Medioevo n. 196, Maggio 2013

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guala bicchieri paolo diacono corpus domini monteriggioni dossier gli ebrei di germania

Mens. Anno 17 n. 5 (196) Maggio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 5 (196) maggio 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

l’ oro di ashkenaz

€ 5,90

paolo diacono

la storia dei longobardi

immaginario

l’invenzione dell’inferno

monteriggioni

una corona di torri



sommario

Maggio 2013 ANTEPRIMA restauri 22 000 fiorini per un bis mostre La rivelazione si fa testo La presa di Gerusalemme e altre storie La genesi di una svolta epocale Il mecenatismo delle corporazioni appuntamenti Il ritorno dei Longobardi Da nido d’aquila a mercato I buoi contro la peste Ma quante storie! Mori contro cristiani All’assalto, Savoia! L’Agenda del Mese

scienza e tecnologia Lingerie... d’annata

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di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ

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62 corpus domini Orvieto Dal miracolo alla festa di Giuseppe M. Della Fina

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immaginario

La nascita dell’inferno

Il fiume nero dei dannati di Paolo Galloni

62

52 luoghi monteriggioni

16 18 20 21 22 25 26

...di torri si corona

di Cristiano Bernacchi

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CALEIDOSCOPIO

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cartoline L’oro rosa dei Walser

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libri Lo scaffale

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musica Madrigalista e grande innovatore

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Dossier Ashkenaz.

gli ebrei di germania di Chiara Mercuri

STORIE protagonisti Guala Bicchieri

Il viaggio del cardinal Bicchieri di Francesco Colotta

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personaggi Paolo Diacono

Il grande scrivano longobardo di Elena Percivaldi

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Ante prima

22 000 fiorini per un bis restauri • La Porta

A sinistra la Porta Nord del Battistero di Firenze ancora in situ. Come quella del Paradiso, fu realizzata da Lorenzo Ghiberti, che la portò a termine nel 1424. In basso l’autoritratto che Ghiberti inserí tra le sculture che ornano la porta. L’artista appose anche la propria firma, con la formula Opus Laurentii Florentini («Opera di Lorenzo il Fiorentino»).

Nord del Battistero di Firenze, realizzata da Lorenzo Ghiberti per conto dell’Arte di Calimala, ha lasciato la sua collocazione originaria per essere affidata all’Opificio delle Pietre Dure

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opo il restauro della Porta del Paradiso (vedi «Medioevo» n. 188, settembre 2012), è la volta della Porta Nord del Battistero di Firenze realizzata da Lorenzo Ghiberti, tra il 1403 e il 1424, con l’aiuto del padre adottivo, Bartolo di Michele, orefice, e di alcuni collaboratori, tra cui il giovane Donatello. Sebbene fossero passati quasi settant’anni da quando Andrea Pisano aveva scolpito il primo portale per l’edificio romanico, la sua ritmica eleganza stilistica e la sua armonica composizione continuavano ad avere successo; cosí, quando nel 1401 le autorità avevano annunciato un concorso per le seconde porte bronzee, nel regolamento si leggeva che il vincitore avrebbe dovuto seguire la struttura e i lineamenti generali del lavoro di Andrea.

Pannelli di «prova» Ubbidendo alle direttive, Ghiberti riprese fedelmente lo schema gotico del Pisano, con 28 formelle istoriate a cornice mistilinea, disposte in sette file di quattro, due per anta, rappresentanti storie della vita di Cristo, insieme ai 4 Evangelisti e ai 4 Dottori della Chiesa nella parte inferiore. Inizialmente, però, l’Arte di Calimala, la potente corporazione committente, aveva pensato a episodi del Vecchio Testamento e,

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quindi, ai candidati che partecipavano alla competizione si era chiesto di sottoporre pannelli di «prova» raffiguranti il Sacrificio di Isacco. Poco prima di firmare il contratto con il vincitore, fu deciso di cambiare il soggetto, sia per stabilire un legame con la narrazione della vita di san Giovanni Battista, protagonista della prima porta trecentesca, sia per mostrare la posizione centrale occupata da Cristo, visto che l’opera era stata progettata per essere ubicata sul lato est, di fronte all’entrata principale della Cattedrale. L’attuale posizionamento, sul lato settentrionale del Battistero, maggio

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Tre momenti delle operazioni di smontaggio e trasporto della Porta Nord del Battistero di Firenze. Dopo il restauro, il prezioso manufatto sarà collocato nel Museo dell’Opera del Duomo.

fu deciso dopo il completamento della «sorella», nota come Porta del Paradiso, sempre del Ghiberti.

Un cifra astronomica I ricchissimi mercanti di Calimala spesero ben 22 000 fiorini, somma equivalente al budget annuale stanziato per la difesa di Firenze, per la Porta Nord, detta anche della «Croce», il cui telaio contiene, agli angoli delle formelle, 47 testine di Profeti e Sibille, sei per fila tranne l’ultima in basso, che ne presenta solo cinque. Tra queste, l’autoritratto dello stesso autore, agghindato con un vistoso turbante, il quale vi appose anche la propria firma; nell’iscrizione sopra i pannelli dell’Annunciazione e dell’Adorazione dei Magi, si legge infatti: Opus Laurentii Florentini («opera di Lorenzo il Fiorentino»). Ormai, Ghiberti era una «star» ricercata e ben remunerata e, orgogliosamente, dichiarava che «poche cose si fanno in città che non siano visionate o progettate da me». L’artistica prominenza della sua bottega, fucina di talenti del calibro di Paolo Uccello, Michelozzo e Donatello, era indiscussa, come dimostra la colossale cifra pagata per una singola opera, portata a

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maggio

termine in due decadi. Una lunga impresa, quindi, che ci rivela come il linguaggio del Ghiberti si sia arricchito di precisa impostazione prospettica e definizione delle tipologie fisiognomiche, in una graduale progressione verso una narrazione piú dinamica. Abile scultore, l’artista fiorentino eccelle nell’esecuzione dei dettagli e nelle minime variazioni dei rilievi, raggiungendo una delicata unità stilistica.

In attesa della replica Lunghe e complesse sono state le operazioni che hanno permesso la rimozione delle due enormi ante di bronzo del peso di 4 t ciascuna, per

un’altezza di 5 m e una larghezza di 1,50, per essere trasportate nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure. Al loro posto, è stato montato un portale temporaneo in ferro e legno, in attesa della replica ad arte che andrà a sostituire definitivamente l’originale, la cui collocazione finale sarà al Museo dell’Opera del Duomo, a partire dal 2015, quando sarà inaugurato il nuovo percorso espositivo, attualmente in fase di realizzazione. Il manufatto era stato rimosso nel 1943, per motivi di sicurezza, ma è la prima volta, dopo 600 anni, che viene sottoposto a un intervento restaurativo. Mila Lavorini

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Ante prima

La rivelazione si fa testo mostre • Pregiate edizioni della Bibbia

sono protagoniste di una mostra allestita alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Una rassegna, che, insieme ad altre iniziative, invita alla riscoperta della tradizione ebraico-cristiana

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ell’ambito delle celebrazioni per i 1700 anni dell’editto di Costantino, la Pinacoteca Ambrosiana di Milano ha allestito la mostra Il grande alfabeto dell’umanità: codici biblici ed edizioni storiche della Bibbia, che ripercorrono la tradizione ebraico-cristiana, sono esposti accanto a un olio e a grafiche di Marc Chagall (18871985). E, per l’occasione, in altre due sedi cittadine, che fanno capo alla Provincia, sono in calendario conferenze, proiezioni e incontri, pensati soprattutto per il pubblico dei piú giovani. La Biblioteca di Palazzo Isimbardi fa da cornice a vari appuntamenti e alla riproduzione in scala 1:1 della Porta del Paradiso, con le storie scolpite da Lorenzo Ghiberti per il Battistero di Firenze nella prima metà del Quattrocento. Oltre all’opera (5 x 3 m), nelle stesse sale si trovano esemplari della Bibbia in italiano e in altre lingue.

Lo Spazio Oberdan ospita invece il cineforum, curato dalla Fondazione Cineteca Italiana di Milano.

Il senso di un titolo L’Ambrosiana è la sede ideale per una rassegna sulla rivelazione di Dio. E, in occasione dell’inaugurazione, Luca Bressan, Vicario per la cultura dell’Arcidiocesi di Milano, ha spiegato il senso del titolo: «La Bibbia qui è intesa come alfabeto dell’umanità, per la sua capacità di suscitare ascolto e interesse anche nei non credenti,

in contesti secolarizzati, come nel Nord Europa, dove le Scritture sono ritenute credibili e sanno affascinare, anche in qualità di testimonianze antiche». Gianantonio Borgonovo, curatore della mostra assieme a Maria Antonietta Crippa, ha sottolineato invece «il rapporto genetico fra Scritture Sacre e scrittura, al quale

In alto salterio, in greco e latino, Cod. Triv. 2161. XV sec. Milano, Biblioteca Trivulziana. A destra pagine di una edizione dell’Antico e Nuovo Testamento, Codice Vat. Arm. 1. 1625. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Nuovo Testamento, un Libro dei Re etiopico del 1344, con raffigurazioni molto sintetiche. E valgono naturalmente la visita i disegni preparatori della Bibbia di Marc Chagall (1887-1985), e il dipinto del 1948, Exode, interessante perché, in un’atmosfera fra l’inquietante e il sospeso, fonde un tema veterotestamentario, come l’Esodo, con aspetti del Nuovo Testamento, per la presenza di Gesú, sia bambino in braccio a Maria, sia crocefisso. Stefania Romani

si deve la creazione di alfabeti, di lingue scritte. In molte culture la Bibbia è stata infatti un’occasione per inventare un testo scritto, un vocabolario, mettendo di fronte all’impegno di tradurre senza tradire. La Bibbia è la rivelazione fatta testo, in questo senso è l’alfabeto di tutta l’umanità». La parola sacra è anche fonte di immaginazione e di forme di creatività che si evolvono nel corso dei secoli, quindi il messaggio di fondo della mostra, nell’intento degli organizzatori, è quello di non dimenticare il Testo Sacro. E non è un caso che l’allestimento si apra con una citazione di Ezechiele (1,3) sul libro da gustare: «Il libro che è stato cibo per un popolo, è miele dell’umanità intera».

Dove e quando

Edizioni pregiate e rare Fra i codici concessi in prestato dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Vaticana e dalla Trivulziana, sono da segnalare salteri con il doppio testo in greco e latino, alcuni esemplari miniati, con episodi dell’Antico e del

Marc Chagall, Exode, olio e china su tela, 1948. Collezione privata.

«Il grande alfabeto dell’umanità» Milano, Pinacoteca Ambrosiana fino al 30 giugno Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; lunedí chiuso Info www. associazionesantanselmo.org; Provincia di Milano, tel. 02 7740.2420, www.provincia.milano.it

8-9 Giugno 2013 Colle di Val d’Elsa (SI) Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche

Città di Colle di Val D’Elsa

Grande Rievocazione Storica Cinquecentesca

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maggio

INFORMAZIONI www.ilrinascimentodicolle.org segreteria@cersonweb.org tel. +39.345.7583298 Dalle 17,00 alle 24,00 Ingresso € 9,00, ridotti € 6,00 9 Direzione artistica e organizzativa CERS Italia

tracce.com

1592: il trionfo e la bellezza. Colle diventa città


Ante prima

La presa di Gerusalemme e altre storie mostre • Restituito all’ammirazione

del pubblico l’arazzo del XV secolo raffigurante la caduta della città nel 70 d.C. Con altri capolavori del Bargello, ha recuperato lo splendore originario

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ercorsi di meraviglia», mostra allestita nel Museo Nazionale del Bargello di Firenze, ha per protagonista il monumentale arazzo quattrocentesco raffigurante l’Assalto finale a Gerusalemme, tornato a splendere dopo un intervento di restauro impegnativo e innovativo. L’opera, in lana e seta, proviene dalla manifattura di Tournai, uno dei centri fiamminghi piú fiorenti tra il XV e il XVII secolo, celebre per i suoi capolavori dalle linee eleganti e dagli intensi colori. Databile intorno al 1480, l’arazzo giunse al Bargello nel 1888, con la Collezione Louis Carrand, donata dal collezionista francese, grande conoscitore e amante delle cosiddette «arti minori». Imponente per dimensioni (4,32 x 4,02 m) e spettacolare per la vivacità narrativa e cromatica, fu realizzato su un cartone attribuito al Maestro di Coetivy, miniatore noto anche come pittore e disegnatore di vetrate.

rosso e l’azzurro, che con le sue infinite sfumature si posa sulle calde tonalità avorio e beige delle architetture, mentre la presenza del marrone scuro definisce ed esalta la rappresentazione storica. Nelle pareti laterali della stessa sala, sono esposte, a diretto confronto, quattro valve di specchio in avorio trecentesche, di arte francese, insieme a una selezione di oreficerie e smalti, di grande varietà e di grande pregio artistico, sempre appartenenti alla raccolta di arti

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«Percorsi di meraviglia. Opere restaurate del Bargello» Firenze, Museo Nazionale del Bargello fino al 18 agosto Orario tutti i giorni, 8,15-17,00; chiuso il 2° e il 4° lunedí del mese Info tel. 055 2388606; e-mail: museobargello@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it L’arazzo dell’Assalto finale a Gerusalemme. Manifattura di Tournai, 1480 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Un disordine armonioso Quella che descrive la presa di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito, avvenuta nel 70 d.C., è una composizione animata, a tratti innaturale, ma ricca di elementi espressionistici ispirata al De bello iudaico dello storico Giuseppe Flavio. Combattenti vittoriosi o feriti a morte calpestano un prato di fiori variopinti, sul quale s’intrecciano lance e corazze, dando vita a un disordine armonioso. Spiccano il

Dove e quando

applicate del Bargello, restaurate negli ultimi due anni. A seconda della tipologia di oggetto e del diverso stato di conservazione, sono stati effettuati interventi di vario tipo: alcuni hanno richiesto semplici operazioni di pulitura a solvente, come il reliquiario di santa

Caterina; altri esigevano l’applicazione di sostanze complessanti (che agendo cioè sugli atomi o sulle molecole di un composto impediscono determinate reazioni chimiche, n.d.r.), per la rimozione delle efflorescenze saline, come la placchetta con Francesco Sforza a cavallo, la base di calice e la croce astile in rame dorato. La seconda sala dell’esibizione è invece dedicata al grande altorilievo in terracotta policroma raffigurante la Madonna in trono col Bambino e angeli, risalente al 1420 e proveniente dall’Ospedale di S. Maria Nuova, realizzata da Dello Delli. M. L. maggio

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Ante prima

La genesi di una svolta epocale

mostre • Le suggestive architetture di Palazzo

Strozzi accolgono un ricco e articolato percorso espositivo, che, grazie a capolavori di scultura e pittura, ricostruisce l’avvento dell’arte rinascimentale

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affinato esempio di architettura quattrocentesca, Palazzo Strozzi ospita una mostra che illustra, in undici sezioni, la genesi del Rinascimento nel capoluogo toscano, soprattutto attraverso la scultura, arte che per prima se ne è fatta interprete. Partendo dalla riscoperta dell’antico nella «rinascita» che, a cavallo tra Duecento e Trecento, ebbe come protagonisti Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio, si passa all’assimilazione della ricchezza espressiva del Gotico, di derivazione A sinistra Desiderio da Settignano, Busto marmoreo di Marietta Strozzi. 1464 circa. Berlino, Staatliche Museen, BodeMuseum.

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francese, per giungere, infine, all’alba del Rinascimento; il tema è esplicitato nella prima parte del percorso dove troviamo le due formelle «di prova» con il Sacrificio di Isacco di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi eseguite per il concorso indetto nel 1401 per la seconda porta del Battistero fiorentino e il modello della Cupola brunelleschiana. In quegli anni, gli scritti di grandi umanisti diffondono il mito di Firenze come erede dell’antica Roma e come modello per gli altri Dove e quando

«La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460» Firenze, Palazzo Strozzi fino al 18 agosto Orario tutti i giorni, 9,00-20,00 (giovedí apertura serale fino alle 23,00) Info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org maggio

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A destra Filippo Lippi, Madonna col Bambino. Tempera su tavola, 1460 circa. Firenze, Palazzo Medici Riccardi. Nella pagina accanto, in alto Gentile da Fabriano, Presentazione di Gesú al Tempio. Tempera e oro su tavola, 1423. Parigi, Museo del Louvre. Stati italiani, grazie ai successi politici e alla potenza economica della Repubblica fiorentina, oltre alla pace sociale.

Pittura «scolpita» Le piú alte testimonianze di questa esaltazione e dei suoi protagonisti sono le monumentali committenze scultoree pubbliche realizzate da Donatello, Ghiberti, Nanni di Banco e Michelozzo, nei grandi cantieri della città, come la Cattedrale e la chiesa di Orsanmichele: una Romanitas civile e cristiana che influenzò profondamente la pittura «scolpita» di artisti come Masaccio, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e Filippo Lippi. E se da una parte i temi antichi vengono riformulati

secondo il moderno linguaggio che esprime il clima spirituale e intellettuale della città, con il suo fervore creativo, dall’altra la ricerca di uno spazio «razionale» e l’invenzione della prospettiva brunelleschiana trovano proprio nella scultura le loro soluzioni piú avanzate, in particolare nei bassorilievi donatelliani, come la predella del San Giorgio e il Banchetto

di Erode di Lille. Fin dagli anni Venti del Quattrocento, i nuovi canoni stilistici, adottati dai grandi maestri ed evidenziati da capolavori, come la Madonna Pazzi di Donatello a Berlino o la Madonna di Fiesole, attribuita al Brunelleschi , si moltiplicano attraverso una notevole produzione di rilievi (in marmo, stucco, terracotta policroma e «robbiane»), destinati alla devozione privata, che consentono una capillare diffusione del gusto per la bellezza «nuova» in ogni strato sociale. È, però, nei luoghi di solidarietà e di preghiera come chiese, confraternite e ospedali che si concentra la committenza artistica piú prestigiosa, creando un perfetto connubio tra Bellezza e Carità. Attorno al simbolo assoluto della città, il modello ligneo della cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi, il percorso espositivo presenta dunque tipologie scultoree determinanti anche per l’evoluzione delle altre arti figurative, a diretto confronto con i classici. (red.)

LO LEGGI COME TI PARE

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maggio

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IN ORIZZONTALE...


Ante prima mostre • L’importanza

dell’iconografia nella comunicazione era molto sentita nella Firenze comunale e repubblicana. Ora un’esposizione illustra la complessa simbologia delle raffigurazioni su commissione

Il mecenatismo delle corporazioni L

evangelici come l’Incredulità di San Tommaso, icona collegata all’amministrazione della giustizia e all’accertamento della verità, qui presente con l’affresco di Giovanni Toscani staccato dal Palazzo dei Vicari di Scarperia. Alcuni rari disegni rinascimentali e l’affresco con la cacciata del duca d’Atene proveniente dall’antico carcere delle Stinche (oggi a Palazzo Vecchio) illustrano invece il genere delle pitture murali infamanti, situate in luoghi pubblici che illustravano, spesso con dettagli raccapriccianti, fatti e personaggi invisi alla città.

a Galleria dell’Accademia di Firenze ospita una esposizione di cui sono protagoniste le opere d’arte nate originariamente per arricchire sia i palazzi pubblici fiorentini, sia gli edifici sedi delle Arti, cioè le antiche corporazioni dei mestieri, o delle magistrature, e addirittura la cerchia di mura cittadine. Temi come l’araldica e la religione civica, legati ai luoghi emblematici della città come il Palazzo dei Priori e Orsanmichele, offrono dunque una nuova chiave di lettura che sottolinea l’importanza delle immagini nella comunicazione e nella propaganda delle fazioni che governavano in età comunale e repubblicana, prima che l’ascesa dei Medici modificasse profondamente l’assetto politico ed estetico del capoluogo toscano.

Simboli araldici

Madonne, santi ed episodi evangelici Il percorso espositivo ci rivela un linguaggio figurativo complesso, ricco di riferimenti allegorici, dove sacro e profano si compenetrano, anche se sono soprattutto le rappresentazioni religiose a essersi salvate dall’ingiuria del tempo, come testimoniano le numerose raffigurazioni della Madonna in Maestà, dei santi patroni, o di episodi

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Qui sopra Giovanni di Francesco Toscani, Incredulità di San Tommaso. 1420 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia. In alto borse in pelle utilizzate per l’elezione dei Priori. XV sec. Firenze, Archivio di Stato.

Al contrario, la piazza del mercato, poi trasformata alla fine dell’Ottocento in spazio di incontri culturali, era decorata con soggetti ben augurali come la statua della Dovizia eseguita da Donatello in epoca rinascimentale; l’opera, se pur perduta, è documentata da derivazioni realizzate nei secoli successivi, mentre le porte cittadine e le stesse mura recavano simboli araldici a celebrazione di Firenze e dei suoi alleati. Particolare rilievo è dato, però, alle Arti, vero motore economico della Firenze comunale e committenti delle piú importanti imprese maggio

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O IN VERTICALE artistiche fiorentine tra cui la chiesa di Orsanmichele che, da iniziale magazzino del grano, fu progressivamente convertita in luogo di culto e scrigno di pregiatissime sculture gotiche e rinascimentali; a distanza di due secoli sono state riunite le tavole dei santi patroni che, originariamente, erano collocate sui pilastri dell’edificio.

Libro dei Vangeli, manoscritto con coperta d’argento. XIV-XV sec. Firenze, Archivio di Stato.

Da san Cristoforo a Ercole Le corporazioni gestivano di fatto il potere politico, tanto che l’iscrizione a una di esse era condizione imprescindibile per poter partecipare alla vita politica della città; e per i Priori delle Arti fu eretto Palazzo dei Priori, noto come Palazzo Vecchio, dove oltre a rappresentazioni di san Cristoforo e della Ruota della Fortuna, si potevano incontrare l’eroe mitologico Ercole, presente nel sigillo ufficiale della città, accanto all’eroico David, il cui esemplare scolpito da Michelangelo, conservato proprio alla Galleria dell’Accademia, conclude idealmente il percorso. La mostra si propone anche come occasione per valorizzare il territorio segnalando edifici e siti per i quali vennero realizzate le opere esposte, favorendone la conoscenza e la fruizione. (red.) Dove e quando

«Dal giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento» Firenze, Galleria dell’Accademia fino all’8 dicembre (dal 14 maggio) Orario martedí-domenica, 8,15-18,50; chiuso lunedí Info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it

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Ante prima

Il ritorno dei Longobardi appuntamenti •

Cividale del Friuli si appresta a rivivere le atmosfere dell’epoca di Alboino e di Gisulfo: due giorni di dibattiti, attività didattiche e ludiche, in uno scenario che riporta le lancette del tempo al 568

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U

n tuffo nel Medioevo, in pieno VI secolo, con campo storico, attività ludico-rievocative e didattiche, eventi spettacolari e un grande convegno di approfondimento. Protagonisti assoluti i Longobardi, nello scenario di Cividale del Friuli (Ud), capitale del primo ducato di un regno, quello longobardo appunto, destinato a lasciare – nonostante sia durato solo due secoli, dal 568 al 774 – un’impronta indelebile nella storia e nell’identità friulana e italiana. L’evento è di grande attualità e importanza, considerando il recente ingresso nella lista del Patrimonio Universale dell’Umanità UNESCO del sito seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del Potere (568-774 d.C.), che comprende sette siti in tutta Italia, uno dei quali è proprio Cividale del Friuli con il Tempietto Longobardo, i resti del Complesso Episcopale rinnovato da Callisto e il Museo Archeologico Nazionale che espone i corredi delle necropoli longobarde locali. Anno Domini 568. Cividale Primo Ducato – questo il titolo della manifestazione storico-rievocativa – si terrà l’11 e il 12 maggio nel cuore

dell’antico borgo, nella suggestiva cornice del chiostro di S. Francesco e del Belvedere sul Natisone, nei pressi del Ponte del Diavolo. Mentre nelle sale del chiostro docenti universitari e studiosi da tutta Italia tratteranno i vari aspetti della civiltà longobarda e del suo impatto sul territorio, al Belvedere sarà allestito un grande campo storico con scene di vita quotidiana e artigianato per immergersi nell’atmosfera dell’epoca.

Artigiani e guerrieri Aggirandosi tra le tende dell’accampamento, animate dai rievocatori dei gruppi storici La Fara e Fortebraccio Veregrense – che da anni collaborano con enti pubblici, musei e istituzioni in tutto il Paese –, una ventina di figuranti in abiti ricostruiti filologicamente nei minimi dettagli mostrerà al pubblico le occupazioni della giornata, le attività artigianali, l’abbigliamento tipico delle donne e del guerriero. Si vedranno all’opera fabbri e artigiani, alle prese con attività di forgia di armi e oggetti, tessitura, cucina e creazione di bellissimi maggio

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manufatti. Valorosi guerrieri daranno prova della loro abilità nel lancio della scure, nel tiro con l’arco e sfidandosi a duello con stage aperti anche al pubblico. Durante i due giorni un esperto accompagnerà i visitatori all’interno dei campo in una «visita guidata» nella Storia. La sera, infine, sarà possibile inoltre ascoltare le antiche leggende delle origini dei Longobardi seduti attorno al fuoco a pochi passi dal Natisone. In programma – per quanto riguarda la parte rievocativa – anche eventi altamente spettacolari come la nomina, da parte di re Alboino, di Gisulfo a primo duca di Cividale, l’ordalia – ossia il combattimento tra due guerrieri, col vincitore decretato dal «giudizio di Dio», secondo la tradizione germanica – e la rappresentazione di un tipico rito funebre longobardo. Per quanto concerne invece la parte Nella pagina accanto figuranti dei gruppi storici La Fara e Fortebraccio Veregrense nei panni di un gruppo di guerrieri pronto a dar vita a un combattimento. In basso rievocazione della cerimonia funebre celebrata in occasione della sepoltura di un capo longobardo.

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scientifica, che si svolgerà nella sala conferenze di S. Francesco, sono previsti due giorni intensi di lavori che apriranno sabato 11 maggio alle ore 10,00. Dopo l’intervento delle autorità, inizieranno le relazioni degli studiosi.

La parola agli studiosi Elena Percivaldi (storica e scrittrice) parlerà de I Longobardi tra storiografia e mito, Fabio Pagano (Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli) farà un resoconto de Le recenti acquisizioni cividalesi: la necropoli Ferrovia, infine Maurizio Buora (Società Friulana d’Archeologia) tratterà il tema Aquileia nel 568 d.C. Dopo la pausa pranzo, si ricomincia alle 15,00 con Franco Fornasaro (medico e scrittore) sugli Elementi di tradizione orale nelle cure mediche delle donne longobarde; a seguire Paolo Galloni (storico e scrittore) su La memoria dei Longobardi e Marco Valenti (Università di Siena) con VI-IX secolo: modelli insediativi nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale. Domenica 12 maggio il convegno sarà aperto alle 10,30 da Antonella Pizzolongo (docente e artigiana) sul tema Fili d’oro; dalle tracce tessili longobarde alla ricostruzione

dei tessuti; a seguire l’intervento di Angela Borzacconi (archeologa) su La città di Cividale in età longobarda. La mattinata di studio si chiuderà con la proiezione del video Terre e genti del Patriarcato di Aquileia, Missione Europa. I lavori riprenderanno alle 15,00, con gli interventi di Chiara Magrini (Università di Trieste) su L’edilizia abitativa nei contesti urbani del ducato del Friuli e di Federico De Renzi (turcologo e islamista) su Tumuli o Kurgan? I Protobulgari nell’Italia longobarda e bizantina (VII-VIII sec. d.C.). Chiuderà il convegno Vasco La Salvia (Università di Chieti) con La diffusione della staffa nell’area merovingia orientale: il contributo di Avari e Longobardi.

La cabina di regia dell’evento La manifestazione Anno Domini 568. Cividale Primo Ducato è organizzata da Associazione La Fara, Gruppo Popolani di Cividale, Gruppo Storico Fortebraccio Veregrense e Perceval Archeostoria con la coordinazione scientifica di Elena Percivaldi – già direttore scientifico del Luglio Longobardo di Nocera Umbra (Pg) – , in collaborazione con Gabriele Zorzi e Gianluigi Sinuello, e si avvale del Patrocinio istituzionale di Comune di Cividale, Provincia di Udine, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, FriuLIVEneziaGiulia Turismo, e culturale del mensile «Medioevo» e di Associazione Culturale Italia Medievale, Società Friulana d’Archeologia, CTG e Longobardia Regione Virtuale Europea, e della partecipazione del Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli. Durante la manifestazione sarà possibile acquistare libri, materiali, manufatti e pubblicazioni sul tema. Sono inoltre previsti sconti e convenzioni con alberghi e servizi di ristorazione per chi partecipa. Per informazioni, si possono contattare gli organizzatori scrivendo a infoad568@lafara.eu, telefonando al numero 328 3119698, oppure visitando il sito http://ad568. jimdo.com (red.)

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Ante prima Veduta del castello di Gropparello, in provincia di Piacenza.

Da nido d’aquila a mercato appuntamenti • Il castello di Gropparello, in provincia di Piacenza,

ospita il Mercato medievale: evento organizzato per rivivere l’Età di Mezzo, tra botteghe artigiane, banchetti e ricostruzioni in costume. Con uno sguardo dedicato anche ai piú piccoli

È

un mercato ricco di colori, profumi, voci, che danno un senso di festa e invitano al coinvolgimento. Perché l’obiettivo della manifestazione che domenica 12 maggio ha come cornice il castello di Gropparello (Piacenza) è quello di richiamare le famiglie, per avvicinarle all’Età di Mezzo, ai suoi valori e ai diversi volti dell’artigianato artistico. Grazie alle attività promosse nella fortezza piacentina, sempre attente alla didattica, oltre il ponte levatoio irrompe la quotidianità del Medioevo, in maniera particolare quella legata alla vita della corte, al mondo delle arti minori e all’universo della musica. L’appuntamento fra i banchi e le botteghe si ripete dal 1996, ridando vita, assieme ad altre iniziative, a un castello guelfo dell’VIII secolo, nel quale hanno vissuto generazioni di Pallavicino, Sforza, Attendolo. Il fortino, che mantiene intatto l’impianto

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originario, per i condizionamenti imposti dall’ambiente, con il dirupo da un lato e le colline dall’altro, è nato come un nido d’aquila, con l’obiettivo di difendere la via che portava alla cittadella di Velleia. Dei primi secoli rimangono la cinta muraria all’esterno, il doppio ponte levatoio, le cucine sotterranee, le sale da pranzo cortesi, a cui si sono aggiunti diversi camini monumentali. Poi ci sono gli ambienti rinascimentali, dallo studiolo all’alcova cinquecentesca, oggi sala da musica.

A destra e in basso, sulle due pagine immagini del mercato medievale che ogni anno anima il castello di Gropparello.

Tutti i mestieri dell’Età di Mezzo Agli artigiani che hanno animato le prime edizioni del mercato se ne sono aggiunti altri, con specializzazioni diverse. E cosí nel parco si mettono all’opera figure classiche, come la tessitrice che crea stoffe e tappeti al telaio, lo scalpellino che lavora la pietra, incidendo motivi ornamentali e frasi, il mugnaio che mostra come alla macina diventino farina i vari tipi di grano, partendo dalla

Un ricco programma, per tutte le età Per informazioni sul Mercato medievale e sulle altre attività che si svolgono al castello di Gropparello (PC) – che ospita il Parco delle fiabe, primo parco emotivo d’Italia –, aperto da marzo a novembre: www. castellodigropparello.it, tel. 0523 855814. Fra i prossimi appuntamenti in calendario, possiamo segnalare Lo sposalizio a corte, il 2 giugno, con sbandieratori e cortigiani in costume; il 7 giugno L’Attila di Giuseppe Verdi, concerto itinerante sia nel maniero che nel parco, inaugura le celebrazioni verdiane, che contano altre date il 6 luglio e il 10 agosto.

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In programma figurano anche banchetti medievali in costume nella taverna della fortezza, feste come quella dell’uva di settembre, e poi «incontri», a misura di bambino, con il mago Merlino.

battitura delle spighe. Vanno quindi in scena il ricamo, la filatura della lana, la vendita delle indulgenze, la fatica della «bugandera», che fa il bucato con la cenere, usando l’asse di legno per battere i panni che alla fine vengono stesi sul prato. Ma ci sono anche l’artigiano che rammenda le reti da pesca, il cambiavalute, che insegna il valore e il senso dello scambio, il notaio, che per iscritto notifica appunto adozioni, passaggi di proprietà, acquisti di beni immobili. Quest’anno, per la prima volta, si assisterà anche al baratto. Per la compravendita di primavera, che ricorda le giornate in cui dai borghi circostanti e dalle campagne arrivavano a corte tante persone per proporre i loro prodotti migliori, tutto si svolge in costume, con attori che si esprimono in un linguaggio arcaico, alcuni giocando con scioglilingua, altri ricorrendo a espressioni molto piú elementari. Stefania Romani

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I buoi contro la peste appuntamenti • Nel 1436, Asigliano

Vercellese fu colpito da una terribile pestilenza. I suoi abitanti fecero voto a san Vittore perché li liberasse dal male, e, ottenuto il «miracolo», organizzarono una singolare corsa in onore del proprio patrono...

A

sigliano Vercellese, piccolo borgo in cui è ancora prevalente l’economia agricola e in particolare la coltivazione del riso, si anima ogni anno, nella seconda domenica di maggio (quest’anno il 12) in occasione della festa patronale di san Vittore. Abitato di origine romana, passato durante il Medioevo dal vescovo di Vercelli ai Visconti e infine ai Savoia, nel 1436 il paese fu flagellato da una terribile pestilenza, che portò morte e desolazione. Disperati, i suoi abitanti supplicarono il patrono san Vittore, con la promessa di dedicargli una corsa di buoi in segno di gratitudine. Secondo la leggenda popolare, il santo esaudí le preghiere della

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popolazione e la peste cessò. Per sciogliere il proprio «voto», gli Asiglianesi organizzarono cosí una corsa dei buoi, una tradizione giunta ai giorni nostri nonostante le numerose devastazioni subíte da Asigliano nel corso dei secoli; in particolare nel 1545, quando il Comune, la Parrocchia e il Castello furono distrutti.

Una festa dalle radici antiche In seguito il borgo venne ricostruito e riprese le sue abitudini: nei secoli successivi alcuni documenti

confermano che, durante i festeggiamenti del patrono, si facevano correre quattro carri trainati da buoi e, terminata la corsa, nell’oratorio di S. Vittore veniva distribuito il pane benedetto. Oggi, a mezzogiorno del secondo sabato di maggio, al suono festoso delle campane si procede all’incanto

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Ma quante storie!

È

lecito far ruotare un racconto intorno a uno scriptorium in un’epoca in cui gli scriptoria erano ormai scomparsi? Si può vestire la sposa di Carlo Magno con gli abiti della Dame à la licorne? E ambientare una storia di Templari in Castel del Monte? Oppure rappresentare Federico II immancabilmente col falcone sulla spalla ogniqualvolta l’imperatore svevo entri in scena? La ricostruzione storica del Medioevo e la sua proiezione nell’immaginario letterario si intrecciano continuamente, rincorrendosi senza toccarsi quasi mai. Eppure, giudizio stilistico e letterario a parte, lo spirito del Medioevo travalica il rigore filologico della ricostruzione e emerge potentemente anche quando è tradito. E, d’altro canto, anche lo storico di professione si muove in bilico tra i fatti e la loro narrazione, condizionato dalle sue fonti e auctor a sua volta del passato che reinterpreta. È proprio in questo agone tra finzione e realtà che si confronteranno alcuni tra i piú affermati medievisti italiani e narratori di chiara fama in una iniziativaevento dal titolo, evocativo in sé, Medioevo quante storie!, organizzato dalla Scuola nazionale di studi medievali, nella bella cornice di Palazzo Borromini, presso la sede dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo.

Nella pagina accanto due immagini della corsa dei buoi che si disputa ogni anno ad Asigliano Vercellese. dei carri che daranno vita, il giorno successivo, alla corsa dei buoi. Il rito viene celebrato in Municipio alla presenza dei priori, delle autorità comunali capeggiate dal sindaco e dalla popolazione asiglianese che gremisce la sala del consiglio comunale. Nei secoli passati, quando i buoi abbondavano nelle campagne, molti contadini desideravano partecipare all’impegno preso per sciogliere il «voto» a san Vittore, perciò, sul finire del Settecento, i priori escogitarono questa forma di introito che li aiutasse a sostenere

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Proprio l’ISIME, tempio della ricerca storica e delle edizioni delle fonti medievali, si apre per la prima volta, e con una proposta del tutto innovativa, al confronto con il «Medioevo altro» della letteratura e della narrativa. L’evento si articolerà in tre incontri, distribuiti in due giornate: martedí 21 maggio (ore 16,00) Massimo Oldoni dialoga con Tommaso di Carpegna Falconieri e modera Gabriele Pedullà; mercoledí 22 maggio, a partire dalle ore 11,00, si incontrano Franco Cardini e Teresa Buongiorno, Alessandro Barbero e Valerio Massimo Manfredi, con Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey moderatori dei rispettivi dialoghi. L’iniziativa si inserisce nella V settimana di Studi medievali, dedicata alla celebrazione dei 130 anni dalla nascita dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, che si concluderà con una terza giornata di studi, giovedí 23 maggio, dal tema Come pubblicare le storie: 1883..., nella quale alcuni specialisti – storici e filologi – rifletteranno sull’importanza della pubblicazione delle fonti e sulla diversa ricezione da parte dei vari settori disciplinari. Parteciperanno Giampaolo Francesconi, Francesca Roversi Monaco, Gian Mario Anselmi, Vincenzo Fera, Gianmaria Varanini e Francesco Tateo. (red.)

le spese per realizzare la festa. Ancora oggi l’asta si svolge offrendo emine di grano. L’emina è un’antica misura agraria vercellese introdotta verso la metà del XVII secolo, pari a 23,005556 l; si divide poi in 16 coppi di Vercelli, pari a 1,43847 l ciascuno, e in quarti di coppo, pari a 0,35946 l.

Tutto in venti secondi Oggi alcuni agricoltori partecipano all’incanto per accaparrarsi il carro trionfale del pane oppure uno dei quattro carri per la corsa, per sciogliere un «voto» personale contratto con san Vittore. Il giorno successivo, dopo la Messa mattutina, verso mezzogiorno, la popolazione locale si ritrova

lungo il corso che attraversa il paese per la corsa dei quattro carri, condotti ognuno da una coppia di buoi. Una corsa che si consuma in appena venti secondi, dopodiché si procede alla distribuzione del pane benedetto e dei beneauguranti nastri colorati posti sul carro trionfale. Attorno alla festa religiosa, il Comitato Folkloristico Asiglianese è impegnato nell’organizzazione di manifestazioni civili: collettive di pittura, mostre di macchine agricole e auto, serate danzanti e gastronomiche, una corsa ciclistica e una podistica. Per la parte civile si parte al venerdí per chiudere i festeggiamenti al martedí. Tiziano Zaccaria

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Mori contro cristiani

appuntamenti • Lleida, in

Catalogna, è teatro della rievocazione storica in cui due fazioni sfilano per la città, per ricordare la liberazione dal dominio musulmano avvenuta nel XII secolo

T

erzo centro della Catalogna per popolazione, Lleida è una delle città piú antiche della Spagna: dopo i primi insediamenti dell’età del Bronzo, fu il principale abitato degli Ilergeti dal VI secolo a.C. fino alla conquista dei Romani. Nel 716-719 Lleida venne invasa e conquistata dai musulmani, che la governarono fino alla liberazione, nel 1149, per opera delle truppe di Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona. E proprio al periodo della reconquista cristiana è legata la piú importante festa cittadina, quella dei Moros y Cristianos, che si svolge in un week end di metà maggio, quest’anno dal 17 al 19. La commemorazione risale al 1150, anno successivo alla liberazione dai mori, quando in città si celebrarono le nozze di Peronella d’Aragona e Raimondo Berengario IV. Quelle feste divennero una ricorrenza annuale: se ne trovano riferimenti nel 1458, in occasione della visita di re Alfonso il Magnanimo, e nel 1481,

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durante la visita della regina Isabella la Cattolica.

Tre gruppi per ogni fazione Verso la fine del XIX secolo la festa divenne una rievocazione della liberazione dal dominio musulmano, con la rappresentazione delle lotte delle truppe cristiane per (segue a p. 25)

In alto veduta della città di Lleida, dominata dalla mole della Seu Vella, la cattedrale gotica, ultimata nel 1278. Qui sopra un momento della festa Moros y Cristianos, organizzata ogni anno, nel mese di maggio, per ricordare la reconquista della città catalana da parte dei cristiani.

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riconquistare la città. Oggi ognuna delle due fazioni è composta da tre gruppi: Musa, Banu-Hud e Alleridi per i mori, Urgellencs, Anglesola e Pallaresos per i cristiani, nomi che rappresentano i rioni cittadini dell’età medievale. Ogni fazione ha una bandiera: quella dei mori è verde con una frangia d’oro che simboleggia il fiume Segre, che all’epoca aveva oro nelle sue acque, con una mezza luna e la stella a cinque punte negli angoli; quella dei cristiani è bianca, con la croce rossa di san Michele, patrono di Lleida. Nel corteo storico che attraversa la città, i portabandiera sono affiancati dai rispettivi capitani. Altri figuranti importanti sono il Barone per i cristiani e lo Sceicco per i mori, responsabili dell’organizzazione delle sfilate. E, dietro di loro, centinaia di comparse militari sono organizzate in schiere di sei persone, guidate dal caporale di schiera.

Prima i bambini e poi gli adulti Il programma di quest’anno prevede per venerdí 18 maggio, alle 19,30, le «ambasciate» nella piazza di fronte al Municipio: si tratta di dialoghi tra gli ambasciatori di mori e cristiani, solitamente scritti da storici locali, nei quali non mancano riferimenti satirici all’attualità cittadina. Nella mattina di sabato 19 ci sarà l’entrada infantil, con protagonisti i bambini in costumi storici, che, accompagnati dagli adulti, arriveranno in piazza San Joan accolti dalla banda. In serata si svolgeranno i «parlamenti», umoristici scontri verbali nel palcoscenico della Seu Vella, l’antico castello cittadino. Domenica 19, alle 18,30, inizierà l’entrada di gala, ovvero il grande corteo storico per le vie del centro, che si concluderà in serata, alle 21,30, presso il Duomo Vecchio con la Battaglia per la conquista della città, che ha come caratteristica l’alternarsi di vittorie e sconfitte fra le due fazioni, al contrario delle rievocazioni simili in Spagna, che si limitano a commemorare la vittoria di una sola delle due parti. T. Z.

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All’assalto, Savoia! I

l 18 e 19 maggio torna Revello Maggio Castello, la rievocazione dell’assedio del castello piemontese di Revello avvenuto nel 1588, quando il maniero era in mano ai Francesi e le forze del duca di Savoia Carlo Emanuele I lo attaccarono per riconquistarlo. Nel castello di Revello, custodito dal comandante della piazza, Vernet, si rinchiuse il governatore francese la Vallet, preparandosi a resistere. Alla fine, fra cannoneggiamenti, strategici appostamenti delle forze sabaude lungo le colline che sovrastano il paese, diplomazia e atti eroici, i Francesi si arresero ai Savoia. Qutest’anno, attorno alla rievocazione storica, ruoteranno vari eventi. Il programma di Revello Maggio Castello prevede per sabato 19, alle 14,00, l’apertura di un mercatino per appassionati di materiale per rievocazioni storiche; dalle 15,00, in piazza Vittoria, raduno mondiale di tutti quelli che hanno come cognome Revello (sparsi fin dal Medioevo nel mondo, partendo dal paese piemontese) e mercato rinascimentale; in piazza San Rocco, accampamento medievale; in piazza Denina, l’angolo della scienza, dove verranno spiegate le teorie di Galileo Galilei; in via Giolitti, danze rinascimentali; in via Vittorio Emanuele III e via Vittorio Emanuele II, antiche botteghe e attività artigianali del Cinquecento; alle 17,00, il vescovo, con i monaci cistercensi, benedirà le truppe assedianti; alle 20,00, esercitazioni con prove di picche e spada; dalle 21,00, Notte Rossa, per ricordare l’incendio del castello avvenuto nel 1588 (tutti i lampioni saranno coperti con stoffa rossa e la collina sarà illuminata utilizzando luci rosse), e Festa Occitana, con musica, danza e teatro. Domenica 15, alle 10,15, concerto di corte in via Vittorio Emanuele II; alle 11,00, Santa Messa, con la partecipazione dei figuranti; alle 15,00 antico mercato coperto con canti rinascimentali; alle 16,00, è in programma la rievocazione storica dell’assedio del 1588; e, alle 17,00, in collegiata, concerto del coro Envie de Chanter. T. Z.

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agenda del mese

Mostre padova Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento U Palazzo del Monte di Pietà fino al 19 maggio

Dedicata a Pietro Bembo, la mostra riporta a Padova, dopo cinque secoli, i capolavori della collezione che l’intellettuale veneto, poi divenuto cardinale, aveva riunito nella propria casa, ancora esistente nell’attuale

via Altinate (oggi sede del Museo della Terza Armata). A partire dai primissimi anni Trenta del Cinquecento, Bembo aveva riunito dipinti di maestri come Mantegna e Raffaello, sculture antiche di prima grandezza, gemme, bronzetti, manoscritti miniati, monete rare e medaglie. La ricchezza e varietà degli oggetti d’arte, raccolti per gusto estetico, ma anche come preziose testimonianze per lo studio del passato, rese agli occhi dell’Europa del tempo

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a cura di Stefano Mammini

la casa di Bembo come «la casa delle Muse» o «Musaeum», precursore del moderno museo. info tel. 049 8779005; e-mail: info@coopbembo. com; www.mostrabembo.it londra Barocci: Brilliance and Grace U The National Gallery fino al 19 maggio

Prima importante rassegna monografica dedicata all’arte di Federico Barocci (1535-1612), la mostra comprende la maggior parte dei dipinti e delle pale d’altare, insieme alle sequenze di disegni preparatori. Fra le opere piú importanti, ci sono le pale d’altare piú spettacolari dell’artista: la Sepoltura di Cristo, da Senigallia, e l’Ultima Cena, dipinta per la cattedrale di Urbino. Al loro fianco vengono presentate altre due meravigliose pale d’altare piú recenti, commissionate per le chiese romane: la Visitazione, proveniente dalla Chiesa Nuova, e l’Istituzione dell’Eucarestia, da S. Maria sopra Minerva. info tel. +44 (0) 20 77472885; e-mail: information@ng-london. org.uk; www. nationalgallery.org.uk firenze NORMA E CAPRICCIO. SPAGNOLI IN ITALIA AGLI ESORDI DELLA «MANIERA MODERNA» U Galleria degli Uffizi fino al 26 maggio

Primo evento espositivo dedicato all’attività degli artisti spagnoli

approdati in Italia fra l’inizio del Cinquecento e gli anni Venti del secolo, partecipi del fervido clima culturale animato a Firenze, a Roma e a Napoli. Nel numero di queste personalità, spinte al viaggio da un vorace desiderio di confronto con i testi fondamentali dell’arte moderna, si contano figure come

come protagonisti del «manierismo» europeo. info tel. 055 2388651; www.polomuseale. firenze.it. Roma Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga U Chiostro del Bramante fino al 2 giugno

Attraverso le opere di Pieter Brueghel il Vecchio e della sua genealogia, la mostra documenta l’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento, alla ricerca del genio visionario di cinque generazioni di artisti. Un’opportunità imperdibile per apprezzare opere

straordinarie, per la prima volta in Italia, come Le sette opere di misericordia di Pieter Brueghel il Giovane, I sette peccati capitali o Il ciarlatano della scuola di Hieronymus Bosch. E proprio dal rapporto che con Bosch ebbe il capostipite dei Brueghel, Pieter il Vecchio, inizia il racconto della dinastia che, con la sua visione disincantata dell’umanità, ha segnato la storia dell’arte europea dei secoli a venire. info e prenotazioni tel. 06 916508451 www.brueghelroma.it; biglietteria on line www.ticket.it/brueghel

Alonso Berruguete, Pedro Machuca, Pedro Fernández (piú noto come Pseudo Bramantino), Bartolomé Ordóñez e Diego de Silóe, provenienti da varie località della Penisola iberica – Palencia, Toledo, Murcia, Burgos – e capaci di imporsi

mostre • Esposizione straordinaria delle lunette del U Firenze – Museo di San Marco, Sala del Lavabo

fino al 30 giugno (prorogata) info www.polomuseale.firenze.it

È

stata prorogata, fino al 30 giugno, l’esposizione, nella Sala del Lavabo del Museo di San Marco, di due lunette affrescate dal Beato Angelico, staccate in antico dal chiostro di S. Antonino. Si tratta della lunetta con San Pietro martire che invita al silenzio, proveniente dalla parete sopra la porta di comunicazione tra il chiostro e la chiesa, e di quella con Cristo pellegrino accolto da due domenicani, che era collocata nella

parete sopra la porta di accesso nell’antico Ospizio dei Pellegrini. Non si tratta di una mostra, ma di un’occasione conoscitiva offerta dal Museo e, al tempo stesso, di un’operazione di valorizzazione delle proprie opere, grazie al sostegno della Fondazione Friends of Florence, che ne ha finanziato il restauro. Il loro recupero rientra nell’ ambito del progetto di intervento nell’intero chiostro, intrapreso da tempo dalla Soprintendenza con l’insostituibile

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Treviso Tibet. Tesori dal tetto del mondo U Casa dei Carraresi fino al 2 giugno

La storia del Tibet viene ripercorsa in Casa dei Carraresi, dove si possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico. Il percorso si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe, carte geografiche e documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Ampio spazio è quindi riservato alle divinità buddhiste tibetane. Accanto alla statuaria, sono esposti anche gli oggetti di

culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info parigi Lacrime d’alabastro. I piangenti della tomba di Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna U Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 3 giugno

Capolavoro della scultura quattrocentesca, il sepolcro di Giovanni Senza Paura fu

commissionato da suo figlio, Filippo il Buono, allo spagnolo Jean de la Huerta, che, nel 1443, diede avvio al cantiere. I lavori, però, si protrassero per oltre un quarto di secolo, e

la tomba fu ultimata sotto la direzione di Antoine Le Moiturier. Il modello del sepolcro avente un basamento decorato da personaggi a rilievo nell’atto di dolersi – e perciò detti «piangenti» – aveva già fatto la sua comparsa nel corso del XIII secolo e aveva un precedente d’eccezione nella tomba di Filippo l’Ardito, per il quale Giovanni Senza Paura nutriva grande ammirazione. Nella

concezione di de Marville e grazie allo scalpello di Sluter, prese forma, per la prima volta, un corteo di sculture indipendenti che, come nella galleria di un chiostro, si snoda intorno al sepolcro. La consegna d’ispirarsi all’illustre precedente di Filippo non frenò la vena dei due artisti, capaci di conferire a ciascuna delle figure, in tutto sono 39, espressioni singolari e sempre nuove, caratterizzate, di volta in volta, dalla varietà degli atteggiamenti e dal panneggio delle vesti. Immortalati in una sorta di movimento perpetuo, questi piangenti in alabastro – perché è questa la preziosa materia prima scelta per la loro realizzazione, impreziosita da rifiniture in oro zecchino e colore – esprimono la tristezza dei viventi, il cui compianto per i defunti si fa eterno. info www.musee-moyenage.fr

tortona S. Marziano e S. Innocenzo. Tortona paleocristiana tra storia e tradizione U Palazzo Guidobono fino al 15 giugno

La diocesi di Tortona, una tra le piú antiche del Nord Italia, celebra i suoi 1700 anni con una mostra che riunisce reperti archeologici, manoscritti miniati e testi a stampa. Allestita nel medievale Palazzo Guidobono (sorto come dimora signorile nel XV secolo), l’esposizione si articola in otto sezioni, rispettivamente dedicate: alla ricostruzione storica della città tra il I e il V secolo d.C., alla figura di san Marziano (II secolo d.C.), a quella di sant’Innocenzo (IV secolo d.C.), ai santi legati a san Marziano, alle chiese intitolate a san Marziano e a sant’Innocenzo erette nell’area lombardoligure-piemontese, all’archeologia e alla didattica, con il laboratorio Le pietre

Beato Angelico da S. Antonino

apporto finanziario della Fondazione. L’esposizione offre ai visitatori l’opportunità di avere una visione ravvicinata delle due opere, prima che sia effettuata la loro ricollocazione in parete. La presentazione delle due lunette è accompagnata da un video sul restauro eseguito nel 2012 da Bartolomeo Ciccone e Giacomo Dini. L’esposizione delle lunette è visitabile durante il normale orario del Museo: lu-ve, 8,15-13,50; sa-do e festivi, 8,15-16,50.

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agenda del mese raccontano. La rassegna è dedicata alla riscoperta delle radici della comunità cristiana tortonese e nasce dall’invito ad aderire alle celebrazioni collegate all’anniversario dell’Editto di Tolleranza, emanato dall’imperatore Costantino nel 313. info tel. 0131 816609; e-mail: www.comune. tortona.al.it; www.diocesitortona.it Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo. I reperti

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raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it cortona IL TESORO DEI LONGOBARDI U Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 30 giugno

Nata dal dialogo tra la Consulta dei Produttori Orafi e Argentieri di Arezzo e il MAEC, la mostra si inserisce nel programma degli eventi previsti dal protocollo d’intesa tra Comune di Cortona e Comune di Cividale del Friuli per la valorizzazione della storia longobarda in Toscana e della storia etrusca in Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione si divide in tre parti. La prima propone un inquadramento generale del popolo longobardo, dai tempi dell’arrivo in Italia fino alla conversione al

cristianesimo. In questa prima parte sono esposti 56 oggetti relativi alle due sepolture, una maschile e una femminile, della Necropoli «della Ferrovia» di Cividale, e reperti di età longobarda provenienti dal territorio di Cortona. La seconda parte presenta oggetti diversi provenienti da scavi ottocenteschi della necropoli di Cividale del Friuli, nonché la copia del celebre disco in oro con figura del cavaliere e oggetti provenienti dal monetiere del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La terza parte presenta una trentina di pezzi di altissimo artigianato, ispirato al mondo longobardo, creati dai maestri orafi aretini. info tel. 0575 637235; www.cortonamaec.org

tra l’VIII secolo a.C. e il primo Ottocento. Tra i molti capolvaori presenti, possiamo ricordare il magnifico trittico in alabastro con le Storie della Passione (metà del XV secolo), restaurato nel laboratorio del Museo di Capodimonte, il dipinto di Dosso Dossi, Madonna col Bambino e Santi Sebastiano e Giorgio, della Galleria Estense di Modena. Terminata l’esposizione, tutte le opere torneranno ai loro luoghi di origine, in una vera e completa «restituzione» al patrimonio del Paese. info www.restituzioni.com zurigo ANIMALI. Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna U Museo nazionale fino al 14 luglio

Napoli Restituzioni 2013. Tesori d’arte restaurati U Museo di Capodimonte e Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano fino al 9 luglio

L’esposizione presenta oltre 250 manufatti restaurati nello scorso biennio da Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. Opere che coprono un arco cronologico compreso

Il successo che le loro storie riscuotono nel cinema e nella cultura popolare dimostra quanto gli animali, reali o fantastici, siano

saldamente ancorati nel nostro immaginario. La mostra allestita a Zurigo ripercorre una storia millenaria che ha visto trasformarsi miti e leggende. Imponenti arazzi provenienti da palazzi reali, pregiate sculture in avorio conservate in gabinetti di curiosità, nonché opere di oreficeria antica prodotte in area mediterranea rievocano le proprietà e il simbolismo associati a determinati animali. info www.animali. landesmuseum.ch Siena RESURREXI. Dalla Passione alla Resurrezione U Cripta e Museo dell’Opera fino al 31 agosto

L’itinerario si sviluppa principalmente in due sedi: nella Cripta, un ambiente interamente affrescato, e nel Museo dell’Opera istituito nel 1860 per conservare i capolavori provenienti dalla cattedrale. Il ciclo figurativo che si dispiega lungo le pareti della Cripta annovera episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nelle suggestive sale attigue all’ambiente affrescato, dove si ammirano parte delle antiche strutture della basilica, riconducibili al periodo che va dal XII al XIV secolo, sono esposti alcuni codici miniati provenienti dalla cattedrale e appartenenti alla liturgia pasquale. Uscendo dalla Cripta, e attraversando l’antico portale gotico del Duomo Nuovo, si giunge al Museo maggio

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dell’Opera, dove, al primo piano di una sala climatizzata, è possibile ammirare le Storie della Passione dipinte da Duccio di Buoninsegna sul retro della grande pala d’altare con la Maestà realizzata per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311. info tel. 0577 286300: e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it Roma Costantino 313 d.C. U Colosseo fino al 15 settembre

Dopo essere stata presentata a Milano, giunge a Roma la grande rassegna che celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva

dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. info tel. 06 39967700; www.pierreci.it roma Il Tesoretto di Montecassino U Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre

È la prima esposizione del cosiddetto Tesoretto di Montecassino, costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro databili tra i secoli XI-XII. Proviene dal Lazio meridionale, ove fu rinvenuto nel 1898, presso la Badia

di Cassino. Il prezioso insieme fu quindi separato: le monete vennero depositate presso il Medagliere del Museo Nazionale Romano, mentre la fibula fu affidata al Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Il recente accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ne ha favorito la riunificazione, in attesa di una sua definitiva sistemazione. Le fibule erano impiegate per la chiusura di capi di vestiario e di mantelli, costituendo un elemento di continuità con l’abbigliamento dei tempi piú antichi, sia

femminili che maschili. In questo caso la preziosità dell’oggetto e la sua squisita fattura, memore della precedente tradizione classica, fanno pensare a una committenza di alto rango. Le monete che compongono il gruzzolo rappresentano uno spaccato della monetazione aurea dei Normanni di Sicilia. Si tratta di 29 tarí in oro emessi dalle zecche siciliane di Palermo e Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati. info tel. 06 54228199 firenze Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze U Museo delle Cappelle Medicee fino al 6 ottobre

La rassegna celebra la figura di Leone X, primo papa di Casa Medici, a cinquecento anni dall’elezione al soglio pontificio. La mostra

segue la vita di Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico, dalla nascita a Firenze, nel 1475, fino al 9 marzo 1513, quando venne eletto papa, e al suo breve ritorno in patria nel 1515. Uno dei capitoli salienti del percorso è naturalmente quello in cui si rievocano il pontificato di Leone X e i riflessi che esso ebbe su Roma. Gli anni del papato leonino furono celebrati come una nuova «età dell’oro», in cui la capitale della cristianità poté rivivere per opera non solo di artisti, ma anche di poeti e di umanisti, le istanze del mondo classico. Sono questi gli anni in cui si iniziarono o si proseguirono le grandi fabbriche dell’Urbe: fra le altre la basilica di S. Pietro, mentre Raffaello dette seguito a straordinarie imprese pittoriche.

mostre • Tesoro del Santo Sepolcro. Doni delle corti reali europee a Gerusalemme U Versailles – Castello, Sala delle Crociate fino al 14 luglio info www.chateauversailles.fr

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a mostra riunisce oltre 250 oggetti e opere d’arte, provenienti da un tesoro voluto per esaltare lo splendore della basilica del Santo Sepolcro, nonché di quelle di Betlemme e di Nazareth, e formatosi grazie ai doni inviati nei Luoghi santi dai piú importanti re d’Europa. Si tratta, quindi, di un insieme assai variegato, nel quale sono confluiti manufatti assai diversi per provenienza, stile e ambito cronologico: solo per fare un esempio, si va da smalti limosini del XII secolo a una ancor piú antica campana di fabbricazione cinese. Dalla fine del XIV secolo, il fenomeno si intensifica e, limitandoci alle sole donazioni di origine regale, giungono in Terra Santa lampade in oro e argento, candelabri, vasi liturgici impreziositi da smalti e pietre preziose, paramenti sacri… Un tesoro spettacolare, i cui rappresentanti, oltre che a Versailles, sono attualmente esposti anche nella Maison de Chateaubriand a Châtenay-Malabry.

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agenda del mese

Appuntamenti romans d’isonzo (GO) Romans Langobardorum 17-19 maggio

La rievocazione storica intende gettare luce su un periodo storico cruciale, attraverso interventi in vari ambiti: dalla creazione di un accampamento storico all’allestimento di un mercato in cui saranno all’opera vari mastri artigiani, dalle attività didattiche per le scuole

novità di quest’anno ci sono le Palafittiadi, le olimpiadi della preistoria, e poi dimostrazioni di filatura e preparazione delle fibre, la lavorazione del grano e la cottura del pane, la realizzazione del tesoro di Priamo e molto altro ancora. La cena con «gusti e sapori dell’antichità» di sabato e le merende di sabato e domenica pomeriggio saranno disponibili per tutti. info tel. e fax 0187 751142; e-mail: sangiorgio@ laspeziacultura.it; http//museodelcastello. spezianet.it; www.paleofestival.it Pistoia Dialoghi sull’uomo 24-26 maggio

alle conferenze a tema e a visite guidate alla mostra longobarda in Comune e al parco didattico-archeologico. info www.invictilupi. altervista.org

Torna Dialoghi sull’uomo, festival di antropologia del contemporaneo. Venti gli appuntamenti che, per tre giornate, animeranno il centro storico di Pistoia: incontri, spettacoli, dialoghi, letture e una mostra fotografica,

La Spezia PALEOFESTIVAL 2013 U Museo del Castello di San Giorgio 25 e 26 maggio

Giunge all’ottava edizione il Paleofestival, appuntamento che si rivolge principalmente a bambini e ragazzi, ma punta anche a coinvolgere sempre di piú, nei suoi laboratori, il pubblico adulto. Tra le

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proposti sempre con un linguaggio accessibile a tutti e rivolti a un pubblico interessato all’approfondimento e alla ricerca di nuovi strumenti e stimoli per comprendere la realtà di oggi. Questa quarta

appuntamenti • Festa medievale

U Angera (Varese) – Rocca

19 maggio info tel. 0331 931300; e-mail: roccaborromeo@isoleborromee.it

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a Rocca di Angera apre le porte al Medioevo. Durante la giornata, saranno all’opera gli artigiani, riproponendo l’arte della tintura e della tessitura, la lavorazione del vetro a piombo, la produzione degli oggetti in cuoio, la creazione di vasi in ceramica, la riproduzione di miniature. Invitato d’eccezione sarà poi un falconiere con i suoi rapaci, che svelerà tutti i segreti della sua arte. A rendere la giornata ancora piú coinvolgente sarà infine la presenza degli arcieri che si esibiranno in un vero e proprio campo di tiro, sul quale potranno cimentarsi tutti coloro che vorranno provare l’ebbrezza della disciplina. Nel Giardino Medievale sarà inoltre possibile ammirare i vasi in terracotta, appositamente realizzati dagli studenti del Liceo Artistico di Varese sul modello degli antichi manufatti medievali. I vasi saranno posizionati nei vialetti e nelle aiuole del giardino e diventeranno parte integrante dello scenario. Durante la giornata sarà possibile infine prendere parte a varie iniziative: i ragazzi potranno partecipare a laboratori sulla ceramica e sulla pittura con i fiori (prenotazione obbligatoria), mentre gli adulti riscopriranno la magia della tintura naturale con una passeggiata guidata alla scoperta del Giardino del Colore. In caso di maltempo la giornata verrà rimandata a domenica 26 maggio. edizione dei Dialoghi ha come titolo «L’oltre e l’altro. Il viaggio e l’incontro», tema che è alla base degli studi antropologici e, al contempo, è di grande attualità. info www.dialoghisulluomo.com

gorizia èStoria, Festival internazionale della storia 24-26 maggio

I banditi sono i protagonisti della IX edizione del Festival. In un momento storico segnato dalla forte crisi economica in atto, questa scelta significa spingersi a indagare il confine oggi esistente tra legalità e illegalità, giustizia e devianza, potere e opposizione al potere. Banditi perché messi al bando e allontanati dalla

società o banditi perché al di fuori della legge, gli uomini e le donne su cui si concentrerà il focus di èStoria 2013 non saranno meramente confinati al dato biografico, ma contestualizzati nelle epoche storiche, dall’evo antico alla contemporaneità. info tel. 0481 539210; e-mail: eventi@leg.it; www.estoria.it maggio

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protagonisti guala bicchieri

Il viaggio del cardinal di Francesco Colotta

Bicchieri

È italiano uno degli «eroi» del Medioevo inglese: non era un condottiero, né un politico di professione, ma uno dei personaggi piú eminenti della Chiesa di Roma

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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riginario di Vercelli, il porporato Guala Bicchieri sbarcò in terra britannica il 20 maggio del 1216, incaricato di una missione quasi disperata: salvare la turbolenta Inghilterra dalla guerra baronale e dall’imminente invasione francese. In qualità di legato, era stato chiamato da papa Innocenzo III per mettere ordine in un regno di eccezionale importanza strategica per la cristianità occidentale. Il pontefice contava molto sugli Inglesi per le spedizioni militari in Terra Santa, ricordando quanto

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erano stati decisivi in occasione della terza crociata (1189-1192).

Un’ascesa rapidissima

Guala nacque presumibilmente nel 1150, figlio di un cavaliere templare che aveva trovato la morte nell’assedio di Acri, proprio nel corso della terza crociata. I biografi forniscono scarni dettagli sulla rapida carriera ecclesiastica del porporato in età giovanile: l’esperienza nel capitolo della cattedrale vercellese di S. Eusebio, la laurea in diritto civile e canonico (in utroque iure) a Bologna e la nomina,

nel 1205, a cardinale. Fece poi una breve, prestigiosa esperienza da legato in Francia. In quel periodo le pagine piú importanti della storia europea si stavano scrivendo sull’altra sponda della Manica, dove i sovrani plantageneti avevano impresso al loro regno una prodigiosa crescita sul piano amministrativo e militare. Ben presto, però, l’armonia dinastica inglese si trovò minacciata dalla lotta fratricida che coinvolse i figli del monarca Enrico II, in particolare Riccardo I Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra. maggio

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Vercelli. Il chiostro della basilica di S. Andrea, sorta per volere del cardinale Guala Bicchieri. I lavori per la costruzione della chiesa ebbero inizio nel 1219 e si conclusero nel 1227. Nella pagina accanto la lunetta che sormonta il portale sinistro della basilica vercellese, con il rilievo raffigurante Guala Bicchieri che offre il modellino della chiesa a sant’Andrea.

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protagonisti guala bicchieri gli anni del cardinale 1199 Morte di Riccardo Cuor di Leone e ascesa al trono di Giovanni Senza Terra, suo fratello. 1205 Alla morte dell’arcivescovo di Canterbury, si accende il conflitto tra Giovanni Senza Terra e il papa, Innocenzo III. 1207 Il 17 giugno Stephen Langton viene consacrato arcivescovo di Canterbury dal pontefice. Il 1° ottobre nasce Enrico III, figlio di Giovanni Senza Terra. 1208 Innocenzo III proclama un interdetto contro l’Inghilterra. 1209 Il papa scomunica Giovanni Senza Terra. 1213 Il sovrano inglese accetta la volontà di Innocenzo III e si dichiara vassallo del papa. Pochi giorni dopo viene assolto dalla scomunica. 1214 Il 27 luglio, a seguito della sconfitta patita a Bouvines, la corona inglese perde gran parte dei suoi possedimenti francesi e il re si vede venir meno il consenso dei baroni. 1215 Il 15 giugno viene concessa la Magna Charta, annullata dal papa in agosto. In settembre i baroni inglesi dichiarano deposto Giovanni Senza Terra e offrono la sua corona a Luigi VIII, delfino di Francia. Nello stesso periodo il papa scomunica Stephen Langton, l’arcivescovo di Canterbury, e lo richiama a Roma. 1216 Innocenzo III affida a Guala Bicchieri la missione diplomatica in Inghilterra. Nel corso del viaggio il cardinale sosta in Francia per parlamentare con il re Filippo Augusto e suo figlio, Luigi VIII. Guala e Luigi VIII sbarcano separatamente in Inghilterra: il secondo conquista il Sud dell’isola e il primo lo scomunica. Il 16 luglio muore Innocenzo III: gli succede Onorio III. In ottobre muore Giovanni Senza Terra e viene incoronato Enrico III. Guala diventa esecutore testamentario del re defunto e tutore del giovane erede. Seconda concessione della Magna Charta, con sigilli di Guala Bicchieri e William Marshal, reggente della corona. 1217 Terza concessione della Magna Charta, siglata ancora una volta da Bicchieri e Marshal. I sigilli dei due personaggi compaiono anche in calce alla Charter of the Forest. Enrico III concede la chiesa di S. Andrea a Chesterton in dono perpetuo a Guala Bicchieri, come riconoscimento dei suoi servigi alla corona nei due anni di legazione pontificia. 1218 Fine della legazione inglese di Bicchieri, che torna in Italia. Nel febbraio dell’anno successivo il cardinale è a Vercelli per la posa della prima pietra della basilica di S. Andrea. A sinistra una delle quattro copie superstiti della Magna Charta originale. 1216. Durham, The Chapter of Durham Cathedral.

La Magna Charta

Un pilastro del diritto La Magna Charta Libertatum sancí la vittoria dei baroni inglesi sul dispotismo dei sovrani plantageneti e rappresentò la base per lo sviluppo di un sistema costituzionale di tipo rappresentativo. Tutt’oggi è considerata uno dei fondamenti del diritto pubblico inglese. Il documento fu promulgato dal re Giovanni Senza Terra il 15 giugno del 1215, su pressione di un folto gruppo di nobili dissidenti, sostenuti dall’arcivescovo di Canterbury, Stephan Langton. Censurata dalla Chiesa di Roma, la Magna Charta dovette subire una riduzione degli originari 63 articoli e venne riproposta da

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Quando il primo salí al trono, dovette fronteggiare l’ostilità del fratello, disposto a scendere a patti con i Francesi pur di strappare la corona al rivale. I due, alla fine si rappacificarono e, alla morte di Riccardo, Giovanni salí sul trono, aprendo un’era di governo destinata a durare a lungo. Il nuovo monarca regnò alternando successi e rovesci, che culminarono nella perdita della Normandia e nella guerra interna tra fazioni nobiliari. Le sue persecuzioni «preventive» nei riguardi degli aristocratici in odore di cospirazione non lo misero al riparo da possibili tradimenti, mentre l’eccessiva pressione fiscale sulle classi meno abbienti gli attirò contro un enorme malcontento popolare. Facile all’ira e affetto da patologica megalomania, Giovanni dichiarò guerra alla Chiesa per una questione che sembrava solo «di principio»: nel 1205 il sovrano si era opposto alla nomina del nuovo arcivescovo di Canterbury, eletto dai monaci della città del Kent. Voleva essere lui, in qualità di re, a decidere chi dovesse occupare uno dei posti chiave

Enrico III nel 1217 con la consulenza del cardinal Bicchieri. Il secondo provvedimento, comunque, confermava le riforme fondamentali contenute nella prima bozza: la libertà di autodeterminazione della Chiesa d’Inghilterra, il potere di approvazione del consiglio cittadino della richiesta di tributi da parte del re, il principio giuridico dell’habeas corpus (il diritto per un cittadino di non essere arrestato senza la regolare sentenza di un giudice), una nuova regolamentazione dei rapporti tra re e aristocratici e la tutela del commercio.

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della gerarchia ecclesiastica locale. La questione indispettí papa Innocenzo III, intenzionato ad avere uomini a lui fedeli negli arcivescovadi, con l’obiettivo di attuare il progetto di riforma del clero deliberato dal Concilio Laterano del 1179.

L’incoronazione di Enrico III d’Inghilterra in una miniatura dal manoscritto Cotton Vitellius A. XIII. 1280-1300 circa. Londra, British Library. La cerimonia si svolse a Gloucester e non a Canterbury e vuole la tradizione che sia stato Guala Bicchieri a porre la corona sul capo del neosovrano.

La scomunica del re

fronti del re e provvide a scomunicarlo nel 1209. Nel frattempo era cresciuta la schiera degli oppositori interni fra le classi nobiliari che si sentivano vessate dal costante aumento dei tributi. Alcuni baroni si allearono con il figlio del sovrano di Francia, Luigi VIII, che da tempo pianificava l’invasione dell’Inghilterra. Il delfino avanzava pretese sulla corona inglese in quanto sua moglie, Bianca di Castiglia, era imparentata con i Plantageneti.

La controversia sulla nomina dell’arcivescovo di Canterbury degenerò presto in un durissimo scontro tra poteri, con atti di vicendevole ritorsione: il monarca espulse i religiosi di Canterbury dal monastero, mentre il pontefice decise di lanciare un interdetto contro Giovanni, il quale, per nulla intimorito, confiscò tutti i possedimenti ecclesiastici. Innocenzo comprese che l’interdetto non rappresentava una misura sufficientemente efficace nei con-

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protagonisti guala bicchieri la basilica di s. andrea

Alla maniera francese Voluta da Guala Bicchieri, la basilica di S. Andrea è considerata uno dei capolavori dell’arte gotico-romanica dell’intero Nord Italia e rappresenta la memoria storica piú prestigiosa della Vercelli medievale. La chiesa fu iniziata nel 1219 (il 19 febbraio) e subí negli anni l’influenza di modelli architettonici francesi. Guala, infatti, decise di

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affidarla a un gruppo di canonici della congregazione di Saint-Victor che venivano da Parigi. Il cardinale non badò a spese pur di dotare la propria città di un monumento religioso che fosse all’avanguardia per l’epoca, con elementi gotici tipici delle suggestive chiese della regione dell’Île-de-France. Investí nel progetto della basilica una buona parte delle rendite che ricavava dalla chiesa di S. Andrea di Chesterton, oltre alle donazioni elargite da papi e sovrani. La facciata gotica della basilica è racchiusa da due alti campanili cuspidati e presenta tre ampi portali strombati con fasci di colonnine. All’interno, la pianta si struttura a croce latina con tre navate longitudinali, tipica dell’architettura benedettinocistercense. Di grande impatto visivo è il chiostro, rimaneggiato nel XVI secolo.

Sentendosi accerchiato, Giovanni Senza Terra cambiò radicalmente atteggiamento nei riguardi del papa, prima che i Francesi potessero sbarcare sulle coste britanniche. Chiese perdono al pontefice, dichiarando l’Inghilterra e l’Irlanda feudi della Chiesa di Roma. Uno dei principali nemici di Innocenzo III si trasformava cosí nel suo alleato piú importante. Risolto il conflitto con il papa, il re dovette fronteggiare gli altri suoi nemici. I Francesi, innanzitutto, e i nobili ribelli ai quali dovette concedere nel 1215 la Magna Charta, una riforma che assegnava loro una serie di diritti in materia feudale. L’asservimento a Innocenzo III, a ogni modo, aveva già dato i suoi frutti, coinvolgendo in prima persona il pontefice negli affari interni Vercelli. La basilica di S. Andrea, le cui architetture denotano la fusione della tradizione romanica con le novità introdotte dallo stile gotico.

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britannici. L’Inghilterra, in questo modo, non era piú sola. Tuttavia, cosí come era stata formulata, la Magna Charta ledeva gli interessi del reale possessore dei diritti feudali sul regno, ossia la Chiesa di Roma, che dichiarò subito nullo il provvedimento. La censura papale ebbe l’effetto di compattare ulteriormente l’alleanza tra baroni dissidenti e Francesi, velocizzando i loro piani d’attacco. Ma il pontefice aveva pronta una contromossa, per evitare che l’intera Inghilterra potesse in breve tempo divenire una colonia di Parigi. Affidò nel 1216 a uno dei suoi migliori cardinali, Guala Bicchieri, il compito di risolvere in loco l’esplosiva situazione. Lo inviò in terra britannica come legatus a latere, il titolo piú alto della gerarchia degli ambasciatori ecclesiastici, che spesso valeva come importante credenziale per un candidato al soglio pontificio.

Tutore dell’erede

Dopo un’inutile visita diplomatica a Parigi, il porporato si trovò investito di un enorme potere in Inghilterra: oltre a rappresentare in modo diretto il papa, ricevette dal morente Giovanni l’incarico di occuparsi della tutela del giovanissimo erede al trono, Enrico III. Alcuni storici affermano che sia stato proprio Guala Bicchieri a incoronare Enrico nella cattedrale di Gloucester, preferita in quell’occasione alla tradizionale sede di Canterbury per evitare il rischio di un’imboscata nemica. Uno dei primi atti politici del nuovo corso inglese fu il varo di una campagna di pacificazione tra i nobili. Ma come superare quei radicati rancori interrompendo la catena delle faide? I saggi che assistevano il sovrano, con Guala in prima fila, decisero di promulgare una seconda versione della Magna Charta, cosí da riconquistare il consenso dei baroni. La Chiesa, questa volta, non esercitò alcun veto sul documento, ma nell’immediato la nuova costituzione ebbe scarsi effetti sulla guerra civile in atto. I ribelli, insieme ai Francesi, continuavano a espugnare

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territori e castelli, e non sembravano intenzionati a fermarsi. Il cardinale italiano aveva contribuito non poco a perfezionare quella riforma rivoluzionaria, operando nella duplice veste di esperto di materie giuridiche e di religioso dalla spiccata sensibilità sociale. Nei suoi anni a Vercelli era stato testimone della difficile ma armonica convivenza delle leggi comunali con quelle imperiali, ossia degli interessi della nascente borghesia cittadina con le prerogative dei sovrani germanici. Inoltre, si mostrava aperto alle tesi filosofiche che postulavano una gestione piú democratica della cosa pubblica. Con il passare del tempo gli aristocratici ribelli cominciarono a diffidare degli alleati francesi e meditarono di abbandonarli. Le fila dell’esercito inglese si erano, intanto, ingrossate dopo l’abile manovra strategica di Guala Bicchieri che aveva impresso alla guerra l’aspetto di una crociata contro l’espansionismo di Luigi VIII. Il nuovo papa,

Onorio III, condivideva questa chiave di lettura e promise a chi avesse combattuto al fianco di Enrico l’esenzione dalle missioni militari in Terra Santa. Sopra le uniformi dei soldati inglesi fu, quindi, apposta una croce, come quella che portavano i difensori del Santo Sepolcro. Guala, alla vigilia della grande controffensiva, arringò i soldati nell’odierna Newark-on-Trent nel Nottinghamshire invitandoli a liberare la loro terra dagli infedeli francesi.

La riscossa inglese

L’attacco fu sferrato il 20 maggio 1217. Quel giorno il rinfrancato esercito inglese assaltò il castello di Lincoln, una delle principali roccaforti nemiche, e prevalse. Un mese piú tardi vincitori e vinti aprirono una trattativa di pace che, tuttavia, naufragò Chesterton. La chiesa di S. Andrea, che Guala Bicchieri ottenne in dono dal re Enrico III ed ebbe nel tempo legami molto stretti con l’omonima basilica vercellese.

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protagonisti guala bicchieri quasi subito per volere del cardinale. Guala considerava i termini dell’accordo troppo morbidi nei confronti degli esponenti del clero inglese che avevano tradito il proprio Paese. Al tempo stesso dosò la sua intransigenza, cercando anche di allettare quei traditori – ecclesiastici e non – che avessero espresso l’intenzione di recedere dalle proprie posizioni. E cosí molti dei baroni ribelli decisero in quel periodo di sciogliere il patto con i Francesi in cambio della promessa di riottenere le loro vecchie proprietà dalla corona. Per Luigi VIII la capitolazione era alle porte e giunse con l’annientamento dell’ammiraglia della sua flotta, nell’estate del 1217, a Sandwich. I Francesi si arresero, sottoscrivendo in seguito il duro trattato di Lambeth, altro atto fondamentale concepito con la supervisione di Guala Bicchieri. Luigi fu accompagnato personalmente dal cardinale piemontese e da una scorta armata sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Da lí prese quindi il largo verso la madrepatria. Al rientro, trovò un’ulteriore, amara sorpresa: attraverso il clero francese, Guala comunicò a Luigi che avrebbe dovuto investire una parte delle sue rendite per il finanziamento di future crociate. Si trattava di una forma di risarcimento morale a carico di chi aveva causato, con un’aggressione militare, il mancato apporto francoinglese alle missioni in Terra Santa in quel periodo.

L’uomo e il libro

Un artefice dei destini europei Piú di un titolo in lingua inglese contiene informazioni sull’esperienza di Guala Bicchieri come legato papale in terra britannica, a conferma dell’importanza attribuita alla figura del porporato nella cultura d’oltremanica. In Italia l’unica fonte dettagliata sulle sue gesta è il volume In viaggio con il cardinale (2008) scritto dalla docente di lingua e letteratura inglese Gianna Baucero, da anni impegnata nella ricerca e nella valorizzazione del patrimonio storico della città di Vercelli. «Questo libro – osserva l’autrice nella premessa – nasce come un tributo tardivo a uno degli uomini che hanno scritto la storia. Senza la missione diplomatica di Guala Bicchieri le sorti dell’Inghilterra e dell’Europa sarebbero state certamente diverse». La corona inglese sarebbe finita nelle mani del delfino di Francia e la

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In basso cofanetto facente parte del tesoro di Guala Bicchieri. Produzione limosina, XIII sec. Vercelli, Museo Leone.

Magna Charta, probabilmente, non sarebbe stata confermata. «Pochi uomini – scrive ancora Gianna Baucero – possono vantarsi di aver raggiunto traguardi cosí importanti. E tuttavia Guala Bicchieri non ha ancora ricevuto la gratitudine e i riconoscimenti che la sua carriera avrebbe meritato».

Piú diritti per i sudditi

L’Inghilterra e il legato pontificio potevano festeggiare la vittoria. Dopo pochi mesi celebrarono la rinascita del regno in un grande consiglio, che si tenne a Westminster e al quale presero parte molti nobili ex ribelli. In quell’occasione fu presentata una nuova riedizione della Magna Charta, insieme a un’altra importante riforma che concedeva maggiori diritti ai sudditi, la Charter of the Forest. Il documento stabiliva che la popolazione fosse libera di accedere alle foreste reali con lo scopo di procurarsi cibo e legname.

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Il testo ripercorre gli avvenimenti che videro protagonista il cardinale piemontese nel suo difficile incarico per conto di papa Innocenzo III. Molto ricco è il corredo iconografico, che riproduce preziosi documenti del XII secolo insieme a suggestivi scorci di chiese medievali inglesi. Uno spazio rilevante è dedicato anche alla basilica vercellese di S. Andrea con documenti e notizie inedite.

Ma a trionfare era stato soprattutto il cardinale di Vercelli che negli anni del soggiorno britannico aveva assunto su di sé gran parte delle responsabilità politiche di un regno in disfacimento. Fu lui l’uomo guida, ruolo che, in fondo, era stabilito dal diritto, dal momento che l’Inghilterra risultava un feudo della Chiesa di Roma. Una parte della storiografia inglese, tuttavia, non giudicò positi-

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In alto lettera di Guala Bicchieri a William the Roing, cappellano di corte negli ultimi anni di regno di Giovanni Senza Terra, redatta il 3 giugno 1218. Durham, The Chapter of Durham Cathedral. A sinistra ritratto di Guala Bicchieri. XX sec. Chesterton, St. Andrew.

vamente l’operato di Guala e dei suoi collaboratori, macchiandone in parte la memoria. Alcuni rilievi critici derivavano dal fatto che diversi connazionali del porporato erano diventati proprietari di beni espropriati al clero filo-francese. Ma la valutazione negativa andava anche oltre le analisi strettamente documentali, imputando agli Italiani inviati dal papa un atteggiamento in genere avido, utilitaristico e non di dedizione disinteressata. Questa visione ostile all’operato del cardinale trasse ispirazione dalle tesi di due cronachisti britannici coevi, Ruggero di Wendover e Matteo Paris, i quali negli anni della riforma protestante conobbero una grande fortuna in funzione anticattolica.

Il dono e l’encomio

Che l’attività del porporato piemontese fosse stata determinante ai fini della difesa della sovranità inglese lo dimostra il generoso atto di donazione concesso da Enrico III al suo carismatico tutore. Al prezioso consigliere il monarca cedette l’abbazia di S. Andrea a Chesterton, nei pressi di Cambridge, un bene molto redditizio, con un diploma di donazione in cui si fa un esplicito enco-

mio dell’attività di Guala Bicchieri, il quale «aveva faticato a lungo e con sacrificio per la nostra pace e per quella del nostro regno». Il cardinale scelse di cedere la donazione a una comunità di canonici agostiniani della sua Vercelli. Per i monaci piemontesi, tuttavia, non risultò agevole occuparsi direttamente della chiesa di Chesterton e decisero perciò di affidarne la gestione a una comunità locale di religiosi. In seguito i Vercellesi ne ripresero il controllo, inviando un procurator con il compito di seguire da vicino la proprietà per un periodo lungo, dai 10 ai 15 anni. L’attività piú strettamente pastorale fu, invece, affidata a un vicario inglese, che poteva comunicare meglio con la base dei fedeli. Guala Bicchieri utilizzò i proventi derivanti da Chesterton per costruire una grande basilica a Vercelli, dedicata anch’essa a sant’Andrea. I lavori iniziarono nel 1219 e terminarono nel 1227, quando il cardinale morí. Ultimata la grande basilica, in città sorse anche una delle piú antiche università italiane. Le due abbazie omonime furono gestite insieme fino al 1444, con grande sforzo da parte dei monaci piemontesi, che, in piú di un’occasione, cercarono di vendere il loro prezioso bene inglese a un acquirente affidabile. Nel tardo Trecento anche il papa manifestò l’auspicio che la chiesa di Chesterton potesse tornare in mani britanniche a causa delle difficoltà che i religiosi vercellesi continuavano a trovare nell’amministrazione a distanza. Alla fine l’accordo non fu trovato e la chiesa, nel 1440, cambiò proprietario per via forzosa, con una decisione d’ufficio di Enrico IV, passando al King’s Hall di Cambridge (oggi Trinity College, compreso nel celebre complesso universitario cittadino). I Vercellesi lo considerarono un esproprio e si rivolsero nel 1480 a papa Sisto IV, ma il pontefice non riuscí a far prevalere la propria volontà sul governo inglese. Un ultimo tentativo, infruttuoso, fu compiuto nel XVI secolo. F

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personaggi paolo diacono

Il grande di Elena Percivaldi

scrivano longobardo

Monaco a Montecassino, Paolo Diacono fu uno degli intellettuali piú brillanti dell’VIII secolo. Di lui conosciamo la straordinaria opera di storico, preziosa testimonianza sul popolo venuto dal Nord, ma poco sappiamo della sua vita di studioso e di religioso. Salvo la traccia fornita dall’epitaffio posto sulla sua tomba...

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Paolo Diacono in una miniatura tratta da un manoscritto latino. XI sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto pagina tratta da un’edizione dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. IX sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale

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uò sembrare paradossale, trattandosi di uno storico, ma, se si escludono le poche notizie sparse nelle sue opere, Paolo Diacono non ha lasciato molte testimonianze scritte su di sé. Eppure la sua Historia Langobardorum in sei libri, l’opera grazie alla quale è giustamente piú celebrato, è di fatto la principale – se non, a volte, l’unica – fonte su molte vicende del popolo al quale apparteneva per antica origine, i Longobardi. Incerta è anche la sua data di nascita, generalmente collocata intorno al 720 per il solo fatto che, essendo precettore di Adelperga, figlia dell’ultimo re Desiderio e sposa del duca Arechi II di Benevento nel 758, doveva avere almeno una ventina d’anni piú di lei. Le maggiori fonti sulla sua vita vanno dunque ricercate altrove, in alcune leggende fiorite sul suo conmaggio

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to e raccolte nel Chronicon Salernitanum, ma, soprattutto, nell’epitaffio che pose sulla sua tomba Ilderico (Hildric), suo allievo a Montecassino e abate nell’834. Da quest’ultimo si apprende che Paolo «dedicò la sua vita allo studio della Sacra Dottrina e in essa penetrò cosí profondamente da risplendere tra i dotti come il sole tra tutti gli astri, e onorare cosí di luce rutilante la stirpe venuta dal Nord». E, in effetti, Paolo Diacono fu uno degli intellettuali piú colti e brillanti della sua epoca.

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Nacque a Cividale del Friuli, come detto, probabilmente intorno al 720. Poco si sa a proposito della sua famiglia, se non che – ed è uno dei rari casi in cui ci informa egli stesso – giunse in Italia al seguito di re Alboino, quando questi, abbandonando la Pannonia, varcò le Alpi nella primavera del 568.

Prigionieri degli Avari

Ad accompagnare il sovrano e le sue schiere c’era anche «Leupchis, mio antenato, anche lui della stir-

pe dei Longobardi». Alla sua morte, Leupchis lasciò cinque figli ancora fanciulli: tutti quanti furono catturati nel 610 durante il terribile assedio di Cividale da parte degli Avari e portati via come prigionieri. Quattro di loro rimasero per sempre lontani dalla patria; solo il quinto, il bisnonno di Paolo, di nome Lopichis, tentò con successo di liberarsi, riuscendo a tornare a casa. A narrarne con toni quasi epici le vicende, non senza una punta di orgoglio, è proprio Paolo nell’Histo-

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personaggi paolo diacono ria Langobardorum (libro IV, 37): «Messosi in cammino per tentare la fuga, e portando con sé solo una faretra, un arco e un po’ di cibo per il viaggio, senza sapere minimamente dove dirigersi, gli si avvicinò un lupo che gli divenne compagno di cammino e guida. Questi andava avanti a lui e di frequente si voltava a guardarlo e si fermava quando lui si fermava, e proseguiva quando andava avanti, cosicché il mio antenato comprese che era stato mandato da Dio per mostrargli il cammino che non conosceva». L’episodio del lupo, animale-chiave nel mondo germanico, ma qui inviato dalla Provvidenza, terminò però in maniera infelice: esaurite le provviste, dopo qualche giorno Lopichis, sconvolto dalla fame, tentò di ucciderlo con l’arco e le frecce, ma la bestia se ne accorse in tempo e fuggí, lasciando l’uomo solo e senza alcuna guida. Ormai allo stremo delle forze per l’inedia, lasciatosi cadere a terra in attesa della morte, sognò un uomo che lo esortava a riprendere il cammino «dalla parte verso cui hai i piedi». Rimessosi miracolosamente in sesto, poco dopo incontrò un’anziana donna, che lo sostentò fornendogli cibo e avviandolo sulla strada per l’Italia.

Una casa in abbandono

Lopichis giunse alla tanto agognata meta dopo qualche giorno, ma ad attenderlo trovò una brutta sorpresa: la casa in cui era nato versava «in uno stato tale di abbandono che non solo non aveva piú il tetto, ma era invasa da rovi e spine». Pur essendo distrutto e senza averi, non si diede per vinto e, appesa la faretra alla parete, riparò la casa e prese moglie: dall’unione nacque Arichis, il quale, a sua volta, generò Warnefrit, il padre del nostro autore. Che enumera le generazioni della sua famiglia usando un formulario che ricorda

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L’assetto geopolitico dell’Italia nei duecento anni in cui i suoi territori furono quasi interamente controllati dai Longobardi, che strapparono ai Bizantini anche la Pentapoli, la provincia marittima comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona, che aveva un ruolo cruciale nel garantire il collegamento fra Ravenna e Roma.

nel nome dell’arcangelo San Michele e il drago, rilievo che sormonta l’ingresso della basilica di S. Michele Maggiore, a Pavia. L’arcangelo fu venerato come santo nazionale dai Longobardi, che a lui dedicarono numerosi edifici religiosi, a cominciare appunto dalla capitale Pavia, la cui chiesa maggiore era proprio la basilica di S. Michele.

insieme l’Antico Testamento e le antiche saghe germaniche: «E Warnefrit da sua moglie Teodolinda ebbe me, Paolo, e mio fratello Arichis, che prese il nome da mio nonno». Nulla sappiamo circa l’infanzia di Paolo, tranne il fatto che soggiornò per studiare a Pavia, allora capitale del regno. La sua formazione avvenne presso la corte del «piissimo» Ratchis, sovrano in due

riprese (dal 744 al 749 e dal 756 al 757), presso la scuola attiva nel monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro. Qui apprese il latino, meditò sulle Sacre Scritture, approfondí la conoscenza degli scritti dei Padri della Chiesa e delle opere storiografiche e scientifiche classiche, ma ebbe anche modo di conoscere le leggi emanate dai sovrani longobardi (in primis, l’Editto di Rotari, del 22 novembre 643). La sua intelligenza e le sue capacità fuori dal comune lo misero in luce agli occhi dei sovrani successori di Ratchis, prima Astolfo e poi Desiderio: quest’ultimo lo scelse come maestro per la figlia Adelperga, destinata a sposare Arechi II, creato duca di Benevento dallo stesso Desiderio, in un matrimonio deciso dal re per consolidare il proprio potere anche nell’Italia centro-meridionale.

Le rime per Adelperga

Alla giovane Adelperga Paolo dedicò una composizione in versi, il Carmen a principio saeculorum, sulle sette età del mondo – secondo un uso tipico dell’epoca, le lettere iniziali delle dodici terzine di cui si compone sono un acrostico e danno come lettura «Adelperga pia» – e, soprattutto, l’Historia Romana: opera monumentale in 16 libri, è concepita come un rifacimento del Breviarium ab Urbe condita di Eutropio integrato da notizie provenienti da altre fonti piú vicine nel tempo come san Gerolamo, Paolo Orosio, Iordanes. La ricostruzione si ferma alla vigilia dell’entrata dei Longobardi in Italia: Paolo Diacono «sente», infatti, che con l’invasione capeggiata da maggio

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CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

Milano 603

Genova

(con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

644

Brescia

Pavia Torino

Conquiste del VII secolo

Cividale del Friuli Aquileia 502

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

Venezia

Parma Bologna

643

Pisa

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

Pe Ravenna nt Rimini ap ol i Firenze

Conquiste al tempo di Astolfo (749-756) Dominio bizantino nel 774

Ancona

Confini attuali

Fermo 605

Roma Ducato romano

640 circa

Spoleto l t

Montecassino Benevento Napoli Salerno

SARDEGNA

645 circa

662

Ap u

lia Bari

Potenza

Lucania

Lecce

Cosenza

Cagliari

Palermo

Reggio Calabria

SICILIA Agrigento

Siracusa

dalla città di paolo Disco bratteato in oro sbalzato, dalla tomba «del Cavaliere» della necropoli Cella (Cividale del Friuli). Inizi del VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. Eretta da Alboino a capitale del primo ducato longobardo, nel 568, la cittadina friulana diede i natali anche a Paolo Diacono.

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maggio

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personaggi paolo diacono Alboino la storia è davvero cambiata e, come tale, non può piú definirsi «romana». Nel 568 un’epoca si era chiusa e se n’era aperta un’altra, stavolta guidata dalla gens alla quale egli, orgogliosamente, si vantava di appartenere e che, negli ultimi anni della sua vita, divenne in sé e per sé, come vedremo fra breve, protagonista della sua opera piú importante. Il periodo di permanenza in Lombardia, cuore pulsante del regno, fu senz’altro importantissimo per Paolo. Di certo ebbe modo di visitare i maggiori centri di potere: la sua descrizione del palazzo regio di Monza e dei celebri affreschi che Teodolinda vi fece realizzare per documentare i costumi e l’abbigliamento dei Longobardi, per esempio, è cosí vivida e ricca di particolari che non può non essere stata scritta da un testimone oculare.

Un’ipotesi suggestiva

Cosí come, con ogni probabilità, conobbe i suggestivi panorami del lago di Como e l’abbazia di S. Pietro al Monte a Civate (oggi nel Lecchese), che proprio in quegli anni veniva fondata e dotata di ricchi beni. Vi è chi, anzi, ha suggerito che proprio nel cenobio di S. Pietro egli fece la prima esperienza come monaco: l’ipotesi è suggestiva, ma allo stato della documentazione attuale non può essere provata. Sebbene sem-

i longobardi in italia 568-574 Provenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie. 579-590 Per dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento. 590-626 Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. 626-653 Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo). Editto di Rotari (643). 653-712 Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavarese» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati di Spoleto e Benevento sono ricondotti sotto l’autorità del re. 712-744 A seguito della crisi definitiva dell’Italia bizantina, Liutprando, vero sovrano cattolico, conquista l’Emilia, la Pentapoli e, per breve tempo, Ravenna; sottomette definitivamente anche Spoleto e Benevento. La fusione fra i vari elementi etnici è ormai completata e l’egemonia sociale è nelle mani di un’aristocrazia di grandi proprietari fondiari, non privi però di ricchezza mobile. 744-757 Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (754 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi. 757-774 L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, figlio di Pipino, quando Carlo, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo Magno si impadronisce del regno, assumendo egli stesso il titolo di rex Langobardorum. Il regno longobardo continuerà la sua storia all’interno della dominazione franca, che, di lí a poco, diventerà un impero. Nella pagina accanto uno degli otto archi decorati con tralci vitinei e intrecci del Battistero di Callisto. Metà dell’VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Cristiano del Duomo. A sinistra particolare di una miniatura nella quale compare, a sinistra, Ratchis, re dei Longobardi dal 744 al 749, da un manoscritto francese del X sec. Modena, Archivio Capitolare.

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personaggi paolo diacono

Adelchi in una miniatura dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità. Associato al trono nel 759, il principe regnò all’ombra del padre, Desiderio. Costretto

all’esilio dopo la sconfitta patita nel 773 alle Chiuse nella Valle Susa nel 773, tentò una nuova sortita, rientrando in Italia nel 787, ma morí in battaglia. Nella pagina accanto il castello di Arechi II, a Salerno.

sia Cividale (vicina alla frontiera) potevano benissimo ospitare scuole che fornivano un insegnamento elementare della lingua greca, rivolto ai soli fini pratici. Paolo ne apprese dunque i rudimenti, come egli stesso sottolinea, da fanciullo (puerulus): piú tardi fu addirittura chiamato a Costantinopoli per insegnare quella lingua, ma rifiutò. «Se in quella regione i vostri chierici – avrebbe replicato – non impareranno piú di quanto io gliene possa offrire, diventati simili a mute statue, finiranno con l’essere derisi», senza però rinunciare a offrire, mediante la traduzione di alcuni epigrammi dell’Antologia Palatina, un saggio della sua competenza (seppur scolastica) in materia. Egli stesso, in effetti, ammise in vecchiaia, in un carme dedicato a Carlo, di averlo studiato superficialmente e, in pratica, dimenticato.

La caduta di Pavia

bri certo che le sua prima esperienza monastica risalga a molto prima del suo ingresso «ufficiale» a Montecassino. Comunque sia, Paolo approfittò del vivace clima culturale che animava la capitale del Regnum per

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accrescere la sua cultura e ottenere almeno una infarinatura – vera rarità per l’epoca! – di greco. Il che, tutto sommato, non deve stupire: Bisanzio era una presenza costante – per quanto ostile – nella politica longobarda e quindi sia Pavia,

Prima di tutto ciò, egli doveva tuttavia superare una prova assai ardua: la caduta del regno longobardo a opera dei Franchi. I fatti sono noti: dopo aver ripudiato la figlia di Desiderio, il re dei Franchi, Carlo, chiamato in aiuto da papa Adriano I perché lo aiutasse a riottenere dal sovrano longobardo alcuni territori della Romagna, riuscí a conquistare Pavia dopo oltre un anno di assedio. Nel 774 Desiderio e la moglie Ansa prendevano maggio

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la strada per la Francia, prigionieri dei nuovi vincitori, e finirono i loro giorni in esilio. Paolo, che fino all’ultimo si era proclamato fedele al suo re, dovette dunque vedere Arechi II, padrone dell’ultimo lembo di territorio longobardo rimasto ancora indipendente, come l’ultima (e unica) speranza di riscatto per il suo popolo. Il nostro soggiornava del resto a Benevento, sotto l’ala protettiva del duca e della duchessa, già dal 763 e aveva quasi sicuramente assistito alla costruzione del palazzo salernitano e alla realizzazione della splendida cappella palatina annessa. Per celebrare l’evento, anzi, aveva anche composto un Carme per le fortificazioni e gli edifici di Salerno e, forse, un’altra elegia proprio per la cappella palatina (giuntaci frammentaria), che si dipanava sulle lastre di marmo distese lungo le pareti interne. Il duca non poteva non suscitare l’ammirazione di Paolo: aveva, infatti, ricevuto un’educazione letteraria e quindi – come il nostro ricorda nell’Epistola dedicatoria dell’Histo-

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ria Romana – non solo era di regia stirpe, ma anche uno dei pochissimi principi colti dell’epoca.

Estraneo alla congiura

Paolo non dovette dunque rimanere estraneo alla congiura contro Carlo ordita dallo stesso Arechi – nel frattempo proclamatosi princeps gentis Langobardorum – nel tentativo di riconquistare il regno. Tentativo effimero: nel 776 Carlo entrò con le sue truppe in Italia e sconfisse le ultime resistenze, a cui partecipò, in Friuli, anche il fratello di Paolo, Arichis, fatto prigionie-

ro dopo la sconfitta del ribelle duca Rotgaudo e portato Oltralpe. E proprio a causa di questa sventura Paolo ebbe modo di conoscere il nuovo sovrano. Nel 782, in un’accorata lettera in versi, gli scrisse per chiedere la liberazione del congiunto e poi si recò di persona per supplicarlo alla sua corte: colpito dalla sua cultura, Carlo lo invitò a restare e gli affidò vari incarichi di prestigio, come quello di redigere un Homiliarium, cioè una raccolta di omelie per le varie feste dell’anno. Suo compito, come recita il testo di un capitolare, sarebbe stato quello

Il castello di Arechi

Una rocca imprendibile Dopo la fine del Regno longobardo, Arechi II, che era stato creato duca da Desiderio – del quale aveva sposato la figlia Adelperga –, assunse il titolo di principe, elevando il ducato di Benevento a principato, e ne pose la capitale a Salerno.

Arechi scelse come fulcro della sua nuova capitale la fortezza fondata in età bizantina sulla cima del monte Bonadies: ne sopraelevò e modificò le mura, dando vita a un castello «per natura e per arte imprendibile, non essendo in Italia una rocca piú

munita di essa», come scrisse Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum. Dal 2009, la parte restaurata del complesso ospita il Museo Archeologico, contenente reperti rinvenuti durante le campagne di scavo condotte nell’area della fortezza. Info: www.ilcastellodiarechi.it

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personaggi paolo diacono Miniatura raffigurante l’abate Giovanni che offre a san Benedetto il manoscritto del Commentarius in Regulum Sancti Benedicti, composto da Paolo Diacono. X sec. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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di «ripercorrere con attenzione gli scritti dei Padri, scegliendo dai loro estesissimi prati determinati fiori e degli intrecci tutti quelli che sono adatti in una sola corona». Presso il re, Paolo ebbe modo di partecipare attivamente, insieme agli altri intellettuali della corte – come Alcuino di York, Teodulfo d’Orléans e Pietro da Pisa (a cui forse va dato il merito di averlo presentato a Carlo) –, alla cosiddetta «rinascenza carolingia»: a lui, in particolare, fu dato il compito di riportare purezza e ordine nella grammatica latina, ormai imbarbarita al punto da non essere piú quasi compresa. Incarico che svolse benissimo, diventando, forse, addirittura precettore dello stesso sovrano. Il soggiorno franco fu molto produttivo: in quei tre anni ebbe modo di viaggiare spingendosi fino in Bretagna e oltre (e l’eco di questi spostamenti si conservò nei primi capitoli dell’Historia Langobardorum, che descrivono le regioni settentrionali dell’Europa), di scrivere epitaffi per celebrare alcuni familiari defunti di Carlo, di insegnare il latino e di comporre i Gesta episcoporum Mettensium per l’arcivescovo Angelramno di Metz, parente del re, mettendosi in luce anche come storico.

Un richiamo irresistibile

Ma il cuore di Paolo batteva altrove. Forse già durante il soggiorno beneventano egli aveva visto, per la prima volta, l’abbazia di Montecassino dove il suo primo mentore, il deposto Ratchis, si era ritirato per chiudere la sua vita in preghiera. Il grande cenobio, fondato da san Benedetto da Norcia nel 529 e celebre in tutta Europa per il suo ricchissimo e splendido scriptorium, era stato distrutto nel 577 proprio dalla furia dei Longobardi e riedificato solo qualche decennio prima dell’arrivo del monaco: il richiamo, per un uomo di cultura e di religione come Paolo, dovette essere irresistibile. Ottenuta dunque la liberazione del fratello, nel 786-87 tornò a Montecassino («La reggia – scriveva cinque anni prima all’abate Teudema-

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ro – è una prigione rispetto alla sua quiete») e vi entrò come monaco benedettino. Poco dopo il 787 moriva Arechi II: mentre il figlio di Desiderio, Adelchi, tentava inutilmente l’ultima riscossa dalla Calabria aiutato da Costantinopoli e dalla sorella Adelperga, Paolo si dedicava alla ricostruzione della biblioteca del convento. La sua attività era febbrile: annotava le Etimologie di Isidoro di Siviglia, dedicava a Carlo la revisione dell’Epitome di Festo del De verborum significatione di Verrio Flacco, documento preziosissimo – viste le corpose lacune del testo di Festo – per la conoscenza dell’originale, andato purtroppo perduto. Scrisse anche una Vita beati Gregorii papae. Ma, soprattutto, compose i sei libri dell’Historia Langobardorum, ripercorrendo, tra mito e storia, le vicende del suo popolo dalle leggendarie origini fino al regno di Liutprando (712-744), nel momento cioè del massimo splendore. Molto si è scritto e detto a proposito della «longobardicità» dell’opera e del suo autore. Che è senz’altro consistente. Concepita come continuazione dell’Historia Romana – che giungeva sino a Giustiniano –, è infatti incentrata in toto sul popolo a cui Paolo fieramente apparteneva. Tuttavia la sua ottica è – e non può che essere cosí, e non solo a causa della sua appartenenza alle gerarchie ecclesiastiche – cristiana. Egli dunque ride delle leggende che vogliono i Longobardi «battezzati» con questo nome da Odino in persona («ridicula fabula», è il giudizio lapidario), ma, nel contempo, è ben conscio del ruolo giocato sullo scacchiere italiano dalle genti venute dal Nord. Come ha ben messo in luce Lidia Capo nella sua importante introduzione al capolavoro paolino, «barbari, feroci, propriamente primitivi sono presentati i Germani e insieme spinti, dalla forza stessa del clima, alla migrazione e al cambiamento». Il che li esorta, una volta entrati in Italia, a modificare la propria tradizione culturale per avvicinarsi a quella dei vinti, operando una sintesi tra le due.

Ma Paolo, come detto, è uomo di Chiesa e la sua visione è fortemente improntata alla Provvidenza. «Tutto il libro – scrive ancora Capo – è giocato sulla permanenza ininterrotta di una tradizione originaria, capace di modificarsi e adeguarsi al nuovo, e culmina nell’affermazione di un proprio modo di vivere e creare la storia, meritata finché si merita il favore di Dio, persa quando non lo si merita piú». Non stupisce, dunque, che l’opera si concluda con la morte del grande e cristiano Liutprando: la caduta del regno e la fine del dominio longobardo a vantaggio di quello franco sono infatti episodi causati da errori compiuti dagli stessi Longobardi, nel bene e nel male artefici del proprio destino.

Fierezza e fedeltà

Ci sembra in effetti inconsistente l’ipotesi che l’opera sia incompiuta per la sopraggiunta, improvvisa morte dell’autore: il motivo per cui Paolo omette gli ultimi anni del Regnum e la sua fine va ricercato non tanto e non solo nell’orgoglio «nazionalista» – come qualcuno pure ha voluto asserire – di un longobardo ferito per la sconfitta del suo popolo, ma nella sua combattuta visione intellettuale di uomo di Chiesa (e dunque moralmente e spiritualmente «vicino» alle volontà del pontefice) e, nel contempo, di fedelissimo al suo sovrano. Comunque sia, l’Historia di Paolo deve il suo grandissimo successo a vari fattori: il suo bel latino, ma soprattutto l’equilibrio della narrazione e del giudizio. Essa è la sola testimonianza che, resistendo nel tempo, abbia fatto delle vicende longobarde «un documento straordinario di civiltà e cultura» (Lidia Capo). Nella quiete del monastero laziale Paolo si spegne, verosimilmente quasi ottantenne. Il 13 aprile 799 il necrologio di Montecassino annota lapidario «Obiit venerandae memoriae domnus Paulus diaconus et monacus». Il suo corpo viene sepolto nel cenobio, di fianco alla chiesa di S. Benedetto, «ante capitulum». Ma il sepolcro, purtroppo, non è mai stato trovato. F

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rievocazioni orvieto

Il Corpus Domini di Giuseppe M. Della Fina

Dal miracolo alla festa

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Nel duomo di Orvieto, sui pannelli del reliquiario della cappella del Corporale, si può «leggere» la storia del miracolo tradizionalmente ritenuto all’origine dell’istituzione del Corpus Domini. Siamo in pieno XIII secolo, durante il pontificato di Urbano IV, e un sacerdote «scettico» sta celebrando la messa in una chiesa di Bolsena...

Orvieto, Duomo, cappella del Corporale. L’affresco raffigurante il miracolo dell’ostia, che si sarebbe prodotto a Bolsena,

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nella chiesa di S. Cristina, e dal quale nacque la decisione di istituire la festa del Corpus Domini. Scuola umbra, XIV sec.

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«N

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oi pertanto a corroborazione e a esaltazione della fede cattolica, degnamente e a ragion veduta abbiamo ritenuto di stabilire che di cosí grande Sacramento, oltre alla quotidiana commemorazione che ne fa la Chiesa, si celebri ogni anno piú speciale e solenne memoria, designando e fissando a questo scopo un giorno preciso, cioè il giovedí che segue immediatamente l’ottava dopo Pentecoste». Questo pronunciamento è contenuto nella bolla Transiturus de hoc mundo, con la quale papa Urbano IV istituí da Orvieto, dove si trovava, la festa del Corpus Domini. Con quella decisione, il pontefice portava a compimento un lungo processo di riflessione sul tema, che aveva attraversato a lungo la Chiesa, e realizzava una speranza nata negli ambienti mistici di Liegi, animati soprattutto dalla beata Giuliana, una suora agostiniana attiva nel lebbrosario di Cornillon, situato alle porte della città. Urbano IV aveva conosciuto la suora diversi anni prima quando, tra il 1242 e il 1249, era stato arcidiacono di Liegi rimanendo colpito dalla sua profonda religiosità e dalla sua vocazione eucaristica. Il papa rimase in contatto con quell’ambiente di grande impegno spirituale e sociale, come prova la lettera indirizzata l’8 settembre del 1264 a Eva di SaintMartin, che era stata vicina a Giuliana e di cui aveva continuato l’opera dopo la sua morte, sopraggiunta nel 1258. Nella missiva, il pontefice le comunicava con gioia l’istituzione della festa del Corpus Domini per tutta la cristianità. Va ricordato, in proposito, che a Liegi la festività era celebrata già dal 1246 e che – ancora prima di Giuliana da Cornillon – un’altra religiosa si era adoperata affinché fosse istituita: Maria d’Oignes. Giuliana non va considerata solo l’ispiratrice, ma la co-autrice – insieme al discepolo Giovanni – del primo Officium del Corpus Domini che Jean Cottiaux, nel 1964, ha definito: «un capolavoro tanto sul piano del contenuto dottrinale quanto, tenuto conto dei gusti dell’epoca, sul piano artistico».

Alle origini della decisione

Ma quali motivazioni spinsero Urbano IV a superare le resistenze e a proclamare la festa? Sicuramente il ricordo delle riflessioni maturate negli anni di Liegi, gli esiti del serrato dibattito portato avanti all’interno della curia anche in polemica con ambienti «eretici», la presenza al suo fianco del cardinale Hughues de Saint-Cher (un domenicano che aveva avuto l’opportunità di ascoltare Giuliana a Liegi e che, nel 1251, aveva esteso, con un proprio decreto, la festa del Corpus Domini ai territori della Germania); ma un miracolo eucaristico avvenuto a Bolsena alcuni mesi prima dell’agosto del 1263 deve averlo rafforzato nella sua decisione. La memoria piú antica dell’evento miracoloso è affidata a una sacra rappresentazione, scritta forse

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rievocazioni orvieto Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

giuliana di cornillon

Una religiosa di polso Notevole è il contributo della beata Giuliana di Cornillon all’istituzione della festa del Corpus Domini. Nata a Retinne, presso Liegi, tra il 1192 e il 1193, rimase orfana ed entrò nel lebbrosario di Cornillon, dove, divenuta adulta, chiese di prendere il velo. Divenne quindi priora della sezione femminile e dette un grande impulso all’intera struttura. A cinquant’anni fu costretta a lasciare. Morí a Fosses, nel 1258. Le fonti la descrivono come una donna dalla personalità straordinaria, impegnata nel sociale, studiosa di sant’Agostino e amante della poesia e della musica. Fu in grado d’influenzare con la sua fede e la sua cultura personaggi quali il futuro pontefice Urbano IV e il cardinale Hughues de Saint-Cher.

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negli anni 1323-1330, ma elaborata probabilmente già negli anni Novanta del Duecento, come ha suggerito lo studioso Lucio Riccetti (2007); a un reliquiario realizzato per la Cattedrale orvietana da Ugolino di Vieri nel 1338 per accogliere proprio la reliquia del miracolo; agli affreschi che Ugolino di Prete Ilario, con alcuni aiuti, realizzò, tra il 1357 e il 1364, sulla parete di destra della cappella chiamata «del Corporale». Fra queste testimonianze vi sono alcune discordanze, verosimilmente riconducibili al contesto storico e politico di cui sembrano risentire e alle diverse necessità narrative di uno spettacolo teatrale, di un reliquiario e di un ciclo di affreschi.

Quel prete «dell’Alta Magna»...

Nel testo della sacra rappresentazione si ricorda che «un prete lontano dell’Alta Magna», «ch’era di lengua straniero», aveva dubbi sul fatto che nell’ostia consacrata fossero presenti il corpo e il sangue di Cristo. Per questo, su indicazione del proprio confessore, decise d’intraprenmaggio

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Eventi

Un biennio giubilare In occasione del 750° anniversario del miracolo di Bolsena (1263) e della pubblicazione della bolla Transiturus (1264) che ha istituito la festa del Corpus Domini, la Penitenzieria Apostolica, per mandato del pontefice Benedetto XVI, con Rescritto del 13 marzo 2012, ha autorizzato la celebrazione di un Giubileo Eucaristico straordinario nella città di Orvieto e di Bolsena, che si è aperto il 6 gennaio 2013 e si chiuderà il 14 novembre 2014. In questo periodo i fedeli e i pellegrini potranno ottenere l’indulgenza plenaria come negli anni giubilari. A sinistra la città di Orvieto, dominata dalla magnifica mole del Duomo, intitolato a S. Maria Assunta. In basso il leone alato in bronzo, simbolo dell’evangelista Marco, posto sulla facciata del Duomo orvietano.

dere un pellegrinaggio sino a Roma celebrando messa in ogni località toccata. Nel viaggio di ritorno sostò a Bolsena e celebrò messa nella chiesa di S. Cristina; durante la liturgia, al momento dell’eucarestia, l’ostia si trasformò in carne e alcune gocce di sangue caddero sul corporale e su altri paramenti sacri. Il religioso straniero, sconvolto dall’evento, fuggí, mentre i sacerdoti locali raccolsero le reliquie e le custodirono «molto caramente». Un pellegrino che aveva assistito al miracolo si recò a Orvieto e riferí l’accaduto al vescovo, il quale informò subito il pontefice, che si trovava in città. Il papa gli affidò una lettera con la quale obbligava i sacerdoti della chiesa di S. Cristina a consegnargli le reliquie, e quelli – riluttanti – gliele affidarono. Nel ritorno a Orvieto il vescovo si fece precedere da un messo che dette la notizia: il pon-

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tefice, i maggiorenti della città e una folla di religiosi e di laici – in processione – andarono ad accoglierlo. L’incontro avvenne, fuori dalla città, sul ponte del torrente Rio Chiaro e il vescovo mostrò il corporale insanguinato: «Padre, al vostro piacere / mostrolu a vo’ e a tucta gente: / ciaschun ste credente / che quest’è carne e sangue di Die vero». Nel reliquiario, attraverso otto pannelli posizionati sul lato anteriore, muovendo dall’alto in basso e da sinistra a destra, si ricorda lo stesso evento miracoloso: la celebrazione della messa a Bolsena alla presenza di fedeli; la notizia portata al pontefice, raffigurato tra i prelati della curia; il papa che invita il vescovo a recarsi a Bolsena; il vescovo che preleva il Corporale; il suo ritorno a Orvieto; l’incontro con il pontefice; il papa che mostra ai fedeli, raccolti nel tempio, il Corporale; il pontefice assiso in catte-

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A destra la cappella del Corporale, nel Duomo di Orvieto. Voluta a perpetua memoria del miracolo di Bolsena (1263) per custodire la reliquia del sacro lino, fu realizzata a partire dal 1350. Completato intorno al 1356, il nuovo ambiente venne affrescato dal maestro orvietano Ugolino di Prete Ilario. Nella pagina accanto il reliquiario realizzato nel 1338 dall’orafo senese Ugolino da Vieri. Nei pannelli a smalto, oggi deteriorati e difficilmente leggibili, viene ricordato il miracolo di Bolsena ed è probabile che a essi si sia ispirato Ugolino di Prete Ilario per il suo ciclo pittorico dedicato allo stesso episodio.

dra che detta a un religioso la bolla che istituí la festa del Corpus Domini oppure il suo Officium. Rispetto alla sacra rappresentazione, nel reliquiario non si allude alle resistenze del clero di Bolsena ed è il pontefice a mostrare ai fedeli il Corporale e non il vescovo. In proposito va osservato che – in questo caso – il Corporale viene mostrato dopo il suo ingresso in città e non in occasione dell’incontro avvenuto sul ponte del Rio Chiaro, e quindi ci si riferisce a due momenti diversi.

Il «fumetto» del prodigio

Negli affreschi presenti, all’interno del Duomo, nella cappella del Corporale, la sequenza degli avvenimenti è la seguente: la messa celebrata a Bolsena con l’evento miracoloso; la notizia di esso comunicata dal sacerdote al pontefice circondato dai cardinali; Urbano IV che

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incarica il vescovo di recarsi a Bolsena; il vescovo che preleva il Corporale direttamente dall’altare della chiesa di S. Cristina; l’incontro tra il vescovo e il pontefice alla presenza di numerosi fedeli sul ponte di Rio Chiaro, con il primo che mostra il Corporale; il pontefice che espone in città il Corporale alla venerazione dei fedeli; Urbano IV che ordina a san Tommaso d’Aquino di comporre l’Officium della nuova festa istituita. Negli affreschi quindi – come nel reliquiario – non si evocano le resistenze da parte del clero bolsenese, anzi, il Corporale viene prelevato dal vescovo direttamente dall’altare; si fa riferimento a due esposizioni della reliquia: fuori e all’interno della città; si fornisce un’identità precisa e prestigiosa – san Tommaso d’Aquino – al religioso incaricato dal papa di comporre l’Officium della festa.

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rievocazioni orvieto

In alto ancora un particolare degli affreschi di Ugolino di Prete Ilario nella cappella del Corporale di Orvieto raffigurante il miracolo dell’ostia che scaccia il demonio.

Sui personaggi protagonisti della vicenda si può aggiungere che, nella sacra rappresentazione, il vescovo viene chiamato Francesco e non Giacomo come si sarebbe dovuto fare, considerato che questo era il nome del presule in carica negli anni 1263-1264. Il riferimento è – con ogni probabilità – a Francesco Monaldeschi che fu vescovo di Orvieto solo a partire dal 1279/80 e lo rimase sino al 1295; a lui si deve l’idea di promuovere la costruzione del Duomo e, probabilmente, una venerazione notevole per il miracolo avvenuto alcuni anni prima dell’inizio del suo episcopato. Il sacerdote che assistette al miracolo inizia ad avere un nome solo piú tardi e viene indicato come «Pietro da Praga», per il quale è stata proposta da Jaroslav V. Polc l’identificazione con un canonico e protonotaio di Ot-

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tocaro II, re di Boemia, al quale il papa Urbano IV aveva indirizzato da Orvieto una lettera datata 4 giugno 1264.

I cartigli nascosti nel tabernacolo

Tra le testimonianze piú antiche vanno annoverati anche tre minuscoli cartigli – due pergamenacei e uno cartaceo – con brevi iscrizioni che si riferiscono al miracolo, rinvenuti nel 1658, nel 1664 e – piú di recente – nel 1917, all’interno di piccoli ripostigli segreti presenti nel tabernacolo marmoreo che tuttora custodisce il reliquiario del Corporale. I due cartigli pergamenacei sarebbero databili nel Duecento (all’interno dello stesso secolo, le datazioni proposte variano anche sensibilmente), mentre l’altro nel Trecento. Il ritorno di attenzione nel Trecento – ben testimaggio

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Urbano IV

Un caso raro moniato dalla commissione del reliquiario e del ciclo di affreschi realizzato nel Duomo di Orvieto – trova spiegazione nella rinnovata valorizzazione della scelta operata da Urbano IV da parte dei pontefici Clemente V, che confermò la bolla Transiturus nel Concilio di Vienne (ottobre 1311-maggio 1312), e di Giovanni XXII e, localmente, dall’attività del domenicano Beltramo (Tramo) Monaldeschi, vescovo della città dal 1328 al 1344. Nel 1323, durante il capitolo generale domenicano di Barcellona, era stata attribuita ufficialmente la redazione dell’Officium della nuova festa a Tommaso d’Aquino che, nello stesso anno, venne santificato. Qualcosa di piú si può dire – seguendo una documentata ricostruzione offerta da Ezio Franceschini nel

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Jacques Pantaléon, il futuro Urbano IV, era nato a Troyes verso la fine del XII secolo, da una famiglia di umili origini. Dopo avere studiato a Parigi, divenne sacerdote iniziando la carriera ecclesiastica. Fu canonico a Laon, arcidiacono a Liegi, poi vescovo (1253) a Verdun e quindi patriarca di Gerusalemme (1255). Svolse un’intensa attività diplomatica ed era considerato un esperto dell’Oriente. Nel 1261, durante il conclave di Viterbo, venne eletto papa pur non essendo ancora cardinale: uno dei pochi casi nella storia della Chiesa. In alto una delle immagini di papa Urbano IV che compaiono nel ciclo affrescato della cappella del Corporale.

Assiso in cattedra, il pontefice detta a un religioso la bolla che istituí la festa del Corpus Domini oppure il suo Officium.

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rievocazioni orvieto restauri e nuove acquisizioni

Il Duomo sinora nascosto In occasione del Giubileo Eucaristico straordinario sono stati recuperati e aperti al pubblico gli ambienti che attraversano la cattedrale orvietana al di sotto del transetto, della cappella Nova e della cappella del Corporale. Lo spazio era stato interessato in precedenza da restauri diretti da Paolo Zampi tra il 1887 e il 1904. L’ampio vano che precede l’uscita verso settentrione era utilizzato originariamente come oratorio dedicato a san Martino e sede dell’omonima confraternita. Vi si conservano affreschi frammentari che sembrano databili alla fine del Trecento. Attualmente gli ambienti – in vista della sistemazione definitiva come museo del cantiere del Duomo – accolgono strumenti e utensili di lavoro di varie epoche (argani, trapani a corda, morse, carrucole, ecc.), sculture smontate dal Duomo in quanto danneggiate e quindi sostituite, tre grandi fossili da riconoscere probabilmente come ossa di cetaceo. Una curiosità: vi si possono osservare anche le antiche porte lignee della Cattedrale sostituite nel 1970 con quelle bronzee realizzate da Emilio Greco.

Gli ambienti sotterranei del Duomo di Orvieto, recentemente recuperati e aperti al pubblico. Nella pagina accanto un momento della processione che si svolge ogni anno nella città umbra in occasione dei festeggiamenti per il Corpus Domini. Nella foto è uno degli stendardi che riproducono gli affreschi della cappella del Corporale raffigurante l’incontro tra il vescovo di Orvieto e papa Urbano IV al ponte sul Rio Chiaro.

La festa e il corteo

Orvieto torna al Trecento La città di Orvieto ricorda ogni anno il miracolo di Bolsena e l’istituzione della festa del Corpus Domini con la processione del Sacro Corporale, accompagnato dalla sfilata del corteo storico in costumi medievali. Le manifestazioni nascono con l’intento di rievocare quanto accadde nel 1338, quando il reliquiario del Corporale fatto realizzare da Beltramo Monaldeschi a

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Ugolino da Vieri fu portato per la prima volta in processione nel giorno del Corpus Domini. È questa la prima processione ufficiale di cui si ha notizia e che si snodò lungo le stesse vie attualmente percorse. Nel 1951, sulla base della documentata presenza di dodici uomini armati, con funzione di scorta alla reliquia, si decise di inserire l’elemento maggio

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1964 – sulle settimane decisive nella composizione della bolla Transiturus, che conosciamo in due redazioni: una inviata al patriarca di Gerusalemme, l’altra estesa a tutto il mondo cristiano. Urbano IV, deciso a proclamare la solennità del Corpus Domini, aveva celebrato la festa a Orvieto nella giornata del 19 giugno 1264, secondo il rito seguito a Liegi e in Germania. In quel frangente dette probabilmente a Tommaso d’Aquino l’incarico di redigere un nuovo Officium, che allegò poi alla bolla inviata

della processione religiosa in una cornice storica che riproponesse le antiche glorie civili e militari del Comune medievale. Nel corteo storico sono rappresentate tutte le magistrature dell’epoca comunale, gli stemmi e le armi delle famiglie gentilizie orvietane. Per quest’anno, nella giornata di sabato 1° giugno, sfilerà per le vie di Orvieto il Corteo delle

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al Patriarca di Gerusalemme nella giornata dell’11 agosto 1264. L’8 settembre dello stesso anno scelse d’inviare la bolla all’intera cattolicità, senza allegarvi il nuovo Officium. L’indomani lasciò per sempre Orvieto, dove riteneva di non essere piú al sicuro dato che Manfredi si preparava ad attaccare la città (Urbano IV, nella sua politica antisveva, sosteneva Carlo d’Angiò), e si spostò a Todi, poi a Deruta e quindi a Perugia, dove morí il 2 ottobre, sempre del 1264. F

Dame e dei Popolani, mentre domenica 2 sarà la volta della processione del Sacro Corporale, che ha inizio dal Duomo, e del Corteo Storico. Info tel. 0763 342477; e-mail: opsm@opsm.it; www.opsm.it; tel. 0763 340535; e-mail: corteostorico@comune.orvieto.tr.it; www.corteostoricoorvieto.it

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immaginario la nascita dell’inferno

Il fiume nero dei dannati di Paolo Galloni

In che modo l’uomo medievale immaginava il luogo in cui i peccatori erano condannati a condurre la loro esistenza ultraterrena? Solitamente a tinte fosche e, spesso, popolato da demoni dai tratti grotteschi piú che mostruosi. Uno scenario cupo e surreale, alimentato dalle speculazioni di filosofi e uomini di Chiesa, ma anche uno dei soggetti prediletti da pittori e miniatori

G

razie al celebre libro di Jacques Le Goff del 1981 (La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino), da almeno tre decenni i medievisti discutono appassionatamente di nascita del purgatorio, evento che per il grande storico francese è da collocarsi intorno al XII secolo, mentre altri preferirebbero retrodatarlo di qualche secolo. In realtà, anche gli altri luoghi dell’aldilà cristiano hanno una storia, che comincia certamente prima di quella del purgatorio. Se inferno e paradiso, in quanto spazi di pena e di ricompensa, sono evidentemente presenti nell’orizzonte cristiano fin dalle origini, le loro caratteristiche sono state soggette a un’evoluzione, che di fatto è ancora in corso. Il concetto di inferno affonda le sue radici nell’intreccio di riflessioni intorno all’aldilà e alla giustizia nelle tradizioni del Vicino Oriente, in cui visioni di un oltremondo neutrale convivono con altre che prevedono la possibilità di un luogo di tormento; quest’ultimo è tut-

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tavia di norma temporaneo, non eterno, essendo in questi casi la distruzione e l’annichilimento del corpo del defunto la sorte finale. I Greci di Omero sembrano credere a una sopravvivenza incorporea dopo la morte, uno stato senza ricompense o punizioni ma semplicemente pallida parvenza non paragonabile alla vera vita; l’idea è perfettamente riassunta dall’ombra di Achille, il quale, a un Ulisse che gli comunica che la sua memoria è venerata tra gli uomini, risponde tristemente che è meglio essere uno schiavo che tira l’aratro tra i vivi piuttosto che Achille nel regno dei morti. Rappresentazione del Giudizio Universale dipinta su un pannello d’altare, forse proveniente da Ribes de Freser, in Catalogna. Inizi del XII sec. Vic, Museo Episcopale. maggio

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immaginario la nascita dell’inferno La Grecia classica ha conosciuto altre concezioni dell’aldilà in cui, per esempio in Platone, comincia a farsi strada la credenza nella possibilità di una retribuzione per i meriti acquisiti in vita. Anche l’Eneide, forse influenzata dal pensiero platonico e orfico, descrive un aldilà connotato moralmente. La posizione della Bibbia non è univoca. Lo stesso termine Sheol tendeva a designare non tanto il regno dei morti quanto il sepolcro, le profondità della terra, la morte (vedi box a p. 65). Se a volte la Bibbia sembra negare la possibilità di una vita dopo la morte, altri passaggi di fatto la sottintendono; per esempio, il divieto reiterato nel Levitico e nel Deuteronomio di comunicare con i defunti lascia presumere che qualcuno tentasse di farlo. Le parole con cui Samuele profetizza la morte al ribelle Saul – «domani, tu e i tuoi figli sarete con me» – presumono invece un aldilà che accoglie sia i buoni che i cattivi, senza distinzioni. Punizioni e ricompense per la fedeltà a Dio sono, o dovrebbero essere, assegnate in questa vita. Non mancano le eccezioni, tuttavia: una separazione tra buoni e cattivi nell’aldilà è per esempio prefigurata in alcuni passi dei profeti Isaia ed Ezechiele.

destinate a una convivenza che nel complesso si può definire abbastanza pacifica. Il cristianesimo continua ed evolve la visione ebraica, ambiguità comprese, ma con evidenti elementi di novità. Nella sua predicazione, Cristo menziona premi e punizioni, ma al cuore del Vangelo c’è la vita eterna, non il castigo. Nel Vangelo di Giovanni l’ira di Dio nell’Ultimo Giorno non si esprime con la dannazione perpetua, ma con la negazione dell’accesso alla beatitudine. Anche san Paolo e gli apostoli si concentrano soprattutto sugli aspetti positivi della salvezza. Alcuni passaggi delle epistole di Paolo suggeriscono che, per quanto egli fosse affascinato dall’idea di una

riconciliazione universale alla fine dei tempi, il suo senso di giustizia lo facesse propendere per un’altra soluzione: resurrezione degli eletti e semplice scomparsa nel nulla dei non meritevoli – non eternità della pena, dunque, ma della morte.

Riferimenti espliciti

Giovanni elude il problema della dannazione per concentrarsi sulla salvezza, mentre gli altri tre Vangeli contengono passaggi che evocano in modo piú esplicito un luogo di pena per i peccatori. In Marco (5, 29-39) si legge il celebre passo in cui Gesú ammonisce che è meglio entrare nel regno dei cieli con un occhio solo o una sola mano piuttosto che bruciare nella Geenna

Un giorno fatidico

Un altro problema a essere dibattuto riguarda il momento in cui il Signore distinguerà i buoni dai malvagi. Subito dopo la morte o in occasione del Giudizio Finale? Il tema è direttamente connesso ad altre due questioni essenziali legate alle modalità di continuazione della vita dopo la morte, spirituale o corporea? Sopravvivenza immediata dell’anima o resurrezione dei corpi alla fine dei tempi? L’esitazione non sarà mai veramente risolta e le diverse opzioni saranno Lastra di sarcofago sulla quale è scolpita l’immagine della menorah, il candelabro a sette bracci simbolo della religione ebraica. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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con entrambi gli occhi o entrambe le mani. Sia Matteo (25, 31-46) che Marco (25, 41), riportano esplicite le parole di Gesú riguardo al Giudizio Finale, quando il Signore dividerà i buoni dai cattivi, i beati dai dannati; questi ultimi sono attesi dal fuoco eterno preparato per il Diavolo e i suoi angeli caduti. In questo caso la dannazione perpetua sembra essere prevista fin dalla creazione del mondo, almeno per Satana e i seguaci della prima ora. All’interno delle comunità cristiane il dibattito sulla natura del castigo meritato dai peccatori è stato fin dall’inizio condizionato dalle ambiguità e dalle incertezze di cui si è detto in precedenza. Il dubbio non riguardava l’esistenza di un

luogo di pena, ormai accettata come certa, ma le sue caratteristiche. Nel V secolo sant’Agostino, a quanto pare in risposta a chi sosteneva ipotesi meno cruente – tra le quali la possibilità suggerita da Origene che non tutti i dannati lo fossero in via definitiva –, ribadí che i dannati avrebbero sofferto la loro punizione per l’eternità.

Eternità del castigo

Le tesi di Agostino sono fondamentali per l’influenza esercitata sulle epoche successive. Nella sua riflessione il castigo era eterno, ma poteva variare in intensità in virtú della gravità della colpa, ma anche delle preghiere dei vivi, naturalmente solo nella fase che precedeva il Giudi-

zio Finale. L’eternità della pena implicava, come logica conseguenza, che tra i miracoli di Dio onnipotente andasse annoverata la capacità dei corpi di sopportare all’infinito le loro strazianti sofferenze. Un aspetto non secondario del dibattito, come anticipato, concerneva il momento d’inizio della pena (o del premio) e la relazione con la sorte del corpo del defunto. In breve, se l’idea della resurrezione dei corpi avrebbe dovuto implicare una sorta di sospensione della vita fino al giudizio finale, nondimeno si andò affermando la credenza in un immediato trasferimento dell’anima nel luogo oltremondano di punizione o beatitudine. I teologi hanno continuato a

Lo Sheol

Il luogo dei morti Nell’antico ebraico il termine Sheol assume numerosi significati, da «tomba», «sepolcro», a «profondità della terra» a «luogo dei morti»; non di rado Sheol è utilizzato come semplice sinonimo di «morte». Nel Salmo 30, nello Sheol scende nephesh, l’anima del defunto. Lo Sheol è inquadrato non tanto come luogo di tormenti e castighi quanto come spazio opposto a quello della vita. Aspetti di punizione sono nondimeno talvolta evocati, per esempio dal profeta Amos, che avverte i malvagi di Israele che essi saranno gettati nello Sheol dal Signore, e anche se tentassero di risalire in superficie Egli li respingerebbe e li allontanerebbe per sempre dalla sua vista.

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immaginario la nascita dell’inferno Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Particolare del Giudizio Universale raffigurante un gruppo di dannati. Tempera su tavola del Beato Angelico, 1426-27 circa. Firenze, Museo di San Marco.

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La corporeità dell’anima è un dato costante nelle visioni dell’aldilà lungo tutto il Medioevo

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l’apocalisse di paolo

Le visioni dell’apostolo L’Apocalisse di Paolo si apre con un ammonimento ai fedeli: amare le delizie del paradiso e temere le pene dell’inferno, che furono mostrate all’apostolo Paolo quando era ancora in vita. «L’arcangelo Michele lo trasportò [l’apostolo Paolo] nello spirito del Signore e gli mostrò cielo terra e inferno (…). Là vide uomini diversi in un fiume infuocato: erano immersi alcuni fino al ginocchio, altri fino all’ombelico, altri fino alle labbra, altri fino alle sopracciglia». A tale sconvolgente vista Paolo si mise a piangere e a sospirare, e chiese all’angelo chi fossero le persone che pativano un castigo tanto orribile. L’angelo rispose elencando gradi diversi di peccatori, dai ladri ai lussuriosi, dai fornicatori ai denigratori della chiesa fino ai malvagi ipocriti che tramano il male contro il prossimo pur proclamandosi fedeli al Signore. In un altro fiume Paolo vide uomini e donne divorati dai vermi. «L’angelo disse: sono quelli che hanno danneggiato orfani e vedove, hanno chiesto interessi e profitti senza misericordia».

porsi il problema dell’esatto momento della resurrezione, ma è un fatto che, fin dai primi secoli, gli epitaffi cristiani sembrano dare per scontato l’ingresso immediato in paradiso. L’idea di un’attesa della resurrezione del corpo il giorno del Giudizio tende dunque a rimanere in secondo piano rispetto alla continuità di qualche forma di sopravvivenza dell’anima.

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Peraltro, le visioni dell’aldilà che descrivono tali spazi e i loro occupanti mostrano «anime» dotate di un certo grado di corporeità, in virtú della quale il patimento dei dannati assume tratti di maggiore realismo. La corporeità dell’anima è un dato costante nelle visioni dell’aldilà lungo tutto il Medioevo, che convive con la fede nella resurrezione dei corpi alla fine dei tempi.

Per esempio, il testo del III secolo noto come Apocalisse di Paolo, o Visio Pauli, una delle visioni piú antiche, mostra anime dannate straziate dall’acqua bollente di un fiume (vedi box in questa pagina). L’Alto Medioevo è un periodo di grande fioritura delle visioni dell’aldilà, al punto che è necessario chiedersi se non si debba prendere sul serio l’idea che molte visioni, prima

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immaginario la nascita dell’inferno Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Particolare del polittico raffigurante il Giudizio Universale dipinto da Rogier van der Weyden. 1444-1450. Beaune, HĂ´tel-Dieu.

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A destra ancora una rappresentazione del Giudizio Universale in una miniatura dal Salterio della scuola di Nonantola. IX sec. Vercelli, Biblioteca Capitolare. Nel Medioevo le visioni e le rappresentazioni della selezione tra buoni e malvagi si moltiplicarono, spesso traducendo in immagini le tesi di grandi teologi, come sant’Agostino o Gregorio Magno.

di essere incorporate in un genere letterario, siano state autentiche esperienze vissute da autentici visionari. Dopo la fase di «gestazione» dell’immagine dell’inferno, che si chiude idealmente con Agostino, si inaugura un periodo durante il quale le visioni del mondo infero sono piú o meno strutturate e il cui punto di partenza è individuabile nei Dialogi di papa Gregorio Magno, un’opera che include varie testimonianze relative a persone che avrebbero visitato in spirito il mondo dei morti dopo essere caduti in uno stato simile alla morte, o alla trance, si potrebbe aggiungere oggi. I lettori di Gregorio, e noi con loro, apprendono cosí che nell’aldilà c’era un ponte «e sotto vi scorreva

La lettera di Valerio

Un inferno acustico In una lettera indirizzata all’amico Donadeo, Valerio di Bierzo (vissuto nella Spagna nord-occidentale e morto intorno al 695) racconta di essere stato trasportato da un angelo di luce fino alle estremità della terra. «Piegandomi verso quelle orrende profondità dell’inferno non potevo distinguere nulla, perché ne saliva verso l’alto una nebbia tenebrosa, tanto da sembrare quasi un muro del paradiso. Sporgendomi allora in giú ascoltavo, e non udii altro se non ululati, gemiti, lamenti e pianto e stridore di denti e il fetore che saliva era intollerabile e orrendo». A quel punto l’angelo lo ammonisce a fare penitenza e compiere il bene se vuole essere accolto in paradiso.

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un fiume nero e caliginoso che esalava come una nuvola di intollerabile fetore. Attraversato il ponte, c’erano prati ameni e verdeggianti adorni di fiori profumati, su cui si scorgevano gruppi di uomini vestiti di bianco». Il ponte era il luogo della selezione tra buoni e malvagi: i primi lo attraversavano felicemente, mentre i secondi erano trascinati da una forza invisibile nel fiume fetido, oscuro e puzzolente. Il motivo del «ponte del giudizio» compare anche nella Storia dei Franchi di Gregorio di Tours. Nella Visione di Baronto (scritta in Gallia nella seconda metà del VII secolo) la topografia dell’aldilà è descritta con scrupolo e attenzione per i dettagli, ma la natura del luogo si conferma aderente all’immagine consolidata: neri demoni crudeli affollano l’abisso dei tormenti ansiosi di nuovi peccatori da straziare, mentre il paradiso è abitato da beati in vesti bianche

che cantano le lodi del Creatore. Il suono che proviene dalle profondità dell’inferno è agghiacciante e da solo sufficiente a far comprendere l’opportunità di meritarsi il paradiso (vedi box qui accanto). Nei secoli successivi il paesaggio infernale si arricchí sempre piú in complessità, differenziando i territori destinati alle varie tipologie di peccatori, fino alla somma sintesi della Commedia di Dante, per molti aspetti l’ultima e piú straordinaria visione dell’aldilà medievale. F

Da leggere U Alan E. Bernstein, The Formation

of Hell, UCL Press, Londra 1993. U Ian N. Bremmer, The Rise and Fall

of the Afterlife, Routledge, Londra 2002. U Maria Pia Ciccarese (a cura di), Visioni dell’aldilà in Occidente, Nardini, Firenze 1987.

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di Chiara Mercuri

Marc Chagall, IlDidascalia rabbino. Olio su tela, aliquatur adi odis 1914. que vero Chicago, ent quiArt doloreium Institute of Chicago. eatur conectu rehendebis tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Ashkenaz

Gli Ebrei di Germania

La presenza degli Ebrei nelle terre a nord delle Alpi risale all’età romana. Ma è tra il IX e il X secolo che le città tedesche dislocate lungo il fiume Reno divengono meta di un importante flusso migratorio, forse proveniente proprio dall’Italia meridionale. Nasce cosí la grande epopea delle comunità renane, punto di diffusione di un nuovo ramo dell’ebraismo europeo


Dossier

L L

’origine della presenza ebraica in Germania affonda le sue radici nell’antichità romana. E, in particolare, nei piccoli gruppi di mercanti e artigiani che andarono a insediarsi, insieme ad altri, provenienti dall’Italia e dalla Gallia, nelle città situate al di là del Reno, fiume che, con il Danubio, segnava da secoli il confine settentrionale dell’impero di Roma. A prezzo di duri sforzi e sanguinose battaglie, con l’obiettivo di pacificare i confini delle prosperose regioni romanizzate, i Romani, sin dal I

Dal Portogallo

LITUANIA BRANDEBURGO 00 Berlino 1349 - 1510 - 1571 - 14 1213 0 0 10 1 0 Magdeburgo - 14 Nordhausen 96 0 10 110 Halle SASSONIA 96 10 1205 Meissen Bautzen SLESIA

Magonza 1012-1096

1330 1330

Ulm

Praga

Ratisbona Augsburg Passau BAVIERA Monaco

Ravenna Livorno

1421

Vienna 1349 1364 1420

UNGHERIA

Budapest 1348 1360

8

-1 36 0

Impero ottomano

Trieste

Pola

Genova

AUSTRIA

4

Venezia

Marsiglia

BOEMIA

13

Udine Gorizia

Breslau 1349

Zittau

Norimberga

Sciaffusa Basilea Winterthur 1294 San Gallo 1268 Solothurn Zurigo Neuchätel Lucerna 1299 1259 SVIZZERA Berna Passo San Gottardo Argovia

Avignone

Görlitz

64 13

0 133

Dresda Plauen 1543

Francoforte Merseburg Bamberga

Worms Würzburg Spira Fürth

ALSAZIA FRANCIA

Erfurt 1215

1421

Metz

Lipsia

Gotha 1212

POLONIA

134 136 8 0

Colonia

9

OLANDA

Verdun

7

Amburgo

492 na 1 pag S lla Amsterdam Da

Treviri

Nella pagina accanto pagina miniata con la raffigurazione del seder di Pesach, la prima delle due cene che si consumano in occasione della Pasqua ebraica, dall’Haggadah illustrato da Joel ben Simeon Feibusch. 1460-1475. Londra, British Library. L’Haggadah è una raccolta di insegnamenti scritti da autori ebraici dal I all’XI sec. e riguardanti l’etica, la religione, la politica e il folclore. In basso cartina con l’indicazione delle piú importanti comunità ebraiche e le direttrici seguite dalla loro espansione nella Francia orientale e in Germania tra il 1000 e il 1500.

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MARE DEL NORD

secolo d.C., avevano organizzato alcune province limitanee ai margini del territorio abitato dai Germani, corrispondente alla Germania meridionale e alle regioni renane, lasciando il resto di quella boscosa e immensa nazione alle popolazioni tribali e nomadi. Roma fondò città – tra cui Colonia Agrippina, capoluogo della Germania inferiore (l’attuale Colonia) – in cui, come in altri centri dell’impero, erano presenti anche comunità ebraiche. Esse divennero ben presto il fulcro della vita culturale, econo-

Principali comunità ebraiche Direttrici delle migrazioni di Ebrei verso il Settentrione, attraverso le Alpi, tra il 500 e il 1000 Direttrici delle fughe di Ebrei all’indomani delle persecuzioni oppure in seguito ai provvedimenti di espulsione, con le relative date Confini dell’impero germanico intorno al 1000

MAR MEDITERRANEO

Città in cui erano attive, al 1500, scuole di dottrina ebraica

Roma

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Città in cui gli Ebrei furono vittime di attacchi o vennero espulsi

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Dossier mica e spirituale, in particolare nella Colonia della prima metà del IV secolo d.C. Pochi decenni piú tardi, i Germani, terrorizzati dalle violenze perpetrate dai Mongoli lungo i loro confini orientali, si misero in marcia, dando vita a un’ondata migratoria gigantesca, che spinse Particolare di una miniatura raffigurante un insegnante con il suo allievo. Berlino, Museo Ebraico. Nelle comunità degli Ebrei ashkenaziti, l’educazione dei bambini era affidata ad associazioni benefiche dette havarot.

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centinaia e migliaia di loro contro le città romane, sommergendole. La presenza ebraica sopravvisse, come eredità del mondo romanzo, nei nuovi regna emersi dalla stabilizzazione dei popoli germanici: la Francia merovingia, il regno burgundo, le nationes alamanne e baiuvare. In quei secoli di silenzio – silenzio delle fonti – le comunità ebraiche poterono organizzarsi e continuare a vivere e riuscirono a farlo anche quando, con Carlo Magno, l’Europa divenne un unico corpo cristiano e romano-germanico.

Con i re carolingi, l’Occidente emerse dal ribollente mondo scaturito dallo scontro e dall’integrazione tra popoli germanici e popoli romanzi. Questa Europa carolingia si allargò alla Germania «profonda», con la conquista dei territori sassoni e la conversione forzata al cristianesimo di grandi masse germaniche e slave. Venne cosí a crearsi una realtà imperiale che, fin dalla sua origine, rappresentò un corpo unitario dal punto di vista culturale e, soprattutto, religioso. Un Occidente governato dalla spada dell’imperatore e dalla

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tiara del papa, circondato da popoli mania, tra il IX e il X secolo, muo- Basso Medioevo e Rinascimento – minacciosi, infedeli o eretici: Ungari, vendo con buona probabilità determinarono successive ondate dall’Italia meridionale, si diresse migratorie, che portarono le origiArabi, Bizantini, Vichinghi. Gli Ebrei rimasero l’unico «cor- una prima – consistente – migrazio- narie comunità ashkenazite prima po estraneo» ammesso in tale coeso ne ebraica. I nuovi venuti risaliro- in Svizzera e in Austria, poi in Bouniverso cristiano, il solo elemento no verso settentrione, stabilendosi emia e Ungheria e infine – massic«diverso» sopportato, tollerato; a lo- in piccoli villaggi dell’area renana. ciamente – verso regioni ancor piú ro – e solo a loro – fu concesso di so- Centri che – in quanto posti tra Ger- orientali, quali la Polonia, l’Ucraina pravvivere e mantenere tradizioni, e mania e Francia, lungo l’efficacissi- e la Bielorussia. perfino un’organizzazione comuni- ma via di comunicazione medievale taria e religiosa. Tuttavia, il mondo rappresentata dal Reno – possede- Un caso a parte altomedievale occidentale non era vano caratteristiche geografiche Tornando ai secoli del Medioevo attrezzato – né culturalmente, né che li rendevano promettenti dal centrale, come si è visto, l’Europa – socialmente – alla tolleranza ver- punto di vista commerciale. Una soprattutto quella continentale – si so religioni non cristiane. Non che promessa destinata a diventare re- percepiva come un corpo unitario vi fosse supponenza o disinteresse altà, tanto che le nuove comunità cristiano, in cui la convivenza con da parte dei cristiani: i rapporti con contribuirono a determinare il fio- i «religiosamente diversi» appariva Arabi e Greci non furono sempre rente sviluppo di città come Worms, inammissibile. Perché dunque fu permesso agli Ebrei di mantenere conflittuali, tutt’altro. Ma l’idea che Magonza, Colonia, Spira, Metz. Gli immigrati ebrei che ripopo- – nel Medioevo assai piú che nelle all’interno dei confini dell’impero si potessero mantenere usi religiosi larono ciò che restava delle loro piú epoche successive – la propria relidiversi da quelli cristiani fissati da antiche comunità trovarono nella gione e le proprie tradizioni? Per rispondere, occorre fare un Roma era semplicemente inconce- Germania una nuova patria e ricopibile. I Sassoni pagani furono con- nobbero in essa quella che, secondo passo indietro e chiarire che gli Ebrei, in realtà, non vertiti a prezzo di eccidi erano affatto avvertispaventosi, e una sorte L’idea che all’interno dell’impero ti come un elemento analoga toccò a Slavi, germanico potessero sussistere estraneo alla storia Boemi e Lituani. È pur vero che in alusi religiosi diversi da quelli cristiani europea. La presenza delle comunità ebraicune regioni periferiche era inconcepibile che nel mondo romale condizioni oggettive no era, come si è già suggerivano un atteggiamento diverso; in Italia – soprattutto la tradizione rabbinica, era la terra detto, estremamente capillare ben nell’area mediterranea – la vicinan- di un personaggio biblico, Ashke- prima della diaspora seguita alla za con etnie e religioni differenti era naz – figlio di Gomer, nipote di Noè repressione effettuata da Tito neldi antica tradizione e, in particolare – e capostipite di Germani, Slavi e la seconda metà del I secolo d.C., nelle città portuali, inevitabile. Gli Scandinavi. Da tale nucleo di im- quando fu distrutto il secondo temscambi e i rapporti tra Italiani greci, migrati nacque un nuovo ramo del pio di Gerusalemme. Tali comunità Italiani arabi e Italiani longobardi mondo ebraico, che prese il nome di continuarono a vivere pacificamenerano normali, nonostante l’istinti- «ashkenazita», gemello separato di te all’interno dei confini dell’impeva e reciproca diffidenza. Nelle aree quel gruppo, detto «sefardita», che ro romano anche quando, nei primi governate dagli Arabi, che erano di si era invece radicato in Spagna, la decenni del IV secolo, gli imperatori gran lunga piú tolleranti dei cristia- «terra di Sefarad» (vedi «Medioevo» divennero cristiani. Sul finire dello stesso secolo, ni, la convivenza tra cristiani, Arabi n. 189, ottobre 2012). Nel giro di pochi decenni, gli però, l’impero aderí in forma semed Ebrei divenne un laboratorio per la rinascita del pensiero razionale, Ebrei ashkenaziti svilupparono una pre piú ortodossa al credo cristiano per lo scambio culturale e per lo svi- cultura propria, originale e innova- espresso da Roma, e furono promosluppo dell’arte. L’Europa germani- tiva. Inventarono anche una lingua se leggi che limitavano – e spesso ca, invece, non conosceva tale tipo di – lo yiddish –, una variante sorta dal- peggioravano – la condizione degli approccio: si era forgiata sulla difesa la miscela tra il dialetto germanico Ebrei, e ancor di piú dei pagani e militare, e solo nella religione cristia- dell’Alsazia, l’ebraico antico e l’ara- degli eretici. In quegli anni, lo status na aveva trovato le ragioni della sua maico, via via arricchitasi con ter- degli Ebrei all’interno del mondo rounità, di cui l’imperatore era garan- mini slavi. I nuclei primitivi si mol- mano cristiano si cristallizzò: la loro te. Non aveva inoltre una tradizione tiplicarono, popolando altre città condizione giuridica e civile fu limidi commerci, né tantomeno di scam- della Germania. Le difficili vicende tata, ma la loro presenza fu formalstoriche di cui furono protagonisti mente accettata. Tale tradizione s’inbi culturali. Tuttavia, proprio verso la Ger- nel corso dei secoli – soprattutto tra scrisse nel diritto romano imperiale

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Dossier che passò – con mutamenti e restringimenti – anche nella legislazione romano-germanica. Soprattutto, essa transitò nel diritto canonico, che aveva validità per l’intero mondo cristiano e che conobbe la sua definitiva formalizzazione tra l’XI e il XII secolo. Ciò ebbe come singolare conseguenza di trasformare le classi dirigenti dell’Europa medievale – sia laiche che religiose – in tutrici della comunità ebraica, a cui fu assicurato il diritto di vivere all’interno del vasto organismo imperiale. Nel momento in cui nacque l’impero carolingio, la popolazione ebraica divenne la sola «alterità» accettata, e fu direttamente sottoposta alla figura dell’imperatore o a quella del papa, che divennero limitatori e garanti della sua sopravvivenza. Tale elemento di eccezio-

nalità, assumeva maggiore significato in Germania, cuore del potere imperiale e nazione meno abituata alla presenza storica delle comunità ebraiche rispetto alle regioni che si affacciavano sul Mediterraneo. Lo stesso Carlo Magno, che si era mostrato tanto crudele verso i Sassoni pagani, teneva presso la propria corte alti dignitari ebrei, ai quali faceva ricorso in particolare per le ambasciate, a motivo delle loro competenze linguistiche e dell’alto livello culturale.

Un condizione ambigua

Alla base del rapporto tra trono e comunità ebraiche permaneva, però, un’ambigua condizione giuridica: gli Ebrei erano spesso definiti «servi camerae regis», cioè appartenenti ai beni diretti dell’imperatore.

Una formula che, sebbene li proteggesse dalle eventuali intemperanze del popolino e del basso clero, li assoggettava però – equiparandoli a figure servili – al dominus feudale. Era una condizione giuridicamente fragile che, nella complessa società emersa dopo l’ascesa di Carlo Magno, si fece ancor piú precaria. Si deve però ricordare che non si trattava di una condizione eccezionale: anche tra i contadini si distinguevano con fatica le condizioni feudali di servitú, semilibertà e libertà. Si trattava, quindi, di un compromesso accettabile per le comunità ebraiche della Germania renana. Gli Ebrei qui erano impegnati – come tutti – nel lavoro della terra e nel piccolo artigianato, ma iniziavano anche a intrecciare i primi fili di floride attività commerciali, che

Ben presto, gli Ebrei insediatisi nelle città lungo il Reno divennero i protagonisti di floride attività commerciali Miniatura raffigurante il primo giorno di scuola di un gruppo di bambini ebrei. Berlino, Museo Ebraico. Nella scena vengono dati loro da mangiare alcuni biscotti, quale allegoria del sapore «dolce» della conoscenza.

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in breve tempo fecero la fortuna di quelle città. Quando però – secoli piú avanti – salirono al trono imperatori meno tolleranti verso la religione di Mosè, o – peggio ancora – quando i liberi Comuni tedeschi iniziarono a trovare insopportabile il giogo imperiale, l’antica alleanza tra Ebrei e imperatori si tramutò in un fardello, a volte fatale. In Germania, seppur contenuta dalle antiche leggi dell’impero, l’avversione nei confronti degli Ebrei era assai diffusa. In una società militare e feudale come quella tedesca dei secoli di ferro, gli Ebrei erano comunque percepiti come un corpo estraneo. Per antica disposizione, essi non portavano armi, e ciò li poneva già in una condizione di inferiorità giuridica, soprattutto nei confronti della cultura germanica A destra il privilegio emanato da Enrico IV, imperatore del Sacro Romano Impero, in favore degli Ebrei della città di Worms, il 18 gennaio del 1074. Worms, Archivio storico della città.

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Dossier dominante. Inoltre, per mantenere vivi i costumi e la propria religione, essi si sposavano fra loro, accentuando la propria vocazione all’isolamento a cui contribuiva, inoltre, l’uso di una lingua propria. Vi era poi, su tutte, la questione del lavoro. Quasi tutti gli Ebrei lavoravano la terra, ma potevano anche contare su una rete di rapporti di amicizia e solidarietà tra correligionari che li predisponeva allo sviluppo del commercio su scala regionale o extraregionale. Inoltre, in un panorama dominato dall’analfabetismo, l’obbligo allo

In alto e in basso Pietro l’Eremita guida la crociata dei «pezzenti», miniatura tratta dal Manoscritto Egerton 1500. XI sec. Londra, British Library. Detta anche «dei Tedeschi», la mobilitazione non raggiunse mai la Terra Santa e si risolse nel primo caso di persecuzioni ai danni della comunità ebraica. A destra xilografia novecentesca raffigurante un gruppo di Ebrei della città di Colonia arsi vivi. Riproduizione di una miniatura di epoca medievale.

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studio della Bibbia si traduceva in un’alfabetizzazione diffusa che li rendeva mediamente piú acculturati dei cristiani. Infine, le comunità – per gestire gli uffici religiosi e garantire l’assistenza ai fratelli piú bisognosi – tendevano ad assumere forme di autogoverno politico.

Un’autonomia invidiabile

Il rabbino, infatti, non rappresentava solo una guida religiosa, ma anche politica e giuridica. In un orizzonte in cui le nascenti municipalità tedesche faticavano a emanciparsi dal dominio feudale, tale autonomia era

vissuta come una prerogativa invidiabile. Se, infatti, in età carolingia le carte di tuitio, che consentivano agli Ebrei di vivere pacificamente nei territori tedeschi (cioè di giurisdizione imperiale), venivano concesse individualmente, in un secondo momento furono estese alle intere comunità ebraiche. Dal 1090 infatti, con Enrico IV, tali «privilegi» iniziarono a essere concessi anche a livello collettivo. Piú avanti, il legame tra Ebrei e imperatore fu anche formalizzato dalla nomina di uno Judenmeister, un ufficiale governativo preposto alla protezione e all’ascolto delle comunità.

Successo nei commerci, superiorità culturale, riconoscimento all’autogoverno erano elementi già di per sé sufficienti ad attirare il fastidio dei cristiani verso le comunità ebraiche. Con lo sviluppo mercantile e commerciale delle città bassomedievali, inoltre, si aggiunse l’odio nei confronti del prestito di denaro. La Chiesa infatti, sollecitata a prendere posizione sulla liceità di tale esercizio, aveva concluso che i precetti evangelici ne vietassero la pratica per i cristiani. Essa fu cosí demandata ai soli Ebrei, a cui era peraltro preclusa gran parte dei mestieri. Co-


Dossier A sinistra l’interno della sinagoga di Worms, una delle piú antiche della Gemania. Fondata nel 1034, fu distrutta durante la crociata «dei Tedeschi» del 1096. Ricostruita in stile romanico nel 1174/75, fu data alle fiamme durante le persecuzioni del 1938 e nuovamente restaurata nel 1961.

sí, nel giro di poco tempo, i cambiavalute e i prestatori di denaro furono quasi tutti Ebrei, e ciò li rese ancora piú avversi agli occhi dei cristiani. Cristiani ed Ebrei, quindi, non erano divisi solo da questioni religiose, ma anche da differenze, e, in molti casi, dall’inferiorità culturale ed economica dei primi rispetto ai secondi. Tale distanza veniva tollerata solo in situazioni di benessere e quando risultavano evidenti i vantaggi economici arrecati alle città nord-europee dalla presenza ebraica. Quando, invece, le difficoltà economiche e il fanatismo cristiano convergevano, gli Ebrei ridiventavano un corpo avulso dalla società e, in quanto tale, un elemento da distruggere. È quanto avvenne nel 1096, con il primo endemico episodio di persecuzione contro gli Ebrei tedeschi. Il fattore scatenante fu l’indizione della prima crociata, promossa dai pontefici per liberare la Terra Santa caduta nelle mani degli Arabi. L’appello per la liberazione di Gerusalemme fu sistematico e raggiunse

L’organizzazione delle comunità

Pratica religiosa, istruzione, assistenza La vita sociale e religiosa delle comunità ashkenazite si basava su un’organizzazione sociale e giuridica tesa a mantenere un autogoverno efficace e distinto. Essa doveva garantire necessità individuali e collettive, quelle religiose innanzitutto, il che voleva dire avere un cimitero, una sinagoga, un luogo in cui effettuare i bagni rituali e un tribunale. Quest’ultimo doveva occuparsi sia di questioni penali che civili, ed era generalmente presieduto dal rabbino. Una funzione centrale era esercitata anche dalle associazioni benefiche – dette havarot –, che si occupavano dell’educazione dei bambini e dell’assistenza ai bisognosi.

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Vi era poi un efficace sistema assistenziale, che nelle comunità piú grandi poteva voler dire un proprio ospizio od ospedale. Tali strutture, cosí come la retribuzione per il rabbino, erano sempre finanziate dalla comunità che provvedeva anche a versare una tassa per la sicurezza, negoziata con le autorità cittadine. La sinagoga, infine, rappresentava il cuore del quartiere abitato dagli Ebrei. In genere tali templi erano sottoposti a limitazioni da parte delle autorità, che ne comprimevano l’ampiezza o l’altezza. In città importanti, come Worms e Ratisbona, tuttavia, le sinagoghe presentavano caratteri monumentali. maggio

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i Bagni per la purezza Mikveh, plurale mikva’ot (dall’ebraico «confluire»), è il nome che designa le vasche usate dalle comunità ebraiche, sin dall’antichità, per le abluzioni rituali prescritte dalle regole halakhiche. Di tali strutture, risalenti ai secoli del Medioevo, in Germania se ne sono individuate – a partire dagli anni del dopoguerra fino a oggi – piú di 400 (tra cui quelle di Colonia, Spira, Worms, Petershagen, Busenberg, Rotenburg, Sondershausen, ecc.). Molte di esse sono state scavate, restaurate e monumentalizzate, come, per esempio, la mikveh di Erfurt (vedi alle pp. 86-87).

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In alto pianta degli ambienti e schema del percorso rituale all’interno della mikveh di Colonia. 1. Scalinata d’accesso. 2. Vestibolo e camera per cambiarsi. 3. Deposito per gli abiti. 4. Nicchie per asciugamani e lucerne. 5. Vasca rituale.

La mikveh non aveva finalità igieniche, ma serviva a restituire all’individuo che vi si immergeva una simbolica purezza cultuale, compromessa, per esempio, dal contatto con un morto o da determinati effluvi corporei (il sangue mestruale). L’acqua usata nelle mikva’ot doveva essere viva, non stagnante, ragion per cui molte di esse erano costruite a livello della falda acquifera. In alto Il monumentale accesso alla mikveh di Colonia (il Puteus Iudaeorum, secondo la denominazione che appare su documenti del XIII sec.). Le sue origini datano all’VIII sec. Fu riscoperta, insieme ai resti della sinagoga, nel 1956. A destra il vestibolo della mikveh di Spira, datata al 1100.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

capillarmente masse sterminate slavo impiegato successivamente storia della Germania e dell’Europa. di analfabeti che furono avvam- per definire tali rivolte). Furono epi- I responsabili delle stragi non anpate dalla rozza predicazione del sodi drammatici, che portarono alla davano rintracciati infatti solo nelle basso clero. In Germania, alcuni morte molte migliaia di Ebrei, forse miserabili e rabbiose folle popolari capipopolo provenienti dai ranghi 12 000. L’alto clero e i grandi feuda- guidate da un clero incolto, ma andella piccola nobiltà, riuche tra coloro che avevano scirono – sull’onda di tale mantenuto, per credo o Le rivolte antiebraiche nella predicazione – a mobilitare per interesse, una costante diverse migliaia di armati primavera del 1096 segnarono, per guerra – a bassa tensione – che, invece di dirigersi verla storia delle comunità renane, contro l’ebraismo. Tra essi so Oriente, trovarono piú vanno annoverati anche gli un punto di non ritorno sbrigativo dedicarsi a una impotenti e tardivi difensori crociata interna contro gli delle comunità aggredite: la Ebrei (vedi anche «Medioevo» n. tari, imperatore in testa, reagirono Chiesa e l’impero. 179, dicembre 2011). reprimendo le rivolte antisemite e La Chiesa aveva alimentato per Per alcuni mesi, le città renane cercando di proteggere – laddove era secoli una costante polemica anti– rese ricche e importanti dal con- ancora possibile – le comunità su- giudaica; una polemica di natura tributo decisivo delle popolose co- perstiti. Ma per molte di esse era or- teologica, che aveva però creato i munità ebraiche –, furono attraver- mai troppo tardi. Quei mesi del 1096 presupposti per la marginalizzasate da sanguinosi pogrom (termine segnarono un punto di svolta per la zione delle comunità ebraiche nel-

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il cimitero di worms Veduta del cimitero ebraico di Worms, il piú antico d’Europa, con la lapide di Jacob ha Bachur, defunto nell’anno 1076 (nella pagina accanto). Nel maggio del 1096 la città fu raggiunta da un’orda di pellegrini armati, fomentata dall’odio religioso, che si avventò contro gli Ebrei. In particolare, una banda capeggiata da Emich di Leiningen si diede a saccheggi e assassinii, diede l’assalto al palazzo del vescovo e uccise alcuni Ebrei che vi avevano cercato rifugio.

le città e nei villaggi. Imperatori e grandi feudatari (tra essi anche i vescovi-conti che guidavano le città della Germania) avevano a lungo sfruttato le comunità ebraiche, perseverando nell’equipararle a figure semiservili, da sottoporre a protezione, ma anche a giogo feudale.

Denaro a prestito

Proprio questi opposti e duplici interessi fecero sí che gli Ebrei venissero spinti a esercitare il mestiere di prestatori di denaro a interesse. Un mestiere «non cristiano», che segregava socialmente chi lo praticava: e proprio la segregazione sociale e morale era l’obiettivo della Chiesa. Mentre quello dei grandi feudatari era di imporre una tassa-

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zione straordinariamente elevata a un mestiere aborrito, praticato da una comunità odiata. Ciononostante, si ebbe la reazione di papi e imperatori, di vescovi e re a difesa dei «loro» Ebrei, grazie alla quale i pogrom del 1096 rimasero un episodio gravissimo, ma privo di conseguenze storiche immediate. Tuttavia – nella primavera di quell’anno –, fu piantato, in gran profondità, un seme. E quando, secoli piú tardi, grazie alla Peste Nera, si scatenò una nuova ondata di psicosi collettiva, quel seme diede vita a un albero maligno in grado di condurre – nel XX secolo – la civiltà ashkenazita europea pressoché all’estinzione. Il profondo impatto psicologico

provocato dalla «crociata dei Tedeschi» del 1096, ebbe quindi conseguenze importanti per le comunità ashkenazite, ma non impedí loro di risollevarsi e riprendersi. Anzi, tra l’XI e l’inizio del XIII secolo, esse maturarono, diversificandosi da quelle sefardite, cioè dall’ebraismo mediterraneo. Lo yiddish si diffuse come lingua parlata dalle comunità e, soprattutto, nacque una grande scuola di pensiero, che ebbe i suoi pilastri dottrinari nell’interpretazione dei testi sacri. Tale scuola trasse origine da prestigiose figure di commentatori, che riscossero grande seguito e diedero forma a una mentalità che divenne patrimonio caratterizzante dell’ebraismo ashkenazita. Il fondatore della religiosità

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Dossier ashkenazita può essere individuato nel rabbino Gershom Ben Judah. Intorno all’anno 1000, egli insegnava nelle scuole di Metz e Magonza, circondato da una moltitudine di allievi, intenzionati a seguirne l’esempio e amplificarne le idee. Gershom può essere considerato il fondatore degli studi talmudici in Francia e in Germania.

A sinistra il privilegio concesso agli Ebrei dall’arcivescovo di Colonia Engelbert von Falkenberg nel 1266. Peculiarità del documento è il suo essere stato scritto sulla «pietra»: il testo venne infatti iscritto su una lapide collocata nella cattedrale della città tedesca. Von Falkenberg si risolse a prendere il provvedimento all’indomani dei disordini sfociati in episodi di violenza ai danni della comunità ebraica, alla quale esso accordava il diritto di seppellire i propri morti senza intralci, l’esenzione dall’imposta di successione e il monopolio del prestito di denaro.

La «luce dell’esilio»

Si deve ricordare che il Talmud è una collezione di discussioni e commenti di sapienti e rabbini in merito alla Torah, cioè alla Bibbia. Insieme a quest’ultima quindi, il Talmud rappresenta il testo sacro dell’ebraismo. Esso fu compilato dopo la Diaspora, quando i rabbini avvertirono la necessità di fissare l’enorme patrimonio di commenti e discussioni alla Torah, fino ad allora tramandati per lo piú per via orale. Si trattava di garantire alle comunità, in gran parte disperse, la sopravvivenza rituale e la possibilità di attingere direttamente a commentari originali della Torah. Nel cuore dell’età medievale, Gershom (non a caso definito «luce dell’esilio») compí un’operazione per certi versi simile. Riprese le versioni del Talmud compilate in area mediorientale nei secoli successivi alla Diaspora, ne curò l’esegesi e li risistemò. Sulla base di tali testi, egli fissò una regolamentazione della vita delle comunità occidentali che lo fece assurgere a guida giuridico-religiosa di tutte le comunità ebraiche europee, e non solo. In tale veste, poté indire un sinodo in cui furono per la prima volta disciplinati – con aspetti di netta difesa del mondo femminile – la poligamia e il divorzio. L’attività di studio del Talmud e la ripresa dell’esegesi dei testi sacri ebbe grande seguito con la creazione di una vera e propria scuola. Gli eventi che affliggevano le comunità ebraiche non potevano però lasciare indifferenti. Agli inizi dell’XI secolo si susseguirono, infatti, episodi di persecuzione e discriminazione – all’epoca ancora incruenti – sia in Francia che in Germania, provocando il diffondersi di conversioni

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forzate che laceravano le comunità. Gershom intervenne anche in proposito, stabilendo la necessità di una maggiore tolleranza nei confronti dei correligionari costretti alla conversione. Egli diede l’impronta all’ebraismo ashkenazita secondo principi di pietà, tolleranza, studio indefesso e religiosità intima. Non a caso, l’ebraismo ashkenazita divenne padre del «pietismo ortodosso» degli hassidim, dello studio della cabala e del filone piú occulto e tradizionale, come anche dell’illuminismo ebraico e del progressismo socio-politico del XVIII e XIX secolo. Un approccio e una sensibilità che collocavano l’ebraismo ashkenazita in una dimensione diversa rispetto al mondo sefardita, che stava sviluppandosi in Spagna. Quest’ultimo (meno marginalizzato e perseguitato), era piú aperto all’influsso del mondo esterno, arabo e cristiano, e alla tradizione greco-romana. Mentre in Spagna, il grande filosofo ebreo Maimonide (vedi ancora «Medioevo» n. 189, ottobre


2012) innestava l’aristotelismo (e attraverso esso il pensiero razionale) nella tradizione ebraica, sulle rive del Reno Gershom ricostruiva le basi per lo studio teosofico e per l’interpretazione ermetica dei testi ebraici, garantendo la futura fioritura (legata semmai alla tradizione neoplatonica) degli studi cabalistici. È forse quest’ultima una schematizzazione troppo semplicistica delle due anime dell’ebraismo europeo, che restarono comunque in dialogo tra loro, ma rende l’idea della divaricazione operatasi in seno all’universo ebraico medievale intorno all’anno 1000. La tendenza alla sistemazione, compilazione e depurazione dei testi sacri propria della cultura ashkenazita ebbe, tra le varie conseguenze, la

creazione di libri liturgici e di raccolte di preghiere estremamente accurati e finemente ornati. Si deve porre l’accento sul fatto che le preghiere ebraiche non erano state, fino ad allora, raccolte in testi canonizzati.

La prima scritta yiddish

I «Mahzorim» – questo il nome dato a tali libri – non contenevano solo le raccolte di preghiere, ma anche le procedure rituali da seguire durante le festività. Nel Mahzor di Worms, oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Israele, appare la prima attestazione scritta in lingua yiddish, datata al 1272. Si tratta di una nota aggiunta sul margine di una delle pagine del libro. Il primo testo letterario scritto invece in yiddish è il manoscritto detto

«di Cambridge», datato al 1382. La creazione di tali monumentali volumi ebbe anche un impatto diretto sull’espressione artistica ebraica, in quanto si vennero a creare scuole di miniatori specializzati nell’ornato dei testi ebraici. Tipica del mondo tedesco era la miniaturizzazione delle lettere incipitali e l’uso di un’iconografia fantastica, caratterizzata da mostri e figure leggendarie decorate a vivaci colori. Nell’ambito del recupero e della riscoperta della tradizione, la religiosità ashkenazita fu anche segnata dalla nascita di correnti originali di matrice ascetica. Fu il caso degli «hassidim» o «uomini pii», seguaci del diretto legame con Dio e caratterizzati dal completo disinteresse nei confronti del mondo secolare.

Il Mahzor di Worms, documento in cui compare la prima attestazione scritta in lingua yiddish, datata al 1272. Gerusalemme, Biblioteca Nazionale di Israele.

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Dossier Tale corrente rimase patrimonio della cultura ashkenazita e diede vita a future riprese. I rabbini che con il Sefer Hassidim, scritto intorno al 1200, dettero vita a tale scuola di pensiero furono Samuel ben Kalonymus e Judah il Pio.

L’età degli uomini pii

Gli uomini pii, oltre che insistere sulla serenità da offrire a fronte dei dolori del mondo, predicavano la costante ricerca dell’amore di Dio, alla cui volontà si doveva mostrare umiltà e sottomissione. Vi era negli hassidim – da cui hassidismo o chassidismo – anche una rigida attenzione nei confronti dei rituali. Il successo di tale approccio religioso è stato messo in relazione con le persecuzioni antigiudaiche scatenatesi in Germania a partire dalla metà del XIV secolo, le quali avrebbero costretto l’ebraismo ashkenazita a sviluppare un totale distacco dalle vicende terrene. Tuttavia sarebbe riduttivo interpretare la sensibilità degli uomini pii solo sotto tale luce; essa va considerata un portato profondo della religiosità ebraica, che sin dalle sue origini, fu contraddistinta da una pluralità di approcci, spesso in contrasto dialettico tra loro. Lo hassidismo conobbe infatti anche un’intensa ripresa tra le comunità ashkenazite dell’Europa orientale in età moderna.

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DOPPIA DA SISTEMAR

La sinagoga di Erfurt

Nella città tedesca di Erfurt, capitale dello Stato federale della Turingia, sorge la piú antica sinagoga, interamente conservata, dell’Europa centrale. Miracolosamente sopravvissuta alle distruzioni che, nei secoli dal Medioevo fino all’età moderna, si sono abbattute sui luoghi di culto delle comunità ebraiche dell’Europa centrale, essa rappresenta oggi, insieme ai resti di una mikveh (una vasca per le abluzioni rituali; vedi box a p. 81) di 750 anni fa scoperta nel 2007, una rara quanto preziosa testimonianza monumentale dell’ebraismo medievale in Germania. Una prima fase costruttiva della sinagoga è attestata per la fine dell’XI secolo; nel secolo successivo venne

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poi ampliata, fino ad assumere, intorno al 1300, le dimensioni di un grande edificio di rappresentanza. Ma la sua fortuna, nonché quella degli Ebrei di Erfurt, non era destinata a durare: il 21 marzo del 1349, nel corso di una violentissima persecuzione, la popolazione ebraica della città venne massacrata, la sinagoga saccheggiata e trasformata in magazzino. Per secoli la memoria della sua vera identità si perse. Dalla fine dell’Ottocento l’edificio fu adibito a locanda con annessa sala da ballo, una circostanza che, paradossalmente, ha permesso all’antico luogo di culto di attraversare, in incognito, anche l’ultima delle persecuzioni, quella nazista. Nel 2009 la «Vecchia Sinagoga» è stata restaurata e, insieme alla mikveh, riaperta al pubblico come museo dedicato al perduto mondo dell’ebraismo di Erfurt. Qualche anno prima, però, nel 1998, uno straordinario ritrovamento aveva riportato la memoria di archeologi e studiosi a quei drammatici eventi del 1349: negli scantinati di un edificio adiacente alla Vecchia Sinagoga, durante lavori di ricognizione venne alla luce una serie di oggetti preziosi, ben presto identificati come parte di un ampio tesoro composto da 3141 monete d’argento, 14 barre di varia misura e vasellame da tavola sempre d’argento, insieme a oltre 700 gioielli d’oro, d’argento e di pietre preziose. Tra questi spiccava un anello nuziale, in filigrana d’oro, finemente lavorato e che reca incisa la formula augurale «Masel tov», ebraico per «Buona Fortuna». Le indagini hanno confermato che proprietario del tesoro era stato Kalman von Wiehe, un benestante banchiere ebreo di Erfurt. Kalman aveva nascosto i preziosi oggetti proprio per sottrarli alle masse inferocite. Riuscí nel suo intento, ma non lo seppe mai. Morí colpito dalla violenza di quel nefasto 21 marzo del 1349. Andreas M. Steiner

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In alto i lavori di scavo della mikveh (vasca per abluzioni rituali) rinvenuta, nel 2007, nei pressi della Vecchia Sinagoga di Erfurt (Turingia, Germania). Nella pagina accanto la Vecchia Sinagoga di Erfurt (IX-XIII sec.). A destra lo Iuramentum Iudaeorum (o Giuramento More Iudaico) di Erfurt, redatto intorno al 1200. Si tratta del piú antico documento del genere in lingua tedesca. Gli Iuramenta Iudaeorum erano una forma di giuramento imposta da parte cristiana agli Ebrei, in caso di controversie giuridiche tra Ebrei e non Ebrei.

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IL TESORO RITROVATO

In questa pagina alcuni dei reperti facenti parte del tesoro di Erfurt, un insieme di oggetti preziosi risalenti alla prima metà del XIV sec. e rinvenuti, nel 1998, nei pressi della Vecchia Sinagoga. In alto, a sinistra spilla in oro e pietre preziose. In alto, a destra bacino in argento dorato. A destra scatoletta in argento con coperchio raffigurante una coppia di innamorati. A sinistra e nel particolare in basso il celebre «anello nuziale» di Erfurt, in filigrana d’oro. L’iscrizione Mazel Tov, ebraico per «Buona Fortuna», è incisa su una delle superfici dell’edificio gotico raffigurato dall’anello.

Dove e quando Alte Synagoge und Erfurter Schatz (Vecchia Sinagoga e Tesoro di Erfurt) Esposizione permanente. Info www.alte-sinagoge.erfurt.de

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dioevo, in particolare tra le comunità del Mediterraneo orientale. Esso era stato assimilato da Ebrei stanziati in Italia e da lí portato in Renania sin dalla prima fase dell’immigrazione ebraica. Alcuni tra loro ne avevano una conoscenza probabilmente personale, forse tramandata all’interno di ristrette cerchie familiari. Proprio i discendenti di una di queste famiglie, quella dei Kalonymus, decisero di offrire una formalizzazione e una struttura a tale sistema di conoscenze.

Il potere della cabala

In alto Una pagina della Bibbia ebraica di Erfurt, il piú importante documento del genere in pergamena a oggi noto. Completata nel 1343, è stata restaurata negli anni 1999-2007 ed è oggi esposta nel Museo della Vecchia Sinagoga.

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Tra i frutti piú originali dell’ebraismo ashkenazita va senza dubbio citato l’approfondimento degli studi sulla cabala, che proprio in Germania conobbe un’importante fase di sistematizzazione, in grado di influenzare profondamente anche il mondo cristiano rinascimentale. La cabala «germanica» si poneva in continuità con il misticismo ebraico, il quale aveva sempre mantenuto un approccio ai testi sacri segnato dagli studi occultistici. Tale genere di misticismo si era affermato nei primi secoli del Me-

In estrema sintesi, ciò rappresentò l’atto di rinascita della cabala, un modello di comprensione della vita degli individui e della creazione basato sulla lettura esoterica della parola divina attraverso l’analisi delle radici numerologiche occulte della Torah. In una parola, la cabala era un potente strumento di conoscenza, a cui generazioni di credenti e scienziati, per secoli, rivolsero costantemente lo sguardo. Sempre nel campo degli studi talmudici, invece, a partire dal XII secolo, in Francia e in Germania si diffusero i Tosafisti, rabbini che si occupavano di scrivere glosse critiche ed esplicative sul Talmud (Tosafot vuol dire «aggiunte»). Tali aggiunte riguardavano questioni, interpretazioni, decisioni e digressioni, che formarono un vero e proprio apparato prescrittivo; esse erano molto importanti per l’applicazione pratica della legge ebraica, poiché essa differiva a seconda di come il Talmud veniva interpretato. Mentre le comunità ashkenazite si sviluppavano sia dal punto di vista religioso che da quello civile e politico con la creazione di raffinate forme di autogoverno (vedi box a p. 80), nel cuore dell’Europa si stava preparando la catastrofe. Nel corso del XII e XIII secolo, in Inghilterra e in Francia si assistette alle prime espulsioni di massa. La creazione degli Stati monarchici su base nazionale provocava un generale aumento dell’avversione nei confronti degli stranieri e degli Ebrei,

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Miniatura raffigurante il passaggio del Mar Rosso da parte degli Ebrei, guidati da Mosè. 1427. Istanbul, Biblioteca Universitaria.

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A destra Vienna, Judenplatz, Haus zum großen Jordan. Rilievo con il battesimo di Cristo, corredato da un’iscrizione antisemita che ricorda il pogrom del 1420, del quale furono vittime 210 Ebrei.

avvertiti come una presenza avulsa e cosmopolita. I re volevano porsi alla guida di popoli coesi, con una precisa identità linguistica, politica e religiosa. A ciò va aggiunto che, a differenza di quanto avveniva in Spagna e Germania, gli Ebrei in Inghilterra e in Francia erano ridotti di numero, e si trattava quasi sempre di commercianti o prestatori di denaro. Vi era, quindi, anche un interesse diretto dei ceti mercantili locali alla loro espulsione.

Eccitare gli animi

Nella Germania imperiale, invece, la situazione era molto differente. La Germania, infatti, non era una nazione, bensí un impero, un’unione di città e di popoli. Per tale ragione qui non si assistette ad analoghi episodi di espulsione di massa. Tuttavia, anche in Germania, la predicazione del basso clero continuava a eccitare gli animi, trovando seguito tra le folle derelitte della città. La diffusione della lebbra, importata dal Mediterraneo orientale a seguito delle crociate, ebbe un impatto psicologico fortissimo sulla popolazione. Si fece infatti strada l’idea che i cristiani fossero vittime di un «complotto». Un complotto che diveniva evidente – ai loro occhi – proprio quando si scatenavano improvvisi contagi, quando l’acqua risultava infettata, o quando la morte e la brutalizzazione di bambini venivano ricondotte alla presunta pratica dell’omicidio rituale. Musulmani, lebbrosi ed Ebrei pagarono il prezzo di tali forme di psicosi collettiva. Tuttavia, mentre i musulmani venivano combattuti nelle lontane terre d’Oriente, e i lebbrosi marginalizzati in cronicari isolati, gli Ebrei rimanevano al centro delle città a fare da bersaglio alle improvvise esplosioni di violenza collettiva. Come un’epidemia, il contagio

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Dossier antisemita si propagò tra odi atavici e nuove credenze. Una delle piú odiose fu quella dell’omicidio rituale, che si diffuse in età bassomedievale, quando si iniziò ad attribuire agli Ebrei la pratica di procacciarsi sangue di bambini cristiani al fine di compiere riti religiosi o realizzare medicinali miracolosi (vedi anche «Medioevo» n. 171, aprile 2011).

Miniatura raffigurante l’uccisione rituale di un bambino da parte degli Ebrei, da un’edizione delle Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, British Library. L’idea che le comunità ebraiche si dessero a simili pratiche si diffuse nel Basso Medioevo, sostenendo che il loro fine fosse quello di procacciarsi sangue di bambini cristiani per compiere riti religiosi o realizzare farmaci miracolosi.

L’ostia e il sangue

Attraverso il passaparola o dai pulpiti delle piazze si iniziò anche a tuonare contro la presunta pratica del furto delle ostie consacrate: in esse vi era contenuto il sangue di Cristo, e gli Ebrei avrebbero voluto impossessarsene per ripetere quello che era considerato il loro peccato originale, il deicidio. A ciò si aggiunse la polemica contro il Talmud, portata avanti – con il fanatismo proprio dei neofiti – da alcuni Ebrei convertiti. Si riteneva che nel Talmud vi fossero espressioni offensive e denigratorie contro i cristiani e Gesú e molti – soprattutto i domenicani – ne pretendevano la distruzione fisica. L’insieme di tali accuse ingenerò un clima di paranoia e sospetto che sfociò in diversi eccidi. Nel 1234 a Fulda, in Assia, 34 Ebrei vennero uccisi – non si sa se da crociati o cittadini inferociti – con l’accusa di omicidio rituale. L’imperatore Federico II pretese un’indagine, alla fine della quale venne dimostrata l’insussistenza delle accuse. Poco dopo, anche papa Innocenzo IV discolpò completamente gli Ebrei. Ma ormai tutto era vano. Non erano solo l’antica polemica antigiudaica, l’invidia, l’ignoranza e le malattie sconosciute a cospirare contro gli Ebrei tedeschi: il mondo che li aveva sempre – bene o male – protetti stava andando in frantumi. Al posto degli antichi feudatari e dei colti vescovi-conti, era emerso il ceto borghese, troppo spesso

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formato da commercianti arricchiti e devoti ignoranti. E poiché la protezione degli Ebrei era vista spesso come un antico privilegio imperiale e feudale, la loro espulsione era considerata parte della modernità, una delle manifestazioni del rinnovamento e dell’autonomia cittadina. Era una delle libertà del nuovo ceto borghese.

Il punto di svolta

Ciò non toglie che, sia tra i nobili sia tra l’alto clero, vi fossero personaggi accecati dall’odio antisemita. Rindfleisch, l’uomo che si pose alla guida del massacro del 1298 – sanguinoso quanto quello del 1096 – era un nobile. Nel corso di tale massacro – provocato dalla presunta sconsacrazione di un’ostia – molte comunità tedesche furono distrutte; a Norimberga gli Ebrei si asserragliarono nella fortezza cittadina e cercarono di resistere militarmente. In altre città, invece, furono salvati dalle truppe imperiali. Il declino dell’autorità dell’imperatore preparava, però, tempi ancora piú drammatici. Il vero punto di svolta, il punto di non ritorno, fu raggiunto appena cinquant’anni dopo. Nel 1348 un cocktail letale di peste polmonare e peste bubbonica, portate da navi genovesi provenienti dall’Oriente, sbarcò in Sicilia, diffondendosi in forma endemica nell’intera Europa occidentale. Per secoli gli Europei ne erano stati preservati e ciò contribuí non poco alla rapidissima diffusione dell’epidemia. L’Europa medievale – soprattutto quella centro-settentrionale – ne uscí pressoché annientata. Intere città furono decimate, si calcola che almeno un terzo della popolazione europea, nel giro di pochi mesi, perí. Tutti i fantasmi che potevano nascere da una catastrofe di tale portata presero forma. Le minoranze furono segnate a dito e incolpate della sciagura. L’intera Germania fu accecata dalla follia: in alcune città furono organizzati processi sommari e alcuni degli Ebrei sottoposti a tortura finirono

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Dossier col confessare i crimini che erano stati loro addebitati. Chi, se non gli Ebrei, che commerciavano con l’intero continente, aveva potuto diffondere l’odiata pestilenza? Inutilmente, da Avignone, papa Clemente VI tuonò: «La peste non è dovuta all’azione degli uomini, essa deriva da cause naturali o da volontà divina». Qualche mese dopo, mentre i massacri di Ebrei non si arrestavano, cercò di acquietare gli animi, sostenendo ripetutamente che gli Ebrei non c’entravano nulla come pure dimostrava il fatto che il contagio infieriva sulle loro stesse comunità. Ma argomentare fu inutile: in Germania e in Svizzera era sorto un movimento di fanatici denomiIllustrazione allegorica in cui alcuni studenti ebrei, riconoscibili dal copricapo a punta, succhiano latte dalle mammelle di un diavolo con le sembianze di una scrofa. 1475. L’immagine riflette il sentimento antisemita diffusosi in Germania e nel resto d’Europa.

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nati «flagellanti», che per le strade e le piazze d’Europa divulgavano idee del tutto opposte. Migliaia di individui si misero in cammino, formando processioni di penitenti che si frustavano a sangue sulla schiena, impetrando il perdono di Dio. Essi iniziarono la loro marcia tra i villaggi e le città tedesche, chiedendo la strage degli Ebrei, ritenuta necessaria per placare l’ira divina, manifestatasi attraverso il castigo della peste.

L’onda dei flagellanti

Era un movimento che la Chiesa guardava con un misto di sgomento e terrore, in quanto pauperista e sovversivo, contro cui venne attivata la stessa Inquisizione, ma senza successo. Come un’onda, i flagellanti investirono il centro dell’Europa e ovunque giunsero riscossero enorme successo. A Strasburgo, il consiglio cittadino che rifiutò di aprire loro le porte della città, venne destituito. I ceti borghesi ne elessero uno nuovo, di orientamento op-

posto, il quale decretò l’immediata morte sul rogo di tutti gli Ebrei della città: 2000 persone, intere famiglie furono cancellate. Si salvarono solo in 100, convertendosi. La Peste Nera segnò quindi la fine del mondo ashkenazita cosí come si era sviluppato per secoli. Da quel momento la storia degli Ebrei tedeschi fu un susseguirsi di espulsioni, eccidi e, soprattutto, emigrazione. Le belle sinagoghe gotiche furono date alle fiamme, i libri liturgici in gran parte distrutti. La raffinata cultura rabbinica fu cancellata per sempre. Non vi fu tuttavia un’espulsione di massa e la popolazione ebrea – tra limitazioni e prevaricazioni – tornò ad aumentare. Si era, però, grandemente impoverita, sia dal punto di vista economico che da quello culturale. Nel secolo successivo ci furono espulsioni – in genere temporanee – da città come Vienna, Linz, Colonia, Augusta. In Germania non si procedette ad alcuna espulsione di massa, co-

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Wittenberg. La «scrofa degli Ebrei», versione scolpita dell’immagine allegorica riprodotta alla pagina precedente, inserita nella muratura della chiesa municipale. 1440 circa.

me avvenne per i sefarditi in Spagna. L’imperatore, nonostante tutto, continuava a proteggere «i suoi» Ebrei. In alternativa, però, si svilupparono i ghetti che, paradossalmente, erano la risposta piú benevola che venne trovata alla questione ebraica. Il primo ghetto venne organizzato a Francoforte nel 1462, ed esso anticipò di mezzo secolo quello italiano di Venezia.

La voce degli umanisti

L’antisemitismo era ormai diffusissimo tra la borghesia, continuamente alimentato dai predicatori mendicanti avvertiti dal popolo come la componente piú pura della Chiesa cattolica. Gli alti dignitari del clero, come anche gli elevati funzionari imperiali, proseguirono, come da antica tradizione, a essere invece piú tolleranti. Tra i difensori della cultura ebraica, vi furono anche diversi umanisti: in Germania, Johann Von Reuchlin e, in Italia, Pico della Mirandola. Si trattò di

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intellettuali invaghiti, in primo luogo, della cabala e della corrente di pensiero occultista, ma che nutrivano anche un profondo sentimento di amicizia verso il mondo ebraico. Rimasero, però, quasi sempre voci isolate, anche tra pensatori che predicavano la tolleranza. Anche la riforma protestante, che pretendeva di riscoprire le radici piú pure e limpide della religiosità cristiana, finí – dopo un primo tentennamento – per trasformarsi in un intransigente campione dell’antigiudaismo. Cosí era avvenuto ogni qualvolta si era sventolata la bandiera di una Chiesa antigerarchica, pura e popolare. Per gli Ebrei tali intenzioni si erano sempre rivelate perniciose nei loro risvolti. Anche per tale ragione, oltre all’antico legame feudale, nel corso delle guerre di religione, gli Ebrei tedeschi preferirono appoggiare gli Asburgo e i cattolici. Infine, quando s’impose la pace tra i principi luterani e l’imperatore cattolico, gli Ebrei vennero espulsi in massa dai territori protestanti, mentre in quelli cattolici fu loro permesso di restare, sebbene rinchiusi nei ghetti. Quasi insperatamente però, si

aprirono per loro le porte dei territori orientali: Boemia, Polonia, Ucraina e Bielorussia avevano bisogno di essere popolate e i governanti locali accoglievano di buon grado le operose famiglie ebree. Fu cosí che in queste regioni orientali si diffusero capillarmente le comunità ashkenazite, pur restando numerose anche in Germania. Nelle nuove regioni, gli Ebrei cambiarono vita e costumi. Mentre i sefarditi cacciati dalla Spagna divennero – soprattutto nei territori governati dall’impero ottomano – mercanti cosmopoliti, gli ashkenaziti fuggiti dalla Germania verso le regioni del’Europa orientale divennero contadini e si raggrupparono in piccoli villaggi agricoli. Ma ciò non serví a salvarli da un futuro ancor piú livido. V

Da leggere U Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla

Peste Nera all’emancipazione, XIV-XIX secolo, Laterza, Roma-Bari 2009 U Roberto Bonfili, Tra due mondi. Cultura ebraica e cultura cristiana nel Medioevo, Liguori, Napoli 1996

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scienza e tecnologia

Lingerie... d’annata di Flavio Russo

Il debutto «ufficiale» del reggiseno risale ai primi anni del Novecento, anche se alcuni suoi rudimentali antesignani dovettero diffondersi già in età antica. Ora, però, grazie alle scoperte compiute in un castello austriaco, sembra pressoché certo che il primo esemplare dell’indumento fu cucito, non senza dotarlo di pizzi vezzosi e raffinati, alla metà del XV secolo

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ltre a essere il monumento di se stessi, i castelli possono essere veri e propri giacimenti archeologici, poiché spesso lo scavo dei loro fossati restituisce resti di armi e di corazze, perlopiú del XV secolo. Di gran lunga piú rari sono i ritrovamenti di reperti analoghi all’interno delle mura dei castelli, nei sedimenti delle cisterne o tra i rifiuti dei sotterranei. Ma occupa un posto assolutamente singolare il ritrovamento avvenuto nel 2008 nella fortezza di Lengberg, nel Tirolo orientale, in Austria, in occasione di indagini condotte sotto la direzione di Harald Stadler, dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Innsbruck. Ricorda l’archeologa che ha effettuato il ritrovamento, Beatrix Nutz, che la sua prima reazione fu di assoluta incredulità, seguita poi dal disperato tentativo di trovare un confronto attendibile tra le fonti iconografiche e letterarie. Il castello di Lengberg ha origini molto antiche, collocandosi fra le prime realizzazioni del genere sul finire del XII secolo. Fu eretto dai conti di Lechsgemünde, finendo, nel secolo successivo, sotto la giurisdizione del vescovo di Salisburgo. La costruzione era piuttosto semplice, contando un unico piano a pianta rettangolare irregolare, senza torri, un particolare che lascerebbe

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Il castello di Lengberg (Tirolo orientale, Austria). La prima fondazione del fortilizio risale al XII sec. A essa fecero seguito numerosi interventi di ampliamento e ristrutturazioni, l’ultima delle quali, agli inizi del Novecento ha dato all’edificio l’aspetto attuale. Il ritrovamento dei capi di biancheria intima è avvenuto in occasione di indagini condotte nel 2008.

immaginare un castello recinto con un mastio centrale, insediato su un alto zoccolo sulla sommità di una modesta collina.

Da castello a palazzo

Dopo un breve trascorso, verosimilmente privo di qualsiasi insulto ossidionale, nel corso del XV secolo subí una trasformazione radicale, voluta da Virgilio von Graben, nobile membro della famiglia Meinhardiner. I lavori compresero l’aggiunta di un nuovo piano, con le debite coperture fortemente spioventi, l’apertura di numerose finestre e l’impianto di alcune garitte pensili e bertesche, quest’ultime miranti a rievocare la passata destinazione piú che a fornire una effettiva difesa. Dei lavori abbiamo una menzione abbastanza dettagliata dall’umanista italiano Paolo Santonino. Nel 1485 il castello dovette risultare ultimato in ogni sua pertinenza A sinistra uno dei reggiseni trovati nel castello di Lengberg, in Austria, datato dal 14C tra il 1440 e il 1480. A destra la ricostruzione moderna dello stesso, che mostra come dovesse trattarsi di una sorta di corsetto.

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tanto che la cappella, nel mese di ottobre, fu consacrata dal vescovo di Caorle, Pietro Carlo. Dopo le suddette trasformazioni il castello si presentava come un vero palazzo signorile, maestoso e al contempo ridente, perfetto scenario per la vita mondana che doveva svolgersi al suo interno. Numerose e diversificate furono le funzioni assolte nei secoli successivi, tra cui anche quella di lazzaretto nel 1831, finché, acquistato da un ricco olandese nel 1900, subí nuove e piú radicali trasformazioni, assumendo cosí il suggestivo aspetto attuale. Come già detto, un secolo più tardi, nel corso di un’ennesima tornata di lavori di manutenzione e di restauro, in una intercapedine tornò alla luce un ammasso di stracci e di altri resti, perlopiú organici, costituiti da pezzi di legno lavorati, vecchie scarpe e logori indumenti. Il variegato assortimento, 2700 pezzi circa, era una sorta di economica discarica di rifiuti, costipati e compattati e quindi murati, o, ipotesi meno plausibile, considerando la paglia che vi era frammista, servirono come isolante. Quale che fosse la destinazione chi li murò non poteva immaginare che grazie a quell’ermetico stivaggio, quei resti, di per sé deperibili e di effimera durata, si sarebbero conservati in condizioni perfette per quasi

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scienza e tecnologia A destra uno dei quattro reggiseni trovati a Lengberg e alcuni frammenti di pizzo.

A oggi, si tratta della piú antica testimonianza del genere mai rinvenuta.

sei secoli, consentendone perciò l’analisi, protrattasi per oltre tre anni. Al termine della lunga indagine la conclusione fu stupefacente e in contrasto con i capisaldi della storia... dell’abbigliamento intimo femminile! Tra gli stracci, infatti, erano affiorati ben 4 reggiseni, di modernissimo taglio e concezione, nonché un perizoma con due lacci laterali, simile a quelli degli odierni bikini. Che non si trattasse di rifiuti di piú recente origine fu presto confermato da cinque analisi al carbonio 14, eseguite presso il Politecnico Federale di Zurigo: i reperti rimontavano tutti al XV secolo, tra il 1440 e il 1480. Per apprezzarne l’avveniristica concezione, va ricordato che un rudimentale reggiseno comparve nel 1907 sulla rivista Vogue, ma quello a coppe separate, cioè l’archetipo degli attuali, debuttò solo dopo il 12 febbraio 1914, quando Mary Phelpls Jacob lo brevettò negli USA. Quanto allo slip, l’ipotesi che lo vuole maschile non trova valide motivazioni, né, se mai confermata, si sarebbe differenziato gran che da analoghi femminili, che la tradizione non fa rientrare nel relativo guardaroba sia nell’antichità che nel Medioevo. L’accertamento dell’originalità di entrambi gli indumenti, suggerisce un breve excursus storico.

Tra sport e seduzione

Piú che scoprire che cosa le donne utilizzassero per coprirsi già agli albori della storia, è piú interessante tentare di capirne il perché. Una delle spiegazioni ravvisa nell’allattamento l’originaria esigenza, che presto però dev’essere stata affiancata da numerose altre, funzionali ed estetiche. Le prime tendevano a contrastare gli inestetismi delle mammelle. Le seconde, invece, a ostentarle piú sode, esaltandone la rotondità per accentuare la seduzione. Tra le due, la necessità di evitare che l’oscillare dei seni fosse d’impaccio nelle attività sportive: a Sparta le ragazze, durante le gare, si cingevano il petto con una robusta e ritorta fascia chiamata apodesmo. Quella sorta di morbida fune non comprimeva le mammelle, ma vi si applicava immediatamente al di sotto, all’attaccatura con il torace, creando cosí un efficace sostegno. Le donne etrusche, si fasciavano il petto con un lungo nastro, la taenia, credendo cosí di limitarne l’abnorme crescita. Le Romane, infine, si avvalsero di ben tre diverse tipologie, nessuna però somigliante agli attuali reggiseni e neppure a quelli di Lengberg. Col dissolversi dell’impero d’Occidente svanirono anche gli indumenti intimi, prime fra tutte le mutande quale che ne fosse la foggia, e solo nel XIV secolo se ne ritrova menzione. La piú nota è quella tratta dal De mulieribus claribus di Boccaccio del 1361, che relativamente a Semiramide, cosí recitava, nella traduzione di Donato Albanzani da Cosentino (1336 circa-fine XIV

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secolo): «E temendo di essere ingannata dalle donne di casa, ella prima, secondo che alcuni hanno detto, trovò l’usanza delle mutande, e quella faceva usare alle sue femmine, serrandole con chiavi; la quale cosa ancora si osserva nelle parti d’Egitto e d’Africa». Nella versione tedesca di poco posteriore si osserva un’illustrazione che mostra la regina e due sue dame tutte dotate di mutandine, come conferma un’altra stampa coeva. Ciò premesso, lo slip di Lengberg potrebbe abbinarsi al reggiseno, formando un antesignano coordinato intimo, che all’epoca vantava incerti precedenti. In alcune cronache del XIV e XV secolo, infatti, si parla di camicie con «tasche», o magliette con le «borse», destinate ai seni voluminosi, come pure di strisce destinate a sorreggerli. Henri de Mondeville, 1260-1320, celebre chirurgo francese autore del monumentale trattato Chirurgie, scriveva al riguardo: «Alcune donne (…) ricavano nei loro abiti due borse ben aderenti, destinate a contenere le mammelle, e in esse ogni mattina ve le inseriscono e maggio

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In alto resti delle mutandine rinvenute nel castello di Lengberg. L’équipe che lo ha studiato ipotizza si tratti

di un indumento maschile, ma è probabile che il suo equivalente femminile non fosse granché diverso.

semblaggio: sono realizzate ciascuna con due spicchi di fine lino, piú grezzo invece per la restante parte, soluzione che ne consente un piú aderente ed ergonomico adattamento alle mammelle.

Tipologia e misure

le fissano con dei nastri». Anche il cronista Konrad Stolle (1436-1501), nel suo Memoriale, ricordava: «le camicie con i sacchetti in cui alcune donne infilavano i loro seni», biasimandone la decenza. Né manca in merito una coeva satira tedesca, di autore ignoto, in cui si legge: «Una donna ha fatto due borse per il suo seno, e con quest’indumento si aggira per le strade, in modo che tutti i giovani la guardino, per ammirarne il bel seno (…) ma i seni sono troppo grandi e rendono le borse strette, originando nella città pettegolezzi su quei suoi grossi seni». Tasche per sostenere i seni, quindi, esistevano nel XV secolo, che, senza essere ancora un vero reggiseno a coppe separate, non erano piú nemmeno una fascia mammaria di tipo romano o greco. Venendo ai reperti, basilare è la deduzione circa l’esistenza in pieno XV secolo di una raffinata lingerie e, soprattutto, del reggiseno a coppe separate con bordature e inserti di pregiato pizzo. Le coppe, che sono l’elemento caratterizzante di tutti e quattro i reggiseni, in questo svelano esattamente il loro disegno e la tecnica di as-

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Si tratta, dunque, di un indumento che, pur destinato a essere nascosto dal vestito, proprio per tale ricercatezza si deve supporre non di rado essere ostentato, magari in ambiti coniugali, dalla dame dell’alta società. I quattro esemplari rinvenuti, che in base all’attuale dimensionamento apparterrebbero a una «quarta» misura, hanno tutti le coppe separate, ma sono diversificati fra loro. Due di essi, infatti, sono piuttosto lunghi e terminano appena sotto il seno, con inserti di pizzo tra le coppe, per aumentarne la tenuta e conservarne la separazione. Per alcuni studiosi che li hanno potuti esaminare, potrebbero essere stati camicie con le borse, una combinazione tra una camicia corta e un reggiseno. Il terzo reggiseno, invece, somiglia molto agli odierni, montando due spalline larghe e una fascia posteriore, purtroppo testimoniata soltanto dalle estremità consunte. Le coppe erano separate da un inserto a V. Dei quattro è quello piú riccamente decorato con merletti di pizzo realizzati a mano, sia sui profili superiori che lungo il bordo inferiore. Il quarto reggiseno è quello che maggiormente somiglia agli attuali, in particolare al modello detto «palangaro», che scende dal seno fin quasi alla vita e che ebbe una discreta adozione negli anni Cinquanta del Novecento, e presenta sul lato sinistro una doppia fila di sei occhielli per l’allacciatura. F

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luoghi monteriggioni

Monteriggioni di torri si corona di Cristiano Bernacchi

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

«P P

erò che come sulla cerchia tonda / Monteriggioni di torri si corona, / cosí [‘n] la proda che ‘l pozzo circonda / torregiavan di mezza la persona / li orribili giganti, cui minaccia / Giove dal cielo ancora quando tona». Cosí Dante, nel XXXI Canto dell’Inferno invia ai posteri il ricordo dello spettacolo che si trovò di fronte quando vide per la prima volta il castello di Monteriggioni, nel 1302. L’immagine poetica di Dante, rappresenta a oggi la sola testimonianza conosciuta, in epoca medievale, sulla caratteristica forma di Monteriggioni. Come ricorda

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Paolo Cammarosano in Monteriggioni. Storia Architettura Paesaggio. Per trovare un’immagine iconografica del castello di Monteriggioni si dovrebbe attendere la metà del Cinquecento, epoca dell’incisione di Giovanni Stradano (Jean Van Der Straet, 1523-1605) che fissa caratteristiche importanti della sua struttura seppur a distanza di circa 300 anni dalla nascita.

Né fonti, né dipinti

Alla mancanza di documenti precisi sull’assetto originario del castello si aggiunge la rarità delle testimo-

nianze pittoriche che la storia ci avrebbe potuto consegnare sulla sua conformazione. Monteriggioni infatti, rimase completamente esclusa da quella stagione pittorica degli inizi del Trecento, alla quale dobbiamo, anche nel Palazzo Pubblico di Siena, panoramiche di borghi e castelli del territorio. Si pensi ad Ambrogio Lorenzetti e alla sua allegoria del Buono e Cattivo Governo, ma anche alla Città sul mare, oppure a Simone Martini e al suo Guidoriccio da Fogliano (nonostante i persistenti dubbi sulla reale paternità dell’opera). I documenti d’armaggio

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Il borgo toscano è una delle «icone» del nostro Medioevo. Ma, al di là dell’oleografia, la storia dell’insediamento rappresenta un capitolo cruciale nelle vicende della Toscana, soprattutto per quel che riguarda la politica della repubblica senese. Vicende di cui la turrita cittadina conserva testimonianze preziose, giunte fino a noi in condizioni straordinarie, tali da suggerire l’idea che tra quelle mura il tempo si sia davvero fermato...

chivio sullo sviluppo di Monteriggioni sono poi frammentari e molti di essi sono stati vittima di mutilazioni o smarrimenti. Monteriggioni rappresenta una vera e propria eccezione nella storia dello Stato cittadino, in seno al quale era pratica diffusa erigere castelli o fortezze in luoghi in cui si trovavano castelli o costruzioni preesistenti. Nacque infatti come castello ex novo per volontà e di diretto controllo della repubblica senese, che decise di farsi carico dell’impresa di costruzione e del suo popolamento. La sua data di

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fondazione, come ricorda un’epigrafe murata accanto alla porta Romea (ancora oggi presente) risale al 1213, ma il toponimo Monteriggioni, tipicamente medievale, offre elementi utili per una sua collocazione storica piú precisa.

Possedimento reale

La derivazione etimologica del toponimo suggerisce che il sito, su cui poi sorse il castello, poteva essere stato un «dominium regis» in epoca longobarda o carolingia. Monteriggioni, infatti, è composto da monte, per la posizione sopra-

La sagoma inconfondibile del borgo di Monteriggioni (Siena), che conserva la cinta muraria medievale, scandita da 14 torri a pianta quadrata.

elevata su cui sorge e da riggioni, meglio conosciuto nella sua forma semplice -regi, -reggi o -regio, che indica «del re». In un atto di compravendita datato settembre 1126 e conservato nell’Archivio di Stato di Siena viene citato per la prima volta il toponimo «masia de Monteregioni». Masia stava a indicare il «manso» o «maso», che rappresenta un insieme di appezzamenti di ter-

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luoghi monteriggioni LIG

UR

uno scrigno e le sue gemme

EMILIA-ROMAGNA EMILIA EMI LIA-ROMAG ROMAGNA NA

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Fiesole FIRENZE Livorno

Arezzo

MONTERIGGIONI Isola di Gorgona

Siena

Cecina

Isola di Capraia Populonia Piombino Portoferraio

MARCHE E

Follonica

Cortona

Montepulciano Chiusi UMBRIA

Isola d’Elba Talamone

Isola Pianosa

Isola del Giglio

Orbetello LAZIO LAZIO

ra muniti di una casa o piú, coltivati dalle famiglie contadine. Questo conferma che già prima dell’interesse del monastero di Abbadia a Isola per quel colle, nel 1126, in quel poggio si trovava un insediamento abitativo seppur minimo. Nella vita del castello di Monteriggioni e nel suo ruolo di fortilizio medievale da difesa si misura anche la storia della repubblica di Siena. Nato quando lo Stato senese vide l’ascesa del proprio potere e conquistato quando la sovranità senese era oramai al tramonto. Le ragioni che indussero la repubblica a realizzare il castello, giunto fino a noi in uno stato di buona conservazione, vanno ricercate soprattutto nella storia e nelle sue circostanze, come sostiene Cammarosano nel suo libro.

A sinistra cartina della Toscana con l’ubicazione di Monteriggioni. In basso, sulle due pagine veduta aerea del borgo di Monteriggioni. La cerchia muraria circolare, quasi ellittica, ha una circonferenza di 570 m circa. Il paramento murario, dello spessore di 2 m circa, è intervallato da 14 torri, poste a distanze irregolari. Gli intervalli tra le torri, misurano mediamente dai 35 ai 40 m, mentre i due intervalli maggiori raggiungono gli 80. Nella foto sono segnalati alcuni dei piú importanti poli di interesse della cittadina in provincia di Siena: 1. Ufficio Turistico e Museo; 2. Chiesa di S. Maria; 3. Porta Romea (o di Levante); 4. Porta di Ponente; 5. Porta murata.

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Un conflitto perenne

Le tensioni tra Fiorentini e Senesi agli inizi del Duecento erano ormai cosa accertata e le ostilità per il controllo dei territori, non solo confinanti, si ripetevano costantemente. Gli accordi tra le due città, che pure non mancarono (per esempio, nel marzo del 1201 i dignitari di Firenze e Siena si incontrarono a Fon-

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In alto la chiesa di S. Maria, databile alla fine del XIII sec. In basso la porta Romea, il principale accesso al borgo di Monteriggioni, detta anche ÂŤdi LevanteÂť.

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Nella storia del castello di Monteriggioni si riflette anche quella della repubblica di Siena 103


luoghi monteriggioni terutoli per impegni comuni), non erano che un segno di distensione solo apparente. Ciascuno perseguiva un proprio obiettivo, la cui ricerca faceva nuovamente scivolare il rapporto nel puro antagonismo. Gli scontri che nei primi anni del XIII secolo si consumarono tra i due schieramenti videro un solo grande sconfitto, Siena, tanto da farle promulgare, nel dicembre del 1208, quella che Mario Ascheri ha defini-

to la piú antica «legge finanziaria» giunta fino a noi. Si trattava di veri e propri «condoni edilizi» e tasse da applicare alle terre sottomesse e ai cittadini dello Stato senese che, in qualche modo, provavano a colmare la voragine economica aperta dalle spese e sconfitte belliche. I Senesi, in quegli anni, si trovavano cosí in una situazione particolarmente difficile e il fianco piú sguarnito e soggetto agli attacchi

Monteriggioni 1300

Tutta la città in una stanza In occasione del Festival del Turismo Medievale svoltosi nello scorso ottobre a Pistoia, il Centro per le Arti SanGimignano1300 ha mostrato per la prima volta al pubblico la sua nuova creatura, Monteriggioni nel 1300. Frutto di un puntuale lavoro di ricerca, condotto dal team dell’Azienda e sottoposto successivamente alla supervisione di Duccio Balestracci, docente di Storia Medievale all’Università di Siena, Monteriggioni torna a vivere nel suo periodo di massimo splendore economico e demografico, i primi anni del Trecento. Nulla è stato dimenticato, nella miniatura

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interamente in ceramica del borgo medievale, lavorata e decorata a mano e ricostruita in scala 1:100. Sei mesi di lavoro tra ricerca, progettazione e realizzazione, che consegnano un’inedita fotografia del borgo al tempo di Dante. Edifici pubblici e privati, la chiesa di S. Maria (della fine del XIII secolo, è tra le strutture piú imponenti all’interno del castello), le mura, le torri e gli orti, tutti magistralmente riprodotti. Orti e giardini che circondavano al tempo ogni piazza ed edificio del borgo, anche per rispondere alle eventuali carestie da assedio. Le quattordici torri a

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intervalli irregolari e l’unica aggettante posta all’interno, sono state ricostruite in ogni loro particolare. Il rivellino posto a sostegno della porta di San Giovanni, le carbonaie esterne, il ponte levatoio sulla porta Romea (la cui presenza certa ancora fa discutere) e il camminamento di ronda sulla cortina muraria che passava attraverso le torri, sono solo alcuni dei preziosi particolari visibili nella ricostruzione. Una miniatura che unisce, al piacere dell’opera d’arte, il valore di una testimonianza storica sul passato di questo borgo, Patrimonio dell’Umanità. Dopo la realizzazione di San Gimignano nel 1300, con Monteriggioni il Centro per le Arti di SanGimignano1300 getta ancora una volta luce su un borgo medievale toscano con il quale molti identificano l’immagine del Medioevo italico.

In alto un tratto della cinta muraria di Monteriggioni attrezzato con una passerella per la visita. In basso il modello in scala 1:100 del borgo, realizzato dal Centro per le Arti SanGimignano 1300.

era quello nord-occidentale. In questo contesto geografico e politico, la costruzione del castello di Monteriggioni, rappresentava per Siena un solido presidio difensivo e di controllo delle sue terre sul crinale settentrionale, ma anche un mirato tentativo politico di erosione del dominio dei vescovi di Volterra, con i quali i rapporti non erano mai stati ottimi. Per favorire il popolamento del castello, la repubblica senese adottò una politica fiscale assai vantaggiosa per chi avesse scelto di andare a viverci. Politica che si ripeteva anche negli anni successivi alla fondazione, come per esempio, attraverso una «franchigia» fiscale, in virtù della quale i nuovi abitanti del castello sarebbero stati esentati da imposte personali nei venti anni successivi, con l’unico obbligo di fornire manodopera per le fortificazioni. In quegli anni, inoltre, lo Stato senese cercò di far rispettare, a Monteriggioni, una norma prevista da un suo antico statuto, che imponeva a chiunque possedesse un suolo edificabile nel castello di costruirvi una casa. Appare chiaro come Monteriggioni avesse assunto per Siena una forte funzione militare, ma fosse anche un centro di colonizzazione.

Fossati colmi di carbone

Per quanto riguarda l’opera materiale di incastellamento, essa fu compiuta da un collegio di operai che vi lavorarono ininterrottamente. Dalle voci di spesa, presenti nella documentazione d’archivio, si legge che Monteriggioni, nei cinquant’anni successivi alla fondazione, subí continue opere di fortificazione e lavori edilizi. Nel 1231 furono serrate le mura e, pochi anni prima, era stato contattato un affossatore per ultimare il lavoro delle carbonaie. Queste erano fossati continui (ricoperti di carbone) che cingevano ad anello l’esterno delle mura e che venivano incendiati in caso di attacco del nemico. Oggi, a distanza di otto secoli e dopo tutte le turbolenze della sto-

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luoghi monteriggioni Curiosità

A spese del Popolo di Siena L’epigrafe murata, ancora oggi visibile sulla porta Romea, data l’anno di fondazione del castello. «Nell’anno del Signore MCCXIII, indizione seconda, nel mese di marzo, al tempo del signore Guelfo di Ermanno di Paganello da Porcari podestà di Siena, del signor Arlotto da Pisa, giudice discreto, e di Ildibrando di Usimbardo camerlengo di Siena, questo castello di Monteriggioni fu iniziato nel nome di Dio, e poi racchiuso completamente da mura con spese e lavori sostenuti in proprio dal Popolo di Siena, con l’impegno e l’opera diligente dei nobili

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Ranuccio di Crescenzio e Orlando di Filippo e Forese di Martino». Oltre all’impegno diretto dei Senesi, come recita lo scritto, risaltano l’ufficialità e la solennità dell’ intervento. Va poi precisato che l’anno di fondazione qui riportato indica il 1213, solo perché nell’Italia medievale c’era chi computava l’anno solare al primo gennaio e chi al 25 marzo, giorno dell’Incarnazione di Cristo. Per questo motivo i documenti stilati in quel periodo (dal 1 gennaio al 25 marzo) venivano ascritti ancora all’anno precedente, come nel caso della lapide di Monteriggioni.

In alto la lapide murata all’esterno della porta Romea, che menziona il 1213 come anno di fondazione del castello di Monteriggioni. In basso incisione di Giovanni Stradano nella quale è illustrato l’assedio di Monteriggioni da parte dei Fiorentini nel

1554. Paolo Cammarosano ha ipotizzato che la raffigurazione del borgo sia ripresa probabilmente da Castiglionalto: sono riconoscibili le merlature sulle mura, il rivellino sulla porta San Giovanni e la torre Romea, con bandiera issata piú alta rispetto alle altre.

ria, Monteriggioni è ancora visibile in molti suoi particolari. La sua affascinante cerchia muraria circolare quasi ellittica ha una circonferenza di 570 m circa. Il paramento murario, dello spessore di 2 m circa, è intervallato da 14 torri quadrilatere scudate, senza lato interno, poste a distanze irregolari. Gli intervalli tra le torri, misurano mediamente dai 35 ai 40 m, mentre i due intervalli maggiori raggiungono gli 80. Questi erano calcolati sulle gittate standard delle armi da lancio dell’epoca (compresa tra i 40 e gli 80 m per archi e balestre). Una quindicesima torre, non aggettante e quindi visibile solo dall’interno, si trovava tra la seconda e la terza torre, dopo la porta Romea.

Gli interventi sulle torri

A Monteriggioni l’opera edilizia di difesa è ancora oggi visibilmente distinta dal centro abitato, al suo interno, da una fascia di rispetto. Le torri che ancora oggi colpiscono

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lo sguardo di chi osservi il borgo a distanza, hanno subito nel tempo cimature e ricostruzioni. Negli anni Venti del secolo scorso, quando avevano ormai raggiunto l’altezza della cortina, furono rialzate di circa 8 m. Un intervento che interesso tutte le torri tranne le tre esposte a nord. La loro prima cimatura avvenne nel Cinquecento, per meglio rispondere alle nuove armi di offesa, l’artiglieria, mentre sulla cortina muraria si trovava un camminamento (di ronda) continuo che passava attraverso le torri, protetto verso l’interno dalla muratura, oggi ripercorribile, seppur parzialmente. Il castello è raggiungibile attraverso due porte principali, quella di San Giovanni in direzione fiorentina, anticamente protetta da un rivellino e quella Romea, che aveva un ponte levatoio verso Siena. Si vedono ancora le tracce di una terza porta, chiusa dall’interno molto tempo fa, il cui scopo ancora fa discutere. Si può supporre, oltre al fatto che sembrerebbe studiata come via di fuga, che se la torre di porta Romea fu terminata nel 1293, questa terza porta avrebbe potuto rappresentare inizialmente la prima porta verso Siena. Un sistema edilizio medievale simile, nato con il ruolo di fortilizio difensivo doveva poter contare su una guarnigione all’altezza della sua struttura architettonica. Ete-

rogenea era quella che difendeva Monteriggioni: capitanata da un «castellano», era formata da soldati e masnadieri provenienti dal Nord Italia, ma anche Tedeschi e uomini dell’esercito imperiale vicini allo Stato senese. Il grosso veniva però reclutato nella zona di Siena e nel territorio: se necessario, infatti, lo Stato senese, come avvenne nel 1231, si muoveva nell’area di Monteriggioni e nella diocesi di Volterra per reclutare i pedites, i combattenti a piedi. Erano loro il cuore numerico della guarnigione. Ad affiancarli, c’era poi un corpo professionale di balestrieri, provenienti soprattutto dall’area padana. La torre costruita sopra porta Romea, era presidiata continuamente da un «torrigiano». Era insomma un sistema difensivo apparentemente inespugnabile e dotato di tutti gli strumenti da difesa che il periodo aveva messo a disposizione.

La massima espansione

Ai primi del Trecento, Monteriggioni conobbe il periodo di massima espansione demografica, calcolata sul numero di capofamiglia presenti (o fuochi), che si aggirava sulle 150 unità, con una popolazione approssimativa di 600 persone. Ne aveva fatta di strada in quegli anni il castello, che solo mezzo secolo prima riceveva incoraggiamenti da parte di

un rapporto controverso

Stanchi d’essere trattati come «somari» Le azioni incentivanti sui cittadini portate avanti dalla repubblica di Siena per l’inurbamento di Monteriggioni suggerirebbero un rapporto di privilegio nei loro confronti. In verità le ragioni di un simile comportamento vanno ricondotte alle necessità del periodo. Come si legge nella relazione che Bartolomeo Concini consegnò al duca Cosimo de’ Medici, il 30 agosto del 1554 sull’andamento della guerra con Siena, i Monteriggionesi, quando furono sottomessi, non erano affatto soddisfatti di come lo Stato senese li considerava. In quell’occasione, riporta la relazione, i residenti erano perlopiú contadini che lavoravano la terra dei Senesi, in un numero di poco superiore al centinaio. Si sentivano trattati come «somari» e lo stesso capitano Zeti aveva di fatto compreso che la popolazione non era soddisfatta del dominio senese.

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Da leggere U Paolo Cammarosano,

Monteriggioni. Storia Architettura Paesaggio, Milano 1983 U Roberto Cresti e Maura Martellucci, Monteriggioni. Storia di un territorio e della sua gente, Siena 2009 U Alberto Tailetti, Terre Senesi: Monteriggioni e Badia a Isola, Siena 1930

Siena per il suo popolamento, quando contava al massimo 200 anime. Con la peste del 1348 però, Monteriggioni subí un significativo calo demografico ed economico. Ciononostante, alla fine del Trecento, pur provata dall’epidemia, rimaneva un centro insediativo ancora importante per lo Stato senese. Fino al 1554 il castello di Monteriggioni rimase una fortezza inespugnabile e temuta, ma in quella data cadde inesorabilmente, a causa di un tradimento. In quell’anno il granduca Cosimo I de’ Medici riprese le ostilità con Siena dopo un periodo di relativa calma. Contemporaneamente, a Monteriggioni, aveva preso l’incarico di comandante della fortezza il fiorentino Giovanni Zeti: questi, nell’agosto del 1554, dopo soli due giorni d’assedio consegnò a tradimento le chiavi del castello a Gian Giacomo Medici, marchese di Marignano. La sua giustificazione della rapida e inaspettata capitolazione, che serví anche a convincere il consiglio militare a una resa, fu la verifica alle riserve d’acqua potabili che egli stesso dichiarò imbevibili e «neppure da odorare». Spinto a tutelare la sua onorabilità militare piú che il castello, Zeti mise la parola fine al piú temuto sistema difensivo della repubblica senese. Di lí a poco, anche quest’ultima cadde definitivamente sotto il dominio fiorentino. In memoria della sua inespugnabilità il castello è finito nella corona turrita che cinge la testa dell’Italia in una delle piú celebri emissioni filateliche italiane del passato. F

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caleido scopio

L’oro rosa dei

cartoline • La fortuna

Walser

di un piccolo villaggio circondato dal paesaggio lacustre della Val d’Ossola, nel Medioevo, fu legata soprattutto all’attività estrattiva del marmo e alla sua lavorazione

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rnavasso, con la frazione di Migiandone, è una piacevole località dell’Alto Piemonte, in Val d’Ossola (provincia di VerbanoCusio-Ossola). Incastonata tra il dolce paesaggio dei grandi laghi (Maggiore, di Mergozzo e d’Orta) e le aspre cime delle Alpi, si trova in una fascia altitudinale compresa tra i 217 m della piana alluvionale, percorsa dal fiume Toce, e i 2131 m della Cima Eyehorn, la vetta piú elevata della «montagna dei Twergi», che un’antica leggenda vuole sia la montagna dei nani benevoli. Come documentano le necropoli dei Leponti, l’area era già abitata in età antica e i pregiati corredi funerari rinvenuti nelle sepolture, scoperte nel comprensorio comunale alla fine dell’Ottocento, rivelano l’elevato stile di vita di questa civiltà, sviluppatasi nel I millennio a C. nella zona tra il Canton Ticino, la Lombardia occidentale (dintorni di Como), la Val d’Ossola e l’Alto Vallese. La ricchezza dei Leponti si spiega con l’utilizzo delle risorse della regione – il marmo della Kalmatta, l’oro e il ferro della Valle Antrona – e con il controllo dei commerci attraverso i valichi alpini, compresa la Punta di Migiandone, il luogo piú stretto dell’Ossola, passaggio obbligato per ogni transito mercantile o militare. Alla fine del XIII secolo la zona di Ornavasso

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fu colonizzata dalla popolazione walser, che ne modellò l’ambiente, dissodando la campagna e aprendo radure nella foresta montana.

Autonomia culturale Dal punto di vista storico il villaggio, affacciato sui laghi prealpini, brulicanti di traffici e commerci, rappresenta la piú singolare colonia tedesca a sud delle Alpi. La sua peculiarità consiste nell’essere l’unico insediamento walser dell’Europa al di sotto dei 1000 m di quota. Sulla colonizzazione walser di Ornavasso ragioni di politica feudale

si abbinarono allo sfruttamento delle risorse di pianura e montagna. I coloni probabilmente provenivano da Naters, una località presso Briga, nel Vallese, che nel Medioevo distava tre giorni di cammino da Ornavasso, o dalla valle del Sempione, dove gli Ornavassesi, ancora nel Cinquecento, trascorrevano l’estate a tagliare fieno a pagamento. L’alpeggio di Casalecchio (500 m) fu, probabilmente, il primo stanziamento walser a Ornavasso. Altri nuclei demici sorsero in zone riparate, tra i 250 e i 500 m di quota. In breve l’incremento demografico maggio

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Concerti nelle viscere della montagna Attualmente esistono tre cave sopra Ornavasso. Utilizzate per scopi differenti, tutte e tre sono collegate tra loro, poiché si trovano una sopra l’altra. La piú interessante è quella chiamata «del Casino». Attiva nella prima metà del Novecento, è composta da una galleria lunga 192 m, che permette l’accesso a una grande sala finale, alta 16 m, nella quale è messo a vivo il filone di marmo rosa, continuazione di quello della cava di Candoglia, posta sul versante opposto alla valle del Toce. L’Antica Cava di marmo è visitabile e viene utilizzata come spazio didattico-museale, con proiezioni architetturali sulla parete di marmo, dedicate alla Divina Commedia. Inoltre, nella stagione estiva, si trasforma in splendido scenario naturale per spettacoli teatrali ed esibizioni musicali. Tra gli eventi piú importanti in programma nei prossimi mesi di luglio e agosto si segnala la Rassegna Concertistica 2013, dal titolo: «Il Marmo in concerto. Melodie e suoni della Natura nell’Antica Cava di Marmo Rosa di Ornavasso, dal XIV sec. utilizzato anche per il Duomo di Milano». Nel laboratorio della famiglia Rossini è poi possibile assistere alla lavorazione del marmo. Le singole parti che compongono il Duomo di Milano, bisognose di restauro, sono portate in questo laboratorio artigianale. Qui mani esperte realizzano con il marmo di Candoglia copie uguali alle originali. I pezzi lavorati vengono inviati a Milano e posizionati nel Duomo, in sostituzione dei precedenti. L’Antica Cava è aperta al pubblico dal 1° giugno al 30 settembre, nei seguenti orari: martedí-venerdí, 15,00-18,00; sabato e domenica, 10,30-12,30 e 15,0018,00; chiusa il lunedí. Su prenotazione sono previste aperture straordinarie con visite guidate per gruppi superiori alle 20 persone. Info e prenotazioni: tel. 0324 3461.02-05 (orari ufficio 9,00-13,00 e 14,00-18,00) oppure al 366 5314145, e-mail: info@anticava.it; www.anticava.it o www.lagomaggiorefamily.org. e il radicamento sul posto portarono la comunità a insediarsi anche nella pianura del Toce. Rispetto alla tradizionale civiltà walser, l’insediamento di Ornavasso richiese ai coloni una grande capacità di adattamento all’habitat differente. I boschi, non formati da larici, ma da latifoglie, li costrinsero a imparare a costruire case di pietra e non di legno. L’unica ricchezza delle alte colonie erano i pascoli e la coltivazione della segale. Nella valle del Toce i Walser sperimentarono nuove risorse: il castagno, la vite e il grano. In alta montagna

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In alto e a sinistra due immagini dell’Antica Cava di Ornavasso, intensamente sfruttata per l’estrazione del pregiato marmo rosa che fu la principale fonte di ricchezza della comunità walser della cittadina piemontese. Il sito è oggi visitabile e viene utilizzato anche come suggestiva sede di spettacoli e concerti. Nella pagina accanto la parrocchiale di S. Nicola, realizzata tra il 1542 e il 1587 in seguito all’ampliamento di una chiesa precedente. Presenta un’elegante facciata rinascimentale, edificata in blocchi di marmo bocciardato, con caratteristiche striature rossastre.

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caleido scopio A sinistra una veduta di Ornavasso, alle spalle del cui profilo si scorgono le cime alpine che fanno da corona all’abitato. Nella pagina accanto il santuario dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine, detto «della Guardia» per la presenza, sul promontorio su cui sorge, di una torre di segnalazione degli inizi del XIV sec.

Paradiso degli escursionisti dissodarono il bosco per ottenere pascoli e alpeggi; a Ornavasso impararono anche a rendere fertili i terreni sabbiosi e acquitrinosi che si estendevano in riva al Toce. Nonostante il bilinguismo, imposto dalla necessità dei traffici mercantili, i contatti con la madrepatria vallesana furono sempre frequenti. La comunità walser di Ornavasso però, pur integrandosi economicamente, rimase autonoma dal punto di vista culturale. Ancora nel XVII secolo, gli Ornavassesi offrivano ogni anno un cero pasquale alla chiesa di S. Teodulo, situata nei pressi della città svizzera di Sion, mentre annualmente uomini e donne da Ornavasso si recavano in processione alla chiesa di Glis in Vallese. I secolari legami con la terra d’origine sono ancora vivi nella cultura popolare. Per esempio i Twergi appaiono protagonisti del mondo favolistico walser e, di conseguenza, ornavassese. Essi rappresentano la natura animata, che risiedeva nei boschi. Piccoli e vestiti di stracci e foglie, sono esseri

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Il territorio del Comune di Ornavasso può essere considerato un grande polmone verde affacciato sui laghi. Una fitta rete di comodi sentieri segnalati per l’escursionismo, apprezzati itinerari di Nordic walking (la camminata veloce con l’uso di bastoncini), bicicletta e mountain bike offrono un moderno ed efficiente sistema di servizi per l’outdoor. L’escursione a piedi piú interessante e coinvolgente è quella costituita dalla Linea Cadorna. Il percorso, uno straordinario museo a cielo aperto ove leggere, anche dal punto di vista didattico, un’intensa e tragica pagina della storia italiana del Novecento, si snoda sulla Punta di Migiandone ed è composto dal sistema: mulattiera-trincee-Forte di Bara. furbi, bonari e giocherelloni, che si divertono a fare scherzi a pastori e boscaioli. Possiedono una saggezza arcaica, che a volte trasmettono agli alpigiani. Nel folclore locale sono stati i folletti a insegnare agli uomini come fare il bucato con la cenere del focolare e come lavorare il latte per ricavarne burro, ricotta e formaggio.

Una colonia fiorentissima Grazie al terreno fertile e produttivo e alle favorevoli condizioni climatiche, dovute alla vicinanza dei grandi specchi d’acqua prealpini, Ornavasso divenne ben presto la piú ricca colonia walser a sud delle Alpi. Oltre all’agricoltura e alla pastorizia si praticavano l’allevamento dei cavalli, la raffinazione del sale,

la coltura della canapa, la concia delle pelli. Dalla fine del Trecento al Novecento, l’economia abbinò alla consueta attività agricolo-pastorale anche l’estrazione e la vendita del marmo. Di fronte a Ornavasso, a sbarrare il breve pianoro del Toce, si stagliano alti e impervi i Corni di Nibbio. Da essi scende un robusto promontorio, entro il quale si apre la Cava Madre di Candoglia. I monti sono costellati di cippi con mazzetta e martello incrociati, che «marcano» il territorio, da oltre seicento anni dato in concessione alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Quello tra l’Ossola e Milano è un legame indissolubile, plurisecolare, cementato dalla pietra e dalla storia. maggio

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La prima citazione documentata dei Walser ornavassesi rimanda infatti al 1392, anno in cui la commissione incaricata di sopperire al fabbisogno di marmo per la Fabbrica raccomanda di acquistare «a Teutonicis de Ornavaxio» tutto il marmo che costoro potevano fornire. In breve i Walser ornavassesi acquisirono una notevole competenza estrattiva. Il prezzo concorrenziale e la pregiata qualità del materiale rivelano tuttora come le tecniche di cava raggiunte all’epoca, avessero assunto dimensioni assai competitive. Già nel 1406, un certo Zannone Cavezzale riuscí a impiantare a spese della Fabbrica una vera sega, costituita da una lama di acciaio messa in movimento da un meccanismo per mezzo del quale il lavoro era di molto ridotto. Poco dopo, Lavarino di Ornavasso, un abile artigiano, certamente dotato di una particolare predisposizione per la meccanica, costruí una sega simile alla precedente, ma utilizzando per il funzionamento la forza motrice dell’acqua. Dopo svariati tentativi riuscí perfino a creare un congegno formato da piú lame appaiate, che tagliavano contemporaneamente parecchie lastre di marmo di una determinata grandezza. Lavarino fu anche il primo ad applicare il movimento di un mulino per pulire e lisciare le lastre segate.

Una dozzina di giovani eroi Nel Medioevo i frequenti contatti fra gli abitanti di Ornavasso e la madrepatria svizzera produssero una romantica leggenda. Si narra che il popolo di Naters gemesse sotto la tirannia di un signore esoso e brutale. Non ultima fra le gravezze, compiute dal feudatario ai danni dei sudditi, era lo ius primae noctis. Spinti dalla disperazione e dalla miseria gli abitanti di Naters cercarono di affrancarsi. Dodici ragazzi, promessi sposi di altrettante fanciulle, giurarono di celebrare le nozze sul cadavere dell’odiato padrone. E cosí fu. All’accaduto, i castellani vicini assalirono il villaggio, ma l’intera popolazione con tanto di masserizie e armenti valicò i monti e, sfuggendo alla ferocia degli oppressori, trovò rifugio sicuro sul versante della montagna ornavassese. All’origine della leggenda, nota anche nel Vallese, vi è la necessità di spiegare la presenza di un’isola linguistica tedesca in terra romanza, in quanto l’Ossola fu per cinque secoli soggetta al dominio di Milano. Invece, dal Trecento al Seicento a Ornavasso, sebbene molti residenti maschi fossero bilingui, il walser discendente dal Wallisertytsch, un dialetto alemanno diffuso nel Vallese e nel Goms, variante locale di quello usato ancor oggi nella Svizzera tedesca e nella Germania sud-occidentale, rappresentò l’unica lingua parlata in tutte le forme di comunicazione pubblica e privata. «macchine», che permettevano la diversificazione dell’offerta. Non a caso, proprio tra il XV e il XVI secolo, la disposizione urbanistica di Ornavasso acquisí una configurazione «moderna». Gli agglomerati distribuiti tra campagna e montagna si organizzarono in un borgo articolato in quattro «cantoni», separati tra loro da orti e frutteti, mentre il corso del torrente Stagalo suddivideva il paese in due

aree: il Roll a nord e il Dorf a sud. Quest’organizzazione dell’abitato rurale riprendeva gli insediamenti sparsi di matrice tedesca, diversi dal villaggio accorpato di impronta romanza, che connotava i paesi vicini. Contemporaneamente allo sviluppo urbanistico e all’aumento della popolazione avvenne anche la «sacralizzazione» del territorio. L’epopea dei cavatori di Ornavasso, il loro indubbio successo, il loro orgoglio di maestranze altamente

La via dei marmi... Un tempo il marmo raggiungeva Milano attraverso la «via dei Marmi». Il percorso, solo su acqua, si snodava lungo il fiume Toce fino al lago Maggiore. Da qui le barche imboccavano il Ticino e arrivavano ai Navigli milanesi e quindi alla Fabbrica del Duomo. Storicamente, oltre al Duomo di Milano, il marmo di Ornavasso è stato ed è utilizzato anche per il Duomo e la Certosa di Pavia, il tempio di S. Celso e l’Arco della Pace a Milano. Tra il XV e il XIX secolo dinastie di imprenditori si sono affermate sul mercato, grazie all’impiego di

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caleido scopio qualificate pare aver lasciato tracce solo in edifici collettivi, quale quella piccola «cattedrale di marmo», che è la parrocchiale di S. Nicola, o nell’architettura «alta» della Madonna della Guardia, prossima alla cava di piú antico sfruttamento. La parrocchia presenta un’elegante facciata rinascimentale, edificata in blocchi di marmo bocciardato, con caratteristiche striature rossastre. Il marmo venato proviene da una cava vicina e, lavorato a bocciarda, nobilita anche portali, campanile, lesene e archi interni. Realizzata a tre navate tra il 1542 e il 1587 ampliando una precedente chiesa, ospita il Museo parrocchiale di arte sacra con opere pregevoli, databili dal XIV al XVII secolo.

...e la via dei pellegrini Dalla chiesa di S. Nicola una stradina selciata s’inerpica all’ombra di tigli e castagni. È l’antica «via dei pellegrini», che, fiancheggiata dalle cappelle della via Crucis (1672), porta a 500 m di quota, dove, in una radura boscosa, s’innalza il Santuario della Madonna del Boden (boden= «piano» in lingua walser). L’edificio sacro costituisce uno dei maggiori centri di culto mariano nel Verbano Cusio Ossola e ricorda l’apparizione della Madonna alla pastorella Maria della Torre il 7 settembre 1528. Le origini del santuario sono riconducibili al periodo della Controriforma e alla forte ripresa della pietà devozionale legata alla Vergine. L’oratorio della Madonna del Bosco è invece ritenuto l’architettura religiosa piú antica di Ornavasso. Secondo alcuni storici risalirebbe al XII secolo, e quindi sarebbe preesistente all’arrivo dei Walser. Riconosciuto nel 1908 «monumento pregevole d’arte e storia», il tempietto risulta formato da un’aula a pianta quadrata e ha pareti affrescate nel XVI secolo. Davanti all’oratorio si trova ancora il «renghi», un piccolo spazio selciato, in cui si riunivano i capifamiglia del quartiere per discutere di interessi comuni. Chiara Parente

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Lo scaffale Guy Geltner La prigione medievale Una storia sociale

prefazione di Andrea Zorzi

Viella, Roma, 232 pp., 22 ill. b/n

25,00 euro ISBN 9788883349416 www.viella.it

Quello della prigione medievale, è un tema raro, sia nella bibliografia scientifica che in quella divulgativa, con poche ed episodiche pubblicazioni, perlopiú studi locali e regionali. Mancava perciò, sino a oggi, una monografia che scegliesse come fulcro della ricerca la nascita dell’istituzione carceraria e il suo ruolo nella società medievale, e La prigione medievale colma questa lacuna. Una «lacuna italiana» come la definisce l’autore: la scelta di circoscrivere lo studio alle città italiane (e in particolare a Venezia, Firenze, Bologna, a cui è dedicato il cap. 1), sebbene taciuta nel titolo, appare giustificata dalla maggiore documentazione disponibile e compensata da uno sguardo attento all’intero orizzonte europeo. Geltner confuta, in modo convincente, l’ipotesi, sostenuta su tutti da Foucault, che l’incarcerazione punitiva e la sua controparte fisica, ossia l’istituto carcerario, fossero un’eredità della scienza penale illuministica.

Egli dimostra come la prigione nascesse molto prima, tra la metà del Duecento e l’inizio del secolo successivo; già verso la fine del XIV secolo, infatti, le prigioni delle principali città italiane erano completate, visibili e fisicamente centrali, con regolamenti ben definiti e una popolazione carceraria stabilizzata o in crescita. La nascita e lo sviluppo dell’istituzione carceraria sono analizzate attraverso tre prospettive diverse: una prospettiva urbanistica, che contestualizza la prigione all’interno delle principali dinamiche politiche contemporanee, in primis l’affermazione del regime comunale e della conseguente centralizzazione dell’amministrazione politica, finanziaria e giudiziaria (cap. 2); una prospettiva antropologica, che pone l’istituto carcerario in relazione con il nuovo approccio che i governi locali tardo-medievali attuarono nei confronti della marginalità sociale, in precedenza eliminata o allontanata, mentre ora contenuta e custodita in istituzioni quali lebbrosari, bordelli, ospedali o ghetti e quindi, in un certo senso, normalizzata e accettata all’interno delle mura cittadine (conclusione); infine, una prospettiva

sociologica, in cui la prigione (anche pre-medievale) è non solo luogo fisico, ma metafora: di luogo di crescita e purificazione per i primi santi cristiani, quindi di vita di purificazione per eccellenza, paragonabile con l’esperienza monastica e, infine, di rappresentazione terrena della grande prigione di Dio, il Purgatorio (cap. 4). Secondo obiettivo del libro è quello di offrire un’immagine vivida della vita carceraria medievale, dal terrore dell’arresto fino alle possibilità di uscita, attraverso le storie dei suoi protagonisti, detenuti ma anche loro familiari e amici, personale carcerario e coloro che vi prestavano assistenza come preti e medici (cap. 3). La conclusione a cui si giunge è di una vita dura, ma tutto sommato tollerabile e caratterizzata da frequenti contatti con il mondo esterno. Questo secondo obiettivo, centrato in pieno, è impreziosito da una breve, ma gustosa appendice con Alcune poesie dalle prigioni. Giulio Del Buono maggio

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Madrigalista e grande innovatore musica • Note soprattutto nei

madrigali, le qualità compositive di Jacques Arcadelt, attivo presso la cappella pontificia nel XVI secolo, emergono anche dalle brillanti rielaborazioni di opere e temi di altri autori contemporanei

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ifficilmente si potrebbe immaginare un invitto guerriero intento a cacciare il serpente, simbolo del maligno, cosí pregnante ed esaltato da tanta bellezza sonora. Si tratta del mottetto «micaelico» Estote fortes in bello di Jacques Arcadelt, fiammingo d’origine, ma presto trapiantato a Roma – dove lavora come cantore della cappella pontificia nella prima metà del XVI secolo –, che apre l’album Estote fortes in bello. Sacred Works (CPO 777-763-2, 1 CD, distr. www.soundandmusic.it). La fama del compositore è legata alla vasta produzione profana di madrigali, e sono probabilmente la lunga pratica di quel genere e la costante attenzione al contesto poetico e alla pittura musicale delle parole ad aver influenzato anche la sua produzione sacra. Al mottetto segue la Missa Ave Regina Caelorum, con la quale Arcadelt si cimenta nel diffusissimo genere della messa-parodia, ovvero una messa in cui il materiale melodico è preso in prestito da un altro brano, in questo caso l’antifona Ave Regina Caelorum composta dal collega spagnolo Andreas de Silva, anch’egli cantore nella cappella pontificia. Simili prestiti,

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d’altronde, non costituivano un problema, anzi l’appropriazione/ rielaborazione di materiale musicale altrui era considerato un segno di riconoscenza.

Precursore del sommo Pierluigi Alla superba Missa, che si conclude con un seducentissimo Agnus Dei, fanno seguito alcuni mottetti,

composti durante la permanenza presso la cappella pontificia (15401551), che ci svelano una scrittura straordinariamente affascinante e, soprattutto, precorritrice del grande Pierluigi da Palestrina, il quale, di lí

L’ensemble Josquin Capella, fondato nel 1994 da un gruppo di allievi della Schola Cantorum Basiliensis. a poco, «fondò» la cosiddetta «Scuola polifonica romana». Tra gli ascolti vi sono un Pater Noster e una versione delle Lamentationes Jeremia Prophetae, quest’ultima rigorosamente a voci maschili (tenori e bassi), come era di prassi nella Cappella Sistina durante la liturgia del Venerdí Santo. Che si tratti dell’intera compagine corale, formata da due soprani, due tenori, due baritoni e due bassi, oppure delle sole voci maschili, questa esecuzione di musiche sacre brilla in ogni suo aspetto, sia musicale che interpretativo. Il linguaggio di Arcadelt, pur nella sua fedeltà alle leggi del contrappunto fiammingo, riesce infatti a esprimere un’ariosità e una modernità insolite nel campo della musica sacra e davvero innovativa per un autore definito «compositor di madrigali il piú gradito che fosse nel suo tempo». La Josquin Capella, diretta da Meinolf Brüser, riesce a esaltare appieno in ogni sua sfumatura il linguaggio di Arcadelt, regalandoci un’interpretazione memorabile. Franco Bruni

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