Medioevo n. 192, Gennaio 2013

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COSTANTINOPOLI 1204 ELEONORA D’ARBOREA PROSTITUZIONE dossier CARLO MAGNO E HARUN AL-RASHID

Mens. Anno 17 n. 1 (192) Gennaio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 1 (192) gennaio 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Carlo

magno e harun al-rashid la strana storia di un’amicizia

prostituzione

quelle allegre cortigiane

tarocchi

ARTE, MAGIA E sortilegio

costantinopoli 1204

la crociata della vergogna

PASSIONEPER PER LA PASSIONE LASTORIA STORIA

€ 5,90

PPA AST ST



sommario

Gennaio 2013 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

restauri Oro, piume e losanghe

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la prostituzione Storie di donne cortesi

itinerari Tesori tra i laghi

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mostre I due maestri

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appuntamenti Al lupo, al lupo! Le stagioni in maschera Tre bagni per la salvezza L’Agenda del Mese

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di Maria Paola Zanoboni

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di Marco Di Branco

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paleografia I rotoli di Vercelli

L’ora di religione

di Timoty Leonardi e Jennifer Shurville

24

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immaginario I tarocchi

Trionfi e sortilegi

di Laura Paola Gnaccolini

88

luoghi roma I secoli di una basilica di Agnese Morano

Eleonora d’Arborea

Nell’isola della iudichissa di Roberto Roveda, con la collaborazione di Marco Tagliaferri

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96

CALEIDOSCOPIO

protagonisti

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CArlo e il califfo di Furio Cappelli

STORIE la caduta di costantinopoli Un massacro in nome di Dio

Dossier

cartoline Uno smeraldo tra le montagne

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libri Sulla Francigena, in vista di Roma... L’uomo oltre il mito Lo scaffale

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musica Profeti in patria Musiche dalla laguna Missione compiuta

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Ante prima

Oro, piume e losanghe restauri • La Madonna con Bambino di Citerna,

fino a pochi anni fa confusa tra le opere anonime della chiesa di S. Francesco, è, in realtà, una scultura plasmata da Donatello. Che ora, al termine di un lungo e accurato intervento, ha ritrovato la sua magnificenza originaria

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opo un restauro durato sette anni, la Madonna con Bambino in terracotta policroma di Donatello, risalente al secondo decennio del Quattrocento, torna nella chiesa di S. Francesco a Citerna, in Umbria. La pregiata scultura fu scoperta casualmente nel 2001, durante la catalogazione delle opere del XIV e XV secolo custodite nell’edificio religioso. L’intervento di ripulitura, condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha permesso di confermare l’attribuzione a Donatello e ha riportato alla luce la policromia originale, ancora esistente sotto i vari strati pittorici aggiunti in epoche diverse. È inoltre emerso che l’opera di Citerna, dalla superba fattura, non è una copia ricavata da uno stampo, come per altre Citerna (Perugia), chiesa di S. Francesco. Due immagini, dopo il restauro, della Madonna con Bambino in terracotta policroma, scolpita da Donatello nel secondo decennio del XV sec. gennaio

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A sinistra la Madonna con Bambino di Donatello prima del restauro. A destra Luca della Robbia il Giovane, particolare della Madonna con Bambino in terracotta invetriata. Prima metà del XVI sec. In basso particolare delle decorazioni in oro sul manto della Madonna con Bambino di Donatello: si riconosce una corona gigliata, inserita in un cerchio a otto punte. Maestà destinate al culto privato, ma una scultura modellata direttamente a tutto tondo, in un unico blocco di argilla. Donatello, uno dei massimi esponenti del Rinascimento fiorentino, insieme a Brunelleschi e Masaccio, si impose per ricerca espressiva e prospettica, definendo una personalissima via al plasticismo e al realismo. Le sue composizioni sono contraddistinte da un vivace dinamismo e, insieme, da un essenziale lirismo. Allontanandosi definitivamente dalle esperienze tardo-gotiche, trattò con incomparabile maestria tecniche e materiali di differente natura, infondendo vitalità, energia e umanità ai personaggi raffigurati.

La delicatezza degli incarnati Recuperando la raffinata cromia data dall’impiego di materiali preziosi come oro, argento, lapislazzuli e lacche, applicata con una sensibilità quasi miniaturistica nella stesura dei colori e nell’esecuzione degli ornamenti, sono tornati visibili i delicati incarnati della Madonna e del Bambino. La ritrovata leggibilità si riscontra anche nei capelli realizzati con la foglia d’oro o nell’elegante

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dimensioni e il peso contenuto (114 cm x 58 Kg circa).

Un’opera «di scarso valore»

bordo dorato e punzonato con tralci vegetali delle vesti della Vergine, coperta da un ricco manto in broccato bianco decorato da motivi floreali e da corone gigliate, inserite in un cerchio dorato con otto punte. Perfino la sua veste rosso lacca, accurata nei panneggi e nei dettagli figurativi, ha rivelato disegni in oro, con piume inserite in losanghe, probabile allusione alla casata dell’ignoto committente del manufatto. Il gruppo scultoreo, databile tra il 1415 e il 1420, s’inserisce nella categoria di opere devozionali destinate ad ambienti di culto ecclesiastico o alla preghiera familiare all’interno di case patrizie, come suggeriscono le

Sempre a Citerna, nella chiesa di S. Michele Arcangelo, è stata scoperta una Madonna con Bambino attribuita a Luca della Robbia Il Giovane, in terracotta invetriata policroma; descritta da una targhetta come «un’opera popolare di scarso valore», era stata pesantemente ridipinta nell’Ottocento. Le indagini chimiche, però, hanno rivelato nello smalto blu della Vergine la presenza di arsenico associato a nichel e cobalto: prova scientifica che la scultura è una robbiana degli anni Trenta del Cinquecento. Le due opere sono il punto di partenza di un itinerario dedicato alle «Madonne rinascimentali nell’Alta Valtiberina». A pochi chilometri da Citerna, in località Monterchi, si trova infatti uno dei piú noti capolavori di Piero della Francesca, la Madonna del Parto (1455-56 circa). E a questo ideale viaggio artistico, che tocca anche Città di Castello e Spoleto, si aggiunge la Madonna col Bambino in legno policromo di Jacopo della Quercia, del 1420 circa, conservata ad Anghiari. Mila Lavorini

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Ante prima

Tesori tra i laghi itinerari • Un progetto interdisciplinare, mirato non solo alla valorizzazione

del patrimonio artistico, è l’occasione per riscoprire le testimonianze di età medievale conservate nei dintorni del lago Maggiore e del lago d’Orta

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ell’ambito del progetto «Cuore verde tra due laghi», che mira alla promozione del territorio compreso fra il lago Maggiore e il lago d’Orta, è stato messo a punto un circuito medievale, adatto a chi vuole scoprire senza fretta piccoli gioielli, defilati rispetto agli itinerari turistici tradizionali. Nell’area stretta fra i due specchi d’acqua, già abitata dai Romani, alla storia si intrecciano le suggestioni di leggende tramandate da generazioni, come quella della «castellana di Giasso», il cui fantasma tornerebbe a mostrarsi nelle notti di nebbia, o quella dell’«uomo selvatico», a caccia di leccornie. Qui, nel Vergante, hanno dominato a lungo i Visconti, la cui presenza è testimoniata da strutture quali il castello di Massino Visconti e le torri di Invorio e Gozzano. Ma fra le colline novaresi ci sono anche diversi luoghi di culto,

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conservati molto bene, che vale la pena di visitare.

Le tre teste della Trinità L’itinerario medievale, che muove da ovest, può partire dalla chiesa dell’Assunta di Armeno, che grazie ai restauri recenti ha riacquisito la fisionomia originaria: la semplice facciata grigia a salienti, con tre monofore, vanta un portale a tutto sesto con capitelli zoomorfi riconducibili alla simbologia

romanica. All’interno sono da vedere gli affreschi di santi e profeti realizzati fra Tre e Quattrocento, rimasti nascosti sotto la calce fino agli anni Sessanta, e una Trinità tricefala del XIV secolo, forma di rappresentazione ormai rara, perché condannata dal Concilio di Trento. È dedicata all’Assunta anche la chiesa romanica di Ameno, voluta secondo la tradizione da San Giulio, su un nucleo piú antico. E, nello stesso Comune, la parrocchiale di S. Antonio Abate offre una vista panoramica sul lago d’Orta. Gozzano conta invece due testimonianze dell’Età di Mezzo: eretta nel XII secolo, sebbene conservi la dedica paleocristiana al santo martire, la chiesa di S. Lorenzo sorge nei pressi del cimitero e ha svolto a lungo una funzione legata alla sepoltura; non lontano svetta la Torre del Buccione, che dal 1100 segna il paesaggio da una posizione gennaio

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A destra Briga Novarese (Novara). L’abside della chiesa di S. Tommaso, fondata verosimilmente intorno al Mille. Qui sotto Armeno (Novara). La chiesa romanica di S. Maria Assunta. Nella pagina accanto, in alto veduta di Massino Visconti (Novara), situato sulle alture del Vergante, sopra la sponda sud-occidentale del Lago Maggiore. Nella pagina accanto, in basso Invorio (Novara). La torre viscontea.

Mille, in un bosco di faggi e betulle. L’iniziativa «Cuore verde tra due laghi» fa capo all’Associazione Culturale Asilo Bianco e vede il coinvolgimento della Provincia di Novara e di undici Comuni della zona collinare, che si sono riuniti per valorizzare le loro eccellenze in ambito artistico, enogastronomico, naturalistico. Per informazioni: Associazione Culturale Asilo Bianco, tel. 0322 998717 oppure 320 9525617; www.cuoreverdetraduelaghi.it Stefania Romani strategica. La parte bassa, circondata da una cerchia muraria, ospitava il magazzino per i viveri, mentre sopra erano distribuiti gli spazi destinati all’eventuale combattimento. La struttura fa parte della riserva naturale in cui rientrano il Sacro Monte di Orta e il Monte Mesma di Ameno. Risale agli anni attorno al Mille l’oratorio di S. Tommaso a Briga Novarese, edificio ad aula unica, con la facciata a capanna, che sorge su una collina fuori dal centro abitato. All’interno, nell’abside e nell’arco trionfale, custodisce un ciclo di affreschi di gusto bizantino: figure stilizzate, che sembrano dialogare grazie a gesti immediati, sono dipinte con pennellate che vanno dal rosso all’ocra, su cui spiccano alcuni tocchi di verde. Sono ben leggibili la Madonna, San Pietro con le chiavi del Paradiso, gli Apostoli e un incisivo Cristo in Maestà circondato dai simboli degli Evangelisti.

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Risalendo verso est, a Invorio merita una tappa la torre viscontea, visibile solo all’esterno: la merlatura a coda di rondine e la porta collocata a 5 m di altezza dal suolo sono i caratteri salienti della fortificazione che proteggeva una delle dimore dei Visconti, un castello con cortile interno di cui ormai rimangono solo poche tracce.

Nel paese degli ombrellai Infine vale la pena di raggiungere il borgo di Massino Visconti, che, fra Otto e Novecento, era una tappa obbligata per gli ombrellai del Vergante, la cui abilità era riconosciuta in tutta Europa. Nel paese si possono vedere la chiesa di S. Michele, con il campanile romanico in pendenza, diventato nei secoli un elemento di forte identità collettiva. Ci sono poi la chiesa di S. Maria della Purificazione e l’eremo di S. Salvatore, un complesso realizzato a partire dal

Errata corrige con riferimento all’immagine di copertina del n. 190 di «Medioevo» (novembre 2012), utilizzata anche a p. 26 per l’articolo «La vendetta di Federico II», desideriamo precisare che si tratta di un particolare degli affreschi che ornano la Sala Baronale del Castello della Manta (Cuneo), nel quale è ritratto Federico II, marchese di Saluzzo e non Federico II di Hohenstaufen, imperatore. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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Ante prima

I due maestri

mostre • A cavallo tra Trecento e Quattrocento, la

scena artistica bolognese è dominata da Simone di Filippo e Jacopo di Paolo. La loro attività è segnata da una sorta di «passaggio del testimone». Attraverso il quale si può leggere anche l’evolversi dello stile e dei canoni, all’indomani dell’esperienza giottesca

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a nuova esposizione allestita dal Museo Civico Medievale di Bologna nasce dalla fortunata circostanza del deposito presso i Musei Civici d’Arte Antica, da parte di un collezionista privato, di due preziose tavole raffiguranti la Madonna con Bambino e la Crocifissione, rispettivamente di Jacopo di Paolo (documentato dal 1378 al 1426) e di Simone di Filippo, detto dei Crocefissi (documentato dal 1355 al 1399). Le due opere, esposte insieme ad altri dipinti su tavola e a miniature provenienti da musei e collezioni private, vanno ad accrescere il già ricco nucleo di pittura medievale presente all’interno delle Collezioni Comunali d’Arte e del Museo Davia Bargellini.

Personalità di spicco L’esposizione costituisce quindi l’occasione per mettere a confronto le due diverse personalità artistiche: i due pittori bolognesi, a cui è dedicata la mostra, furono infatti a capo di importanti botteghe, che dominarono la scena artistica locale durante la seconda metà del Trecento e, nel caso di Jacopo di Paolo, fino al primo Quattrocento. Simone di Filippo, Crocifissione, tempera su tavola. 1395-1399. Collezione privata, deposito presso i Musei Civici d’Arte Antica di Bologna.

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Dove e quando

«Simone e Jacopo: due pittori bolognesi al tramonto del Medioevo» Bologna, Museo Civico Medievale fino al 3 marzo Orario ma-ve, 9,00-15,00; sa-do e festivi infrasettimanali, 10,00-18,30; chiuso lu (feriali) Info tel. 051.2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it; www.comune. bologna.it/iperbole/museicivici Figlio del calzolaio Filippo di Benvenuto, Simone, documentato come pittore a Bologna dal 1354 al 1399, è ancora attivo nel solco delle precedenti esperienze di Vitale da Bologna (attivo dal 1330 al 1360 circa); viene ribattezzato Simone «dei Crocifissi» in epoca seicentesca, dallo scrittore e pittore Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), che ne sottolineò l’abilità nel dipingere «immagini grandi del Redentore, per amor nostro confitto in croce». La sua fase iniziale è testimoniata a metà degli anni Cinquanta del Trecento dagli affreschi in parte firmati con le Storie di Cristo, provenienti dalla chiesa di S. Maria di Mezzaratta, oggi conservati nella Pinacoteca Nazionale, dove l’interesse per le soluzioni spaziali e plastiche di origine giottesca fiorentina è riletto con una pungente espressività.

La lezione di Vitale La lezione della pittura di Vitale si coglie in maniera piú incisiva in opere come il polittico n. 474, sempre alla Pinacoteca di Bologna, mentre tavole come la Pietà di Giovanni Elthinl (1368), qui esposta, e il Crocifisso di S. Giacomo (1370), evidenziano l’aggiornamento sui modi solenni di Jacopo Avanzi, anche se alla gennaio

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ripresa letterale di Giotto, condotta da quest’ultimo, Simone preferisce immagini capaci di farsi piú efficaci dal punto di vista devozionale grazie all’essenzialità della composizione e all’espressività semplice e immediata. Queste prerogative gli permettono di raggiungere ben presto una posizione di primo piano in ambito bolognese, come autore di tavole destinate sia alle chiese cittadine, sia a singoli committenti. Anche Jacopo di Paolo agli esordi

è attivo nel cantiere di Mezzaratta, dove affresca due Storie di Mosè, eseguite forse sulla base di idee di Jacopo Avanzi, in cui è evidente l’apertura alle nuove istanze del neogiottismo, che peraltro costituisce una costante del suo lungo percorso, non estraneo in ultimo perfino alle piú immaginose sollecitazioni tardo-gotiche di Giovanni da Modena.

Scarto generazionale Il forte senso plastico nelle figure e la razionalità dell’impianto spaziale, riscontrabili per esempio in dipinti quali la piccola tavola con il San Giovanni Battista, di collezione privata, in deposito presso il Museo Davia Bargellini, la piccola pala con Madonna in trono, collezione privata, ora in deposito presso i Musei Civici d’Arte Antica, le tavolette con le Storie di Santa Margherita, già collezione Stramezzi, ora divise tra la Fondazione Longhi di Firenze e la Galleria Moretti, sono infatti frutto di una diversa e nuova riflessione sull’esperienza di Giotto, e divengono espressione di una piú moderna consapevolezza che dimostra lo scarto generazionale fra Simone e Jacopo, pur essendo d’altro canto entrambi gli artisti in grado di ottenere un ampio risalto nell’ambito cittadino, come attestano, soprattutto per Jacopo di Paolo, gli importanti riconoscimenti ottenuti in campo pubblico. L’attività di quest’ultimo si rivela infatti assai versatile, essendo egli stato impegnato a vari livelli entro la diramata e fervida realtà politica e culturale della città, che in lui poté trovare un valido interprete. Prestigiose imprese decorative

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In alto Jacopo di Paolo, San Giovanni Battista, tempera e oro su tavola. 1380 circa. Bologna, collezione privata, deposito presso il Museo Davia Bargellini. A sinistra Jacopo di Paolo, Madonna col Bambino in trono, tempera e oro su tavola. 1370-1380. Collezione privata, deposito presso i Musei Civici d’Arte Antica di Bologna. cittadine lo vedono all’opera, talvolta anche in collaborazione con scultori, come nel grande cantiere di S. Petronio, avviato nel 1390, per il quale fornisce i disegni per le sculture nel basamento della facciata e il progetto per le vetrate e il polittico ligneo nella cappella dei Magi di Bartolomeo Bolognini. (red.)

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Ante prima

Al lupo, al lupo! appuntamenti •

In occasione del Carnevale, il borgo di Chianale diviene teatro di una festa dalle radici antiche. Ne sono protagonisti gli uomini, che, vittime di una sorta di licantropia «volontaria», animano le strade del villaggio con rituali carichi di simbologia

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hianale (1799 m slm), segnalato tra i borghi piú belli d’Italia, è uno splendido villaggio dell’alta Val Varaita (Cuneo), ai piedi del Colle dell’Agnello (2748 m). In questa suggestiva borgata alpina, frazione del Comune di Pontechianale, gli abitanti celebrano l’arrivo del Carnevale con una festa tradizionale, chiamata li loup, il Carnevale del Lupo. Il rituale, l’unico in Piemonte ad avere come protagonista la maschera zoomorfa dell’uomolupo, è riservato ai soli uomini, in quanto le donne vi partecipano indirettamente nelle vesti di «prede». Estintasi nei primi anni Sessanta del Novecento, anche per la mancanza di giovani maschi, la manifestazione è stata ripresa nel 1999, grazie alla tesi di laurea di Erika Para (Un Carnevale alpino: il Lupo di Chianale) e ad alcuni volontari. I festeggiamenti iniziano il pomeriggio del sabato grasso, quest’anno il 9 febbraio, con la vestizione simbolica e rituale del protagonista. La trasformazione dell’uomo in animale avviene indossando due pelli di pecora, bianche o nere secondo la disponibilità, conciate, cucite insieme e indossate a mo’ di

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mantella, legata in vita da uno spesso cinturone in cuoio, a cui è attaccato un grosso campanaccio, lou picún ( che si mette al collo delle mucche all’alpeggio), ripetutamente sbatacchiato dall’attore per avvertire del suo arrivo. Inoltre, dal dopoguerra, il viso dell’interprete è nascosto da una maschera antigas che, con molta fantasia, può ricordare il muso del lupo. Invece le orecchie sono realizzate riadattando i paraorecchi dei muli, la bero d’la mulo. Questa figura fantastica nata dalla combinazione tra uomo e animale, rimanda al mascheramento della belva da temere perché pericolosa e al primordiale totemismo dell’uomo cacciatore e protoallevatore.

Candidi e chiassosi A Chianale il Lupo non agisce solo, ma ha alcuni assistenti, i loups. Personaggi privi di un appellativo specifico che, comunque, si sentono dei lupi. Il loro costume consiste in una camicia, rigorosamente bianca, ordinari pantaloni di velluto marrone, un cappello con un nastro colorato, un foulard rosso e una scarlinero, la sonagliera dei muli e delle mucche, legata in vita.

Il volto dei loups è solitamente pitturato con colori sgargianti: blu, rosso, verde, quasi a emulare coraggiosi guerrieri. Dal punto di vista simbolico il colore bianco (candidus) della camicia è quello del «candidato», ossia di colui che sta per cambiare condizione. Infatti i «colleghi» del Lupo, un tempo celibi, ora anche sposati, erano pronti a cambiare il loro status sociale con il matrimonio. Il rosso del foulard e dei segni sul viso, considerato come un colore aggressivo, vitale, è legato al fuoco, all’amore e alla lotta per la vita. Il bianco unito al rosso può, secondo la simbologia di antiche credenze, essere il segno propiziatorio di una nuova vita, generata dall’incontro dello sperma (bianco) con il sangue mestruale (rosso). Terminato il mascheramento, il gruppo, chiamato in dialetto lou troupel o l’escadro, si riunisce nella piazzetta del paese e inizia il percorso di questua. Il «branco» parte festosamente, ululando al suono della fisarmonica o dell’organetto a bocca. Durante gli spostamenti da un’abitazione all’altra il Lupo entra in scena scortato dai lupetti, che gli corrono gennaio

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attorno. Costoro tengono tra le mani una lunga «corda-catena», alla cui estremità è attaccata l’innocua belva, che scalpita, salta, si dimena, cercando di liberarsi compiendo movimenti scoordinati. Simbolicamente la catena (o corda) rappresenta la prigionia e la schiavitú di chi è stato sconfitto, (l’inverno, il male), perciò questo rito può essere spiegato anche come il tentativo dell’uomo che, incatenando l’animale, cerca di ammaestrare e controllare la natura, mai completamente domata nonostante innumerevoli sforzi.

Allusioni erotiche Ma c’è dell’altro. Il Lupo, nonostante la sua condizione di prigionia, simula di aggredire le coraggiose ragazze, che osano attraversargli la strada. Le assale sessualmente e le «sporca» ritualmente con il carbone, conferendo alla messa in scena una funzione erotico-orgiastica, che rimanda a cerimoniali di

Nelle due pagine immagini della festa carnascialesca di Chianale, che ha per protagonista il lupo.

propiziazione e fertilità. Non a caso, nel mondo animale, il periodo di accoppiamento dei lupi avviene nei mesi di febbraio-marzo, proprio in coincidenza del Carnevale. Dal primo pomeriggio il tintinnare armonioso dei campanelli, le scarlinieres, appesi alla cintura dei loups, il suono forte e deciso del campanaccio del Lupo, le

urla del branco, le grida di paura e di divertimento delle ragazze aggredite, che riecheggiano per le strette e sinuose stradine del borgo, annunciano ai Chianalesi di aprire le abitazioni e, soprattutto, le dispense. È la cerimonia del «dono e contro-dono». Il gruppo, accolto in ogni casa della borgata, porta allegria con danze, musica e risate, ricevendo in cambio qualche prodotto alimentare da riporre nella cavanho, la cesta dei doni, e da consumare nella grande festa finale. Oltre alle offerte tradizionali, soprattutto uova con cui si confezionano le binhes, frittelle tipiche del Carnevale di Chianale, i loups ricevono anche uno spuntino, accompagnato da vino in abbondanza, per riscaldare corpo e spirito. Alla festa partecipano anche uno o piú suonatori, che si esibiscono in musiche e balli tradizionali d’Oc. I festeggiamenti si protraggono fino a tarda sera, condividendo tutti insieme quanto raccolto nella questua. Chiara Parente


Ante prima

Le stagioni in maschera appuntamenti • Per le strade di Absam, nel Tirolo austriaco, fin dal periodo

natalizio, Inverno e Autunno, seguiti da Primavera ed Estate si avvicendano in pittoreschi e variopinti cortei, che culminano nell’ultima domenica di carnevale

A sinistra alcune delle maschere che animano il carnevale di Absam (Austria). Nella pagina accanto pellegrini si bagnano nelle acque del Gange. l’Inverno e l’Autunno: il primo è impersonato dallo Zottler, con un costume colorato a frange, una maschera di legno, folti baffi e un’enorme acconciatura, il secondo è evocato dallo Zaggeler, che indossa un abito blu con nappe policrome, un copricapo di pelliccia di volpe e regge una bacchetta ricurva di salice. Li accompagnano il Kloetzler e il Flitscheler: il primo caratterizzato da un vestito con rumorosi cubetti di legno; il secondo prende il nome dalle foglie di pannocchia essiccate di cui è ricoperto il suo abito, a celebrare la coltivazione di mais, tipica di Absam.

Selvaggi e streghe

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ituato nel Tirolo austriaco, il paese di Absam ospita un carnevale storico, celebre per le maschere cariche di simbolismi della tradizione alpina, che rappresentano una straordinaria espressione popolare dell’eterna lotta fra il bene e il male, dell’avvicendarsi delle stagioni e del rapporto tra uomo e

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natura. Piccoli cortei di Matschgerer, ovvero di «portatori di maschere», sfilano fin dal periodo natalizio e per tutto il mese di gennaio, raggiungendo il culmine nell’ultima domenica di carnevale, quest’anno il 10 febbraio, con la parata composta dai personaggi che rappresentano le quattro stagioni. Aprono il corteo

Seguono la Primavera e l’Estate, impersonati dai piú gradevoli Spiegeltuxer e Altartuxer: il primo prende il nome dalla giacca che indossa, il secondo dall’enorme copricapo di 14 kg, fatto con piume e pailettes. Le due maschere sono accompagnate dalle loro guide, il Bianco o Mezzobianco per la primavera, il Melcher per l’estate. Al corteo appartengono anche i Selvaggi, ricoperti da arbusti di ginepro dalla testa ai piedi, e le Streghe, che indossano maschere grigiastre e allontanano intimoriti gli spettatori con le loro scope. Dalla tradizione popolare deriva infine la presenza di Orsi e Mandriani, che ballano insieme, a rappresentare il confronto dell’Inverno con la Primavera. Tiziano Zaccaria gennaio

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Tre bagni per la salvezza È

considerato il piú grande fenomeno religioso del mondo. Ogni quattro anni in India va in scena il gigantesco pellegrinaggio di Kumbh Mela, che riunisce milioni di induisti in preghiere, riti sacri, meditazioni, dibattiti filosofici e canti, culminando con i bagni nelle acque sacre. Una volta ogni tre anni i pellegrini si radunano per circa un mese in uno dei quattro luoghi consacrati, Nasik, Ujjain, Allahabad e Hardwar, che alternativamente ospitano l’evento. La prossima Kumbh Mela si terrà, dal 27 gennaio al 25 febbraio, ad Allahabad, l’antica città santa di Prayag, da sempre centro di cultura e religione nella millennaria storia indiana, situata nello Stato dell’Uttar Pradesh e bagnata dal Gange, dove quest’anno sono attesi 70 milioni di pellegrini. Le date sono stabilite dagli astrologi, per i quali la cerimonia sacra deve avere luogo solo quando Giove entra in Acquario e il sole entra in Ariete: si ritiene, infatti, che un simile allineamento planetario crei le condizioni ideali per una perfetta meditazione e concentrazione. La Kumbh Mela esiste da tempo immemorabile, ma per restituire vigore e purezza all’induismo, che stava languendo di fronte a buddhismo e Islam, nell’VIII secolo il maestro Adi Shankaracharya istituí la tradizione di svolgere incontri filosofici per discutere della Verità Assoluta e del bene supremo per l’umanità. Kumbh significa «vaso» e si riferisce al recipiente che avrebbe contenuto il nettare dell’immortalità, mentre Mela vuol dire «festa». Il kumbh venne strappato dagli dèi ai demoni, ma, nella confusione, alcune gocce di nettare caddero nei fiumi Godavari, Kshipra e Gange, che bagnano i quattro centri sopracitati. E per la religione indú, queste gocce libererebbero dal ciclo della rinascita coloro che nella loro vita si bagnano tre volte in queste acque, dunque una sorta di «salvezza». T. Z.

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agenda del mese

Mostre Parigi «Ed essi si meravigliarono...», la Croazia medievale U Musée de Cluny, Musée nationale du Moyen Âge fino al 7 gennaio

«Ed essi si meravigliarono…»: cosí scrisse Goffrédo di Villehardouin, uno dei protagonisti della quarta crociata, per descrivere la reazione dei pellegrini alla vista della città dalmata di Zara (l’odierna Zadar, in Croazia). E cosí è intitolata l’esposizione, allestita nel Museo di Cluny, che riunisce una quarantina di opere, scelte a rappresentare non soltanto il dinamismo e l’originalità delle creazioni artistiche locali fiorite tra il IX e il XIV secolo, ma anche la ricchezza degli scambi tra le province dell’odierna Croazia con il resto d’Europa in quel periodo. info www.musee-moyenage.fr

rancate (Mendrisio) Serodine e brezza caravaggesca sulla «Regione dei laghi» U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 13 gennaio

Giovanni Serodine (1594/1600-1630), vanto del Ticino e di

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a cura di Stefano Mammini

Roma nel primo terzo del Seicento, è noto quale uno dei piú rilevanti interpreti della tendenza naturalistica di tutto il secolo. Pittore ignorato dai suoi contemporanei, viene riscoperto e rivalutato dalla critica del Novecento che gli assegna finalmente il giusto posto nella costellazione dei piú importanti pittori della storia dell’arte in Italia. A distanza di circa vent’anni dall’ultima monografica, la Pinacoteca Züst propone un’attenta retrospettiva dell’artista, affiancata da dipinti di suoi compagni di avventura figurativa. info tel. +41 (0)91 8164791; e-mail: decs-pinacoteca.zuest@ti. ch; www.ti.ch/zuest

HAARLem Il michelangelo olandese. Cornelis van Haarlem (1562–1638) U Frans Hals Museum fino al 20 gennaio

provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Bamberga (Staatsbibliothek Bamberg), la mostra presenta un’ampia rassegna dei piú antichi e preziosi testimoni dell’arte della miniatura tedesca, a partire dall’epoca carolingia, passando per la produzione artistica ottoniana fino all’arte romanica. info www.hypo-kunsthalle.de

roma MOnaco Splendori su pergamena. Tesori della miniatura dal 780 al 1180 U Hypo-Kulturstiftung fino al 13 gennaio

Grazie a settantadue codici di straordinario valore, appartenenti al fondo della Biblioteca Nazionale Bavarese (Bayerische Staatsbibliothek), e a tre preziosissimi volumi

Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese U Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio

Conoscitore e mercante d’arte, Johannes Vermeer (1632-1675) si considerava soprattutto un pittore, eppure dipinse non piú di 50 quadri (oggi se ne conoscono solo 37). Delle sue opere riconosciute autografe, nessuna appartiene a una collezione italiana e solo 26 dei suoi capolavori, conservati in 15 collezioni diverse, possono essere movimentati. Le Scuderie del Quirinale ne accolgono 8, dalle donne «ideali» alla celebre Stradina, affiancati da cinquanta capolavori degli artisti suoi contemporanei, tra cui Carel Fabritius e Nicolaes Maes, Gerard ter Borch, Pieter de Hooch, Gerrard Dou, Gabriel Metsu, Frans van Mieris e Jacob Ochtervelt. info e prenotazioni tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it

Ispirato dai grandi maestri italiani, primo fra tutti Michelangelo, Cornelis van Haarlem fece il suo apprendistato ad Amsterdam, per poi completare la sua formazione a Rouen e Anversa. Rientrò nella natia Haarlem a ventun anni, dopo aver fatto sua la lezione manierista, di cui elaborò una personale interpretazione. Nelle sue grandi tele, rappresentò spesso temi fortemente drammatici, con toni molto decisi, sorprendendo l’osservatore con composizioni ricche di pathos e caratterizzate da colori violenti, grande espressività dei gesti e corpi di cui la nudità esalta la muscolatura possente. info www.franshalsmuseum.nl

siena Puer Natus. L’infanzia di Gesú nei corali miniati del Duomo di Siena U Cripta sotto il DuomoLibreria Piccolomini fino al 27 gennaio

Allestita in occasione delle feste, la mostra gennaio

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metà del Quattrocento. Il percorso espositivo è completato da una sezione multimediale che permette di «sfogliare» su touch screen le preziose carte, ammirando nei dettagli la bellezza delle miniature. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www. operaduomo.siena.it

teramo Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 e terzo fuoco. La collezione Matricardi U Pinacoteca Civica fino al 31 gennaio

parigi presenta una sorta di prezioso «Presepe», costituito dalle magnifiche miniature dedicate all’Annunciazione, alla Natività, all’Adorazione dei Magi e alla Presentazione al Tempio di Gesú. Nella Libreria Piccolomini i corali selezionati sono aperti, per la prima volta, a una carta (pagina) diversa rispetto a quella dell’esposizione permanente. In Cripta, l’infanzia di Gesú è illustrata da preziosi corali della fine del XIII secolo provenienti dal Museo e dall’Archivio dell’Opera del Duomo. Essi rappresentano un tassello fondamentale per la ricostruzione della storia della miniatura tra la fine del Duecento e gli inizi del Cinquecento e fanno parte di un corpus di circa trentacinque codici realizzato per la Cattedrale di Siena in due diverse serie: una risalente alla fine del Duecento, l’altra alla seconda

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Cipro. Tra Bisanzio e l’Occidente, IV-XVI secolo U Museo del Louvre fino al 28 gennaio

Il Louvre rende omaggio al semestre di presidenza di Cipro del Consiglio dell’Unione Europea con una rassegna che concentra la propria attenzione sull’epoca medievale e documenta la storia cipriota nel periodo compreso tra il IV e il XVI secolo. Miniature, sculture, frammenti architettonici, gioielli e ceramiche provano che, anche nell’Età di Mezzo, Cipro aveva mantenuto la sua natura di snodo cruciale nella rete dei rapporti economici e culturali che coinvolgeva i Paesi del Mediterraneo. info www.louvre.fr

L’esposizione presenta una selezione di 220 capolavori, realizzati tra il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e i Grue, che hanno reso famosa la maiolica castellana in tutto il mondo. La mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme, colori e motivi tipici di questa produzione,

magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi. L’evento presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», che si deve all’ingegner Giuseppe Matricardi, il quale, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica. info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it torino Dante ti amo. Testo e immagini della Divina Commedia U Palazzo Madama fino al 31 gennaio

piemontese ha acquisito, oltre a testi scritti, disegni, sculture e dipinti. Il percorso espositivo, ricco e articolato, va dai primi manoscritti, tra cui una stesura della Commedia prodotta nel Trecento a Firenze, all’edizione illustrata da Gustave Doré. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino. it

milano Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca e la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento U Pinacoteca di Brera fino al 17 febbraio

Nel 2009 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, esercitando il diritto di acquisto all’esportazione, ha comprato il piú antico mazzo di tarocchi italiano completo (che è anche il piú antico esistente al mondo), noto come «mazzo Sola Busca» dai nomi dei precedenti possessori (la marchesa Busca e il conte Sola) e l’ha destinato alla Pinacoteca di Brera, che già conservava un

La rassegna fa luce sulla fortuna del capolavoro dantesco, ponendo l’accento sulla nascita e l’evolversi dell’iconografia legata alle Cantiche: novanta opere, provenienti dalla collezione privata dell’imprenditore Livio Ambrogio, coprono un arco cronologico di sette secoli. Affascinato dal mondo che ruota attorno al sommo poeta, il bibliofilo

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agenda del mese gruppo di 48 carte, parte di un prezioso mazzo tardo-gotico realizzato per il duca di Milano (mazzo cosiddetto Brambilla). La mostra presenta questa importante acquisizione, indagandone il contesto culturale e le possibili fonti, nonché la complessa iconografia, arrivando cosí anche a precisarne la datazione e a identificare l’artista che l’ha realizzata. info tel. 02 722 63 264; www.brera.beniculturali.it zurigo Capitale. Mercanti a Venezia e Amsterdam U Museo Nazionale Svizzero fino al 17 febbraio

di credito e di commercio che sono tuttora in uso. Entrambe le città erano rivolte verso il mare, correvano rischi, costruivano vascelli, praticavano il commercio a lunga distanza, subivano perdite ma ottenevano anche ingenti profitti. Con l’aumento del benessere e la nascita di una società borghese pre-moderna, per esempio ad Amsterdam, la cultura e lo sfarzo presero il sopravvento sul rischioso commercio a lunga distanza. Si iniziò cosí a investire nella cultura e nel lusso, decretando cosí la fine dell’epoca di massimo splendore di entrambe le città. Come la mostra suggerisce, ciò che sembra appartenere alla storia e lontano dalla nostra realtà si rivela invece di sorprendente attualità. info www.kapital. landesmuseum.ch torino

La mostra ripercorre le origini del nostro sistema economico attuale, il capitalismo, nella storica Repubblica marinara di Venezia e nell’«Età dell’oro» di Amsterdam. Venezia a partire dal XIII secolo e Amsterdam nel XVII secolo svolsero un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale dell’Occidente. I commercianti di allora inventarono forme di finanziamento,

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Riflessi d’Oriente. 2500 anni di specchi in Cina e dintorni U Museo d’Arte Orientale fino al 24 febbraio

Lo specchio è l’oggetto artistico della Cina che meglio di ogni altro racchiude la storia delle

concezioni estetiche e cosmologiche, lo sviluppo dei motivi decorativi e iconografici, gli interessi e le aspirazioni della società cinese di ogni epoca. Nucleo centrale della mostra che gli viene dedicata dal MAO sono gli specchi prodotti in Cina tra il periodo degli Stati Combattenti e la fine della dinastia Tang, cioè dal V secolo a.C. al X secolo d.C.: 1500 anni che corrispondono al periodo di maggiore sperimentazione e di maggiore interesse artistico-culturale nei confronti dello specchio in Asia orientale. Non mancano tuttavia produzioni piú antiche e piú recenti e all’ampliamento dell’arco cronologico corrisponde anche un’estensione del contesto geografico della mostra: alcuni esemplari provenienti dall’area iranica, per esempio, invitano a riflettere sulla reciproca interazione tra Cina e Asia occidentale attraverso la mediazione del vasto mondo delle steppe. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@ fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it milano

giovanile con cui l’artista si misura con il tema della Pietà, partendo dal modello bizantino. Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i Sessanta del Quattrocento, Bellini compí il passaggio dall’icona bizantina all’immagine rinascimentaleumanistica del Cristo in Pietà, come testimoniano altre tre splendide opere provenienti da prestigiosi Musei italiani. Dipinti di precursori ed epigoni di Bellini nel Museo Poldi Pezzoli vengono per l’occasione accostati a questo nucleo centrale, per far comprendere l’impatto dell’artista veneto non solo sulla pittura contemporanea, ma anche sul gusto e sulle diverse epoche. info www.museopoldipezzoli.it

roma

Giovanni Bellini: dall’icona alla storia U Museo Poldi Pezzoli fino al 25 febbraio

Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente U Palazzo delle Esposizioni fino al 10 marzo

La mostra ruota intorno a uno dei capolavori del Museo Poldi Pezzoli, l’Imago pietatis di Giovanni Bellini (1430 circa-1516), opera

Oltre 150 manufatti originali – opere d’arte, tessuti, parati, oggetti in vetro e bronzo – oltre a modelli, mappe, ricostruzioni, percorsi interattivi e video

installazioni, raccontano la storia dell’intreccio di itinerari da Oriente a Occidente e viceversa, riassunti poi sotto il suggestivo termine di «Via della Seta». Molti i reperti esposti per la prima volta, come la dalmatica del parato di papa Benedetto XI, confezionata con sete asiatiche e tessuti italiani di ispirazione orientaleggiante, una straordinaria testimonianza del gusto per le stoffe preziose tartariche e della loro fortuna nel Tardo Medioevo presso le sfere piú alte del potere civile e religioso; la

fiasca cinese ottagonale del Museo di Arte Medievale di Arezzo, tra i primi vasi decorati in bianco e blu approdati in Europa; il manto di San Secondo del XIII secolo, proveniente da Venezia, una delle prime testimonianze delle manifatture della seta in Italia e importante attestazione del legame che per tutto il Medioevo unisce i tessuti suntuari al culto delle reliquie; il manuale di mercatura di Francesco Balducci gennaio

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Pegolotti, il piú famoso e completo manuale medievale a uso dei mercanti compilato dall’uomo d’affari fiorentino Balducci Pegolotti attorno al 1330-40. info www. palazzoesposizioni.it milano Costantino 313 d.c. U Palazzo Reale fino al 17 marzo

La rassegna celebra l’anniversario dell’editto con cui, nel 313 d.C., Costantino dichiarava lecito il cristianesimo. Il percorso si articola in sei sezioni che approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata dall’imperatore, e sono attentamente analizzate anche le tre istituzioni

mostre • Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento U Padova – Palazzo del Monte di Pietà

fino al 19 maggio (dal 2 febbraio) info tel. 049 8779005; e-mail: info@coopbembo.com; www.mostrabembo.it

L

a mostra dedicata a Pietro Bembo riporta a Padova, dopo cinque secoli, i capolavori della collezione che l’intellettuale veneto, poi divenuto cardinale, aveva riunito nella propria casa, ancora esistente nell’attuale via Altinate (oggi sede del Museo della Terza Armata). A partire dai primissimi anni Trenta del Cinquecento, Bembo aveva riunito dipinti di grandi maestri come Mantegna e Raffaello, sculture antiche di prima grandezza, gemme, bronzetti, manoscritti miniati, monete rare e medaglie. La ricchezza e varietà degli oggetti d’arte, raccolti per gusto estetico, ma anche come preziose testimonianze per lo studio del passato, rese agli occhi dell’Europa del tempo la casa di Bembo come «la casa delle Muse» o «Musaeum», precursore di quello che sarà il moderno museo. Per una breve stagione, proprio grazie all’influenza di Bembo e al suo gusto collezionistico, Padova divenne baricentro e crocevia della cultura artistica internazionale, perché in città prese vita qualcosa di inedito, che ebbe enormi ripercussioni nei secoli a venire, un nuovo modo di raccogliere e presentare non solo l’arte, ma la conoscenza stessa: nacque il Museo, termine che da allora diviene universale. Dopo la morte di Bembo i capolavori vennero venduti dal figlio Torquato e si dispersero nel mondo e oggi sono conservati nei grandi musei internazionali, che li concederanno eccezionalmente in prestito in occasione della mostra padovana. protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la Chiesa e la corte imperiale. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313. info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino

trento Un vescovo, la sua cattedrale, il suo tesoro. La committenza artistica di Federico Vanga (1207-1218)

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U Museo Diocesano Tridentino fino al 7 aprile

Il Museo Diocesano Tridentino rende omaggio a Federico Vanga, principe vescovo di Trento tra il 1207 e il 1218, nonché ispiratore della cattedrale di S. Vigilio, di cui ricorre l’VIII centenario della fondazione.

Discendente da una nobile famiglia della Val Venosta, imparentata con le piú potenti dinastie dell’area alpina, Vanga – che l’imperatore Federico II definí «nostro consanguineo» – negli anni del suo episcopato giocò un ruolo decisivo sul piano pastorale, politico, economico, legislativo. Non meno importanti furono le iniziative promosse in ambito artistico: edifici, codici miniati, oggetti d’oreficeria ci tramandano il ricordo indelebile di uno dei piú interessanti mecenati del Medioevo alpino e attestano le relazioni ad ampio raggio con centri di produzione artistica tra i piú famosi e di piú alto livello che il presule seppe coltivare.

info tel. 0461 234419; e-mail: info@ museodiocesano tridentino.it; www.museodiocesano tridentino.it

Modena Le vesti di sempre. Gli abiti delle mummie di Roccapelago e Monsampolo del Tronto. Archeologia e collezionismo a confronto U Musei Civici fino al 7 aprile

Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli archeologi trovarono nella cripta della chiesa parrocchiale di Roccapelago numerosi corpi perfettamente mummificati e ancora vestiti con i propri abiti, monili e medagliette devozionali. Quel rinvenimento

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agenda del mese sensazionale ha offerto lo spunto per una nuova, suggestiva esposizione, incentrata sugli abiti indossati dalla piccola comunità dell’Appennino modenese tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Settecento. Un vestitino da bambino, alcune camicie con ricami, sudari in tessuti poveri e cuffie in piú pregiati tessuti di seta e velluto saranno messi a confronto con gli abiti indossati da altre mummie dello stesso periodo rinvenute a Monsampolo del Tronto (AP). Viene proposto anche un ulteriore raffronto tra gli antichi tessuti restituiti dalle indagini archeologiche e i tessuti e le raccolte d’arte ed etnografiche del Museo Civico di Modena. info tel. 059 20331.0125; e-mail: museo.arte@ comune.modena.it; www.comune.modena.it/ museoarte

Treviso Tibet. Tesori dal tetto del mondo U Casa dei Carraresi fino al 2 giugno

La lunga storia del Tibet viene ripercorsa dall’esposizione allestita in Casa dei Carraresi, dove si

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possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico. Il percorso si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe, carte geografiche e documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Ampio spazio è quindi riservato alle numerose divinità buddhiste tibetane e alla produzione di statue e dipinti a esse dedicati. Accanto alla statuaria, che tocca vette artistiche di notevole valore, sono esposti anche gli oggetti di culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info

Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del

corpo e un sigillo in bronzo. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it

Appuntamenti torino Esposizione straordinaria del ritratto di Lionello d’Este di Antonio Pisano, detto Pisanello U Palazzo Madama-Corte Medievale fino al 13 gennaio

Lionello d’Este, signore di Ferrara dal 1441 al 1450. Fu realizzato in occasione di una sfida che mise a confronto Pisanello con un altro artista veneto del momento, Jacopo Bellini. L’idea della gara, celebrata dai letterati del tempo, documenta l’alta considerazione raggiunta dalle arti figurative nell’ambiente delle corti italiane del Rinascimento. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino. it

Bologna Arte e scienza in piazza dal 19 gennaio al 10 febbraio

Anche quest’anno Palazzo Madama offre ai visitatori la possibilità di un confronto ravvicinato con un grande capolavoro dell’arte italiana: il Ritratto di Lionello d’Este dipinto da Antonio Pisano, detto Pisanello. La tavola è stata restaurata nel 2008 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e proviene dalle raccolte dell’Accademia Carrara di Bergamo, ora chiusa per lavori di restauro e la cui riapertura è prevista per il 2014. Il dipinto è tra le opere piú celebri della pittura rinascimentale italiana e raffigura il marchese

Torna Arte e Scienza in Piazza, manifestazione di diffusione della cultura scientifica che propone oltre 100 eventi: mostre, spettacoli, incontri con personalità del panorama scientifico e culturale, film, giochi e laboratori creativi. Il centro storico di Bologna, da Palazzo Re Enzo alla Biblioteca Sala Borsa, dal Voltone del Podestà a Piazza Nettuno, si trasforma per tre settimane in un grande Art+Science Center che coinvolge il pubblico di ogni età. info www. artescienzainpiazza.it

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Costantinopoli 1204

Un massacro in nome di Dio di Marco Di Branco

Alle soglie del XIII secolo la sorte della capitale dell’impero d’Oriente è segnata: mai espugnata dalla sua fondazione, Costantinopoli diviene ora l’obiettivo principale della crociata indetta da Innocenzo III. Che ben presto si trasforma in una spedizione al servizio della Repubblica di Venezia e dei suoi interessi economici e politici

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trionfi della crociata furono i trionfi della fede, ma è pericolosa la fede senza la saggezza. Lo studioso che a secoli di distanza ne considera l’eroica storia deve sentire che la sua ammirazione viene offuscata dal dolore per la dimostrazione che essa offre dei limiti della natura umana. C’era tanto coraggio e cosí poca lealtà, tanta devozione e cosí poca comprensione; ideali elevati erano insozzati da crudeltà e cupidigia, spirito d’iniziativa e costanza nelle avversità erano annullati da un sentimento della propria giustizia cieco e limitato. La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio». Questa celeberrima sentenza di condanna, tanto piú significativa in quanto emanata da uno dei piú grandi storici del fenomeno delle crociate, sir Steven Runciman, è stata oggi riveduta e, almeno in parte, attenuata. Uno storico del calibro di Franco Cardini, per esem-

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L’assalto di Costantinopoli, dipinto di Palma il Giovane (al secolo Jacopo Negretti; 1544-1628). 1587 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio. Sede delle assemblee della piú importante magistratura della Repubblica, la sala era ornata da opere che celebrano gli episodi principali della storia della Serenissima, le gesta dei suoi cittadini piú valorosi e gli episodi bellici di maggiore rilievo.

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storie costantinopoli 1204 A sinistra Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti, olio su tela al quale lavorarono Carlo Saraceni e Jean Le Clerc, ma portato a termine dal solo artista francese per la morte del collega italiano. 1621 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

Nella pagina accanto Veduta del Palazzo Ducale e di Piazza S. Marco a Venezia, olio su tela di scuola veneta. 1900 circa. Collezione privata.

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pio, ha mostrato come non sia del tutto vero che le crociate provocarono lontananza e inimicizia reciproca tra Occidente cristiano e Oriente musulmano, ricordando che l’epoca in cui esse si svolsero (XI e XIII secolo), fu anche quella del massimo avvicinamento culturale e scientifico fra cristianità e Islam. E tuttavia, fra le nove crociate «ufficiali» riconosciute dagli sto-

rici, v’è n’è una che sembrerebbe adattarsi in toto al giudizio negativo espresso da Runciman; vale a dire la quarta, che si svolse tra il 1202 e il 1204: essa, infatti, lungi dal perseguire l’obiettivo della liberazione della Terra Santa, portò la guerra nel cuore dell’impero bizantino e produsse la caduta della piú grande capitale cristiana del tempo: Costantinopoli. Ma anche in questo gennaio

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caso, piú che giudicare, occorre capire. Come scrisse una volta Benedetto Croce, con le lamentazioni e i giudizi moraleggianti «si fa poesia, e non già storia. Quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero avvenuti».

Il sogno di Innocenzo III

Tutto ebbe inizio nel 1198, con l’elezione di un giovane papa, brillante e deciso, che assunse il nome di Innocenzo III ed ebbe come destino quello di divenire uno dei pontefici piú celebri del Medioevo (vedi «Medioevo» n. 158, marzo 2010). Subito dopo la salita al soglio pontificio, infatti, Innocenzo lanciò un appello per una nuova spedizione che, nei suoi disegni, avrebbe dovuto riscattare il sostanziale fallimento della terza crociata (1189-1192) e, soprattutto, riportare in mani cristiane Gerusalemme, che nel 1187, dopo la battaglia di Hattin, era stata riconquistata da Saladino (vedi «Medioevo» n. 162, luglio 2010). Innocenzo rese pubblici i suoi intendimenti in un’enciclica del 15 agosto del 1198, e nominò due legati pontifici che furono inviati in Francia, in Inghilterra e a Venezia allo scopo di organizzare la campa-

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il doge

A capo dello Stato Il titolo di doge designò per vari secoli i capi dello Stato veneziano e di quello genovese. A Venezia, tra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo, al magister militum bizantino viene affiancato un dux (cioè «duce», che in veneziano diviene appunto doge) di nomina popolare. Sospesa la carica dal 737 al 742, a causa della resistenza dell’aristocrazia, il dogato tornò ad affermarsi, sia pure attraverso lunghe lotte, spesso cruente. Nel contempo, si affievolí la nominale dipendenza da Bisanzio, che venne totalmente meno alla metà del IX secolo. Tentativi di instaurare un dogato ereditario furono fatti a piú riprese da varie famiglie (Partecipazio, Tradonico, Candiano, Orseolo), ma si infransero dinanzi alla reciproca resistenza delle famiglie piú ricche e al contrasto di influenze fra impero d’Occidente e impero d’Oriente. Con il XII secolo la carica finí nelle mani degli aristocratici, che con la Serrata del Maggior Consiglio, effettuata nel 1297, divennero un’oligarchia, e da allora il doge fu sempre meno influente fino a diventare semplicemente il simbolo dello Stato. Di famiglia patrizia ed eletto a vita, non poteva abiurare: in oltre sei secoli, solo un doge, Marino Faliero, fu processato e decapitato (nel 1355) e uno, Francesco Foscari, fu deposto (nel 1457). L’ultimo doge, Ludovico Manin, abdicò nel 1797, sotto la pressione dei Francesi. A Genova il titolo di doge fu adottato solo a partire dal 1339 per Simone Boccanegra, di nomina popolare e obbligatoriamente di parte guelfa; solo nel 1413 furono ammessi alla suprema carica quelli di parte ghibellina. Con la riforma del 1528 il dogato fu riservato agli aristocratici, ma il doge, che doveva avere almeno cinquant’anni d’età, restava in carica solo un biennio. Ancor piú che a Venezia, il dogato (che fu abolito nel 1797) si ridusse a uno strumento di governo dell’aristocrazia. (red.)

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storie costantinopoli 1204 gna militare, sia dal punto di vista diplomatico, sia da quello logistico. Come ha giustamente sostenuto lo storico Thomas F. Madden, la decisione di prendere contatto con Venezia nella fase preparatoria dell’impresa è un chiaro indizio del fatto che il ruolo assunto dalla Repubblica in quella che sarà appunto la quarta crociata non fu né il frutto di un ripensamento tardivo, né una condizione imposta al papa contro il suo volere.

Un ruolo da protagonista

Si trattò, piuttosto, di uno stato di cose largamente previsto e auspicato dallo stesso Innocenzo, il quale ultimo, per assicurarsi la partecipazione della flotta repubblicana, concesse ai Veneziani la dispensa per commerciare un gran numero di derrate nei porti egiziani, permet-

Nella pagina accanto Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. I Veneziani guidati dal doge Enrico Dandolo assaltano le mura di Zara, nel novembre del 1202, frammento del mosaico pavimentale (rimosso dalla sede originaria e ora inserito nelle murature della chiesa). 1213 circa. A destra crocifisso ligneo. XIII sec. Zara (Croazia), chiesa dei Francescani, sacrestia.

In basso Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. Frammento del mosaico pavimentale raffigurante un marinaio che suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme. 1213 circa. Potrebbe trattarsi di un episodio accaduto il 1° gennaio 1204, quando Alessio V Ducas «Murzuflo», alla rada del Corno d’Oro, tentò di dar fuoco alla flotta nemica con navi incendiarie che i Veneziani riuscirono a neutralizzare, grazie alla vigilanza dei propri uomini, rimorchiandole al largo del Bosforo.

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tendo cosí alla Serenissima di derogare all’obbligo di non commerciare con gli infedeli. All’inizio dell’anno 1200, i nobili Baldovino di Fiandra, Tebaldo di Champagne e Luigi di Blois si riunirono a Soissons per discutere i tempi e gli obiettivi della nuova crociata e decisero di procedere via mare, come aveva già fatto a suo tempo Riccardo I Cuor di Leone. Ma, a differenza di quest’ultimo, Baldovino, Tebaldo e Luigi non disponevano di una flotta e dunque conclu-

sero di appaltarne la costruzione a una città portuale, costituendo un comitato che avrebbe dovuto scegliere la città in questione e stipulare con essa un contratto ad hoc. Come racconta il maresciallo di Champagne Goffredo di Villehardouin, nella sua famosissima cronaca – che costituisce una delle fonti essenziali sulle crociate – il comitato, del quale egli stesso faceva parte, non ebbe dubbi: il candidato ideale era, sotto tutti i punti di vista, Venezia. Cosí, nel febbraio del 1201, la commissione scelta dai nobili crociati si trasferí in laguna e, dopo una serie di estenuanti trattative, sulle quali Goffredo di Villehardouin si sofferma ampiamente, il popolo veneziano, riunito in S. Marco, acconsentí a prendere parte alla spedizione. Non si trattava di una scelta individuale, come avveniva nel resto di Europa. La Repubblica aderiva all’iniziativa in modo collettivo, e ciò era soprattutto il frutto dell’abilissima opera di gennaio

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colo anticipo iniziale. Si giunse cosí alla fine di luglio: la situazione era drammatica, perché la Repubblica ospitava un esercito divenuto ormai molto grande e in preda al nervosismo. D’altra parte, anche i Veneziani erano alquanto irritati con i Franchi, che erano palesemente venuti meno agli accordi. Entrambe le parti volevano qualcosa l’una dall’altra, e solo l’abilità di Enrico Dandolo riuscí a superare lo stallo.

Zara come risarcimento

propaganda messa in atto dall’uomo che piú di ogni altro, nel bene e nel male, legò il suo nome alla quarta crociata: il doge di Venezia Enrico Dandolo. Fu lui, infatti, che riuscí a ottenere l’appoggio dei cittadini piú eminenti al progetto, essenziale per far approvare la partecipazione alla crociata dal complicatissimo sistema di assemblee che caratterizzava il governo veneziano. E tuttavia, sin dall’inizio, si manifestarono alcune ambiguità di fondo: il trattato stipulato fra la Repubblica e il comitato (di cui restano due copie, entrambe sottoscritte a nome del doge) non menzionava la destinazione della crociata, anche se Baldovino Tebaldo e Luigi avevano già stabilito che essa avrebbe dovuto raggiungere la Terra Santa dall’Egitto, portando dunque la guerra nel cuore del sultanato ayyubide fondato da Saladino e governato in quel tempo da suo fratello al‘Adil I. Venezia, inoltre, si trovava a fronteggiare da tempo la ribellione della città dalmata di Zara, postasi sotto la tutela del re d’Ungheria, ed era assurdo pensare di inviare la sua

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flotta in Oriente senza prima aver debellato un nemico cosí vicino e cosí pericoloso; per giunta, il papa, che pure aveva approvato il trattato con entusiasmo, non vedeva affatto di buon occhio un intervento della Repubblica contro la monarchia ungherese, che egli proteggeva. In ogni caso, i Veneziani si misero all’opera, e tra il maggio 1201 e il giugno 1202, con un enorme sforzo produttivo, allestirono una flotta di 50 galee da guerra e 150 galere da trasporto, rispettando alla lettera gli impegni presi. Non altrettanto poteva dirsi dei nobili postisi a capo della crociata. Nel maggio del 1201 Tebaldo di Champagne era morto, e la leadership dell’impresa era passata a Bonifacio di Monferrato. Questo passaggio di consegne si rivelò piuttosto arduo e a ciò si aggiunsero gravi problemi finanziari, che impedirono il pagamento a Venezia delle rate concordate nel contratto. Quando, nel giugno del 1202, cominciarono ad affluire in città i primi crociati, la flotta era pronta a salpare, ma i Veneziani non avevano ricevuto alcunché, salvo un pic-

Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, il doge organizzò un incontro con i capi crociati, facendo loro presente che Venezia attendeva il pagamento delle rate scadute, ma essi furono in grado di raccogliere meno della metà di quanto dovuto. Dandolo, allora, prospettò un nuovo accordo: i crociati avrebbero saldato il debito con la loro parte di bottino, ma, soprattutto, scendendo lungo l’Adriatico, avrebbero aiutato i Veneziani a riconquistare Zara, la temibile città ribelle che ormai da molti anni costituiva per la Repubblica una ferita aperta. Era una proposta che non si poteva rifiutare, e anche il legato pontificio non ebbe il coraggio di opporsi. Inoltre, con una grande mossa a effetto, Enrico chiese ufficialmente di prendere parte alla crociata in prima persona e S. Marco si riempí delle grida dei Veneziani che accoglievano la sua richiesta e correvano ad arruolarsi. Ora il doge poteva condurli dove desiderava. La partenza della flotta crociata, costituita da 50 navi per il trasporto dei soldati, 100 galere per il trasporto dei cavalli e 60 galee da guerra, oltre a numerose imbarcazioni ausiliarie, avvenne nei primi giorni di ottobre del 1202. L’armata fece scalo in alcuni porti della costa dalmata per caricare provviste e compiere gli ultimi arruolamenti di rematori e marinai; infine, fra il 10 e l’11 novembre, i crociati giunsero a Zara. Questa splendida e antica città era entrata nell’orbita veneziana sin dall’anno 1000, ma già dal 1114 era oggetto

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Cronaca di un assedio Cosí lo scrittore e storico bizantino Niceta Coniate (1155 circa-1217) racconta la presa di Costantinopoli: «I Latini, vedendo che, contro ogni aspettativa, nessuno prendeva le armi per attaccare o per difendersi, compresero che la situazione del momento era per loro estremamente propizia: le iniziative, realizzabili; le strette straducole, accessibili; i trivi, sicuri; nessun rischio di scontri; non pochi vantaggi sui nemici. Ed ecco verificarsi, davvero a proposito, un’occasione che li favorí ulteriormente. Tutta la popolazione

moveva verso di loro, portando le croci e le sante immagini di Cristo, com’è d’uso nelle feste religiose e nelle processioni. A quella vista, essi non mutarono il loro abituale stato d’animo; non atteggiarono le labbra a un pur lieve sorriso: tale inattesa visione non valse a rasserenare i volti irati, ad addolcire gli sguardi biechi e minacciosi, a placare l’eccitazione. Ebbero invece il coraggio di assalire i fedeli e di depredarli senza pietà non solo di quanto possedevano, a cominciare dai carri, sibbene anche degli oggetti sacri.

Un’imbarcazione crociata sotto le mura di Costantinopoli nel 1203, particolare di una miniatura da un manoscritto francese del 1300 circa.


Tutti impugnavano le spade, e con le armi sguainate trattenevano a stento i loro cavalli (…). Quale delle tante nefandezze commesse in quell’occasione da quegli scellerati dovrò raccontare per prima? Quale dopo? Quale per ultima? Ahimè! Che infamia abbattere le venerate immagini e profanare le reliquie di coloro che morirono per amore di Cristo! La cosa piú orribile, anche solo ad ascoltarsi, era la vista del Sangue divino versato e del Corpo di Cristo gettato a terra. Impadronitisi dei preziosi vasi, in parte ridussero in pezzi, nascondendo in petto le gemme che vi erano incastonate, in parte li asportarono per utilizzarli sulle loro mense come ciotole per i cibi e coppe per il vino, codesti precursori dell’Anticristo, antesignani e araldi delle atrocità che egli ha profetizzate. Da codesta genia Cristo venne spogliato e schernito ancora una volta, come già in tempi lontani: le sue vesti furono divise ed estratte a sorte; mancava solo che, colpito da lancia nel costato, facesse nuovamente scorrere a terra rivoli del suo sangue divino. Ma non vi è orecchio che possa facilmente prestare ascolto al racconto dei sacrilegi commessi nella cattedrale. L’altare maggiore, interamente ricoperto di metalli preziosi, fusi con il fuoco e intarsiati di una bellezza e una policromia straordinaria, veramente rara e degna dell’universale ammirazione, fu fatto a pezzi e spartito fra quei predoni; la stessa sorte subí tutto il tesoro della cattedrale, altrettanto ricco e infinitamente prezioso. Quando si dovettero portar via, come avviene per ogni rapina, i vasi e gli oggetti destinati al culto, composti di materiali rari cesellati con incomparabile raffinatezza e maestria, come pure l’argento fino, tutto bordato d’oro, che rivestiva il cancello della tribuna, lo stupendo pulpito e le porte, e che era stato fuso per creare parecchi altri fregi ornamentali, furono

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introdotti muli e asini già portati a basto fin nelle parti piú interne della chiesa. Ma poiché alcuni animali scivolavano, non riuscendo a reggersi sulle zampe a causa della levigatezza dell’impiantito, erano pungolati con le spade, sí che il pavimento della chiesa si imbrattò tutto di sterco e sangue. Intanto, una donnaccia, gonfia di peccati (…) si faceva beffe di Cristo seduta sul seggio patriarcale, cantava con voce roca e di tanto in tanto si lanciava volteggiando in una danza vorticosa. I Latini non commisero solo codeste nefandezze; non ne commisero alcune piú gravi e altre meno: ma tutte le peggiori atrocità e scelleraggini furono di comune accordo perpetrate da tutti. Avrebbero mai potuto trattare con rispetto le donne oneste, le fanciulle da marito o le giovinette che si erano consacrate a Dio e avevano scelto di rimanere vergini, codesti scellerati che tanto spudoratamente profanavano le cose sacre? Era oltremodo difficile, anzi impossibile, intenerire con suppliche o ammansire in qualche modo i barbari, che erano estremamente irritabili, che in genere montavano in collera anche per una parola pronunciata senza alcuna cattiva intenzione (…). Nelle strette vie non si udivano che pianti, imprecazioni e lamenti; nei trivi, gemiti; nelle chiese, voci di dolore, grida di uomini, urla di donne. Si avevano arresti e rapimenti; si verificavano episodi di violenza carnale e forzate separazioni di persone fino ad allora vissute insieme. I nobili si aggiravano coperti appena; i vegliardi, piangenti; i ricchi, privi dei loro averi. Tutto questo avveniva nelle piazze, negli angoli delle strade, nei santuari, nei piú recodinti asili: non vi era un solo luogo che potesse sfuggire ai nemici e che garantisse sicurezza ai derelitti. O Cristo Signore! Quali furono allora le angustie e le tribolazioni nostre! (Niceta Coniate, Cronaca, in Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini, Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 2004, pp. 666 ss.)

delle mire dei re d’Ungheria, che, essendosi annessi la Croazia, vantavano gli antichi diritti dei sovrani croati sulla Dalmazia veneziana. Nel 1183 Zara si consegnò agli Ungheresi, che le concessero ampia autonomia, e da allora seppe resistere ai numerosi tentativi veneziani di riportarla sotto il controllo della Repubblica. A Enrico Dandolo si presentava dunque la grande occasione di punire e riconquistare la città ribelle. Dopo aver vinto le ultime resistenze di alcuni nobili, i quali non intendevano contravvenire al divieto papale – che, nonostante tutto, non era mai stato ritirato –, il doge ottenne che la città fosse messa sotto assedio. E, dopo soli cinque giorni, Zara fu presa e saccheggiata. Era il 24 novembre del 1202.

Una storia di soprusi

Qualche settimana dopo la conquista, mentre ancora infuriavano le polemiche sulla liceità dell’assedio, giunsero nella città dalmata Bonifacio di Monferrato, il comandante ufficiale della crociata, e alcuni messaggeri di Filippo di Svevia, uno dei due aspiranti alla carica di sovrano del Sacro Romano Impero. Questi ultimi raccontarono una storia di violenze, soprusi e intrighi che, oltre a mutare completamente il corso della quarta crociata, avrebbe cambiato per sempre i rapporti tra Venezia e Bisanzio: l’imperatore di Bisanzio, Isacco II Angelo, era stato deposto e accecato dal fratello maggiore, che salí al trono con il nome di Alessio III (1195-1203). Il figlio di Isacco, anch’egli di nome Alessio, era riuscito a fuggire dal carcere nel quale era stato rinchiuso con suo padre e si era recato a cercare aiuto in Occidente, giungendo infine presso la corte di Filippo, che ne aveva sposato la sorella, la principessa Irene. Parlando a nome di Filippo, i suoi inviati rivolsero ai crociati un accorato appello alla «guerra umanitaria»: non era possibile ignorare le sofferenze del giovane Alessio, che pure, essendo nato prima che suo padre diventasse imperatore, non aveva alcun

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ritratto di un nemico

Fu una «gran iattura» Molti studiosi hanno erroneamente sostenuto che Enrico Dandolo sia stato il piú acceso sostenitore della proposta di attacco a Costantinopoli. Al contrario, come si è visto, il progetto fu ideato dai Tedeschi, e immediatamente fatto proprio da Bonifacio da Monferrato e dai nobili francesi, e Dandolo vi aderí solo piú tardi e con molte riserve. Furono soprattutto gli autori bizantini ad accentuare le responsabilità del doge, per il loro odio nei confronti di Venezia, al prezzo di stravolgere la realtà dei fatti. Si legga per esempio quanto scrive in proposito uno dei piú celebri storici bizantini, Niceta Coniata: «Una gran iattura fu senza dubbio Enrico Dandolo, a quel tempo doge dei Veneziani: un cieco, vecchio decrepito; un individuo insidioso e ostile ai Romani (cioè ai Bizantini, n.d.a.), pieno di rancore e invidia nei loro confronti; un fior di impostore, che si proclamava il piú savio tra i savi, ed era avido di gloria come nessun altro». «Tutte le volte che egli si soffermava a riflettere, e considerava quante offese avessero dovuto sopportare i Veneziani durante il regno dei fratelli Angeli e al tempo in cui prima di loro Andronico (Andronico I Comneno, 1183-1185) e, ancor prima, Manuele (Manuele I Comneno, 1143-1180) governarono l’impero romano (cioè l’impero bizantino, n.d.a.), riconosceva di meritare la morte, per non aver ancora punito i Romani dell’oltraggioso comportamento verso la sua gente. Tuttavia, consapevole com’era che avrebbe unicamente nuociuto a se stesso, se avesse tentato di vendicarsi dei Romani con l’aiuto dei suoi soli concittadini, considerò l’opportunità di procurarsi altri alleati, e di informare dei suoi segreti progetti coloro che, a quanto sapeva, nutrivano un implacabile odio contro i Romani, alla cui prosperità guardavano con occhi insidiosi e avidi. Presentatasi inaspettatamente l’occasione favorevole di alcuni nobili signori che avevano progettato di compiere una spedizione in Palestina, prese gli opportuni accordi con essi e li indusse a unirsi a lui nella guerra contro l’impero romano». (Niceta Coniate, Cronaca, in Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini, Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 2004, p. 649). diritto al trono. I crociati avrebbero dovuto sostenere con ogni mezzo la causa di Isacco II e del suo figlio sfortunato.

I veri piani dello Svevo

Come sempre, dietro la retorica delle motivazioni «umanitarie» e l’apparenza di una lotta per il ristabilimento della giustizia, si celavano interessi concreti e consistenti: in questo caso, i disegni egemonici di Filippo, il quale, presentandosi come vendicatore di Isacco e protetLa richiesta d’aiuto di Alessio Comneno, giunto a Zara, al doge Enrico Dandolo, in un dipinto di Andrea Vicentino. 1578. Venezia, Palazzo Ducale.

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tore della famiglia imperiale legittima, avanzava pretese ben precise sul trono di Bisanzio. Se Bonifacio da Monferrato aveva abbracciato la causa del figlio di Isacco sin dal dicembre del 1201, Enrico Dandolo fu, almeno inizialmente, molto piú cauto: egli infatti temeva che, se il piano di Filippo fosse fallito, Venezia avrebbe compromesso definitivamente i suoi già difficili rapporti con l’impero bizantino, rapporti a cui la Repubblica, per molti motivi, teneva grandemente. Ma alla fine, il doge si risolse ad accettare il rischio. Il 20 aprile 1202 la flotta crociata salpò alla volta di Corfú, e il 25 aprile fu raggiunta da Alessio il Giovane, che

promise gigantesche somme di denaro e fece intravedere la possibilità di mettere fine allo scisma fra la Chiesa bizantina e quella occidentale. La meta dell’armata non era piú l’Egitto, né il Santo Sepolcro, ma la nuova Roma, la gemma del Bosforo, la regina di tutte le città: Costantinopoli.

Una «testa senza corpo»

A questo punto, dobbiamo distogliere per un momento la nostra attenzione dalla crociata per posare lo sguardo sulle condizioni dell’impero bizantino sullo scorcio iniziale del XIII secolo. E non è un bello spettacolo. In effetti, da quasi un secolo e mezzo Bisanzio si dibatteva in una crisi senza speranza di soluzione. Nel 1071, presso la città armena di Mantzikert, non lontano dal lago Van, le truppe turche selgiuchidi avevano inflitto ai Bizantini una disastrosa sconfitta: ma la vera tragedia furono gli eventi successivi, e, in particolare, il lungo periodo di instabilità politica all’interno dell’impero, che permise ai Selgiuchidi di occupare rapidamente gran parte dell’Asia Minore. Nello stesso anno, Bisanzio aveva perso i suoi ultimi possedimenti italiani, essendosi completata, con la presa di Bari, la conquista normanna dell’Italia meridionale bizantina. Anche l’autorità imperiale sulla Penisola balcanica risultava fortemente indebolita. L’impero, come affermavano gli stessi Bizantini, era ormai ridotto a una grande «testa senza corpo», dove per «testa» si intendeva la capitale imperiale, Costantinopoli. Gli encomiabili sforzi della dinastia comnena (1081-1185) favorirono una ripresa momentanea, ma l’impero era minato alla radice da una crisi interna, provocata dalla disgregazione del sistema economico-sociale del periodo medio-bizantino. L’esercito assorbiva tutte le forze dell’impero; la popolazione era ridotta in miseria da tributi sempre piú pesanti e insopportabili; perfino nelle città, molti vendevano la loro libertà per passare al servizio dei magnati, che,

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storie costantinopoli 1204 al contrario, vedevano aumentare costantemente le loro ricchezze; lo Stato non aveva piú la forza di reagire allo strapotere dei grandi latifondisti. Per di piú, i Comneni concessero ai Veneziani eccezionali privilegi commerciali, e quando si accorsero che ciò significava inevitabilmente cedere a Venezia il ruolo di potenza marittima in passato esercitato da Bisanzio, era ormai troppo tardi per tornare indietro.

Scontro tra ex alleati

In queste condizioni disperate Costantinopoli si trovò dunque a fronteggiare la nuova minaccia che si profilava all’orizzonte. Una minaccia che non veniva dai grandi rivali dell’impero, i Turchi musulmani, ma da un pugno di cavalieri cristiani e dagli ex alleati Veneziani. Già una volta i Bizantini avevano avuto a che fare con i crociati: era stato circa cento anni prima, e la cosa aveva comportato enormi problemi. Ma stavolta sarebbe stato assai peggio. Il 24 maggio del 1203 la flotta crociata spiegò nuovamente le vele e lasciò Corfú, doppiando Capo Malea e dirigendosi verso Costantinopoli lungo la rotta consueta, che prevedeva l’attraversamento dell’Egeo, dello Stretto dei Dardanelli e del Mare di Marmara. Circa un mese dopo, i crociati erano davanti alla capitale bizantina, difesa da una guarnigione tre volte piú grande dell’esercito crociato: centinaia di Greci si assieparono sulle mura per vedere l’armata nemica. La flotta approdò a Calcedonia, una città che si affacciava sul Bosforo proprio di fronte a Costantinopoli. Il giovane Alessio continuava a sostenere che la sua semplice presenza avrebbe scatenato la rivolta nella capitale, ma i giorni passavano e nulla accadeva. I crociati provarono a trattare con i Bizantini, inviando loro messaggeri per spiegare i motivi e i contenuti della loro missione «umanitaria», ma furono comprensibilmente ricevuti con scariche di proiettili. Fu addirittura organizzata una sorta di spettacolo politico-militare di fronte alle mura

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marittime della città: le 60 galee veneziane si schierarono e tutti i crociati indicarono ai Bizantini Alessio, invitandoli a riconoscere il loro legittimo imperatore ed elencando a uno a uno tutti i crimini commessi da Alessio III: la risposta del popolo fu ancora una volta un lancio di proiettili, a cui si aggiunsero sanguinosi insulti. Se volevano ottenere qualcosa, i crociati dovevano prepararsi alla guerra. L’attacco avvenne la mattina del 5 luglio e colpí per primo il quartiere di Galata, chiave di accesso al Corno d’Oro, l’insenatura del Bosforo dove si trovava il porto di Costantinopoli. Galata fu conquistata il giorno seguente e subito venne infranta la grande catena galleggiante che sbarrava l’ingresso nel canale: le navi dei crociati potevano fare il loro ingresso nel porto. Cominciava l’assedio delle mura della città dalla terraferma. Il 17 luglio 1203 la capitale dell’impero bizantino cadde nelle mani dei crociati. Enrico Dandolo, sfidando i proiettili degli eroici difensori, era stato il primo a lanciarsi verso la spiaggia di Costantinopoli, sulla quale i suoi marinai piantarono lo stendardo con il leone alato

di San Marco, guidando i suoi concittadini alla battaglia. Splendidi dipinti, nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale di Venezia, hanno immortalato per sempre il celebre episodio.

L’imperatore fantoccio

A tarda notte, Alessio III fuggí dalla città, portando con sé oro e pietre preziose di cui intendeva servirsi per organizzare la resistenza. Subito, gli aristocratici bizantini restituirono la corona a Isacco II e il primo agosto 1203 suo figlio, il giovane protetto dei crociati, salí al trono come co-imperatore con il nome di Alessio IV. Ma la situazione volse presto al peggio. Il giovane imperatore, infatti, non era in grado di mantenere le promesse fatte a Corfú e ora si trovava tra due fuochi: da un lato i crociati e i Veneziani, che esigevano il pagamento immediato delle somme pattuite e respingevano con sdegno le richieste di proroga; dall’altro la popolazione bizantina, che vedeva come il fumo negli occhi il sovrano che aveva chiamato i crociati sul suolo dell’impero e aveva ridotto se stesso alla condizione di servo dei Latini. Alla fine di

Le tre ere dell’impero

Undici secoli di storia «Stando alle definizioni della maggioranza degli storici, l’impero bizantino sarebbe nato con la fondazione della città di Costantinopoli o Nuova Roma nel 324 d.C. e sarebbe finito con la resa della medesima città ai Turchi ottomani nel 1453. Nel corso di questi undici secoli l’impero bizantino conobbe profonde trasformazioni; di qui, l’uso di dividere la storia bizantina in almeno tre unità principali: il primo periodo bizantino, a cui succedono il medio e il tardo periodo». «Può rientrare nella prima unità l’epoca che giunge sino alla metà del settimo secolo e cioè sino all’insorgenza dell’Islam e alla definitiva installazione degli Arabi lungo le coste orientali e meridionali del Mediterraneo; il medio periodo può giungere sino all’occupazione turca dell’Asia Minore (intorno al 1070) oppure con minor fondamento sino alla presa di Costantinopoli da parte dei crociati (1204); il tardo periodo, da una qualunque di queste date sino al 1453. Per quanto arbitraria possa apparire, ci sono buone ragioni per mantenere tale definizione» (Cyril Mango, La civiltà bizantina, traduzione di Paolo Cesaretti, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 5). gennaio

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Bersaglio finale Mappa di Costantinopoli, da un’edizione del Liber Insularum Archipelagi, isolario del geografo fiorentino Cristoforo Buondelmonti (1386-1430 circa). 1490 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Indetta da Innocenzo III con lo scopo di riconquistare Gerusalemme, la IV crociata si concluse con la presa di Costantinopoli, decretando la fine dell’impero bizantino.

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storie costantinopoli 1204 gennaio del 1204, a Costantinopoli scoppiò una rivolta e Alessio IV perse la corona e la vita, e anche suo padre morí poco dopo in prigione. Al trono salí un ministro di Alessio IV, Alessio Ducas, detto «Murzuflo» («dalle folte sopracciglia»), di tendenza politica fortemente antilatina, che prese il nome di Alessio V. Era solo il preludio della tragedia che andava preparandosi. Al colpo di Stato di Alessio V, i crociati reagirono in maniera durissima, dichiarando Murzuflo un assassino e i suoi sudditi complici dei suoi delitti: l’indulgenza plenaria che spettava ai partecipanti a una crociata era ora estesa a tutti coloro che avessero mosso guerra al tiranno spinti da propositi di giustizia. Non era piú necessario recarsi in Terra Santa, perché il lavoro da fare per conto di Dio era a Costantinopoli. Nel mese di marzo, sotto le mura della capitale, i crociati e i Veneziani conclusero un trattato che prevedeva la divisione dell’impero bizantino e la creazione di un «impero latino» a Costantinopoli.

Massacri e saccheggi

L’attacco tanto atteso avvenne il 9 di aprile, ma i crociati non riuscirono a far breccia nelle difese della città e dovettero ritirarsi. Dopo un lungo e vivace dibattito, si decise di attaccare nuovamente le mura del porto il 12 aprile, e questa volta i Veneziani ricorsero a uno stratagemma: posero alcune piattaforme sulle cime degli alberi delle navi, inclinando le imbarcazioni fino a che le piattaforme andassero a toccare le mura, permettendo ai soldati di irrompere su di esse. Un anonimo milite veneziano fu il primo a saltare sulle mura di una torre nemica, ma fu subito ucciso. Fu seguito da un francese, Andra D’Ureboise, che riuscí a resistere all’attacco dei difensori, permettendo ad altri Veneziani e crociati di occupare le mura. Poco tempo dopo le porte della città vennero aperte dagli attaccanti penetrati all’interno, e per Costantinopoli non ci fu piú scampo.

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«Cosí» scrive il grande bizantinista Georg Ostrogorsky «la città che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei Persiani e degli Arabi, degli Avari e dei Bulgari, era diventata la preda dei crociati e dei Veneziani. Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli. I tesori piú

preziosi del piú grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti tra i conquistatori e in parte barbaramente distrutti». «Dalla creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città», dice lo storico dei crociati Villehardouin. «Perfino i musulmani sono umani e benevoli in confronto a questa gente che porta la croce di Cristo sulle

enrico dandolo

Il doge di Venezia

Nipote di un patriarca e figlio di un giudice della corte ducale, entrambi valorosi crociati, Enrico Dandolo (Venezia, 1107 circa-Costantinopoli, 21 giugno 1205) fu il doge piú famoso di Venezia. Esercitò a lungo il mestiere di mercante, spaziando tra Costantinopoli e Alessandria d’Egitto; la sua carriera politica cominciò solo a piú di sessant’anni, nel 1170, quando fu nominato bailo (funzionario con incarichi consolari e diplomatici, n.d.r.) a Costantinopoli e, l’anno successivo, dovette negoziare la pace con l’imperatore bizantino Manuele Comneno, resosi responsabile dell’arresto e della confisca dei beni di tutti i cittadini veneziani residenti nell’impero, ai quali provvedimenti Venezia aveva reagito con la guerra. In questo frangente Enrico avrebbe perso parzialmente o totalmente la vista: fuggendo da Bisanzio o nel corso di un’accesa discussione con l’imperatore, sarebbe rimasto cieco da un occhio o forse da entrambi. Tornato in patria, riprese a viaggiare per affari in Oriente, ma, nel 1183, fu nuovamente inviato a Costantinopoli per riallacciare i rapporti diplomatici con i Bizantini. Poi, il 21 giugno del 1192, alla veneranda età di ottantacinque anni, fu eletto quarantunesimo doge della Repubblica. La quarta crociata, dal punto di vista degli interessi veneziani, fu il suo capolavoro politico: essa infatti mise le basi alla creazione dell’impero marittimo di Venezia. Dopo la conquista di Costantinopoli, Enrico Dandolo non tornò piú in patria: morí il 21 giugno 1205 e fu sepolto nella parte meridionale della galleria del matroneo della basilica di S. Sofia. Si dice che dopo la conquista della città da parte dei Turchi, nel 1453, la sua tomba fu aperta e le ossa gettate in pasto ai cani. La lapide recante la scritta «Henricus Dandolo», che ancora oggi può vedersi nella basilica, è un falso ottocentesco (vedi foto in alto). gennaio

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spalle», annota il cronista bizantino Niceta Coniate. Conquistata la città, fu dato il via alla spartizione del patrimonio di Bisanzio. Nasceva l’impero latino di Costantinopoli, e come imperatore fu scelto il conte Baldovino di Fiandra, una figura minore: tuttavia, a esercitare il potere reale erano i veri protagonisti della crociata, Enrico Dandolo e Bonifacio di Monferrato. A trarre il maggiore profitto dall’impresa furono comunque i Veneziani, e fu probabilmente questo dato di fatto a far ritenere agli storici che la Repubblica avesse lavorato sin da principio a un simile esito. In

Da leggere U Thomas F. Madden, Doge di

Venezia, Milano, B. Mondadori, 2009 U Donald M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano, Rusconi, 1990 U Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino, Einaudi, 1968 U Giorgio Ravegnani, Bisanzio e le Crociate, Bologna, Il Mulino, 2011 U Steven Runciman, Storia delle Crociate, Torino, Einaudi, 1966

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realtà, Venezia e il suo doge ebbero soprattutto il merito di adattarsi nel modo migliore alle mutevoli circostanze che avevano caratterizzato lo svolgersi dell’impresa.

Una realtà precaria

L’impero latino, durante i suoi sessanta anni di vita, restò in ogni caso una realtà estremamente precaria. La popolazione bizantina era fortemente ostile ai crociati e il loro dominio non fece che accentuare la separazione, già in atto dal grande scisma del 1054, fra la Chiesa d’Oriente e quella di Occidente. Da tale punto di vista, si può dire che la conquista serví solo a rinvigorire nei Bizantini la coscienza della particolarità culturale e religiosa della loro compagine statale. Se alcuni aristocratici di Costantinopoli si

erano lasciati incorporare nel nuovo sistema di governo, la maggior parte di essi lasciò i territori occupati e fuggí nella città di Nicea, dove si organizzò la resistenza e si dette vita all’impero bizantino in esilio, che nel 1261 fu in grado di cacciare i Latini, abolire il loro impero e riprendersi la capitale. Di tutta questa singolare vicenda, gli unici elementi destinati a durare furono da un lato la potenza marinara di Venezia, ormai senza rivali, dall’altro l’odio dei Bizantini contro i Latini, mirabilmente sintetizzato da una celebre sentenza del mégas doux Luca Notarás, pronunciata poco prima della conquista turca di Costantinopoli del 1453: «Vedrei piú volentieri nella città il turbante turco che la tiara di Roma». F

I cavalli di S. Marco. Provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli, i bronzi furono trasportati nella città lagunare dal doge Enrico Dandolo alla fine della IV crociata, e collocati sulla facciata della basilica marciana, dove sono rimasti fino al 1977. Oggi sostituiti da una copia, gli originali sono custoditi nel Museo di S. Marco a Venezia.

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personaggi eleonora d’arborea

Nell’isola della iudichissa di Roberto Roveda, con la collaborazione di Marco Tagliaferri

Moglie, madre, abile diplomatica e legislatrice, Eleonora d’Arborea è una delle figure femminili piú importanti del Medioevo italiano. Nella seconda metà del XIV secolo, grazie alla sua tenacia, tenne testa alla corona d’Aragona, riunendo nelle sue mani la quasi totalità dei territori della Sardegna 38

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I I

l Medioevo, nella maggior parte dei casi, è un’epoca «maschile», o, perlomeno, cosí viene spesso dipinta. Dominata da cavalieri, sovrani, santi e papi, l’Età di Mezzo appare come un mondo monopolizzato dagli uomini, un mondo in cui il resto della società (bambini, donne, anziani) conta molto poco e trova spazio solo ai margini delle cronache del tempo. Probabilmente per questo motivo, in una realtà cosí fortemente caratterizzata dalla virilità, le poche figure femminili passate alla storia sono personaggi spesso eccezionali, tanto da affascinare anche a

secoli di distanza: Giovanna d’Arco, Matilde di Canossa, Santa Caterina da Siena. Tuttavia, nella storia medievale italiana, una figura femminile, piú di altre, è avvolta nelle nebbie dell’anonimato: Eleonora d’Arborea. Eleonora d’Arborea è uno dei personaggi piú famosi e allo stesso tempo meno conosciuti della storia sarda: vissuta nel XIV secolo al tempo della Sardegna dei giudicati (vedi box a p. 42) ed essa stessa giudicessa del giudicato di Arborea, in quanto appartenente alla famiglia dei de Serra, visconti di Bas, dovette far fronte a continue tensioni e lotte politiche, rivestendo un ruolo di primo piano nella storia della Sardegna. Di conseguenza, per ricostruirne l’identità, occorre analizzare brevemente lo scenario storico entro cui si mosse.

Dai Bizantini ai quattro giudicati

In alto carta della Sardegna, da un portolano del XVI sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.

Donna di polso e di penna Oristano. Statua ottocentesca di Eleonora d’Arborea (1340-1403), figlia di Mariano IV e sposa di Brancaleone Doria, che resse il giudicato di Arborea dal 1383 alla morte, avvenuta durante un’epidemia di peste, nel 1403. La «iudichissa» è raffigurata con un rotolo di pergamena nella mano sinistra, la Carta de Logu, raccolta di norme creata dal padre, che Eleonora ebbe il merito di modificare e completare, introducendo concetti innovativi per l’epoca. Redatta in volgare arborense, la Carta fu emanata tra il 1393 e il 1395 e restò in vigore, come legge generale della Sardegna, fino al 1827.

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Alla fine dell’età antica la Sardegna era una realtà caratterizzata dall’isolamento geopolitico. Nel 534 venne quindi conquistata dai Bizantini e inclusa nell’esarcato di Cartagine anziché in quello di Ravenna. Come provincia dell’impero romano d’Oriente, era amministrata da uno iudex civile, residente a Cagliari, e da un magister militum, una sorta di governatore militare, che dipendeva dall’esarca di Cartagine. Questa situazione si protrasse fino agli inizi del IX secolo, quando le incursioni saracene posero fine alla dominazione bizantina: in mancanza di comunicazioni e contatti sicuri (i primi attacchi arabi sono documentati tra l’812 e l’820) la Sardegna uscí dall’orbita di Costantinopoli, e si trovò a dover provvedere autonomamente alla propria difesa contro i pirati barbareschi. In questo periodo di torbidi e di caos l’isola perse la teorica unità politica figlia della dominazione di Bisanzio e – sebbene le fonti tacciano sull’argomento – si formarono probabilmente i cosiddetti «giudicati»: Torres, o Logudoro, a nord-ovest, Gallura a nord-est, Cagliari, o Pluminos, a sud-ovest e Arborea, nella zona centro-occidentale dell’isola. Queste nuove quattro circoscrizioni, governate da famiglie isolane strettamente imparentate tra loro, presero le distanze dalle precedenti divisioni amministrative bizantine. Se la Sicilia venne dominata dai Bizantini per poi passare sotto il controllo degli Arabi e dei Normanni, durante l’Alto Medioevo la Sardegna non subí quindi alcuna dominazione e fu in grado di dare vita a un’organizzazione politica peculiare, decentralizzata e di tipo monarchico. Tra il 1113 e il 1115 la minaccia saracena venne definitivamente sconfitta. Protagonisti principali di questa vittoria furono i Pisani, ma anche la flot-

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personaggi eleonora d’arborea ta genovese offrí il suo valido aiuto. Il sostegno dato alla Sardegna contro gli Arabi dalle flotte di Genova e Pisa – soprattutto dopo il fallito tentativo di conquista dell’isola (1015-16) da parte del signore delle Baleari Mujahid al-Amiri di Denia (il Mugetto o Musetto delle cronache cristiane italiche) – ebbe come conseguenza un crescente influsso delle due Repubbliche marinare sui destini dell’isola.

Le pretese delle Repubbliche marinare

Pisa avanzò anche pretese di tipo territoriale e le richieste vennero riconosciute dai principi o giudici locali, ben contenti di potersi fregiare della protezione di una delle potenze marinare dell’epoca. Mentre i giudicati di Torres, Gallura e Cagliari cedevano alle lusinghe pisane, l’Arborea tentò anche altre vie diplomatiche, cercando alleanze con Genova, acerrima nemica della Repubblica di Pisa. Dopo un periodo di continue lotte tra Genova e Pisa e tra gli stessi giudicati sardi per la supremazia sull’isola, verso la fine del XIII secolo si arrivò a un momento cruciale. I tre giudicati di Torres, Cagliari e Gallura scomparvero e i loro territori furono smembrati. La maggior parte dei possedimenti finí sotto il controllo di Pisa, tranne alcune città, proclamatesi liberi Comuni (sul modello di quelli continentali), e alcune zone dell’ex giudicato di Torres, controllate dai Doria e dai Malaspina, due famiglie di origini genovesi che non Posada (Nuoro). Una veduta aerea del borgo dominato dai ruderi del castello della Fava, sorto, con funzione difensiva, probabilmente tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. su committenza della famiglia pisana dei Visconti, giudici di Gallura. Durante il XIV sec. fu una roccaforte della resistenza pisana e poi arborense contro gli Aragonesi, che ne entrarono definitivamente in possesso nel 1409.

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avevano mai definitivamente interrotto i contatti con la madrepatria. La carta geografica della Sardegna era quindi mutata completamente. Dei quattro giudicati originari, solo l’Arborea resisteva ancora, governata dalla dinastia dei de Serra visconti di Bas (la famiglia della nostra Eleonora), da tempo legati al regno aragonese tramite interessi commerciali e alleanze matrimoniali. Nel 1282, intanto, era scoppiata in Sicilia la Guerra del Vespro tra Angioini e Aragonesi per il possesso dell’isola, dando vita a un conflitto internazionale sulle sponde del Mediterraneo. Per tentare di sanare la situazione, nel 1297, papa Bonifacio VIII offrí in feudo a Giacomo II d’Aragona, in cambio della Sicilia, il regno di Sardegna e Corsica: el Rey en Jaume, ingolosito dalla grande importanza strategica e commerciale dei territori offerti, accettò di buon grado. Qualcuno si è chiesto con quale diritto il pontefice abbia compiuto questo gesto. Probabilmente Bonifacio VIII non si pose nemmeno la questione: la «cessione» della Sardegna al sovrano aragonese era in pratica un riconoscimento teorico, una sorta di licentia invadendi pontificia, che autorizzava la corona d’Aragona alla conquista con le armi. La «conquista» aragonese della Sardegna avvenne tuttavia in un lasso di tempo piuttosto lungo. Solamente ventisei anni piú tardi, nel 1324, l’infante Alfonso sconfisse infatti i Pisani nella battaglia di Lucocisterna, incamerando i territori appartenuti alla loro Repubblica, cioè quelle parti dell’isola che Pisa, a seguito della gennaio

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A sinistra il pisano Nino (Ugolino) Visconti, ultimo giudice del giudicato di Gallura, fugge da Pisa nel 1288 per rifugiarsi in Sardegna, miniatura da un’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani. Metà del XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

crisi dei giudicati, controllava direttamente. Le realtà che restavano al di fuori del diretto controllo catalanoaragonese erano molte e, tra queste, c’era il giudicato d’Arborea.

Educati alla corte d’Aragona

Durante la campagna militare aragonese, il giudicato d’Arborea era governato dal nonno di Eleonora, Ugone II de Serra Bas: come da tradizione, era stato nominato giudice dalla Corona de Logu, l’assemblea dei notabili, dei prelati e dei funzionari delle città e dei villaggi dell’isola. In principio, seppur malvolentieri, Ugone era stato un fedele alleato della corona d’Aragona. I re aragonesi avevano cercato in vari modi di mantenere viva l’alleanza e la fedeltà dei giudici arborensi, attribuendo

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il rango di sovrano al giudice e ai suoi figli, stringendo legami di parentela attraverso unioni matrimoniali, invitandoli a corte e ricoprendoli di vari titoli baronali. Questi legami erano dunque di un certo rilievo e lo stesso Mariano IV d’Arborea, secondogenito del giudice Ugone II d’Arborea, visconte di Bas, venne educato alla corte di Alfonso il Benigno, conte di Barcellona e sovrano di Catalogna e Aragona. Tuttavia, queste concessioni non trasformarono gli Arborea in riccos homines, cioè in baroni vassalli del re d’Aragona: proprio Mariano – padre di Eleonora – inaugurò una politica di opposizione anti-aragonese che, nel tempo, si trasformò in vera guerra aperta. L’Arborea, infatti, non aveva alcuna intenzione di diventare un feudo regio, e nessun giudice arborense voleva sentirsi subordinato alla corona d’Aragona. Negli anni Trenta del XIV secolo i rapporti tra le due casate erano ancora distesi. Mariano, nel 1336, partecipò a Barcellona all’incoronazione di Pietro IV il Cerimonioso, figlio di Alfonso IV, e, nello stesso anno, sposò la nobile catalana Timbora di Roccabertí. Nel 1339, inoltre, Mariano ricevette un importante riconoscimento da parte di Pietro IV: fu nominato visconte di Bas (territorio in Catalogna, vicino alla città di Girona) oltre che conte della Marmilla e del Goceano (territorio che comprendeva le curatoríe di Dore con Orotelli, Nuoro, Ottana, Sarule e Anela). Questi possedimenti – al di fuori del territorio del giudicato d’Arborea – lo resero di fatto vassallo del re di Sardegna e Corsica, tanto che nelle sue insegne personali vennero inseriti, al di sopra dell’albero diradicato, i pali catalani. Tuttavia il titolo piú significativo, almeno per lui, lo ricevette nel 1347, quando alla morte del fratello Pietro III diventò ufficialmente giudice d’Arborea. Particolare di una miniatura raffigurante navi pirata saracene alla conquista del Mediterraneo nel IX sec., epoca in cui la Sardegna esce dal dominio dell’impero bizantino, protrattosi sull’isola, inclusa nell’esarcato di Cartagine, dal 534. I primi attacchi arabi in Sardegna sono documentati tra l’812 e l’820. Fu in questo periodo che si formarono i cosiddetti «giudicati», quattro entità autonome governate da famiglie dell’isola.

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personaggi eleonora d’arborea I giudicati

Quattro regni indipendenti I giudicati furono le quattro circoscrizioni in cui si trovò suddivisa la Sardegna durante la fase centrale del Medioevo. In epoca altomedievale, infatti, il ducato di Sardegna era formalmente soggetto all’imperatore bizantino, ma, di fatto, godeva di una totale autonomia dal punto di vista civile e militare. Col tempo, il potere supremo del giudice di Cagliari, rappresentante in terra sarda dell’impero, si indebolí, ed

emersero quattro strutture statali autonome, i quattro giudicati di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura. Queste entità statuali erano dette anche remnos (regni) ed erano rette ognuna da un giudice (iudex de logu), detto anche «re», che esercitava il potere giudiziario e amministrativo coadiuvato da una curia (equivalente al governo) e da una corona de logu (assemblea); nei territori rurali le diverse ville erano raggruppate in curatorie, rette da un curatore, coadiuvato da una corona.

I giudicati erano quindi organismi autonomi, con signorie indipendenti, di carattere ereditario e istituzioni proprie e si consolidarono anche nell’epoca della dominazione pisana e genovese, che pure vi introdusse nuove istituzioni e diede vita allo sviluppo di nuovi ordinamenti autonomi locali. Nel 1326 l’avvio della dominazione aragonese portò progressivamente a una perdita di autonomia dei giudicati, che sopravvissero poi come semplici circoscrizioni territoriali.

A sinistra Oristano. La Torre di S. Cristoforo, conosciuta anche come Porta Manna, edificata nel 1290, è l’unica traccia superstite dell’antica cinta muraria eretta per volontà del giudice d’Arborea Mariano II de Serra Bas. In basso i quattro giudicati sardi e l’estensione territoriale del giudicato di Arborea, intorno al 1300.

Olbia Torres

GIUDICATO DI TORRES

GIUDICATO DI GALLURA

Oristano GIUDICATO DI ARBOREA GIUDICATO DI CAGLIARI

Cagliari

Confini storici del giudicato di Arborea comprendenti le 13 curatorie originarie

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Curatorie ultra iudicatum appartenenti al territorio di Arborea verso il Trecento

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La situazione cambiò qualche anno dopo. Dopo oltre quindici anni di alleanza con la corona aragonese, Mariano si allontanò dalla politica paterna, per evitare che la Sardegna diventasse parte del regno di Pietro IV. Nel 1353, in seguito a una sanguinosa battaglia navale, i Catalano-aragonesi conquistarono Alghero, controllata dalla famiglia genovese dei Doria: a questo punto Mariano ruppe gli indugi, scatenando un aperto conflitto con gli Spagnoli. Gli eserciti giudicali, con veloci e imprevedibili attacchi, costrinsero i Catalano-aragonesi a ritirarsi da tutti i territori dell’isola, fatta eccezione per le inespugnabili rocche di Castel Di Castro (Cagliari) e la città di Alghero. Dopo un breve periodo di pace, nel 1355 le ostilità ripresero. Tuttavia, tra periodi di tregua e periodi di scontri, perdurò una situazione di stallo. I progetti indipendentistici di Mariano IV si spensero nel 1376, a causa della peste.

Nelle mani di una donna

I Visconti De Serra Bas

(in blu chi salí al giudicato)

Pietro sposa Costanza di Saluzzo Mariano sposa Timbora di Roccabertí

Giovanni sposa Sibilla di Moncada

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Beatrice Eleonora Pietro Benedetta Eleonora Margherita

Mariano III sposa Padulesa

Morto il padre, Ugone III divenne il nuovo giudice di Arborea. A capo del giudicato per sette anni, dal 1376 al 1383, dimostrò un frenetico attivismo militare e un acceso rancore anti-aragonese. Proclamatosi «signore de Sardinia», mise in atto una politica interna riformatrice che gli procurò l’ostilità dei notabili del giudicato, infastiditi dalla pressione fiscale e dalla marcata volontà di controllo del nuovo iudex. Ugone fu quindi assassinato da una congiura il 6 marzo 1383. Le sorti dell’Arborea, a questo punto, finirono nelle mani di sua sorella, Eleonora. Nata a Molins del Rei (in Catalogna) il 16 giugno 1340, Eleonora aveva trascorso la propria giovinezza presso la corte di Arborea (vicino a Oristano), che durante il lungo governo del padre, uomo colto e raffinato, aveva conosciuto un clima vivace e prospero, simile a quello che negli stessi anni si era diffuso in Europa. Prima della morte del padre (probabilmente nel 1367) Eleonora aveva sposato Brancaleone Doria, pronipote del grande Branca Doria, signore di Castelgenovese (l’attuale Castelsardo), di Monteleone, di Casteldoria e numerose altre contrade nel Nord della Sardegna. Da questo matrimonio «politico», dettato dall’esigenza di creare un’alleanza anti-aragonese tra gli Arborea e i Doria, i primi guadagnarono una guida militare determinata ed esperta, importante per i destini del giudicato. Ma anche Eleonora era un’abile diplomatica: il 16 settembre 1382, l’anno precedente alla morte del fratel-

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Ugo

Ugone II sposa Benedetta

Bonaventura sposa Pere de Xèrica

Elfa Beatrice Giovanna Bonaventura

Maria sposa Guillem Galceran de Roccabertí Nicola sposa Benedetta Trotti

Guglielmo Ugo Timbors

Salvatore

(piú altri figli illegittimi)

lo, dimostrando grande scaltrezza politica, aveva stretto un accordo con Nicolò di Guarco, doge della Repubblica di Genova, che deteneva diversi interessi nella Sardegna settentrionale. L’accordo era semplice: il doge riceveva in prestito 4000 fiorini d’oro (una somma davvero considerevole per l’epoca) e si impegnava a restituirli entro dieci anni; in caso di mancata restituzione avrebbe dovuto pagare ben 8000 fiorini e concedere la mano di sua figlia Bianchina al figlio di Eleonora, Federico. Eleonora d’Arborea aveva dunque in mente un preciso disegno dinastico. Inoltre, legandosi alla potenza marittima genovese, assicurava al giudicato un sicuro collegamento con tutti i porti del Mediterraneo. Questa mossa contribuí a rendere Eleonora una figura atipica del mondo medievale, completamente a suo agio nel gioco della politica europea.

Da ambasciatore a prigioniero

Morto il fratello Ugone, si prospettò il problema della successione. Volente o nolente, Eleonora dovette rivolgersi al legittimo re di Sardegna, Pietro IV il Cerimonioso: per consolidare la figura del figlio, scrisse al sovrano aragonese una relazione sulle condizioni della Sardegna (in tumulto dopo l’omicidio di Ugone), chiedendo-

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personaggi eleonora d’arborea gli di riconoscere Federico come legittimo successore di Ugone. Eleonora, infatti, intendeva riunire nelle mani del figlio (che all’epoca aveva solo sei anni) quei due terzi della Sardegna che Ugone aveva occupato prima della sua morte. A tal fine diede quindi inizio alla sua strategia diplomatica: usando come pretesto la necessità di porre fine al disordine che regnava nell’isola, inviò il marito Brancaleone a Barcellona, per trattare direttamente con il re. Nel frattempo mise in atto una complessa opera di riordino e di espansione del giudicato, impadronendosi dei territori e dei castelli che erano stati di Ugone. Ma il disegno arborense insospettí Pietro IV, che non vedeva di buon grado una famiglia tanto potente all’interno del proprio regno: inoltre, dal suo punto di vista, non essendoci eredi diretti di Ugone, quei possedimenti iuxta morem italicum avrebbero dovuto essere incamerati dalla corona. Brancaleone si trasformò cosí da ambasciatore a prigioniero: trattenuto con il pretesto di farlo rientrare in Sardegna con la prima nave disponibile, diventò un vero e proprio ostaggio e uno strumento di pressione nei confronti di Eleonora.

Vicina al suo popolo

Eleonora non si perse d’animo e confermò la sua politica di guerra. Rientrata a Oristano, tornò a stabilirsi nel palazzo giudicale nel quale aveva passato infanzia e giovinezza. Dopo aver punito i congiurati si autoproclamò giudicessa di Arborea (Juighissa de Arbaree in lingua sarda): in realtà, anche se si firmava con questo titolo, Eleonora era solamente la reggente del figlio Federico (ancora minorenne). Secondo l’antico diritto ereditario dell’Arborea, infatti, alle donne non era permesso assumere direttamente il potere, ma era previsto che potessero fungere da tramite del potere giudicale attraverso una reggenza. Tuttavia, questo successo aveva avuto un costo. Eleonora era riuscita ad assumere il controllo di quasi tutta l’isola solo stringendo un forte legame con la società e con i suoi elementi piú vitali: ai centri maggiori aveva garantito il rispetto e la salvaguardia dei loro privilegi, mentre alle comunità contadine aveva promesso ampie franchigie. La giudicessa quindi realizzò in maniera intelligente un’alleanza basata sulla comunanza di intenti con settori non nobiliari della società sarda, soprattutto coi suoi elementi piú vitali – mercanti e ceti urbani, ma anche agricoltori – che non furono schiacciati sotto il giogo di un potere di tipo feudale, ma resi partecipi dei destini politici della Sardegna. Al corrente di quanto stava accadendo sull’isola, Pietro IV comunicò a Brancaleone Doria che sarebbe rimasto in ostaggio fino a quando sua moglie non avesse consegnato nelle sue mani, come garanzia di pace, il figlio Federico. Naturalmente Eleonora non pensava minimamente di mettere il suo pupillo in mano al nemico, anche se sentiva la mancanza del marito. I suoi notabili e consiglieri, invece, non nutrivano alcuna fi-

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ducia in Brancaleone, considerato un doppiogiochista alleato del re aragonese: per i Sardi, che si sentivano oramai parte di una naciòn sardesca, il Doria era infatti uno straniero. Eleonora dimostrò anche in questa situazione le sue grandi doti diplomatiche. Riuscí a far passare in secondo piano il fatto di essere la moglie di Brancaleone Doria e puntò tutto sulla figura di figlia del mai dimenticato Mariano IV.

Il desiderio di una «buona pace»

Nel 1384 Brancaleone venne inviato a Cagliari per tentare un’ultima mediazione con la moglie, ma fallí e venne rinchiuso dagli Aragonesi nelle carceri della torre di S. Pancrazio. Dopo due anni di inutili scontri e il fallito tentativo messo in atto da Eleonora per far evadere Brancaleone furono siglati prima gli accordi preliminari del 1386 e poi la pace del 1388. L’interesse di Eleonora era quello di arrivare a una bona pau et tranquillitat (letteralmente, «una buona pace e tranquillità») all’interno del giudicato, riaffermando la continuità degli ordinamenti tradizionali e dell’autonomia dell’Arborea. Tuttavia la morte di Pietro IV il Cerimonioso, nel 1387, complicò non poco le cose. Il nuovo sovrano Giovanni I d’Aragona, primogenito del defunto, manovrato dall’alta aristocrazia catalano-aragonese avviò una politica di tipo oligarchico e assolutistico. Eleonora comprese che una pace duratura non sarebbe stata piú possibile: se intendeva liberare suo marito, doveva necessariamente scendere a patti con il nemico e firmare una tregua. A complicare ulteriormente la situazione, nel 1387, sopravvenne la morte di suo figlio Federico. Sempre sotto la reggenza di Eleonora gli successe il fratello Mariano V, acclamato giudice dalla Corona de Logu. Il 24 gennaio 1388 nel palazzo regio di Cagliari

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la carta de logu

A tutela delle donne La Carta de Logu (Carta de logu de Arborea, Statuto del luogo di Arborea) è la raccolta di norme, redatte in volgare sardo, emanata dal giudice Mariano IV (1345-76) e completata nella sua forma definitiva tra il 1393 e il 1395 dalla figlia Eleonora. La Carta è sicuramente il grande dono di Eleonora alla sua terra. Formulata sulla base della conoscenza dei diritti dell’Italia continentale, questa legislazione costituisce un superamento delle varie statuizioni locali della Sardegna e si basa su riferimenti giuridici estremamente moderni e innovativi per l’epoca. Per esempio, il principio della certezza del diritto, cioè la necessità che le leggi siano scritte e quindi a disposizione di tutti, l’estensione di certi benefici di legge anche agli stranieri che si trovano in terra d’Arborea, le norme che garantiscono i diritti dell’accusato durante i processi. Spicca poi, nei 163 articoli della Carta de Logu, l’attenzione per il mondo femminile, principalmente in quelle norme che riguardano i casi di stupro. In un’epoca in cui questi delitti si risolvevano al massimo con un matrimonio riparatore, Eleonora sancisce che tocca alla donna decidere se accettare l’unione con chi ha abusato di lei. Allo stesso tempo il matrimonio non elimina il reato e il reo deve pagare una cifra altissima al Giudicato oppure subire il taglio del piede.

venne finalmente firmato un trattato di «pace». L’Arborea risultò colpita duramente: oltre a pesantissimi tributi arretrati da pagare, Eleonora perse Sassari, le regioni della Romangia e della Fluminargia, i castelli di Osilo, di Sanluri, di Pedreso e Buonvicino con le contrade circostanti, la città di Villa di Chiesa e la zona mineraria del Cixerri. Brancaleone fu liberato solo nel 1390, quando tutte le condizioni del trattato erano ormai osservate con scrupolo. A rendere meno amara l’umiliazione vi era però la consapevolezza che, una volta libero Brancaleone, l’Arborea avrebbe infranto la tregua, per cercare una volta per tutte l’annientamento del nemico aragonese. Brancaleone si sentiva profondamente in debito con

A destra ritratto ottocentesco di Eleonora d’Arborea. Nella pagina accanto veduta di Sanluri, particolare di un dipinto su tavola del XVI sec. Sanluri (Medio Campidano), chiesa di Nostra Signora delle Grazie. Nel 1409, a Sanluri si svolse la battaglia tra la Corona d’Aragona e i giudici d’Arborea, che segnò il declino del regno d’Arborea.

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personaggi eleonora d’arborea Eleonora, che per la sua liberazione aveva sacrificato una porzione importante dei suoi territori. Grazie a una guerra-lampo, entro l’autunno del 1391 tutti i possedimenti e i castelli ceduti da Eleonora nel 1388 tornarono nuovamente sotto il suo controllo. In tutto il Nord della Sardegna (a eccezione di Alghero e Luogosardo) sventolava solo il vessillo degli Arborea, l’albero verde in campo bianco.

Eleonora, verità e mito

La leggenda narra che la stessa Eleonora abbia partecipato a questa offensiva, combattendo come una «leonessa» a fianco del marito. Probabilmente la realtà fu un po’ diversa: Eleonora a quel tempo aveva già quarantasei anni ed era presumibilmente impegnata nella redazione di quella famosissima Carta de Logu che sarebbe stata promulgata l’anno seguente. Carlo Cattaneo, uno dei grandi pensatori del Risorgimento italiano, scrisse che Eleonora era «la figura piú splendida di donna che abbiano le storie italiane, non escluse quelle di Roma antica». In epoca risorgimentale, cosí piena di fervore nazionalista, la figura di Eleonora venne dunque esaltata (un po’ eccessivamente, verrebbe da dire) come simbolo della tenacia e del vigore in lotta contro l’oppressore straniero. Tuttavia, il personaggio di Eleonora è passato alla storia anche – o soprattutto – per un altro motivo. Oltre ad aver legato il proprio nome alla storia della Sardegna per aver cercato fino all’ultimo di unificare l’isola sotto le sue insegne, viene oggi ricordata per l’opera di riorganizzazione giudiziaria e amministrativa del giudicato

di Arborea. È per questo che le statue ottocentesche la rappresentano con una spada nella mano destra e un rotolo di pergamena nella mano sinistra: la spada simboleggia la sua forza e la pergamena la Carta de Logu (vedi box a p. 45), il codice di leggi che raccoglie la sua attività legislatrice. Emanato tra il 1393 e il 1395, per chiarezza, innovazione e adeguamento alle tradizioni costituisce un esempio di legislazione unico nel suo campo. A dire il vero, nonostante la tradizione le assegni un ruolo di primo piano, Eleonora non fu la vera autrice di questo importantissimo documento: esso era stato infatti creato dal padre Mariano, ma Eleonora ebbe il merito (e l’ardire) di modificarlo sulla base delle esigenze del suo tempo, contribuendo a quello che viene tutt’oggi considerato «il maggior monumento legislativo della Sardegna medievale». Redatto in volgare arborense (in modo da farlo comprendere al popolo) è un testo prezioso e spesso dalla sconcertante attualità per via delle tematiche che affronta (tra cui la posizione e tutela delle donne e dei minori, la difesa del territorio, l’usura). Senza dubbio Eleonora fu un personaggio atipico nel panorama medievale italiano. Figura versatile e intelligente, concreta e decisa, ebbe la forza di ricoprire ruoli complessi e completamente diversi l’uno dall’altro: moglie, madre, «iudichissa», condottiera e legislatrice. Come scrive Bianca Pitzorno, nel suo Vita di Eleonora d’Arborea, l’agiografia rappresentò Eleonora «contemporaneamente come madre affettuosa, sposa fedele e sottomessa, avveduta massaia, devota cristiana, benefattrice dei poveri e dotta legislatrice»: non c’è da stupirsi che i patrioti del

In basso Pietro IV d’Aragona il Cerimonioso, particolare del capolettera di un manoscritto del 1385 circa. Barcellona, Libreria della Catalogna.

In alto presunto ritratto di Eleonora d’Arborea su uno dei peducci dell’abside della chiesa di S. Gavino Martire, edificata tra il 1347 e il 1388, a San Gavino Monreale, nel Medio Campidano.

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XIX secolo, «in cerca d’una legittimazione storica alle loro aspirazioni romantiche d’autonomia e d’indipendenza», l’abbiano presa a modello. Protagonista di una politica nuova (soprattutto rispetto all’autoritarismo del fratello Ugone III), non si fece portavoce di un potere assoluto, ma rese partecipi dei destini della Sardegna i ceti piú vitali della società, soprattutto mercanti e ceti urbani (ma anche agricoltori). Basando il proprio potere sul consenso, riuscí a regalare al popolo sardo l’ultimo periodo di indipendenza e autodeterminazione prima di secoli di dominazione straniera. Tuttavia, dopo aver portato a termine il progetto del padre di riunire quasi tutta l’isola sotto il suo scettro di

giudicessa reggente, vide crollare il suo disegno per i capricci della fortuna. La pestilenza che colpí la Sardegna nel 1403, infatti, non solo portò alla morte Eleonora, ma ebbe infauste conseguenze anche per l’isola tutta: nel giro di dieci anni gli Aragonesi riconquistarono tutti i territori precedentemente perduti. Nonostante il rovescio patito, gli antichi nemici consegnarono a Eleonora d’Arborea, come si usa dire, l’onore delle armi: nel 1421 estesero la Carta de Logu a tutta l’isola, dove rimase in vigore fino al 1827, quando venne sostituita dal Codice feliciano. Sconfitta dalla peste, Eleonora riuscí comunque a vincere la battaglia piú dura: sopravvivere all’oblio del tempo. F

Sanluri. Un torrione del castello, intitolato a Eleonora. Edificato intorno al XIII sec. al confine tra il giudicato di Cagliari e quello di Arborea, e occupato dagli Aragonesi nel XIV sec., il castello fu potenziato nel 1355 da Pietro IV il Cerimonioso. Assediato da Mariano IV nel 1366, passò nelle mani degli Arborea, che lo persero definitivamente durante la battaglia di Sanluri. Oggi sede di un museo, rimane l’unica fortezza abitabile tra quelle costruite nel periodo giudicale.

Da leggere U Bianca Pitzorno, Vita di Eleonora

d’Arborea, Mondadori 2010 U Camillo Bellieni, Eleonora

d’Arborea, Ilisso 2004 U Manlio Brigaglia, Attilio Mastino,

Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna. Vol. 1: Dalle origini al Settecento, Laterza, 2006 U Leopoldo Ortu, Storia della Sardegna dal Medioevo all’età contemporanea, CUEC Editrice, 2011 U Italo Birocchi, Antonello Mattone, La carta de logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Laterza, 2004

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costume e societĂ la prostituzione

Storie di donne di Maria Paola Zanoboni

cortesi


Nei secoli del Medioevo, l’approccio della società nei confronti della prostituzione è improntato, in linea di massima, al pragmatismo. Statuti e decreti regolano lo svolgimento della professione e tutte le città piú importanti, in Italia e in Europa, si dotano di strutture destinate al meretricio, la cui conduzione è spesso gestita in prima persona dalla pubblica autorità

L L

e testimonianze sulla prostituzione medievale consistono soprattutto in documenti normativi che vertono sulle disposizioni in proposito, sulle questioni giuridiche, sugli istituti di controllo: materiale da cui trapela ben poco sulla realtà quotidiana del fenomeno e sulle sue caratteristiche economiche e sociali. Accanto a queste fonti, non rimane nient’altro, se non le prediche dei sacerdoti, pre-

Bagno termale a Leuk, dipinto di Hans Bock il Vecchio (1550-1623 circa). 1597. Basiliea, Kunstmuseum. Fino al XIII sec. la prostituzione, condannata dalle autorità cittadine e dalla Chiesa, veniva esercitata clandestinamente in locande, taverne, bagni pubblici e case private.


costume e società la prostituzione occupati della moralità. Per questi motivi, solo di recente la storiografia ha cominciato a dedicarsi a questo fenomeno. Una lenta e articolata evoluzione, sia sul piano della mentalità religiosa e delle disposizioni ecclesiastiche, sia dal punto di vista giuridico e nella realtà sociale, caratterizzò il processo di trasformazione dell’atteggiamento e delle opinioni nei confronti del meretricio, decisamente osteggiato e circondato dal disprezzo per tutto il Duecento e fino ai primi decenni del Trecento. Gli indirizzi assunti in proposito dalle autorità cittadine sono fondamentalmente tre: la repressione, la tolleranza, oppure l’istituzionalizzazione. Questi ultimi due orientamenti prevalsero a partire dalla seconda metà del Trecento e per buona parte del Quattrocento, consentendo cosí alle prostitute di

entrare a far parte di un mondo, per cosí dire, «produttivo», in quanto soggetti erogatori di un servizio fruibile dalla comunità.

Dai margini alla legalità

Come già accennato, fino a tutto il XIII secolo la prostituzione era stata ovunque osteggiata e fatta oggetto, nei dettati statutari cittadini, di norme specifiche, volte a relegarla al margine della società (facendo sí che la professione venisse esercitata clandestinamente in taverne, alberghi, case private, bagni pubblici, luoghi occasionali). Tra il 1350 e il 1450, invece, le città italiane ed europee, per prevenire la criminalità e altri tipi di reati piú gravi (come l’adulterio e la sodomia), cominciarono a legalizzarla e istituzionalizzarla, costruendo postriboli pubblici, con l’intento sia di garantire un controllo, sia di offrire una tutela alle «la-

voratrici» del settore e ai loro clienti. In quest’ottica vennero aperti e collocati in luoghi cardine dello spazio urbano il postribolo di Pistoia (1345), quello di Perugia (seconda metà del Trecento), il «Castelletto» veneziano (1360), seguiti da quelli di Lucca (1421), Siena e delle città francesi (ultimi decenni del XIV secolo). Le meretrici avevano inoltre piena libertà di procurarsi i clienti fuori dal postribolo, nelle strade circostanti (a Venezia addirittura in piazza San Marco), con il beneplacito delle autorità cittadine. Il riconoscimento di una funzione positiva all’esercizio di questa attività determinò, insomma, un rapporto nuovo, di tolleranza, da parte del potere pubblico, ma anche un piú rigido controllo all’interno di strutture autorizzate, e la prostituzione fu sottoposta a magistrature apposite, in coincidenza con un momento storico in cui andava avviandosi nella Penisola, e in tutta Europa, una generale trasformazione dell’assetto istituzionale e organizzativo degli organismi statali.

Uffici ad hoc

A Firenze il meretricio era controllato e gestito dall’«Ufficio dell’Onestà» (dotato di un apposito notaio), istituito nel 1403 con l’obiettivo specifico di prevenire l’omosessualità, indirizzando piuttosto verso la prostituzione femminile. L’Ufficio rappresentava il garante di ogni accordo e transazione in materia, provvedendo a sanzionare gli abusi di ogni tipo che spesso caratterizzavano l’attività (tra cui il frequente accanimento dei lenoni contro le donne che da loro dipendevano). Per dichiarare ufficialmente meretrice una donna di facili costumi era necessario un processo che poteva essere istruito sulla base della (segue a p. 55) A sinistra La casalinga, incisione del XV sec. La scena ritrae una donna che svolge nella sua abitazione privata la prostituzione. Nella pagina accanto bagni pubblici, acquaforte di scuola tedesca del XVI sec.

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L’organizzazione firenze: controllori pubblici, in nome dell’onestà Nella Firenze quattrocentesca non è chiaro se esistesse anche un postribolo pubblico o se l’attività venisse esercitata soltanto in botteghe e alberghi gestiti autonomamente da privati. È certo, però, che lungo la strada chiamata Malacucina, mescolate a taverne, macellerie e negozi di pizzicagnoli, si apriva almeno una trentina di botteghe adibite a questo scopo, e nella stessa zona si trovavano anche alcuni alberghi frequentati dalle meretrici. Nella Firenze del primo Quattrocento la prostituzione era cioè accolta e autorizzata in pieno centro cittadino, tra il Duomo e il Palazzo della Signoria, nell’area (oggi profondamente cambiata) di Mercato Vecchio, approssimativamente in corrispondenza dell’attuale piazza della Repubblica. Probabilmente il sistema di gestione della prostituzione pubblica era duplice: una forma di conduzione diretta, sorvegliata dalla magistratura dell’Onestà, in edifici messi a disposizione dal Comune di Firenze; e una forma indiretta, che si svolgeva in alberghi, botteghe e abitazioni in mano a privati, ma ugualmente controllata dalla stessa magistratura. Nel primo caso le meretrici potevano fruire di un rapporto privilegiato con l’ente pubblico, dal quale ottenevano l’alloggio e al quale versavano un affitto, mentre nel secondo l’attività veniva condotta da un intermediario, l’hospes, ovvero il lenone, cioè un «albergatore tenutario», che gestiva i locali da concedere alle prostitute e versava al Comune una tassa annuale commisurata alla tipologia degli ambienti. Potevano, però, essere anche le donne stesse a prendere in affitto da privati le camere loro necessarie, sempre, comunque, col consenso dell’autorità pubblica. Proprietari degli immobili erano spesso famiglie rispettabili, e

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anzi di rilievo nella società fiorentina, che concedevano i locali a canoni piú alti del normale, col pretesto che gli affitti erano difficili da riscuotere. In realtà, una situazione analoga è rilevabile anche nella Milano del secondo Quattrocento, dove molte famiglie facoltose di imprenditori o di mercanti trovavano proficuo arrotondare gli utili affittando camere singole, per brevi periodi e a canoni esorbitanti, a donne sole che – dicevano formalmente i contratti di locazione – non potevano ricevere piú di un uomo per volta, né sostare sulla porta per attirare i clienti, recando disturbo agli altri condomini. Le ragioni addotte dai proprietari degli immobili fiorentini, anche se spesso esagerate, talvolta racchiudevano

comunque una parte di verità. Nelle zone in cui aveva sede la prostituzione, infatti, era praticamente impossibile affittare a chi non ne fosse in qualche modo interessato, molti inquilini erano stranieri (e quindi difficili da reperire se se ne fossero andati senza pagare l’affitto), prendevano in locazione le camere per breve tempo, costringendo i proprietari a cercare in continuazione nuovi affittuari, per cui talvolta gli immobili rimanevano sfitti a lungo. A questo si aggiungeva la scarsa cura che questo tipo di inquilini aveva in genere per gli ambienti in cui abitava, ridotti rapidamente in stato di degrado, e per gli arredi e le suppellettili, che venivano concessi insieme ai locali. La riottosità e la mancanza di scrupoli


degli inquilini (che spesso non esitavano a portarsi via una parte dell’arredo), costituivano un altro motivo di preoccupazione per i proprietari. Le prostitute non avevano necessariamente un «protettore», ma pare, anzi, che fosse piú diffusa a Firenze la condizione di meretrice «indipendente». Sempre nella città di Dante queste donne di varia nazionalità (fiamminghe, tedesche, italiane, francesi e slave) convivevano negli stessi postriboli, senza raggrupparsi a seconda della propria etnia. I protettori, invece, avevano di solito la stessa nazionalità delle prostitute che da loro dipendevano. Notevole è il ruolo delle taverne e degli alberghi, non solo come sede di questa peculiare attività, ma anche come luogo di incontro e di affari per i lenoni, che volevano estendere e rendere piú redditizio il loro commercio e valorizzare le ragazze che avevano a disposizione, svincolandosi dalla zona della città piú malfamata. Ugualmente le «stufe» o terme, cioè i bagni pubblici, rappresentavano in genere un luogo di incontri illeciti (vedi box a p. 56). Durante la seconda metà del Quattrocento, la prostituzione andò progressivamente diffondendosi in molti quartieri di Firenze e radicandosi capillarmente, anche in molte case private prese in affitto direttamente dalle meretrici. Parallelamente, andò aumentando il numero delle donne del luogo costrette a ricorrere a questa attività per sopravvivere, e a svolgerla il piú possibile segretamente, sottraendosi al controllo della magistratura dell’Onestà, che avrebbe comportato l’istituzionalizzazione del loro ruolo, con le conseguenze negative e il marchio d’infamia che ne derivavano.

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A destra miniatura raffigurante una coppia che si bacia, da un’edizione del Lectura super Digesti Infortiati di Bartolo da Sassoferrato. XV sec. Glasgow, University Library. Nella pagina accanto donne licenziose, miniatura da un’edizione del De Mulieribus Claris di Giovanni Boccaccio. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

pisa, pistoia e perugia: lenocinio di stato A differenza di Firenze, Pisa, nei primi decenni del XV secolo, disponeva di un unico, grande postribolo pubblico, il Castelletto, di pertinenza dello Stato. Il governo fiorentino, al quale Pisa era allora soggetta, lo aveva concesso in affitto nel 1427 a un gestore di Firenze, con il quale aveva stipulato un contratto meticoloso: il gestore avrebbe versato 800 fiorini annui per la concessione, e avrebbe potuto a sua volta esigere da ogni prostituta che risiedeva al Castelletto 13 soldi al giorno (somma decisamente sproporzionata, considerando che 10 soldi corrispondevano al salario medio giornaliero di un manovale, e 15 soldi al giorno a quello di un lavoratore specializzato). Molte prostitute non riuscivano quindi a trovare alloggio nell’edificio, o erano ridotte a indebitarsi a tal punto col gestore da diventarne praticamente schiave. Per questo motivo, i governanti fiorentini optarono quasi subito per la gestione diretta del postribolo, chiedendo alle prostitute una quota molto inferiore (4 soldi al giorno), in rapporto alla loro presenza e all’uso dei locali, provvedendo a registrare le donne ospitate e il loro periodo di permanenza, e occupandosi della manutenzione dell’edificio. In seguito, però, la gestione diretta si alternò a quella indiretta, con un susseguirsi di provvedimenti contrastanti, che denotano la difficoltà dell’autorità pubblica a trovare una soluzione al problema. Un’organizzazione simile, anche se molto meno vessatoria nei confronti delle «donne cortesi», caratterizzava il postribolo di Pistoia, il cui conduttore (come prescrivevano le disposizioni del 1460) doveva prendersi cura personalmente della manutenzione ordinaria dell’edificio, accogliere le ragazze che avessero voluto svolgervi l’attività e che avrebbero versato una pigione di 30 soldi al mese, senza oneri aggiuntivi, prestando servizio dalla prima campana del mattino alla seconda ora della notte. L’immobile in cui il lupanare era ubicato apparteneva all’Opera di S. Jacopo (una delle piú importanti istituzioni cittadine), e a essa spettava il canone di locazione, oltre che gli interventi di manutenzione straordinaria. Lo stesso si può dire di Perugia, dove il Comune appaltava la gabella del postribolo a un tenutario che si assicurava in tal modo un ampio potere sulle ragazze, con le quali stipulava contratti a tempo per l’esercizio del mestiere, e del cui lavoro si garantiva il completo sfruttamento e l’assoluto controllo. Le poverette, infatti, gli versavano l’intero guadagno delle loro prestazioni, ricevendo in cambio soltanto vitto, alloggio, e qualche capo di vestiario.

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costume e società la prostituzione francia: sí ai lupanari, no alle bische In Francia la prostituzione era praticata abitualmente nei villaggi e lungo le strade che portavano a centri importanti, soprattutto in occasione delle fiere; tuttavia, essa era maggiormente diffusa in ambiente urbano, rivestendosi di forme complesse e istituzionalizzandosi. Nella maggior parte delle città del Sud-Est (Digione, Beaune, Bourg-en-Bresse, Lione, Tarascona e molte altre) esisteva un postribulum publicum, fatto costruire e gestito dalle autorità cittadine, principesche o municipali, tramite una tenutaria o un tenutario, incaricati di far rispettare le regole, in modo che il postribolo non diventasse una bisca o un covo di malviventi e bestemmiatori. In caso di morte del gestore, erano le autorità cittadine stesse a prendere in mano le sorti della casa di appuntamenti. La costruzione che ospitava il lupanare variava per dimensioni a seconda dell’importanza della città: poteva trattarsi di un fabbricato modesto o di un edificio imponente, come quello di Digione, costituito da tre blocchi prospicienti sul giardino e comunicanti tra loro mediante gallerie interne (1447). Era dotato di ben 20 camere, di notevoli dimensioni, tutte fornite di caminetti in pietra. A Lione, Arles e Avignone comprendeva, invece, un intero isolato. Le prostitute in genere adescavano i clienti per le strade o nelle taverne, per poi portarli nel postribolo pubblico in cui l’attività, come si è detto, era regolamentata e controllata. Altri luoghi di esercizio erano rappresentati dai bagni pubblici, o da piccoli «bordelages» privati, le cui tenutarie disponevano di due o tre ragazze.

Una coppia in un letto, miniatura da un’edizione del Livre des propriétés des choses composto dal frate francescano Bartolomeo Anglico intorno alla metà del XIII sec. 1413-1414 circa. Parigi, Bibliothèque nationale.

Dalla seconda metà del Trecento e per tutto il Quattrocento la prostituzione, disprezzata e osteggiata fino al secolo precedente, venne istituzionalizzata con la costruzione di postriboli pubblici e sottoposta a magistrature appositamente create

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testimonianza di quattro persone degne di fede. Se l’imputata veniva riconosciuta colpevole, era assoggettata alla legislazione vigente in materia e relegata nel postribolo, o nelle botteghe e negli alberghipostribolo, e allontanata da tutti i luoghi vietati alle prostitute. Chi, invece, proveniva da un altro luogo ed esercitava già l’attività aveva l’obbligo di presentarsi immediatamente davanti alla magistratura dell’Onestà per depositare il proprio nome e riceverne una sorta di «permesso di soggiorno». Poteva quindi cercare un alloggio nei luoghi consentiti. Nonostante questo rigido controllo, frequenti erano le pratiche illecite, come il lenocinio praticato da donne che fungevano da mediatrici nel procurare fanciulli e fanciulle di giovanissima età alle persone piú varie, e talvolta persino ai conventi.

Ospizi per meretrici

La funzione «pubblica» delle «donne cortesi» era cosí sentita che nel Cinquecento l’arcivescovo di Firenze in persona, Alessandro Medici, chiese alle autorità cittadine la creazione di un ospizio per le meretrici anziane e abbandonate, simile a quelli che ospitavano gli altri vecchi della città. A Venezia l’attività si era insediata fin dal XIII secolo nell’isola di Rialto, clandestinamente, in taverne, alberghi e case private, avversata e mal sopportata dalle autorità cittadine fino Una cortigiana romana, incisione di scuola tedesca del 1577. A Roma, come a Milano, tra i segni di riconoscimento imposti alle donne che esercitavano il meretricio, per distinguerle dalle «oneste», vi erano le mantelle di fustagno nere per coprire le spalle.

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al 1358, quando venne deliberata la creazione del già citato Castelletto, che si insediò, sempre a Rialto, nel 1360, in edifici appartenenti a due famiglie patrizie veneziane (che, senza alcun problema, si limitavano a riscuotere il lucroso affitto). L’istituzione venne sottoposta alla giurisdizione dei Signori di Notte, la potente magistratura veneziana incaricata di mantenere l’ordine pubblico, che, tre volte al mese, controllava la cassa in cui erano custoditi i guadagni delle prostitute. Nessuna tenutaria, infatti, po-

teva conservare presso di sé il denaro delle ragazze, che doveva essere obbligatoriamente depositato nella cassa apprestata a tale scopo, dalla quale il Comune prelevava in anticipo le somme dovute dalle meretrici per l’affitto e i salari del personale del postribolo, prima di distribuire il resto tra coloro che lo avevano guadagnato. La gestione da parte degli ufficiali del Comune, però, non era affatto esemplare, e la distribuzione del denaro appariva alquanto fantasiosa, tanto che le autorità cittadine dovettero minacciarli di severe ammende e proibire loro categoricamente di accettare regali dalle ragazze.

Al suonar della campana

Il regolamento del Castelletto consentiva di esercitare anche fuori dalla struttura pubblica, nelle taverne e nelle case, purché, al rintocco della prima campana della notte, tutte coloro che praticavano il mestiere si recassero al lupanare. Sulle preoccupazioni moralistiche prevaleva, insomma, l’esigenza di un controllo dell’ordine pubblico. Di fatto, però, i divieti e le prescrizioni non erano rispettati, e, nel corso del Quattrocento, l’attività andò diffondendosi un po’ ovunque, persino in piazza S. Marco. A Milano erano gli statuti cittadini del 1396 a dettare regole in materia, dedicandovi un’apposita rubrica, la «rubrica generalis de meretricibus et bordello», in cui si proibiva severamente, con la minaccia di aspre ammende, di allestire case di appuntamento in abitazioni private o in altri luoghi al difuori del postribolo pubblico, situato non lontano dalla chiesa di S. Paolo in Compito e dal corso di Porta Tosa. Il proprietario di un immobile che avesse affittato consapevolmente camere a questo scopo, o che avesse tollerato

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costume e società la prostituzione la presenza nei suoi beni di «femine inoneste», sarebbe incorso nelle medesime sanzioni. Alle prostitute e ai loro protettori veniva poi vietato sostare nel Broletto, da dove le donne sarebbero state espulse e fustigate se avessero opposto resistenza.

Indagini e testimonianze

Il podestà e i suoi collaboratori avevano l’obbligo di indagare, parrocchia per parrocchia, se vi fossero ragazze che esercitavano l’attività nelle loro abitazioni, e, in caso positivo, convalidato dalla deposizione di tre testimoni maggiori di 30 anni, di farle espellere dal quartiere di residenza. Inutile dire che queste norme venivano abbondantemente trasgredite, come persino i contratti di affitto lasciano talvolta trapelare. Le meretrici, infine, dovevano portare una mantellina di fustagno nero sulle spalle come segno di riconoscimento. Anche nelle città francesi del XV secolo la prostituzione era tranquillamente tollerata, in quanto utile a evitare fatti scandalosi e reati piú gravi. Era dunque completamente legale, tanto che il postribolo veniva definito «maison de la ville», e i notai vi si recavano a redigere i loro atti. Le autorità cittadine ricevevano il giuramento delle «ragazze», discutevano con loro sulle tariffe praticate, consentivano loro di partecipare a feste cittadine, tolleravano la loro presenza in occasione di manifestazioni pubbliche , accettavano un regalo annuale dalla tenutaria. A partire dagli anni Venti del Cinquecento, però, sulla scia del nuovo rigore portato dalla Controriforma, andò affermandosi ovunque un progressivo rifiuto della prostituzione da parte delle comunità urbane. Vennero chiusi i bagni pubblici e i postriboli, condannate le concubine, i lenoni e le tenutarie. Fin verso la metà del Quattrocento le prostitute che popolavano Firenze erano per la maggior parte straniere: prevalentemente tedesche, fiamminghe, slave, francesi; rare le italiane, se si fa eccezione per un certo numero di venete. Diversa,

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Un bagno pubblico viene indicato a un re da un uomo di Chiesa, miniatura da un manoscritto francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nel Medioevo, i bagni pubblici, detti anche «stufe» per la presenza di vasche con acqua riscaldata, erano luoghi solitamente frequentati da prostitute.

Le stufe

Bagni particolari I bagni pubblici (detti «stufe») rappresentavano, sia nelle città italiane, sia in quelle d’Oltralpe (francesi, ma anche tedesche e soprattutto fiamminghe), dei poli notevoli di attrazione per la prostituzione, che in questo caso, però, risultava non legalizzata e quindi fuori dal controllo delle autorità cittadine che ovunque ne proibivano severamente l’esercizio in questi spazi, temendo che divenissero luoghi di raccolta di malavitosi. Alcune «stufe», in realtà, non avevano nulla a che fare con un bagno pubblico, ma erano soltanto postriboli illegali, i cui proprietari erano spesso personaggi molto in vista che ben conoscevano le attività dei loro affittuari. Negli anni Settanta del Quattrocento si contavano ben 6 di questi stabilimenti ad Avignone, 7 a Digione e altrettanti a Lione, molti dei quali nelle parrocchie dei mercanti. A Bruges, nella stessa epoca, la presenza di molti giovani mercanti stranieri incentivava notevolmente la prostituzione, tanto che le autorità cittadine non avevano fissato vincoli di alcun tipo (se non per quanto concerneva il controllo dell’ordine pubblico), consentendo senza problemi il suo esercizio anche all’interno delle stufe, che erano concentrate appunto nei quartieri piú ricchi, accanto ai palazzi dei mercanti e nelle strade da loro frequentate. Vicino alla piazza della Borsa e alle sedi della nazione lucchese e fiorentina si era sviluppato un vero e proprio «quartiere a luci rosse». La libertà di comportamento nelle relazioni fra uomini e donne in area fiamminga era tale da far osservare a un nobile andaluso negli anni Trenta del Quattrocento che nel Nord Europa frequentare le stufe era ritenuta cosa tanto onesta quanto in Andalusia recarsi ai santuari. Un’immagine che nascondeva, però, una situazione alquanto penosa: il piú totale squilibrio tra le ricchezze dei mercanti che avevano fatto fortuna e la povertà di una parte della popolazione fiamminga, e in particolare di molte donne che vivevano ai limiti della sussistenza e che trovavano nella prostituzione l’unico modo per sopravvivere. gennaio

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nella stessa epoca, era la nazionalità dei «protettori», che vedeva l’assoluta prevalenza degli Italiani del Nord, seguiti dai Fiamminghi e dai Tedeschi. La situazione cambiò completamente alla fine del secolo e nel primo Cinquecento, quando prevalevano ormai in assoluto donne del Nord Italia, e soprattutto dell’Emilia Romagna, seguite da una minoranza di Spagnole, Fiamminghe e Greche, mentre gli uomini provenivano esclusivamente dall’Italia settentrionale. Contemporaneamente, cominciò ad aumentare anche il numero delle Toscane e delle Fiorentine, che però, come accennato, riuscivano spesso a mimetizzare il proprio ruolo e a sottrarsi all’attività organizzata e controllata dall’autorità pubblica. La spiegazione di questo mutamento va ricercata nei flussi di mano d’opera via via diversi a seconda della contingenza economica. Nella prima parte del XV secolo, infatti, la manifattura laniera fiorentina aveva potuto giovarsi di un buon numero di tessitori tedeschi e fiamminghi, emigrati dai loro Paesi, colpiti dalla crisi economica, e che co-

stituivano un polo di attrazione per prostitute e lenoni della medesima nazionalità. Nella stessa epoca affluiva nella città di Dante, attraverso i traffici con Venezia, anche un certo numero di servitori e schiavi provenienti dalla Iugoslavia. Molti di questi lavoratori impoveriti, o delle loro mogli o figlie potevano cadere nel giro della prostituzione, magari perché oberati dai debiti e ai limiti della sopravvivenza.

«Vendite» illecite

Ma accanto a queste forme di prostituzione volontaria e legalizzata, esistevano situazioni ben peggiori, condannate e aspramente sanzionate dalla magistratura fiorentina dell’Onestà, consistenti nella cessione per denaro, da parte di un parente o di un’altra persona, di giovinette, se non addirittura di bambine, al postribolo. Cosí, nel 1417, un fiorentino appena sposato tentò di vendere la giovane moglie a un lupanare di Lucca, ma, non essendo andato in porto l’affare, dovette accontentarsi di farle esercitare l’attività in privato. Scoperto dalle autorità cittadine, l’uomo venne condannato a un’ammenda di 1000

lire, a 2 anni di carcere e alla pubblica fustigazione da parte della moglie (anch’essa peraltro condannata alla fustigazione e alla detenzione per un mese). In altri casi erano piccole servitrici ancora bambine a essere vendute per questo scopo, e anche tale pratica veniva naturalmente sanzionata dall’autorità pubblica. A Venezia, nel corso del XV secolo, esercitavano l’attività molte ragazze dell’entroterra (padovane, trevigiane, friulane), oltre a greche, slave e spagnole, armene e tedesche, spinte forse da una miseria generalizzata, o da destini e vicissitudini individuali. In Francia, sempre durante il XV secolo, la maggior parte delle prostitute proveniva dai Paesi del Nord-Ovest, sconvolti dalla crisi e dalle guerre: Fiandre, Artois, Piccardia, Hainaut rifornivano i postriboli di tutte le città della valle del Rodano. Giunte nella città in cui avevano intenzione di stabilirsi, dovevano prestare giuramento alle autorità, versare settimanalmente l’affitto della camera alla tenutaria, partecipare alle spese di riscaldamento, ed elargire qualche soldo

A destra Postribolo in una locanda, olio su tavola del pittore fiammingo Joachim Beuckeleer (1533 circa1575). 1562. Baltimora (Stati Uniti), Walters Art Museum. Nella pagina accanto La mezzana, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553). 1540. Tbilisi (Georgia), Museo di Belle Arti.

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costume e società la prostituzione alla guardia che le proteggeva. In genere percepivano come remunerazione l’equivalente della metà di una giornata di lavoro nelle vigne.

I protetti di Santa Barbara

La condizione dei protettori era decisamente meno precaria di quella delle meretrici. A Firenze potevano infatti iscriversi alla corporazione degli albergatori, stabilendo in questo modo un primo contatto istituzionale con le organizzazioni cittadine. Potevano cosí esercitare i diritti civili e si accollavano i doveri dei comuni cittadini. Si inserivano anche attivamente nell’organizzazione parrocchiale. Sempre a Firenze, fin dall’inizio del Quattrocento, esisteva addirittura un’associazione di lenoni (societas ruffianorum) che godeva del pieno riconoscimento da parte dell’autorità pubblica, e che aveva sede nella chiesa di S. Leo, posta al centro del quartiere della prostituzione. In quel luogo sacro i ruffiani si riunivano e tenevano le loro assemblee, sotto la protezione di Santa Barbara. In molte città, soprattutto d’Oltralpe, anche le meretrici, per tutelare i propri affari, avevano cominciato fin dai secoli XIII/XIV a costituire corporazioni in tutto simili a quelle di mestiere, poste sotto la protezione di Maria Maddalena. Quelle fiorentine, al contrario, lungi dal costituire una qualsiasi forma associativa, erano in perenne e rissoso disaccordo. Molti «protettori» provenivano da altre attività, soprattutto da quelle piú umili dell’arte della lana (scardassieri, purgatori, tintori, cimatori), e non avevano alcuna difficoltà a dichiarare pubblicamente di aver cambiato genere di commercio. Si dedicavano completamente al nuovo lavoro, oppure lo utilizzavano per integrare gli scarsi guadagni. Si trattava sostanzialmente di imprenditori che investivano una quota di capitale prendendo in affitto un edificio destinato alla prostituzione, versando una tassa per

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l’attività svolta, e rivalendosi delle spese sul prezzo dei locali dati in subaffitto alle prostitute. Nonostante l’apparente indipendenza di queste ultime, il lenone riusciva a legarle a sé a causa dell’innumerevole serie di debiti di cui ciascuna di loro era gravata. A Venezia, in particolare, proprio a causa dell’indebitamento, la maggior parte di coloro che esercitavano questa attività non erano libere e non lavoravano «in proprio», ma erano quasi sempre legate a un protettore, quando non era il marito stesso o qualche parente a condurle al Castelletto (pratica che le autorità cittadine condannavano e sanzionavano aspramente). Di fronte a tale situazione, il Comune cercava dunque di proteggere le ragazze, sostituendo il proprio controllo a quello dei ruffiani, che spesso le sfruttavano anche quando avevano estinto i debiti, picchiandole e minacciandole quando non li assecondavano.

Arrotondare il bilancio

In Francia la ruffianeria era un’attività prevalentemente femminile: basti l’esempio di Digione, dove 75 degli 83 postriboli esistenti venivano gestiti da donne sposate, perlopiú mogli di artigiani od osti, che, in accordo col proprio consorte arrotondavano in questo modo il bilancio familiare. Alcune di loro si limitavano a fare da mediatrici ad appuntamenti galanti, altre procuravano le ragazze, altre ancora tenevano apertamente bordello in casa propria, altre, infine, lavoravano per una clientela d’alto bordo, alla quale procuravano giovani ingenue e prive di mezzi che si erano lasciate convincere dalle loro promesse. Si procuravano le vittime dando rifugio alle fanciulle abbandonate o andando a cercarle alle porte degli ospizi. Al vertice di questa gerarchia c’erano le tenutarie di «stufe», che legavano a sé le ragazze facendole indebitare. Infine, per ciò che riguarda la clientela, si può dire che i Fiorentini agiati frequentavano le meretrici

Le cortigiane, olio su tavola di Vittore Carpaccio (1465-1526). 1490-1495. Venezia, Museo Correr.

molto raramente. La clientela era costituita piuttosto da una folla di salariati, lavoratori manuali, piccoli commercianti, soldati, forestieri di passaggio, soprattutto tedeschi. Non rari risultavano i furti ai danni di molti incauti malcapitati. Nelle città francesi del XV secolo i postriboli potevano contare su una clientela locale stabile costituita da uomini di ogni età e condizione (tessitori, pescatori, chierici, mercanti, uomini di legge), ma non dai ceti piú agiati, che rappresentavano meno del 30% degli avventori. Le persone altolocate e gli ecclesiastici frequentavano piú assiduamente le «stufe», dove avevano maggiori garanzie di riservatezza. F

Da leggere U Jacques Rossiaud, La prostituzione

nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1984 U Romano Canosa, Storia della prostituzione in Italia: dal Quattrocento alla fine del Settecento, Sapere 2000, 1989 U Maria Serena Mazzi, Il mondo della prostituzione nella Firenze tardo medievale, in Ricerche Storiche, XIV (1984), fasc. 2-3, maggio-dicembre; pp. 336-363 U Maria Serena Mazzi, Un «dilettoso luogo»: L’organizzazione della prostituzione nel tardo medioevo, in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, atti del XII convegno di studi (Pistoia, 9-12 ottobre 1987), Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia, 1990; pp.465-480 U Maria Serena Mazzi, Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento, Il Saggiatore, Milano 1991 U Giovanni Scarabello, Meretrices: storia della prostituzione a Venezia tra il XIII e il XVIII secolo, Supernova, Venezia 2008 U Laura Galoppini, Mercanti toscani e Bruges nel tardo Medioevo, Edizioni Plus, Pisa, 2009; pp.303-305 gennaio

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paleografia i rotoli di vercelli

L’ora di religione di Timoty Leonardi e Jennifer Shurville

Dalle ricerche di un gruppo di studenti universitari ha preso il via il progetto di restauro e valorizzazione del patrimonio codicologico conservato nell’Archivio e Biblioteca Capitolare di Vercelli. Un vero e proprio tesoro, di cui fanno parte documenti di eccezionale interesse, il cui contenuto dimostra come la città piemontese fosse, già nel XIII secolo, un centro culturalmente molto attivo, inserito in una rete di relazioni accademiche di livello internazionale

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ue anni fa, un gruppo di studenti dell’Università di Oxford accompagnati da Winfried Rudolf è giunto alla Biblioteca Capitolare di Vercelli per studiarne il patrimonio codicologico medievale. Durante il seminario i giovani hanno analizzato alcuni rotoli di pergamena citati per la prima volta in un antico Inventarium, datato 1426. Uno di questi, uno spettacolare e intrigante rotolo miniato della metà del XIII secolo, contiene la raffigurazione allegorica della Chiesa e rappresenta un unicum, che, messo in relazione con altri due rotoli coevi, testimonia l’organizzazione, la concentrazione, l’insegnamento e la censura della conoscenza e dell’apprendimento nel Nord Italia durante il Medioevo. La loro probabile data di creazione colloca la maggior parte di questi rotoli all’interno di un periodo drammatico, segnato da sconvolgimenti dogmatici. Questi documenti forniscono testimonianze di grande interesse su argomenti diversi: le leggi e le teorie ecclesiastiche medievali, l’insegnamento di Tommaso d’Aquino riguardante il corpo della Chiesa, le tendenze storicoartistiche e lo sviluppo delle teorie della conoscenza e dell’apprendimento. Grazie a questa riscoperta, la Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare ha deciso di riportare i rotoli al loro splendore, attraverso un restauro conservativo, finanziato da privati per mezzo dell’iniziativa «Adotta una pergamena»; inoltre, grazie alla borsa di studio per studenti stranieri, intitolata a monsignor Giuseppe Ferraris e istituita annualmente dalla stessa Fondazione, Jennifer Shurville ha potuto studiare approfonditamente il gruppo di rotoli. gennaio

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il recupero di un capolavoro «Adotta una pergamena» è un progetto volto alla salvaguardia del patrimonio librario e archivistico, tramite il restauro e la valorizzazione di opere d’arte che rappresentano una ricchezza universale. Protagonista di questa iniziativa è il Rotolo Genealogico, conservato tra le pergamene dell’Archivio e Biblioteca Capitolare, redatto probabilmente nello scriptorium vercellese verso la metà del XIII

secolo e raffigurante un albero gerarchico della Chiesa. Grazie a benefattori privati, la Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare restituirà il giusto splendore a un’importante capolavoro medievale, riconosciuto come tale in tutto il mondo. Il restauro del rotolo è in corso presso il laboratorio Fagnola di Torino, sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Archivistici del Piemonte.

Uno dei tre grandi rotoli didattici custoditi nell’Archivio Capitolare di Vercelli, oggi oggetto di un restauro conservativo. Redatti intorno alla metà del XIII sec., erano probabilmente appesi alle pareti delle biblioteche e utilizzati come sussidio all’insegnamento.

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paleografia i rotoli di vercelli La ruota ha la funzione di un esercizio scolastico contro il peccato e si basa su quello testuale del teologo Ugo di San Vittore

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A Parigi, nel XIII secolo, si diffuse una nuova tendenza per la trasmissione del «pensiero visivo». Studiosi e monaci, insegnanti e studenti, rifletterono su nuovi orizzonti immaginari, creando «mappe mentali» del sapere contemporaneo attraverso l’esplorazione di nuovi formati fisici per rappresentarle. La creazione di questi intricati schemi scolastici, su grandi fogli di pergamena ricavati da intere pelli di animale conciate, ne garantirono la mobilità, e, quindi, una semplificazione nell’insegnamento. Questa trasportabilità potè assicurare la sopravvivenza della complessa, misteriosa e talvolta eretica conoscenza che essi contenevano. Un rotolo non era difficile da immagazzinare, non appariva di grande valore e poteva essere nascosto facilmente. Tuttavia, il rovescio della medaglia fu la loro facile deperibilità: mentre alcuni rotoli medievali rimasero intatti in luoghi di relativa sicurezza, alcuni andarono perduti, trascurati o distrutti nei secoli. La sopravvivenza dei rotoli di Vercelli offre, oggi, un «piacere accademico» raro al paleografo moderno e allo storico.

La ruota dei sette

La «ruota dei sette», risalente alla metà del XIII secolo, rappresenta un complicato esercizio di contemplazione religiosa, utilizzato per collegare i sette peccati capitali alle domande della Preghiera del Signore, i sette doni dello Spirito Santo, le Virtú e le Beatitudini. La ruota ha la funzione di un esercizio scolastico contro il peccato e si basa su quello testuale del teologo Ugo di San Vittore (uno dei principali esponenti della grande scuola medievale di mistica, fiorita nel XII secolo attorno all’omonima abbazia, a Parigi, n.d.r.). Il rotolo ha una stretta analogia con altri due noti esemplari, attualmente conservati presso la Houghton Library di Harvard e la Bodleian Library di Oxford. Negli archivi medievali queste ruote dei sette si trovano spesso accostate a un altro tipo di rotolo: un diagramma ad albero, comunemente chiamato Compendium historiae in genealogia Christi di Pietro di Poitiers. Un esemplare del documento, databile anch’esso intorno alla metà del XIII secolo, è stato trovato tra i rotoli di Vercelli. Illustra gli antenati di Cristo, a partire da Adamo ed Eva, e termina con Cristo e gli Apostoli, integrando eventi storici alla cronologia biblica. Esistono diversi esempi ben noti di questo documento, ma la versione inedita di Vercelli possiede peculiarità insolite, non da ultimo l’illustrazione trovata nel registro superiore del rotolo: nessuna delle altre versioni esistenti di questo documento è caratterizzata da una rappresentazione della tentazione in questo formato. L’immagine, splendidamente disegnata, di Adamo, Eva, il serpente e l’Albero della Conoscenza è segnata da ripetuti tentativi di restauro della pergamena danneggiata: colla, carta e persino ago e filo sono stati utilizzati per arginare il danno.

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In alto il rotolo contenente un esemplare del diagramma ad albero che illustra gli antenati di Cristo. Nella pagina accanto la «ruota dei sette».

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paleografia i rotoli di vercelli A sinistra il rotolo dell’Ecclesia. Nella pagina accanto particolare del volto di Cristo.

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La colomba che compare nella bocca di Cristo tiene una bilancia e una grossa chiave nel becco: è la «chiave della scienza», che concede ai vescovi il potere di amministrare la giustizia e di esercitare la conoscenza codici e inventari

La schola di Eusebio Il rotolo dell’Ecclesia

Anche il rotolo dell’Ecclesia è un grande foglio sciolto, ed è possibile che si tratti di una «tabula» o di una «pagina», entrambi descritti come prodotti frequenti del tardo Medioevo, comunemente appesi alle pareti in biblioteche medievali, per essere utilizzati come diagrammi a sussidio dell’insegnamento. La creatura principale, in trono, rappresenta diverse figure, come spiega il testo latino di accompagnamento: è un’allegoria della Chiesa, il cui capo è Cristo, ma i capelli lunghi – una volta dipinti di bianco – appartengono sia a Cristo sposo sia ad Ecclesia, la Chiesa, appunto sua sposa. I seni della figura rimandano alla Misericordiae ubera, forma iconografica appropriata per questa rappresentazione della Madre Chiesa, «attraverso il cui insegnamento ed esempio ci nutriamo». La «sposa» indossa una corona che rimanda al potere imperiale, reale e pontificio. Dalla bocca di Cristo affiora una colomba che tiene una bilancia e una grossa chiave nel becco: è la Scientiae Clavis, la «chiave della scienza», che concede ai vescovi il potere di amministrare la giustizia ed esercitare la conoscenza. Sulle spalle, le braccia e il tronco troviamo la gerarchia della Chiesa cattolica, raffigurata a partire dal papa, per concludersi verso il basso con gli Ordini monastici. La chiave della scienza costituisce anche l’elsa della spada della Giustizia e del potere legale, la cui lama arriva alla parte inferiore del diagramma, e trafigge la bocca del diavolo; la figura di Cristo-Ecclesia diventa cosí anche una rappresentazione della legge, di Justicia, in cui la lama di questa spada svela l’«albero di Cristo», emergendo dalla bocca del diavolo. Diverse scene storiche commentano questo albero genealogico sulla lama: l’Arca di Noè, Mosè che unge Aronne, l’imperatore Costantino che riveste papa Silvestro e, infine, Carlo Magno che riceve la spada dalle mani di papa Zaccaria. Queste immagini permettono di visualizzare chiaramente e contemporaneamente le scene pertinenti alla concordia tra le potenze terrene ed ecclesiastiche.

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Le prime notizie certe sull’esistenza di uno scriptorium episcopale vercellese risalgono agli anni 924-945 e sono contenute nel colophon del manoscritto XXXIV, le Omelie di Sant’Agostino. La tradizione, tuttavia, vuole che già nella seconda metà del IV secolo il protovescovo Eusebio abbia introdotto a Vercelli, per la prima volta sul suolo italico, un’organizzazione clericale ispirata al modello monastico e quindi dotata di una schola in cui venivano studiati e copiati i testi antichi. In questo ambiente culturale è nato il Codex Eusebii Evangeliorum (codice A), prima versione dei Vangeli anteriore a quella della Vulgata di San Gerolamo, tradotta dal greco e scritta, sempre secondo la tradizione, dallo stesso Eusebio. La prima notizia storica di un inventario dei codici della biblioteca risale alla fine del XII secolo ed è contenuta nel verso del foglio iniziale del primo fascicolo del manoscritto XV, De primatu et dignitate romanae Sedis, del principio del X secolo. A questo fa seguito quello redatto con un certo rigore tecnico nel 1361, in cui sono elencati, suddivisi per banchi, i codici conservati nella biblioteca. Segue l’inventario cartaceo del 1426 steso dal canonico e tesoriere Giovanni Vialardi da Sandigliano, rilegato con pergamena archivistica floscia di riuso (vedi foto in alto).

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paleografia i rotoli di vercelli 1228, nasce l’università Nel 1228, i rappresentanti degli studenti della nuova Università di Padova stipularono un contratto con la città di Vercelli per il trasferimento dello studium nella città piemontese. È testimoniata la presenza di una comunità di studenti a Vercelli dal 1231, e anche otto anni dopo la conclusione del contratto, un qualche tipo di studium esisteva ancora. Questa università embrionale, avrebbe potuto fornire l’ambiente ideale nel quale questi rotoli sarebbero stati prodotti, studiati e tesaurizzati. Nel 1260, il Comune di Vercelli aveva quattordici professori e alloggi per un massimo di 500 studenti. È certo che un primo nucleo universitario fiorí in città fino al 1405; è quindi probabile che questi rotoli siano stati nella loro attuale posizione a Vercelli per almeno 500 anni, forse anche di piú. È degno di nota – e anche di una grande quantità di ulteriori studi – che i rotoli siano sopravvissuti nel turbolento contesto religioso piemontese del XIII e dell’inizio del XIV secolo.

A destra la Carta Studii et Scolarium Commorancium in Studio Vercellarum. Vercelli, Archivio Storico del Comune. Il documento, datato al 1228, segna le origini dell’università medievale della città piemontese.

Vercelli

Il patrimonio librario Vercelli, la piú antica diocesi di tutto il Piemonte, già sede vescovile prima della metà del IV secolo e fin dall’antichità cerniera di transito e tappa lungo direttrici viarie di grande percorrenza, è stata testimone nel corso dei secoli di importanti momenti storici, che l’hanno resa custode di tesori d’arte di rilievo internazionale. La Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare di Vercelli, costituitasi nel 2005, nasce con il compito di tutelare, gestire e valorizzare

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il plurimillenario patrimonio artistico, bibliografico, storico e religioso, promuovendo pubblicazioni, eventi espositivi, iniziative scientifiche e culturali. All’interno di sale aperte agli studiosi nel 1998, poste al piano terra del palazzo Arcivescovile, la biblioteca rispecchia, oggi come ieri, l’importanza che la diocesi di Vercelli ha rappresentato nel Medioevo e nell’epoca moderna testimoniata da un patrimonio librario-archivistico composto da codici, pergamene, documenti e libri antichi a stampa. gennaio

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Da leggere U Timoty Leonardi, Voci dal

Medioevo. La Biblioteca Capitolare di Vercelli, in Alumina, 31 (2010), pp. 40-45 U Gianmario Ferraris e Sofia Uggè (a cura di) Et verbum caro factum est. La Bibbia oggi e la sua trasmissione nei secoli, Museo del Tesoro del Duomo, Vercelli 2006 U Giuseppe Ferraris, Le chiese «stazionali» delle rogazioni minori a Vercelli dal secolo X al secolo XIV, Vercelli 1995 U L’Università di Vercelli nel Medioevo, atti del Secondo Congresso Storico Vercellese, Vercelli 1994 U Romualdo Pastè, Vercelli. Archivio Capitolare, in Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, XXXI, Leo S. Olschki, Firenze 1925 In alto Vercelli. La facciata ottocentesca della cattedrale di S. Eusebio, sorta in epoca medievale sul luogo di una precedente chiesa di età paleocristiana. In basso una delle sale di consultazione della Biblioteca Capitolare di Vercelli.

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Qualunque studente o scriba che abbia copiato questa immagine era certamente a conoscenza della potente metafora contemporanea della Chiesa come corpo di Cristo. Nel tronco principale della Chiesa/corpo, c’è una scena battesimale disegnata al di fuori dello spazio dell’allegoria Ecclesia-figura, in una porta aperta, che simboleggia l’ingresso di una persona nella comunità della Chiesa come corpo di Cristo, attraverso il sacramento. Nell’immagine opposta, invece, il corpo di un peccatore è lacerato e rapito dal corpo della Chiesa da Satana, sul lato destro dell’immagine, sotto l’anca. Ci sono anche 15 tondi contenenti figure allegoriche meravigliosamente dettagliate da illustrazioni raffiguranti i vizi e le virtú. Queste ultime portano uno scudo decorato con un simbolo, mentre i vizi sono circondati dall’equipaggiamento di ogni peccato. Sapientia porta uno scudo con un codice aperto; Temperantia, dallo scudo decorato con un elefante finemente disegnato, versa un secchio d’acqua in una bacinella; Avaritia ha le mani giunte di fronte ed è circondata da casse di legno serrate e cofanetti in metallo, presumibilmente contenenti il suo tesoro mal vinto; Luxuria è in parte distrutta dall’usura, ma si riesce ancora a scorgerla con i capelli intrecciati e le maniche lunghe ed eleganti, mentre si ammira in uno specchio. Sul lato destro del rotolo di Ecclesia vi sono brani di testo tratti dagli scritti di Gioacchino da Fiore, monaco calabrese e famoso teologo monastico della fine del XII secolo, che, in particolare, viene ricordato per il suo lavoro sui Sette Sigilli, De Septem Sigillis. F

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di Furio Cappelli

Mai s’incontrarono di persona, eppure qualcosa legava Harun al-Rashid – protagonista delle Mille e una notte e padrone di una Baghdad al culmine della sua fioritura – all’imperatore franco, impegnato nello sviluppo e nel consolidamento del suo potere nell’Europa dei «secoli bui». Fu solo l’esistenza di nemici comuni? Ecco il racconto di un insolito, quanto proficuo, rapporto di amicizia...

Carlo e il califfo


Dossier

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ià nell’Alto Medioevo i rapporti tra Carlo Magno e il califfo di Baghdad erano stati gustosamente presentati in termini fiabeschi, nell’intento di esaltare l’imperatore cristiano dell’Occidente. Il monaco cronista Notkero Balbulus («il Balbuziente», 840 circa-912), nei suoi Gesta Karoli Magni Imperatoris (883), si diletta a dipingere gli ambasciatori «di quel popolo che un tempo era motivo di terrore per il mondo intero» come degli sprovveduti che rimangono abbagliati di fronte al fulgore di Aqui-

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sgrana, e che fuggono a gambe levate quando il possente sovrano franco si cimenta nella caccia al bisonte. Quando è la volta degli ambasciatori franchi in missione a Baghdad, questi vengono messi alla prova in una caccia al leone. Si avvalgono dei valorosi cani inviati in dono da Carlo Magno, e trionfano sulla belva: «uccisero alla vena giugulare con le spade indurite nel sangue dei Sassoni il leone persiano, che era stato circondato dai cani germanici». A quel punto il califfo si convince della inavvicinabile grandezza del loro

sovrano: «Ora capisco quanto siano vere le cose che ho udito sul conto del mio fratello Carlo; perché per l’assiduità nel cacciare e nel tenere in esercizio sia il corpo che l’anima con zelo infaticabile, ha senza dubbio l’abitudine di soggiogare tutte le cose che sono sotto al cielo».

Un amico potentissimo

Carlo Magno era davvero un abile guerriero, ma fu lui a cercare l’amicizia del califfo, e la potenza di quest’ultimo era dieci volte superiore a quella del sovrano occidentale. gennaio

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Harun al-Rashid riceve una delegazione di Carlo Magno a Baghdad, nel 786. Olio su tela di Julius Köckert (1827-1918). 1864. Monaco, Maximilianeum. Nella pagina precedente l’imperatore Carlo Magno, in un olio su tavola di Albrecht Dürer. 1511-12 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

Il complesso palatino di Aquisgrana si inseriva nelle maglie di una assai regredita città romana di provincia, che, da secoli, aveva cessato la sua originaria ragion d’essere. La Schola Palatina, quel manipolo di letterati che dava manforte alle ambizioni culturali della corte carolingia, era davvero ben poca cosa se si posa l’occhio sul fervore intellettuale che si respirava a Baghdad. L’estensione del regno franco era poderosa per l’Europa di quel tempo, ma era un fuscello di fronte all’impero islamico, che, a quell’epoca, ave-

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va raggiunto l’apice del suo moto espansivo. Le città piú importanti del mondo carolingio erano assai meno popolose di quelle musulmane, e non avevano ancora espresso un’attività commerciale di spicco, che, d’altro canto, era il fiore all’occhiello dell’economia dell’Islam.

Per rinnovare l’impero

Carlo Magno si prodigava assai per risollevare l’economia del suo regno, e sapeva bene che il pur cospicuo bottino delle campagne contro gli Avari, soprattutto dopo la con-

quista del loro ring (il campo trincerato tra il Danubio e il Tibisco, n.d.r.) nel 795, era in larga parte impegnato nelle regalie e negli ambiziosi programmi edilizi della Renovatio Imperii. Per rimettere in funzione un sistema del tutto ossidato occorrevano iniziative mirate, come la riforma monetaria adottata nel 793794. Il re aveva fornito un sostegno agli scambi aumentando di un terzo il peso del denaro d’argento, che venne cosí ad allinearsi, grosso modo, alla moneta corrispondente del mondo islamico, il dirham.

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Dossier A destra statuetta equestre in bronzo, con tracce della doratura originaria, raffigurante Carlo Magno (o forse Carlo il Calvo). IX sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso miniatura raffigurante Abd ar-Rahman I (731-788) che consulta la sua corte, da un manoscritto del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. L’emiro omayyade conquistò Cordova nel 756 estendendo il suo dominio a tutta la Spagna musulmana e resistette agli attacchi dei Franchi di Carlo Magno, che assediarono Saragozza nel 778. Gli ottimi rapporti tra l’imperatore cristiano e Harun al-Rashid si basarono anche sulla comune inimicizia nei confronti degli Omayyadi spagnoli, oltre che verso Bisanzio.

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Conquiste dei califfi omayyadi (661-750) e data Conquiste abbasidi e data Battaglie decisive per l’esito delle prime due guerre civili arabe (656-661 e 680)

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Dopo la dura stagnazione perdurata fino a tutta la prima metà dell’VIII secolo, anche il commercio a lungo raggio stava riprendendo vela. Non c’era piú soltanto l’importazione di beni di lusso dall’Oriente (oreficerie, tessuti di seta, vetri e cristalli) a favore di nobili e uomini di Chiesa. La bilancia stava lentamente passando in attivo, grazie a un’esportazione per molti versi spregiudicata. Molti dei beni richiesti erano in carne e ossa, e parlavano: gli schiavi di carnagione chiara, perlopiú deportati dai Balcani e dalle terre slave (da cui l’origine stessa del termine «schiavo», derivante dal latino medievale sclavus o slavus, che designava, appunto, un prigioniero di guerra slavo, n.d.r.), erano assai apprezzati nell’Islam. Si esportavano inoltre pellicce dalla Russia, armi (soprattutto spade) dall’area franca, stagno dalla Cornovaglia. Dall’Istria e dalla Dalmazia giungeva legname per gli arsenali. La rinata vivacità dei traffici spiega la considerevole presenza di pezzi islamici nei tesoretti monetali databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo rinvenuti dagli

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Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia omayyade e inizio dei califfati abbasidi (750) SAHI 830

Nascita delle dinastie autonome del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino

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archeologi nella Russia occidentale e nell’area del Mar Baltico. In Svezia, nell’isola di Helgö, era giunta, già nel VII secolo, una statuetta in bronzo di Buddha fusa nel Kashmir (tra India e Pakistan; vedi a p. 76). Tutt’altro che isolata, l’economia carolingia rientrava sempre di piú nel sistema mondiale dominato dall’impero islamico, e il re franco ne era perfettamente consapevole. Prima di avventurarsi nella missione di Baghdad, Carlo Magno aveva stretto proficui rapporti con il re P RUSSI

Protettore dei credenti

Ogni sua azione diplomatica era inoltre intrisa da uno spirito di missione, da un intento di pace, amici-

L’ESPANSIONE MUSULMANA TRA IL VII E IL IX SECOLO

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In basso un re, particolare di una miniatura da Kalila e Dimna, raccolta di apologhi tradotta e rielaborata in arabo da Ibn-al-Muqaffa. VIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

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zia e santa concordia che era il naturale corollario della sua autorità di protettore della Chiesa. Carlo Magno era guidato verso un’intesa con Baghdad non solo da ragioni di tipo politico e commerciale, ma anche dalla sua missione di protettore dei credenti. La Terra Santa, sottoposta al dominio del califfo, gli stava molto a cuore, e intendeva migliorare le condizioni dei cristiani che vi abitavano o che vi transitavano, come i monaci, i pellegrini e i mercanti franchi.

anglosassone Offa di Mercia. Come è ben documentato, tra l’altro, dalla lunga lettera inviata al re d’Oltremanica tra maggio e luglio 796, il sovrano franco largheggiava in doni, presentava e soddisfaceva richieste di beni, allo scopo pressoché dichiarato di proteggere e promuovere le attività commerciali del proprio regno.

SOCOTRA


Dossier Il califfato, infatti, viveva frequenti momenti di instabilità, dovuti alle lotte interne tra le diverse fazioni religiose dell’Islam, e ancor piú legati alle convulse fasi di successione al trono. In quei frangenti si diffondeva un clima di violenza generale e i riottosi alzavano la testa. Anche nei momenti di maggiore tranquillità i predoni entravano in azione spesso indisturbati. In tutti quei casi le minoranze religiose, come si può arguire, si trovavano del tutto indifese. Nel 796 il monastero greco di S. Saba, nei pressi di Gerusalemme, fu saccheggiato da una masnada di beduini e diciotto religiosi rimasero uccisi.

Problemi con Bisanzio

A complicare le cose, la piú che naturale possibilità di chiedere appoggi economici e diplomatici a Bisanzio era impedita da varie circostanze. I collegamenti erano resi impraticabili dallo stato di ostilità con il califfato.

Anche se nel 782 era stata stipulata una tregua, in base alla quale l’imperatrice reggente Irene era stata costretta a pagare un tributo annuale a Baghdad, le frontiere erano malsicure e tra le parti non c’era alcun tentativo di dialogo. I rapporti tra le Chiese di Gerusalemme e di Costantinopoli si erano da tempo assai raffreddati per il fatto che si erano ritrovate su fronti opposti, allorché l’imperatore Leone III l’Isaurico (717-741) aveva avviato la prima fase (730) dell’iconoclastia (la distruzione delle immagini sacre, n.d.r.). Irene aveva messo al bando come eretica la dottrina iconoclasta a conclusione del concilio di Nicea (787), ma non era comunque riuscita a sanare i rapporti con Roma e, una volta salita al trono con l’uccisione di suo figlio Costantino (797), la sua politica si era dimostrata fallimentare. Carlo Magno, al contrario, era al culmine dei suoi successi militari e si era guadagnato il pieno appoggio di Roma. Con le risoluzioni del concilio di Francoforte (794) si era apertamente schierato contro la messa al bando delle immagini sacre e contro lo stesso dettato del concilio di Nicea: una presa di posizione che rientrava all’interno di una politica risoluta, che, con mezzi A sinistra statuetta in bronzo di Buddha, dal Kashmir (India), rinvenuta sull’isola di Helgö, in Svezia, una testimonianza delle relazioni commerciali tra l’Oriente islamico e l’Europa nord-occidentale, in epoca carolingia. VI-VII sec. Stoccolma, Historiska Museum. Nella pagina accanto Cristo in trono, miniatura dall’Evangeliario di Godescalco, prodotto dallo scriptorium palatino di Aquisgrana, per celebrare il battesimo di Pipino, figlio di Carlo, a Roma nel 781. 781-783 Parigi, Bibliothèque nationale.

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diversi, si prefiggeva di indurre i Bizantini a riconoscere e a rispettare le pretese del regno franco. Tutto ciò creava le giuste premesse per un solido legame diplomatico con Baghdad. Carlo Magno, ideologicamente schierato con il papa e con il patriarca di Gerusalemme, era in rotta con Bisanzio, a sua volta in guerra con il califfato. Si creava cosí la premessa naturale di un’alleanza che saldava potentati lontani e di diverso orientamento religioso grazie a un avversario comune. Era interesse di Carlo Magno vedere riconosciuta la sua autorità morale di monarca cristiano su Gerusalemme, ed era interesse del califfato tenere ampie le distanze tra il sovrano franco e l’imperatore bizantino, in modo da scongiurare una possibile «guerra santa».

Il «ben diretto»

Harun era figlio del califfo AlMahdi (775-785) e di Khaizuran (Bambú), originaria dello Yemen, la preferita tra le sue schiave berbere. I genitori dettero a lui e all’altro figlio, Musa, i nomi di due fratelli del Vecchio Testamento, ampiamente menzionati nel Corano: Aronne, il primo sommo sacerdote del popolo ebraico, noto per l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro, e Mosè, il celebre profeta, liberatore e guida degli Ebrei nel deserto. A dispetto dei loro omonimi del Libro, che andavano d’amore e d’accordo, i due rampolli di Al-Mahdi furono divisi da una grande rivalità riguardo alla successione al trono, e gli stessi genitori avevano diverse inclinazioni: all’inizio il califfo puntava su Musa, ma Khaizuran lo convinse a propendere per Harun. Musa si ribellò, e alla morte del padre ascese al potere con il titolo di al-Hadi («colui che guida al bene»). Dopo appena un anno, nel 786, morí accidentalmente, forse con qualche «aiuto» della madre e del fratello rivale. Harun poté cosí salire al trono assumendo il titolo califfale di al-Rashid, «il ben diretto». Con la sua aura di sovrano potente e raffinato, Harun conseguí gennaio

MEDIOEVO


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Dossier

in europa

Consacrazione di Pipino e dei suoi figli, Carlo e Carlomanno. Morte di Pipino. Il regno franco è diviso fra Carlo e Carlomanno. Morte di Carlomanno; Carlo unico re dei Franchi. Prime spedizioni contro i Sassoni. Conquista del regno longobardo.

Spedizione di Spagna; assedio di Saragozza e sconfitta di Roncisvalle.

Creazione dei regni d’Aquitania e d’Italia,

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Per la prima volta nella città arrivano gli ambasciatori di Pipino, padre di Carlo.

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Regno del califfo abbaside Al-Mahdi, padre di Harun al-Rashid.

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affidati ai figli di Carlo, Ludovico e Pipino.

Prima sollevazione generale dei Sassoni.

Guerra contro gli Avari.

Seconda sollevazione generale dei Sassoni.

Inizio della costruzione del palazzo regio ad Aquisgrana. Incoronazione imperiale di Carlo Magno in S. Pietro.

782-785

800

Programma di spartizione dell’impero fra i tre figli di Carlo Magno.

806

Guerra contro l’impero bizantino.

Morte del figlio Carlo.

Ludovico, unico figlio superstite, associato all’impero.

Carlo Magno muore il 28 gennaio.

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Prima legazione di Carlo alla corte di Harun.

794

797

792-799

804

Primo attacco danese; morte del figlio Pipino.

Harun diventa il quinto califfo di Baghdad.

791-796

Ultima deportazione in massa dei Sassoni.

786

802

806

806-811 810

809

Seconda legazione con invio di doni al califfo. I legati di Harun arrivano ad Aquisgrana portando magnifici doni; il califfo organizza una spedizione armata in Anatolia, la piú grande del lungo conflitto con Bisanzio. Morte del califfo Harun.

811 813 814 gennaio

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A destra scene di vita di corte, particolare di una miniatura dalla Storia di Bayad e Riyad, contenuta in un manoscritto arabo magrebino del XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

Baghdad. Cupole e minareti della Moschea Kodiamin.

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gennaio

ben presto una celebrità proverbiale, pur avendo all’attivo sul piano militare solo una serie di facili vittorie su una Bisanzio in crisi. La sua era l’età dell’oro o l’età «classica» dell’Islam, laddove si giunse a un periodo di relativa tranquillità, il che favoriva lo sfarzo «persiano» dei costumi, lo sviluppo delle arti e della letteratura. In linea con gli usi che si erano già imposti nella corte omayyade di Damasco, anche a Baghdad si dava ampio spazio alla poesia e alla musica. Qui, ben prima che in Europa, si sviluppa un elaborato concetto dell’amor cortese, sotto forma di un gioco che impone le sue regole a tutti, a partire dallo stesso califfo. Il tormento per una donna inaccessibile aveva un preciso scopo di evidente implicazione sociale: induceva il cortigiano a rifuggire la villania e a coltivare lo zarf, un codice di comportamento basato su abilità, eleganza, intelligenza, vivacità. Rinomata per i suoi fastosi e continui ricevimenti, la sede califfale vantava un guardaroba di oltre

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Dossier

L’interno della Cupola della Roccia di Gerusalemme (in alto) e della Cappella Palatina di Aquisgrana (a destra), voluta da Carlo Magno come cappella privata annessa al palazzo imperiale e costituita, come la prima, da un nucleo centrale a pianta ottagonale, con copertura a cupola.

la moschea e la cappella

Nel segno di re Salomone La cappella palatina di Aquisgrana, edificata negli anni 794-800, costituisce la piú diretta e concreta espressione del regnum di Carlo Magno, e dimostra chiaramente quanto la Città Santa si trovasse al centro dei suoi interessi. Infatti, come hanno ribadito Jerrilyn D. Dodds e Jenny H. Shaffer, se è indubbio il legame della chiesa con il S. Vitale di Ravenna e con l’idea della Roma cristiana e imperiale, è anche vero che diversi suoi elementi trovano un significativo riscontro nella Cupola della Roccia di Gerusalemme. In particolare, la zebratura degli archi perimetrali di gusto tipicamente islamico, ottenuta con marmi di colore alternato, aveva un significativo precedente solo in quel tempio della lontana Palestina. A quest’ultimo rimanda anche l’idea dell’iscrizione a mosaico che corre lungo la linea d’imposta della cupola. La celebre moschea di Gerusalemme, completata nel 691, e che costituisce la «risposta» dell’Islam al Santo Sepolcro, venne edificata in memoria del Profeta sulla spianata del Tempio ebraico. L’origine del luogo sacro era ricondotta al celebre re biblico Salomone, che in quei paraggi aveva anche edificato

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il meraviglioso palazzo chiamato ad accogliere la regina di Saba. Trovandosi in un sito cosí intriso di gloriose memorie, la Cupola della Roccia risultava agli occhi del monaco franco Bernardo (Itinerarium in loca sancta, 870) il redivivo Tempio di Salomone adibito a luogo di culto dei musulmani. Un simile concetto, favorito dall’essenza «classica» della moschea, poteva avere «autorizzato» a trarne ispirazione per la cappella di Carlo Magno. D’altronde, se Giustiniano aveva dichiarato di aver sconfitto Salomone con la sua Santa Sofia di Costantinopoli (537), proprio riguardo ad Aquisgrana il cronista Notkero asserisce che Carlo Magno si era conformato all’esempio di Salomone. I sei gradini del trono marmoreo che si osserva tuttora nella tribuna reale della cappella sono per giunta un’esplicita allusione al trono del sovrano biblico, cosí come è descritto nel Vecchio Testamento (I Re, X, 19). A quel trono e alla regalità sacra di Salomone facevano d’altra parte ampio riferimento gli stessi califfi abbasidi e gli imperatori bizantini, soprattutto a partire da Teofilo, che dei sovrani di Baghdad era un attento imitatore. gennaio

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40 000 capi di abbigliamento per il sovrano e per le numerosissime persone che si trovavano al suo seguito, senza contare gli oltre 25 000 manufatti tessili destinati all’arredamento e all’addobbo cerimoniale (tappeti, drappi, tendaggi, cuscini). Gli usi della corte abbaside influenzarono fortemente la stessa Bisanzio. In particolare, l’imperatore Teofilo (829-842) arricchí il Palazzo di Costantinopoli con una serie di strutture a padiglione, sfarzose nel decoro e fiabesche nei nomi da incanto: triclinio della Perla, sala dell’Amore, cubicolo dell’Armonia. Harun ha infine legato il proprio nome a tanti racconti della celebre raccolta delle Mille e una notte, la cui versione a noi nota nelle sue parti piú antiche risale al massimo al XII secolo, sulla scorta di fiabe popolaresche e di racconti edificanti in prosa che erano già diffusi nella stessa età abbaside. In ogni storia il califfo si diverte a immergersi nella vita notturna della sua

Baghdad, travestendosi il piú delle volte da mercante, e si lascia coinvolgere in una sequela di avventure punteggiate da conviti a base di vino e di belle donne. È accompagnato da taluni personaggi storici della sua corte, primo fra tutti Jafar il Barmecide, amico prediletto, ma decapitato su suo ordine nell’803. Nella storia di Abu l-Hasan, puntualmente studiata da Sylvette Larzul, Harun arriva a compiere per puro divertimento un gioco di ruoli: droga un mercante e lo fa ridestare nel proprio palazzo, costringendolo a interpretare il ruolo del califfo. Come dimostra la storia di un certo re Tch’a-wei, si tratta di uno schema narrativo (l’uomo potente che si fa sostituire da un uomo del popolo), già diffuso in India e in Cina nel III secolo d.C. Già Pipino il Breve, nel 765, aveva inviato un’ambasceria al sovrano abbaside al-Mansur («il vittorioso», 754-775), il fondatore di Baghdad, e, tre anni dopo, i suoi legati erano rientrati a

Aquisgrana, Cattedrale. Particolare del dipinto di Johann Peter Scheuren raffigurante Carlo Magno che presenta il modello della cattedrale della città tedesca. 1825.

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Dossier Mille e una notte

Il califfo in un labirinto di favole L’Europa conobbe le Mille e una notte solo all’inizio del XVIII secolo per la traduzione dell’orientalista francese Antoine Galland, ospite dell’ambasciatore di Luigi XIV a Costantinopoli dal 1670 al 1675. L’opera fu pubblicata in dodici volumi tra il 1704 e il 1717. Si può ben dire che non avrebbe potuto trovare momento e luogo piú adatti della corte del Re Sole, nella piena fioritura di una moda sensibile al genere prezioso e romanzesco, per sedurre con il suo esotismo un’aristocrazia condizionata nei suoi gusti dall’assolutismo regio. Alla versione di Galland ne seguirono altre in varie lingue occidentali (...) il piú delle volte rispondenti all’ottica del tutto personale degli autori. Con forzature tendenti a mitigarne le tonalità erotiche (è il caso delle Arabian nights di Edward W. Lane, 1841) o a enfatizzarle (sir Richard Francis Burton, 1885). Le Mille e una notte sono un labirinto di favole che s’intersecano all’interno di una cornice narrativa unitaria. C’è al centro dell’impianto un re (Shahriyar) che, avendo scoperto il tradimento della moglie, e credendo di trovare in ciò conferma di tutto il male che ha sempre pensato delle Marsiglia insieme ad alcuni emissari del califfo, che presentarono ricchi doni al sovrano franco. Seguendo la traccia degli Annales Regni Francorum (un’opera che dà conto delle gesta dei re franchi dal 741 all’829, n.d.r.) apprendiamo che suo figlio Carlo Magno, all’epoca in cui era ancora soltanto re dei Franchi e dei Longobardi, oltreché patricius Romanorum, decise a sua volta di allacciare uno strategico rapporto diplomatico con il califfo Harun al-Rashid (786-809). A tal fine, mentre era impegnato nelle dure campagne contro i Sassoni, nel 797 inviò in missione a Baghdad i suoi ambasciatori Lanfredo e Sigismondo, affidandoli alla guida di un ebreo di nome Isacco, presumibilmente un mercante che doveva anche fungere da interprete. È piú che probabile che gli inviati di Carlo, passando per Gerusalemme, rendessero omaggio al patriarca presentando una lettera del loro re. Nel 799, infatti, giunse ad Aquisgrana un monaco inviato dall’abate Giorgio, nuovo patriarca

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donne, decide di passare ogni sua notte in compagnia di una fanciulla diversa e farla uccidere al mattino. Il tetro rituale viene però interrotto quando una delle ragazze predestinate al sacrificio (la bella e saggia Shaharazad) riesce ad affascinarlo con una novella di cui non dice il finale: per poterlo conoscere il re rimanda l’esecuzione alla notte successiva. Ma dal racconto ne scaturisce un altro, e cosí di seguito, per mille e una notte. Finché il re, ormai guarito dal suo cupo rancore verso le donne per l’interesse che ha suscitato in lui l’eccezionale affabulatrice Shaharazad – dalla quale ha intanto avuto tre figli – decide di sposarla. Questo congegno narrativo consente a piú storie di innestarsi su un medesimo tessuto originario, dando vita a una varietà infinita di temi. La provenienza delle novelle da piú tradizioni letterarie fa delle Mille e una notte un compendio di cultura non soltanto araba, espandendosi dall’originario ceppo musulmano e semitico all’India e alla Persia. Cicli successivi si sono sovrapposti a questa base, arricchendo l’opera con storie di ambiente iracheno (la Baghdad degli Abbasidi) ed egiziano (la vita popolare nel regime dei

della Città Santa. Il presule offriva la sua benedizione, unitamente ad alcune reliquie senza dubbio richieste dallo stesso sovrano, desideroso di avere nella sua terra un segno tangibile dei luoghi di Cristo. Carlo rinviò il monaco scortato dal sacerdote di corte Zaccaria, forse un greco o un italo-greco, che aveva l’incarico di condurre i ricchi doni di ringraziamento del proprio re.

L’omaggio del patriarca

Sulla via del ritorno, Zaccaria si incontrò con Carlo Magno a Roma il 23 dicembre 800, a due giorni dalla fatidica incoronazione a imperatore. Era accompagnato da due monaci di Gerusalemme, uno della comunità latina del Monte degli Ulivi, l’altro della comunità greca di S. Saba (colpita dai già ricordati saccheggi del 796). I due religiosi recavano le chiavi del Santo Sepolcro e del Calvario, le chiavi della città e del Monte Sion (il luogo della tomba del mitico re David). Dulcis in fundo, a Carlo venne affidato lo stendardo onorifico della stessa Gerusalemme.

Nel palazzo di Harun al-Rashid, il califfo eternato dalle Mille e una Notte, in un’incisione del 1895 che illustra una novella dell’opera. Collezione privata.

Doni di tale tenore riconoscevano la generosità e magnificavano l’immagine del monarca cristiano, che veniva cosí ad assumere un’autorità morale sulla Città Santa. Il patriarca Giorgio, evidentemente, riconosceva in Carlo una figura devota, benefica e carismatica in grado di garantire protezione e sostegno alla sua comunità, vista anche l’iniziativa diplomatica intrapresa con il califfo, e si affidava a lui con spirito di assoluta fedeltà. L’omaggio dello stendardo e delle chiavi aveva, peraltro, un preciso precedente nel vexillum di Roma e nelle chiavi della tomba di San Pietro, offerti allo stesso Carlo Magno da Leone III appena eletto papa, nel 796. Anche se il significato spirituale del gesto è fuori questione, in entrambi i casi era evidente un’implicazione ideologica e politica. Leone III agiva anche da rappregennaio

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Mamelucchi). Alla stesura di quest’ultimo ciclo, conclusa nel XV secolo, si fa risalire la versione definitiva dell’opera, cosí com’è poi giunta in Occidente per la traduzione di Galland. È però certo che il nucleo iniziale già circolasse nel califfato abbaside cinque secoli prima, visto che ne parla lo storico Masudi, e non è il solo. Motivi di particolare interesse (...) possono evincersi da quei racconti che ruotano intorno alla smagliante presenza di Harun al-Rashid, fedelmente descritto come protettore delle arti, artista estroso lui stesso, spiritoso ed erudito, spesso attratto da avventure imprevedibili, ma anche tormentato a volte da una malinconia inspiegabile. Il che parrebbe corrispondere alla personalità reale di questo grande quanto enigmatico califfo, quale traspare dalle cronache piú accreditate. Lo stesso può dirsi dei personaggi che gli gravitano intorno, desunti anch’essi dalla realtà storica, come il suo sfortunato amico Jafar e lo spietato «portaspada» Masrur. (da Franco Cuomo, Harun ar-Rashid, il califfo delle Mille e una notte, «Medioevo Dossier», n. 1/2002).

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Dossier Raqqa (Siria). La Porta di Baghdad, testimonianza di epoca abbaside dell’inizio del X sec. La città, una delle residenze di Harun al-Rashid, rifondata dagli Abbasidi nel 722 su un centro di epoca ellenistica, accolse le delegazioni franche inviate da Carlo Magno.

sentante della cittadinanza romana, mentre il patriarca Giorgio non aveva la stessa autorità sulla propria sede, essendo Gerusalemme sottomessa al califfo. Lo stesso Aryeh Graboïs ipotizza dunque che il dono delle chiavi e dello stendardo della città poteva avere senso solo con il coinvolgimento e il beneplacito di Harun. Il passaggio degli ambasciatori carolingi a Gerusalemme e la missione di Zaccaria presso il patriarca dovevano perciò rientrare all’interno di una complessa tessitura di rapporti tra il re franco, il califfo e lo stesso patriarca: tessitura perfettamente riuscita, a giudicare dai risultati. Il fatto che, nel giorno della nascita del Signore, l’incoronazione di Carlo Magno imperatore venisse quasi a coincidere con l’omaggio del patriarca di Gerusalemme, consacrandolo, a un tempo, principe di Roma e protettore della Terra Santa, dovette suscitare una vivissima sensazione, e sembrò al monaco Alcuino (735-804) un segno evidente della grazia divina. Carlo Magno, che si faceva appellare «nuovo David» e «nuovo Salomone», dall’alto della sua «Gerusalemme franca» (cosí Alcuino definisce Aquisgrana) sembrava l’unico e indiscusso rex et sacerdos della cristianità. Sei mesi dopo, nel giugno 801, Carlo è in Italia e apprende da due

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ambasciatori abbasidi che Harun ha esaudito un suo desiderio: gli ha inviato in dono un elefante indiano. Si chiama Abul al-Abbas, come il fondatore della dinastia califfale (morto nel 754), discendente di al-Abbas (566-652), zio paterno di Maometto.

Un dono esclusivo

Attraverso la possanza dell’elefante, battezzato con lo stesso nome del suo capostipite, Harun afferma orgogliosamente la sua superiorità al di là delle Alpi, ma dà anche a Carlo Magno una grande opportunità per dare lustro alla propria immagine. Sarebbe stato infatti l’unico sovrano dell’Occidente ad avere il piú grande animale del mondo presso di sé. Facendolo sfilare nei cortei e nei teatri di guerra, e mettendolo in mostra nei propri serragli, avrebbe suscitato meraviglia e soggezione a non finire. Scortato dall’ebreo Isacco, l’unico sopravvissuto della missione del 797, Abul al-Abbas viene accolto trionfalmente alla corte di Aquisgrana il 20 luglio 802. A Bisanzio si doveva risalire al 549 per trovare il ricordo di un magnifico esemplare giunto in omaggio al grande imperatore Giustiniano (527-565) da parte di un raja dell’India. La stessa Bisanzio si riteneva unica ed esclusiva erede dell’antico imperium di Roma, e l’incoronazio-

ne di Carlo Magno suscitò una certa indignazione nella corte rivale. Il potente sovrano occidentale cercava dal canto suo un riconoscimento da parte dell’illustre potentato. La debole Irene (che risultava agli atti come «imperatore», perché non era previsto un titolo specifico per una donna sul trono di Costantinopoli), stretta tra la forza inarrestabile del sovrano franco e lo stato di «guerra fredda» con Baghdad, ruppe gli indugi e inviò un’ambasceria per risolvere la pendenza. Fu tutto inutile perché, nello stesso anno (802), Irene fu vittima di un colpo di Stato. Niceforo I, il successore, tentò di fare la voce grossa su ogni fronte. Mandò anch’egli un’ambasceria a Carlo, ma ne ignorò le proposte, e per giunta sfidò Harun rompendo la tregua. Si rifiutò di inviare il tributo con un messaggio provocatorio a cui il califfo rispose per le rime, con le parole e con i fatti: «Figlio d’una madre infedele, ho letto la tua lettera. Tu non udrai la mia risposta, la vedrai». 135 mila uomini si abbatterono contro l’esercito bizantino in marcia, causando una serie di cocenti sconfitte. Nell’803 si arrivò a una nuova tregua, al prezzo, però, di condizioni ancor piú gravose di quelle concordate da Irene nel 782. Anche Carlo Magno fece sentire la propria voce, sul fronte altoadriatico. Nell’810 suo figlio Pipino, re d’Italia, riuscí a conquistare Venezia, e Niceforo fu indotto a riprendere le trattative. Dopo la sua tragica morte sul fronte bulgaro (nella battaglia di Pliska, il 26 luglio 811, l’esercito bizantino venne massacrato e Niceforo decapitato; dal suo teschio fu tratta una coppa per il re bulgaro, n.d.r.), le consultazioni proseguirono e finalmente, nell’812, gli ambasciatori di Michele I Rangabé (811-813) consegnarono a Carlo il gennaio

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baghdad

fatidico documento in cui veniva riconosciuto come Imperator e Basileus. Anni prima, però, nell’802, Carlo Magno aveva affidato al conte Radberto l’incarico di una nuova missione a Baghdad per ricambiare il dono dell’elefante. A tal fine si procurò un vasto campionario di pallia fresonica, diffusi dai mercanti della Frisia (tra Olanda e Germania, sul Mare del Nord). Erano tessuti in lana delle Fiandre, ad alto costo e con grande varietà di tinte, il cui commercio ad ampio raggio, a partire dal XII secolo, diede linfa all’economia delle terre fiamminghe. Nel campo tessile, erano gli unici manufatti originali di tutto l’impero carolingio in grado di competere con i prodotti orientali.

Il centro del mondo Baghdad (dal nome del primitivo villaggio, che significa «dato da Dio») fu fondata il 1° agosto 762 e realizzata in una forma circolare tipicamente persiana, intorno al fulcro determinato dalla Grande moschea e dal palazzo a pianta cruciforme di al-Mansur (vedi l’illustrazione in basso). Venne subito riconosciuta come nuovo centro del mondo e città della pace (Medinat al-Salam). Come era reso evidente dalle quattro porte equidistanti che si aprivano sulle principali vie del commercio, qui trovavano un raccordo formidabile i percorsi che da un lato conducevano verso il Caucaso, la Siria, l’Arabia e l’Egitto, mentre sull’altro versante l’India e la Cina erano a portata di mano sulla via della seta, attraverso il Khorasan o per mare, a partire dal porto di Bassora. Ben presto, già ai tempi di al-Mansur, fu necessario ampliare la città verso la riva destra del Tigri, e si ebbe anche

Tessuti e cavalli di razza

Carlo inviò inoltre cavalli di razza, degni di un grande appassionato di equitazione quale era, e taluni cani da caccia, a sottolineare la sua abilità e il suo coraggio nell’arte venatoria. Si trattava di un omaggio arrischiato, visto che l’Oriente islamico vantava una rinomata maestria nell’allevamento dei cavalli e nell’addestramento degli animali

Al- Harbiyah Corpo di guardia Porta

Porta

Palazzo e moschea del califfo Fiume Tigri Porta

Porta Sezione ricostruttiva di una porta della cittadella

Al- karkh

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un’espansione sul versante opposto. In tal modo si giunse, nel X secolo, a totalizzare 1 500 000 abitanti su 56 km quadrati di superficie, il che surclassava il record della celebre capitale dell’impero bizantino. Oltre a essere una ricca metropoli, Baghdad traeva linfa dalla tradizione persiana del suo territorio e dalla sapienza greco-antica che giungeva tramite la mediazione della Siria. L’opportunità di mettere questi tesori di conoscenza al servizio dell’Islam, sia per le esigenze pratiche (in medicina e in matematica, per esempio), sia per la riflessione teologica, aveva portato ben presto alla creazione di un solido centro di cultura che funzionava come biblioteca, laboratorio di traduzione e luogo di incontro. Si trattava del Bayt al-Hikma, la «Casa della Sapienza», per la prima volta attestata proprio all’epoca di Harun, e giunta all’apice della sua floridezza con suo figlio al-Ma’mun (813-833; vedi «Medioevo» n. 190, novembre 2012). Città multietnica, Baghdad ospitava una comunità cristiana piuttosto nutrita, indipendente ed eterodossa, che si suddivideva in nestoriani (i piú numerosi, di lunga tradizione nella Persia sassanide) e giacobiti (monofisiti della Siria). I due gruppi, nonostante una certa rivalità, erano riuniti in uno stesso quartiere, il Dar ar-Rum («Casa dei Romani», laddove per Romani si intendono i Bizantini), nel nuovo incasato sulla riva sinistra del Tigri, presso la porta Shammasiyah («Diaconato»). A parte taluni episodi e fasi di ostilità, i cristiani godevano di un clima di pacifica convivenza. Potevano entrare nei ranghi dei funzionari di governo, erano molto richiesti per tradurre e insegnare, e lo stesso Harun aveva per medico personale Gabriele, un cristiano originario della Siria.

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Dossier Baghdad. La tomba di Zubayda (o Zumurrud Khatun), un sepolcro ottagonale sormontato da una cupola conica costruito, nel XIII sec. circa, dal califfo al-Nasir nel sito in cui era stata sepolta Zubayda (morta nell’831), moglie di Harun al-Rashid.

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Da leggere U Giosuè Musca, Carlo Magno e Harun

al-Rashid, Dedalo, Bari 1996 U Roberto S. Lopez, La nascita

dell’Europa. Secoli V-XIV, Einaudi, Torino 1980 U Richard Hodges, David Whitehouse, Il Mediterraneo e l’Europa nell’Altomedioevo, in Archeologia e storia del Medioevo italiano, Carocci, Roma 1987, pp. 51-66 U Jerrilynn D. Dodds, Jenny H. Shaffer, La Renovatio carolingia, in Il Mediterraneo e l’arte da Maometto a Carlomagno, Jaca Book, Milano 2001, pp. 171-190 U Dieter Hägermann, Carlo Magno. Il signore dell’Occidente, Einaudi, Torino 2004

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per l’ars venandi (cani, falconi e addirittura ghepardi). Ma era anche la baldanzosa prosecuzione di un dialogo tra due sovrani guerrieri. La legazione del conte Radberto fece ritorno nell’autunno 806 approdando nei pressi di Treviso. Dovette aprirsi un varco tra le navi nemiche dell’ammiraglio bizantino Nicetas, inviato dall’imperatore Niceforo a presidiare la Dalmazia, in vista di possibili attacchi da parte di Carlo Magno.

Nel segno della concordia

Nel mentre, Harun concordava con il patriarca di Gerusalemme, Tommaso, l’invio in Occidente di un’ambasceria «mista», sacra e profana, cristiana e musulmana al tempo stesso. Il messo del califfo, Abdullah, si uní nella Città Santa ai monaci Felice e Giorgio, quest’ultimo abate al Monte degli Ulivi e molto prezioso nei rapporti tra le parti, poiché di origini franche. La legazione giunge ad Aquisgrana nell’807 e riversa sulla corte carolingia un profluvio di doni. Per citare ancora il monaco Notkero, «sembrava che l’Oriente si fosse vuotato e avesse riempito l’Occidente»: un’ampia selezione di splendidi pallia sirica (tessuti policromi in seta di produzione siriaca), candelabri, spezie, profumi, unguenti, una tenda da cerimoniale sul tipo di quelle utilizzate per le apparizioni in pubblico dei sovrani, e un vero prodigio della tecnica, che il cronista degli Annales ricorda con vivida meraviglia, come se l’avesse davanti agli occhi: «c’era anche un bellissimo orologio in ottone che conteggiava le dodici ore muovendosi come una clessidra ad acqua; esso conteneva dodici piccole sfere in metallo, ognuna delle quali allo scoccare di ogni ora cadeva in una bacinella sottostante facendola risuonare; inoltre c’erano dodici cavalieri che alla fine di ogni ora uscivano da dodici finestre e con il loro movimento facevano chiudere altrettante finestre aperte». Harun, evidentemente, è davvero in stato di grazia. Il suo regno da diversi anni attraversa una fase di

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tranquillità, Bisanzio è sotto scacco e il suo amico Carlo, divenuto imperatore, mantiene uno smalto inattaccabile. Nulla impedisce al califfo di mostrarsi ancora una volta affabile e generoso verso il sovrano occidentale, nonché benevolo e disponibile nei riguardi dei cristiani della Palestina, offrendo loro rispetto e protezione. L’ambasceria congiunta è in tal senso un delizioso capolavoro di diplomazia, e i doni fastosi e generosissimi (soprattutto se paragonati a quelli del «povero» Carlo) sono una nuova affermazione grintosa di sé e del proprio mondo, ricco di ingegno e di materie preziose. Le sete istoriate con la caccia fortunata del principe Bahram di Persia che proprio in questo periodo compaiono nell’Europa carolingia, e che sono state eseguite in Siria non prima della fine dell’VIII secolo (vedi «Medioevo», n. 176, settembre 2011), con il loro eclet-

Sete e animali esotici Particolare del drappo di Sant’Emidio (in alto), che illustra la leggenda del principe Bahram di Persia. Fine dell’VIII-inizi del IX sec. Ascoli Piceno, Museo Diocesano. Il prezioso tessuto, prodotto in Siria – sottomessa sin dal 750 al califfato abbaside di Baghdad – potrebbe essere uno dei pallia sirica donati da Harun al-Rashid a Carlo Magno, come la brocca in oro e pietre preziose dell’VIII sec. (in basso), custodita nel Tesoro dell’Abbazia di Saint-Maurice (Svizzera). Ma il dono piú spettacolare del califfo all’imperatore fu un elefante, chiamato Abul al-Abbas in onore del fondatore della dinastia abbaside. A sinistra alfiere-elefante in avorio, da una serie di scacchi proveniente forse dall’Iraq. X sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

tismo ellenistico-persiano e con la loro armoniosa commistione di elementi profani e cristiani, non solo potrebbero in parte rientrare nei pallia sirica condotti dall’ambasceria, ma potrebbero essere state concepite appositamente per l’evento, nel segno della concordia tra il califfo e l’imperatore. Certo è che le stesse sete di Bahram, insieme all’elefante Abul al-Abbas e a tutte le suggestioni dell’Oriente cristiano e musulmano, abbaside e bizantino, contribuirono a introdurre nel mondo di Carlo Magno un senso di solenne universalità. V

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immaginario i tarocchi

Trionfi e sortilegi di Laura Paola Gnaccolini

78 carte, mirabilmente disegnate, compongono il mazzo di tarocchi Sola Busca, il piú antico a oggi noto in Italia. Ma quale messaggio si cela dietro l’insolita rappresentazione di personaggi famosi della storia e le composizioni allegoriche? Accanto alla celebrazione di uomini illustri, esse racchiudono un raffinato e complesso gioco di allusioni all’universo dell’alchimia

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N N

el 2009 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, esercitando il diritto di prelazione, ha acquistato il piú antico mazzo di tarocchi italiano completo, noto come mazzo Sola Busca dal nome dei precedenti possessori (la marchesa Busca e il conte Sola), e lo ha destinato alla Pinacoteca di Brera, che lo presenta per la prima volta al pubblico. Dal catalogo realizzato per l’occasione è tratto il testo che qui presentiamo, per gentile concessione dell’editore Skira. gennaio

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Il mazzo Sola Busca è stato oggetto di attenzione fin dai primi dell’Ottocento, quando risulta citato nei Materiali per servire alla storia dell’origine e de’ progressi dell’incisione in rame e in legno di Pietro Zani (1802) e nella storiografia successiva che si è occupata dell’arte della stampa: questa tradizione di studio viene raccolta nei fondamentali contributi di Arthur Mayger Hind del 1910 e poi del 1938 sulle incisioni italiane conservate nel British Museum, dove il mazzo risulta inserito tra i prodotti della scuola ferrarese. Molte delle osservazioni svolte in quelle sedi dallo studioso conservano tuttora la loro validità. Tuttavia, solo a partire dai contributi piú recenti si è sottolineata l’importanza di questo mazzo nel Nella pagina accanto Luca da Leida, La cartomante. Olio su tavola, 1508 circa. Parigi, Museo del Louvre.

percorso della storia del gioco dei tarocchi in Italia. Restano alcuni problemi mai risolti dalla critica, tra cui lo scioglimento della complessa iconografia, l’identificazione della sequenza dei trionfi, il possibile nome dell’artista responsabile delle incisioni e anche la corretta datazione del mazzo, che oscilla tra il 1470 e gli inizi del XVI secolo.

I grandi dell’antichità

Il mazzo risulta composto da una serie di 22 carte generalmente definite «trionfi» e da 56 carte di quattro semi, i semi tradizionali italiani (denari, spade, bastoni e coppe), per un totale di 78 carte. La sua caratteristica principale è la presenza, al posto delle piú tradizionali immagini dei «trionfi», di una serie di Uomini famosi dell’antichità classi-

ca, ma come vedremo questa non è l’iconografia prevalente. L’originalità del mazzo Sola Busca si misura infatti sulla complessità iconografica delle carte relative ai semi, dove sono introdotte diverse figurazioni: un caso questo assolutamente unico nei mazzi quattrocenteschi italiani. Proprio lo studio delle carte numerali condotto in preparazione di questa mostra ha portato a elementi di grande novità, che hanno gettato nuova luce sul vero significato dell’opera. Ma andiamo per gradi. La scelta di introdurre le figure di condottieri, di grande originalità nel panorama dei mazzi di tarocchi italiani e di gusto fortemente antiquario, trovava in Italia una solida tradizione iconografica a cui poter agevolmente attingere nei cicli trecenteschi di «Uomini famosi» dell’antichità classica presentati come exempla da imitare, che vanno dal ciclo per re Roberto d’Angiò in Castel Nuovo a Napoli, agli esem-

Tre carte del mazzo Sola Busca. Fine del XV-inizi del XVI sec. I tarocchi riprodotti nell’articolo appartengono al mazzo Sola Busca, attualmente in esposizione a Milano.

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immaginario i tarocchi pi padovani all’esterno della loggia dei Carraresi (teste di imperatori) e nel salone della Reggia Carrarese (Uomini illustri a figura intera, accompagnati da cartigli, sulla scorta del testo petrarchesco del De viris illustribus). Sugli inizi del XV secolo troviamo tracce della fortuna di questo tema nell’importante ciclo completato nel 1414 nell’anticappella del Palazzo Pubblico di Siena e nella Sala Imperatorum e nel corridoio di palazzo Trinci a Foligno, del 1411-1412, con le classiche raffigurazioni di imperatori e la serie dei Nove Prodi. Tracce di continuità della fortuna di questo soggetto nel XV secolo si riscontrano ampiamente nel territorio della Serenissima: dai perduti Giganti di Paolo Uccello per casa Vitaliani, a Padova, fino ai guerrieri di grandi dimensioni entro finte nicchie abbigliati all’antica, piú o

A destra la carta 0. Mato (il Matto), impersonato da un giovane in abiti discinti che tiene una cornamusa (la musica è intesa come parallelo all’alchimia). Nella pagina accanto, da sinistra VIII. Nerone, appartenente alla serie dei trionfi; 13. Olinpia, regina del seme di spade; XX. Nenbroto, anch’esso facente parte dei trionfi. La presenza di uomini illustri, come Nerone, è una delle caratteristiche distintive del mazzo Sola Busca.

i tarocchi

Tra giochi e profezie In età antica il termine «tarocchi» indicava le carte da gioco in genere, mentre oggi si riferisce a un tipo particolare di mazzo, diffuso in Italia in tre varianti: tarocco di Lombardia (o di Venezia), mazzo di 78 carte con 22 figure o trionfi e 4 sequenze o semi (spade, bastoni, coppe, denari) di 14 carte numerate dall’1 al 10, piú 4 figure (fante, cavallo, donna, re); il tarocchino di Bologna, mazzo in tutto simile al precedente, ma con semi piú «corti», mancando le carte dal 2 al 5; e le minchiate di Firenze, con ben 40 figure. Le figure o trionfi, detti anche «arcani» o semplicemente tarocchi, del mazzo di Lombardia e del tarocchino di Bologna, contrassegnati da numeri dallo 0 al 21 che, con qualche eccezione, ne indicano il valore nella partita, sono i seguenti: il Matto, il Bagatto, la Papessa, l’Imperatrice, l’Imperatore, il Papa, l’Amante, il Carro, la Giustizia, l’Eremita, la Ruota della Fortuna, la Forza, il Penduto, la Morte, la Temperanza, il Diavolo, la Torre, le Stelle, la Luna, il Sole, l’Angelo, il Mondo. Oggi usati per la chiromanzia e i giochi di prestigio, i tarocchi si giocavano in circa 20 diverse partite, cadute quasi del tutto in disuso, il cui svolgimento appare analogo a quello del tresette o della briscola. Diffusi in tutta l’Europa a partire dal XV secolo, tra i piú antichi esemplari di tarocchi sono alcuni mazzi notevoli per la varietà e il valore artistico delle figure allegoriche, come per esempio quelli dei Visconti o dei Colleoni; la progressiva standardizzazione dei simboli e delle figure a cominciare dal Settecento non ha tolto ogni fascino a queste carte antiche ed evocatrici. (red.)

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meno di questo periodo, ancora appena leggibili in quella che era la torre dell’ingresso principale del castello di Malpaga, feudo di Bartolomeo Colleoni.

Una sfilata di celebrità

Tuttavia, al di là di un generico recupero del mondo classico, non mi pare possibile stabilire una connessione diretta tra i cicli appena ricordati e i personaggi scelti a illustrare le carte qui in discussione, come ora vedremo. La serie comprende infatti (siamo aiutati dalle iscrizioni in capitale romana) sia personaggi molto noti della storia romana, come Caio Mario (IIII. Mario), Deiogennaio

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taro (VII. Deo Tavro), Nerone (VIII. Nerone), Catone l’Uticense (XIII. Catone), Bocco (XIIII. Bocho), o della storia biblica, come Nembroto (XX. Nenbroto), Nabucodonosor (XXI. Nabvchodenasor), sia personaggi di piú difficile o perlomeno ambigua identificazione: è il caso delle omonimie per Postvmio (trionfo II), Catvlo (trionfo V), Sesto (trionfo VI), Tvlio (trionfo XI), Carbone (trionfo XII), Metelo (trionfo XV), Lentvlo (trionfo XVIII), Sabino (trionfo XVIIII); delle difficoltà di identificazione a causa anche di probabili storpiature per Panfilio (trionfo I) e Lenpio (trionfo III); dei personaggi nominati Falco (trionfo IX), Venturio (trionfo X), Olivo (trionfo XVI) e Ipeo (trionfo XVII). Qualsiasi tentativo di arrivare a una corretta identificazione di questi soggetti rimane destinato a fallire finché non si compirà un’impegnativa disamina delle fonti classiche disponibili nel Quattrocento e dei compendi medievali, in relazione ai singoli personaggi. A testimonianza del possibile utilizzo da parte dell’estensore del programma iconografico anche

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di fonti medievali potrebbe essere poi l’inserimento dell’imperatore Filippo l’Arabo (riconoscibile per il motto «PAX», che ricorre sul verso di una moneta da lui coniata) nel ruolo di Re di spade: egli venne citato come «primo, cristiano Imperatore» ne Il Dittamondo di Fazio degli Uberti, un’opera in volgare sulla storia di Roma che ebbe notevole fortuna nel XV secolo.

Figure ambigue

Il problema della corretta identificazione dei personaggi raffigurati coinvolge infatti, oltre ai «trionfi», anche alcune carte dei semi. A parte i protagonisti della storia di Alessandro Magno, introdotti quasi tutti a illustrare il seme di spade, come vedremo, per le carte figurali degli altri semi l’autore del mazzo ha scelto insieme a personaggi facilmente identificabili (la Regina di denari 13. Elena; il Re di denari 14. R[ex] Filipo, l’imperatore Filippo l’Arabo; il Cavallo di bastoni 12. Apolino, cioè Apollo; la Regina di bastoni 13. Palas, Pallade; la Regina di coppe 13. Polisena), personalità di piú difficile identificazione, come

Sarafino (12. Cavallo di denari), Levio Plavto R[ex] (14. Re di bastoni), Lvcio Cecilio R[ex] (14. Re di coppe). Queste ambiguità interpretative restano, al di là della concreta possibilità che nel penultimo personaggio ricordato (Levio Plavto) siano adombrate le personalità di due grandi poeti latini, Levio, precursore dei neoteroi, e il commediografo Plauto (che fu oggetto di particolare studio da parte del Guarino e per il quale si registra un crescente interesse nel Rinascimento), cosí come a Catullo potrebbe forse alludere, in un doppio livello di lettura, il «trionfo» V. Tra tutti quelli di ambigua interpretazione si individuano poi tre nomi che potrebbero essere legati alla storia rinascimentale contemporanea: Carbone (trionfo XII), Sabino (trionfo XVIIII) e Sarafino (Cavallo di denari). Il primo si potrebbe leggere infatti come allusione a Ludovico Carbone (1430-1485), letterato e umanista, oratore di corte a Ferrara presso gli Estensi (sotto Leonello, Borso ed Ercole I). Il secondo invece potrebbe contenere un riferimento all’umanista

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immaginario i tarocchi Pietro Sabino, nato probabilmente a Poggio Mirteto, in Sabina, verso la metà degli anni Sessanta e morto a Roma prima del 1502. Il terzo allude a mio parere a Serafino de’ Ciminelli de l’Aquila (1466-1500) «rimatore famosissimo» che, dopo un apprendistato da giovanissimo a Napoli (1478-1481) presso un famoso musicista fiammingo (Guillelmus Guarnerius) e qualche anno di nuovo in patria, fu a Roma alla corte del cardinal Ascanio Sforza e quindi, dal 1492, presso le maggiori corti italiane (Napoli, Urbino, Milano e Mantova) e dovunque riscosse un notevolissimo successo accompagnando la recita delle sue rime con il suono del liuto.

1532 il duca di Milano Francesco II Sforza, in un documento di concessione degli Statuti alla comunità di Vigevano, si paragoni nell’agire ad Alessandro Magno. Alessandro viene accompagnato nelle altre carte figurali di spade da personaggi legati alla sua storia.

Il mito di Alessandro

Nel mazzo un ruolo particolare, in veste di Re di spade, viene riservato a un altro personaggio classico, questa volta in chiave decisamente positiva. Si tratta di uno dei Nove Prodi: Alessandro Magno, che era stato celebrato nel Rinascimento grazie alla circolazione del romanzo medievale, alle riedizioni del lavoro di Plutarco (la Vita di Alessandro Magno) e alla traduzione in volgare realizzata nel 1438 da Pier Candido Decembrio della Vita di Alessandro di Quinto Curzio Rufo. Eroe divinizzato, nuovo sole, colui che aveva raggiunto il cielo su un carro trasportato da grifoni, aveva riscosso un notevole successo, soprattutto nell’ambiente delle corti. Sono note le inclinazioni verso questo eroe di Leonello d’Este, che viene paragonato al re macedone dal letterato di corte Piero Andrea de’ Bassi, e probabilmente anche la corte milanese non si sottrasse al suo fascino, se si deve accettare l’ipotesi di una committenza sforzesca per gli arazzi con Storie di Alessandro conservate oggi a Roma in palazzo Doria Pamphili. Quanto alla longevità del mito basterà ricordare come ancora nel

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Secondo Callistene, storico di Alessandro (IV secolo), il condottiero fu salutato con l’appellativo di «figlio di Ammone» (Zeus Ammone, il dio serpente), quando si trovava in Egitto nell’oasi di Siwah, dal sacerdote che pronunciava l’oracolo di Ammone: nel nostro mazzo Amone è presente come cavallo di spade. Il dio, in forma di serpente (seguendo la tradizione riportata da un frammento di una storia anonima del II secolo), si sarebbe congiunto con la madre Olimpiade (Olinpia), temuta signora dei serpenti, qui presente come Regina di spade. L’incarnazione terrena di Zeus Ammone e quindi vero padre del grande condottiero, secondo la tradizione raccolta nel favoloso Romanzo di Alessandro dello pseudo-Callistene, sarebbe invece quel Natanabo «mago ed intendente» (introdotto nel mazzo come

In alto il 3 di bastoni, con una testa trapassata appunto dai bastoni, la bocca sigillata da una ghirlanda e, ai lati, due ali, simbolo del mercurio filosofico. A destra il 10 di coppe, con il volto di un personaggio forse identificabile con il leggendario Ermete Trismegisto. gennaio

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Miniatura raffigurante Tristano che beve un filtro d’amore, dalla raccolta Lancelot du Lac, opera del copista Michel Gonnot. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale.

cavallo di coppe) che, insieme ad Aristotele, era insegnante di Alessandro Magno. Dal Secretum secretorum, attribuito ad Aristotele, uno scambio epistolare tra maestro e discepolo su astrologia, dietetica, alchimia e altri argomenti «inquadrati in una dottrina della gestione del potere», si apprende che il grande filosofo avrebbe introdotto Alessandro ai misteri del sapere alchemico, e questa notizia potrebbe gettare qualche luce sul legame tra la figura del condottiero e l’iconografia piú oscura del mazzo, quella che ricorre nelle carte del seme di denari. Se infatti nelle carte numerali del seme di spade, al di là dei numerosi riferimenti antiquari e del 3 (il cuore trafitto) di cui poi si dirà, sembrerebbero prevalere motivi narrativi e decorativi piú semplici (o forse per noi troppo criptici), invece nell’iconografia delle carte numerali del seme di denari si trovano elementi che restano apparentemente inspiegabili. La prima e piú semplice interpretazione riguarda alcune carte che parrebbero alludere a una produzione monetale:

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si tratta del trasporto dei fiorini da rifondere (3 di denari); il trasporto di monete vecchie (4 di denari); la saggiatura (5 di denari); l’orlatura (6 di denari); il controllo della dimensione dei tondelli (7 di denari); la cesta di decantazione (8 di denari); il riscaldamento del metallo prima della battitura (9 di denari); la tesaurizzazione delle monete (10 di denari).

L’elisir di lunga vita

Queste operazioni, intese in senso lato, possono però anche alludere alla complessità dell’opus alchemicum, che notoriamente era un procedimento di trasformazione della materia, spesso condotto a partire proprio dai metalli (oro e argento) per l’ottenimento del lapis philosophorum o elisir, in grado di garantire la perfezione su qualunque corpo venisse proiettato. Nel caso dell’elixir si trattava di vera medicina di lunga vita, risposta concreta all’anelito di immortalità che avevamo già avvertito nella scelta di celebrare la figura di Alessandro Magno. Lo spirito profondo dell’ermeti-

smo rinascimentale consisteva in un particolare accento sulle possibilità dell’uomo alchimista di plasmare la materia, nella «ricerca di un livello piú alto di conoscenza in cui, mentre si coglie l’unità del tutto, ci si identifica col tutto e nel tutto si opera trasformandolo», per arrivare fino a una visione salvifica, cioè «alla ricerca della salvezza attraverso il perfezionamento della materia». La necessità di far riferimento alle dottrine alchemiche ed ermetiche per gettare luce sulla complessa iconografia del mazzo e, per contro, la prova della profonda riflessione che sottende alla scelta dei soggetti trova conferma una volta che si identifichino con maggiore precisione le rimanenti carte del seme di denari. La donna pingue della carta 4 potrebbe infatti raffigurare la Terra madre dei metalli, che viene ingravidata grazie all’azione dell’alchimista e produce un frutto di perfezione, che toccherà poi all’alchimista nutrire. Una conferma dell’uso della metafora sessuale come allusione al procedimento alchemico del 4 di denari si esplicita nel 5 di denari, dove il ragazzo travestito da uccello (chiaro simbolo sessuale), con un fallo disegnato sullo scudo, rappresenta il compimento dell’opus alchemicum, che si realizza tramite l’azione del calore (il fuoco che gli lambisce un piede). Un chiaro significato alchemico si individua poi nel 7 di denari dove sette dischi, che simboleggiano i sette metalli ma insieme anche i sette gradi dell’opus, sono disposti dentro un vaso: le ali d’aquila annodate ai due lati potrebbero alludere all’aquila simbolo del mercurio dei filosofi. Di nuovo, solo in chiave alchemica è possibile interpretare il 9 di denari, dove si raffigura una caldaia che contiene sette dei nove dischi: infatti il ragazzo nudo che muore

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immaginario i tarocchi in basso tra le fiamme allude alla nigredo o morte della prima materia, cioè il primo gradino del processo alchemico cosí come era stato codificato negli scritti di Morieno e dello pseudo-Lullo. A questo punto è chiaro che in chiave alchemica è possibile sciogliere anche la difficile iconografia del 3 di spade, con tre spade che trafiggono un cuore: nei dizionari alchemici il cuore è il simbolo del fuoco, elemento indispensabile per l’opus, e le tre spade potrebbero alludere ad oro, argento e mercurio. Ma l’utilizzo del cuore nella simbologia alchemica serve anche, come ha dimostrato ampiamente Michela Pereira in uno studio recente sull’argomento, a sottolineare il carattere vitale del procedimento alchemico, in questo modo assimilato a un organismo vivente. Anche nelle carte numerali di coppe ricorre probabilmente un riferimento ermetico, seppure esse piú di quelle degli altri semi sembrerebbero caratterizzate da una connotazione decorativa, con motivi tratti dal repertorio della miniatura classicheggiante padovana dei primi anni settanta, dal «Maestro dei Putti» a Giovanni Vendramin (almeno fino alla carta 9). La presenza nella carta 10 del ritratto frontale di un uomo col turbante, chiaramente un orientale, potrebbe leggersi invece come possibile allusione alla mitica figura di Ermete, raffigurato con un analogo copricapo per esempio nell’importante miscellanea di ambito veneto intitolata Secreta secretorum philosophorum, i cui notevoli disegni acquerellati spettano con ogni probabilità al pittore veneziano Lazzaro

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Il fante di bastoni, che mostra un giovane vestito alla moda, con farsetto grigio dalle maniche rosse e brache di colori diversi.

Bastiani sul finire del settimo decennio del Quattrocento (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Ashburn. 1166, f. 1v).

Allegorie alchemiche

Nelle carte del seme di bastoni ricorrono nuovamente temi alchemici e viene portato avanti il paragone tra l’opus alchemicum e l’agricoltura di cui si è accennato in apertura, che trova la propria consacrazione nei testi lulliani e un apparato iconografico particolarmente ricco ed elaborato nelle splendide illustrazioni del già citato codice della Biblioteca Nazionale di Firenze.

Infatti oltre all’ambientazione dichiaratamente agreste (2 di bastoni) si trova nella carta 3 una chiara allusione alla segretezza nella trasmissione del sapere alchemico (raccomandata a lungo anche dallo pseudo-Lullo) di cui diviene emblema la testa trapassata da tre bastoni (oro, argento e mercurio?), con la bocca sigillata da una ghirlanda e la presenza delle consuete ali d’aquila (il mercurio dei filosofi). Al mondo contadino allude la zucca del 5 di bastoni, frequentemente utilizzata per il trasporto dell’acqua, che però a un lettore smaliziato immediatamente rimanda alla «cucurbita», cioè il vaso alchemico dove si realizza l’opus, una vera e propria zucca vuota utilizzata dall’alchimista, come appare per esempio dalle illustrazioni del già citato superbo manoscritto veneto (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburn. 1166, f. 5r); sembra controllare la semina il giovane alla carta 7, mentre ormai sono sbocciate le spighe sullo sfondo del fante di bastoni, che nelle borsa reca le monete d’oro, frutto dell’opus. A questo punto occorrerà ritornare anche sul rapporto di Alessandro Magno con l’alchimia, che si sostanzia nell’immagine del sovrano raffigurato come nuovo sole, antico simbolo alchemico dell’oro, il piú perfetto dei metalli che la terra produce e quindi materia privilegiata per ricavare il lapis philosophorum. Qualche elemento alchemico ricorgennaio

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re anche nelle già analizzate carte dei «trionfi», poiché una possibile allusione alchemica è in VI. Sesto, raffigurato come Mercurio, mentre una chiara allusione all’oro dei filosofi (cioè degli alchimisti) è nella carta XVI. Olivo, che illustra, come vedremo tra breve, il trionfo del Sole (raffigurato in alto a destra nella carta), a cui alludono anche le ginocchiere e la corona raggiata del soldato. In basso a destra in primo piano è stato inserito un basilisco, un essere mitico dal corpo di gallo e dalla coda di serpente che già il monaco tedesco Theophilus, nel suo trattato del XII secolo, indicava come ingrediente indispensabile (una volta ridotto in polvere) per ottenere l’oro dei filosofi. Il particolare significato attribuito, tra le carte numerali, al seme di denari pone in rilievo la presenza di due ritratti in profilo, entro ghirlande legate da un anello, scelti a illustrare il numero 2. I due ritratti costituiscono per qualche verso il trait d’union tra il recupero del mondo classico (di cui testimoniano i «trionfi»), esemplificato dal profilo laureato dell’imperatore Augusto nel medaglione superiore, e l’epoca contemporanea, cui allude evidentemente il naturalistico profilo di sapiente con berretta del medaglione inferiore. Quest’ultimo è certamente un ritratto, condotto con lo spirito un po’ caustico, di accentuazione dei tratti fisionomici, che caratterizza lo stile dell’artista un po’ in tutte le carte (e si legge anche nella trasposizione del modello monetale in termini di accentuazione quasi caricaturale). Già Arthur Hind nel 1938 aveva intravisto nella figura dell’imperatore laureato del medaglione superiore una possibile allusione, seppure nei tratti fisionomici un po’ caricati, al duca di Ferrara Ercole I. Se confrontiamo il profilo con quello di Ercole come ci è stato tramandato dai medaglioni realizzati da Baldassarre d’Este nel 1472 (tolta la berretta quattrocentesca) sorprenderà ritrovarvi le stesse curve per il naso e per il mento, come se

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anche il medaglista estense avesse letto il profilo ducale con il filtro di un modello augusteo.

Le monete come modello Il ricorso a modelli numismatici da parte dell’autore del mazzo, probabilmente mediati da miniature o bassorilievi, viene confermato dalla possibilità di riconoscere il profilo dell’imperatore Tiberio, da un denaro d’argento, sotteso a quello di Deiotaro («trionfo» VII), quello riprodotto dall’aureo di Claudio (una moneta realizzata sulla fine della Repubblica) nel volto di Catone («trionfo» XIII), e il profilo di Nerone, cosí come viene riprodotto nell’aureo coniato dopo la morte di Seneca, nell’uomo ritratto nel 7 di spade. Risulta piú difficile identificare il personaggio contemporaneo. Il carattere arcaico dell’abbigliamento potrebbe far pensare a un tributo postumo a un grande studioso e alchimista, che potrebbe allora forse essere, vista la coincidenza con i tratti fisionomici tramandati da un ritratto miniato, il medico padovano Michele Savonarola, nonno del piú famoso Girolamo che, dopo aver a lungo insegnato all’Università patavina, si era trasferito nel 1450 a lavorare alla corte di Ferrara come medico personale di Niccolò III d’Este (e dopo di lui di Leonello e Borso). Studioso di chiara fama, dedito a ricerche alchemiche nel tentativo di affinare la sua scienza medica soprattutto sul versante

dei rimedi contro la peste, arrivò a distillare l’elixir di lunga vita, l’acqua vitae nel senso etimologico del termine, se non proprio elisir dell’immortalità, rimedio contro molti malanni. Alla luce di tutte le considerazioni svolte, il mazzo di tarocchi Sola Busca si rivela quindi essere una sorta di raffinatissimo gioco alchemico-ermetico che, alludendo probabilmente a vicende storiche contemporanee propone Alessandro Magno come modello per il signore e sviluppa quindi un percorso di elevazione attraverso le carte dei quattro semi che tocca tutti i gradini della conoscenza umana fino ai segreti piú reconditi della natura, che solo l’alchimista è in grado di penetrare. In modo assolutamente singolare il mazzo di tarocchi Sola Busca squarcia il velo su uno degli aspetti fondanti, eppure tante volte trascurato, dell’umanesimo italiano: quello che riguarda la fortissima tensione alla conoscenza, che non teme di fare ricorso a tutte le fonti possibili nella ricerca della verità, arrivando cosí a un utopistico sincretismo che fonde cristianesimo ed ermetismo, autori classici e cabala, con posizioni ancora a queste date considerate nei limiti dell’ortodossia, ma che solo pochi anni dopo non saranno piú sostenibili. F

Dove e quando «Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca e la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento» Milano, Pinacoteca di Brera fino al 17 febbraio Orario ma-do, 8,30-19,15; lu chiuso Info tel. 02 72263264; www.brera.beniculturali.it Catalogo Skira Editore

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I secoli di una basilica L L di Agnese Morano

a basilica romana di S. Clemente sorge tra il colle Esquilino e il Celio, lungo la via che unisce il Colosseo al Laterano. È una costruzione storicamente, artisticamente e simbolicamente complessa, in quanto rappresenta lo stratificarsi e il sovrapporsi delle testimonianze storico-architettoniche che molto spesso caratterizza la

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Città Eterna. E la complessa storia del luogo si intreccia con l’altrettanto complicata vicenda biografica del Santo a cui la chiesa è dedicata. Secondo il santo e teologo Ireneo di Lione (vissuto nella seconda metà del II secolo d.C. e morto probabilmente come martire sotto l’imperatore Settimio Severo), Clemente fu il terzo successore di Pie-

tro, dopo Lino e Anacleto. Piú tardi il vescovo, santo e scrittore cristiano greco Eusebio di Cesarea, conferma la notizia di Ireneo e, nell’Historia ecclesiastica, aggiunge che Clemente sarebbe succeduto ad Anacleto nel dodicesimo anno del regno di Domiziano, cioè nel 92 d.C. Eusebio fornisce anche altre informazioni, tra cui quella relativa gennaio

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Tra il Celio e l’Esquilino, a pochi passi dal Colosseo, Roma conserva uno straordinario palinsesto storico e archeologico: è il complesso oggi dedicato a San Clemente. Una chiesa grandiosa, nata sui resti di una primitiva fabbrica paleocristiana, a sua volta edificata su strutture risalenti all’età imperiale alla lettera che Clemente avrebbe inviato ai Corinzi, al fine di far riconciliare la loro Chiesa con quella di Roma (Epistula ad Corinthios o I Clementis). Il vescovo greco scrive anche che il terzo papa era ancora a capo della Chiesa di Roma al tempo dell’imperatore Nerva e che morí, martire, nel terzo anno di regno di Traiano, cioè nel 99 d.C.

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Roma. La navata centrale della basilica superiore di S. Clemente (in alto) e la facciata settecentesca, preceduta da un quadriportico (a destra). La basilica fu edificata durante il pontificato di Pasquale II (1099-1118) sui resti di un precedente edificio ecclesiastico di epoca paleocristiana, impostatosi a sua volta su costruzioni di età romana.

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luoghi s. clemente A destra Crocifissione con, ai lati, la Vergine Maria e San Giovanni Evangelista, particolare del mosaico absidale della basilica superiore di S. Clemente. Primo quarto del XII sec.

Altre fonti hanno proposto identificazioni e date diverse: nel Liber Pontificalis, per esempio, il pontificato di Clemente viene collocato tra il 68 e il 76 d.C., ma le notizie riportate da Eusebio sembrano le piú attendibili. Altrettanto incerta è la vicenda del martirio: nel già citato Liber Pontificalis, si legge che Clemente sarebbe stato sepolto «in Grecias», mentre nella Passio Sancti Clementi (scritta verosimilmente tra il V e il VI secolo), si afferma che il martirio sarebbe avvenuto nel Chersoneso Tracico, cioè in Crimea, riportando gli episodi che, nel complesso ecclesiastico romano, sono narrati dagli affreschi della basilica inferiore (vedi oltre alle pp. 100-101). Meno credibile risulta invece l’identificazione del dedicatario della basilica con il console del 95 d.C. Flavio Clemente, che, secondo gli storici Dione Cassio e Svetonio, fu mandato a morte dall’imperatore Domiziano. Tale ipotesi si basava sull’idea che la condanna fosse stata emessa per motivi religiosi, mentre, a oggi, non esiste alcuna prova certa in proposito.

Nel sottosuolo di Roma

Visitando la stratificata costruzione della basilica di S. Clemente si compie un viaggio nel tempo di oltre duemila anni. L’edificio, infatti, è una sorta di «palazzina» costruita nel sottosuolo di Roma, e articolata in quattro livelli riferibili a momenti diversi. Partendo dal basso, il primo livello è costituito da strutture dell’età imperiale romana, databili nel I secolo d.C. Al di sopra, ma siamo sempre a oltre 10 m di profondità rispetto al piano stradale attuale, si conservano due ambienti a pianta quadrangolare riferibili a un horreum – cioè un magazzino – e i resti di una ricca domus patrizia. I locali del magazzino erano forse pertinenti all’antica zecca di Stato,

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basilica superiore

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S. Giovanni in Laterano

In alto la localizzazione della basilica di S. Clemente, sorta tra i colli Celio ed Esquilino. In basso statua di Mitra, particolare dell’ara marmorea situata nell’aula mitraica di S. Clemente. Il santuario dedicato alla divinità orientale venne impiantato, tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C., nel cortile interno di un’abitazione di età imperiale. Fu in uso sino alla fine del IV o agli inizi del V sec.

In alto la basilica inferiore, rinvenuta alla metà dell’Ottocento sotto l’attuale. L’edificio, sorto tra la fine del IV e gli inizi del V sec., riportò gravi danni nel 1084 in seguito al saccheggio dei Normanni di Roberto il Guiscardo e subí radicali interventi di restauro che servirono a rinforzarne le strutture portanti. Qui, nel 1099 si svolse l’elezione di papa Pasquale II.

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ricostruita in questa zona dopo l’incendio dell’80 d.C. Accettando tale ipotesi, si può ritenere che la sontuosa dimora sia appartenuta proprio a un funzionario della zecca. In questi locali, tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. fu realizzato un mitreo, che rimase in uso sino alla costruzione della basilica paleocristiana. Parte delle strutture di età imperiale furono invece trasformate in una domus ecclesia, cioè in un luogo che il suo proprietario, seguendo un uso attestato a Roma fin dai primi secoli del cristianesimo, metteva a disposizione della comunità dei fedeli per le esigenze del culto. Simili strutture, quindi, non nascevano come edifici religiosi veri e propri, ma venivano adattate al servizio liturgico. È però naturale che il loro

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luoghi s. clemente La leggenda di Sisinnio, particolare del ciclo delle Storie di San Clemente, dipinto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII sec. nella navata centrale della basilica inferiore. L’affresco mostra nel registro mediano S. Clemente mentre celebra la Messa, e, nell’inferiore, il prefetto di Roma Sisinnio che ordina ai suoi servi, accecati dalla luce divina, di trascinare in prigione Clemente, scambiato con una colonna marmorea.

apprestamento sfociasse nella creazione di un titulus, che può essere considerato come una sorta di chiesa allo stato embrionale, che assolveva a compiti simili a quelli di una moderna parrocchia. E questo fu anche il caso del complesso tra Celio ed Esquilino, che prese appunto il nome di titulus Clementis. Tale denominazione implicava dunque l’esistenza di un personaggio di nome Clemente, che Girolamo, dottore della Chiesa e santo, identificò, nel De viris illustribus, con il pontefice del I secolo d.C., ma che, piú probabilmente, è invece il donatore degli ambienti che ospitarono l’edificio o la struttura funzionale cristiana variamente indicata dalle fonti (ecclesia, dominicum, basilica, titulus).

Un miracolo a fumetti

Dopo il 380 d.C., il titulus Clementis lascia spazio alla primitiva basilica paleocristiana dedicata a San Clemente, il papa che si era duramente battuto per il consolidamento della nuova religione cristiana, la cui fondazione viene tradizionalmente fissata tra la fine del IV e gli inizi del V sec. Tale costruzione presenta, grosso modo, il medesimo assetto planimetrico di quella attuale: è a tre navate, precedute da un atrio e da un quadriportico esterno dotato di una fontana al centro. Secondo la leggenda agiografica, il futuro papa Clemente era uno dei numerosi cristiani perseguitati da Roma. Ma quando il prefetto Sisinnio si avvicinò con i suoi uomini per arrestarlo, una violenta luce divina accecò i militari, che perciò lo scambiarono con una colonna che con molta fatica trascinarono in

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carcere. Clemente fu quindi miracolosamente salvo, ma solo per poco tempo: infatti, venne ben presto catturato e condannato all’esilio in Crimea e ai lavori forzati nelle miniere. Nonostante la condanna, si diede a fare proseliti del cristianesimo tra le guardie e i compagni di prigionia. Clemente cominciò a riscuotere un tale successo che i Romani decisero di interrompere bruscamente la sua esistenza: legato a un’ancora, fu gettato nel Mar Nero. Il racconto del presunto martirio del papa da quel momento si arricchisce di miracoli post mortem. Vuole la tradizione che, qualche tempo dopo, le acque del mare si siano divise in modo improvviso e spontaneo, rivelando sul fondale la pre-

senza della tomba di Clemente, che gli angeli stessi avevano costruito per il papa martire. E si narra anche di un bimbo che, curioso, si sarebbe avvicinato troppo alla sepoltura senza fare in tempo a tornare sulla terraferma prima che le acque lo inghiottissero facendolo annegare. Ma l’anno seguente la madre, recatasi per pregare nel luogo in cui suo figlio aveva perso la vita, lo ritrovò prodigiosamente incolume. Lo straordinario racconto di Sisinnio e della pesante colonna, insieme ad altri miracoli attribuiti al Santo sono rappresentati nei dipinti murali realizzati nella basilica inferiore, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo. La curiosa particolarità delle pitture, al di là della loro miragennaio

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bile tecnica esecutiva, risiede nell’essere strutturate a mo’ di fumetto. Nella parte inferiore, il dipinto rappresenta Sisinnio nell’atto di ordinare ai suoi servi di legare e trascinare San Clemente, il quale, nel frattempo, si è trasformato in una colonna di marmo. Qui si conservano le piú antiche manifestazioni murali a oggi note espresse in una lingua intermedia fra il latino e il volgare. Sebbene l’attribuzione delle frasi ai singoli personaggi sia fortemente discussa, la proposta piú condivisa prevede un veloce e vivace dialogo tra Sisinnio, i suoi uomini e San Clemente. Sisinnio si rivolgerebbe cosí ai suoi tre uomini, chiamati a uno a uno: «Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!». E San Clemente, di contro: «Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis».

Dal latino al volgare

La prima parte è interamente pronunciata in volgare, con chiare influenze romanesche: Sisinnio, con un’espressione colorita, incita due dei suoi uomini a tirare, mentre il terzo deve spingere da dietro con il palo. La risposta del papa è invece

Il registro inferiore della leggenda di Sisinnio, in una riproduzione ottocentesca dell’affresco, importante documento della nascente lingua volgare italiana.

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scritta in latino e suona come una sorta di insindacabile giudizio divino: «A causa della durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare sassi». Nella frase pronunciata da Clemente vi sono, tuttavia, alcune scorrettezze grammaticali: manca la consonante «h» nel verbo «trahere», e il termine «duritiam» è erroneamente espresso in caso accusativo, invece che in ablativo: errori che indicano come il latino classico stesse lentamente lasciando il campo a una lingua nuova. E come si può spiegare, infine, la presenza della parolaccia pronunciata da Sisinnio? Secondo l’opinione dei linguisti, la pittoresca espressione sarebbe stata usata in funzione fàtica, cioè con lo scopo di mantenere viva la comunicazione con i suoi uomini incitandoli e stimolando la loro attenzione. Ciò sarebbe da riferirsi al fatto che, agli albori della lingua italiana, la frase non era ancora considerata offensiva, come invece lo è oggi. L’attuale basilica di S. Clemente si trova in superficie al quarto, e ultimo, livello. Nel 1084, durante il sacco di Roma da parte dei Normanni di Roberto il Guiscardo, la struttura

«A causa della durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare sassi»

subisce gravi e pesanti danneggiamenti, ma almeno sino alla fine del secolo continua a essere utilizzata, tanto che, il 13 agosto 1099 vi viene eletto papa Pasquale II. Ed è proprio il nuovo pontefice a disporre la costruzione della basilica sulle fondamenta della precedente.

La chiesa dimenticata

Quest’ultima viene colmata di terra e detriti – cosí come era stato fatto, in precedenza, per la sottostante domus ecclesia – e viene usata come fondazione per la nuova fabbrica. L’esistenza della chiesa inferiore venne cosí dimenticata: tutti, i fedeli, ma anche gli studiosi, si convinsero che la chiesa originaria fosse quella visibile sul piano stradale, quella in cui quotidianamente si recavano a pregare. Una convinzione alimentata dal fatto che molti arredi e molte suppellettili della basilica paleocristiana, come la preziosa schola cantorum, erano stati trasferiti nella chiesa superiore. Tale fu l’opinione comune fino al 1857, anno in cui padre Joseph Mullooly, erudito priore dei Domenicani irlandesi – che dal 1677 officiano la chiesa – fece una sensa-

«Fili de le pute, traite (tirate), Gosmari, Albertel, traite (tirate). Falite (spingi) dereto (da dietro) co lo palo, Carvoncelle!» 101


luoghi s. clemente il mitreo

Nella grotta del dio Quello conservato sotto la basilica di S. Clemente è uno dei molti mitrei a oggi noti a Roma, a riprova della fortuna conosciuta dal culto di Mitra, divinità di origine indoiranica. Dottrina di tipo iniziatico o misterico, il mitraismo, che si celebrava in grotte naturali o templi sistemati come «grotte», si diffuse in tutto l’impero romano, trovando adepti specialmente tra i soldati, il che forse testimonia l’originaria funzione «guerriera» del dio. Come si può vedere anche a S. Clemente, Mitra veniva raffigurato come un giovane con berretto frigio e aureola solare raggiata, perlopiú nell’atto di uccidere un toro, sacrificio inteso come un atto cosmogonico. Il mitreo si estende sotto l’abside della basilica paleocristiana e consta di tre ambienti: un vestibolo, una stanza forse adibita all’istruzione dei catecumeni e un terzo locale, cuore della celebrazione liturgica, nel quale, seduti sui banconi posti lungo le pareti laterali, trovavano posto gli adepti durante le celebrazioni.

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A destra una donna dà da mangiare alle galline, particolare del mosaico absidale della basilica superiore di S. Clemente. Primo quarto del XII sec. Nella pagina accanto il miracolo del Mar d’Azov, particolare del ciclo di affreschi con le Storie di San Clemente. Fine dell’XI-inizio del XII sec. Roma, S. Clemente, basilica inferiore. A sinistra il mitreo di S. Clemente, con volta a botte ribassata e, sulle pareti laterali, banconi in muratura sui quali sedevano gli adepti. Al centro, un altare marmoreo con la raffigurazione del dio Mitra che uccide il toro.

Dove e quando Basilica di S. Clemente Roma, via di S. Giovanni in Laterano Orario basilica tutti i giorni, 8,00-12,30 e 15,00-19,00 Orario scavi feriali, 9,00-12,30 e 15,00-18,00; domenica e festivi, 12,00-18.00 Info tel. 06 7740021; www.basilicasanclemente.com

zionale scoperta. Avendo il sospetto dell’esistenza di un edificio religioso sottostante, sfondò un muro e iniziò cosí il rinvenimento delle precedenti strutture sopra le quali sorge la basilica attuale.

Un trionfo di colore

Principale motivo di orgoglio della basilica è lo splendido mosaico del XII secolo che decora l’abside. I motivi iconografici sono tipici della tradizione del IV-V secolo e, pertanto, alcuni studiosi ritengono che possa trattarsi di una replica, o forse addirittura di una ricostruzione ridotta del mosaico che doveva decorare l’abside della basilica inferiore. Tale ipotesi è comprovata dallo studio di alcune delle tessere di marmo e pasta vitrea, cronologicamente databili a un’epoca precedente e dunque riferibili a un mosaico piú antico, che si suppone sia esistito nella chiesa inferiore. Il mosaico è un capolavoro di scuola romana, caratterizzato da una iconografia complessa, che ne fa una vera e propria summa teologica. Al centro dell’abside campeggia un crocifisso sui cui bracci, intorno alla figura del Cristo, sono poste dodici colombe, simboleggianti gli Apostoli. Il crocifisso è qui inteso come

«Albero della Vita», piantato sul colle del Paradiso, e prende vita da un vaso dal quale fuoriescono foglie e rami che si intrecciano a creare girali d’acanto, metafora del ciclico ritorno alla vita che preannuncia la Resurrezione del Salvatore. Sparsa tra le volute, è raffigurata una miriade di esseri animati che ricordano la poliedrica varietà del creato raggiunto dalla rivelazione cristiana. Possiamo riconoscere uccelli variopinti e di differenti specie, figure umane intente a svolgere le mansioni piú disparate, cestini di frutta, lampade… sono persino raffigurati una donna che dà da mangiare alle galline e un contadino con le sue capre! Siamo quindi di fronte a una raffigurazione musiva che intende essere un curioso e realistico compendio della vita. F

Da leggere U Roberta Bernabei, Chiese di Roma,

Electa, Milano 2007; pp. 249-255 U Hugo Brandenburg, Le prime

chiese di Roma, Jaca Book, Milano 2004; pp. 142-152 U Leonard Boyle O.P., Piccola guida di San Clemente, Kina Italia, Roma 1989

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Uno smeraldo tra le montagne

cartoline • Dal verde intenso

del fiume che l’attraversa prende nome la Val Verzasca, un comprensorio montano della Svizzera che custodisce mirabili tesori d’arte. Immersi in un paesaggio fiabesco...

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ra le valli del Canton Ticino, la Verzasca si contraddistingue per aver conservato una rilevante quantità di architetture, tradizioni culturali e stili di vita agreste, che affondano le proprie radici nel Medioevo. Abitata sin dal Neolitico, la Val Verzasca si stacca dalla Piana di Magadino all’altezza di Tenero, una ridente cittadina a nord di Locarno, e s’insinua per 25 km tra le Alpi Lepontine, sino alle pendici del Pizzo Barone, separando la Valle Leventina dalla Val Maggia. Per i mezzi a motore, inclusi gli autopostali, il solo accesso a questa valle della Svizzera italiana, unica a non comprendere un confine di Stato, si trova a sud, garantito da una comoda cantonale, che si imbocca a Gordola o Tenero.

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A sinistra una casa tipica della Val Verzasca, oggi sede di un laboratorio artigianale per la tintura e tessitura della lana. Nella pagina accanto, in alto un particolare del Ponte dei Salti, presso Lavertezzo. XVII sec.

Nell’Alto Medioevo a colonizzare l’impervia regione sono stati i walser, un piccolo popolo di origini alemanne che, sempre in cerca di nuove terre da dissodare con la speranza di potersi ricostruire un’esistenza là dove nessuno voleva andare, è riuscito a fondare a cavallo delle Alpi, sul limite massimo delle possibilità di sopravvivenza, gli insediamenti umani piú elevati del continente.

L’acqua e la pietra Due le presenze costanti, che ci accompagnano durante il viaggio: l’acqua e la pietra. Non a caso la valle deve il nome al colore verde smeraldo del fiume Verzasca, che scendendo impetuoso dal Pizzo Barone, crea rivoli e cascatelle e modella candide rocce, conferendo loro forme strane e bizzarre. In alcuni punti il corso del Verzasca si acquieta, raccogliendosi in luccicanti pozze dai riflessi iridescenti. Vere piscine naturali, che nelle calde giornate estive offrono bagni rinfrescanti. Affacciato sulle acque del lago artificiale di Vogorno – a cui dà origine la diga di Contra –, nel versante destro della montagna, c’è Corippo, il Comune piú piccolo della Svizzera. Qui i segni materiali della secolare civiltà alpina si manifestano in maniera particolarmente evidente. Tutelato come monumento nazionale per le sue arcaiche case in pietra dai semplici e funzionali moduli costruttivi, Corippo conta soltanto dodici residenti ed è candidato a divenire albergo

A destra segnaletica destinata agli escursionisti, che in Val Verzasca trovano un autentico Paradiso. Nella pagina accanto, in basso veduta di Lavertezzo, dominata dal campanile della chiesa settecentesca di S. Maria degli Angeli.

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diffuso. Fulcro del villaggio è la piazzetta, con la parrocchiale e la Casa comunale, da cui si dipartono tortuose scalinate e minuscole viuzze, anch’esse in pietra. Il legno, protagonista dell’architettura walser e di quella elvetica, in Verzasca è visibile solo sui balconi, sui davanzali e nelle travi, a cui appoggiano tetti spioventi. Nell’uso parsimonioso di questo materiale e in quello discreto di decorare i balconi con i fiori, sta infatti uno dei tratti distintivi della valle. Oltre a Corippo, Vogorno, Brione, Lavertezzo e Sonogno costituiscono i Comuni principali. Paiono villaggi da fiaba, immersi in vigneti, boschi di castagni, faggi, frassini e noccioli; lontani anni luce dall’urbanizzazione intensa e incoerente che ha completamente stravolto la fisionomia di alcune zone alpine. Nella disposizione e nell’aggregazione dei solidi volumi architettonici seguono le curve del livello della montagna. Posti lí, coi

loro forni affumicati, dove ancora si cuoce, le fonti e gli abbeveratoi per uomini e animali, gli essiccatoi per le castagne, le chiese, le cappelle e le cascine disseminate qua e là, apposta per accogliere il sole e scansare le valanghe. Guardandoli attentamente, questi insediamenti si presentano come nuclei compatti di inconsuete case in pietra grezza, molto curate nella realizzazione sia della muratura, ottenuta con conci regolari, spianati e letti sottili di buona malta, sia della sobria decorazione di portali e finestre, ricavati con grande regolarità nella continuità del tessuto murario.

Una soluzione originale È impossibile non notare la straordinaria tecnica di copertura degli edifici, che obbedisce a un criterio funzionale di uso e manutenzione, adatto alle condizioni climatiche del luogo. Diffuso dalla Val d’Ossola al Ticino e alla Valle Imagna, tale sistema di terminazione rappresenta un unicum nelle Alpi. Alquanto insolito, è formato da robusti puntoni poggianti su una trave radice, con o senza tiranti e senza trave di colmo. La sua caratteristica principale è l’utilizzo di lastre di beola (una roccia molto resistente agli agenti atmosferici), dette «piode». Spesse 4-7 cm, vengono messe in opera orizzontalmente e, grazie a correnti disposti a circa 30-40 cm di distanza, creano il manto di copertura. Di conseguenza, la distanza del tetto

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caleido scopio è determinata unicamente dalla differenza di spessore tra i successivi strati di piode e non dalla loro inclinazione. Nella pratica questa tecnica consente di disporre di un tetto assai stabile, nel quale le piode non si spostano assolutamente per effetto dei sovraccarichi della neve o del vento e che, perciò, richiede poca manutenzione. Inoltre, per pesantezza e spessore, si dimostra poco flessibile nel seguire le eventuali articolazioni dei corpi di fabbrica. Alcuni Comuni, per esempio Lavertezzo e Gerra Verzasca, hanno frazioni disseminate sia in piano che sui pendii, poiché i valligiani, simili a nomadi delle terre alte, in primavera e d’estate si recavano negli alpeggi piú elevati, mentre svernavano a quote inferiori. In passato, e in molti casi anche adesso, dove continua la tradizione dell’alpeggio, la transumanza verso i pascoli superiori non si serviva di salariati, ma si esauriva all’interno della famiglia. Cosí, quando si spostavano le mucche e le capre, l’intero paese traslocava in dimore stagionali ad altezze piú elevate. I deliziosi insediamenti rurali di Revöira (850-100 m slm), Frasco (880 m slm) e Odro

(1200-1300 m slm), inseriti negli itinerari etnografici verzaschesi, rappresentano un’interessante testimonianza delle tecniche di (r)esistenza in quota degli alpigiani.

I sentieri della transumanza I maggenghi sul monte di Revöira, suddiviso nei cinque abitati distinti dal basso verso l’alto, di al Mátro, Murísc, ar Cisterna, Mött dal Cisternígn e Scima al Córt, si trovano lungo il tracciato, che riprende uno dei tanti sentieri della transumanza. Qui, una volta, uomini e animali trascorrevano la primavera prima di salire in estate sugli alpeggi di Orgnana, Cansgéll o su quelli delle valli d’Agro e Pincascia. Anche Frasco, situato sul fondovalle, è composto da diversi nuclei demici: Torbora, Cantòm, Pé e Scima er Mota, quest’ultimi due traducibili in «ai piedi» e «in cima al pendio». Un tempo ciascuno di essi era relativamente autonomo e, soggetto all’influenza di diverse famiglie, disponeva del proprio forno per il pane e della propria fontana. Odro, invece, si sviluppa sulle pendici del Pizzo Vogorno, tra il villaggio di Vogorno (500 m) e l’Alpe Bardúghè (1600 m). Al pari degli altri due agglomerati risulta formato

da quattro piccole borgate: Técc Fond, Ticc Zòtt, Sert, Cim’al Prov. Politicamente, la Verzasca è stata prima sottomessa al vescovo di Como, poi amministrata dalle nobili famiglie Muralti e Orelli. Passata ai Visconti, dal 1406 appartiene alla Confederazione elvetica. A chi ne osserva le vicende in una prospettiva storico-artistica ad ampio raggio, la valle rivela tuttora un’identità profondamente lombarda, dovuta sia alla prolungata ingerenza politica di Milano sul territorio, che all’appartenenza del Canton Ticino, fino all’Ottocento, al bacino di competenza della diocesi di Como e di Milano. Passeggiando lungo le strade acciottolate dei villaggi, stupisce il gran numero di dipinti sacri, che affrescati sui muri delle case, nelle piccole edicole votive, nelle cappellette e negli oratori nei dintorni degli abitati, raffigurano Madonne e santi dalle linee

A destra il tetto di una casa tipica, con la copertura realizzata a mezzo di «piode», lastre di beola (una roccia molto resistente agli agenti atmosferici), disposte orizzontalmente. In basso Brione Verzasca, chiesa di S. Maria Assunta. Alcune delle scene della Vita di Cristo, attribuita a un artista noto come Maestro di Campione. XIV sec. essenziali. Queste pitture, realizzate nel Quattrocento in un territorio dipendente dal ducato di Milano, ma decentrato e caratterizzato da una cultura di livello popolare, esprimono la fervida devozione delle comunità e richiamano un’antica usanza, secondo la quale la vista dell’immagine religiosa avrebbe protetto il viandante per l’intera giornata. Gli autori, perlopiú anonimi, dimostrano, nel disegnarle, una predilezione per i colori vivaci e gli schemi derivati, non direttamente, ma per passaggi di seconda o terza mano, dallo stile morbido che

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Reminiscenze carolingie L’eredità romanica nell’architettura delle case in pietra, che formano i tanti borghi sparpagliati in Verzasca, si avverte costantemente. Evolutisi nel tempo, in origine questi nuclei rurali erano costituiti da case di tipo edilizio «monovolumetrico». Occupate da un’unica famiglia, le dimore possedevano struttura e forma semplici, pianta quadrata o rettangolare e due o tre vani sovrapposti, mentre risultavano prive di ambienti destinati agli animali e al lavoro, che trovavano sede perlopiú ai margini del villaggio o in insediamenti appositi. L’architettura delle abitazioni si collega all’evoluzione sia della casa-sala d’età carolingia, composta da un ambiente vasto e allungato, che all’inizio si ripeteva su due piani e piú tardi su tre e presentava esternamente un volume scatolare con muri in pietra e tetto a due falde, sia della casa-torre. Quest’ultima, di poco posteriore, aveva dimensioni piú contenute in pianta e accessi esterni anche ai piani superiori. Il pianterreno, quasi sempre seminterrato, fungeva da deposito, il primo piano da cucina e i successivi da camere. In entrambi i casi, comunque, si tratta di tipologie che appartengono all’edilizia domestica del ceto contadino superiore, che svolgeva particolari funzioni civili nel Comune rurale. Nei secoli successivi alla primitiva cellula abitativa, subentrarono costruzioni piú elaborate, con scale interne, locali organizzati attorno a quest’asse di comunicazione, muri in pietra ad angolari squadrati di derivazione comacina e tetti in beole a lastre di copertura orizzontali. contraddistingue la produzione decorativa milanese, nel terzo/quarto decennio del XV secolo dominata dall’intensissima attività della bottega di Michelino da Besozzo.

Nel solco della scuola lombarda Da questi affreschi esterni, di immediata comunicazione, è decorata anche la chiesa di S. Maria Assunta a Brione Verzasca. Un abile pittore lombardo, attivo nei primi decenni del Trecento, operoso per la piccola nobiltà alpina e prealpina, e chiamato per convenzione Maestro di San Cristoforo, ci ha lasciato sulla destra della porta d’ingresso un

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imponente San Cristoforo. A sottolineare la matrice lombarda delle raffigurazioni restano nell’interno, sulla parete meridionale della chiesa, pure alcune frammentarie scene della Vita di Cristo (Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Battesimo di Cristo, Entrata in Gerusalemme), attribuite a un artista, denominato Maestro di Campione. Sono parte di un ciclo, che continua sulla controfacciata con l’Ultima Cena, e che in origine comprendeva altri episodi andati persi con i rimaneggiamenti del luogo di culto. Alla stessa campagna decorativa e

In alto il villaggio di Sonogno, con la chiesa di S. Maria Lauretana. In basso ancora un’abitazione tradizionale, con il tetto coperto da piode.

alla stessa mano si devono inoltre un Arcangelo Michele sul fianco meridionale della parrocchiale e la cornice cosmatesca nella lunetta del portale d’accesso, dove compare uno stemma, che risulta essere la variante di quello dell’aristocratica famiglia locarnese degli Orelli. Non è pertanto improbabile che le rappresentazioni siano state eseguite poco dopo il 1342, cioè successivamente all’avvento al potere nel Canton Ticino dei Visconti e al conseguente rafforzamento di parte della nobiltà locarnese, tra cui appunto figurano anche gli Orelli. Chiara Parente

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Sulla Francigena, in vista di Roma... itinerari • È stata presentata la guida dedicata

al tratto finale del celebre percorso devozionale, che si snoda da Radicofani sino alla Città Eterna. Un baedeker pensato per il pellegrino moderno e perciò elaborato anche per smartphone e tablet La via Francigena nel Lazio Radicofani, Proceno, Roma Touring Editore-Regione Lazio, 128 pp., ill. col. 12,00 euro

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Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury che effettuò il viaggio fino a Roma nel 990, dobbiamo un resoconto dettagliato e puntuale della sua esperienza lungo la via Francigena. Una cronaca che, in una copia piú tarda, divenne un utile riferimento per i numerosi pellegrini che si mettevano in marcia sulla stessa strada. L’epoca di quei grandi flussi devozionali è da tempo tramontata, ma ha lasciato il passo a un interesse, non soltanto religioso, per le vie della fede, che ha favorito il moltiplicarsi delle iniziative destinate a quanti vogliano percorrere oggi quegli antichi tracciati.

200 km di tesori Ne è un esempio il progetto, appena presentato, di una guida che interessa l’ultimo tratto della Francigena, dalla cittadina toscana di Radicofani fino alla destinazione finale, Roma. Si tratta, dunque, di circa 200 km di percorso, seguendo il quale si possono incontrare realtà paesaggistiche e storicoartistiche di sicuro interesse. La guida è disponibile sia nel tradizionale formato di un volume tascabile, sia come applicazione per dispositivi mobili (smartphone, navigatori, lettori Mp3) e ha una estensione naturale nel sito internet dedicato

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al progetto (www.francigenalazio. it, che, a sua volta, offre link alle istituzioni e alle associazioni coinvolte nell’iniziativa). Pur proponendo una scansione in 9 tappe, l’idea è insomma quella di permettere all’utente la creazione di un itinerario personalizzato, dotandosi della documentazione piú adatta alle esigenze di ciascuno.

L’antica via Cassia Come detto, il percorso offre l’occasione di attraversare un’area non soltanto di grande suggestione, ma anche ricca di testimonianze che abbracciano un orizzonte cronologico assai ampio: basti pensare che siamo nel cuore dell’Etruria tosco-laziale e che il tracciato della Francigena ricalca in larga parte quello della Cassia, cioè di una delle principali strade consolari romane (della quale si possono anche percorrere alcuni tratti di basolato originale). Mentre, per quanto riguarda il Medioevo, lo si può toccare con mano praticamente a ogni tappa: da Proceno a Montefiascone, da Bolsena a Sutri, per non dire di Viterbo, che conserva uno dei piú ricchi patrimoni architettonici e monumentali dell’Età di Mezzo. Un progetto, dunque, che non solo fa rivivere l’itinerario devozionale, ma che ribadisce le potenzialità del nostro territorio. Stefano Mammini gennaio

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L’uomo oltre il mito

In alto il monogramma di Carlo Magno. A sinistra busto reliquiario dell’imperatore. Metà del XIV sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale.

libri • Lo storico

francese Georges Minois propone un nuovo e assai documentato ritratto di Carlo Magno. Personaggio dai mille volti e forse, almeno in parte, frainteso

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uella di Carlo Magno è la storia di un’idea e non soltanto di un personaggio, per quanto cruciale, nella storia europea. Un presupposto da cui prende corpo la ponderosa biografia di Georges Minois. Un volume affascinante – lo stile di scrittura e il taglio scelto dall’autore ne sono prova –, un profilo a tutto tondo, che ricostruisce la vita di Carlo, re dei Franchi, detto Magno, attraverso l’analisi dei documenti, e la volontà di presentare il personaggio al di fuori dei miti che lo circondano.

Padre dell’Europa? Innumerevoli sono le opere sul grande imperatore, che, tuttavia, prendono in esame gli avvenimenti che ne hanno caratterizzato il regno – e, piú in generale, l’epoca carolingia –, con il suo vero o presunto rinascimento, o che presentano il re dei Franchi, capo di un popolo barbaro, come il padre della patria europea. «Il personaggio è quindi suddiviso in piccole parti, parti che a loro volta vengono

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Georges Minois Carlo Magno. Primo Europeo o ultimo Romano Salerno Editrice, Roma, 550 pp. 29,00 euro ISBN 978-88-8402-747-4 www.salernoeditrice.it

talora sparpagliate, il che rende difficile ricostruirne l’esistenza», scrive Minois. L’autore si concentra, invece, sulle esperienze, sull’evoluzione personale di Carlo, sulle situazioni che ha dovuto affrontare, talvolta simultaneamente, pur senza sottrarsi allo studio del mito, oltre che delle fonti. La sua ricostruzione mitico-storiografica, anzi, è attenta e puntuale, ma si spinge oltre, riesce a calarsi nei panni di un biografo contemporaneo dell’imperatore franco, restituendo al personaggio le stimmate di un uomo attraversato da contraddizioni, incertezze, errori, se vogliamo, che contribuiscono a riportarlo il piú vicino possibile alla verità storica.

Un personaggio contraddittorio Se ci limitassimo a seguire il mito, Carlo parrebbe essere tutto e il contrario di tutto: restauratore di un impero dai confini incerti e dalla ancor piú incerta legittimità; fautore degli studi e dunque delle scuole, ma analfabeta; grande amministratore e conquistatore di territori che si spezzettarono ad appena trent’anni dalla sua scomparsa. Un impero di carta, quello di Carlo? Per certi aspetti sí, anche se Minois sottolinea come il sovrano sia stato per molti versi il mallevadore dell’Europa di oggi, seppur involontariamente: egli pensava, infatti, di restaurare l’impero romano. Alessandro Bedini

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Lo scaffale Susanna Peyoronel Rambaldi Una gentildonna irrequieta Giulia Gonzaga tra reti familiari e relazioni eterodosse Viella, Roma, 368 pp., 8 tavv. col.

30,00 euro ISBN 978-88-8334-926-3 www.viella.it

Vissuta dal 1513 al 1566, Giulia Gonzaga fu un personaggio di spicco nel panorama italiano, e del suo spessore dà conto questo corposo profilo biografico, che, tuttavia, non si ferma alla vicenda personale della sola nobildonna, ma rievoca anche il clima politico e culturale dell’Italia del primo Cinquecento. Per quanto riguarda la storia di Giulia, molti furono i capitoli importanti, tra i quali, per esempio, la frequentazione del circolo di intellettuali napoletani che si coagulò, a Napoli, intorno al letterato e teologo spagnolo Juan de Valdés, che alla Gonzaga dedicò anche una delle sue opere, l’Alphabeto christiano

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(1545). Alla contessa di Fondi, però, il rapporto con Valdés non portò soltanto gratificazioni di carattere intellettuale, ma anche l’«interesse» dell’Inquisizione, che non vedeva di buon occhio le speculazioni teologiche di Valdés, sostenitore di una riforma in senso spiritualista della Chiesa romana, che in qualche punto lo avvicinò alle tesi dei riformatori protestanti. Né, alla bella signora, mancarono i momenti di serio pericolo, come quando, nel 1534, sfuggí al rapimento da parte del pirata Khair ad-Din Barbarossa, che avrebbe dovuto consegnarla a Solimano, desideroso di far sua quella donna, divenuta appunto famosa per la sua «infinita beltà». Ma questi, nonostante la loro rilevanza, furono soltanto due dei molti episodi di cui Giulia Gonzaga fu protagonista e che nel volume vengono ripercorsi e analizzati. Carlo Bertelli Piero. Un pittore per due nemici Skira, Milano, 52 pp., VIII tavv. col.

9,00 euro ISBN 978-88-512-1561-7 www.skira.net

Federico da Montefeltro, duca di Urbino, e Sigismondo Malatesta, signore

e identificazione da alcuni avanzati in passato. Alberto Cuomo e Gerardo Picardo (a cura di) Il maestro del sogno Franco Cuomo tra esoterismo e letteratura

di Rimini, sono a noi noti, almeno in termini estetici, soprattutto grazie ai ritratti che di loro dipinse Piero della Francesca. Tra i maggiori protagonisti della scena politica italiana della seconda metà del Quattrocento, i due, nella realtà, furono acerrimi nemici, acuendo la rivalità che già da tempo separava le rispettive famiglie. E, allora, perché il grande pittore di Sansepolcro accettò di lavorare per entrambi? E in quali circostanze maturò la realizzazione delle due opere? A questi (e altri) quesiti risponde Carlo Bertelli con questo pamphlet, nato dal testo scritto per una esposizione incentrata sui due dipinti che avrebbe dovuto tenersi alla Pinacoteca di Brera e non piú realizzata. Una lettura gradevole e ricca di notizie, che inquadra storicamente e criticamente i ritratti, illustrando anche le ragioni che hanno indotto a cancellare i dubbi sulla loro paternità

con saggi di Gustavo Raffi e

Pierfranco Bruni, Tipheret, Roma, 219 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-6496-100-2 www.tipheret.org

il lettore e ha il pregio di volgarizzare, nel senso piú alto del termine, gli argomenti di volta in volta affrontati. Una qualità che, naturalmente, caratterizza anche i saggi di argomento non medievale, nei quali, comunque, non sono pochi i riferimenti all’età antica. Claudio Gamba (a cura di) Giulio Carlo Argan Intellettuale e storico dell’arte Electa, Milano, 544 pp., ill. b/n

44,00 euro ISBN 978-88-370-9101-9 www.electaweb.it

Scittore (ma non solo), Franco Cuomo ha frequentato a piú riprese il mondo medievale e questa raccolta ne offre una testimonianza concreta, soprattutto nella sua prima sezione. Nella prima parte del volume si possono infatti leggere saggi che spaziano dalle vicende dell’Ordine templare a quelle dei crociati, dall’impero di Carlo Magno alla leggenda del Graal. La scrittura di Cuomo – che negli anni passati anche i lettori di «Medioevo» hanno potuto apprezzare – cattura

La segnalazione di questo volume in questa sede può, a prima vista, sembrare fuori posto: Argan, infatti, rivolse i suoi interessi di studioso e critico soprattutto ad ambiti lontani da quello del Medioevo. Ma la ragione di questa «forzatura» è presto detta e forse facilmente intuibile: al di là del campo di interesse specifico, la lezione di Giulio gennaio

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Carlo Argan rimane un punto di riferimento fondamentale e contiene dettati di carattere universale, capaci di andare oltre i confini delle epoche e degli stili. Senza contare gli altrettanto decisivi contributi all’evoluzione della museologia, le cui linee ispiratrici possono ben essere ritenute trasversali. Quella di Argan è stata, insomma, una figura esemplare di storico dell’arte, tratteggiata nel volume da una cinquantina di interventi, tra i quali non mancano, naturalmente, anche testimonianze sull’altrettanto importante esperienza politica del grande studioso.

DALL’ESTERO Richard Hodges Dark Age Economics A New Audit

Bristol Classical PressBloomsbury, London, 160 pp., ill. b/n

18,99 GBP ISBN 978-0-7156-3679-4 www.bloosmburyacademic.com

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Trent’anni dopo Dark Age Economics: the origins of towns and trade, Richard Hodges torna ad affrontare il tema dell’economia medievale, proponendo, come recita appunto il sottotitolo del nuovo volume, una verifica (Audit) delle sue ipotesi di partenza. Il riscontro si basa in primo luogo sui dati offerti dalla ricerca archeologica – che comprendono anche le acquisizioni offerte dalle indagini svolte in Italia, a San Vincenzo al Volturno, dove Hodges ha a lungo lavorato –, integrati, per esempio, da confronti con modelli etnografici, come nel caso del capitolo che prende le mosse dal Kula Ring, cioè da uno scambio simbolico di doni praticato da comunità indigene delle Isole Trobriand (Nuova Guinea). Un’attenzione particolare è poi riservata alla Chiesa, che, anche in campo economico, fece sentire un peso decisamente «temporale». Nel complesso, dunque, quella di Hodges è una disamina puntuale e articolata, capace di offrire modelli interpretativi di sicuro interesse. (a cura di Stefano Mammini)

Profeti in patria

musica •

Invertendo una tendenza allora assai diffusa, Johannes Ockeghem e Pierre de La Rue non cercarono gloria e fortuna lontano dalle natie Fiandre. E, tra le mura di casa, scrissero composizioni di notevole pregio

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ppartenenti entrambi alla florida scuola polifonica fiamminga, Johannes Ockeghem e Pierre de La Rue, oggetto della registrazione Ockeghem-De La Rue. Requiem (CC72541, 1 CD, distr. Milano Dischi), si distinguono da molti loro connazionali per aver svolto gran parte della propria attività nelle Fiandre, preferendo ingaggi nelle corti nord-europee, piuttosto che cercare fortuna presso le prestigiose cappelle di corte ed ecclesiastiche italiane. I due fiamminghi sono accomunati anche dall’aver messo in musica, polifonicamente, due tra i primi esempi di Messa da Requiem, nel corso del XV secolo. Un ciclo di brani che, a questo stadio della sua evoluzione, non si presenta ancora nella successione canonica che si ritrova nei secoli successivi. Comparando le due composizioni, piú arcaica appare la costruzione polifonica di Ockeghem, tanto da lasciar pensare che si tratti quasi di un’opera incompiuta nella sua elaborazione; infatti, a dispetto della sua scrittura a quattro voci, nella maggior parte dei brani che la costituiscono, prevalgono i passaggi a due o tre voci, relegando la presenza simultanea delle quattro voci a rari momenti. Con de La Rue, al contrario, le quattro voci procedono simultaneamente, sia sfruttando il linguaggio polifonico-imitativo fedele ai rigorosi canoni della scuola polifonica fiamminga, sia seguendo un andamento accordale in cui emergono sonorità affascinanti. La Cappella Pratensis, gruppo vocale olandese formato da otto voci maschili, è, per estrazione geografica e repertorio eseguito, quanto di meglio si possa avere oggi nel campo dell’interpretazione della polifonia franco-fiamminga del XV e XVI secolo, nella quale si sono distinti negli ultimi anni con validi progetti discografici e numerosi riconoscimenti internazionali. Franco Bruni

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caleido scopio

Musiche dalla laguna musica • Tra XVI e XVII secolo Venezia fu uno dei

principali poli artistici d’Europa. E fra i musicisti che si abbeverarono alla fonte ispiratrice dei Gabrieli o di Monteverdi, vi furono anche numerosi autori tedeschi A sinistra un ritratto del compositore e organista tedesco Hans Leo Hassler (1564-1612), che dopo essere stato allievo di Andrea Gabrieli a Venezia, fece ritorno in Germania, dove operò ad Augusta, a Norimberga e alla corte di Dresda.

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o sviluppo musicale in area germanica nel corso del Seicento non sarebbe stato lo stesso senza l’intermediazione di Hans Leo Hassler, un musicista di Norimberga che, all’età di vent’anni, ebbe il privilegio – siamo nel 1584 – di approfondire gli studi musicali, iniziati col padre organista Isaac, a Venezia, uno degli ambienti piú vivaci e innovativi in questo campo. Nelle chiese della laguna, e in particolare nella basilica di S. Marco, grazie ad Adrian Willaert prima e ad Andrea e Giovanni Gabrieli poi, si era dato inizio a una gloriosa tradizione di musica policorale, con uso di cori vocali e strumentali, diffusasi tanto nella Penisola che in Europa. Hassler deve dunque la sua fortuna di compositore agli insegnamenti di Andrea Gabrieli e all’apprendimento della nuova tecnica, di cui la sua Missa Octava (Dux 0750, 1 CD), dedicata al mecenate Ottaviano II Fugger di Augusta, è testimonianza esemplare. La registrazione proposta dalla Dux ci fa assaporare uno stile policorale, in cui il trattamento del doppio coro, le linee melodiche, richiamano gli

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influssi stilistici dei Gabrieli, sebbene il tono risulti piú pacato rispetto alle loro maestose sonorità. Oltre ai brani canonici dell’Ordinarium Missae, ritroviamo quelli del Proprium Missae (graduale, offertorio, communio, ecc.), in cui peculiare è l’attenzione per il contesto poetico, come nello splendido graduale Ad Dominum cum tribularer. Buona è l’interpretazione del direttore Zygmunt Magiera, alla guida dell’Octava Ensemble, uno dei gruppi polacchi piú promettenti tra quelli di recente formazione. Filologica la scelta di affidare le otto parti del doppio coro a otto solisti, mantenendo quindi una trasparenza di suono che ben si addice a queste musiche.

Un seguace fedele All’eredità musicale di Hassler si riallaccia la registrazione dedicata a Heinrich Schütz e ad altri compositori italiani della prima metà del XVII secolo, Jauchzet dem Herren alle Welt (Raumklang, RKap 10110, 1 CD), che, oltre a presentarci un autore capace di portare ai massimi livelli gli insegnamenti dello stile gennaio

MEDIOEVO


veneziano – grazie a due soggiorni di studio in laguna –, ci offre un assaggio dello stile di Giovanni Gabrieli, Claudio Monteverdi e dei meno noti Carlo Pallavacino e Marco Giuseppe Peranda. Schütz adotta fedelmente lo stile di Gabrieli e Monteverdi, con il gusto particolare per il gioco dei contrasti di masse corali-strumentali, introdotto a S. Marco nel XVI secolo e qui riproposto nella sua produzione sacra policorale (salmi, mottetti, concerti sacri).

Maestro di cappella per l’Elettore Se a Hassler si deve un timido tentativo di introduzione del genere policorale, con Schütz lo slancio creativo prende una piega inusitata, in cui anche l’adozione del genere concertato raggiunge un’apoteosi di suoni, colori e impasti strumentali, ottenuti grazie alla nutrita orchestra dell’Elettore di Sassonia, presso il quale il compositore rivestí la carica di Kappelmeister. Sotto la direzione di Norbert Schuster, l’ensemble formato da fiati e archi della Cappella Sagittariana Dresden, si conferma tra i gruppi di maggior rilievo dediti alla musica del Cinque-Seicento. Senza dimenticare il complesso vocale Amarcord, in cui emerge la bravura dei solisti: un gruppo di grande versatilità, sia nel repertorio antico, che in quello contemporaneo. L’ultima proposta, La Musica per San Rocco (ARTS 47762-8, 2 CD), è dedicata all’opera del già piú volte ricordato organista veneziano Giovanni Gabrieli. In queste musiche, che «ricostruiscono» musicalmente le celebrazioni per San Rocco, emerge il connubio tra strumenti a fiato e voci tipico della produzione sacra veneziana del Cinquecento, in un variopinto amalgama di sonorità ed effetti sonori, che esplodono, letteralmente, nel Magnificat finale per 33 voci divise in 7 cori. E straordinaria è la resa musicale dei gruppi Melodi Cantores e La Pifarescha, che l’organista Elena Sartori dirige magistralmente e con sensibilità. F. B.

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Missione compiuta musica • Cecilia Bartoli ci offre l’ennesimo

saggio delle sue straordinarie qualità vocali. Cimentandosi questa volta con il repertorio barocco del compositore veneto Agostino Steffani, di cui interpreta una significativa scelta di brani operistici

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tupefacente come sempre, impeccabile nella tecnica come poche, oltremodo generosa nel regalare interpretazioni memorabili, Cecilia Bartoli si conferma ancora una volta una interprete d’eccezione del repertorio barocco con Mission, il disco dedicato alla figura di Agostino Steffani (Decca 478 4732, 1 CD, distr. Universal Music Italia). Nato a Castelfranco Veneto nel 1654, Steffani iniziò la sua carriera come cantore in S. Marco a Venezia. Fu quindi chiamato alla corte di Ferdinando di Baviera a Monaco, dove approfondí gli studi musicali e ottenne, al contempo, la nomina di abate di Lipsia. Le prime partiture, legate alla corte dell’elettore di Baviera, gli giovarono il titolo di direttore della musica, ma furono le prime opere a farlo entrare nell’olimpo dei compositori piú ricercati dalle corti d’Europa. Nell’oculata scelta di brani, tra i piú significativi della produzione operistica di Steffani, emerge un interessantissimo mélange di stilemi compositivi, che vanno dal primo Barocco al Barocco piú maturo. Notevoli sono le arie di guerra in cui la Bartoli gareggia con le trombe, come incredibilmente patetici risultano altri brani in cui l’artista riesce a incantare anche attraverso un filo di voce, accompagnato da strumenti obbligati. Alla buona riuscita della registrazione contribuisce il sopranista Philippe Jaroussky, che, con la sua voce delicatissima, si accompagna alla Bartoli in quattro superbi duetti. Quale che sia il tono richiesto dal contesto lirico, la voce esuberante della cantante romana brilla sempre al massimo, dimostrandosi, nei 25 brani dell’antologia, un’autentica eroina ed eccellente interprete. È lei l’elemento trainante dell’ensemble I Barocchisti, diretto da un Diego Fasolis che dà prova, ancora una volta, del suo grande talento di specialista del repertorio sei-settecentesco. F. B.

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