Medioevo n. 193, Febbraio 2013

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profezie di malachia biringuccio speziali solenarion serrezzana dossier cavalieri di san giovanni

€ 5,90

Mens. Anno 17 n. 2 (193) Febbraio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 2 (193) febbraio 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

profezie L’AVVENTO DELL’ULTIMO PAPA

I CAVALIERI

DELLA CROCE

SPEZIALI E FARMACISTI

NASCITA DI UNA PROFESSIONE

BIANCA

Da Gerusalemme a Rodi la grande epopea dei guerrieri di San Giovanni

L’ARTE DELLA GUERRA

SOLENARIon

UN GENIALE LANCIAFRECCE



sommario

Febbraio 2013 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

musica

scoperte Quel colpo fatale

farmacisti e farmaci

Battaglia a colpi di note

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Gli speziali

Nelle botteghe della salute

mostre La regola del silenzio Passioni senza tempo

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appuntamenti L’arte di un secolo cruciale Pane e fuoco Alla corte dei Vichinghi L’Agenda del Mese

12 14 16 20

di Maria Paola Zanoboni

Non è vero, ma ci credo di Francesco Colotta

96

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CALEIDOSCOPIO

44

La profezia di Malachia

di Franco Bruni

96

STORIE misteri

La guerra di Serrezzana

26

cartoline Nella fortezza sul mare

104

libri La gloria e poi l’oblio Lo scaffale

108 110

musica Dall’Inghilterra dei bardi L’ultimo trovatore Lo spirito di una nazione

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Dossier 26 personaggi

Vannoccio Biringuccio

L’autodidatta che inventò la chimica di Andrea Bernardoni

36

dimensione guerra Solenarion

Frecce come pallottole di Flavio Russo

90

in nome della croce bianca Storia dei Cavalieri di Rodi

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di Ludovica Sebregondi

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Ante prima

Quel colpo fatale... scoperte • Si è da poco conclusa la

ricognizione delle tombe in cui riposano Giovanni dalle Bande Nere e Maria Salviati. Un’indagine che ha interessato anche le spoglie della illustre coppia, rivelando particolari decisivi sulla morte del condottiero

C

Dall’alto l’apertura della tomba di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati; la cassa di Giovanni al momento dell’apertura; la tibia e la fibula destra del condottiero, con i segni della ferita da arma da fuoco e dell’amputazione di maestro Abram.

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ontinuano a fornire dati di grande interesse le indagini svolte nell’ambito del Progetto Medici (vedi «Medioevo» n. 148, maggio 2009), il programma di ricognizione sistematica delle sepolture di alcuni dei membri piú insigni della casata fiorentina, ospitate all’interno del Museo delle Cappelle Medicee, nel complesso della chiesa di S. Lorenzo. Sotto la lente dell’équipe guidata da Gino Fornaciari sono finiti questa volta Giovanni dalle Bande Nere (1498-1526; vedi box a p. 7) e sua moglie, Maria Salviati (1499-1543). Non è la prima volta che le due tombe vengono esplorate: operazioni

analoghe erano state infatti condotte nel 1857 e poi nel 1946. Questo terzo intervento è stato effettuato sia perché previsto dal calendario dei lavori del Progetto Medici, sia per verificare le condizioni delle due deposizioni e delle spoglie, che, come altre custodite nel sacrario laurenziano, erano state danneggiate dall’alluvione del 1966.

Acqua nella cassetta A tale riguardo, è stato possibile accertare come l’esondazione dell’Arno abbia colpito piú seriamente la sepoltura della donna: la cassetta di zinco che ne conserva i resti era ancora parzialmente invasa dall’acqua, che ha gravemente alterato i resti ossei. febbraio

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Giovanni, chi era costui? Figlio di Giovanni de’ Medici e di Caterina Sforza, Giovanni dalle Bande Nere nacque a Forlí nel 1498 e crebbe nella famiglia Salviati, essendo morti prestissimo i genitori. Condottiero di valore (Machiavelli vide in lui l’uomo capace di liberare l’Italia dagli stranieri), ebbe il noto soprannome dopo che mutò le bande da bianche in nere alla morte di Leone X. Fu al servizio del papa, dei Francesi, degli imperiali e ancora dei Francesi. Diresse l’esercito della Lega di Cognac, contro gli imperiali, ma il tentativo di fermarli fu vano. Giovanni de’ Medici morí a Mantova nel 1526, durante il combattimento, per un colpo d’arma da fuoco, e i Lanzichenecchi si aprirono la strada per Roma.

Qui sopra i paleopatologi al lavoro. In alto il cranio di Giovanni. A destra il tubo di vetro deposto nella cassa di Giovanni dalle Bande Nere: in aggiunta a quello lasciato nel 1947, è stato inserito un messaggio che ricorda la riesumazione appena ultimata. Il vano sepolcrale che ospita la celebre coppia era stato aperto lo scorso 19 novembre e, nelle tre settimane successive, i resti di Giovanni e Maria sono finiti sul tavolo degli studiosi, che li hanno sottoposti a numerose verifiche e analisi. Uno degli obiettivi principali, nel caso del celebre capitano di ventura, era quello di individuare indizi tali da chiarire in maniera inequivoca le circostanze della sua morte, dovuta a una ferita d’arma da fuoco, e, in particolare, se al decesso avesse contribuito l’amputazione della gamba destra a cui fu sottoposto nel tentativo di salvarlo. Una prima sintesi delle osservazioni antropologiche ha permesso di stabilire che Giovanni dalle

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Bande Nere era un uomo vigoroso, con ossa molto robuste e modellate dall’attività fisica e dalla pratica dell’equitazione, svolta fin dall’adolescenza. E, a conferma di un impegno militare significativo, sono state osservate tracce di numerose ernie vertebrali, attribuibili al continuo sovraccarico del torace con pesi considerevoli, nei quali si possono individuare le armature in uso a quell’epoca.

L’ultima battaglia Nel 1526 il nobile fiorentino si trovava alla guida della lega di Cognac, l’alleanza promossa da Francesco I di Francia per contrastare le mire espansionistiche

di Carlo V. Nel mese di novembre combatté una battaglia durissima a Governolo, presso Mantova e venne gravemente ferito alla coscia. Della lesione sono rimaste tracce piú che evidenti e, secondo le osservazioni effettuate, è stato ipotizzato che a causarla sia stato un colpo di falconetto – un pezzo d’artiglieria ad avancarica, costituito in pratica da un grosso archibugio montato su affusto – oppure da un’arma portatile, come un moschetto o un archibugio. Il colpo causò una lesione gravissima, in seguito alla quale corse al capezzale di Giovanni mastro Abramo, il chirurgo che già un anno prima lo aveva curato per un’altra ferita. Il medico amputò l’arto destro del condottiero, ma, come hanno dimostrato le analisi, non fece altro che regolarizzare il danno irreparabile causato dal colpo. Le analisi hanno dunque fugato i dubbi sulla possibilità che il nobile fiorentino potesse essere deceduto per un caso di «malasanità», confermando che la morte sopraggiunse, con ogni probabilità, per il processo di cancrena che la ferita aveva innescato. Stefano Mammini

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Ante prima mostre • «Tacente

lingua et praticante vita»: a questo motto era improntata la vita quotidiana all’interno dell’Ordine di San Romualdo. La cui storia è ora oggetto di una mostra ricca di preziosi documenti, allestita presso la Biblioteca Classense di Ravenna

La regola del silenzio P

er i mille anni di fondazione dell’eremo di Camaldoli (Arezzo), voluto da san Romualdo (952-1027), che, nel rispetto della Regola, mira alla fusione fra regime cenobitico ed eremitico, la Biblioteca Classense di Ravenna ripercorre la storia dell’abbazia di Classe, situata nella città natale del fondatore dell’Ordine. Allestita con manoscritti miniati, testi a stampa, documenti, la mostra rimanda a una quotidianità fatta di studio, meditazione, preghiera. E ripropone la fortuna, i legami, la vivacità intellettuale del centro ravennate, con un’attenzione particolare per il periodo compreso fra il XIII e il XVI secolo. Nel 1138 il monastero benedettino entra nell’Ordine di Romualdo e si amplia costantemente, diventando uno dei cenobi piú importanti in Italia. In origine sorgeva accanto alla basilica di S. Apollinare, ma, dopo la battaglia di Ravenna del 1512 – in cui fu ucciso un abate di Classe –, i monaci, da fuori le mura, si spostano in città, dove iniziano a edificare il complesso in cui rimasero fino al

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Settecento. Fiore all’occhiello del monastero è una libreria ricchissima, dotata di manoscritti e libri a stampa, voluti dal bibliofilo Pietro Canneti (1659-1730). E questa raccolta, che la mostra ricostruisce, aveva sede proprio nell’attuale Biblioteca.

Le due anime di un monastero La rassegna, come racconta la curatrice Claudia Giuliani, «indaga i primi secoli, la prima spiritualità camaldolese nel monastero di Classe, che era un cenobio, non un eremo: le due anime, eremitica e cenobitica, convivono da sempre nell’ordine camaldolese, e lo si vede anche dal simbolo con due uccelli che si abbeverano allo stesso calice.

Il millenario è stato anche l’occasione per studiare i momenti cruciali della storia dell’abbazia, mettendo a fuoco il suo rapporto con il potere e con quello economico in particolare». Nell’Aula Magna della Classense figurano documenti molto antichi, come il diploma del 1001 in cui l’imperatore Ottone III accorda privilegi all’abbazia ravennate. Sono quindi esposti, precisa la Giuliani, «libri che riteniamo piú vicini allo spirito di Romualdo; sono testi liturgici, di preghiera, costituzioni e regole che raccontano la storia dell’ordine; abbiamo privilegiato naturalmente esemplari con una dimensione artistica, come Libri d’Ore miniati». Tema portante dell’esposizione è il

Dove e quando

«I libri del Silenzio. Scrittura e spiritualità sulle tracce della storia dell’ordine camaldolese a Ravenna, dalle origini al XVI secolo» Ravenna, Biblioteca Classense fino al 1° aprile Orario martedí-sabato, 10,00-17,00; lunedí e festivi chiuso Info tel. 0544 482112; www.classense.ra.it febbraio

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In alto l’Aula Magna della Biblioteca Classense di Ravenna, sede della mostra «I libri del Silenzio».

silenzio, come spiega la curatrice: «per noi è stato scatenante un elemento: nella Classense c’è un corridoio nobile con affreschi seicenteschi di san Benedetto e san Romualdo che invitano al silenzio. Il primo ha in mano la Regola aperta alla pagina De taciturnitate, mentre il secondo sta scrivendo i salmi. Nell’abbazia cinquecentesca, anche se lontana dalla prima Regola di impronta orientale, il silenzio sopravvive, anche nei distici latini che lo elogiano, invitando i monaci alla pratica romualdina: tacente lingua et praticante vita». La mostra tratta un altro tema importante, l’Umanesimo camaldolese, l’operosità della cultura nata a Firenze, con Ambrogio Traversari (1386-1439), che esprime il suo interesse per l’Oriente, e per il mondo greco, traducendo opere dei Padri della Chiesa e vite di filosofi. Traversari riveste un ruolo importante per la Classense perché l’abate settecentesco di Ravenna è un suo cultore, quindi raccoglie appunto incunaboli e manoscritti che testimoniano l’Umanesimo del Quattrocento. Stefania Romani In alto Giovanni Battista Barbiani (1593-dopo il 1656-58?), San Benedetto in trono porge la regola ai Santi Placido e Mauro attorniati da altri discepoli. Ravenna, Biblioteca Classense, Corridoio Grande. Qui accanto un Libro d’Ore secondo l’uso liturgico camaldolese. XV sec. A sinistra una pagina delle Constitutiones Camaldulensium. XV-XVI sec.

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Ante prima

Passioni senza tempo mostre • Si può ben dire che il gioco abbia avuto origine con la nascita stessa

della civiltà. Ne offre una vivace conferma l’esposizione al Museo nazionale del Medioevo di Parigi, che ripercorre la storia plurisecolare di svaghi e passatempi

I

giochi, siano essi d’azzardo o di strategia, sono una presenza costante nella vita quotidiana delle grandi civiltà antiche, cosí come del Medioevo. Le molte testimonianze rivelano che, ben presto, tali pratiche ludiche furono associate a temi universali, come il potere, l’amore, l’arte della divinazione o il destino. A questo fenomeno è dedicata la mostra allestita nel Musée de Cluny, che accoglie una selezione di oltre 250 oggetti e opere d’arte, grazie ai quali è possibile ripercorrere una vicenda plurisecolare e cogliere le affinità e le differenze che hanno caratterizzato la pratica del gioco nelle diverse epoche. Basti pensare che, fra i reperti piú antichi selezionati dai curatori, vi sono oggetti riferibili al regno di Babilonia o alle dinastie dei faraoni d’Egitto. I materiali comprendono gli strumenti per il gioco – biglie

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e pedine per giochi da tavolo, scacchi, tarocchi, dadi – e documenti iconografici, come per esempio le miniature, che offrono vivaci rappresentazioni di giocatori. Il percorso espositivo segue un criterio cronologico e tematico al tempo stesso, illustrando l’evoluzione delle tecniche di gioco e offrendo attestazioni significative di come questi svaghi abbiano avuto anche il ruolo di supporto artistico – alcuni pezzi sono autentici capolavori – e di fonte di ispirazione per opere a soggetto ludico.

L’antenato del backgammon Per quanto riguarda le sezioni dedicate all’età medievale, il primo elemento di rilievo è la continuità del fenomeno: l’Età di Mezzo, infatti, recepisce e fa suoi i molti giochi inventati in epoca antica, che, in piú d’un caso, vengono

modificati e ripensati in forme piú evolute e complesse. È il caso, per esempio, del gioco della campana o del trictrac, variazione del gioco romano noto come Ludus duodecim scriptorum (gioco delle dodici linee), che può essere considerato come un antenato del backgammon. Molto antico e di sicura di origine orientale, invece, il gioco degli scacchi era verosimilmente conosciuto in Cina già nel I secolo a.C. e di qui sarebbe passato in India, dove lo si trova diffuso nei primi secoli dell’era volgare. Nell’Occidente medievale trovò subito grande diffusione, con regole rivedute e corrette rispetto a quelle originali e modifiche anche nella scelta dei pezzi: i pedoni, per esempio, furono interpretati anche come rappresentazione simbolica della società, mentre gli elefanti della versione orientale furono trasformati in vescovi e

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A destra scacchiera in avorio, legno e metallo. Fine del XV sec. Firenze, Museo nazionale del Bargello. In basso un vescovo, uno dei pezzi degli scacchi Lewis, di probabile fattura scandinava. Metà del XII sec. Londra, British Museum. Le pedine con i prelati furono in seguito sostituite dagli alfieri. Nella pagina accanto carte appartenenti a un mazzo di 52, dai Paesi Bassi. 1470-80. New York, The Metropolitan Museum of Art.

poi in alfieri. Nella mostra figura uno degli insiemi piú preziosi tra quelli a oggi noti: sono gli scacchi ricavati da zanne di tricheco e fanoni di balena trovati nell’isola di Lewis. Databili alla metà del XII secolo, sono vere e proprie sculture in miniatura. A riprova del grande valore attribuito al gioco degli scacchi, per via della sua dimensione intellettuale, è anche la magnifica scacchiera detta «di san Luigi», originariamente appartenente alle collezioni dei reali di Francia e oggi conservata al Louvre. Si tratta di un pezzo di particolare valore, con parti realizzate in momenti diversi (tra il XV e il XVII secolo), servendosi di cristallo di rocca, legno di cedro, argento e bronzo dorato.

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Poi, alla fine del Medioevo, fanno la loro comparsa le carte e l’universo del gioco si popola di re, regine, cavalieri e fanti, in una girandola di forme e colori in cui affondano le proprie radici anche i mazzi che tuttora utilizziamo. (red.) Dove e quando

«L’arte del gioco, il gioco nell’arte. Da Babilonia all’Occidente medievale» Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 4 marzo Orario tutti i giorni, 9,30-17,45; chiuso martedí Info www.musee-moyenage.fr

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Ante prima

L’arte di un secolo cruciale

appuntamenti • La pittura del Trecento a Milano

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a cultura figurativa del Trecento milanese, pur essendo straordinariamente ricca per committenze, novità formali, approccio inedito nell’uso del colore, rapporti con espressioni quali il gotico e l’arte del Nord Europa, non ha goduto di un avallo storiografico paragonabile a quello operato da Giorgio Vasari per la Toscana. Nel ducato dei Visconti si costruiscono architetture spettacolari, come il Duomo di Milano, la Certosa di Pavia, l’abbazia di Chiaravalle. Ma sono frutto della stessa cultura anche beni non altrettanto conosciuti, quali l’oratorio di Mocchirolo e la chiesa di S. Maria di Brera, oggi inglobata nel palazzo di Brera e utilizzata come aula dell’Accademia. Cosí la Soprintendenza ai Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Milano, anche in previsione del Progetto Grande Brera, che partirà proprio dal recupero dell’edificio

e in Lombardia è al centro di un ciclo di conferenze presso la Pinacoteca di Brera e la chiesa di S. Maria. Quest’ultima è inclusa in un ampio progetto di recupero e riqualificazione

di culto, in collaborazione con le Università di Losanna, Ginevra, Zurigo, organizza alla Pinacoteca un ciclo di conferenze, per approfondire aspetti diversi delle arti nel XIV secolo a Milano e in Lombardia. Ne parliamo con la soprintendente Sandrina Bandera. Dottoressa Bandera, come nasce l’iniziativa? Nasce dal desiderio di mettere a fuoco uno dei momenti piú importanti per Brera e la sua collezione, di ragionare su problematiche fondamentali in vista del Progetto Grande Brera, che partirà dal restauro della chiesa di S. Maria. E proprio attorno alla chiesa degli Umiliati, che aveva la casa madre nell’abbazia di Viboldone, vogliamo costruire Milano, Pinacoteca di Brera. L’ingresso del museo (in alto) e una delle sale della raccolta (in basso).

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Il calendario degli incontri Arte a Milano nel Trecento. Intorno a Santa Maria di Brera è il titolo dato al ciclo di conferenze curato da Sandrina Bandera e Serena Romano. Ecco il calendario degli incontri a Brera. U 11 febbraio, Naturalismo, disegno tardogotico e invenzioni fantastiche in Giovannino de’ Grassi, Marco Rossi (Università Cattolica del Sacro Cuore) U 4 marzo, Oggetti dimenticati. Un’opera proposta ai Visconti in un manoscritto di lusso, Simone Albonico (Università di Losanna) U 15 aprile, «Lo chiamarono per sopranome scimia della natura». Stefano Fiorentino e il giottismo in Lombardia, Damien Cerutti (Università di Losanna) U 20 maggio, Giovanni di Balduccio e la facciata di S. Maria di Brera, Maria Teresa Fiorio (Università degli Studi di Milano) Graziano Alfredo Vergani (Università degli Studi di Macerata) U 10 giugno, Palazzi viscontei a Milano: modelli architettonici e invenzioni pittoriche, Serena Romano (Università di Losanna), Pier Nicola Pagliara (Università degli Studi Roma TRE) U giugno (data da definire), visita conclusiva alla chiesa di S. Maria di Brera, Sandrina Bandera (Soprintendente per i Beni storico artistici, Milano) in collaborazione con l’Accademia di Brera Info tel. 02 72263.264 o www.brera.beniculturali.it In alto figure di santi dipinte nel tamburo della cupola dell’abbazia di Chiaravalle. A destra Milano, la Biblioteca Braidense. una base conoscitiva. Ci siamo impegnati a un approfondimento in collaborazione con l’Università di Losanna, dove esiste da anni un programma di studi sulla fine del Trecento in Lombardia: dell’Università condivido la visione scientifica e l’approccio interdisciplinare, che affronta anche lo studio dei procedimenti adottati all’interno della bottega. Può illustrarci qualche aspetto particolare del Trecento che verrà approfondito? Con la presenza di Giotto a Milano si assiste a un cambio radicale: ci sono artisti che si specializzano nel realizzare le teste, quindi c’è una maggiore elaborazione nel rappresentare le figure e i moti dell’animo, si cerca una resa maggiore di veridicità. Siamo insomma di fronte a una cultura figurativa sempre piú ricca e articolata. E questa modernità si fa strada in parallelo alla letteratura, con Petrarca che guarda all’antico, e all’approccio degli scienziati aristotelici nelle università.

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E oltre a Giotto quali figure di spicco si possono ricordare? È importante l’arrivo in Lombardia di Stefano Fiorentino, che lavora a Chiaravalle: allievo di Giotto, diffonde un giottismo speciale, la pittura che Vasari ha definito «dolce e molto unita», perché, attraverso la tecnica raffinata delle velature, introduce un concetto nuovo, la sfumatura, che appunto unisce fra loro le figure, legandole grazie alla modulazione della luce. Altre caratteristiche del Trecento settentrionale? Sicuramente il lusso: con la presenza

di una corte importante come quella dei Visconti, l’unica che vanti il titolo imperiale di ducato, nelle committenze emerge un gusto spiccato per il lusso. Nei codici diventa abituale l’uso dell’oro e di colori costosi, e si fa largo l’attenzione nei confronti della moda, che cambia nelle maniche, nelle scollature, nella vita alta o bassa, permettendo di datare le opere, talvolta addirittura ad annum. E poi c’è il contatto con il Nord Europa, che, nel tardo Trecento, è incarnato dalle guglie del Duomo di Milano. a cura di Stefania Romani

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Ante prima

Pane e fuoco appuntamenti • Nella cittadina belga di Geraardsbergen, rievocazione storica e

fantasia popolare fanno da sfondo a due giornate di festeggiamenti, che uniscono le tradizioni della fede cristiana a quelle dell’antica religione celtica

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ittadina delle Fiandre belghe di origini medievali, Geraardsbergen è sede ogni anno di una suggestiva cerimonia risalente al XIV secolo, il Krakelingen en Tonnekensbrand, iscritta nel Patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO e traducibile, semplificando, nella «festa del pane e del fuoco». Il rituale si ripete per due volte, a distanza di otto giorni: il primo lunedí di marzo e la seconda domenica precedente, quest’anno il 24 febbraio e il 4 marzo. Risale al 1393 il documento piú antico che menziona le spese a carico del municipio per l’organizzazione del Krakelingen en Tonnekensbrand, che, nei secoli successivi, risulta continuamente citato negli atti comunali, con l’eccezione del periodo delle lotte di religione legate al luteranesimo, nel Cinquecento. La celebrazione prende spunto da una leggenda risalente al 1381, quando Geraardsbergen fu assediata e ridotta alla fame dalle truppe di Gualtieri IV d’Enghien.

Una pietosa bugia...

In questa pagina il Krakelingen en Tonnekensbrand, la festa che anima la cittadina belga di Geraardsbergen. Per l’occasione si preparano speciali pani, a forma di anello. Trasportati in processione, vengono poi gettati alla folla, che deve trovare quello contenente il biglietto che assegna un gioiello.

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Secondo il racconto popolare, per sfuggire alla morsa degli assalitori, il consiglio comunale escogitò uno stratagemma: fece gettare fuori dalle mura cittadine gli ultimi resti di pane e aringhe, come segno di abbondanza, scoraggiando gli assalitori e inducendoli a ritirarsi. In realtà, è storicamente accertato che la città fu in breve tempo costretta ad arrendersi e ad assoggettarsi al nemico. Nei giorni che precedono il Krakelingen en Tonnekensbrand, febbraio

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Geraardsbergen. Il momento in cui, al culmine della festa, si dà fuoco ai Tonnekensbrand, grandi fantocci di paglia e legno, per celebrare la fine dell’inverno. il paese comincia ad animarsi: i negozianti decorano le loro vetrine; i fornai cuociono piccoli pani speciali a forma di anello, i Krakelingen appunto; gli insegnanti raccontano ai propri alunni storia e origini del rituale. La cerimonia inizia alle 15,00, quando, dalla chiesa romanica di Hunnegem, parte un corteo storico aperto dal decano della Chiesa locale e dai rappresentanti del consiglio comunale in costumi d’epoca, seguiti da un migliaio di comparse che descrivono le vicende storiche di Geraardsbergen, dai primi elementi celtici, fino al conflitto con l’esercito di Gualtieri IV d’Enghien. I figuranti portano cestini pieni di Krakelingen fino alla cappella di S. Maria, situata in cima al Monte Vecchio, una collina alta 110 m che sovrasta la cittadina, mentre una folla si raduna nel prato sottostante.

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Dopo la benedizione degli alimenti, le autorità religiose bevono il vino da un calice d’argento contenente anche un piccolo pesce vivo, in una consuetudine piuttosto controversa. Vengono poi gettati tra la folla centinaia di panetti a forma d’anello, uno dei quali contiene un biglietto vincente, che regala un gioiello d’oro creato per l’evento. In serata, alle 20,00 la popolazione locale si riunisce di nuovo sulla collina, dove

vengono dati alle fiamme alcuni tipici fantocci di paglia e legno, i Tonnekensbrand, per celebrare la fine dell’inverno. Qualcuno scende dalla collina portando fiaccole ardenti fino in città. L’intero rito di Geraardsbergen mescola elementi cristiani, come il pane e il vino, ad altri celtici, come il fuoco, rinnovatore della vita in vista della primavera. Tiziano Zaccaria


Ante prima

Alla corte dei Vichinghi

appuntamenti • Esibizioni di figuranti,

rappresentazioni, laboratori artigianali e visite guidate: ecco il vasto programma con cui York celebra il ricordo del regno vichingo di Jorvik. E per una settimana la città inglese rivive il suo passato medievale

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ella regione inglese corrispondente all’odierno Yorkshire, fra il IX e il X secolo d.C., ebbe breve esistenza il regno vichingo di Jorvik. Questa piccola antica monarchia viene celebrata annualmente nella sua ex capitale York (quest’anno dal 16 al 23 febbraio), in un festival durante il quale centinaia di figuranti in costume vichingo danno luogo a esibizioni in arme, addestramenti militari, letture di racconti epici, rappresentazioni di mestieri dell’epoca, ricostruzioni storiche su vasta scala e visite guidate ai siti archeologici cittadini.

In alto e a sinistra figuranti in costume durante la rievocazione del regno di Jorvik.

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In particolare, in St Sampsons Square, viene allestito un mercato medievale, con laboratori artigianali per la lavorazione di cuoio, legno, vetro, bronzo, pelle, terracotta, oggetti preziosi e monete, mentre a Coppergate è approntato un vero e proprio accampamento vichingo, nel quale si possono incontrare guerrieri e assistere a scaramucce coi rivali anglosassoni.

Da pescatori a predatori I Vichinghi erano in origine pescatori e agricoltori scandinavi, stanziali per buona parte dell’anno. Soltanto in estate si radunavano al richiamo di un leader locale, avventurandosi in mare per fare razzie o cercare nuove terre. Anticamente gli Anglosassoni usavano il termine «wicing» per identificare genericamente un pirata. Solo verso la fine del X secolo la parola iniziò a significare uno «Scandinavo predatore dei mari». Fondata nel I secolo d.C. da una legione romana, York, nell’866, venne appunto conquistata dai Vichinghi danesi, il cui dominio durò però meno di un secolo, chiudendosi nel 954, con la conquista da parte dei Normanni e l’annessione all’Inghilterra. Dopo un periodo di decadimento, la città rifiorí nel tardo Medioevo, quando il casato di York, col duca Riccardo, arrivò a disputare la corona d’Inghilterra al casato dei Lancaster, nella Guerra delle Due Rose, che si combatté tra il 1455 e il 1485. A York merita una visita lo Jorvik Viking Centre, un museo e parco archeologico fondato a seguito di estesi scavi che hanno riportato alla luce i resti della città vichinga, con numerosi reperti, comprendenti anche legno, cuoio e tessuti, databili intorno al 900 d.C. Inaugurato nel 1984, ha fatto registrare oltre 20 milioni di presenze. Negli anni sono stati aggiunti elementi tecnologici e di animazione, perfino stimoli odorosi. Dell’epoca vichinga York conserva tracce architettoniche considerevoli, come una cinta muraria e un ponte. T. Z. In basso veduta della città di York, con un tratto della cinta muraria innalzata durante l’epoca vichinga.

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agenda del mese

Mostre milano Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca e la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento U Pinacoteca di Brera fino al 17 febbraio

Nel 2009 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, esercitando il diritto di acquisto all’esportazione, ha comprato il piú antico mazzo di tarocchi italiano completo (che è anche il piú antico esistente al mondo), noto come «mazzo Sola Busca» dai nomi dei precedenti possessori (la marchesa Busca e il conte Sola) e l’ha destinato alla Pinacoteca di Brera, che già conservava un gruppo di 48 carte, parte di un prezioso mazzo tardo-gotico realizzato per il duca di Milano (mazzo cosiddetto Brambilla). La mostra presenta questa importante acquisizione, indagandone il contesto culturale e le possibili fonti, nonché la complessa iconografia, arrivando cosí anche a precisarne la datazione e a

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a cura di Stefano Mammini

identificare l’artista che l’ha realizzata. info tel. 02 72263264; www.brera.beniculturali.it zurigo Capitale. Mercanti a Venezia e Amsterdam U Museo Nazionale Svizzero fino al 17 febbraio

pre-moderna, per esempio ad Amsterdam, la cultura e lo sfarzo presero il sopravvento sul rischioso commercio a lunga distanza. Si iniziò cosí a investire nella cultura e nel lusso, decretando cosí la fine dell’epoca di massimo

splendore di entrambe le città. Come la mostra suggerisce, ciò che sembra appartenere alla storia e lontano dalla nostra realtà si rivela invece di sorprendente attualità. info www.kapital. landesmuseum.ch torino

sviluppo dei motivi decorativi e iconografici, gli interessi e le aspirazioni della società cinese di ogni epoca. Nucleo centrale della mostra che gli viene dedicata dal MAO sono gli specchi prodotti in Cina tra il periodo degli Stati

Riflessi d’Oriente. 2500 anni di specchi in Cina e dintorni U Museo d’Arte Orientale fino al 24 febbraio

Lo specchio è l’oggetto artistico della Cina che meglio di ogni altro racchiude la storia delle concezioni estetiche e cosmologiche, lo La mostra ripercorre le origini del nostro sistema economico attuale, il capitalismo, nella storica Repubblica marinara di Venezia e nell’«Età dell’oro» di Amsterdam. Venezia a partire dal XIII secolo e Amsterdam nel XVII secolo svolsero un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale dell’Occidente. I commercianti di allora inventarono forme di finanziamento, di credito e di commercio che sono tuttora in uso. Entrambe le città erano rivolte verso il mare, correvano rischi, costruivano vascelli, praticavano il commercio a lunga distanza, subivano perdite, ma ottenevano anche ingenti profitti. Con l’aumento del benessere e la nascita di una società borghese

mostre • Tesori del patrimonio culturale albanese U Torino – Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica, Sala del Senato fino al 7 aprile info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it

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rganizzata per il centenario dell’indipendenza dell’Albania (1912), la mostra propone un itinerario attraverso il patrimonio storico-culturale dell’Albania dalla preistoria al XVII secolo e consente di riscoprire le componenti europee di alcune delle civiltà formatesi sulla costa orientale del mare Adriatico. Centocinquanta opere raccontano la vicenda millenaria della sedimentazione e della trasformazione della cultura di un popolo che affonda le sue radici nell’età preistorica per poi aprirsi alle influenze greco-ellenistiche, a quelle della Roma imperiale e, nel Medioevo, accogliere i segni della civiltà dei Comuni italiani, fino all’ingresso nell’orbita dell’impero ottomano (1479). Le tracce di questa lunga trama storica sono documentate da reperti archeologici di uso comune (vasellame, scultura, bronzi, gioielli) e da oggetti di culto (tra cui uno splendente nucleo di

icone). Se la mostra rappresenta, da un lato, un’occasione per riscoprire le radici europee dell’Albania, dall’altro intende

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Combattenti e la fine della dinastia Tang, cioè dal V secolo a.C. al X secolo d.C.: 1500 anni che corrispondono al periodo di maggiore sperimentazione e di maggiore interesse artistico-culturale nei confronti dello specchio in Asia orientale. Non mancano tuttavia produzioni piú antiche e piú recenti e all’ampliamento dell’arco cronologico corrisponde anche un’estensione del contesto geografico della mostra: alcuni esemplari provenienti dall’area iranica, per esempio, invitano a riflettere sulla reciproca interazione tra Cina e Asia occidentale

attraverso la mediazione del vasto mondo delle steppe. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@ fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it milano Giovanni Bellini: dall’icona alla storia U Museo Poldi Pezzoli fino al 25 febbraio

La mostra ruota intorno a uno dei capolavori del Museo Poldi Pezzoli, l’Imago pietatis di Giovanni Bellini (1430 circa-1516), opera giovanile con cui l’artista si misura con il tema della Pietà, partendo dal modello bizantino. Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i

delineare l’antico e profondo rapporto con l’Italia, che da secoli dialoga e collabora con l’Albania e ne accoglie le comunità in diaspora. Il percorso espositivo prende avvio dalla preistoria, con oggetti in ceramica, gioielli, armi, statue del Neolitico Antico, dell’età del Bronzo, dell’età del Ferro e del periodo arcaico; vasi, manufatti, statue, ritratti, monete, stele istoriate illustrano l’antichità, dal periodo ellenistico e romano, sino ad arrivare all’Alto Medioevo. Gran parte di questo tesoro è stato portato alla luce grazie all’opera di ricerca e scavo di archeologi albanesi ed europei, tra cui anche alcuni italiani, come Luigi Ugolini (1895–1936). Si giunge, infine, all’epoca bizantina, con una selezione di oggetti della liturgia, molti dei quali esposti per la prima volta in Italia e realizzati tra il XII e il XVIII secolo: pur nella fissità dei modelli figurativi, le icone presenti

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Sessanta del Quattrocento, Bellini compí il passaggio dall’icona bizantina

all’immagine rinascimentaleumanistica del Cristo in Pietà, come testimoniano altre tre splendide opere provenienti da prestigiosi Musei italiani. Dipinti di precursori ed epigoni di Bellini nel Museo Poldi Pezzoli vengono per l’occasione accostati a questo nucleo centrale, per far comprendere l’impatto dell’artista veneto non solo sulla pittura contemporanea, ma anche sul gusto e sulle diverse epoche. info www.museopoldipezzoli.it

bologna Simone e Jacopo: due pittori bolognesi al tramonto del Medioevo U Museo Civico Medievale fino al 3 marzo

in mostra illustrano la ricezione della pittura italiana del Trecento e le trasformazioni apportate dal maestro Onufri e dalla sua scuola, confermando l’estrema permeabilità della cultura albanese.

L’esposizione nasce dalla fortunata circostanza del deposito presso i Musei Civici d’Arte Antica, da parte di un collezionista privato, di due preziose

tavole raffiguranti la Madonna con Bambino e la Crocifissione, rispettivamente di Jacopo di Paolo (documentato dal 1378 al 1426) e di Simone di Filippo, detto dei Crocefissi (documentato dal 1355 al 1399). Le due opere, esposte insieme ad altri dipinti su tavola e a miniature provenienti da musei e collezioni private, vanno ad accrescere il già ricco nucleo di pittura medievale presente all’interno delle Collezioni Comunali d’Arte e del Museo Davia Bargellini. L’esposizione costituisce quindi l’occasione per mettere

a confronto le due diverse personalità artistiche: i due pittori bolognesi, a cui è dedicata la mostra, furono infatti a capo di importanti botteghe, che dominarono la scena artistica locale durante la seconda metà del Trecento e, nel caso di Jacopo di Paolo, fino al primo Quattrocento. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.comune. bologna.it/iperbole/ museicivici

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agenda del mese mostre • Capolavori sacri per l’Anno della Fede – Annunciazione di Cortona di Beato Angelico U Roma – Galleria Borghese

fino al 10 febbraio info e prenotazioni tel. 06 32810; www.ticketeria.it, www.annusfidei.va, www.mondomostre.it

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ino al prossimo 24 novembre, il Polo Museale Romano ospita cinque esposizioni consecutive di capolavori dell’arte sacra per accompagnare l’Anno della Fede, iniziato lo scorso 11 ottobre. Ad aprire la serie è l’Annunciazione di Cortona di Beato Angelico, eccezionalmente concessa dal Museo Diocesano del Capitolo di Cortona e dalla diocesi di Arezzo-CortonaSansepolcro. L’opera viene indicata come il primo indubbio capolavoro dell’artista, che fece da modello per una fortunata serie di pale d’altare simili, non solo dell’Angelico. Il modello di Angelico fu principalmente l’Annunciazione di Masolino nella chiesa di San Niccolò Oltrarno, con una partizione dello spazio architettonico al posto del fondo oro e al posto dei tradizionali scomparti cuspidati. Ispirato dalle concezioni architettoniche di Filippo Brunelleschi, il pittore volle portare a perfezione la nuova tipologia di «pala quadrata», già sperimentata da Masaccio, in cui la sobria cornice impone alla scena centrale l’unità dello spazio governato da precisa prospettiva. L’episodio è ambientato in un arioso loggiato rinascimentale, immerso in un giardino recintato che simboleggia la purezza e la castità della Vergine Maria, seduta in preghiera nel porticato. Le colonne corinzie ricordano invenzioni di Michelozzo, mentre sullo sfondo si apre una parete con archi su peducci, lasciando intravvedere la stanza interna con il talamo nuziale, simbolo dell’Incarnazione del Figlio di Dio come unione d’amore con la natura umana. Il soffitto è trapuntato di stelle, il pavimento è di marmo variegato, un abile effetto introdotto dall’Angelico nel Trittico di San Pietro Martire (1428-1429).

roma Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente U Palazzo delle Esposizioni fino al 10 marzo

Oltre 150 manufatti originali – opere d’arte, tessuti, parati, oggetti in vetro e bronzo – oltre a modelli, mappe, ricostruzioni, percorsi interattivi e video installazioni, raccontano la storia dell’intreccio di itinerari da Oriente a Occidente e viceversa, riassunti poi sotto il

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suggestivo termine di «Via della Seta». Molti i reperti esposti per la prima volta, come la dalmatica del parato di papa Benedetto XI, confezionata con sete asiatiche e tessuti italiani di ispirazione orientaleggiante, una straordinaria testimonianza del gusto per le stoffe preziose tartariche e della loro fortuna nel Tardo Medioevo presso le sfere piú alte del potere civile e religioso; la fiasca cinese ottagonale del Museo di Arte Medievale di Arezzo, tra i primi vasi decorati in bianco e blu approdati in Europa; il manto di San Secondo del XIII secolo, proveniente da Venezia, una delle prime testimonianze delle manifatture della seta

in Italia e importante attestazione del legame che per tutto il Medioevo unisce i tessuti suntuari al culto delle reliquie; il manuale di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, il piú famoso e completo manuale medievale a uso dei mercanti compilato dall’uomo d’affari fiorentino Balducci Pegolotti attorno al 1330-40. info www. palazzoesposizioni.it milano Costantino 313 d.c. U Palazzo Reale fino al 17 marzo

La rassegna celebra l’anniversario dell’editto con cui, nel 313 d.C., Costantino dichiarava lecito il cristianesimo. Il percorso si articola in sei sezioni che

approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente

dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata dall’imperatore, e sono attentamente analizzate anche le tre istituzioni protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la Chiesa e la corte imperiale. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313. info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino

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trento Un vescovo, la sua cattedrale, il suo tesoro. La committenza artistica di Federico Vanga (1207-1218) U Museo Diocesano Tridentino fino al 7 aprile

ambito artistico: edifici, codici miniati, oggetti d’oreficeria ci tramandano il ricordo indelebile di uno dei piú interessanti mecenati del Medioevo alpino e attestano le relazioni ad ampio raggio con centri di produzione artistica tra i piú famosi e di piú alto livello che il presule seppe coltivare. info tel. 0461 234419; e-mail: info@ museodiocesano tridentino.it; www.museodiocesano tridentino.it

Modena

Il Museo Diocesano Tridentino rende omaggio a Federico Vanga, principe vescovo di Trento tra il 1207 e il 1218, nonché ispiratore della cattedrale di S. Vigilio, di cui ricorre l’VIII centenario della fondazione. Discendente da una nobile famiglia della Val Venosta, imparentata con le piú potenti dinastie dell’area alpina, Vanga – che l’imperatore Federico II definí «nostro consanguineo» – negli anni del suo episcopato giocò un ruolo decisivo sul piano pastorale, politico, economico, legislativo. Non meno importanti furono le iniziative promosse in

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Le vesti di sempre. Gli abiti delle mummie di Roccapelago e Monsampolo del Tronto. Archeologia e collezionismo a confronto U Musei Civici fino al 7 aprile

Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli archeologi trovarono nella cripta della chiesa parrocchiale di Roccapelago numerosi corpi perfettamente

mummificati e ancora vestiti con i propri abiti, monili e medagliette devozionali. Quel rinvenimento sensazionale ha offerto lo spunto per una nuova, suggestiva esposizione, incentrata sugli abiti indossati dalla piccola comunità dell’Appennino modenese tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Settecento. Un vestitino da bambino, alcune camicie con ricami, sudari in tessuti poveri e cuffie in piú pregiati tessuti di seta e velluto saranno messi a confronto con gli abiti indossati da altre mummie dello stesso periodo rinvenute a Monsampolo del Tronto (AP). Viene proposto anche un ulteriore raffronto tra gli antichi tessuti restituiti dalle indagini archeologiche e i tessuti e le raccolte d’arte ed etnografiche del Museo Civico di Modena. info tel. 059 20331.0125; e-mail: museo.arte@ comune.modena.it; www.comune.modena.it/ museoarte

Bitonto Tiziano, Bordon e gli Acquaviva d’Aragona. Pittori veneti in Puglia e fuoriusciti napoletani in Francia U Galleria Nazionale della Puglia «Girolamo e Rosaria Devanna» fino all’8 aprile

Con Venezia le città pugliesi mantennero un legame privilegiato: commerciale e politico, quale principale approdo, insieme alla Francia, di tanti esiliati, simbolo di libertà rispetto al dominio assolutistico e alla mentalità stessa del regno di Spagna, ma anche di gusto e committenza, avendo creato nel campo

artistico forme e linguaggi originali rispetto agli altri centri del Rinascimento in Italia. Da qui la presenza capillare dei pittori veneziani in tutta la regione. Al centro della mostra è un inedito e notevole dipinto per la prima volta attribuito a Paris Bordon, raffigurante Il ritratto di Giulio Antonio II Acquaviva d’Aragona, attualmente in raccolta privata inglese e mai esposto prima d’ora. Un dipinto importante, che offre lo spunto per rileggere i legami storici e artistici dell’antica casata feudale degli Acquaviva d’Aragona con le città

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agenda del mese di Bitonto, di Conversano e dei territori pugliesi appartenenti al feudo del potente casato e, nel contempo, riporta l’attenzione sui piú importanti dipinti veneziani giunti in terra di Bari tra il quarto e il sesto decennio del Cinquecento. info e prenotazioni tel. 080 099708; e-mail: gallerianazionaledella puglia@beniculturali.it; www.gallerianazionale puglia.beniculturali.it

padova Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento U Palazzo del Monte di Pietà fino al 19 maggio

La mostra dedicata a Pietro Bembo riporta a Padova, dopo cinque secoli, i capolavori della collezione che l’intellettuale veneto, poi divenuto cardinale, aveva riunito nella propria casa, ancora esistente nell’attuale via Altinate (oggi sede del Museo della Terza Armata). A partire dai primissimi anni Trenta

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del Cinquecento, Bembo aveva riunito dipinti di maestri come Mantegna e Raffaello, sculture antiche di prima grandezza, gemme, bronzetti, manoscritti miniati, monete rare e medaglie. La ricchezza e varietà degli oggetti d’arte, raccolti per gusto estetico, ma anche come preziose testimonianze per lo studio del passato, rese agli occhi dell’Europa del tempo la casa di Bembo come «la casa delle Muse» o «Musaeum», precursore di quello che sarà il moderno museo. Per una breve stagione, proprio grazie all’influenza di Bembo e al suo gusto collezionistico, Padova divenne baricentro e crocevia della cultura artistica internazionale, perché in città prese vita qualcosa di inedito, che ebbe enormi ripercussioni nei secoli a venire, un nuovo modo di raccogliere e presentare non solo l’arte, ma la conoscenza stessa: nacque il Museo, termine che da allora diviene universale. Dopo la morte di Bembo i capolavori vennero venduti dal figlio Torquato e si dispersero nel mondo e oggi sono conservati nei grandi musei internazionali, che li concederanno eccezionalmente in prestito in occasione della mostra padovana. info tel. 049 8779005; e-mail: info@coopbembo. com; www.mostrabembo.it

londra Barocci: Brilliance and Grace U The National Gallery fino al 19 maggio (dal 27 febbraio)

Prima importante rassegna monografica dedicata all’arte di Federico Barocci (1535-1612), la mostra comprende la maggior parte dei dipinti e delle pale d’altare, insieme alle sequenze di disegni preparatori. Fra le opere piú importanti, ci sono le pale d’altare piú spettacolari dell’artista: la Sepoltura di Cristo, dalla cittadina costiera

marchigiana di Senigallia, e l’Ultima Cena, dipinta per la cattedrale di Urbino. Al loro fianco vengono presentate altre due meravigliose pale d’altare piú recenti, commissionate per le chiese romane: la Visitazione, proveniente dalla Chiesa Nuova, e l’Istituzione dell’Eucarestia, da S. Maria sopra Minerva.

L’esposizione include anche i ritratti piú spettacolari di Barocci, insieme a dipinti devozionali piú piccoli, al suo unico dipinto di soggetto profano (Enea Fugge da Troia) e a piú di 65 disegni preparatori, studi a pastello e schizzi a olio, tecniche di cui Barocci fu pioniere e da lui sperimentate molto prima che diventassero pratiche artistiche consuete. info tel. +44 (0) 20 77472885; e-mail: information@ng-london. org.uk; www. nationalgallery.org.uk

Roma Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga U Chiostro del Bramante fino al 2 giugno

Attraverso le opere di Pieter Brueghel il Vecchio e della sua genealogia, la mostra propone un viaggio nell’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento, alla ricerca del genio visionario di ben cinque generazioni

di artisti, capaci di incarnare coralmente, come mai nessuno prima, né dopo di loro, lo stile e le tendenze di oltre un secolo di storia dell’arte. Con oltre 100 opere, l’esposizione offre la possibilità di vedere da vicino meravigliosi dipinti, presentati in modo organico e completo. Un’opportunità imperdibile per apprezzare opere straordinarie, per la prima volta in Italia, come Le sette opere di misericordia di Pieter Brueghel il Giovane, I sette peccati capitali o Il ciarlatano della scuola di Hieronymus Bosch. E proprio dal rapporto che con Bosch ebbe il capostipite dei Brueghel, Pieter il Vecchio, inizia il racconto della dinastia che, con la sua visione disincantata dell’umanità, ha segnato la storia dell’arte europea dei secoli a venire. Illustratore di un mondo agreste divenuto simbolo di una lettura sul senso della vita umana che già febbraio

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all’epoca riscosse incredibile successo presso la committenza internazionale, dopo la sua morte, i registri del comico e del grottesco, tipici dei suoi lavori, assunsero una valenza educativa che venne quindi raccolta dai figli, Pieter il Giovane e Jan il Vecchio. info e prenotazioni tel. 06 916508451 www.brueghelroma.it; biglietteria on line www.ticket.it/brueghel

Treviso Tibet. Tesori dal tetto del mondo U Casa dei Carraresi fino al 2 giugno

La lunga storia del Tibet viene ripercorsa dall’esposizione allestita in Casa dei Carraresi, dove si possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico. Il percorso si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe,

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carte geografiche e documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Ampio spazio è quindi riservato alle numerose divinità buddhiste tibetane e alla produzione di statue e dipinti a esse dedicati. Accanto alla statuaria, che tocca vette artistiche di notevole valore, sono esposti anche gli oggetti di culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse

è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno

monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto

di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it

Appuntamenti italia le giornate dei musei ecclesiastici U Sedi varie 2-3 marzo

L’AMEI (Associazione Musei Ecclesiastici Italiani) apre gratuitamente le porte degli oltre 200 musei ecclesiastici già aderenti all’Associazione (senza peraltro escludere dall’iniziativa quelli non ancora iscritti), in una due giorni di visite guidate, attività, incontri, musica nel nome del Beato Angelico, protettore degli artisti. Queste

Giornate dei Musei Ecclesiastici non sono che una delle tante iniziative che l’AMEI ha messo in cantiere per il 2013, anno che, negli obiettivi dell’associazione, vuole essere quello della «emersione» dei Musei Ecclesiastici: da musei «cancellati» a musei sempre piú aperti, attivi e protagonisti. info www.amei.biz

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi

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misteri la profezia di malachia

Non è vero, ma ci credo

di Francesco Colotta

«Durante l’ultima persecuzione che subirà la Santa Chiesa Romana, regnerà Pietro il Romano. Egli pascerà le pecore fra molte tribolazioni. Passate queste, la città dei sette colli sarà distrutta, e il giudice tremendo giudicherà il popolo» Cosí recita una delle profezie sul destino della Chiesa cattolica ricondotta alla figura misteriosa di un monaco irlandese del XII secolo. La sua controversa opera conterrebbe precise indicazioni perfino sull’avvento dell’ultimo papa... 26

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n’antica, enigmatica profezia preconizza l’avvento dell’ultimo papa della storia, la caduta in rovina di Roma e la possibile fine del mondo. Una lettura non catastrofica di quel presagio, invece, annuncia il manifestarsi di una rivoluzione spirituale per la Chiesa o, addirittura, il ritorno del Messia. Misterioso risulta anche l’autore del vaticinio, che la tradizione identifica in Malachia, monaco e santo irlandese vissuto nel XII secolo. La premonizione è accompagnata da brevissimi motti sul profilo umano e politico di 112 futuri papi, a partire da Celestino II che governò la cristianità occidentale dal 1143 al 1144: un gioco di previsioni, in alcuni casi indovinate, che giunge fino ai nostri giorni. Secondo i calcoli della profezia, il pontificato che segnerà l’estinzione della figura del vicario di Cristo dovrebbe essere il successivo a quello di Benedetto XVI e verrà preceduto da un periodo di sofferenza per i cattolici. Dubbia è la datazione del testo attribuito a Malachia: il documento, infatti, non risale direttamente all’Età di Mezzo, ma al 1595, anno in cui il monaco benedettino francese Arnold de Wyon lo rese pubblico all’interno del suo trattato Lignum vitæ. A provare l’origine medievale di quelle divinazioni c’era solo una scarna testimonianza di de Wyon: «Di Malachia – scrisse nell’introduzione – non conosco che una certa profezia sui Sommi Pontefici. Poiché tale profezia è breve e, a quanto mi consta, non è stata mai stampata, la riproduco qui per soddisfare il desiderio di molti». Gli unici riscontri concreti su quanto il religioso transalpino aveva affermato si potevano ricavare soltanto da narrazioni leggendarie fiorite nel frattempo. La piú diffusa raccontava che il santo irlandese, in visita a Roma nel 1138 per incontrare Innocenzo II, aveva avuto una visione sul futuro del papato. Ne riportò il contenuto su alcuni fogli e, in seguito, decise di consegnare il manoscritto al pontefice, che lo inoltrò agli Archivi Vaticani. In quel luogo segreto, nel 1590, de Wyon scoprí i testi profetici, trovandoli raggruppati sotto il titolo Prophetia de Summis Pontificibus.

Le prime perplessità

A questa tradizione diedero credito, nel XVI e XVII secolo, diversi studiosi: il censore e revisore della Biblioteca Vaticana Onofrio Panvinio (1530-1568), l’ esegeta biblico belga Cornelio a Lapide (1567-1637), lo storico cistercense Crisóstomo Henriquez (1594-1632). La Chiesa, ufficiosamente, preferí ignorare la questione, ma le prime esplicite manifestazioni di scetticismo sull’autenticità dei testi pubblicati da de Wyon non tardarono ad affiorare nel mondo cattolico. Nel 1643 venne fondata la Scuola critica di storiografia ecclesiastica, sotto la guida del gesuita belMiniatura raffigurante papa Niccolò III, da un’edizione dei Vaticinia de Pontificibus, forse attribuibili a Gioacchino da Fiore. Prima metà del XV sec. Londra, The British Library.

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ga Jean Bolland (1596-1665), con il compito di rielaborare attraverso un’ottica piú realistica la vasta materia dell’agiografia dei santi. A quel tipo di revisione scientifica fu sottoposta anche la profezia di Malachia, in particolare per iniziativa del bollandista Claude-François Ménestrier (1631-1705) che sollevò molti dubbi sull’origine del manoscritto: perché – osservava nel suo saggio La Philosophie des images énigmatiques (1694) – nella dettagliata biografia sul santo irlandese scritta da Bernardo di Chiaravalle non esisteva nemmeno un accenno ad un’opera profetica sul papato?

Il falsario del cardinale

Una delle soluzioni piú credibili dell’enigma – secondo Ménestrier – chiamava in causa i sostenitori del cardinale Girolamo Simoncelli e le loro strane manovre alla vigilia del conclave del 1590 (quello che elesse il successore di Urbano VII, morto dopo soli 13 giorni di governo sulla Chiesa). Si sospettava che il domenicano François-Alphonsé Chacon, gravitante nell’entourage di Simoncelli, avesse fatto circolare una falsa profezia sui papi nella quale risultava, come successore di Urbano, un ecclesiastico originario di Orvieto. E Simoncelli era nato e cresciuto in quella città. Alcuni studiosi ritengono, invece, che il falso testo sia stato redatto da Alfonso Ceccarelli, un protetto del cardinale orvietano e grande esperto nella contraffazione di documenti. L’espediente, però –sempre che sia stato messo in atto – non favorí, alla fine, Simoncelli: al soglio di Pietro ascese Niccolò Sfondrati che assunse il nome di Gregorio XIV. Il fantomatico falsario attinse a una serie di testi in circolazione nel Rinascimento per tratteggiare i profili dei pontefici e si serví presumibilmente del Liber de vita Christi ac omnium pontificum del Platina, rielaborato dal bibliofilo Onofrio Panvinio nel 1557. Alcuni refusi contenuti in quel testo, infatti, compaiono anche nelle profezie di Malachia: Eugenio IV (1431-1447) che, in modo erroneo, il Panvinio riteneva appartenesse all’Ordine dei Celestini, è identificato nelle previsioni malachiane con il motto «Lupa coelestina». Un’altra svista che accomuna i due scritti riguarda Giovanni XXII (1316-1334), definito impropriamente il figlio del calzolaio Ossa. Gli storici moderni, a differenza dei loro colleghi vissuti nel Rinascimento, hanno potuto analizzare la vera parte profetica del testo, cioè quella posteriore al 1590. Non poteva rappresentare solo un caso che le descrizioni dei papi del primo periodo, dal 1138 al 1590, fossero tanto fedeli alla realtà: è probabile che qualcuno le avesse ritoccate a posteriori. I riferimenti precisi agli stemmi e alle personalità degli eletti dopo il Cinquecento diventavano, invece, vaghi e spesso errati. Si percepiva la netta sensazione che l’autore avesse composto la profezia proprio negli anni in cui la stessa era stata pubblicata da de Wyon. Un’altra contraddi-

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misteri la profezia di malachia zione rischiava poi di screditare quei presagi: l’elenco dei primi 74 motti comprendeva ben 10 antipapi. La loro presenza tra i capi della Chiesa era considerata un’anomalia dagli studiosi cattolici che contestarono, di conseguenza, l’ordine numerico della lista. Leggende a parte, appare verosimile circoscrivere il campo d’indagine soprattutto al Cinquecento: era il secolo di Paracelso, di Nostradamus, vale a dire un periodo molto fertile per le grandi divinazioni. Tuttavia, non vi sono certezze sufficienti nemmeno sull’origine rinascimentale del documento profetico. L’anonimo contraffattore, infatti, potrebbe avere rielaborato nel XVI secolo un altro testo divinatorio medievale sulla Chiesa di Roma, non necessariamente quello che la tradizione ritiene sia opera di Malachia. Verso la fine del Duecento, per fare un esempio, circolava una raccolta di testi in latino, i Vaticinia de Pontificibus, contenente profezie su un certo numero di papi, a partire da Niccolò III (morto nel 1280). Da quella serie di previsioni, poi ampliata nel Cinquecento, si ricavò un unico manoscritto attribuito in modo dubbio al filosofo Gioacchino da Fiore. Nel Medioevo, insomma, la pratica di formulare vaticini sui futuri pontefici era diffusa. Né si deve dimenticare che lo stesso Malachia – a detta del suo maestro san Bernardo – «ebbe in non piccola misura i doni della profezia, della rivelazione e del castigo degli empi».

Tre cifre fatidiche

I papi citati nelle sentenze malachiane sono 112. Alcuni studiosi, tra i quali lo scrittore francese JeanLuc Maxence indicano, invece, la cifra di 111 come computo reale, al quale andrebbe aggiunto a parte il cosiddetto «giudizio finale» sull’avvento dell’ultimo pontefice. La profezia, in effetti, riporta 111 profili numerati, mentre il temuto Petrus Romanus compare solo nella frase conclusiva. Il 111 viene spesso citato per i presunti significati trascendenti ed esoterici: «Ora, non è necessario essere grandi iniziati – sostiene Maxence – per sapere con certezza che questo numero svolge un ruolo di capitale importanza nella tradizione divinatoria fin dai tempi piú remoti. Il 111 è costituito da tre numeri 1, collocati fianco a fianco. È un numero fatto a somiglianza

Lo scetticismo dei cattolici

Sentenze senza appello La profezia di Malachia è stata bollata come poco attendibile o totalmente falsa da gran parte della cultura cattolica. Già nell’Ottocento, il bibliografo e dignitario pontificio, Gaetano Moroni

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(1802-1883), nel monumentale Dizionario di erudizione storico ecclesiastica (l’opera si componeva di 103 volumi, pubblicati tra il 1840 e il 1861), non la reputò «conveniente di riproduzione» per il fatto che «presso

i critici, a onta della loro rinomanza, queste sedicenti profezie presto caddero in discredito, onde i sensati le disprezzano e non curano». Lo storico cattolico Ludwig von Pastor (1854-1928), febbraio

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A sinistra miniature con scene della vita di san Malachia, che risulta attivo tra l’XI e il XII sec., da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. In basso due pagine del Liber de vita Christi ac omnium pontificum, una silloge di biografi di pontefici curata da Bartolomeo Platina intorno al 1474, alla quale potrebbe aver attinto il compilatore delle profezie di Malachia.

del mistero della santa Trinità: Dio infatti è uno in tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo». In piú la ripetizione di 3 cifre uguali richiama simboli biblici presenti nell’Apocalisse (la «grande bestia 666», segno del demonio) e nella Genesi (il 777 associato alla figura di Lamech, il padre di Noè).

Allusioni araldiche

Quasi tutti i papi del Medioevo, come già detto, sono descritti in modo sufficientemente fedele, a partire da quelli del XII secolo: Lucio II è «Inimicus expulsus» («il nemico cacciato») con un gioco di parole che allude al suo cognome, ossia Caccianemici, mentre Eugenio III viene identificato con l’espressione «Ex magnitudine montis» («Dalla grandezza del monte») in relazione al paese natale, Montemagno. I pontefici vengono spesso accomunati ad animali e cose che figuravano nel proprio stemma o in quello della loro famiglia, come nel caso degli eletti nel XIII secolo: Gregorio IX è «Avis Ostiensis», con allusione all’aquila, e Bonifacio VIII ha come sentenza «Ex undarum benedictione» per la presenza

nel Novecento, fu ancora piú severo nei riguardi della profezia: «La critica seria – scrisse nella sua celebre Storia dei papi – deve attribuire a questo meschino lavoro la stessa limitata importanza

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che ad altre profezie sui papi, che verso la fine del secolo XVI furono diffuse dalla stampa e accettate da persone credule». L’Enciclopedia cattolica ritiene un forte argomento contro l’autenticità delle previsioni

attribuite a Malachia il fatto che i molti motti da Gregorio XIV in poi risultino «insulsi». Anche la Bibliotheca Sanctorum considera la profezia come un documento verosimilmente manipolato.

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misteri la profezia di malachia delle onde. Celestino V viene definito «Ex eremo celsus», per la sua tendenza all’isolamento e all’ascetismo, mentre di Pio II Piccolomini, in carica dal 1458 al 1464, si evidenzia il passato di segretario al servizio dei cardinali Capranica e Albergati, «De Capra et Albergo». Uno dei motti piú criptici riguarda Sisto V che morí nell’agosto del 1590, prima della probabile rivisitazione tardocinquecentesca della profezia, quindi in un’epoca in cui si potevano ancora apportare eventuali correzioni. Il suo motto, «Axis in medietate signi» («l’asse al centro del segno»), è comunemente letto alla luce dell’intera cronologia profetica, perché si colloca a metà della stessa. L’asse sarebbe il centro che divide in due segmenti uguali l’elenco dei successori di Pietro: l’arco di tempo cha va dal primo della lista all’avvento di Sisto V copre 442 anni (dal 1143 al 1585), sicché il giudizio finale dovrebbe manifestarsi dopo altrettanti 442. Contando dal 1590, anno della morte di Sisto V, si arriverebbe al 2032.

delle eccezioni. Le definizioni relative ad alcuni futuri pontefici risultano corrette, come quella di Innocenzo XII insediatosi alla fine del Seicento: «Rastrum in porta» («il rastrello alla porta») evoca il nome della sua famiglia, i Pignatelli del Rastrello. Calzante appare anche l’espressione riferita a Clemente XIV, eletto nel 1769: «Ursus velox» («l’orso veloce»), che può richiamare lo stemma familiare nel quale figura un orso in corsa. Non sembra fuori luogo nemmeno la sentenza su Pio VII (1800-1823), «Aquila rapax»: il suo piú grande nemico, Napoleone Bonaparte, aveva l’aquila come simbolo imperiale. E non mancano assonanze anche nelle profezie sui pontificati piú recenti. Leone XIII (1878-1903), l’autore

Presagi «polivalenti»

La vera profezia, pertanto, entra in gioco con il gruppo di papi posteriori al 1590. I riferimenti diventano fumosi, generici, in un intrecciarsi di frasi ambigue che potrebbero essere applicate ai piú svariati caratteri o a un’infinità di circostanze storiche. Ci sono, tuttavia,

dalla verde irlanda

Ma chi era davvero Malachia? Due Malachia sono separati da cinque secoli e appaiono legati, in diverso modo, all’atto del profetare. L’uno, vissuto fra il 600 e il 500 a.C., chiude nell’Antico Testamento la lunga sequenza dei libri profetici, ma non ha lasciato tracce sensibili della propria esistenza. L’altro, vissuto nell’XI e XII secolo dell’era volgare e asceso nel cielo dei santi, ha avuto invece in Bernardo di Chiaravalle un biografo prezioso. Dalla sua agiografia sappiamo che nacque in terra d’Irlanda nel 1094, ad Armagh, da nobile e pia progenie. Battezzato col nome Máel Máedóc (tradotto come Malachia), ebbe insigni maestri nella fede, principalmente Imaro (Imhar O’Hagan) che lo guidò alla vita eremitica. Presto il giovane Malachia, in fama di santità, fu notato dall’arcivescovo di Armagh che voleva farne un sacerdote, ma egli si riteneva indegno di accedere a questa dignità. Dovette rassegnarsi quando il presule lo richiamò al dovere dell’ubbidienza, e rispose in pieno alle aspettative dei suoi estimatori per il profondo zelo nell’incarico di predicatore della Parola. Tanto da essere designato vescovo di Connor nel 1124. Bernardo ci riferisce di una parentesi tempestosa in cui Malachia incorse dopo la morte dell’arcivescovo di Armagh.

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Chiaravalle (Clairvaux, Francia). Il dormitorio dell’abbazia cistercense: nel secondo viaggio dall’Irlanda a Roma, Malachia vi fece tappa, per incontrare san Bernardo. Colto da un malore, vi morí nel 1149. Nella pagina accanto lastra in smalto policromo raffigurante il profeta Malachia, dalla chiesa del convento di S. Maria della Celeste a Venezia. XVI sec. Ecouen, Musée national de la Renaissance.

Questi aveva lasciato istruzioni affinché il suo protetto potesse succedergli nella cattedra. Malgrado l’espresso gradimento di clero e popolo, un parente del defunto usurpò la carica arcivescovile trascinando Malachia in un gorgo giudiziario. Si trattò di una vera e propria persecuzione a base di calunnie, sfociata in una sentenza di piena riabilitazione per l’accusato che, però, non ne fruí, cedendo il governo di quella chiesa a Gelasio e facendo ritorno a Connor. In quel luogo piú tranquillo si circondò di canonici regolari coi quali collegialmente guidava la diocesi, mentre cresceva intorno alla sua figura la stima generale per le manifestazioni di umiltà che caratterizzavano la sua condotta. Al culmine di questo stato di grazia Malachia volle recarsi a Roma, dove ricevette la potestà di legato apostolico d’Irlanda. Tornato a casa, apprese che papa Eugenio III intendeva elevarlo a cardinale. Decise di andare di nuovo a Roma passando da Chiaravalle in modo da poter abbracciare il diletto san Bernardo. Mentre tutti i monaci lo festeggiavano, Malachia fu colpito da un malore e morí proprio a Chiaravalle. Era il 2 novembre 1149, nel giorno da lui profetato per la dipartita dal mondo.

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della Rerum Novarum, ha come motto «Lumen de coelo», «la luce nel cielo», che si adatta allo stemma scelto da papa Pecci: una stella cometa. Paolo VI, che aveva come emblema tre gigli, viene accostato alla locuzione «Flos florum», «il fiore dei fiori» che nell’accezione comune è considerato proprio il giglio.

Nato nel giorno dell’eclissi

Alcune libere traduzioni del presagio dedicato a Giovanni Paolo I, «De medietate lunae», fanno riferimento al «periodo medio della luna» che corrisponde a un mese, quanto durò il pontificato di Albino Luciani nel 1978. Complicato si dimostra il tentativo di conciliare la frase «De labore solis» («Dal travaglio del sole») con Giovanni Paolo II. Prendendo spunto da uno dei significati dell’espressione, vale a dire «eclissi», si possono stabilire connessioni con la data di nascita del papa polacco: nel giorno in cui Karol Wojtyla venne alla luce, il 18 maggio 1920, si verificò, infatti, un parziale oscuramento del sole, come del resto in concomitanza del suo funerale. Benedetto XVI è «De gloria olivae» («la gloria dell’ulivo») e dopo di lui arriverà Petrus Romanus. Quale destino si profilerebbe, allora, per l’umanità con l’avverarsi del(segue a p. 35)

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misteri la profezia di malachia

Uno per ogni papa ecco i motti della Profezia di Malachia riferiti ai pontefici del Medioevo testo papa possibile spiegazione Ex castro Tiberis Celestino II Nato a Città di Castello, sul Tevere (Guido di Città di Castello, 1143-1144) Inimicus expulsus Lucio II Di cognome Caccianemici (Lucio Caccianemici, 1144-1145) Ex magnitudine montis Eugenio III Nato a Montemagno (Bernardo Paganelli, 1145-1153) Abbas Suburranus Anastasio IV Abate della Suburra (Corrado della Suburra, 1153-1154) De rure albo Adriano IV Nato a Sant’Albano (Niccolò Breakspear, 1154-1159) Ex tetro carcere Vittore IV (antipapa) Cardinale di S. Nicola in carcere (Ottaviano de’ Monticello, 1159-1164) De via Transtiberina Pasquale III (antipapa) Cardinale di S. Maria in Trastevere (Guido da Crema, 1164-1168) De Pannonia Tusciae Callisto III (antipapa) Ungherese (Pannone), cardinale (Giovanni di Strumi, 1168-1178) di Tuscolo Ex ansere custode Alessandro III Un’oca presente nello stemma di famiglia (Rolando Bandinelli, 1159-1181) Lux in ostio Lucio III Cardinale di Ostia, di cognome (Ubaldo Allucignoli, 1181-1185) Allucignoli Sus in cribro Urbano III Di cognome Crivelli (Umberto Crivelli, 1185-1187) Ensis Laurentii Gregorio VIII Cardinale di S. Lorenzo in Lucina, (Alberto Mosca, 1187) aveva due spade nello stemma De Schola exiet Clemente III Di cognome Scolari (Paolo Scolari, 1187-1191) De rure bovensi Celestino III Di cognome Boboni (Giacinto Orsini dei Boboni, 1191-1198) Comes signatus Innocenzo III Apparteneva alla famiglia dei conti (Giovanni Lotario, 1198-1216) di Segni Canonicus de latere Onorio III Era canonico lateranense (Cencio Savelli, 1216-1227) Avis Ostiensis Gregorio IX Cardinale di Ostia, aveva un’aquila (Ugolino dei Conti di Segni, 1227-1241) nello stemma Leo Sabinus Celestino IV Vescovo di Sabina (Goffredo Castiglioni di Milano, 1241-1242) Comes Laurentius Innocenzo IV Cardinale di S. Lorenzo in Lucina (Sinibaldo dei Conti Fieschi, 1242-1254) Signum Ostiense Alessandro IV Cardinale di Ostia, apparteneva (Rinaldo dei Conti dei Segni, 1254-1261) alla famiglia dei conti di Segni Hierusalem Campaniae Urbano IV Patriarca di Gerusalemme, era (Giacomo Troyes Pantaleone, 1261-1264) originario della Champagne Draco depressus Clemente IV Nel suo stemma appare un drago (Guido le Gros di Saint-Gilles, 1265-1268) schiacciato, «depresso» Anguinus vir Gregorio X Lo stemma dei Visconti reca una vipera (Tobaldo dei Visconti di Piacenza che ingoia un rosso saraceno, tuttora 1271-1276) nello stemma del Comune di Milano

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Due illustrazioni tratte da due diverse edizioni dei Vaticinia de Pontificibus, una raccolta di profezie compilata in epoca medievale che potrebbe avere ispirato le profezie attribuite a Malachia.

Concionator Gallus Innocenzo V Ricevette la celebre «cattedra francese» (Pietro di Tarantasia, 1276) nel 1259, col grado di magister Bonus Comes Adriano V Discendente dei conti di Lavagna (Ottobono dei Conti Fieschi, 1276) (comes), svolse un’appassionata opera di pacificazione (bonus) a tutto campo Piscator Thuscus Giovanni XXI (Pietro di Giuliani, 1276-1277) Rosa composita Niccolò III (Gian Gaetano Corsini, 1277-1280) Ex teloneo liliacei Martino IV Veniva dalla tesoreria di S. Martino Martini (Simone di Brion, 1281-1285) in Francia Ex rosa leonina Onorio IV Lo stemma dei nobili Savelli riporta (Jacopo Savelli, 1285-1287) una rosa con due leoni Picus inter escas Niccolò IV (Gerolamo di Ascoli, 1288-1292) Ex eremo celsus Celestino V Era un eremita (Pietro Anglerio da Morrone, 1294) Ex undarum Bonifacio VIII Nel suo stemma sono presenti delle benedictione (Benedetto Caetani, 1294-1303) onde e il suo nome di battesimo era Benedetto Concionator patereus Benedetto XI Entrò nel convento dei frati predicatori (Nicolò Bacca-Sini, 1303-1304) De fessis aquitanicis Clemente V (Bertrando di Goth, 1305-1314) De sutore orseo Giovanni XXII (Giacomo Duèse, 1316-1334) Corvus schismaticus Niccolò V (antipapa) Nacque a Corvaro, frazione (Pietro Rinalducci, 1328-1330) di Borgorose (Rieti) Frigidus Abbas Benedetto XII Era abate di Frontfroide (Giacomo Furnier, 1334-1342) De rosa Attrebatensi Clemente VI Nel suo stemma sono raffigurate (Pietro Roger di Beaufort, 1342-1352) delle rose De montibus Innocenzo VI Pammachii (Stefano Aubert, 1352-1362)

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misteri la profezia di malachia testo papa possibile spiegazione Gallus Vicecomes Urbano V Nacque a Pont-de-Montvert località (Guglielmo Grimoard, 1362-1370) dell’antica Gallia Novus de virgine forti Gregorio XI (Ruggero di Beaufort, 1370-1378) De cruce Apostolica Clemente VII (antipapa) (Roberto dei Conti di Ginevra, 1378-1394) Luna Cosmedina Benedetto XIII (antipapa) (Pietro de Luna, 1394-1417) Schisma Barchinonium Clemente VIII (antipapa) (Gil Sànchez de Muñoz, 1423-1429) De inferno praegnanti Urbano VI Il suo cognome era Prignano (Bartolomeo Prignano, 1378-1389) Cubus de mixtione Bonifacio IX (Pietro Tomacelli, 1389-1404) De meliore sydere Innocenzo VII Il suo cognome era Migliorati e nel suo (Cosma Migliorati, 1404-1406) stemma era presente una stella Nauta de Ponte nigro Gregorio XII Nacque a Venezia, storica città (Angelo Correr, 1406-1415) marinara, e fu anche cardinale e capo della diocesi di Negroponte Flagellum solis Alessandro V (antipapa) Nello stemma sono molto evidenti (Pietro Filargis, 1409-1410) i raggi del Sole simili a fruste Cervus Sirenae Giovanni XXIII (antipapa) Proveniva da Ischia, di fronte a Capri, (Baldassarre Cossa, 1410-1415) detta «Isola delle sirene» Corona veli aurei Martino V Nello stemma di Martino V c’è una (Oddone Colonna, 1417-1431) corona d’oro sollevata da terra Lupa Coelestina Eugenio IV (Gabriele Condulmer, 1431-1447) Amator Crucis Felice V (antipapa) Lo stemma dei Savoia è una croce (Amedeo VIII Principe di Savoia, 1440-1449) De modicitate Lunae Niccolò V Nasce a Sarzana, situata vicino a dove (Tommaso Parentuccelli, 1447-1455) sorgeva la città romana di Luni Bos pascens Callisto III Nel suo stemma è raffigurato un bue (Alfonso de Borgia, 1455-1458) che pascola De Capra et Albergo Pio II Dopo aver studiato alle università (Enea Silvio di Siena e Firenze, si stabilí a Siena Piccolomini, come insegnante, ma nel 1431 1458-1464) accettò il posto di segretario di Domenico Capranica, vescovo di Fermo, allora sulla strada che lo Papa Pio II in uno conduceva al Concilio di Basilea per dei ritratti eseguiti protestare contro l’ingiustizia del dal Pinturicchio nella nuovo papa Eugenio IV, che gli rifiutava Libreria Piccolomini il cardinalato al quale era stato di Siena. designato da Martino V. Arrivato a Basilea dopo numerose avventure, successivamente serví il Capranica e diversi altri signori De Cervo et Leone Paolo II (Pietro Barbo, 1464-1471) Piscator minorita Sisto IV (Francesco della Rovere, 1471-1484) Praecursor Siciliae Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo, 1484-1492)

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leggende e curiosità

Il barcone delle pecore Anche in occasione di un conclave recente si diffusero notizie sul tentativo da parte di un porporato di servirsi a proprio vantaggio delle previsioni di Malachia. Nel 1958, dopo la morte di Pio XII, trapelò una fantasiosa indiscrezione sul cardinale statunitense Francis Joseph Spellman: si disse che, per guadagnare voti, avesse percorso in battello il fiume Tevere con alcune pecore a bordo. Il presagio del presunto testo medievale, infatti, prevedeva che il successore di papa Pacelli sarebbe stato un «pastore et nauta», cioè un «pastore e navigatore».

Il mistero del papa nero

la profezia? Nefasto come sembra da una prima lettura o solo l’impatto di una palingenesi? Accanto alla cupa prospettiva della scomparsa del papato e della fine del mondo si è fatta strada, tra gli esperti di profezie, l’ipotesi della nascita di un nuovo ordine mondiale che vedrà la presenza di una sola guida a capo di tutte le religioni monoteistiche. Si verificherebbe una sorta di globalizzazione delle fedi, dopo quella economica, destinata a essere accettata da tutte le comunità tranne che da una consistente parte di cattolici. I quali, confinati in un pericoloso isolamento, dovranno difendersi dagli attacchi di Satana e dei suoi rappresentanti in terra. Ma l’estinzione del papato e la fine dei tempi per la tradizione cristiana potrebbero implicare il felice compimento della teoria lineare della storia e, quindi, la salvezza per l’umanità. Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge: «Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il Giudizio Universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato». F

Da leggere U Armando Torno (a cura di), Le

Tra le tradizioni ispirate alla profezia di Malachia è tornata alla ribalta quella sul «papa nero», citato anche da Nostradamus. Nel romanzo La vigilia dell’Eternità (2001; ripubblicato nel 2005 con il titolo La profezia dell’ultimo papa), Schmiegl Maria Olaf immagina l’esistenza di un motto perduto tra i 112 di Malachia, con l’espressione «Caput nigrum», collocato prima o dopo il «De gloria olivae» di Benedetto XVI. Se posta prima, la formula verrebbe associata a papa Ratzinger, nel cui stemma campeggia anche una testa di moro, simbolo della diocesi di Frisinga e Monaco, guidata dal pontefice tedesco dal 1977 al 1982. L’elenco della predizione risulterebbe pertanto di 113 papi. E Petrus Romanus giungerebbe non alla fine dell’attuale pontificato, ma del prossimo. Olaf collega la suggestiva evenienza con il numero di medaglioni esposti nella basilica di S. Paolo fuori le Mura di Roma che raffigurano tutti i papi della storia: contando i pontefici, a partire dal periodo di Malachia, si arriverebbe a 113.

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Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura. Alcuni dei medaglioni raffiguranti i ritratti di tutti i pontefici. La serie, il cui originale ad affresco è conservato nel museo annesso alla chiesa, fu iniziata da Leone il Grande (440-461) e oggi conta 265 tondi a mosaico, compreso quello di Benedetto XVI.

profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo, La Vita felice, Milano 2010. U Jean-Luc Maxence, I segreti della profezia di San Malachia, Rusconi, Milano 1998. U Valentino Gambi, Ritratti dei papi. Nota sulla «profezia di San Malachia», Edizioni Paoline, Catania 1964. U Leone Cristiani, Maghi e indovini. Nostradamus, Malachia & C, Edizioni Paoline, Vicenza 1956. U Anna Maria Turi, Profezie di fine millennio. La profezia di Malachia. Nostradamus. Il Ragno Nero. La Monaca di Dresda. Fatima, Edizioni Mediterranee, Roma 1996. U Schmiegl Maria Olaf, La profezia dell’ultimo papa, Fazi, Roma 2001. U Alfred Tyrel, Le profezie di Malachia, MEB, Padova 1995. U Robert Ernst, La profezia dei papi di San Malachia. Giovanni Paolo II l’ultimo papa?, Segno, Udine 1997. U Silvano Fuso, Pinocchio e la scienza. Come difendersi da false credenze e bufale scientifiche, Dedalo, Bari 2006.

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personaggi vannoccio biringuccio

L’autodidatta che inventò la chimica

di Andrea Bernardoni

A Vannoccio Biringuccio, chimico, mineralogista e metallurgista senese, si deve un trattato di grande valore documentario, il De la pirotechnia. Un’opera che, in molte delle sue parti, rivela un’impostazione straordinariamente moderna

A sinistra frontespizio della terza edizione (1558) del De la pirotechnia di Vannoccio Biringuccio, pubblicato per la prima volta a Venezia, nel 1540. Il trattato, in 10 libri, descrive le tecniche di estrazione dei minerali, i loro metodi di analisi, i procedimenti di fusione e di getto.

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Venezia, nel 1540, per i tipi dell’editore Curtio Troiano dei Navò esce postuma la prima edizione del De la pirotechnia. Per la prima volta un autore di formazione tecnica, il senese Vannoccio Biringuccio (1480-1539?), riusciva a dare alle stampe un libro nel quale aveva compendiato le conoscenze maturate nel corso di una lunga carriera di ingegnere minerario, fonditore e capitano di artiglieria. Nel De la pirotechnia, inoltre, e questo, a posteriori, è forse il suo contributo piú importante alla storia della scienza, si delineano i contorni di una nuova disciplina tecnicoscientifica che rivendicava la propria febbraio

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autonomia in un ambito professionale, fino a quel momento studiato e praticato prevalentemente dagli alchimisti. Con le dovute cautele, la pubblicazione del De la pirotechnia può essere considerata come una sorta di atto fondativo della moderna scienza chimica – una disciplina che, tradizionalmente, si fa iniziare nel XVII secolo con le opere di Robert Boyle (1627-1691) –, che nel libro di Biringuccio trova un primo tentativo di classificazione per una serie di tecniche per la trasformazione della materia sviluppate all’interno di una teoria generale unitaria.

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A partire dalla seconda metà del XV secolo si assiste a un progressivo aumento di visibilità e influenza degli ingegneri. Erano professionisti di formazione tecnica che si misero in evidenza sia per la produzione di beni materiali, sia perché seppero creare un bagaglio di conoscenze comuni da cui nacque una tradizione letteraria che conservava, trasmetteva e promuoveva i saperi tecnici.

Menti eclettiche

Questi «artisti-ingegneri», cosí denominati per sottolineare i loro molteplici interessi e il loro coinvolgimento nei diversi settori delle

Un’illustrazione dell’opera di Vannoccio Biringuccio nella quale è raffigurato un laboratorio per la soffiatura del vetro.

tecniche (pittura, scultura, carpenteria metallica, fonderia, architettura, meccanica, idraulica), erano in grado di soddisfare le crescenti esigenze dei principi e delle magistrature cittadine, che investivano molto in progetti architettonici e di sfruttamento del territorio, oltre che nella tecnologia bellica; settore questo, specialmente per quanto riguarda la fusione delle artiglierie, che costituiva una delle specializzazioni piú richieste nel curriculum di un ingegnere.

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personaggi vannoccio biringuccio Ancora due illustrazioni dal De la pirotechnia: alcuni tipi di sospensione per campane (a sinistra) e una fornace provvista di mantice per migliorarne il tiraggio (nella pagina accanto). In basso medaglione con il ritratto di Vannoccio Biringuccio. Firenze, Museo della Specola.

La ribalta sociale stimolò gli ingegneri a impegnarsi in un arduo processo di riqualificazione culturale che, in alcuni casi, si trasformò in un tentativo di emulazione degli umanisti, esponenti principali della cultura rinascimentale. Nel giro di pochi decenni la figura professionale dell’ingegnere mutò radicalmente, trasformandosi da semplice operatore privo di cultura e concentrato nella risoluzione di problemi tecnici, in autore di testi manoscritti che prendevano come modello i trattati della tradizione tecnica antica quali il De architettura di Vitruvio (I secolo a.C.) e la Pneumatica di Erone di Alessandria (I secolo d.C.). Gli scritti degli artisti-ingegneri abbandonarono progressivamente la forma dello zibaldone e del ricettario, caratteristici del libro di bottega, per assumere quella del trattato organico nel quale si cercava di coniugare il linguaggio verbale con quello delle illustrazioni che costituivano il loro principale mezzo di espressione. Come capostipite di questa tradizione si prende solitamente Filippo Brunelleschi (1377-1446), il quale non ci ha lasciato opere scritte o disegni, e, passando per la scuola senese di Mariano di Iacopo detto il Taccola (1382-1458?) e Francesco di Giorgio (1439-1502) – due dei principali protagonisti quattrocenteschi della cultura tecnica italiana, autori entrambi di trattati manoscritti che grazie al lavoro degli scriptorium ottennero un’ampia circolazione europea –, la si fa terminare con

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Leonardo da Vinci (1452-1519). Quest’ultimo incarna la forma piú matura dell’artista-ingegnere rinascimentale, e, oltre alla produzione artistica, va ricordato per l’enorme lascito manoscritto, che conta circa 7000 fogli tra quaderni e disegni. Nonostante gli sforzi compiuti per acquisire visibilità, nessuno di questi autori riuscí a redigere un testo per la stampa. L’opera piú compiuta, dal punto di vista dell’organizzazione, fu certamente il Trattato di architettura di Francesco di Giorgio, per il quale, come suggeriscono alcune ricerche recenti, sembra che l’autore stesse lavorando alla realizzazione di tavole destinate a integrare il testo a stampa. Lo stesso Leonardo non riuscí a sviluppare un testo organico per nessuno dei trattati che aveva progettato di realizzare e l’unico di questi che verrà pubblicato, postumo, a oltre un secolo dalla morte dell’autore, è il Trattato di pittura (Parigi, 1651), che però è il frutto del lavoro di selezione e redazione dei testi vinciani eseguito dal suo discepolo Francesco Melzi.

Una vita avventurosa

Poche sono le informazioni biografiche su Vannoccio Biringuccio e pressoché assenti quelle sulla sua formazione. Si pensa che egli abbia seguito l’iter classico dei giovani destinati alla carriera professionale,

frequentando dapprima la scuola d’abbaco (denominazione attribuita a istituzioni riservate all’apprendimento della matematica, che avevano in prevalenza lo scopo di preparare all’esercizio delle attività mercantili, commerciali e artistiche, analoghe alle scuole professionali e tecniche moderne, n.d.r.), per poi iniziare il periodo di tirocinio in qualche bottega, necessario per imparare i principi e i «segreti» dell’arte che si intendeva praticare. Le molteplici analogie tra il De la pirotechnia e il Trattato di architettura di Francesco di Giorgio, inducono a pensare che Biringuccio possa essersi formato in stretto contatto con il celebre artista-ingegnere senese, che era amico del padre e che, in tarda età, si era dedicato allo studio dei trattati tecnico-scientifici antichi, impegnandosi anche nella traduzione dal latino del De architectura di Vitruvio. Un elemento importante nella formazione degli artisti-ingegneri è rappresentato anche dalle relazioni personali e professionali con qualche scienziato o umanista che avrebbe fatto da tramite per consentire loro di accedere ai testi antichi e medievali, i quali, essendo scritti in latino o greco, risultavano difficilmente comprensibili agli autori di formazione tecnica. A tale proposito molto note sono le relazioni culturali tra Brunelleschi e Paolo dal Pozzo Toscanelli (13971482) cosí come quelle di Leonardo con Luca Pacioli (1445-1514) e Giorgio Valla (1457-1499). Per quanto riguarda Biringuccio, sappiamo che egli frequentò gli amfebbraio

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bienti dell’élite sociale e politica senese e che ebbe contatti e relazioni culturali con personaggi di cultura come Benedetto Varchi (1503-1565), il quale mostra di conoscere molto bene il De la pirotechnia, e Claudio Tolomei (1492-1556), fondatore e attivo partecipatore dell’Accademia della Virtú a Roma, nella quale, ingegneri, architetti e umanisti, lavoravano insieme per interpretare il trattato di Vitruvio, giunto in epoca rinascimentale privo delle illustrazioni originali.

Il lavoro in miniera

Sappiamo che Biringuccio svolse attività di tirocinio presso le miniere di ferro di Boccheggiano, in Maremma, e che, dopo un’esperienza come responsabile degli scavi nelle miniere argentifere nel monte Avanzo, in Carnia, vi tornò come direttore, introducendovi innovazioni importanti per la lavorazione del minerale di ferro e per la produzione dell’acciaio. L’attività mineraria in Carnia fu interrotta bruscamente dalle operazioni militari conseguenti alla guerra tra Venezia e la Lega di Cambrai (1508-9), quando il Friuli fu invaso dalle truppe dell’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo. La fuga dalla Carnia portò Vannoccio a visitare numerosi siti mi-

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nerari del Bresciano e dell’area tirolese nei quali completò la sua formazione di ingegnere minerario, assimilando conoscenze e informazioni che, in seguito, inserí nella sua opera scritta e che tentò di applicare anche nelle miniere di Boccheggiano. Qui fece costruire un potente impianto di pompaggio dell’aria con otto mantici, azionato da una ruota idraulica, capace di alimentare contemporaneamente quattro fucine per la conversione del ferro in acciaio. Vannoccio fu inoltre fonditore di cannoni, responsabile della zecca senese, produttore di salnitro e operaio della Camera del Comune di Siena, un’importante carica che aveva ereditato dal padre. La sua attività professionale fu legata per molto tempo alla famiglia Petrucci, in particolare Pandolfo (1452-1512), che era a capo della fazione dei Noveschi (Monte dei Nove), con la quale condivise le tumultuose vicende politico-militari che riguardarono Siena nei primi tre decenni del Cinquecento, quando, per ben tre volte, Biringuccio venne bandito dalla città e gli furono confiscati tutti i beni. Durante le sommosse del 1526, conseguenti a un tentativo dei Noveschi di riprendersi la città, Biringuccio partecipò a un’azione militare nella quale prese a canno-

nate Porta Camollia, prima di essere messo in fuga e di rifugiarsi a Roma. Nel 1529 fu al servizio della Repubblica fiorentina come procuratore delle artiglierie durante l’assedio dell’esercito imperiale che voleva ripristinare il principato mediceo. In questa occasione gettò numerosi cannoni di vario calibro, tra i quali la famosa doppia colubrina denominata «liofante», perché decorata nella culatta con la protome di questo animale, che fu posizionata sopra un cavaliere edificato nell’orto dei Pitti da Michelangelo Buonarroti (1475-1564).

Capomastro a Siena

Una volta calmatasi la situazione politica senese, Biringuccio rientrò in patria dove assunse incarichi nella magistratura cittadina e, nel 1535, successe a Baldassarre Peruzzi come architetto e capomastro dell’Opera del Duomo. La sua fama di fonditore e artigliere, maturata anche frequentando arsenali famosi, come quelli di Venezia e Ferrara, lo portò al conferimento da parte di papa Paolo III del duplice incarico di fonditore e capitano di artiglieria dell’esercito pontificio, attività che svolse dal 1534 fino alla morte. Forte dell’esperienza maturata durante la sua carriera professio-

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personaggi vannoccio biringuccio Il problema dell’alchimia

Ma il legno non può trasformarsi in... ferro! Alcune delle osservazioni piú acute di Biringuccio sono portate nel contesto della Quaestio de alchimia, il dibattito di origine medievale sulla verità e la falsità dell’alchimia che, nel XVI secolo, era tornato alla ribalta, alimentato anche dalla pubblicazione dei testi a stampa. La tradizione alchemica presentava il problema della trasmutazione di specie come un processo tecnologico finalizzato al perfezionamento dei metalli inferiori (piombo, stagno, ferro, rame, argento), cosí considerati per la loro tendenza a ossidarsi e corrompersi superficialmente, fino alla loro trasformazione in oro, il quale, per le proprietà chimico-fisiche,

estetiche e simboliche attribuitegli era considerato la sostanza con il massimo grado di perfezione presente in natura. Per Biringuccio il problema della trasmutazione, a prescindere dalla spiegazione teorica della composizione delle sostanze, era essenzialmente un problema tecnico ed è su questo piano che, secondo lui, i tentativi degli alchimisti erano destinati al fallimento. Secondo la concezione medievale dell’arte, le tecniche inventate dall’uomo operavano per mezzo di strumenti diversi da quelli della natura. L’azione di questa sfuggiva infatti al dominio dei sensi e quindi, le specie naturali

nale e militare, e incentivato anche dalla definitiva affermazione della letteratura sulle arti, che, nella prima metà del XVI secolo, si era aperta uno spazio importante nel mercato editoriale, Biringuccio maturò l’idea di scrivere un trattato sulle arti del fuoco. Fino a quel momento questo settore delle tecniche, oltre che per l’interessamento degli alchimisti, era stato sviluppato prevalentemente nei distretti minerari tedeschi in cui era presente una tradizione che aveva già portato alla produzione delle prime opere a stampa, come nel caso del breve compendio geologico-alchemico attribuito al medico Ulrich Rulen von Kalbe, Bergbüchlein (Libretto della montagna) scritto tra il 1505 e il 1510, e del manuale di metallurgia anonimo Probierbüchlein (Libretto della saggiatura) del 1520. A partire dagli anni Trenta del Cinquecento, sempre nell’area tedesca, si affermò il genere letterario dedicato ai Kunstbüchlein (libri d’arte). L’interesse e il successo di queste opere, tra le quali fu pubblicato anche il primo trattato interamente dedicato alla siderurgia, Von Sthael und

eysen (Sul ferro e sull’acciaio), suscitò la curiosità anche di umanisti e scienziati. Tra tutti ricordiamo Giorgio Agricola (1494-1555) che realizzò opere importanti, come il De re metallica (Basilea, 1556), per la rivalutazione intellettuale e sociale delle arti dei metalli, nel quale fece ampio uso della letteratura metallurgica anteriore e contemporanea, compreso il De la pirotechnia di Biringuccio.

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Teoria e pratica

I contenuti del De la pirotechnia presentano molteplici analogie con i trattati della tradizione tedesca. Tuttavia, se ne discostano per l’ampiezza e l’articolazione dei temi trattati e, in primo luogo, per il tentativo di coniugare l’esperienza pratica con le spiegazioni teoriche, elemento che mette in luce come Biringuccio non volesse limitarsi alla compilazione di un compendio sulle arti, ma intendesse proporsi come protagonista anche nel dibattito scientifico sui minerali, i metalli e sulla natura e trasformazione delle sostanze. La stesura del De la pirotechnia risente fortemente dei limiti della

non potevano essere riprodotte artificialmente: la tecnologia poteva trasformare un pezzo di legno in un tavolo, ma non in un pezzo di ferro. Per questo motivo la trasmutazione dei metalli in oro, anche se teoricamente plausibile, non poteva essere realizzata. Tuttavia, Biringuccio condivideva lo spirito che animava la ricerca degli alchimisti, i quali, allo scopo di pervenire a una conoscenza piú profonda della natura, erano sempre protesi ad andare oltre i confini della tecnologia e della scienza. È per questo motivo che, dopo aver criticato duramente l’alchimia, Biringuccio torna sull’argomento precisando formazione autodidatta del suo autore, il quale, come tutti gli ingegneri rinascimentali non era abituato a scrivere. Il libro ha una struttura organizzata in dieci libri, i primi due dei quali sono dedicati ad argomenti di tipo naturalistico – i minerali e la geologia delle miniere –, compilati sul modello dei trattati antichi e medievali come la Naturalis Historia di Plinio (23/24-79) e il De mineralibus di Alberto Magno (1205?-1280), mentre i rimanenti otto libri sono dedicati ad argomenti tecnici relativi alle arti del fuoco. La parte naturalistica è strutturata sul modello dei lapidari medievali. Biringuccio prende come riferimento la classificazione di Alberto Magno che suddivideva il regno minerale in pietre, minerali e mezzi minerali. Le principali curiosità della sua classificazione riflettono l’incertezza delle conoscenze minerali e metallurgiche dell’epoca. Un esempio significativo è costituito dalle leghe metalliche dell’ottone e dell’acciaio riportate insieme ai metalli, pur riconoscendone il carattere di prodotti artificiali, mentre tra i mezzi minerali, febbraio

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che: se condotta sotto la guida della razionalità e dell’esperienza anche la sperimentazione alchemica può essere eseguita con profitto; perseguendo, infatti, il fine utopico della trasmutazione di specie, si facevano tante scoperte utili al benessere dell’uomo come, per esempio, le leghe metalliche e il vetro, che giustificavano l’impegno nelle ricerche alchemiche. Questo è il messaggio forte che emerge dal De la pirotechnia: le conoscenze acquisite attraverso l’osservazione e l’esperienza diretta nella manipolazione delle sostanze costituiscono bagaglio di nozioni a partire dalle quali far progredire la nostra conoscenza della natura e il grado di benessere dell’umanità.

Seduto al suo tavolo da lavoro, sul quale si vedono una bilancia e alcune coppe, un alchimista prepara un composto, dal The Ordinal of Alchemy. 1477 circa. Londra, The British Library.

categoria già di per sé fantasiosa, vengono classificate quelle sostanze la cui natura è incerta. Esemplari, a tale proposito, sono i casi del vetro, che è un prodotto artificiale con proprietà affini a quelle dei metalli (fusibilità e plasticità), e quello del mercurio, la cui liquidità non consentiva di classificarlo tra i metalli ma di considerarlo uno stato fisico intermedio anteriore a quello metallico. Secondo la teoria aristotelica, infatti, i metalli nascevano da un vapore mineralizzante che, in determinate condizioni geologiche,

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dava luogo al loro processo di formazione, di cui il mercurio costituiva una delle ultime fasi prima di acquisire la solidità propria del metallo. Per ogni sostanza presa in esame Biringuccio fornisce anche una serie di osservazioni personali ed è su questo piano che il De la pirotechnia offre i maggiori spunti di originalità. Basandosi sull’evidenza empirica Biringuccio è meno condizionato dal sapere libresco e si sente legittimato a sottolineare le incongruenze delle teorie della tradizione filosofica e alchemica. Molto interessante

è il suo rifiuto della teoria aristotelica per la spiegazione della presenza del sale nelle acque marine, che vedeva come troppo artificiosa e non conforme a quanto si poteva osservare in natura.

Perché il mare è salato?

Per Aristotele e i suoi commentatori medievali, questo fenomeno era dovuto all’azione essiccatrice del sole, che agiva sulla superficie terrestre polverizzandola e quindi, grazie all’azione dei venti, le particelle di natura terrestre venivano traspor-

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personaggi vannoccio biringuccio tate nel mare aumentando la concentrazione salina nell’acqua. Sulla base di alcune osservazioni empiriche Biringuccio rifiuta questa posizione, ipotizzando che la presenza del sale nel mare trovi la sua causa nello scioglimento di sostanze minerali presenti sui fondali marini. Sul piano della teoria generale della materia, le sue osservazioni sul comportamento delle sostanze sottoposte alle tecniche di separazione come la distillazione (procedimento che separa le sostanze in base alla loro temperatura di evaporazione), lo portano a prendere in considerazione la possibilità di una dimensione atomica della materia anteriore a quella dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), che, nella concezione della materia aristotelica, erano i costituenti primi dalla cui composizione si generavano tutte le sostanze presenti in

natura. Interessante, alla luce delle successive acquisizioni della scienza, è anche l’osservazione della «regolarità geometrica dei grani della pirite» che anticipa, almeno a livello intuitivo, il non mutatis angulis di Stenone (1638-1686), e costituisce la prima descrizione della forma cristallina dei minerali.

Le arti del fuoco

Otto dei dieci libri che costituiscono il De la pirotechnia sono dedicati alle arti del fuoco. In essi si dà particolare rilievo alle tecniche per la fusione, in particolare le campane e le artiglierie, e alla produzione della polvere da sparo. Cannoni ed esplosivi erano molto richiesti e sono dunque alla base del successo del libro di Biringuccio. Particolare attenzione viene dedicata alla metallurgia del ferro, alla produzione del bronzo e alle tecniche di affina-

zione dell’oro. Tra le tecniche fusorie presentate viene descritta per la prima volta la tecnica di fusione a cera persa indiretta, fino a quel momento ricordata soltanto nei manoscritti di Leonardo da Vinci. Molto importante è anche il capitolo dedicato agli impianti per

per cannoni e colubrine

Ricostruzione in 3D di una alesatrice orizzontale per artiglierie, del tipo di quella descritta da Vannoccio Biringuccio nel De la pirotechnia e raffigurata in una delle tavole dell’opera (immagine in basso). L’alesatura era la fase finale del processo di produzione di un pezzo d’artiglieria, e se ne hanno testimonianze già dalla fine del XV sec. Essa consisteva nella lavorazione di precisione della superficie interna dei fori e si effettuava con macchine di cui sono attestati modelli sia verticali che orizzontali. La produzione di armi come cannoni o colubrine era il fronte piú evoluto della tecnologia rinascimentale.

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questioni di soffio

A destra illustrazione dal De la pirotechnia di una soffieria azionata da un dispositivo leva-bilanciere. In basso ricostruzione in 3D di una soffieria azionata da una ruota idraulica, che permetteva l’apprestamento di postazioni di lavoro multiple.

il pompaggio dell’aria nei forni e nelle fucine. Per quanto si trattasse di tecnologie consolidate a livello europeo, Biringuccio è il primo a offrire una trattazione sistematica delle soffierie metallurgiche, presentando cinque modelli ad azionamento manuale – quattro a leva e uno con una ruota calcatoria – e due azionate per mezzo di ruote idrauliche; questi ultimi erano integrabili sul medesimo motore per dar luogo a impianti con postazioni di lavoro multiple. Tra le macchine operatrici presentate da Biringuccio troviamo anche tre modelli di alesatrice orizzontale per artiglierie, una manuale e due con motore calcatorio, che co-

stituiscono la prima testimonianza iconografica di questo tipo di lavorazione. Interessante è anche la trattazione delle tecniche di separazione e affinamento dei metalli come la coppellazione, la distillazione, la cementazione, i lavaggi dei metalli con gli acidi (acqua regia e acqua acuta) e l’amalgamazione con il mercurio. I libri conclusivi sono dedicati alle arti per la produzione

dei mattoni, alla lavorazione della ceramica e a quella dei fuochi d’artificio. Quest’ultima è l’unica arte, tra quelle presentate da Biringuccio, che ancora oggi ha conservato il nome di «pirotecnica». F

Da leggere Per chi desideri approfondire l’argomento trattato nell’articolo segnaliamo il volume che l’autore gli ha dedicato: Andrea Bernardoni

La conoscenza del fare. Ingegneria, arte, scienza nel De la pirotechnia di Vannoccio Biringuccio «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 171 pp., ill. b/n

180,00 euro ISBN 978-88-8265-636-2 www.lerma.it

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costume e società gli speziali

Miniatura raffigurante l’interno di una farmacia, da un’edizione del Canone redatto dal filosofo, medico e letterato persiano Avicenna. 1438. Bologna, Biblioteca Universitaria. La preparazione di medicamenti era, in realtà, solo una delle molte attività abitualmente svolte dagli speziali.

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A metà strada fra il medico e il mercante, lo «speziale» fu davvero l’antenato medievale del nostro «farmacista»? Vediamo come, a partire dalle disposizioni emanate da Federico II, questa potente categoria esercitava il proprio ruolo a Milano, Firenze, Roma...

Nelle

botteghe di Maria Paola Zanoboni

della

salute L’ L

attività di uno speziale costituiva un vero e proprio universo, molto piú articolato e complesso di qualsiasi altra attività artigianale o commerciale del Medioevo. Imprenditore, artigiano e mercante contemporaneamente, lo speziale praticava la compravendita di svariati prodotti e materie prime, affiancando alla cultura e all’esperienza tecnica nella pratica farmaceutica, la conoscenza delle altrettanto complesse pratiche mercantili. La sua figura faceva da tramite tra la scienza popolare, basata su nozioni pratiche – ma infarcita anche di credenze e superstizioni –, e i saperi della scienza medica. Sul piano del prestigio sociale, la professione dello speziale può essere considerata intermedia tra occupazioni intellettuali, quali quelle del medico o del notaio, e attività legate al commercio e all’artigianato. Pur non richiedendo, infatti, un elitario corso di studi universitari, ma soltanto alcuni anni di apprendistato in bottega, l’esercizio dell’attività implicava un vasto patrimonio di conoscenze e una professionalità che godeva ovunque di un notevole riconoscimento, sia sociale che

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costume e societĂ gli speziali giuridico. Dal punto di vista deontologico gli speziali erano equiparati ai medici: a Firenze, in particolare, facevano parte della medesima corporazione che rappresentava anche una delle Arti Maggiori della cittĂ .

Per diventare speziale

I precedenti storici in materia di legislazione farmaceutica trovano una matrice comune nell’Ordinanza medicinale emanata da Federico II intorno al 1240. Il provvedimento federiciano non fu comunque il primo

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Federico II fu il primo a legiferare in materia di farmaci, probabilmente rifacendosi a norme emanate nella città francese di Arles tra il 1162 e il 1202

testo legislativo in proposito: probabilmente, infatti, l’imperatore si rifece agli statuti di Arles, compilati fra il 1162 e il 1202. Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda metà del XIII secolo gli statuti degli speziali di tutte le città della Penisola prescrivevano l’obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiavano spezie e confezionavano medicinali, proibendo al tempo stesso a chiunque di tenere in casa materie prime atte a realizzare medicamenti, con l’eccezione dei mercanti che importavano e rivendevano all’ingrosso le singole materie prime. Della corporazione degli speziali potevano far parte, in modo diverso a seconda della città, anche artefici minori, come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. A Firenze, invece, i farmacisti costituivano il membro minore della potente corporazione dei medici e degli speziali. L’iscrizione all’albo professionale comportava sempre alcuni anni di tirocinio, variabili a seconda della città, l’approvazione dei maestri dell’Arte – che a volte diventava un vero e proprio esame –, il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente, il pagamento della tassa alla corporazione. Ottenuta l’idoneità a esercitare, il nuovo farmacista veniva dotato di un marchio con cui doveva sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega, in modo che ne fosse facilmente rintracciabile la provenienza e accertabile la responsabilità in caso di problemi.

I molti risvolti di una professione

Quella dello speziale era un’attività alquanto articolata, comprendente un’ampia gamma di operatori commerciali, che andava dai rivenditori piú modesti ai grandi mercanti importatori di materie prime ed erogatori di prestiti (vedi box alle pp. 48-51). A Firenze nel Tre/Quattrocento gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita superiore a quello della maggior parte della popolazione, anche se lontano da quello dell’élite mercantile e bancaria che dominava l’economia della città. La situazione poteva naturalmente variare a seconda della congiuntura e del luogo: sempre a Firenze, negli anni Ottanta del Quattrocento, l’attività subí una crisi tanto grave che alcuni speziali, progrediti alla condizione di soci da quella di lavoratori sottoposti, rimpiangevano amaramente il proprio status precedente. La situazione era dunque tale che un salario sicuro, anche se modesto, era preferibile a una quota di utili incerti, col rischio di un bilancio passivo. A Roma, invece, negli stessi anni, numerosi speziali collegati alla curia pontificia erano anche banchieri, prestatori, commercianti all’ingrosso di preziose mate(segue a p. 52)

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un medico che, in un erbario, seleziona piante utili alla preparazione di farmaci, da una edizione del Roman de la Rose. 1400 circa. Gli erbolai erano fornitori abituali degli speziali, che, spesso, si dotavano di un proprio appezzamento di terra per la coltivazione delle specie utili alle loro preparazioni. In basso illustrazione raffigurante una pianta di cannella, da una traduzione in arabo del De materia medica, trattato scritto dal medico e naturalista greco Pedanio Dioscoride, attivo nel I sec. XI sec. Leida, Biblioteca Universitaria.

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costume e società gli speziali

Raccogliere, preparare, guadagnare La produzione e il business dei farmaci L’esercizio della pratica farmaceutica richiedeva un cospicuo bagaglio di conoscenze tecniche, dal momento che spesso lo speziale coltivava e raccoglieva in prima persona gli ingredienti necessari alla composizione dei medicamenti, intervenendo poi nelle molteplici operazioni di lavorazione. Nella raccolta delle erbe i farmacisti avevano come validi collaboratori gli erbolai, che cercavano i vegetali particolarmente ricchi di principi attivi oppure li coltivavano in appositi orti, e i serpari, che cercavano le vipere e le vendevano agli speziali, i quali ne utilizzavano la parte centrale per preparare ricostituenti e impiastri. Gli speziali particolarmente benestanti (è il caso, per esempio, di un farmacista romano della seconda metà del Quattrocento) coltivavano nei propri poderi le erbe medicamentose,

e talvolta si dedicavano anche all’apicoltura, cosí da poter disporre sia del miele, ingrediente importante di molte medicine, sia della cera, utilizzata dai farmacisti per i «cerotti» (vedi box a p. 59), e anche per fabbricare candele e fiaccole, della cui produzione detenevano il monopolio. Per gli speziali romani, naturalmente, la lavorazione della cera era un vero e proprio business, piú che in altre città, dato il gran numero di cerimonie solenni, feste religiose e banchetti che richiedevano un’imponente illuminazione. Accanto alla produzione diretta da parte di alcuni farmacisti, altre volte, in occasione di cerimonie particolari, era la spezieria pontificia a fare incetta di cera e a distribuirla poi agli speziali perché la lavorassero.

Sempre a Roma, nel XV secolo, le farmacie piú attrezzate e specializzate rifornivano dei propri prodotti le botteghe piú piccole, pratica invece espressamente vietata dagli statuti degli speziali di altre città (Siena, per esempio), preoccupati di poter identificare facilmente chi aveva confezionato un determinato prodotto, e di evitare quindi che i medicamenti passassero di mano in mano, perdendo le tracce del produttore e col rischio che si adulterassero. Solo nelle botteghe piú importanti, situate nei rioni cittadini piú ricchi, si effettuavano la lavorazione e la vendita delle spezie, prodotti di grande valore, importate dall’Oriente dai grandi A sinistra due albarelli (vasi da farmacia o per spezie) di manifattura senese. 1500-1550. Siena, S. Maria della Scala.

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mercanti, e che solo i farmacisti piú affermati e abbienti erano in grado di acquistare. La maggior parte delle spezierie, invece, si dedicava a un commercio di minore entità, trattando generi di tipologia svariata. Soprattutto tra la fine del Quattrocento e il secolo successivo queste botteghe potevano trasformarsi in laboratori di pasticceria per la preparazione di confetti, panpepati, mostarde e marzapani, in occasione di nozze, battesimi, o banchetti: a Siena la revisione statutaria del 1509 consentiva appunto agli speziali di lavorare nei giorni festivi per «servire a baptesimi, noze o collationi». E ugualmente a Roma le svariate occasioni offerte dai banchetti ufficiali del papa, procuravano continuamente ai maggiori farmacisti cittadini commissioni di questo tipo, per

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Miniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio uno dei suoi preparati e un erbolaio che raccoglie piante officinali, da un’edizione de L’antidotaire di Bernard de Gordone. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale.

ottemperare alle quali erano dotati di un’attrezzatura specifica, costituita da stampi per confetti di varia tipologia, marmo per pinolata, forme di piombo per cotognata, oltre all’attrezzatura per lavorare la cera e confezionare torce di varie forme e dimensioni. Per quanto riguarda il funzionamento della bottega, lo speziale poteva avere capitali propri, derivanti magari dalla gestione di proprietà terriere, oppure farsi finanziare da un socio che svolgeva la stessa o un’altra attività. Aveva alle dipendenze alcuni aiutanti (apprendisti o salariati), il cui numero variava a seconda delle dimensioni dell’esercizio commerciale, e si preoccupava in prima persona

di aggiornarsi, assumendo maestri, spesso stranieri, affinché gli insegnassero le novità farmaceutiche piú esotiche. È il caso di uno speziale romano che, nel 1480, prese alle proprie dipendenze un maestro spagnolo (di Valencia), perché gli tenesse un corso di perfezionamento insegnandogli le tecniche produttive della «polvere di Cipro» e di altri prodotti di bellezza. Quest’ultimo era un settore in espansione, soprattutto nella Roma del XIV-XV secolo, al punto che l’autorità pontificia dovette emanare disposizioni per porre un freno all’uso sempre piú dilagante di tali prodotti presso l’alto clero.

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costume e società gli speziali Il commercio e l’attività creditizia Gli speziali piú importanti si occupavano anche del commercio all’ingrosso di materie prime molto pregiate e costose, che andavano dalle spezie vere e proprie (pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano, zafferano, anice, zucchero, rabarbaro, legno di sandalo, aloe, ambra, incenso), e dagli altri ingredienti per le medicine (ammoniaca, arsenico), ai coloranti (robbia, gomma arabica, «sangue di drago» [prodotto resinoso che si ottiene dai frutti del Calamus draco e di altre specie congeneri, palme rampicanti che crescono nelle foreste delle isole della Sonda, delle Molucche e della penisola di Malacca, n.d.r.]) e ai loro fissativi (allume), alle pietre e ai metalli preziosi. Nel 1456, quando venne allestita la flotta per la crociata contro i Turchi che avevano conquistato Costantinopoli, alcuni speziali romani rifornirono l’Arsenale di spugna, pece, sapone e zolfo. Ugualmente, nel 1460, furono ancora due aromatari a fornire la foglia d’oro e i colori necessari ad affrescare il Palazzo Apostolico. Negli anni Sessanta/Settanta del Quattrocento uno speziale aretino trapiantato a Venezia esportava nel Levante vetrerie di Murano prodotte nella celebre manifattura dei Barovier (canne colorate, specchietti, calici dorati, smalti, cristalli), stoffe lombarde e venete, metalli e oggetti di basso costo provenienti d’Oltralpe (aghi, ditali, fibbie). In direzione opposta importava dalla Siria spezie, pietre preziose, articoli esotici e cotone per vendere queste merci al dettaglio o riesportarle in Catalogna. Vendeva partite di cotone ai mercanti tedeschi dai quali acquistava occhiali in legno o in osso che esportava a Damasco. Molti farmacisti già nel Trecento e ancor piú nel Quattrocento, svolgevano anche l’attività creditizia, sia in modo «informale», con prestiti dissimulati dietro l’apparente acquisto di un immobile, sia in modo palese, come attività collaterale, tenendo banchi di prestito e arrivando ad accedere alle massime cariche della corporazione dei «campsores», come avvenne a Roma per uno speziale-banchiere della metà del Quattrocento. Concedevano poi piccole sovvenzioni per le necessità quotidiane e anticipavano le medicine ai clienti ritenuti solvibili, anche se la cosa non era poi cosí scontata, soprattutto nel caso della nobiltà e delle corti principesche. Le spese per il medico e le medicine, del resto, gravavano in modo pesantissimo soprattutto sui ceti medio-bassi, come viene spesso ricordato nei testamenti e l’aiuto di un parente stretto si rivelava in questi casi indispensabile a onorare il debito con il farmacista. Proprio per l’elevato costo delle cure, i contratti di apprendistato prevedevano quasi sempre che le spese per il medico e le medicine fossero a carico del padre del discepolo, anziché del maestro, che si limitava a farsi carico di vitto e alloggio. Castello di Issogne (Valle d’Aosta). Particolare di un affresco raffigurante un farmacista nella sua bottega. L’opera viene tradizionalmente attribuita a un artista noto come Colin (e che talvolta si firma Magister Collinus), al quale si devono anche le altre pitture murali che ornano l’edificio. Fine del XV-inizi del XVI sec.

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Problemi di riscossione La difficoltà di ottenere il denaro loro dovuto per le medicine rappresentava per i farmacisti un problema endemico, ma a Roma, in particolare, era una piaga dilagante e un malcostume diffuso non tanto tra i meno abbienti, che avevano oggettive difficoltà a pagare, quanto piuttosto tra i nobili e l’alto clero. Gli statuti degli speziali romani emanati alla fine del Quattrocento (1473 e 1487), a differenza e molto piú di quelli di altre città, erano rivolti infatti a tutelare gli aderenti alla corporazione nelle controversie che potevano sorgere con i clienti. Quelli del 1473, in particolare, cercavano di tutelare gli interessi dei farmacisti nei confronti dei debitori fuggiti o in procinto di fuggire, e decretavano inoltre che nel caso in cui un convento, un nobile, o chiunque altro avesse contratto un debito con uno speziale rifiutandosi poi di onorarlo, i maggiorenti della corporazione avrebbero imposto a tutti i farmacisti della città di non vendere altri medicinali al debitore insolvente finché non avesse pagato il dovuto. Se poi il cliente moroso fosse passato a miglior vita senza onorare il debito, nessuno degli speziali romani avrebbe dovuto fornire ai parenti le candele e la cera per le esequie del defunto.

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costume e società gli speziali rie prime. Nel XIV e nel XV secolo investivano i profitti sia in terre, sia in una svariata gamma di attività collaterali: l’acquisto di taverne, botteghe, macelli; la creazione di società per il commercio dei pellami e la lavorazione del cuoio; la stipulazione di contratti di soccida (contratto agrario secondo cui le due parti, soccidante e soccidario, si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, cosí da ripartire l’accrescimento degli animali e gli altri prodotti utili che ne derivano, n.d.r.); la gestione di mulini idraulici; l’attività estrattiva, esercitata mediante l’acquisto di quote di miniere

Gli ambiti di competenza

La pratica farmaceutica non era dunque la sola attività degli speziali e la maggior parte degli statuti corporativi cittadini, dal Trecento in poi, si preoccupava perciò di definire dettagliatamente quali fossero i loro ambiti di competenza e i prodotti sui quali essi avevano l’esclusiva di vendita, e quali invece le merci che potevano essere trattate anche da altri commercianti (definiti «pizzicagnoli» in Toscana, e «droghieri» in Lombardia). La corporazione degli speziali di Milano, i cui primi statuti risalgono al 1389, comprendeva, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la

cera e i droghieri (che trattavano, tra l’altro, frutta secca, canditi e confetti). Agli speziali spettavano la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano, noce moscata. Particolarmente dettagliati in proposito sono i trecenteschi statuti della corporazione senese (1356) con le successive revisioni quattrocentesche, che, dopo avere proclamato l’importanza della professione per la salute umana e la necessità quindi di svolgerla col massimo rigore e precisione – che solo il costante controllo dell’organismo corporativo poteva garantire –, stabilivano in primo luogo l’obbligo tassativo di iscrizione all’Arte (accompagnato da un giuramento solenne) per chi confezionasse e maneggiasse medicinali. Erano altresí previste severe sanzioni per quei farmacisti o garzoni che, abbandonata la corporazione e non piú in possesso di una bottega propria o di riferimento, andavano a confezionare medicinali nelle case e nelle botteghe altrui, con grave pregiudizio per la qualità del prodotto, e rendendo evidentemente impossibile rintracciarne il responsabile. Dopo avere ribadito a piú riprese la necessità di una divisione delle competenze con i pizzicagnoli, sia

Gli speziali non vendevano solo medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche cera, confetti, datteri, cannella, liquirizia... A sinistra e nella pagina accanto due illustrazioni tratte dal Tacuinum sanitatis, che rispettivamente raffigurano la vendita dello zucchero (qui accanto) e l’interno di una farmacia gestita da uno speziale ebreo (a destra). Con la denominazione di Tacuinum sanitatis si indica la traduzione in latino di un manuale redatto a Baghdad per iniziativa del medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. e intitolato Taqwim al Sihha (Almanacco della salute).

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farmacie di turno

Un servizio capillare e ininterrotto Una regolamentazione particolarmente precisa e puntuale caratterizzava gli statuti delle città toscane, sensibili molto piú delle altre alle esigenze degli ammalati. Il piú completo in proposito è il trecentesco Breve degli speziali di Siena (1356) con le successive modifiche quattrocentesche e dell’inizio del Cinquecento, in cui, pur nel rispetto della chiusura nei giorni festivi, erano previste deroghe volte a garantire ugualmente la fornitura delle medicine agli ammalati, fino all’istituzione, nel 1452, di 3 farmacie di turno, una per ogni terziere (la ripartizione territoriale in cui era suddivisa Siena) della città, estratte a sorte di volta in volta. La legislazione senese non si fermò qui, divenendo sempre piú articolata nella seconda metà del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, non tanto per volontà della corporazione degli speziali, ma soprattutto per imposizione dei consoli dei mercanti e delle autorità che detenevano il governo cittadino. Si stabilí dunque che, dato che le farmacie di turno spesso non avevano i medicamenti adatti a curare una determinata affezione, era lecito a qualunque speziale, su presentazione di ricetta medica (e in seguito anche semplicemente su richiesta di chiunque ne avesse bisogno), aprire e fornire le medicine ai casi urgenti. Una serie di norme tutelava anche gli stranieri di passaggio che non conoscevano la città e l’ubicazione delle botteghe, e ai quali fu dunque consentito, in caso di necessità, di rifornirsi da chiunque anche nei giorni di

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festa. Naturalmente queste aperture straordinarie dovevano avvenire soltanto per la vendita di medicinali, facendo entrare soltanto il cliente che ne aveva bisogno, e richiudendo subito la porta. A Firenze, gli statuti del 1349, che prevedevano la chiusura delle botteghe nei giorni festivi, concedendo però di fornire medicinali agli ammalati gravi, vennero aggiornati nel 1481 con l’istituzione di quattro farmacie di turno. Lo stesso avveniva a Pontremoli (1481) dove era prevista l’estrazione a sorte di quattro botteghe di speziale (una

per quartiere) aperte nei giorni festivi. Anche gli statuti degli speziali pisani (1496) prevedevano nei giorni festivi due farmacie di turno, una su ciascuna riva dell’Arno, estratte a sorte di volta in volta. Norme come queste non si trovano, invece, nei regolamenti degli speziali di Milano (1389), né in quelli di Roma (1473 e 1487), che si limitavano a prescrivere la chiusura festiva e la vendita, a bottega chiusa, dei soli medicinali indispensabili, ma soltanto fino a mezzogiorno (statuti di Roma, 1473). Quelli, piú tardi, di Verona (1596) non prevedevano neppure una normativa in proposito.


costume e società gli speziali per motivi di igiene, sia per la necessità di rispettare la scienza medica, gli statuti prescrivevano poi di controllare ogni mese le botteghe di questi ultimi per accertarsi che non tenessero alcun medicinale o merce di cui non fosse consentita loro la vendita. Un controllo mensile non meno rigoroso da parte di tre ufficiali della corporazione era previsto anche per le botteghe degli speziali, per accertarsi che tutto funzionasse secondo le regole. Nel 1423, sempre a Siena, venne stilato un elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo, riso. A loro volta, i pizzicagnoli potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro, e verde rame, con cui coloravano la cera e lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere al minuto carta per scrivere, carta da imballo, filo, «bossoli da spezie» (vasetti o barattoli per unguenti o profumi).

locali e delle scaffalature della farmacia. Le merci non confezionate secondo i dettati statutari venivano bruciate in pubblico, e i colpevoli condannati ad aspre multe. Persino le pere cotogne, utilizzate per confezionare la cotognata, dovevano essere pesate e pestate in presenza degli ispettori, e la lavorazione veniva rigorosamente controllata. E, naturalmente, precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione, l’esposizione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, a servitori o a ragazzi di età inferiore ai vent’anni, né a prostitute. Potevano essere venduti soltanto dal maestro speziale o dal capo dell’officina e sempre dietro prescrizione medica. A evitare frodi miravano le norme su pesi e misure e sulla precisione delle bilance, soggette al controllo della corporazione ogni tre mesi, e adeguate alle bilance di riferimento della corporazione, a loro volta tarate su quelle del Comune (statuti di Milano, 1389). A Pisa (1496) l’Arte era dotata di funzionari appositi, i «taratori», incaricati di verificare la purezza e la buona qualità Garantire la qualità delle materie prime che i farmacisti avrebbero acquiLe disposizioni corporative di ogni città erano parti- stato dai mercanti, e con cui dovevano essere confeziocolarmente preoccupate di tutelare la qualità dei pronati i medicamenti, mentre a Roma (1473 e 1487) era dotti, sia che si trattasse di medicinali, che di altre prevista una periodica taratura delle bilance, e a Firenmerci vendute dai farmacisti. Cosí si proibiva di ven- ze il compito di controllarle era demandato ai revisori dere zafferano adulterato incaricati delle periodiche «alla maniera genovese» Per scongiurare possibili frodi, ispezioni. (statuti di Milano, 1389), L’ubicazione dei locali furono emanate norme severe cera di cattiva qualità, costituenti la farmacia (di sulla precisione delle bilance mescolata a grassi, oli e solito almeno due, uno per trementina (statuti di Piil laboratorio e uno per la sa, 1496, e di Milano, 1389), confetture contenenti vendita) aveva poi un’importanza notevole nel garanamido o riso, e soprattutto medicinali contraffatti tire la buona riuscita dei prodotti e la loro corretta con(statuti di Siena, 1356, di Milano e di Pisa), pena servazione. Il delicato processo di preparazione di unaspre multe e il sequestro dei beni. guenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza, richieI medicinali – e soprattutto teriache (vedi box a p. 58), deva infatti una particolare attenzione sia alla pulizia unguenti, lattovari (vedi box a p. 59), cerotti, sciroppi – dei locali, sia alla loro ampiezza, luminosità e aerazione, dovevano essere confezionati secondo quanto disposto nonché al fatto che non vi fossero nelle vicinanze eserdal collegio dei fisici (cioè dei medici: statuti milanesi cizi commerciali inquinanti (tintorie, macellerie, condel 1389), o secondo quanto prescritto dai consoli degli cerie). Perciò alcuni statuti (tra cui quelli romani della speziali, e venire sigillati col marchio della bottega che li fine del Quattrocento) prescrivevano che le botteghe aveva prodotti, in modo da poter identificare facilmen- fossero ubicate in ambienti adatti. te chi avesse venduto medicamenti adulterati e nocivi La facoltà per i medici di gestire in proprio delle (statuti milanesi, 1389, e statuti pisani, 1496). Per lo farmacie, e le società tra medici e speziali, già vietate stesso motivo, gli statuti pisani in particolare proibiva- da Federico II, e proibite durante il Trecento dai gono severamente di vendere teriaca che non fosse pro- verni di molte città (Napoli, Parma, Cremona, Verona, dotta in città, davanti ai consoli dell’Arte e con tutte Venezia, Pisa), vennero invece consentite a Firenze le buone regole che la complessa confezione di questo dove sia gli statuti cittadini che quelli corporativi ne medicinale richiedeva. I farmacisti pisani, come anche permettevano la costituzione, autorizzando i farmaquelli milanesi, aborrivano soprattutto la teriaca e i procisti a tenere nelle loro botteghe medici per curare gli dotti (cera, candele, zafferano) provenienti da Genova, ammalati che vi si recavano, e consentendo ai dottori considerandoli di qualità scadente. di gestire in proprio le spezierie. Era però vietato l’acA Firenze e a Pistoia (XIV-XV secolo) la corporazione cordo tra farmacista e medico per vendere i medicinali esercitava un rigido controllo sulla qualità dei medicidividendo gli incassi. Il piú antico accordo di questo nali, prevedendo che «veditori» e «saggiatori» appositipo a Firenze risale al 1279, quando un fisico e un tamente designati facessero ispezioni periodiche, te- chirurgo si associarono per curare gli ammalati in una standoli e verificando al tempo stesso la condizione dei bottega comune e vendere le medicine.

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Illustrazione raffigurante una pianta di liquirizia, pianta molto usata dagli speziali nelle loro preparazioni, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

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costume e società gli speziali A sinistra Firenze, Orsanmichele. Medaglione in maiolica smaltata raffigurante l’insegna dell’Arte dei Medici e degli Speziali. Opera di Luca della Robbia, 1460 circa. Nella pagina accanto, in alto ancora un’illustrazione dal Tacuinum sanitatis raffigurante uno speziale con il suo garzone di bottega. XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto, in basso il medico, alchimista e filosofo svizzero Paracelso (al secolo Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), in una incisione del 1597.

Società di questo tipo erano in ogni caso ammesse di buon grado anche in molte altre città della Toscana (Siena, Pistoia, Lucca), e dell’Emilia (Bologna, Ferrara). Gli speziali associati con un medico non potevano però curare i feriti, né somministrare farmaci senza l’autorizzazione del medico stesso. Era consentito anche agli stranieri aprire una bottega di speziale, purché si iscrivessero alla corporazione versando una tassa doppia rispetto a quella pagata dai cittadini (statuti di Milano, 1389, di Siena in modifica di fine Quattrocento, e di Pisa, 1496), e a Roma addirittura tripla (1473).

Due categorie principali

Le trattazioni medievali distinguevano i farmaci in due categorie: quelli «semplici», costituiti da erbe, polveri minerali e spezie, e quelli composti, come elettuari (o lattovari), unguenti, sciroppi e ogni medicinale composto artificialmente. Gli speziali dovevano chiedere l’intervento di un medico prima di procedere alla preparazione di qualsiasi medicinale, o, almeno, questo è quanto si desume da alcuni statuti dei collegi dei medici, mentre, nella mag-

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gior parte dei dettati statutari corporativi dei farmacisti, essi sembrerebbero dotati della piú ampia autonomia. A Novara (stando a quanto sostenevano i medici) gli speziali erano obbligati a ottenere il consenso preliminare del collegio dei fisici per la preparazione dei farmaci complessi, e ad accettare che un medico assistesse personalmente alla confezione del preparato. Sempre secondo i dettati statutari dei medici, il controllo di questi ultimi sull’attività degli speziali talvolta giungeva persino a imporre l’obbligo per i farmacisti di tenere sempre attivo un grande orto per l’approvvigionamento costante di erbe e piante medicinali, da affidare alle cure di un erborista esperto. Questo appunto stabilivano gli statuti trecenteschi dei medici di Milano (ma non quelli degli speziali), e quelli tardo-quattrocenteschi del collegio dei medici di Novara. A Roma, invece, erano i medici a essere sottoposti alla corporazione degli speziali, secondo quanto disposto dagli statuti di questi ultimi nel 1473. Le medicine venivano confezionate secondo le norme dettate dai numerosi ricettari che circolavano all’epoca. In particolare l’antidotario di Nicolò Salernifebbraio

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Scienza farmaceutica

«Medicina dei semplici» e farmacologia Tra la fine del XV e il XVI secolo, grazie anche alla scoperta del Nuovo Mondo e all’introduzione in Europa di sostanze fino a quel momento sconosciute, si verificò in ambito medico e farmaceutico una rivoluzione epocale, che portò a un cambiamento completo nella produzione di svariati tipi di medicamenti: la «medicina dei semplici», basata sull’utilizzazione e sulla combinazione delle sostanze come esistono in natura, e senza alcuna manipolazione, veniva affiancata dalla farmacologia, basata invece sul tentativo di isolare, o almeno di concentrare, il principio attivo attraverso vari procedimenti (distillazioni, infusioni, sublimazioni). In quest’epoca infatti, grazie al mecenatismo di molti signori della Penisola (e primo fra tutti quello di Cosimo I in Toscana), vennero creati orti botanici, si realizzarono laboratori in cui distillare le piante e compiere esperimenti alchemici, grazie ai quali potè nascere e diffondersi la nuova disciplina della farmacologia, ideata dal tedesco Paracelso (nella prima metà del XVI secolo), che, associando la chimica alla botanica e alle conoscenze mediche, conferiva una netta svolta alla medicina, trasformandola da scienza filosofica e descrittiva in disciplina sperimentale in cui la chimica veniva posta a fondamento delle pratiche mediche. Secondo le idee paracelsiane il corpo umano è simile a un alambicco, al cui interno avvengono continue reazioni chimiche, da contrastare, se

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danneggiate dalle malattie, con altrettante reazioni chimiche. I farmaci andavano perciò creati attraverso distillazioni e sublimazioni (di vegetali, ma anche di metalli e di minerali) che selezionassero soltanto i principi attivi effettivamente utili a una determinata terapia, diversamente

dalla medicina tradizionale, che utilizzava invece solo le erbe come si trovano in natura. L’influsso della cultura e della lingua greca, favorito, verso la metà del Quattrocento, dalla fuga di molti intellettuali da Costantinopoli minacciata dai Turchi, si rivelò determinante per il rinnovamento delle discipline scientifiche dell’età rinascimentale e per il progressivo superamento dell’aristotelismo col passaggio al metodo sperimentale. E fu proprio l’apporto dei classici una delle principali caratteristiche della scienza italiana rinascimentale rispetto a quella degli altri Paesi europei: il confronto continuo di matematici, medici e naturalisti con gli autori greci e latini, affiancato dal lavoro di edizione dei testi, si intrecciò a quello di verifica dei loro contenuti su base sperimentale, dando un contributo determinante soprattutto agli studi di medicina.

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costume e società gli speziali tano era considerato nel XV secolo il testo ufficiale di farmacopea. Sul finire del Quattrocento iniziò a diffondersi anche il Nuovo ricettario composto dal Collegio dei dottori di Firenze (1498): si trattava della prima farmacopea nell’accezione moderna del termine, cioè di un codice di norme scritto per ordine delle autorità cittadine e da esse vidimato, che elencava i medicamenti da tenere nelle farmacie e il modo di prepararli. In volgare e corredato di illustrazioni, era finalizzato a por fine alla confusione e all’approssimazione nella preparazione delle medicine, causati dall’eccessivo numero di ricettari in circolazione. A Firenze infatti queste compilazioni erano numerosissime, ma si trattava sempre di raccolte private, non ufficializzate dall’autorità pubblica. La nuova farmacopea, invece, venne redatta dal collegio medico di Firenze su istanza dei consoli dell’Arte, per uniformare le molte raccolte di ricette allora in uso, e per evitare gli inconvenienti e i pericoli che potevano derivare da un cattivo dosaggio dei componenti del farmaco, o da una sua cattiva conservazione. L’opera, che tutti gli speziali avrebbero dovuto possedere e i medici tener presente nelle prescrizioni, si divideva in tre parti: nella prima si dettavano norme generali sull’ubicazione della farmacia (lontana dal sole, dal vento, dalla polvere e dall’umidità) e sui libri di cui doveva essere fornita (un dizionario botanico e due trattati sulla preparazione delle erbe). Erano poi indicati mese per mese le erbe, i fiori, i semi e le cortecce che lo speziale doveva raccogliere; le norme per la conservazione dei «semplici», dei grassi, degli elettuari, degli sciroppi, dei canditi, e per distinguere le merci buone da quelle contraffatte o adulterate; l’elenco delle materie prime (i «semplici») da tenere in farmacia, tra cui

A sinistra vaso da farmacia per teriaca. XVII-XVIII sec. Aix-en-Provence, Musée Arbaud. In basso l’interno del Museo Farmacia di Roccavaldina (Messina), che custodisce una preziosa raccolta di ceramiche del XVI sec.

la teriaca

I portenti di un rimedio disgustoso La teriaca era un elettuario aromatico-eccitante che doveva la sua fama alla virtú narcotica dell’oppio, e quindi al «rito» della sua fabbricazione intervenivano medici e pubblici ufficiali. Era considerato un antiveleno e per questo, a Roma e a Venezia nel Cinquecento, lo si preparava durante una cerimonia pubblica in presenza del Collegio dei Fisici, dei Priori degli Speziali e del Magistrato della Sanità. I suoi componenti dovevano essere esposti per tre giorni in modo che chiunque potesse vederli: a Venezia erbe, cortecce, fiori e radici erano confezionati con eleganti nastri di seta colorati, mentre resine, gomme, balsami e oppio venivano esposti in preziosi vasi di vetro di Murano. Nel «medicinale» entravano anche le vipere, che venivano debitamente mostrate chiuse in gabbie di ferro. L’esposizione comprendeva infine le grandi caldaie in cui cuocere il miele nel quale venivano versati tutti gli altri ingredienti. Facchini con berretti adorni di piume o di fiori di carta, debitamente istruiti svolgevano le varie operazioni. Questa disgustosa pozione, secondo le credenze dell’epoca, avrebbe rappresentato una materia per cosí dire «intelligente» capace di attirare a sé come un magnete la malattia, assorbendola per «affinità». Il «farmaco» avrebbe agito estraendo dal corpo i fluidi corrotti che vi circolavano. Della teriaca esistevano numerose varianti, tra cui quella di Galeno che su di essa scrisse ben due trattati.

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i prodotti piú venduti Ecco alcuni tra le medicine e i rimedi medicamentosi piú citati negli inventari medievali: cerotti forme farmaceutiche per uso esterno costituite da olio e da cera; elettuari polveri di vario genere a cui venivano aggiunti sciroppo o miele; (o lattovari) empiastri medicamenti per uso esterno, costituiti da sapone di piombo e da altre sostanze terapeuticamente attive; fragili a temperatura ambiente, si ammorbidivano col calore, acquisendo resistenza e capacità adesiva; si applicavano caldi sulla superficie corporea da trattare; colliri forme farmaceutiche destinate alla cura degli occhi e delle palpebre: si distinguevano in colliri solidi (polveri insufflate negli occhi attraverso un piccolo tubo), molli (o pomate oftalmiche) e liquidi; «conserve» fiori, semi, frutti, radici e simili canditi con miele o zucchero. o «conditi»

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costume e società gli speziali Dipinto raffigurante un aspirante farmacista che sostiene l’esame per potersi avviare alla professione. Scuola francese, XVIII sec. Parigi, Biblioteca della Facoltà di Farmacia.

figuravano cera, miele, liquirizia, assenzio, oppio, colla di pesce, gomma, semi di dattero, noccioli di ciliegie, amarene e pesche, avorio, dente di lupo, corno, osso, perle, coralli, antimonio, zolfo, allume, bolo armeno, vetriolo, ocra, arsenico. Venivano poi date indicazioni sulla composizione degli elettuari, cioè dei farmaci «ex electis rebus confectis», ovvero frutto della combinazione di diverse e determinate materie prime (=«semplici»), degli sciroppi, delle pillole, dei colliri, degli unguenti, degli empiastri, consentendo di realizzare, oltre alle medicine esplicitamente indicate, anche quelle che fossero state ideate dal medico che le prescriveva. L’ultima parte della farmacopea fiorentina dava ricchissime informazioni sulla preparazione, sul lavaggio e sul dosaggio delle spezie nella confezione dei medicamenti, nonché sulla soluzione di numerosi problemi di pratica farmaceutica. Tra le spezie piú utilizzate che gli operatori del settore dovevano sempre tenere in bottega c’erano il pepe e la cannella, quest’ultima impiegata sia per aromatizzare i cibi, sia come medicina, prevalentemente per i disturbi gastrici. Proveniente dalla Cina, dall’India e dall’isola di Ceylon, la si otteneva dalle foglie triturate di un vegetale, il cinnamomo, oppure dalla sua corteccia. Molto usati erano anche la canfora (sempre ottenuta da un vegetale), i chiodi di garofano, la noce moscata, lo zafferano (prodotto anche in Toscana, nelle Marche e in Abruzzo) e lo zenzero, proveniente dall’India e dalla Cina, e dal quale gli speziali ricavavano conserve e, con l’aggiunta di altri ingredienti, un medicinale oppiato. Lo si utilizzava poi ampiamente nella preparazione di vini aromatici. Come eccipiente per rendere piú appetibili la maggior parte delle medicine si impiegava lo zucchero, di cui le farmacie erano sempre abbondantemente provviste. Tra le materie medicamentose principali figurava poi l’olio d’oliva, usato come eccipiente, come medicinale e come rimedio principale nella cura delle ferite. F

Da leggere U Statuto inedito dell’arte degli speziali di Pisa nel secolo

U Raffaele Ciasca, L’arte dei medici e speziali nella storia e

XV, a cura di Pietro Vigo, Gaetano Romagnoli, Bologna 1885 (disponibile anche on line: http://openlibrary.org) U Alfonso Corradi, Gli antichi medicamenti oppiati: la teriaca e il mitridato, in Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, XXI (1888); pp. 669 ss. U Riccardo Macchi, Cenni storici sul collegio degli aromatari della Città di Milano, 1898 (disponibile anche nella ristampa curata da Kessinger Publishing, 2010) U Odorico Viana, Lo Statuto degli speziali di Verona del 1586, Tip. G. Franchini, Verona 1915

nel commercio fiorentino dal secolo XII al XV, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1927 U Statuti degli speziali di Milano (1389), pubblicati in Franco Valsecchi, Le corporazioni nell’organismo politico del Medio Evo, Alpes, Milano 1931; pp. 108-119 U Breve degli Speziali: (1356-1542), a cura di Giovanni Cecchini e Giulio Prunai, Accademia degli Intronati, Siena 1942 U Alfonso Corradi, Le prime farmacopee italiane, ed in particolare dei ricettari fiorentini, Fratelli Rechiedei

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Editori, Milano 1887 (disponibile anche on line: http://openlibrary.org) U Irma Naso, Medici e strutture sanitarie nella societa tardomedievale: il Piemonte dei secoli XIV e XV, Franco Angeli, Milano, 1982; pp. 141-149 U Antonella Astorri, Appunti sull’esercizio dello speziale a Firenze nel Quattrocento, in Archivio Storico Italiano, CXLVII (1989), Leo S. Olschki Editore, Firenze; fasc. 539, pp. 31-62 U Leonardo Colapinto, Giacomo Leopardi, L’arte degli speziali italiani, L’ariete, Milano 1991

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U Ivana Ait, Tra scienza e mercato: gli speziali a Roma nel

tardo Medioevo, Istituto di studi romani, Roma 1996 U Elena Brambilla, Dagli antidoti contro la peste alle

Farmacopee per i poveri: farmacia, alchimia e chimica a Milano, 1600-1800, in Ricerche di storia in onore di Franco Della Peruta, a cura di Maria Luisa Betri e Duccio Bigazzi, Franco Angeli, Milano 1996, vol. 2: Economia e società; pp. 302-352 U Andrea Mozzato, Uno speziale aretino a Venezia nel secondo Quattrocento, in Annali Aretini, XV-XVI, 2007-2008, Fraternita dei Laici, Arezzo 2008; pp. 117-143

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di Ludovica Sebregondi

In nome della

Croce

bianca

Storia dei cavalieri di Rodi

Meno famosi, forse, dei loro fratelli Templari e Teutonici, i Cavalieri Ospitalieri rappresentano, tuttavia, il piĂş antico ordine cavalleresco ancora oggi esistente. In origine nati come un gruppo di religiosi che assistevano i pellegrini a Gerusalemme, i Frati di San Giovanni assumono ben presto funzioni militari: e, nel 1307, conquistano la bizantina isola di Rodi, dove danno vita a un vero e proprio Stato indipendente e a un formidabile potere marittimo


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la «religione» le origini dell’ordine

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ovrano Ordine Militare e Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta: già la lunghissima denominazione ufficiale del piú antico ordine cavalleresco ancora oggi esistente lascia intuire la complessità delle vicende che hanno contraddistinto quello che, abitualmente, è conosciuto come Ordine di Malta. Ma, nei secoli, i cavalieri sono stati chiamati alternativamente «di Gerusalemme» o Gerosolimitani, poi «di Rodi» (tra il 1309 e il 1522, quando ebbero il dominio dell’isola), piú frequentemente «di Malta» o Melitensi (isola di cui ebbero il possesso dal 1530 al 1798); ma anche «di San Giovanni» o Giovanniti, perché al Battista era dedicata la loro prima chiesa, e ancora Ospitalieri, dall’attività che li ha caratterizzati già prima di quella militare. I cavalieri stessi si definirono «Sacra Religione» o semplicemente «Religione».

Prima delle crociate

L’Ordine gerosolimitano si formò intorno a un ospizio per pellegrini (che si dice fondato da mercanti amalfitani e dipendente dai Benedettini) sorto a Gerusalemme presso il Santo Sepolcro, intorno al 1070, e dunque già operante avanti il 1099, anno della prima crociata, che liberò la città dai musulmani. Era tenuto da fratelli laici e la leggenda vuole che al suo superiore, il santo frate Gerardo, fosse data la Nella pagina precedente particolare di una miniatura raffigurante il Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi, Pierre d’Aubusson, che impartisce istruzioni per la difesa dell’isola dall’attacco degli Ottomani di Maometto II, dal Gestorum Rhodie obsidionis commentarii, Oratio de morte magni Turci, De casu regis Zizimi. 1482-83. Parigi, Bibliothèque nationale.

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A sinistra Siena, Duomo, cappella di S. Giovanni. Particolare di uno degli affreschi del Pinturicchio raffigurante Alberto Aringhieri e, sullo sfondo, il porto di Rodi. 1504-05. Il cavaliere indossa l’abito «di punta» (o conventuale), formato da una veste nera con la croce biforcata bianca sul lato sinistro del petto e dal mantello con lo stesso emblema sulla spalla sinistra.

Qui accanto La Valletta (Malta). La croce dell’Ordine gerosolimitano dipinta in uno degli ambienti del Palazzo del Gran Maestro, costruito su progetto dell’architetto maltese Gerolamo Cassar tra il 1570 e il 1580.

La croce

Forma e significati di un simbolo La bandiera dell’Ordine gerosolimitano presenta la croce piana – cioè con le braccia di spessore uniforme – bianca in campo rosso, mentre i Templari sono contraddistinti da una croce rossa in campo bianco e i Teutonici da una nera in campo bianco. La caratteristica croce a otto punte (simbolo, e non stemma, gerosolimitano) compare solo intorno al XIII-XIV secolo, come trasformazione di una croce «patente», cioè con le braccia allargate alle estremità. Questa croce ottagona – definita anche «a coda di rondine», biforcata o biforcuta – con punte ad angolo acuto, argentea sul campo rosso, viene caricata di significati simbolici solo in un secondo momento: risale infatti al 1496 il primo riferimento delle punte intese come le otto beatitudini, con allusione al «Discorso della montagna» del Vangelo di Matteo. La stessa croce in tela o panno bianco appare sull’abito nero dei cavalieri e – con la sua forma quasi stellare – è presente su formelle in pietra o marmo che contraddistinguono gli edifici appartenenti all’Ordine, indicandone l’appartenenza. Dal 1470 circa gli stemmi dei cavalieri professi sono contrassegnati dal «capo dell’Ordine», vale a dire che la parte superiore dello scudo è occupata dalla croce argentea in campo rosso («di rosso alla croce d’argento» secondo la terminologia araldica), mentre quella inferiore presenta l’arme della famiglia. La croce può anche essere «accollata», con gli otto vertici che spuntano al centro dei lati dello scudo. I Gran Maestri hanno lo stemma inquartato con la croce dell’Ordine.

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possibilità di restare all’interno delle mura durante l’assedio. Goffredo di Buglione, primo governatore della Gerusalemme latina, arricchí l’istituzione donando all’ospizio alcuni possedimenti. Sette anni prima della morte di Gerardo, nel 1113, un privilegio papale di Pasquale II riconobbe e conferí indipendenza al nuovo Ordine, il

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cui scopo era di offrire aiuto ai poveri, e ai pellegrini diretti ai luoghi santi un ricovero e le cure necessarie in caso d’infermità. Intorno al 1136, però, alla primitiva caratterizzazione caritativa e ospedaliera, attuata nel servitium pauperum, si aggiunse la funzione militare intesa come tuitio fidei, cioè difesa della fede, voluta da Fra Raymond de Puy, successore

nella carica di rettore (da allora denominato Maestro, mentre il titolo di Gran Maestro fu utilizzato solo a partire dal Quattrocento), il quale avvertí la necessità di proteggere i pellegrini dalle incursioni degli infedeli: a quella che era nata come istituzione ospedaliera e assistenziale, si unirono l’azione della cavalleria medievale e la mentalità feudale. febbraio

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Il Capitolo generale dell’Ordine, riunito per la prima volta da Fra Raymond, sancí l’osservanza dei tre voti di povertà, castità e obbedienza, e papa Callisto II, confermando queste norme, prescrisse la regola di sant’Agostino. L’obbligo del combattimento determinò la necessità di armare cavalieri i religiosi e poiché, secondo le consuetudini feudali, la cavalleria era limitata al ceto nobiliare, anche l’Ordine poté creare cavalieri solo i nobili. Di conseguenza, i membri vennero divisi in classi ben distinte: cavalieri (nobili, ma il sistema di casta si rafforzò nell’Ordine solo dopo la metà del Duecento), cappellani – cioè sacerdoti cui veniva affidata l’assistenza spirituale – e serventi d’arme, ammessi senza prova di nobiltà e con la sola dimostrazione di non essere nati schiavi.

Un patrimonio enorme

Donazioni e lasciti, ricevuti in virtú della potenza e del prestigio di cui godevano, fecero acquisire ai Gerosolimitani un patrimonio fondiario enorme, sia in Occidente che in Oriente, e fu affidata loro la difesa di alcuni castelli, tra cui Belvoir, Margat e il Krak dei Cavalieri (il

A destra litografia raffigurante la tomba di Beatriz Cornel, priora dell’Ordine ospitaliero nel monastero di S. Maria di Sigena (Spagna), deceduta nel 1451. Nella pagina accanto dipinto raffigurante Fra Gerardo Sasso, fondatore dei Gerosolimitani, che riceve Goffredo di Buglione. Olio su tela di Antoine de Favray. Seconda metà del XVIII sec. La Valletta, Museo Nazionale di Belle Arti. La scena è ambientata all’interno dell’ospedale (la Sacra Infermeria) che l’Ordine creò a Malta.

Quattro avi per dirsi nobili La connotazione aristocratica dell’Ordine gerosolimitano è sancita nel 1262 dalla regola del Gran Maestro Hugues de Revel (anche se quegli statuti parlano non di nobiltà, ma dell’obbligo, per un frater miles, di essere un cavaliere secolare o di nascita cavalleresca), mentre i documenti trecenteschi richiedono la nobiltà ex utroque parente, cioè di ambedue i genitori. Nei primi decenni del Quattrocento comincia a svilupparsi la richiesta di prove di condizione cavalleresca per attestare l’appartenenza dei quattro nonni all’aristocrazia: le cosiddette «prove di nobiltà» comprovate da documenti (alberi genealogici, iscrizioni funebri, testimonianze). Dal 1599 una bolla magistrale fissa i criteri per essere accettati in un questionario in ventidue punti, e specifica i principali requisiti richiesti: «prove di nobiltà» risalenti a duecento anni addietro per le famiglie dei quattro avi paterni e materni, religione cattolica degli avi, idoneità all’esercizio delle armi e astensione dall’esercizio delle arti meccaniche. Una volta ammesso, il cavaliere pronuncia i voti di povertà, castità e obbedienza e diventa «professo di giustizia». Anche alle monache Ospitaliere, presenti già a Gerusalemme, è esteso l’obbligo dell’appartenenza a famiglia nobile.

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veste nera e croce bianca

L’abito fa il cavaliere L’abito «di punta» (o conventuale) contraddistingue nei secoli i cavalieri professi. Si compone di una lunga veste nera con la croce biforcata bianca sul lato sinistro del petto e di un mantello con lo stesso emblema sulla spalla sinistra. Dal Cinquecento si aggiunge una croce coniata in metallo smaltato di bianco e bordata d’oro, appesa al collo con una catena d’oro o un nastro nero. Fino a oggi la veste non è cambiata in modo significativo, mentre il copricapo si è adeguato alla moda del periodo: nel Trecento si sceglie generalmente una berretta, che rimane in voga tanto a lungo che, ancora nel primo Cinquecento, è indossata dal cavaliere Alberto Aringhieri raffigurato da Pinturicchio. Dal Quattrocento si affaccia anche un piú complesso cappuccio, e copricapi di altre fogge appaiono utilizzati dai cavalieri, come quello indossato dallo stesso Aringhieri, che sbuca dietro a Enea Silvio che presenta Eleonora d’Aragona al futuro sposo Federico III, nella Libreria Piccolomini (foto qui a destra). Quando l’Ordine gerosolimitano assume anche compiti militari, all’ingombrante veste talare nera si affianca una corta tunica (o sopravveste) rossa, dalla croce piana bianca, indossata al di sopra della corazza e con il «cingulum militare», una larga fascia di cuoio che i cavalieri stringono attorno alla vita per sospendervi la spada. Questa cintura fa parte dell’armamento d’onore e rappresenta, con gli speroni e la spada, la dignità di cavaliere: si cinge al novello insignito e si toglie nella cerimonia di degradazione, per cui la sua perdita in battaglia costituisce un terribile disonore. Indossa l’uniforme militare il cavaliere Due ritratti di Alberto Aringhieri, entrambi del Pinturicchio, con abito «di punta» e berretta (in alto) e in veste guerresca (a sinistra). Eseguiti tra il 1502 e il 1507, i dipinti si conservano nel Duomo di Siena: nella Libreria Piccolomini e nella cappella di S. Giovanni.

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Bartolomeo Palmieri, affrescato nel 1398 dal pittore senese Martino di Bartolomeo in S. Giovanni dei Cavalieri a Cascina, presso Pisa. Uguale abbigliamento guerresco presenta il ritratto idealizzato di Alberto Aringhieri da giovane, riproposto da Pinturicchio all’inizio del Cinquecento. Oltre alla grande spada, proprio a sottolineare la doppia connotazione militare e religiosa, i cavalieri portano il rosario, che appare spesso tra le loro mani in dipinti e lastre tombali.

primo è oggi compreso nei confini d’Israele, mentre gli altri si trovano in territorio siriano, n.d.r.), una delle piú solide fortificazioni cristiane in Oriente, che un musulmano paragonò a un «osso conficcato nella gola dei Saraceni». Dopo la perdita di Gerusalemme, nel 1187, la sede principale venne spostata ad Acri, nuova capitale del regno latino, dove l’Ordine costruí un grande complesso conventuale; infine nel 1291 anche Acri – ultimo baluardo cristiano (nel frattempo ribattezzata San Giovanni d’Acri) – fu espugnata dopo un lungo assedio, e gli Ospitalieri,

come Templari e Teutonici, furono cacciati dalla Terra Santa. Pochi Gerosolimitani si salvarono, e tra essi il Gran Maestro Jean de Villiers, che era stato gravemente ferito; con le esigue forze residue, l’Ordine riuscí ad approdare a Limassol (Cipro), dove rimase per quasi venti anni. Abituati a combattere sui terreni desertici e sulle montagne della Terra Santa, i cavalieri si ritrovarono in un’isola, e furono costretti a vivere sul mare, adeguandosi a nuove esigenze; in breve organizzarono una considerevole forza navale e, da quel momento, la storia dell’Ordine coincise con quella della sua Marina.

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Un’isola a immagine e somiglianza dell’Ordine La Valletta (Malta). Uno degli ambienti del Palazzo del Gran Maestro. I Cavalieri Gerosolimitani presero possesso dell’isola nel 1530, quando essa venne loro ceduta dall’imperatore Carlo V con l’approvazione di papa Clemente VII. Nel 1565, guidati dal Gran Maestro Fra Jean de la Vallette-Parisot, la difesero vittoriosamente, per piú di tre mesi, dall’assedio degli Ottomani. All’indomani del successo, vennero costruiti la città e il porto di La Valletta, che prese nome dal suo fondatore, lo stesso de La Vallette. Gli Ospitalieri trasformarono Malta: sorsero palazzi e chiese, nonché nuovi bastioni di difesa, giardini e un nuovo grande ospedale, considerato uno dei meglio organizzati del tempo.

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Gli Ordini «fratelli» Per la fondazione dell’Ordine dei Templari si narra di nove cavalieri della Champagne riuniti nel 1119 da Ugo de Payns il cui nome, «poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone», derivò dalla sede stabilita a Gerusalemme nella moschea che si riteneva fosse sorta sul Tempio di Salomone. Contrariamente ai Gerosolimitani, il cui ruolo fu dapprima assistenziale, i Templari ebbero subito connotazione militare, essendo nati con il compito di difendere i luoghi santi e di proteggere i pellegrini dagli infedeli. Bernardo di Chiaravalle impresse poi un carattere monastico, contraddistinto dalla vita comune e dai voti di povertà, castità e obbedienza. I Templari si arricchirono enormemente grazie a cospicui lasciti e ad accorte operazioni commerciali (fungevano da esattori, prestavano denari e – vuole la leggenda – custodivano tesori). L’Ordine dei Cavalieri Teutonici, variante germanica degli Ordini militari, nacque all’interno dell’esercito tedesco impegnato nell’assedio di Acri, durante la crociata intrapresa dall’imperatore Federico I Barbarossa nel 1190. L’Ordine ebbe finalità simili a quelle degli Ospitalieri, mentre gli Statuti, confermati nel 1199 da Innocenzo III, erano uguali a quelli dei Templari, ai quali li accomunò pure l’abito: un mantello bianco, ma con una croce nera invece che rossa. I membri erano soprattutto tedeschi, ma era consentito accogliere cavalieri provenienti da altri Paesi. La caduta di Acri nel 1291 rappresentò un momento cruciale nella storia degli Ordini cavallereschi: la fine del regno latino d’Oriente e delle crociate impose una trasformazione del loro ruolo, tale da motivarne l’esistenza stessa. I Teutonici spostarono la sede centrale a Venezia, poi in Prussia dove crearono un Ordensstaat, uno Stato-ordine territoriale durato fino al Quattrocento, mentre la presa di Rodi testimoniò che i Gerosolimitani erano intenzionati a combattere per riconquistare la Terra Santa. I Templari, invece, non seppero riconvertirsi e questa, insieme alle enormi ricchezze accumulate, fu una delle cause della loro debolezza, che li rese attaccabili dai nemici. Dal 1307 furono sottoposti a inchieste papali per verificare le accuse di eresia mosse dal re di Francia Filippo il Bello e, nel 1312, papa Clemente V soppresse l’Ordine; due anni dopo il Gran Maestro del Tempio Jacques de Molay fu arso vivo, contribuendo a creare l’aura leggendaria che circonda i Cavalieri del Tempio. Questa soppressione ebbe una conseguenza significativa: i beni confiscati ai Templari furono assegnati all’Ordine gerosolimitano, che quasi raddoppiò il proprio patrimonio.

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Incisione ottocentesca raffigurante il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay, che, travolto dall’inchiesta sull’Ordine del Tempio voluta dal re di Francia Filippo il Bello, fu condannato a morte e finí i suoi giorni sul rogo, nel 1314.

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le case dei cavalieri

gli ospitalieri e la loro organizzazione

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e campagne militari in Oriente necessitavano di uomini e soldi, e i possedimenti occidentali costituirono la base economica dell’Ordine. Dal 1206 le sue immense proprietà furono raggruppate e organizzate in commende (dette anche domus o precettorie), unità base del sistema, che prendevano il nome dalla formula «commendamus», cioè «affidiamo»,

Roma. La Casa dei Cavalieri di Rodi, edificata sui resti del tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto. Dal 1946 il complesso è concesso in uso al Sovrano Militare Ordine di Malta.

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con cui si davano in custodia ai cavalieri – i commendatori – che ne amministravano i beni. La commenda riuniva un gruppo di possedimenti con edifici per il culto, case e terreni, e i commendatori, sfruttando questo patrimonio, dovevano provvedere alle spese di gestione della chiesa e dell’eventuale ospedale, apportare miglioramenti alle proprietà, usufruire di una parte dei redditi per mantenere un tenore di vita adeguato, ma soprattutto pagare le responsiones al priore, il quale, a sua volta, era tenuto a versare al tesoro conventuale le responsiones destinate a sovvenzionare l’Ordine. I sette priorati di Messina, Barletta, Ca-

pua, Roma, Lombardia, Pisa e Venezia, formavano la Lingua d’Italia. Il priorato di Messina fu probabilmente la prima fondazione italiana e comprendeva tutta la Sicilia; quello di Barletta includeva la Puglia, una parte del Molise e la Basilicata, con le commende disposte lungo la costa, da dove ci si imbarcava per l’Oriente. Il priorato di Capua si estendeva in Campania, Calabria, sul Molise interno e sugli Abruzzi; mentre il territorio del priorato di Roma corrispondeva ai confini dello Stato pontificio. La sede priorale era nella cosiddetta «Casa di Rodi», nel Foro di Augusto, ma, nel 1312, si spostò in quella che era stata la sede templare di S. Maria sull’Aventino. Il priorato di Pisa abbracciava Toscana e Sardegna, mentre quello de Longobardia riuniva Piemonte, Liguria e il Piacentino, ed era caratterizzato dalle grandi vie di pellegrinaggio. Il priorato ebbe sede ad Asti, uno dei primi insediamenti gerosolimitani, attestato fin


dal 1169 presso la chiesa del Santo Sepolcro, successivamente intitolata a san Pietro di Consavia. Nel XV secolo, per le pressioni di Ludovico Maria Sforza, la sede priorale fu trasferita a Milano, ma poi riportata ad Asti. Il priorato di Venezia (che comprendeva Tirolo, Istria e il Veneto fino alla Romagna) aveva grande rilievo anche per i tradizionali legami della città lagunare con l’Oriente. La Lingua d’Italia, al pari delle altre Lingue (le aree geografiche in cui si usava lo stesso idioma, n.d.r.), esisteva come associazione di tutti i frati di una nazionalità residenti a Rodi e poi a Malta, aveva propri ufficiali, un Al-

bergo (cioè edificio di rappresentanza), una cappella, entrate e proprietà. Le Lingue erano in origine sette (Provenza, Alvernia, Francia, Italia, Aragona, Inghilterra e Alemagna); in seguito, per Castiglia e Portogallo, fu creata l’ottava Lingua, ma, a causa dello scisma d’Inghilterra, tornarono a sette. Il Gran Maestro, la cui carica era elettiva e a vita, a Rodi fu principe del suo Stato sovrano. Gli organi

collegiali erano il Capitolo generale e il Consiglio. Il primo aveva il potere e ne faceva parte un certo numero di membri dell’Ordine; poiché si radunava ogni tre o cinque anni, demandava al Gran Maestro e al Consiglio la conduzione dell’Ordine. In caso di morte del capo supremo, si riuniva in seduta straordinaria e provvedeva a designare gli elettori del nuovo Gran Maestro. Nel 1320 il Capitolo stabilí che il

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Dossier Consiglio, il cui compito era di assistere il Gran Maestro, sarebbe stato composto dagli anziani ufficiali di ogni Lingua, detti pilieri o sostegni. A ciascuno di questi, oltre alla rappresentanza ufficiale delle Lingue, era affidato un compito specifico: Ammiraglio a quello d’Italia, Grand’Ospedaliere a quello di Francia, Gran Cancelliere a quello di Castiglia. Dato che i Francesi ebbero sempre una preponderanza nu-

genova Una veduta di S. Giovanni di Pré. Del complesso, realizzato tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec., facevano parte una struttura polifunzionale, destinata ad accogliere non solo i pellegrini, ma anche le merci destinate all’Oltremare, nonché una chiesa doppia, forse ispirata al modello del tempio innalzato dagli Ospitalieri a Gerusalemme. merica nell’Ordine, si comprende perché abbiano avuto praticamente il monopolio del magistero fino al Trecento inoltrato: l’aragonese Fra Juan Fernández de Heredia, eletto nel 1376, fu il primo Gran Maestro non francese.

Possessi d’«Ultramare»

Messina, Taranto, Otranto, Bari, Pisa e Asti sono le località italiane citate nel privilegio di Pasquale II del 1113 che elenca i primi insediamenti gerosolimitani: nell’Ordine venivano chiamati possessi «d’Ultramare», a riprova di una visione centrata sulla Terra Santa, rispetto alla quale l’Europa era oltre il mare. Queste prime fondazioni (con l’eccezione di Asti, collocata lun-

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sulla via Francigena, presso Poggibonsi, edificata vicino a un ponte di cui i cavalieri curavano anche la manutenzione.

asti La sede del priorato «de Longobardia», uno dei primi insediamenti gerosolimitani in Italia, attestato, fin dal 1169, presso la chiesa del Santo Sepolcro, poi trasformata in battistero, dedicato a san Pietro di Consavia (qui accanto e a sinistra). Nel XV sec. la sede priorale fu trasferita a Milano, ma quindi riportata in Piemonte.

Architetture semplici

Elementi principali della commenda erano l’abitazione del commendatore (o casa commendale), una chiesa e, nelle commende lungo le piú importanti vie di comunicazione, un ospedale. Gli edifici dell’Ordine sono accomunati dalla ricerca di una architettura semplice, essenziale, caratterizzata da rigore e austerità, in sintonia con il dettato di san Bernardo per i Cistercensi: spesso gli unici elementi decorativi delle chiese gerosolimitane sono gli stemmi dell’Ordine e dei commendatori oppure le lastre tombali dei cavalieri. Appare inoltre evidente la tendenza ad adeguarsi alle caratteristiche costruttive del luogo, con l’assunzione di elementi architettonici, maestranze e consuetudini locali. Il legame col territorio è dimostrato anche dalle differenze date dalla collocazione geografica: le commende del Centro-Sud avevano carattere agricolo ed erano spes-

go la via romana Giulia Augusta) furono tutte in città dai cui porti partivano le principali rotte verso l’Oriente, e dove ebbe inizio il fenomeno del pellegrinaggio. Anche nei due secoli successivi gli insediamenti sono attestati in punti nodali come porti, valichi o ponti; in Toscana una delle testimonianze piú antiche (1191) è quella della commenda di S. Giovanni di Ponte,

so distanti dagli abitati, quelle del Centro-Nord, invece, si trovavano generalmente nelle città o in prossimità dei principali tracciati viari. Non è facile individuare uno stile architettonico comune agli edifici dei Gerosolimitani, ma è però possibile sottolineare alcune tipologie ricorrenti, sebbene non specifiche: gli ospedali erano in genere costruzioni modeste, con poche stanze e un numero limitato di letti, che accoglievano sia poveri che pellegrini. Venivano spesso edificati presso

rodi Lo stemma di Emery d’Amboise, Gran Maestro dell’Ordine dal 1503 al 1512, scolpito sopra uno degli accessi alla città medievale.

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L’Ordine dei Cavalieri di Rodi e le sue sedi principali MEDIOEVO

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Dossier un corso d’acqua, per facilitare il rifornimento idrico e consentire lo smaltimento dei rifiuti, ed erano di frequente ubicati vicino alle mura cittadine o in zone che favorissero il proseguimento del viaggio: l’ospedale della commenda di S. Giovanni di Pré a Genova, per esempio, fu costruito presso il rivo di Sant’Ugo, in un settore del porto riservato ai viaggi verso la Terra Santa. Proprio il complesso genovese rappresenta un esempio straordinario di uso molteplice: non accoglieva solo i pellegrini, ma anche le merci destinate all’Oltremare.

Chiese doppie

Un’altra tipologia caratteristica – ma non esclusiva – è costituita dalle chiese doppie, forse per un riferimento alla chiesa matrice dell’Ordine a Gerusalemme; ne è ancora un esempio S. Giovanni di Pré, sebbene il maggior numero di chiese gerosolimitane strutturate su due piani si trovi nell’Europa centrale, lungo i grandi itinerari per l’Oriente e i porti del Mediterraneo: in Assia a Niederweisel, nel Baden a Neckarelz e in Scozia a Torpichen. Altri casi sono la chiesa della Jungfrau Maria unter der Kette di Praga (cioè di S. Maria sotto la Catena) e il complesso di S. Giovanni di Tubre (Taufers, in provincia di Bolzano). Le chiese doppie svolgevano una finalità religiosa pubblica nella chiesa inferiore e un uso interno riservato all’Ordine e ai ricoverati nel piano superiore. Aperture che mettono in comunicazione i due livelli dell’edificio si possono trovare anche in S. Maria Maddalena a Faenza, lungo la via Emilia, dove passaggi circolari consentono il collegamento acustico fra la chiesa e la corrispondente sala dell’ospedale al piano superiore. Anche i loggiati rappresentano una soluzione architettonica frequente, ma non peculiare dell’Ordine: numerose chiese gerosolimitane lungo le principali vie di comunicazione sono infatti precedute o affiancate da un porticato destinato all’accoglienza dei pellegrini e al riparo dei viandanti.

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Tutti i Maestri dell’Ordine Gerardo, fondatore † 3 settembre 1120 Raymond de Puy 1120 (?)-1158/60 Auger de Balben 1158/60-1162/63 Arnaud de Comps 1162/63 Gilbert d’Assaily 1163-1169/70 Gaston de Murols 1170 ca. – 1172 Joubert 1172 ca.-1177 Roger des Moulins 1177-1187 Ermengard d’Asp 1188-1190 ca. Garnier de Naplous 1189/90-1192 Geoffroy de Donjon 1193-1202 Alphonse de Portugal 1202-1206 Geoffroy Le Rat 1206-1207 Garin de Montaigu 1207-1227/8 Bertrand de Thessy 1228 ca.- 1231 Guérin 1231 ca. – 1236 Bertrand de Comps 1236-1239/40 Pierre de Vielle-Bride 1239/40-1242 Guillaume de Châteauneuf 1242-1258 Hugues de Revel 1258-1277 Nicolas Lorgne 1277/78-1284 Jean de Villiers 1284/5-1293/4 Odon de Pins 1294-1296 Guillaume de Villaret 1296-1305 Foulques de Villaret 1305-1319 Hélion de Villeneuve 1319-1346 Dieudonné de Gozon 1346-1353 Pierre de Corneillan 1353-1355 Roger de Pins 1355-1365 Raymond Bérenger 1365-1374 Robert de Juillac 1374-1376 Juan Fernández de Heredia 1376-1396 Riccardo Caracciolo 1383-1395 Philibert de Naillac 1396-1421 Antoine Fluvian de la Rivière1421-1437 Jean de Lastic 1437-1454 Jacques de Milly 1454-1461 Piero Raimondo Zacosta 1464-1467 Giovan Battista Orsini 1467-1476 Pierre d’Aubusson, cardinale 1476-1503 Emery d’Amboise 1503-1512 Guy de Blanchefort 1512-1513 Fabrizio del Carretto 1513-1521 Philippe de Villiers de l’Isle Adam 1521-1534 Pietrino dal Ponte 1534-1535 Didier de Saint-Jaille 1535-1536 Jean de Homedes 1536-1553 Claude de la Sengle 1553-1557 Jean de la Vallette-Parisot 1557-1568 Pietro del Monte 1568-1572 Jean de la Cassière 1572-1581 Hugues Loubenx de Verdala, cardinale1581-1595 febbraio

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Dipinto raffigurante il Gran Maestro Raymond de Puy che guida i cavalieri nella difesa della Celesiria (territorio racchiuso tra le catene del Libano e dell’Antilibano, oggi compreso tra Siria e Libano). Olio su tela di Édouard Cibot, 1844. Versailles, Château.

Martin Garzez 1595-1601 Alof de Wignacourt 1601-1622 Louis Mendez de Vasconcellos 1622-1623 Antonio de Paola 1623-1636 Giovanni Paolo Lascaris di Castellar 1636-1657 Martin de Redin 1657-1660 Annet de Clermont-Gessant 1660 Rafael Cotoner 1660-1663 Nicolás Cotoner 1663-1680 Gregorio Carafa 1680-1690 Adrien de Wignacourt 1690-1697 Raimundo Perellos y Roccaful 1697-1720 Marc’Antonio Zondadari 1720-1722 Manoel de Vilhena 1722-1736 Raymond Despuig 1736-1741 Manoel Pinto de Fonseca 1741-1773 Francisco Ximénez de Texada 1773-1775 Emmanuel de Rohan-Polduc 1775-1797 Ferdinand von Hompesch 1798-1799 (de facto) Paolo I zar di Russia 1798-1801 Giovan Battista Tommasi 1803-1805 Giovan Battista Ceschi a Santa Croce 1879-1805 Galeazzo von Thun und Hohenstein 1905-1931 Ludovico Chigi della Rovere Albani 1931-1951 Angelo de Mojana di Cologna 1962-1988 Andrew Bertie 1988-2008 Matthew Festing 2008


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l’arrivo a rodi l’ordine tra il 1307 e il 1522

S S

ulla scelta di Rodi – la bella «isola delle rose» – da parte dell’Ordine influirono il riparo offerto dai due porti, le isole del Dodecaneso poste a naturale difesa e, soprattutto, la sua posizione strategica. Rodi, infatti, dista poche miglia dalla costa dell’Asia Minore, ed è dunque una delle piú orientali isole dell’Egeo, nei cui pressi passavano le rotte mercantili del mondo musulmano che ci si proponeva di colpire. I Gerosolimitani impiegarono anni per conquistare Rodi, che al-

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lora apparteneva nominalmente all’imperatore bizantino: dal 1307 – data del primo sbarco sull’isola – al 15 agosto 1309 quando i Rodioti, greci di fede ortodossa, si arresero, aprendo le porte della città. A Rodi l’Ordine governò in effettiva indipendenza, creando un Ordensstaat (Stato-ordine) di carattere isolano. L’isola divenne fulcro del commercio occidentale in Oriente, un rifugio per la navigazione cristiana, un luogo di sosta importante per i pellegrini diretti a Geru-

salemme, e spesso l’unica forza su cui il papa poteva contare contro i musulmani. Nella città la residenza dei cavalieri fu riunita in un unico quartiere detto Collachium (dal latino colligere, cioè radunare, a indicare l’insieme degli edifici che costituivano il «Convento») situato su una collina che scendeva al mare. Coincideva con la vecchia cittadella bizantina e vi erano riuniti il palazzo del Gran Maestro (nel punto piú alto della città, ultimo rifugio dei difensori), la cattedrale conventuafebbraio

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Rodi. La Porta d’Amboise, uno degli accessi alla città medievale. I cavalieri di S. Giovanni sbarcarono sull’isola nel 1307 e, nel 1310, dopo averne completato l’acquisizione, ne fecero la propria sede.

tra leggenda e realtà

L’impresa di Dieudonné

le di S. Giovanni con un alto campanile a forma di torrione che serviva anche come punto di avvistamento, la loggia di S. Giovanni, l’Ospedale, gli Alberghi delle Lingue e le abitazioni dei cavalieri.

Da cavalieri a marinai

Gli Ospitalieri ebbero i primi contatti con la marineria quando ancora risiedevano in Terra Santa dove, occupando solo una stretta striscia di costiera, potevano essere approvvigionati di merci e uomini solo via

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Si narra che a sud di Rodi, presso il monte Stefano, vivesse un drago che terrorizzava e assaliva i contadini: tutti i cavalieri che avevano cercato di ucciderlo erano morti e dunque il Gran Maestro vietò di provare ad ammazzarlo. Ma il coraggioso cavaliere provenzale Dieudonné de Gozon, desiderando liberare l’isola dalla minaccia, si fece descrivere il mostro e cominciò ad addestrare alcuni cani per tenere impegnato il drago mentre lo colpiva. Il cavaliere riuscí a stanare l’animale e ad abbatterlo, ma il suo gesto eroico fu interpretato come atto di disubbidienza al Gran Maestro, che lo allontanò dall’Ordine. La protesta dei Rodioti, liberati dalla letale presenza grazie al coraggio del cavaliere, fu però tale che si dovette reintegrare Dieudonné nel suo grado. Il racconto, a cominciare dal nome del protagonista, sembra solo una bella leggenda, ma l’esistenza del cavaliere è certa, poiché nei documenti è citato come l’«uccisore del drago» e, nel 1346, fu eletto Gran Maestro, probabilmente anche grazie alla popolarità acquisita. Forse, invece di un drago, si trattava di un grande serpente o di un coccodrillo del Nilo, arrivato per caso a Rodi, senza poter immaginare la presenza di un cavaliere valoroso e temerario al pari di san Giorgio.

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torre dei mulini Nota anche come Torre di Francia o di S. Angelo, prende uno dei suoi nomi dai mulini originariamente presenti sul molo naturale e raffigurati nell’illustrazione.

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L’isola di Rodi in una cromolitografia tratta da una miniatura del XV sec.

torre di naillac Oggi scomparsa a causa di un terremoto, fu innalzata al tempo di Philibert de Naillac, Gran Maestro dal 1396 al 1421. Aveva pianta quadrata e raggiungeva i 46 m d’altezza.

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collachium Situato su una collina che scendeva al mare, il Collachium coincideva con la vecchia cittadella bizantina dell’isola e vi erano riuniti il palazzo del Gran Maestro (nella foto qui a destra un particolare dell’edificio), la cattedrale conventuale di S. Giovanni, con un alto campanile a forma di torrione che serviva anche come punto di avvistamento, la loggia di S. Giovanni, l’Ospedale, gli Alberghi delle Lingue e le abitazioni dei cavalieri.

mare. Solo in seguito alla perdita dei possedimenti sulla terraferma e al trasferimento nell’isola di Cipro, fu loro necessario creare una Marina da guerra. Nel 1300 è citata una flotta gerosolimitana, di cui però non si conosce la consistenza, mentre sei anni dopo, quando l’Ordine iniziò l’occupazione di Rodi, del naviglio facevano già parte un galeone, due galere, una galeotta e due barche minori. Nell’isola egea l’armata fu potenziata, grazie ai Rodioti, che, sin dall’antichità, avevano fama di abili marinai, grandi navigatori e costruttori esperti, in grado di realizzare le migliori imbarcazioni del Mediterraneo. La struttura organizzativa dell’Ordine assegnava per tradizione alla Lingua d’Italia la printorre e forte di s. nicola Fu costruita, tra il 1464 e il 1467, dal Gran Maestro Piero Raimondo Zacosta, e integrata da una fortezza dal Gran Maestro d’Aubusson.

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cipale carica della flotta, quella di ammiraglio, subordinata direttamente al Gran Maestro: trecentosedici ammiragli si succedettero dal 1298 al 1798. E proprio all’ammiraglio spettava il privilegio di presiedere alla commovente e significativa cerimonia che aveva luogo all’entrata in servizio di una galera, nel corso della quale un chiodo d’argento veniva conficcato a prora e uno dorato a poppa.

L’assistenza ai malati

Nonostante l’importanza assunta nei secoli dall’organizzazione della Marina dell’Ordine, la componente assistenziale fu sempre di primario rilievo. Gli Statuti, infatti, dedicano ampio spazio al problema della gestione e delle attrezzature della «Sacra Infermeria», cioè degli ospedali costruiti nel tempo nelle varie sedi. A Gerusalemme il grande blocco di edifici presso il Santo Sepolcro comprendeva un enorme ospedale per i poveri e gli ammalati in grado di ospitare duemila letti, con sale riservate alle donne. La sistemazione

si rifaceva probabilmente a tipologie orientali, soprattutto bizantine, sconosciute in Occidente. Anche a Rodi, tra il 1437 e il 1478, fu costruito un Ospedale Nuovo la cui sala principale era lunga 51 m e larga 12, ma che aveva anche camere isolate. Gli Statuti prevedevano che i pellegrini sani fossero divisi dai malati, che i letti fossero individuali e sufficientemente larghi per poter riposare; che le lenzuola venissero cambiate tre volte la settimana; che – per motivi igienici – i piatti utilizzati per i malati fossero d’argento; che ogni letto avesse a disposizione una coperta e infine che due volte al giorno il malato fosse visitato dai medici accompagnato dagli infermieri e dai cavalieri di turno: i Gerosolimitani furono forse i primi a concepire un ospedale in termini moderni, anche perché era prevista l’esistenza di una farmacia, per i cui preparati ci si rifaceva alle conoscenze della medicina araba. L’Ordine creò anche nosocomi in tutti gli altri possedimenti: a Corinto, a Negroponte (antico nome dell’isola di Eubea, in Grecia, n.d.r.), a Civitavecchia e, soprattutto, il piú grande e funzionale a Malta. A Rodi i cavalieri si resero subito conto della necessità di potenziare le fortificazioni perché le loro attività marinare avrebbero provocato una reazione musulmana. E infatti l’isola venne attaccata dai mamelucchi d’Egitto nel 1440 e nuovamente quattro anni dopo, ma riuscí a resistere. Caduta Costantinopoli nel 1453, furono gli Ottomani a mettere in pericolo i Gerosolimitani, che dal 1476 erano guidati dal Gran Maestro alverniate Fra Pierre d’Aubusson, il quale, in vista dell’attacco aveva provveduto a realizzare importanti opere difensive. Nel 1480 il sultano Maometto II per ottenere il controllo sull’Egeo e basso Adriatico assediò e prese Otranto e attaccò Rodi. L’assedio si svolse da maggio a luglio e i Turchi fecero grande uso dell’artiglieria, già sperimentata a Costantinopoli e che avevano in seguito perfeziona-

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Dossier Il palazzo del Gran Maestro

Una rinascita filologicamente discussa Dopo la caduta della città in mano ai Turchi, il complesso del Collachium fu prima utilizzato con poche trasformazioni, poi, dal Settecento, venne abbandonato, a causa dei danni causati da ripetuti terremoti. Agli inizi dell’Ottocento la torre della cattedrale era semidiroccata e da essa si innalzava un minareto. Alla metà del secolo il complesso era in abbandono, ma, nel 1856, l’esplosione di una polveriera ubicata sotto la cattedrale causò la perdita della chiesa e altri danni notevolissimi, mentre il palazzo del Gran Maestro era stato trasformato dai Turchi in prigione militare. Questa era la situazione trovata dal corpo di spedizione italiano sbarcato a Rodi nel 1912, che utilizzò l’edificio come caserma fino al 1934. Il ripristino del Palazzo magistrale fu voluto dal Governatore del Dodecaneso

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Italiano, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, al quale non interessava una ricostruzione filologicamente corretta, ma che l’edificio fosse adatto a funzioni di rappresentanza e per accogliere l’ufficio del Governatore. L’assenza di documentazione iconografica antica avrebbe in ogni caso impedito una ricostruzione di carattere scientifico: i lavori, affidati a Vittorio Mesturino, architetto della Soprintendenza piemontese, si protrassero dal 1937 al 1940 e furono ultimati poco prima dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, tanto che il de Vecchi poté utilizzare gli ambienti solo per breve tempo. L’aggiunta di un piano superiore conferí all’edificio uno sviluppo in altezza maggiore di quello originario, ma, per quanto ricreato dal nulla, riproponeva elementi, murature e tipologie spaziali del piano sottostante. Erano cosí presenti

soffitti a cassettoni lignei insieme a volte a crociera costolonate, mentre per le colonne e gli archi si imitarono esempi rodioti. A vari pittori italiani furono commissionati affreschi, e pregevoli manufatti antichi furono accostati a mobili in stile. Vennero anche utilizzati reperti archeologici, in particolare mosaici pavimentali, provenienti dagli scavi dell’isola di Coo. Un pensiero politico preciso sottintendeva all’operazione: al nuovo edificio si chiedeva di somigliare a quello dei Gran Maestri ma, insieme, di essere piú imponente e splendido a dimostrazione dei nuovi tempi. Oggi, passati settant’anni, questo intervento rivela il gusto di un’epoca e insieme la perizia tecnica del progettista e delle maestranze che hanno saputo ricreare il Palazzo Magistrale in una sorta di attardato neomedievalismo.

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to. Gli assalitori cercarono di impadronirsi del porto, accanendosi contro la torre di S. Nicola che ne dominava l’ingresso, ma la tenace resistenza opposta dai cavalieri riuscí a respingere gli attacchi; sebbene il Gran Maestro fosse gravemente ferito, gli assalitori vennero respinti e massacrati. I cavalieri riuscirono dunque a rigettare l’attacco e a confermare per un quarantennio all’isola la sua reputazione di baluardo contro la potenza ottomana.

Uno scontro epocale

Ma dopo questo periodo di relativa tranquillità, nel luglio 1522, fu Solimano il Magnifico a porre l’assedio a Rodi, che rappresentava un pericolo per il consolidamento del suo impero, da poco allargato con la conquista di Belgrado: 400 vele nemiche sbarcarono 200 000 uomini, secondo l’affermazione dello storico Giacomo Bosio, che ritiene che l’Ordine annoverasse 600 cavalieri, coadiuvati da abitanti di Candia, da Rodioti e dai marinai fatti sbarcare dalle navi: in tutto 7500 combattenti. In casi simili, le cifre vanno prese con beneficio d’inventario, ma si trattava certamente di forze immense messe in campo contro una piccola isola e pochi difensori. Nonostante la sproporzione numerica, Rodi resistette fino a dicembre, grazie anche al veneziano Gabriele Tadini, priore di Barletta, uno dei piú capaci ingegneri militari dell’epoca, che riuscí a sventare molti attacchi che gli zappatori e i genieri turchi preparavano scavando cunicoli sotto le torri di difesa per sistemarvi cariche esplosive. Quanto al tradimento del cavaliere portoghese Andrea d’Amaral, Gran Cancelliere dell’Ordine, la sua tortura e successiva esecuzione non aiutarono a conoscere la verità, sulla quale gli storici continuano a discutere. Nonostante gli atti di eroismo dei cavalieri, privi però di aiuti Nella pagina accanto Rodi, Palazzo del Gran Maestro. Uno dei saloni dell’edificio, restaurato e ampliato dagli Italiani tra il 1937 e il 1940.

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dal mondo cristiano, la situazione volse al peggio, ma anche i Turchi – con l’arrivo dell’inverno – non erano in condizioni molto migliori. Per questo motivo, in dicembre, offrirono condizioni di resa favorevoli: i Rodioti erano propensi ad accettare, mentre il Gran Maestro Villiers de l’Isle Adam, avrebbe preferito morire piuttosto che arrendersi. Ma, alla fine, vinse il partito favorevole e il 26 dicembre il Gran Maestro si recò da Solimano per procedere alla resa ufficiale. La sera del 1° gennaio 1523 i cavalieri, seguiti da molti abitanti di Rodi, lasciarono l’isola che per 213 anni era stata la loro patria, con

Miniatura con gli Ottomani di Maometto II che si preparano ad attaccare Rodi, da un’edizione della Obsidionis Rhodiae urbis descriptio di Guillaume Caoursin. Parigi, Bibliothèque nationale.

l’onore delle armi, imbarcati sulla flotta che era incredibilmente rimasta intatta durante l’offensiva nemica. Portavano al seguito gli archivi dell’Ordine, importanti reliquie riunite nei secoli e la venerata icona della Madonna di Fileremo. Il Gran Maestro era a bordo della galera Santa Maria «con un solo stendardo issato a mezz’asta sul quale era dipinta l’immagine della gloriosa Vergine Maria».

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Cavalieri dell’ economia, della cultura e dell’arte carriere illustri sotto il segno della croce

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hi entrava nell’Ordine gerosolimitano? Fra i cavalieri, soprattutto i figli cadetti di famiglie nobili, che non avrebbero trovato spazio in patria e contavano di procurarsi altrimenti una rendita e di ottenere anche grandi onori. Ma, sicuramente, erano mossi anche da un notevole coraggio e dal desiderio di combattere gli «infedeli». La carriera del cavaliere era scandita da formalità, anche se per tutto il Quattro e Cinquecento ancora non troppo rigide: doveva produrre le prove di nobiltà che venivano vagliate dall’Ordine e, se ammesso, pronunciava i voti di povertà, castità e obbedienza, divenendo «cavaliere professo di giustizia». In qualità di novizio, doveva prestare servizio a Rodi nelle «caravane» o «carovane», come venivano chiamate le campagne marittime contro gli infedeli. Poiché l’anzianità era determinata dagli anni di servizio nell’isola, i cavalieri vi passavano lunghi periodi, auspicando poi di ottenere una commenda con un buon reddito in Occidente, mentre alcuni preferivano restare per conseguire una delle cariche distribuite tra le varie Lingue. Ma tutti, indistintamente, dovevano (anche se in teoria, come dimostra il vano appello del Gran Maestro d’Aubusson durante l’assedio del 1480) rientrare al piú presto a Rodi in caso di pericolo.

Fede e coraggio

I cavalieri vivevano nel Collachium impegnati nella preghiera, nell’esercizio delle armi e nella assistenza ai malati. Le Lingue disponevano di alloggi per i propri membri, mentre gli Alberghi erano edifici prestigiosi nei quali si riunivano i cavalieri di una stessa nazionalità per definire le questioni relative all’organizzazione e alla distribuzio-

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Un’altra miniatura tratta dalla Descriptio di Guillaume Caoursin raffigurante il Gran Maestro Pierre d’Aubusson che sovrintende alla costruzione di nuove fortificazioni a Rodi. Parigi, Bibliothèque nationale.

ne di commende e priorati in base all’anzianità. Diverso da quello abituale fu l’iter seguito da Bartolomeo di Lapo Benini, giunto a Rodi come fattore del banco fiorentino dei Bardi nel

1335 e che divenne cavaliere solo nel 1338. Il Benini ottenne quasi subito la commenda fiorentina di S. Jacopo in Campo Corbolini, ma, a causa della sua assenza, un altro cavaliere, definito rector, ne amministrava febbraio

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i beni. I suoi progressi all’interno dell’Ordine furono tanto rapidi che, nel 1349, risulta priore di Messina, e successivamente di Venezia, Roma e Pisa e piú tardi ammiraglio, carica che comportava anche la rappresentanza della Lingua d’Italia. Assunto questo incarico, il Benini trascorse la maggior parte del tempo a Rodi, dove morí nel 1376. Mantenne comunque contatti commerciali con la sua famiglia e con Firenze, tanto che Andrea di Bonaiuto sembra aver immortalato la sua fisionomia nel cavaliere con la berretta che appare a

lato di papa Urbano V nella Allegoria della Chiesa e dell’Ordine domenicano, affrescata prima del 1369. Il fratello Bindo era suo procuratore e risulta anche banchiere dell’Ordine, oltre che committente di un trittico di Giovanni del Biondo, nel quale san Giovanni Battista porta il mantello nero dalla croce bianca ottagona dei

cavalieri gerosolimitani sulla pelle di cammello. Se gli interessi del Benini appaiono essenzialmente commerciali, Fra Pierre d’Aubusson affiancò invece astuzia e sagacia politica a coraggio e abilità militari. Francese della Lingua d’Alvernia, nacque nel 1423 e giunse ventunenne co-

Riproduzione di una miniatura raffigurante Gem, secondogenito di Maometto II, a bordo di un’imbarcazione in cui alcuni Ospitalieri gli preparano i pasti nel timore che possa altrimenti essere avvelenato. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

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Dossier me novizio a Rodi, dove lo aspettava una rapida carriera. Le sue doti diplomatiche lo fecero scegliere nel 1454 dal Gran Maestro de Lastic per l’importante missione diplomatica volta alla ricerca in Occidente di uomini, armi e aiuti finanziari contro i Turchi. Avendo conseguito la carica di Capitano Generale, si occupò dell’ammodernamento delle fortificazioni dell’isola al posto del Gran Maestro ormai vecchio e malato. Eletto Gran Maestro nel 1476, in vista del preventivato attacco di Maometto II a Rodi, provvide a realizzare imponenti opere difensive: fece edificare nuove torri, erigere mura e tendere una catena di ferro molto robusta tra due torri, per chiudere l’accesso al Porto del Commercio. Quando poi l’attacco venne sferrato da Maometto II, il d’Aubusson fu sempre in prima linea nei combattimenti: un suo dispaccio a tutti i La Valletta (Malta). Il forte S. Elmo, a pianta stellare. La prima fondazione risale al 1551 e fu impiantata sul sito di una piú antica torre. La fisionomia attuale è frutto di interventi e ampliamenti effettuati nel XVII e poi nel XIX sec.

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fratelli dell’Ordine sparsi in Europa per richiamarli nell’isola in pericolo, restò però inascoltato. Durante l’assedio dovette sventare inganni di spie al soldo del nemico, complotti alla sua persona, fu ferito quattro volte in modo lieve, prima che un gigantesco giannizzero gli perforasse il polmone con una lancia.

Una ritirata inattesa

Rodi sembrò perduta, ma, incredibilmente (varie sono le interpretazioni dell’avvenimento), i Turchi si ritirarono e il loro vessillo venne catturato. Il Gran Maestro d’Aubusson riuscí a guarire grazie ai medici dell’Ordine e all’igiene che caratterizzava l’ospedale rodiota. Temuto e ammirato dai Turchi, ebbe un ruolo significativo nella successione a Maometto II: il secondogenito, Gem, contese il trono al fratello maggiore, Bayazid II, che però lo vinse. Gem cercò allora protezione presso i cavalieri gerosolimitani e in particolare proprio dal d’Aubusson, che conosceva per essere stato ambasciatore presso l’Ordine. Giunto a Rodi nell’estate del 1482, il principe turco fu accolto con grandi festeggiamenti e trattato come ospite

personale del Gran Maestro, il quale però, credendo – o fingendo di credere – che la permanenza sarebbe stata troppo pericolosa per l’isola e per Gem stesso, lo fece trasferire in Francia, nella casa madre della «sua» Lingua d’Alvernia. Le vicende successive sono intricate e discusse, perché il d’Aubusson si premuní accordandosi con Gem nel caso di sua vittoria ma, essendo piú probabile il successo del fratello maggiore, firmò con questi un trattato di pace da una posizione di vantaggio: Gem, infatti, era ostaggio dell’Ordine e costituiva una minaccia per il fratello. Bayazid si impegnò a pagare una somma ingentissima affinché il fratello fosse trattenuto in Europa e anche una ricompensa annuale per i danni che il padre Maometto II aveva arrecato all’isola nel corso dell’assedio del 1480. L’accordo fu accompagnato dal dono al d’Aubusson della reliquia della mano di san Giovanni Battista. Ma nel 1489 papa Innocenzo VIII – in vista di una crociata – chiese che Gem fosse trasferito alla corte pontificia, dove visse piú come ospite che come prigioniero, fino a che, per una clausola della conven-

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La Valletta (Malta). Un altro degli ambienti del Palazzo del Gran Maestro. In primo piano, lo stemma di Philippe de Villiers de l’Isle-Adam, che resse l’Ordine dal 1521 al 1534.

zione ratificata nel 1495 tra Carlo VIII e il nuovo papa Alessandro VI Borgia, fu consegnato al sovrano francese come ostaggio in vista della progettata campagna contro i Turchi. La morte improvvisa di Gem in circostanze misteriose fece parlare di veleno e l’accusa cadde immancabilmente sui Borgia, che avrebbero agito istigati da Bayazid. Il Gran Maestro d’Aubusson è stato accusato di aver cinicamente disposto del turco come pedina utile ai propri scopi, poiché i vari accordi – sulla pelle dello sfortunato principe turco – consentirono all’Ordine di risollevarsi economicamente dall’assedio del 1480 e da un disastroso terremoto, concedendo un periodo di tregua alle sue provate forze militari. Proprio le scene della permanenza di Gem a Rodi (ricordato con il nome di Zizim, con cui veniva chiamato nell’Occidente cristiano), dell’assedio del 1480 e del terremoto

da rodi a roma, passando per malta

Lunghe peregrinazioni Obbligato ad abbandonare Rodi, l’Ordine riparò a Civitavecchia, quindi a Viterbo, Villafranca, Nizza e Siracusa, finché, nel 1530, ottenne ufficialmente dall’imperatore Carlo V (nella sua qualità di re di Sicilia) il feudo dell’isola di Malta con Gozo e Comino e il possesso di Tripoli d’Africa, in cambio del tributo simbolico annuale di un falcone maltese. L’impresa dell’espugnazione di Rodi fu ritentata da Solimano, ormai vecchio, il quale, nel 1565, pose a Malta l’assedio che passò poi alla storia come il «Grande Assedio», ma i cavalieri riuscirono a resistere (anche perché, contrariamente a quanto era accaduto a Rodi, ottennero soccorso dai principi cristiani) e nel 1571 parteciparono alla gloriosa battaglia di Lepanto, che eliminò i Turchi dal Mediterraneo. Da quel momento la flotta melitense mantenne soprattutto un servizio di salvaguardia contro i pirati barbareschi, ma quando sorsero sull’Atlantico i grandi imperi marittimi, neppure l’Ordine si sottrasse alla lenta decadenza che colpí gli Stati mediterranei. Il 12 giugno 1789 Napoleone entrò a La Valletta e impose al Gran Maestro von Hompesch l’abbandono di Malta: cessata la sovranità sull’isola l’insegna venne ammainata dalle navi e la Marina scomparve per sempre. Anche nella maggior parte d’Europa, con l’arrivo dei Francesi, i Gerosolimitani vennero soppressi e si pose fine alla loro opera, con l’acquisizione dei loro possedimenti e lo scioglimento dell’organizzazione. L’Ordine fu costretto a lunghe peregrinazioni; il Gran Maestro, accusato di indecisione e pusillanimità, venne deposto e una parte dei cavalieri elesse in sua vece lo zar Paolo I. Percorso da grave crisi e retto spesso da luogotenenti, a lungo l’Ordine gerosolimitano vagò da Trieste a Catania a Ferrara (1826), ma, dal 1834, si è stabilmente trasferito a Roma, dove ha ripristinato, sviluppandolo, l’originario ruolo caritativo.

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Dossier dell’anno successivo, appaiono nelle miniature realizzate tra il 1483 e il 1489 e commissionate dal d’Aubusson, che illustrano episodi volti a sottolineare il valore dei Cavalieri, narrati dal vice cancelliere dell’Ordine Guillaume de Caoursin. Il prestigio del d’Aubusson si accrebbe notevolmente per le fortunate trattative sul «caso Gem», a seguito delle quali fu insignito del titolo cardinalizio, ottenendo di applicare l’insegna gerosolimitana alle vesti da cardinale, un privilegio che nei secoli fu concesso solo a due altri membri dell’Ordine. Il Gran Maestro Fra Pierre d’Aubusson morí ottantenne nel 1503, onorato e stimato.

Antichità per Isabella

Il cavaliere milanese Fra Sabba da Castiglione, piú che per le gesta eroiche e la sagacia politica, si distinse per la profonda cultura. Entrato nell’Ordine gerosolimitano

La Valletta (Malta). L’armeria del palazzo del Gran Maestro, con esemplari di armi e armature usate dai cavalieri durante la loro permanenza sull’isola.

nel 1505, passò i tre anni successivi a Rodi impegnato nelle carovane, ma anche nella ricerca di marmi antichi per la collezione di Isabella d’Este Gonzaga. La passione del cavaliere per i reperti classici è attestata dalla «denuncia» contro il Gran Maestro Fra Emery d’Amboise che permetteva la distruzione di sculture antiche per farne calce. Descrisse gli altri cavalieri come incivili che non sapevano fare altro che usare le armi e lo ritenevano un esaltato per il culto tributato alle vestigia dell’antichità. Trasferitosi a Roma, Fra Sabba fu ambasciatore dell’Ordine presso la curia pontificia, ma nel 1517 fu richiamato a Rodi, minacciata dai Turchi; al ritorno si ritirò a Faenza

Ospitalieri del XXI secolo

Monete, stemmi, francobolli... Il 28 gennaio 1961 una sentenza del Tribunale Civile di Roma ha riconosciuto l’Ordine come ente sovrano internazionale: questo riconoscimento ha comportato l’extraterritorialità delle sue sedi, il diritto di battere bandiera su navi e aerei (e la conseguente immunità diplomatica), di rilasciare passaporti e di targare le proprie vetture, di battere moneta ed emettere francobolli. L’Ordine ha sede a Roma nel Palazzo al numero 68 di via Condotti e nell’edificio sull’Aventino riprogettato da Giovanbattista Piranesi nel 1765, con la chiesa di S. Maria del Priorato, il palazzo e il giardino. L’attività attuale si esplica esclusivamente in campo assistenziale, come al momento della fondazione, con la gestione di realtà ospedaliere, ambulatoriali e benefiche in tutto il mondo. I cavalieri sono oggi circa 10 000: i cavalieri «di giustizia» pronunciano i tradizionali voti di povertà, castità e obbedienza, gli altri sono detti «d’onore e devozione» e di «grazia e devozione», distinti dall’appartenenza dei primi alla nobiltà. Dal 1961, dopo circa un secolo e mezzo di interruzione, il Sovrano Militare Ordine di Malta ha ripreso a battere moneta per continuare la serie monetale che ha emesso per secoli. Le prime monete furono coniate in argento a Rodi, subito dopo la conquista dell’isola, e portano il nome del Gran Maestro Foulques de Villaret. Con un decreto del 20 maggio 1966 il Gran Maestro Fra Angelo de Mojana istituí le Poste Magistrali del Sovrano Militare Ordine di Malta, la cui prima emissione risale al 15 novembre di quell’anno; i francobolli sono stampati in rotocalco, su carta con filigrana a croci di Malta multiple. La tematica, anche nelle emissioni successive, è legata ai valori storici, artistici e religiosi dell’Ordine.

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nella commenda di S. Maria Maddalena, dove riuní una biblioteca nella quale ammise il pubblico e fondò una scuola per giovani poveri. A lui si deve il rinnovamento in forme rinascimentali del chiostro della casa commendale e la commissione a Girolamo da Treviso degli affreschi dell’abside della chiesa. Quando poi, malato, rinunciò alla commenda in favore di un nipote, attese alla stesura dei Ricordi ovvero ammaestramenti, nei quali reinterpretò l’ideale medievale del cavaliere alla luce della cultura rinascimentale. Proprio negli stessi anni era a Rodi un valoroso cavaliere, il piemontese Fra Ludovico di Scalenghe che, con fervore ammirato, definí i Gerosolimitani che per due secoli si erano avvicendati nell’isola: «Gentilhuomini Christiani e Religiosi Cavalieri, inviolabili osservatori della promessa e della parola loro, inchinati sempre alle cose giuste e honeste». V

Da leggere U Ernle Bradford, Lo scudo e la

spada. Storia dei Cavalieri di Malta, Mursia Milano, 1979 U Henry J. A. Sire, The Knights of Malta, Yale University Press, New Haven and London 1994 U Ubaldino Mori Ubaldini, La Marina del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971 U Anthony Luttrell, The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the West 1291-1440, London, 1977 U Lungo il tragitto crociato della vita (catalogo della mostra; a cura di Laura Corti e Francesco Amendolagine), Marsilio, Venezia 2000 U «Gentilhuomini Christiani e Religiosi Cavalieri». Nove secoli dell’Ordine di Malta in Piemonte (catalogo della mostra; a cura di Tomaso Ricardi di Netro e Luisa Gentile), Electa, Milano 2000 U Pietro De Leo (a cura di), Viaggi di monaci e pellegrini, Rubbettino, Milano 2002

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dimensione guerra il solenarion

Frecce come

Su un fregio della basilica di S. Nicola, a Bari, compare un arciere che sembra impugnare una sorta di balestra. Con ogni probabilità si tratta, invece, di un normale arco, al quale era applicato un accessorio, il solenarion, usato dall’esercito bizantino: un marchingegno capace di moltiplicare la gittata dei tiri fino a diverse centinaia di metri 90

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in dall’antichità, la logica del cozzo campale tra due eserciti (ancora oggi, peraltro, non del tutto dismessa) è consistita nell’anticipare il contatto fisico con lo scagliarsi reciprocamente contro proietti la cui capacità vulnerativa si dimostrava tanto piú efficace quanto maggiori ne fossero stati il peso e la gittata. Connotazioni che si confermarono, e si confermano, inesorabilmente antitetiche, per cui, al crescere dell’uno, deve inevitabilmente decrescere l’altra e viceversa. L’opzione prioritaria, però, preferí sempre incrementare la gittata a discapito del peso. Dal punto di febbraio

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pallottole

di Flavio Russo

Illustrazione di una edizione della Cronaca di Giovanni Scilitze raffigurante l’assedio di Costantinopoli da parte delle truppe guidate da Leone Tornicio, che, nel 1047, cercò di destituire l’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco. XII sec. Madrid, Biblioteca Nacional. Si vedono all’opera numerosi arcieri, che dovevano verosimilmente disporre anche del solenarion, l’accessorio che permetteva di scagliare frecce da grandi distanze.

vista tattico, infatti, chi disponeva di armi o di sistemi d’arma capaci di offendere a distanza maggiore dell’avversario godeva del cospicuo vantaggio, spesso risolutivo, di percuoterlo senza subirne la simmetrica reazione. Assai di rado, tuttavia, la superiorità sopravvisse al primo confronto o alla singola battaglia, dal momento che armi equivalenti in breve tempo erano acquisite o riprodotte dal nemico di turno, a patto che disponesse delle necessarie competenze tecnologiche. Quanto fosse importante disporre di una maggiore gittata si può dedurre dall’aver sacrificato, non di rado, la letalità del tiro di molte armi da lancio a favore di

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un suo allungamento, col risultato, nella migliore delle ipotesi, di ferire soltanto i colpiti, senza eliminarli definitivamente. Quell’apparente «clemenza», in realtà, non faceva altro che posticipare la morte, che, per le infime conoscenze medico-chirurgiche, sopraggiungeva anche a seguito di lesioni lievi, dopo pochi giorni, per emorragia, setticemia, cancrena, tetano, ecc. Appare allora piú sensato interpretarla come una cinica scelta tattica, poiché ferire un soldato in un reparto che avanza risulta di gran lunga piú penalizzante della sua uccisione. Costringe, infatti, i commilitoni a soccorrerlo, distraendoli dal combattimento,

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dimensione guerra il solenarion come la canna di un fucile

Ricostruzione assonometrica di un solenarion metallico tubolare. Si tratta di un sorta di canna, perlopiú in ferro, tagliata longitudinalmente per far fuoriuscire il piccolo gancio del cilindretto posto al suo interno. Questo, trascinato dalla corda, scagliava la freccia, collocata anch’essa nella canna e perciò priva di impennaggi.

La canna era ottenuta curvando un lamierino di ferro su di un tondino d’acciaio, senza saldarlo per l’intera lunghezza, ma solo in prossimità della bocca, lasciandovi perciò un’asola longitudinale.

Anche se nella ricostruzione non risulta visibile, presso la bocca della canna il taglio longitudinale si interrompeva, per impedire la fuoriuscita del cilindretto al termine della corsa di lancio.

Un cilindretto di ferro, munito di gancio superiore, scorreva nella canna quando la corda dell’arco lo trascinava, e, a sua volta, trascinava la freccia, scagliandola dalla bocca, dove si arrestava.

Un tappo di bronzo chiudeva la canna una volta inseritovi dentro il cilindretto, impedendogli cosí di fuoriuscirne accidentalmente. Pertanto il cilindretto restava sempre nella canna, non potendone uscire né da dietro, per il tappo, né davanti, per la saldatura.

e magari a esporsi piú del necessario e, soprattutto, li avvilisce psicologicamente, provocando scelte crudeli sulla loro sorte. Sarebbe perciò azzardato sottovalutare armi siffatte, relegandole fra quelle militarmente ininfluenti o velleitarie: una stima che, invece, andrebbe ponderata in base all’efficacia effettiva, ribadita dall’adozione in eserciti di elevata competenza.

Frecce corte e leggere

Fu questo il caso del «solenarion», un elementare accessorio dell’arco composito che debuttò nelle armate bizantine, tra le piú addestrate e preparate del Medioevo, intorno al VII-VIII secolo. Esso permetteva di scagliare piccole frecce, lunghe meno della metà delle usuali e quindi piú leggere, a distanze inusitate. Lo strano nome gli fu imposto sicuramente dagli arcieri imperiali e, purtroppo, la sua deperibilità non ce ne ha lasciato alcun esemplare, anche a causa della sua rapida dismissione con l’avvento della balestra.

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In greco solen significa «tubo», «canale» e solenarion ne è il diminutivo, da tradursi perciò come «tubetto» o «canaletto»: stando a varie descrizioni coeve, infatti, somigliava proprio a un piccolo tubo di ferro, percorso per la sua intera lunghezza da un sottile taglio regolare; stando ad altre, invece, somigliava a un regolo di legno, inciso, sempre longitudinalmente, da uno stretto solco. In entrambi i casi una piccola freccia, tanto corta che nessun arco poteva scagliare, si inseriva nel tubo o si poggiava sul solco prima di esserne espulsa. La sua modalità d’impiego si può desumere dalla prassi arciera: l’arco si metteva in tensione tenendone l’impugnatura centrale con la mano sinistra e traendone con la destra la corda, nella quale stava inserita la cocca della freccia. La tensione si raggiungeva quando il braccio sinistro stava completamente proteso in avanti e l’avambraccio destro piegato all’indietro, difebbraio

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quasi come una balestra

Il regolo di legno era sagomato in basso, in modo da incastrarsi nell’impugnatura centrale dell’arco, favorendo, con la sua stabilità, il maneggio da parte dell’arciere, che doveva limitarsi a tenerlo aderente.

Ricostruzione assonometrica di un solenarion ligneo. Ottenuto con un regolo inciso per la sua intera lunghezza da una scanalatura centrale, in cui veniva posta la freccia, munita di impennaggi, rendeva l’arma simile a un’antesignana balestra.

La scanalatura centrale doveva essere meno profonda del raggio dell’asta della freccia, per garantire cosí alla corda di poter impegnare diametralmente la cocca e alle due piume dell’impennaggio di non strofinare sul regolo.

Il legno usato per i solenaria doveva essere abbastanza rigido da sopportare, senza deformazioni, la sollecitazione di caricamento quando la corda dell’arco era tesa al massimo.

L’estremità posteriore del solenarion ligneo era appena piú stretta dell’impennaggio della freccia, per cui le piume ne fuoriuscivano lateralmente, riducendo cosí gli attriti per eventuali contatti.

stanza che in gergo viene definita «allungo», variabile da uomo a uomo. La freccia, pertanto, un istante prima del tiro, doveva avere la cocca nella corda e la cuspide fuoriuscente dall’impugnatura, ovvero doveva essere appena maggiore dell’allungo, di entità pari a circa1200 mm. Dal momento però che le forniture di un esercito contemplavano decine di migliaia, se non centinaia di migliaia di frecce, queste dovevano essere standardizzate forse in due o tre misure al massimo, per prestazioni mediamente accettabili.

Gittate eccezionali

Per gli archi compositi di grandezza normale, ciò significava una freccia lunga fra i gli 800 e i 1000 mm, con un diametro di circa 8-10 mm, e un peso, impennaggio incluso, fra i 30 e i 40 g, che si riduceva ad appena 18-20 g quando la lunghezza scendeva a 350-400 mm. Ma una freccia cosí corta rispetto all’allungo non può

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essere scagliata da un arco normale e, a questo punto, subentrava il solenarion, reputato dai Bizantini tatticamente significativo per la sua superiore gittata, forse eccedente i 250-300 m. Attualmente, tiri eseguiti solo per raggiungere le massime distanze sono detti «di gittata» e costituiscono una particolare branca dell’arcieria. Da diversi anni hanno superato gli 800 m e spesso si avvalgono di una moderna versione del solenarion, detta «sovrallungo» o «overdraw» che permette, al pari dell’accessorio bizantino di tirare frecce piú corte, piú leggere e meno resistenti dal punto di vista aerodinamico. Il solenarion non veniva in alcun modo fissato stabilmente all’arco, ma, forse, solo incastrato al profilarsi dell’impiego, riducendo in tal modo lo sforzo dell’arciere. In ogni caso lo si manteneva aderente all’impugnatura dell’arco con la mano destra e aderente alla corda con la mano sinistra, alla quale restava vincolato con un laccio che ne impediva la perdita dopo il tiro. Definibi-

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dimensione guerra il solenarion le con appropriata dizione moderna «guidafrecce» non sembra essere stata una vera invenzione bizantina, ed è verosimilmente il perfezionamento di esemplari arabi o persiani. La sua adozione è testimoniata nello Strategikon di Maurizio, scritto appunto tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo, dove nel XII libro, relativo alle «Formazioni miste», si può leggere che i fanti armati alla leggera, dovevano portare l’arco sulla spalla con una grande faretra contenente almeno trenta o quaranta frecce, e alcuni: «solenaria di legno con piccole frecce (…) Grazie a essi, con l’arco, si lanciano a grande distanza frecce che sono inutilizzabili dal nemico» (Das Strategikon des Maurikios, edizione a cura di George T. Dennis, Vienna 1981; p. 422, XII, B, 5).

«Mosche» invisibili

E anche nell’appendice ai Taktika dell’imperatore Leone VI (IX-X secolo) si può leggere questo preciso ragguaglio sulla loro dotazione: «due solenaria con piccole frecce e un’altrettanto piccola faretra: le piccole frecce sono chiamate myas («mosche», n.d.T.). Siffatte frecce sono utili da usare in guerra poiché con gli archi esse sono scagliate lontanissimo e sono invisibili ai nemici grazie alle loro piccole dimensioni, colpiscono veloci e sono inutilizzabili dal nemico» (da Sylloge tacticorum, edizione a cura di Alphonse. Dain, Parigi 1935; p.77, XII, 8). Va ancora osservato che le corte frecce dei solenaria, proprio per la loro dimensione ridotta, risentivano

meno delle deformazioni prodotte dall’accelerazione iniziale del lancio, per cui, pur non essendo utilizzate per tiri mirati, grazie alla preponderanza della cuspide dopo regolari traiettorie, si abbattevano di punta sul nemico, scompaginandone le file. E quando le distanze diminuivano, smontati i solenaria, si scagliavano le frecce normali. Stando ad alcuni studiosi disponiamo di un’unica raffigurazione del solenarion: quella scolpita nel fregio che orna la Porta dei Leoni della basilica di S. Nicola di Bari, il sontuoso portale aperto sulla facciata nord della chiesa e databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. In essa si vede un arciere impugnare un’arma che per connotazioni geometriche non è un arco e neppure una balestra, e va perciò identificata con un arco munito di solenarion. Da un punto di vista costruttivo, come accennato, i solenaria potevano essere realizzati con un tubo munito di una ininterrotta asola laterale o di un regolo scandito da un solco longitudinale: la funzione di guidafreccia era sostanzialmente identica dal punto di vista balistico, ma non da quello operativo. Nel primo tipo, dalla canna tagliata fuoriusciva un piccolo gancio, solidale a un cilindro interno alla stessa a contatto con la freccia, che impegnava la corda dell’arco. Al rilascio della corda, questa trascinava violentemente il cilindro, provocando l’espulsione della freccia, che fuoriusciva velocissima, quasi come dall’anima di un antesignano fucile. Ovviamente, per ridurre gli attriti le frecce non dovevano aver impennaggi, ma la sola

il «guidafreccia» in metallo... La canna del solenarion metallico non era chiusa, per consentire, mediante una lunga asola, al gancio del cilindretto interno di fuoriuscirne per essere impegnato dalla corda.

L’asta della freccia, priva di impennaggi nei solenaria metallici tubolari e con impennaggio diametrale in quelli lignei a regolo, era talmente corta da non potere essere scagliata da alcun arco normale, per cui il nemico non poteva rilanciarla.

Il piano di curvatura dell’arco veniva a trovarsi in entrambe le tipologie di solenarion sempre al di sotto del loro dorso, per cui la corda, in fase di lancio, vi strofinava sopra, trascinando saldamente il gancio negli esemplari metallici e direttamente la freccia in quelli lignei.

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Bari, basilica di S. Nicola, Porta dei Leoni. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Nel fregio che orna la lunetta si riconosce un arciere che, con ogni probabilità, si sta servendo di un solenarion: si tratterebbe della sola testimonianza a oggi nota di questo dispositivo.

cuspide di ferro. Circa il maneggio non vi erano posizioni obbligate, potendosi disporre l’arco sia verticalmente che orizzontalmente. Nel secondo tipo, essendo il canale aperto, la freccia poteva conservare l’impennaggio con due alette,

...e quello in legno

La cuspide in ferro della freccia era lunga circa un terzo della stessa e ne costituiva la parte preponderante del peso, per cui ne regolarizzava la traiettoria, facendola impattare sempre di punta.

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ma poteva essere adoperato solo con l’arco in posizione orizzontale. Somigliava allora a una sorta di balestra semplificata, in quando priva del dispositivo di scatto inutile per le modeste forze in gioco. E a questo tipo sembra riferirsi il fregio della basilica di Bari. F

La cuspide della freccia, per le ridotte dimensioni dell’asta, aveva l’innesto a gorbia di pari diametro, appena maggiore della cuspide, in modo che il suo spigolo non arasse il legno.

Sia che fosse di ferro o di legno, il solenarion era munito anteriormente di un alloggiamento rettangolare che serviva a incastrarlo rigidamente nel fusto dell’arco, alleviando cosí lo sforzo dell’arciere a tenervelo fissato.

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musica la guerra di serrezzana

Battaglia a colpi di note Ispirata con ogni probabilità alla contesa tra Firenze e Genova per il possesso della fortezza ligure di Sarzanello, La Guerra di Serrezzana, opera del fiammingo Heinrich Isaac, è una sorta di agiografia in musica. Scopo della composizione, infatti, era quello di celebrare, attraverso la vittoria riportata dalla signoria medicea, le glorie e il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico

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di Franco Bruni

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N «N

el mille quattrocento ottanta e sette / Del mese ‘i marzo a giorni ventotto, / Le genti di san Giorgio armate e strette, / A mezo giorno in su l’ore diciotto, / Con messere Gianluvisi [Gianluigi Fieschi, capitano genovese] che l’ha rette, / E messer Bietto [Obietto Fieschi] molto ardito e dotto, / Armati, s’inviorno in un drappello / Verso il bel monte di Serezanello». Cosí recita la seconda strofa di un breve poema anonimo in ottava rima, La Guerra di Serrezzana, stampato a Firenze nel 1862, ma originariamente composto – come si evince dal capoverso – dopo il 1487. Il testo, probabile opera di un rappresentante della Signoria medicea – forse dell’araldo di Firenze Francesco di Lorenzo Filareti – narra l’episodio conclusivo di una prolungata avventura bellica intercorsa tra la repubblica genovese e la signoria

In alto particolare dello spartito di una Messa a quattro voci composta dal musicista fiammingo Heinrich Isaac. Nella pagina accanto incisione in cui compare, è il primo da sinistra, un ritratto del compositore.

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medicea per il possesso della fortezza di Sarzanello, sulla collina sovrastante il borgo di Sarzana (cittadina ligure posta alla sinistra del basso corso del fiume Magra, oggi in provincia di La Spezia). Ancora una volta, il motivo della contesa era rappresentato dal tentativo, da parte dei Medici, di conquistare uno sbocco sul mare, condicio sine qua non per un allargamento dell’egemonia fiorentina anche in ambito marittimo. L’antefatto risale al 1468, quando Firenze decise di acquistare per oltre 30 000 fiorini il castello di Sarzana da Lodovico di Campofregoso, già doge di Venezia.

Una vendita sgradita

La vendita del castello ai Fiorentini, mal digerita dai Genovesi, spinse questi ultimi a rioccuparne il sito; fatto che portò i primi a reagire con la collocazione nella roccaforte di un piccolo presidio miliare, e la richiesta del riconoscimento ufficiale, da parte genovese, dell’acquisto avvenuto nel 1468. Ma la vicenda si complica ulteriormente con l’intervento di un terzo protagonista nella contesa: il

Banco di San Giorgio – istituzione genovese fondata nel 1407 – a cui il signore di Sarzana Agostino Fregoso, figlio del summenzionato doge Ludovico Fregoso, concesse il castello, avendo fallito nel tentativo di respingere le armate fiorentine. Gli scontri finali si svolsero tra il marzo e il giugno del 1487. I Genovesi, guidati da Gianluigi Fieschi, attaccarono il feudo di Sarzanello, prendendo d’assedio il castello durante uno scontro memorabile, in cui vennero utilizzate anche mine esplosive: una novità assoluta per i tempi. Da parte fiorentina, intervenne invece Niccolò Orsini (14421510), celebre condottiero appartenente a una delle piú potenti famiglie romane e capitano dell’esercito di Lorenzo de’ Medici. Il 15 aprile l’Orsini ebbe la meglio sui Genovesi riuscendo a catturare Gianluigi Fieschi e il nipote Orlando. Sull’onda del successo appena ottenuto, i Fiorentini colsero l’occasione per espandersi ancor piú verso il mare, ma il tentativo di conquistare anche Lerici (oggi in provincia di La Spezia), fallí. A questo punto, rivolgen-

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musica la guerra di serrezzana do tutti gli sforzi sulla fortezza di Sarzanello, le armate medicee – è il giugno del 1487 – costrinsero i Genovesi alla resa definitiva. Nel corso di questo assedio fu distrutto anche l’altro castello cittadino, la fortezza Firmafede, costruita nel XIII secolo, e che Lorenzo il Magnifico fece riedificare dagli archiQui sotto pagina di un documento in cui compare un ritratto di Castruccio Castracani, dal manoscritto MS 1661. Lucca, Biblioteca Statale.

tetti Francesco di Giovanni (detto il Francione) e Luca del Caprina; gli stessi che intervennero, successivamente, all’ammodernamento della fortezza di Sarzanello.

Compositore di corte

Nel 1487, mentre l’annosa contesa tra Firenze e Genova si avviava all’epilogo, un altro protagonista interviene, seppur indirettamente, a celebrare la vittoria fiorentina. Si tratta del fiammingo Heinrich Isaac, detto Arrigo il Tedesco (1450 circa-1517): un celebre musicista, dalle oscure origini ma la cui attività, databile fin dal 1470, è particolarmente ben documentata a partire dagli anni Ottanta, quando opera come compositore di corte a Innsbruck.

Recatosi a Firenze, Isaac, sotto la signoria di Lorenzo il Magnifico, con il quale instaura una proficua collaborazione artistica, diviene cantore/compositore presso il Battistero di S. Giovanni, alla Cattedrale e in altre chiese cittadine; un periodo di grande ricchezza produttiva, interrottosi con la morte del Magnifico nel 1492, che ispira a Isaac la composizione di un mottetto funebre di struggente bellezza, il Qui dabit capiti meo aquam a quattro voci, su testo del Poliziano. Con la scomparsa di Lorenzo e la progressiva chiusura culturale determinata dalla presenza del Savonarola, Isaac si trasferisce nel 1497 al servizio dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, anche se i contatti con Firenze e l’Italia –

Ospiti illustri

I signori della fortezza Sorto su una collina in posizione difensiva, l’antico castro di Sarzano ha conosciuto nei secoli radicali trasformazioni, adeguandosi di volta in volta alle rinnovate esigenze difensive e/o residenziali. Le tracce documentarie piú antiche risalgono al 963. Presidio viario nonché residenza vescovile, il sito è ripetutamente citato nelle fonti storiche, ma è nel XIV secolo che la residenza

fortificata acquista una certa importanza, durante la permanenza di Castruccio Castracani, famoso condottiero nonché vicario imperiale e signore di Lucca, che riuscí a porre sotto il suo controllo un ampio territorio tra il 1314 e il 1328. Sui lavori di riadattamento della rocca da parte di Castruccio non esistono testimonianze, avendo subito pesanti rifacimenti con Tomaso di Campofregoso, nel 1421, e, piú tardi, sotto i Fiorentini, in seguito alla


A sinistra ritratto di Niccolò Orsini, in un’incisione del XV sec. Il celebre capitano di ventura guidò le armate fiorentine nella guerra combattuta contro i Genovesi per il controllo della fortezza di Sarzanello. Qui accanto busto in terracotta policroma di Lorenzo de’ Medici, opera di Pietro Torrigiano. 1515-20. Firenze, Collezione Liana e Carlo Carnevali. La guerra di Serrezzana scritta da Heinrich Isaac intendeva celebrare il successo del Magnifico nella contesa con Genova.

conquista della rocca nel 1487. La ricostruzione affidata agli architetti Luca del Caprina e Francesco di Giovanni – già intervenuti nella rocca cittadina (detta «Cittadella»), fu concepita secondo i moderni dettami dell’architettura militare. La fortezza, ancora incompleta sul finire del XV secolo, venne terminata secondo il progetto dei due architetti solo nel 1502, quando il feudo tornò sotto la proprietà dell’istituzione genovese del Banco di San Giorgio.

Sulle due pagine la fortezza di Sarzanello, innalzata sulla collina che sovrasta il borgo ligure di Sarzana (oggi in provincia di La Spezia).

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musica la guerra di serrezzana

sua moglie era fiorentina – furono costanti sino alla morte. Nel 1502 è di nuovo in Italia, a concorrere per il posto di maestro di cappella presso la corte estense di Ferrara, poi ottenuto da Josquin Desprèz. Nel 1514 Isaac è di nuovo a Firenze, dove rimane sino al 1517, anno della sua morte. All’interno della sua parabola produttiva, la fase fiorentina è senza dubbio centrale nella vita professionale e privata di Heinrich Isaac, e a questa permanenza è legata, fra l’altro, la composizione di un famosissimo brano a quattro voci, Alla Battaglia, che, con ogni evidenza, si riallaccia agli scontri per la conqui-

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sta della fortezza di Sarzanello. Poche sono le fonti pervenuteci di questo brano vocale/strumentale: una parte vocale del basso e una versione a quattro voci senza testo conservate nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Banco Rari 337 e MS Panciatichi 27); il manoscritto sevigliano MS 6-3-29, opusc. 25, della Biblioteca Colombina, nonché altre tre fonti di provenienza nordeuropea.

Il tutore di Lorenzo?

Un indizio in piú ci viene dalla fonte spagnola, nella quale compare il nome dell’autore del testo, un non meglio identificato Gentile Aretino, ma nel quale si deve verosimil-

mente individuare Gentile Becchi, vescovo di Arezzo, che fu tutore di Lorenzo de’ Medici. Con i suoi rimandi a personaggi storici, il testo messo in musica rinvia senza dubbio allo scontro tra i Fiorentini e i Genovesi che si protrasse sino alla conquista fiorentina del 1487. A facilitare la datazione del brano è la presenza, all’interno del testo, dei nomi di una trentina tra condottieri e soldati identificati a partire dalle delibere di pagamento conservate nell’Archivio di Stato di Firenze. Tra questi ricorre un «excelso capitano» riconducibile alla figura del già citato Niccolò Orsini, capitano di ventura, ingaggiato da febbraio

MEDIOEVO


Lorenzo per guidare l’armata fiorentina dal 1485 al 1492. Benché il testo musicato da Isaac non faccia specifico riferimento allo scontro finale del 1487, è possibile datare il brano – grazie ai dati d’archivio esaminati da Blake Wilson – al 1488. In particolare, alcune lettere inviate dal fiorentino Ambrogio Angeni ad Antonio da Filicaia – accomunati da medesimi interessi musicali – e datate all’inizio di quell’anno parlano di «una chanzone chomposta per Arigho ch’è la Guera di Serezana, chosa assai piacevole (...) che stimo parrà chosa maravigliosa e signorile e degna e idonia». Il riferimento al brano in questione è inconfutabile e, tra l’altro, permette di rivedere la posizione dello studioso Timothy McGee, che individuava come l’occasione piú convincente in cui l’opera di Isaac sarebbe stata concepita e rappresentata la cerimonia d’elezione di Niccolò Orsini – il 25 giugno del 1485 – a capitano dell’armata fiorentina. Se l’ipotesi di McGee resta alquanto appetibile, le lettere di Ambrogio Angeni non lasciano però dubbi sul 1488 come data di esecuzione di queste musiche. Potrebbe anche valere l’ipotesi che Alla Battaglia fosse stata concepita qualche anno prima, e rappresentata per la prima volta presumibilmente durante le celebrazioni carnascialesche del 1488: un’occaIn alto e in basso ancora due vedute della fortezza di Sarzanello. Nelle sue forme attuali, il complesso è il frutto delle ristrutturazioni

operate dagli architetti Luca del Caprina e Francesco di Giovanni all’indomani della conquista fiorentina del 1487.

sione festiva di prim’ordine, quella del Carnevale, durante la quale la potenza dei Medici veniva riconosciuta ed enfatizzata anche attraverso l’impiego di brani musicali, come quello in questione, che rievocava la recente vittoria militare su Genova.

Trombe e ciaramelle

Sono molte le cronache dell’epoca che riferiscono sull’impiego di strumenti – generalmente trombe e ciaramelle (quest’ultime antenate dell’oboe) –, in eventi pubblici come il Carnevale fiorentino, a cui è legata peraltro una ricca produzione poetica. Numerosi erano anche i contesti in cui la musica interveniva in occasioni ufficiali quali, per esempio, la nomina di un condottiero o la visita di un regnante. E una tradizione di «battaglie in musica» dovette caratterizzare le attività carnevalesche come prova l’anonima Battaglia contenuta nell’edizione dello Chansonnier Pixérécourt della Biblioteca Nazionale di Firenze (MS Banco Rari 229), le cui peculiarità stilistiche rimandano alla tradizione del canto carnascialesco diffusosi nel Quattrocento a Firenze, e in particolare durante la signoria di Lorenzo.


musica la guerra di serrezzana Una tradizione, dunque, che, oltre a ricorrere nella produzione pittorica, si afferma nella tradizione poetico-musicale dell’epoca, alla quale Isaac si ispira. Eppure, come rivela ancora una volta una lettera di Angeni – citata dal musicologo Blake Wilson –, la veste musicale offerta da Isaac non piacque piú di tanto, per via delle eccessive innovazioni e arditezze compositive, probabilmente poco adatte a un pubblico musicalmente piú «tradizionalista»: benché legata a stilemi guerreschi – note ripetute, salti di quinta tipici degli «allarmi» di tromba, scrittura da fanfara militare –, era evidentemente troppo all’avanguardia per i Fiorentini, a causa della scrittura complessa, e continuamente mutevole, ma anche sensibilmente fedele, nel suo «descrittivismo» musicale, al testo poetico.

Esecuzione all’aperto

Permane un dubbio sulle modalità esecutive del brano di Isaac. Le varie fonti che ne riportano le quattro parti di superius, altus, tenor e bassus, senza l’aggiunta del testo, lascerebbero pensare a una esecuzione strumentale. In realtà, la presenza, in una delle fonti fiorentine e in quella spagnola, del testo relativo alla prima stanza del poema (vedi box sulle due pagine), farebbe piuttosto intendere che si sia trattato di un’esecuzione vocale, seguita da ripetizioni strumentali delle stanze successive, in un’alternanza peraltro giustificabile in una manifestazione pub-

«Alla battaglia, presto alla battaglia Armisi ognun di sua corazza et maglia. Per parte dell’excelso capitano, ognun sia presto armato e sia in camino Su, valenti signor, di mano in mano, Signor Julio e Organtino, o signor Paolo Orsino. Schinier, falde et corazza, armisi, elmo e fiancaletto; su lance, stocchi et maza affibbia questo braccialetto t’o il baio e’l moroletto Su messer Hercole, Criaco et Cerbone Conte Limaccio, signor Honorato, Sir di Piombino, Annibale e Guidone, Giovan Savel, Malespina e Currado.


Ognun sia presto armato et a caval montato. Su spade, sproni, le barde al leardo; vie su poltroni. Chi sia il piú gagliardo? Seguitiam lo stendardo. Vie su, franchi Sforzeschi, Bolognesi et Galleschi, a lor a lor che son priogioni et rotti. su, buon valenti e franchi stradiotti; su buon soldati et dotti, leviam di qui quella brutta canaglia». (Alla battaglia, I stanza)

blica, all’aperto, in cui le sonorità di strumenti aerofoni erano particolarmente utilizzate e apprezzate. Indipendentemente dal successo ottenuto presso il popolo fiorentino, Alla Battaglia resta una significativa testimonianza di come l’elemento musicale, insieme agli apparati scenici costruiti all’uopo (carri di trionfo e cosí via) fosse, sul finire del Quattrocento, uno degli ingredienti chiave nella rievocazione spettacolarizzata di episodi salienti legati alla politica del regnante. Se a questo si aggiunge la particolare passione per le arti, quale quella di Lorenzo il Magnifico, ecco che Alla Battaglia trova la sua naturale destinazione in un contesto in cui l’esaltazione dei Medici diventa lo scopo ultimo della celebrazione. F

un’antologia

Tutto il genio di Isaac Organizzata cronologicamente lungo le tappe che ripercorrono le fasi piú salienti della vita del compositore, l’antologia Heinrich Isaac. Ich muss dich lassen (Ricercar, R 318, 1 CD) si snoda attraverso brani sacri e profani, offrendo un saggio eloquente del genio creativo dell’artista. La prima tappa concerne le Fiandre, sua terra natía, nella quale vennero composti, tra l’altro, la Missa Tmeisken was jonck, di cui si ascolta il Sanctus, e il brano strumentale La Morra. Già da queste opere si evincono la versatilità di uno stile compositivo estremamente diversificato e una vena creativa sorprendente. La tappa fiorentina è senza dubbio quella piú rappresentata, con brani della tradizione carnascialesca, a cui sia Isaac che Lorenzo il Magnifico furono particolarmente legati. Alla fase fiorentina appartengono anche le due composizioni piú interessanti della raccolta: Alla Battaglia, dedicato allo scontro tra Fiorentini e Genovesi per il possesso della fortezza di Sarzanello, e il mottetto funebre a quattro voci, Quis dabit, scritto per la morte di Lorenzo in uno stile che è tra le piú alte manifestazioni artistiche di deplorazione in musica mai composte. L’ultima tappa è dedicata al periodo tirolese e a quello viennese. Si passa dunque a testi in francese e in tedesco antico, ma non mancano, anche in questo caso, assaggi di brani sacri. Musiche diverse e stili distanti tra loro vengono affrontati magistralmente dal gruppo Capilla Flamenca, composto da quattro voci maschili, liuto, viola da gamba e flauto a becco e dal gruppo strumentale Oltremontano, formato da cornetti e tromboni. I due ensemble, diretti da Dirk Snellings, che si esibisce anche come basso, sfoggiano tutto il loro estro in una apprezzabile scelta interpretativa, dalla quale emergono le piú varie combinazioni sonore, secondo una prassi filologicamente corretta e ricca di colori.

Nella pagina accanto uno dei torrioni della fortezza di Sarzanello. Il fortilizio acquisí importanza nel XIV sec., dopo che ne aveva preso il controllo Castruccio Castracani, signore di Lucca.

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caleido scopio

Nella fortezza sul mare cartoline • Il complesso savonese del Priamàr conserva le tracce di una storia

plurisecolare. Il suo recupero archeologico avvenuto nel Novecento è testimoniato da un allestimento espositivo che ne ripercorre le articolate vicende

S

imbolo di Savona e riflesso della storia cittadina, la fortezza del Priamàr (da pri-a-ma, «pietra sul mare»), abbarbicata su un promontorio a picco sul Mar Ligure, ha l’aspetto di un imponente fortilizio cinquecentesco, con poderosi bastioni sette e ottocenteschi, che ne completano l’assetto militare. La sua vicenda costruttiva, però, è assai piú lunga e articolata. In oltre duemila anni, infatti, il Priamàr è stato luogo di estrema difesa, sede aristocratica, area cimiteriale e memoria sacra della prima cattedrale. La primitiva frequentazione del colle si colloca tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, quando i Liguri

Sabatii vi insediarono un oppidum, ritenuto il nucleo iniziale dell’attuale città, attratti dalla straordinaria posizione strategica di quest’altura di gneiss scistoso, da cui era possibile esercitare un ampio controllo visivo sull’alto Tirreno e, al tempo stesso, una stretta vigilanza sullo sbocco al mare delle valli comprese fra il Capo di Vado e il Capo Torre di Albisola.

L’arrivo dei Romani La successiva romanizzazione, intrapresa con ripetute vittorie riportate dai Romani sui Liguri tra il 181 e il 155 a.C., fu attuata dopo la costruzione della via Aemilia Scauri. La strada fu tracciata per collegare l’entroterra padano alla

rada a ponente di Savona, Savo, che a partire dalla fine del II secolo assunse la denominazione di Vada Sabatia e divenne il principale porto della Riviera di Ponente. Con la crisi dell’impero romano e la progressiva decadenza dell’emporio di Vado, Savona ebbe il ruolo di capoluogo della Sabazia. L’intensa ripresa, avviata dalla metà del IV secolo, è documentata dalla necropoli rivenuta nell’area della Loggia e parzialmente visibile nel Museo archeologico allestito all’interno del Priamàr. Nel corso del V e VI secolo l’impero bizantino trasformò la località in uno dei caposaldi per il controllo della Provincia Maritima Italorum. Il nucleo

Savona. Il Priamàr, complesso fortificato che trae nome da pri-a-ma, cioè «pietra sul mare», ed è simbolo della città ligure.

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Due immagini delle ricerche condotte nell’area del Priamàr nel 2012: un settore dell’area di scavo (qui accanto); la setacciatura ad acqua (flottazione) della terra di riporto, effettuata per individuare resti vegetali e/o carboni (a destra). demico cominciò a espandersi dalle pendici della collina alla sottostante piana attorno allo scalo portuale e fu difeso da una cinta muraria, un tratto della quale è riconoscibile nell’area archeologica della contrada di S. Domenico. Il centro abitato, abbandonato con la conquista longobarda (643), tornò a ripopolarsi alla fine dell’VIII secolo, quando l’altura del Priamàr offrí nuovamente riparo sicuro. Le prime fonti scritte su Savona risalgono all’887 e citano un castrum fortificato, arroccato sul rilievo del Priamàr, di cui rimangono resti scoperti negli scavi degli anni 19851989. L’eccellente collocazione preservò il sito dagli attacchi saraceni e fece sí che Savona, a seguito della riorganizzazione politica e territoriale (950-951) intrapresa dal re Berengario II, fosse individuata come capitale marittima della Marca Aleramica. Gli interessi prevalentemente rurali della dinastia feudale, concentrati soprattutto sui territori appenninici e piemontesi della Marca, consentirono l’affermazione di un forte potere vescovile e la formazione di un ceto di homines maiores, i quali, allettati dai commerci marittimi, costituirono

il nucleo originario del nascente Comune. Costoro dall’alto del colle del Priamàr trasferirono le proprie residenze alla pianura, creando i quartieri di S. Pietro, dell’Ivario, della Pescheria, della Scaria, dislocati nelle vicinanze del porto e lungo l’arco costiero orientale.

Una città divisa in tre parti Nel 1059 la città si presentava divisa nelle tre zone del castrum (Priamàr), della civitas (Ivario, S. Pietro e Pescheria) e del burgus (Scaria). Il Priamàr si trovava nella parte alta del quartiere del Monte, allora caratterizzato da una fitta trama edilizia, con numerose torri, su cui si elevavano la cattedrale di S. Maria, il palazzo vescovile e il palazzo del Capitolo. Inoltre, dalla metà del Duecento, la destinazione religiosa dell’intero quartiere era stata accentuata con la costruzione del complesso conventuale di S. Domenico (1288-1306), dell’oratorio di S. Maria di Castello e di altri nove oratori, sede di altrettante confraternite. Due porte, la Maggiore e la Clavige, immettevano ai due percorsi diretti alla città bassa: verso nord la Chiappinata costituiva la via

principale del centro abitato e raggiungeva piazza S. Pietro; verso ovest la strada – che nel tardo Medioevo prese l’appellativo di contrata batutorum o contrada dei Dieci oratori, poiché vi affacciavano i luoghi di culto proprietà delle pie unioni –, dalla piazza della cattedrale scendeva alla contrada di S. Domenico e alla Porta della Foce. Il colle di S. Giorgio, proiettato verso nord-est e compreso nel rilievo del Priamàr, rappresentava l’elemento generatore dell’insenatura portuale e permetteva un controllo diretto sull’approdo sottostante. Se in questa fase storica il punto di forza di Genova, acerrima nemica di Savona, era rappresentato dal castrum, quello di Savona si identificava nel Priamàr, baluardo roccioso dello specchio acqueo e della darsena portuale. All’ombra del Priamàr stavano pure le banchine, segno del predominio delle attività legate al mare, che, grazie al legname fornito dal grande nemus savonese, furono sempre la fonte piú importante dell’economia locale e del potere delle grandi famiglie, nonché risorsa primaria della città e del suburbio. Inoltre, in ciò differenziandosi da Genova, Savona Qui accanto veduta dal Priamàr di un tratto della Riviera di Ponente, verso Capo Noli. A sinistra uno degli ambienti sotterranei della fortezza savonese. Il complesso sorse nel 1542, per volere della Repubblica di Genova, ma si sviluppò su strutture certamente piú antiche.

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caleido scopio si ergevano la cattedrale e il complesso vescovile. Che tra la metà del Quattrocento e i primi del Cinquecento subirono imponenti restauri, commissionati dai papi savonesi Sisto IV e Giulio II, i quali trasformarono il vecchio quartiere in una grandiosa cittadella d’arte rinascimentale. Di tutto ciò, adesso, non resta nulla.

La demolizione e la ricostruzione

La Loggia del Priamàr, al cui interno è allestito il Civico Museo StoricoArcheologico di Savona. proponeva una maggiore presenza industriale, incentrata in particolare su lana, pelli, ceramica e sulla lavorazione del ferro.

Asilo per transfughi genovesi Aperta ai commerci internazionali, la città accolse a piú riprese rami di note famiglie genovesi, i cui membri vi trovarono rifugio a seguito di vicissitudini politiche o si unirono in matrimonio con uomini e donne del posto. A Savona migrarono anche molti artigiani, sia perché legati ai grandi clan di riferimento, sia per un principio di migrazione interna o esterna, caratteristico dell’area ligure in tutti i tempi. Ne è dimostrazione la vicenda dei Colombo, che si trasferirono a Savona per un periodo abbastanza lungo, presero una casa in città e una a Legino, ebbero relazioni con famiglie dell’entourage pontificio dei Della Rovere e con personaggi destinati a comparire ripetutamente nella storia ligure. Come l’uomo d’affari Michele de Cuneo, che accompagnò Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio e al quale l’ammiraglio donò un’isola (l’attuale Soana), oppure la famiglia di Leon Pancaldo, noto uomo di mare savonese.

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La decadenza del quartiere del Monte iniziò alla fine del XII secolo, complice la destinazione militare del colle del Priamàr da parte della Repubblica di Genova. Nel 1213, infatti, Genova innalzò sul rilievo centrale un apparato fortificato: il castello di S. Maria, poi detto Castello Nuovo. La struttura, che nel 1253 inglobò anche la chiesa di S. Giorgio, in seguito agli ampliamenti quattrocenteschi, portò alla scomparsa delle abitazioni private e delle torri gentilizie, causando la completa sparizione del quartiere dell’Ivario, fra i piú vivaci nella Savona del XII secolo. Nel Basso Medioevo l’unica zona a mantenere le precedenti caratteristiche architettoniche fu la parte piú a meridione, ove

Genova, con la definitiva sottomissione di Savona nel 1528, impose alla città la costruzione di una formidabile fortezza, ubicandola proprio sull’antica zona monumentale. La demolizione, cominciata nel 1542 fu rapida, come altrettanto veloce fu la costruzione della fortificazione che, realizzata su progetto di Giovanni Maria Oliati, rispondeva appieno alle esigenze della moderna architettura ossidionale, valorizzando al massimo la morfologia del colle. Il dislivello tra l’area della cattedrale e l’area del Castello Nuovo serví a delimitare due «fortezze» separate, l’una delle quali, il Maschio, piú elevata e cinta all’interno da muraglie, dominava e controllava l’altra, la Cittadella, «spazzando» la sua superficie col tiro radente delle cannoniere, poste a metà altezza, alle estremità della cortina dello Stendardo. La fortezza fu di nuovo adeguata alle rinnovate esigenze militari dall’ingegnere Domenico Sirena negli anni 1683-1686. Il progettista, al servizio del re di Spagna, modificò

Ricerca e divulgazione Il Civico Museo Storico-Archeologico di Savona svolge un’intensa attività didattica con proiezioni multimediali e laboratori sperimentali per scuole di ogni ordine e grado. Al Museo Archeologico è collegata la Biblioteca della Sezione Sabazia dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, specializzata in archeologia medievale. La raccolta comprende pubblicazioni edite dall’IISL, periodici nazionali e internazionali di argomento archeologico, monografie specifiche e il fondo librario (con testi dedicati soprattutto al periodo medievale e moderno) del Centro Ligure per la Storia della Ceramica. Il codice della biblioteca è LIG 66. Info tel./fax 019 822708; e-mail: info@museoarcheosavona.it; attività didattica: didattica@museoarcheosavona.it; biblioteca: biblioteca@museoarcheosavona.it febbraio

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Un museo alla portata di tutti Nel 2003 all’interno del Museo Archeologico di Savona è stato inaugurato un percorso per persone con problemi visivi. L’itinerario di visita è stato allestito grazie all’impegno della Sezione Sabazia dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri e alla collaborazione della Soprintendenza Archeologica della Liguria, del Comune di Savona e della sezione provinciale dell’Unione Italiana Ciechi. L’utente non vedente o ipovedente può leggere pannelli e stampati esplicativi in Braille, esplorare manufatti con il tatto e ascoltare una versione adattata della audio guida con la storia dell’insediamento e del museo. Qui sopra piccoli boccali databili all’età tardo-antica e conservati nel Civico Museo Storico-Archeologico allestito nel Priamàr. profondamente tutti gli spazi esterni con la realizzazione di un complesso sistema bastionato sui fronti orientale, settentrionale e occidentale, al fine di limitare l’eccessiva altezza e la vulnerabilità della costruzione cinquecentesca. L’architettura subí ulteriori interventi nel corso del Settecento e fu coinvolta in aspre battaglie durante la guerra di Successione austriaca (1740-1748) e le guerre napoleoniche. La storia militare del Priamàr si concluse nel 1815, con l’annessione della Liguria al Piemonte. Il forte, destinato a bagno penale nel 1820 e a reclusorio nel 1848, fu radiato dal novero delle fortificazioni difensive del Regno d’Italia nel 1878. La riconversione della superficie esterna ebbe inizio

poco dopo, con lo spianamento di spalti e bastioni, destinati ad aree industriali e passeggiata. Alla metà del Novecento cominciarono i primi lavori di recupero e di ricerca archeologica, intensificatisi durante gli anni Ottanta e Novanta. Dal 1990 il complesso monumentale accoglie il Civico Museo Storico-Archeologico di Savona. L’allestimento, nato dalla scenografica integrazione tra spazi espositivi, zona archeologica e lavori di restauro, occupa il piano terra della Loggia ed è impostato sull’area degli scavi, che qui hanno portato alla luce strutture bassomedievali e parte del sepolcreto tardo-antico.

Dalla preistoria all’età moderna Il percorso, scandito in tappe cronologiche, si snoda in ambienti ricavati da locali occlusi alla metà del Settecento con un poderoso terrapieno, successivamente svuotati e reimpiegati per tale uso. La prima sala è ospitata in un vano

Immagini delle attività didattiche organizzate dal Civico Museo Storico-Archeologico di Savona.

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della fine del XII secolo, anteriore al castello di S. Maria e compreso nel suo interno. Vi sono in mostra pezzi provenienti dalle vecchie raccolte museali, tra cui mosaici tunisini del III-V secolo d.C., e ceramiche di provenienza etrusca e nord-africana. Il nucleo espositivo principale, rappresentato dai reperti rinvenuti nel corso delle recenti campagne archeologiche, riflette alcuni aspetti della millenaria vita del colle. Dalle testimonianze dell’età del Bronzo e del Ferro si passa a frammenti di anfore massaliote e greco-italiche e vasellame che sono prova dei rapporti commerciali intercorsi tra l’oppidum di Savo e il mondo mediterraneo (Marsiglia, Magna Grecia, Campania, Etruria). All’età tardo-antica e altomedievale sono riferibili boccalini in ceramica, oggetti metallici e vitrei a corredo di tombe, facenti parte della necropoli databile ai secoli IV-VII, estesa sia nell’area in cui sono stati collocati gli spazi museali, che nell’adiacente sala a Ombrello. La porzione orientale del sepolcreto, lasciata a vista, è alquanto suggestiva. Mostra il piano roccioso in cui vennero intagliate le sepolture e le buche da palo, che, scavate nella roccia, un tempo servivano a sorreggere le strutture lignee dell’insediamento protostorico e altomedievale. L’esposizione termina con prodotti in ceramica graffita arcaica tirrenica, ritenuti i primi esempi di pregiato vasellame da tavola realizzato in loco, e preziosi manufatti in maiolica savonese, fabbricati nei secoli XVI, XVII e XVIII. Chiara Parente

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La gloria e poi l’oblio libri • Ha visto la luce la riproduzione del codice seicentesco dedicato al casato

lombardo dei Trivulzio. Un’edizione accurata per ripercorrere, grazie all’araldica, le vicende di una famiglia che fu vittima di una sorta di damnatio memoriae

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l volume costituisce il contributo inaugurale di «Trivulziana», la collana di pubblicazioni della neonata Fondazione Trivulzio, costituita nel 2011 con lo scopo di promuovere progetti, ricerche e interventi volti alla valorizzazione del patrimonio archivistico, librario e artistico di proprietà della famiglia. La fondazione detiene materiale di valore inestimabile per la storia del casato e della città di Milano, raccolto in un archivio,

Marino Viganò (a cura di), blasonatura di Carlo Maspoli Stemmi e imprese di Casa Trivulzio Edizioni Orsini De Marzo-Sankt Moritz Press, Sankt Moritz, 154 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-7531-035-6 (il volume può essere acquistato unicamente on line, all’indirizzo: www.orsinidemarzo.com)

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recentemente aperto al pubblico, che ha sede in via Morone 8. I codici in particolare, scrigno di una varietà inesauribile di temi, spiccano all’interno della raccolta documentaria, ed è proprio la riproduzione del codice seicentesco catalogato come 2120, ad aprire la collana. L’araldica risulta particolarmente importante nel caso dei Trivulzio, in quanto contribuisce a chiarire le origini piuttosto oscure della famiglia, in mancanza di opere storiografiche, nonché di genealogie attendibili che la riguardino. Al contrario di molte altre, infatti, le notizie su questo casato si desumono soltanto da opere elegiache e panegiristiche, da cui sono stati tratti alberi genealogici inesatti, incompleti e poco attendibili. Le «imprese» e gli stemmi legati ai Trivulzio, ricchi di simbologia e di significati, invece, si trovano ovunque (capitelli, monumenti, affreschi, monete, arazzi), a testimoniare la presenza di un dominio che copriva un territorio assai vasto (da Melzo a Chiavenna, alla Val Mesolcina, nella Svizzera meridionale).

In alto scudo a bande verticali oro e verde, disegnato dal pittore Gian Antonio da Tradate. Fine del XV sec.

Tre volti e un fascio di spighe Accanto all’arma classica costituita dallo scudo a bande gialle e blu, tra gli emblemi del casato spiccano la testa umana a tre volti, simbolo delle tre fasi della vita, e il fascio di spighe, a ricordo di un esponente della famiglia distintosi per avere alleviato la carestia con distribuzioni di grano. Documentata almeno a partire dal XII secolo, la famiglia raggiunse il suo massimo splendore nel XV. febbraio

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Durante il Quattrocento era guelfa e antiviscontea, tanto che ben quattro dei suoi membri presero parte all’assassinio di Giovanni Maria Visconti (16 maggio 1412), e ricoprí un ruolo di primo piano nel periodo di transizione tra i Visconti e gli Sforza (la «Repubblica Ambrosiana»: 1447-1449), appoggiando l’ascesa sforzesca. L’alleanza con gli Sforza non durò comunque a lungo: il condottiero Gian Giacomo Trivulzio (14421518), il personaggio piú insigne del casato, che aveva raggiunto una posizione economica e politica di grande rilievo (soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Quattrocento, in quanto intermediario tra Milano e le leghe retiche, governatore di Parma, condottiero contro Venezia durante la guerra del sale, e soccorritore del re di Napoli in occasione della congiura dei baroni) combatté al servizio della Francia: nel 1499 entrò vittorioso in Milano, al comando delle truppe di Luigi XII, e, poco dopo, fece prigioniero Ludovico il Moro (10 aprile 1500), divenendo in seguito governatore del ducato di Milano per conto del sovrano francese. Fu probabilmente questo suo atteggiamento controverso che da funzionario e consigliere degli Sforza lo portò a consegnare ai Francesi la capitale del ducato, a decretare la «damnatio memoriae» della famiglia, e la conseguente penuria di fonti che la riguardano.

Stemmi e monete Curata da Marino Viganò e con la blasonatura di Carlo Maspoli, l’edizione del Codice 2120, riproduce a colori, integralmente, il prezioso manoscritto raffigurante quaranta tra stemmi, cimieri e imprese riferibili al casato lombardo. Il volume contiene anche parti di altri manoscritti correlati col

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Qui sotto stemma con i tre volti riuniti sotto un’unica corona, emblema caratteristico dei Trivulzio. Opera di un artista anonimo della fine del XVII sec.

principale: tre tavole del Codice Cremosano, e alcune pagine del Codice Trivulziano 2168 (oggi conservato presso l’omonima Biblioteca del Castello Sforzesco), consentendo in tal modo di valutarne i reciproci influssi e di completare la raccolta degli emblemi di casa Trivulzio. Il ricco apparato iconografico non trascura neppure le monete e medaglie coniate da o per il casato (nel 1487, infatti, Gian Giacomo Trivulzio aveva ottenuto dall’imperatore Federico III, con il beneplacito degli Sforza, il diritto di battere moneta), i celebri arazzi dei Mesi Trivulzio su cartone del Bramantino, il mausoleo di famiglia presso San Nazaro in Brolo, ma anche opere gelosamente conservate in collezioni private e manufatti recanti l’impronta araldica dei committenti e proprietari. Maria Paola Zanoboni

A destra emblema raffigurante un dragone su un elmo, che, come si legge nell’annotazione originale dell’artista, «Si troua che Luchino Visconte la Concesse alla Moglie d’Antonio». Fine del XVII sec. Nella pagina accanto, in basso ancora un’insegna con dragone, che «Erà usata dal Padre del S[igno].r Gio:[uan] Gia:[como] quando erà al servizio dal Papa». Fine del XVII sec.

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Lo scaffale Irma Naso (a cura di) Le parole della frutta. Storia, saperi, immagini tra medioevo ed età contemporanea (Atti del convegno tenutosi a Torino il 21 e 22 novembre 2011)

frutta, come soggetto storiografico, non ha per il resto riscosso molta fortuna, forse anche a causa della penuria di testimonianze che ne documentino

Silvio Zamorani Editore, Torino, 256 pp., ill. b/n nel testo e 16 tavv. col. f.t.

36,00 euro ISBN 9788871581941 www.zamorani.com

Fatta eccezione per la viticoltura, la cui importanza economica ha da sempre suscitato l’interesse degli studiosi, la

il consumo. Tanto piú meritorio appare dunque questo volume, che raccoglie gli atti di un recente convegno sull’argomento, organizzato dal Centro Studi per la Storia dell’alimentazione e della cultura materiale di Torino, intitolato alla studiosa Anna Maria Nada Patrone, prematuramente scomparsa. Grazie al contributo di specialisti appartenenti ad ambiti disciplinari diversi, viene delineato un

quadro multiforme di tematiche, che affrontano le molteplici chiavi di lettura alle quali l’argomento si presta. Il volume si divide perciò in quattro sezioni, ciascuna dedicata a uno dei numerosi settori d’indagine applicabili alla frutta: quello storico, in primo luogo, comprendente saggi volti a chiarire le origini e la diffusione delle colture frutticole, la loro tipologia, la normativa a tutela della produzione e

del commercio e quella concernente le prescrizioni igienico-sanitarie. La seconda sezione tratta dell’impiego alimentare della frutta, e quindi della sua utilizzazione in conserve, alimenti e medicine, con implicazioni riguardanti il pensiero medico-dietetico che, da un lato, considerava la frutta dannosa come alimento e nociva all’organismo, e, per altro verso, ne faceva

Dall’Inghilterra dei bardi musica • Due recenti incisioni dedicate

al Medioevo d’Oltremanica ripropongono brani trecenteschi di ispirazione sacra, su testi in latino, e una contemporanea interpretazione sinfonica dei Racconti di Canterbury

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istanti cronologicamente nel contenuto ma accomunate dal legame con la terra d’origine, due registrazioni dedicate al Trecento inglese ci offrono da un lato uno spaccato sulla produzione sacra e, dall’altro, un commento «musicale» moderno a uno dei capolavori del tardo XIV secolo: i Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. Stilemi, dunque, diversissimi e modi compositivi ancor piú divergenti in cui la cultura musicale e letteraria d’Inghilterra è protagonista assoluta. Con Masters of the Rolls. Music by English composers of the XIVth century (HELIOS, CDH55364, 1 CD), le

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splendide voci del gruppo storico dei Gothic Voices, diretti da Christopher Page, si cimentano in brani anonimi su testi latini, a tematica religiosa, in cui emergono gli stili compositivi del tempo. Interessante notare come la varietà sia tutta giocata, in questo contesto, sul trattamento delle linee vocali che si esprimono monodicamente – la forma piú semplice, legata all’antico canto monodico liturgico – o attraverso un andamento parallelo per intervalli di terza – una sorta di controcanto, volgarmente parlando –, vale a dire con linee vocali a note lunghe, che «sostengono» linee melodiche piú

movimentate nelle voci superiori. Lontanissime dal senso tonale che comincerà ad affermarsi molto piú tardi, queste composizioni, per la loro arcaicità, il ritmo spesso altalenante, i vivaci melismi e le cadenze che alla nostra sensibilità moderna risultano a volte ostiche, evidenziano una «materia» musicale solo apparentemente informe, febbraio

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largo impiego nelle confetture medicinali. I trattati scientifici del tardo Medioevo, infatti, attribuivano alla maggior parte dei frutti, specie se succosi e zuccherini, e soprattutto se consumati crudi, varie controindicazioni per la loro facilità a fermentare nello stomaco. Nella realtà quotidiana, però, i libri di cucina utilizzavano abbondantemente questo prodotto, cotto e debitamente manipolato, per

numerose ricette. Soprattutto la frutta secca, e le mandorle in particolare, occupavano un ruolo di primaria importanza nei ricettari medievali, utilizzate talvolta nella preparazione di salse, talvolta come componente importante dei piatti di magro, tanto che, durante la Quaresima, si producevano persino ricotta e burro col latte di mandorle, per non parlare degli onnipresenti alimenti in pasta di mandorle.

Argomenti della terza parte sono la simbologia (la mela avvelenata o emblema della tentazione nel Paradiso terrestre, l’uso simbolico della frutta nella letteratura medievale e umanistica) e l’iconografia: dai Tacuina sanitatis lombardi tardotrecenteschi, in cui è frequente la raffigurazione di alberi da frutto, ai «libri d’ore» quattrocenteschi italiani, francesi e

fiamminghi, con cornici ricche di fiori e di frutti dal significato simbolico, o recanti la narrazione delle attività agricole di ogni mese, alle nature morte fiamminghe e italiane come meditazione sulla fragilità e transitorietà dell’esistenza. Il volume si chiude con una quarta e ultima sezione, in cui il soggetto «frutta» viene analizzato dal punto di vista scientifico, sviluppandone i vari aspetti: dalla

nell’anno 1931 –, Sir George Dyson eseguiva con l’orchestra e il coro del Winchester College, di cui era direttore di musica, un lavoro sinfonicocorale, The Canterbury Pilgrims, ispirato ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer. Un’opera di grandissimo successo, ampiamente eseguita dalle tante choral society inglesi del tempo e, poi, misteriosamente caduta nell’oblio fino agli anni Novanta del secolo scorso, in cui fu riaccolta con successo dalla critica. poiché contiene, a uno stadio embrionale, elementi compositivi che saranno alla base del linguaggio musicale moderno. Perfette nell’intonazione, le sei voci dei Gothic Voices brillano sia negli impasti vocali d’assieme che nei numerosi assolo, con una pronuncia del latino perfetta – fatto apprezzabile per un gruppo di provenienza inglese – e un risultato interpretativo che rende particolarmente attraente un repertorio non sempre facile. Spostandoci di sei secoli – siamo

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I pellegrini alla taverna La registrazione di The Canterbury Pilgrims (CHAN 241-43, 2 CD, distr. www.soundandmusic.it) ci ripropone questa spettacolare composizione, in cui il ricco e variopinto campionario umano di Chaucer viene amplificato da una compagine vocale e orchestrale che non ha eguali. Elementi cardine dei racconti erano le straordinarie narrazioni e la descrizione dei caratteri di alcuni pellegrini raccoltisi alla taverna di Tabard, prima del pellegrinaggio alla tomba

classificazione vegetale delle specie arboree utilizzate nel Medioevo, a quelle in vigore nell’età moderna, fino all’epoca contemporanea, e alla ricerca e conservazione delle varietà frutticole antiche. Vanno segnalate, in particolare, le pagine dedicate alla coltura del pesco, che, originario della Cina, si diffuse in Italia dall’epoca romana (I secolo d.C.). Maria Paola Zanoboni

dell’arcivescovo Thomas Becket nella cattedrale di Canterbury, e la musica di Dyson, con un linguaggio decisamente avulso da ogni forma di modernismo esasperato, si sofferma su alcuni di essi – 12 in tutto – che ritroviamo descritti nel Prologo del poema. Tanto è ricco il contenuto poetico quanto straordinaria è la resa musicale offerta da Dyson, che affida al complesso corale un ruolo fondamentale all’interno dell’opera. Completano l’ascolto dei Tales altri due brani: At the Tabard Inn e In honour of the city. Il primo, legato tematicamente ai Racconti di Chaucer, costituisce una sorta di introduzione a sé stante dei Canterbury Pilgrims, mentre il secondo brano è su testo del poeta inglese Dunbar William Dunbar (1465–1520?). A dirigere la London Symphony Chorus and Orchestra e i tre solisti di canto, Yvonne Kenny, Robert Tear e Stephen Roberts, è Richard Hickox, dalla cui bacchetta scaturisce un’interpretazione grandiosa e coloratissima, forte della eccellente prestazione di tutti gli artisti. Franco Bruni

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caleido scopio

L’ultimo trovatore musica • Temi amorosi, politici e religiosi

Il Troubadours Art Ensemble, gruppo formatosi intorno al maestro Gérard Zuchetto.

sono al centro della produzione di Giraut Riquier, esponente illustre della tradizione lirico musicale della Linguadoca

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edicato alla registrazione integrale delle liriche dei trovatori, il progetto discografico del Troubadours Art Ensemble arriva al suo quinto appuntamento con La Tròba. Anthologie chantée des Troubadours, XIIème et XIIIème siècles. Vol. 5 (TRO, 18-22, 5 CD), una raccolta incentrata su Giraut Riquier (1254-1292), ultimo rappresentante di una gloriosa tradizione che, dalla Linguadoca, andò espandendosi e influenzando notevolmente la produzione letteraria coeva tra il XII e il XIII secolo. Figura peculiare all’interno della letteratura trobadorica, Riquier, che fu rinomato poeta alla corte narbonese di Aimeric IV, in quella castigliana di Alfonso el Sabio e presso la corte di Henri II di Rodez, è stato il primo caso di un autore intervenuto direttamente, durante la fase di copiatura delle sue musiche, nell’organizzazione cronologica e tipologica della sua vasta produzione lirica. Un interessamento personale – pratica del tutto inusuale all’epoca – che ha permesso alla sua produzione di preservarsi integralmente in due importanti codici, i manoscritti R e

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C della Biblioteca Nazionale di Francia. Vasto è il suo repertorio lirico-musicale, che si esplicita in tutti i maggiori generi praticati dai poeti provenzali: aube, chanson (sacre e profane), chansons de croisade, cobla, pastourelle, planh, sirventès, ecc., un campionario ricco e variegato in cui, accanto al tema amoroso, centrale nella sua come in tutta la poetica trobadorica, si affermano anche i temi politici e di carattere morale-religioso.

Un’interpretazione esemplare Nella presente antologia sono 49 i brani proposti e di cui si conservano le musiche, qui interpretate da un cast di professionisti del repertorio. Gérard Zuchetto, alla guida del Troubadours Art Ensemble, oltre a manifestare la totale padronanza di un linguaggio e di stili esecutivi a cui ha dedicato molti anni di studio, cattura, con le sue interpretazioni, l’animo creativo e originale della poetica trobadorica, fornendo una lettura rispettosa del testo, ma, al tempo stesso, sufficientemente

«libera» nel riproporre in maniera originale il linguaggio. In questa avventura, lo accompagnano, come sempre, la voce suadente di Sandra Hurtado-Ròs, che si intercala ad altri interpreti vocali, tra cui Isabelle Bonnadier e Maurice Moncozet. Molteplici sono i toni poetici toccati, cosí come vari gli accompagnamenti strumentali, di volta in volta affidati a eccellenti strumentisti, scelti oculatamente da Zuchetto, il quale utilizza nel suo ensemble ciaramelle, flauti, liuto, arpa, organetto, vielle e rebeche, caratteristici della produzione musicale bassomedievale e, verosimilmente, utilizzati dagli stessi trovatori nell’accompagnamento dei propri testi. F. B. febbraio

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Lo spirito di una nazione musica • Alla cultura musicale armena è dedicata

un’antologia curata da Jordi Savall. Che, anche grazie all’utilizzo di strumenti tradizionali, contribuisce al recupero di un patrimonio popolare immortale

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on è esagerato affermare che la musica rappresenta l’espressione piú profonda della cultura di un popolo, il suo aspetto piú autentico e intimista; e ciò è tanto piú vero nel caso della tradizione musicale armena, oggi appartenente alla Lista dei Patrimoni orali e immateriali dell’Umanità dell’UNESCO. Un patrimonio che, attraverso la trasmissione orale, è riuscito a perpetuarsi, mantenendo immutati i suoi caratteri originali. Questi ultimi si esplicano in particolar modo nell’utilizzo di uno strumento insolito: il duduk, imparentato alla famiglia dei flauti e costruito con legno di albicocco. Caratterizzato da un suono incredibilmente vicino alla voce umana, esso si accompagna a un altro strumento tradizionale, il kamancha, un cordofono di origini siriane, a quattro corde, suonate da un archetto. Dalle incredibili sonorità di entrambi nasce l’antologia Esprit d’Armenie (AliaVox, AVSA 9892, 1 CD, distr. www. taleamusica.com), che, già nel titolo, dichiara l’obiettivo di far conoscere un repertorio di raro ascolto, ma di eccezionale fascino e gradevolezza.

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Un recupero recente Jordi Savall, che nutre da sempre una particolare attenzione per i paesaggi sonori del Mediterraneo medievale, offre con questo disco una selezione di musiche tradizionali – perlopiú tratte dal lavoro di recupero del patrimonio musicale effettuato da padre Komitas (1869-1935) e, piú di recente, dal musicologo Nigoghos Tahmizian –, originariamente concepite per la voce ma qui interpretate da specialisti armeni degli strumenti summenzionati.

Vari i toni lirici che sottendono a questi antichi canti, ma su tutti primeggia quello elegiaco e melanconico, venato dalla tristezza per i territori perduti; a questi si accompagnano canti di amore, nuziali, danze dal tono piú popolaresco e, comunque, brani sempre caratterizzati da una diffusa mestizia. Bellissimi sono i bordoni – note sostenute –, sui quali si muovono delicatamente i solisti al duduk e al kamancha, a cui Jordi Savall associa brillantemente la soave sonorità delle viole da gamba del suo ensemble Hespèrion XXI. È un incontro tra Oriente e Occidente davvero riuscito quello proposto da questa antologia, in cui Savall si mostra, come sempre, un miscelatore sapiente di culture musicali diverse, attraverso soluzioni convincenti e di grande impatto emotivo. F. B.

In alto un suonatore di kamancha. In basso il monastero di Khor Virap e, sullo sfondo, il profilo maestoso del Monte Ararat.

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