier, Jean-Michel Poisson ed Élisabeth Lesnes –, a contributi dedicati all’esame

dei singoli manufatti (Étude du mobilier) da parte di specialisti delle varie discipline coinvolte (ceramiche, oggetti metallici e litici, armi, monete, ecc.), dalle cui ricerche si è potuta ricostruire la vita quotidiana a Calathamet. Nonostante gli interventi di restauro e di consolidamento strutturale eseguiti dalla Soprintendenza, il sito vive oggi – destino comune a tante realtà archeologiche piú o meno note – una fase di totale oblio a cui il volume cerca, almeno in parte, di sopperire, costituendo un prezioso tassello per la conoscenza della storia delle fortificazioni nell’ambito del Mediterraneo occidentale. Franco Bruni Tommaso Indelli Langobardía I Longobardi in Italia Edizioni di Ar, Padova 402 pp., 5 tavv. b/n

40,00 euro ISBN: 978-88-89515-63-5 www.edizionidiar.com

Nella primavera del 568 i Longobardi entrano in Italia e, senza incontrare resistenze di particolare rilievo (se si eccettua il caso di Pavia), possono dilagare in vaste aree del Settentrione, ponendo le basi per

la creazione del loro regno. È questo l’inizio di un’epoca cruciale per la storia della Penisola, un’epoca che, nella storiografia piú recente, viene finalmente considerata in tutta la sua ricchezza culturale e artistica. Una rivalutazione alla quale contribuisce ora anche questo Langobardía, che, in maniera ampia e articolata, ripercorre l’intera vicenda. Indelli ricostruisce la successione degli eventi che maggiormente caratterizzarono gli oltre due secoli dell’esperienza longobarda in Italia e a essa affianca la descrizione del ricco patrimonio di usi e costumi di quelle genti venute dal Nord. La combinazione di questi elementi, presentati nel contesto di sei capitoli definiti secondo un criterio innanzitutto territoriale, offre una testimonianza concreta di quanto il popolo longobardo fosse tutt’altro che «barbaro». Come dimostrano i dati

offerti dalla ricerca archeologica, lo studio delle fonti, ma anche i numerosi e importanti monumenti che tuttora si conservano, Alboino e i suoi sudditi (e discendenti) diedero vita a un regno ben organizzato e fiorente e il loro arrivo in Italia superò presto i limiti dell’effimera invasione. Basti pensare, solo per citare alcuni degli esempi piú significativi, al sistema giuridico applicato nelle terre del regno o alle architetture di Cividale del Friuli, Brescia o Castelseprio. Una realtà, dunque, di spessore notevolissimo, di cui il volume offre un profilo attento ed esauriente. Stefano Mammini

DALL’ESTERO Michèle Bimbenet-Privat Le banc d’orfèvre de l’électeur de Saxe

Éditions de la Réunion des musées nationaux, Parigi, 112 pp., ill. col.

35,00 euro ISBN: 978-2-7118-5917-7 www.boutiquesdemusees.fr

Il principe Augusto I, elettore di Sassonia (1526-1586), al di là del ruolo politico giocato nel contesto della Germania cinquecentesca, viene ricordato anche per la passione nei confronti degli strumenti scientifici e della tecnologia. giugno

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Un interesse che non si limitava alla semplice osservazione, ma che lo vide anche impegnarsi personalmente nelle arti meccaniche, servendosi della straordinaria collezione di attrezzi e macchinari che volle mettere insieme. Per lui, Leonhard Danner – un artigiano di Norimberga specializzato nella fabbricazione di utensili – costruí un magnifico banco destinato alla trafilatura, cioè all’ottenimento di fili metallici in oro e argento, impiegati nella realizzazione di oggetti preziosi o anche nella tessitura di arazzi, che è oggi uno dei vanti della collezione del Musée national de la Renaissance di Ecouen. Il volume curato da Michèle BimbenetPrivat, conservatore capo del dipartimento Oggetti d’Arte del Louvre, racconta l’intera vicenda, soffermandosi sia sul profilo dei vari personaggi coinvolti, sia sulle questioni tecniche. Una storia solo all’apparenza minore e della quale si può avere un’utile sintesi anche attraverso la sezione che il sito web del Museo ha voluto dedicarle: www. musee-renaissance.fr/ bancdorfevre S. M.

MEDIOEVO

giugno

Finezze nascoste musica • Un’antologia

di 16 brani approfondisce gli albori della tecnica polifonica, concentrandosi sul conductus. Un genere dallo stile apparentemente distante, ma che, a un ascolto attento, si rivela ricco di sorprese

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on un ritorno alle origini della polifonia, quando, tra il XII e il XIII secolo, l’elaborazione teorico-musicale compiva a Parigi i suoi primi passi verso l’utilizzo del contrappunto, l’antologia Conductus. Music and poetry from thirteenthcentury France (CDA67949, 1 CD, distr. www.soundandmusic.it), ci introduce a un universo sonoro apparentemente «primitivo», ma pieno di fascino. La scelta degli esecutori di rappresentare un genere cosí particolare, quale è appunto il conductus, nasce dalla scarsa attenzione dedicatagli dalla discografia. D’altro canto, le fonti disponibili sono piuttosto ricche, potendo contare su ben 800 testi liturgici, 675 dei quali ci sono pervenuti con notazione musicale sia monodica che polifonica.

Schemi tipici della tradizione medievale L’ascolto dei 16 brani dell’antologia si sviluppa attorno a polifonie che variano dalle due alle tre voci, secondo schemi ritmici tipici della tradizione medievale. Risulta interessante il trattamento diversificato delle voci, che spazia tra un cantilenante andamento di nota contro nota – per esempio in Genitus divinitus – che caratterizza anche i passaggi melismatici, chiamati codae, e l’utilizzo di note a durata piú ampia nella voce inferiore, mentre la voce superiore si muove piú liberamente e con valori di note piú corte, come nel Beate Virginis. Se da una parte il messaggio sonoro risulta spoglio, quasi ridotto all’osso, con intervalli tra le due voci, a tratti dissonanti per la nostra moderna sensibilità armonica, un ascolto attento permette di cogliere le sottigliezze di queste polifonie, solo apparentemente primitive, ma che rivelano una finezza costruttiva e una sottile relazione tra testo e musica davvero originali.

Esecutori eclettici e talentuosi L’esecuzione di un genere musicale come il conductus necessita, forse piú di altri, di una conoscenza profonda della prassi esecutiva, di competenze storiche e di quella sensibilità che diviene la condicio sine qua non in un repertorio in cui la voce e il testo sono protagonisti assoluti. In questo senso John Potter, docente universitario nonché tenore, abituato a muoversi sia nei repertori piú antichi che in quelli contemporanei, mostra una duttilità e soprattutto un carattere vocale personale e ricco di sfumature interpretative; a lui si accompagnano due tenori all’altezza della situazione, Christopher O’Gorman e Rogers Covey-Crump, entrambi interpreti di talento e con una grande esperienza nel campo della musica medievale e non solo. Franco Bruni

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caleido scopio

Musiche e danze per i reali di Spagna musica • Il ricco repertorio offerto da un album dedicato alla Spagna medievale

spazia tra accattivanti danze popolari strumentali e canzoni d’amore, tratte da manoscritti redatti alla fine del XV secolo presso Madrid e Siviglia

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n Luz del alva. Spanish songs of the early Renaissance (RAM1203, 1 CD, distr. www.soundandmusic. it), il piacevolissimo mondo della musica cortese, con le sue reminiscenze tanto popolareggianti quanto auliche, si svela attraverso un’antologia dal sapore accattivante, proponendo un repertorio vario, strumentale e vocale, che dà la misura dell’universo sonoro dell’ambiente di corte spagnola nella seconda metà del XV secolo. Una cultura musicale raffinata, ma altrettanto attenta alle suggestioni che la musica popolare offriva a compositori e musicisti. Già dai primi due ascolti, due «calate» alla spagnola di Joan Ambrosio Dalza, liutista della seconda metà del XV secolo, si viene introdotti, grazie all’immediatezza melodica dei brani, nella giusta dimensione di questo repertorio.

Canzoni d’amore A queste due danze strumentali, che tradiscono la loro origine popolare in tutta la loro esuberante gaiezza, fanno seguito brani vocali nei quali affiora il gusto intimistico tipico delle canzoni d’amore del periodo, sia in forma di duetti che di assolo, accompagnati da strumenti come il liuto, la viola da mano, la viola ad arco, l’arpa, il cembalo e i flauti, ben presenti nelle corti

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della fine del XV secolo. Due sono le fonti manoscritte principali da cui sono tratte queste musiche, il Cancionero de Palacio di Madrid e il Cancionero musical de la Colombina di Siviglia, redatti tra la fine del XV e gli inizi del secolo successivo. Ma non mancano interferenze da altri manoscritti dell’epoca custoditi

fuori della Spagna, in cui si sono conservati rari brani polifonici spagnoli: è il caso, per esempio, de La graçia de vos donsella, uno tra i piú antichi del genere, risalente al XV secolo. Accanto a brani anonimi, ne troviamo altri di celebri compositori di corte, come Juan Ponce, a servizio del re Ferdinando d’Aragona, Diego Fernandez, Antonio de Ribera, Juan del Encina, protagonisti assoluti del Quattrocento iberico. Alla vivacità ritmico-melodica delle

danze spagnole – oltre alle calate si ascoltano pezzi come La Spagna e la ballata Albuquerque, albuquerque – si contrappongono brani di grande dolcezza sia nelle loro versioni strumentali che vocali-strumentali.

Le doti di una figlia d’arte È qui che si apprezzano le delicate voci del tenore Peter Udland Johansen e del soprano spagnolo Arianna Savall. La seconda, figlia del celebre violista da gamba Jordi Savall e del soprano Monserrat Figueras, dà prova dell’esperienza nel campo della musica antica ereditata dalla lunga frequentazione del repertorio medievale, rinascimentale e barocco. Entrambi mostrano un grande affiatamento nei duetti, emergendo anche nelle arie solistiche, alternate tra momenti particolarmente briosi come il Dindirín interpretato dalla Savall, e momenti pacatamente nostalgici, come Es la vida que tenemos aborrida, in cui la gioia lascia spazio a una intensa riflessione sulla vita e la morte, superbamente interpretata da Peter Udland Johansen. Anche gli assolo strumentali risultano vincenti, per la loro varietà musicale e per la bravura degli interpreti diretti da Corina Marti (flautista e clavicembalista) e da Michal Gondko (viola da mano, chitarra, liuto). F. B. giugno

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Al calar del sole musica • Prima di Monteverdi, Adriano

Willaert si cimenta con maestria nel genere liturgico dei vespri. Senza però tralasciare le profane chanson francesi, il madrigale e le villanesche...

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compositori hanno spesso dedicato le loro partiture ai vespri, «ora» liturgica celebrata nel tardo pomeriggio: un luogo privilegiato, la cui particolare struttura – 5 salmi, inno, antifona, Magnificat – è stata fonte di ispirazione e banco di prova della loro creatività. Il Vespro della Beata Vergine (RIC 325, 1 CD, distr. www.soundandmusic. it) di Adriano Willaert (1490-1562) è un originale contributo al genere vespertino, ponendosi come anticipazione del capolavoro rappresentato dai Vespri solenni della Beata Vergine di Claudio Monteverdi del 1610. Se in quest’ultimi primeggiano il genere concertato, l’utilizzo degli strumenti, i cori spezzati e il virtuosismo canoro, Willaert esalta il discorso polifonico a cappella, con risultati sorprendenti. Sua è l’applicazione del fortunato genere dei cori spezzati, in cui i salmi sono eseguiti da due cori a quattro voci, che si alternano nel canto dei versetti. Nei salmi scelti per la registrazione, tra l’altro, i versetti sono alternativamente composti da Willaert e da Jacquet di Padova, in un connubio artistico piuttosto insolito. Nel Magnificat prevale la tecnica dell’alternatim tra versi cantati nell’antica monodia

MEDIOEVO

giugno

gregoriana e versetti in polifonia. L’ensemble Capilla Flamenca diretto da Dirk Snellings si cimenta egregiamente in queste musiche. Dotate di una superba pastosità di suono, le otto voci maschili raggiungono una omogeneità e una fusione particolarmente adatte alla fruizione delle linee polifoniche, cosí come dei passaggi monodici tratti dall’antico repertorio monodico.

La produzione profana A Willaert ci conduce anche Chansons, madrigali, villanelle (RIC 331, 1 CD, distr. www. soundandmusic.it), che permette di apprezzare il lato profano della sua produzione, legata essenzialmente alla permanenza presso la corte

ferrarese di Alfonso I d’Este e, in seguito, del figlio Ippolito II d’Este. Qui produsse molte chanson francesi, in un vivace linguaggio imitativo dell’epoca, e madrigali; quest’ultimo è un genere a cui Willaert si dedicò ampiamente accanto a quello delle villanesche alla napolitana. Nella registrazione si ascoltano anche alcuni ricercare, genere strumentale in cui il modello di riferimento è quello vocale. La scelta di affidare i brani vocali a un soprano solista, assegnando le restanti voci a strumenti quali l’arpa, il liuto, viole, flauti, è ineccepibile, e rispecchia una prassi dell’epoca in cui le voci venivano comunemente sostituite dagli strumenti. D’altronde una scelta del genere implica anche una maggiore responsabilità da parte del cantante, che diventa, in tale contesto, il punto focale dell’esecuzione. L’interpretazione del soprano Karelijne Van Laethem lascia talvolta un po’ a desiderare per via di una vocalità forzatamente «antica» e a tratti priva di espressività, riscattata però dagli ottimi elementi dell’ensemble Romanesque, diretto da Philippe Malfeyt, che si alternano in splendidi assolo. F. B.

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