Medioevo n. 191, Dicembre 2012

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Mens. Anno 16 n. 12 (191) Dicembre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 12 (191) dicembre 2012

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sommario

Dicembre 2012 ANTEPRIMA restauri Leonardo senza segreti Il capolavoro sospeso

6 8

mostre Variazioni sul tema Quando la miniatura si fa arte I tesori del venerabile Federico Un settennato decisivo

10 13 15 16

appuntamenti Auguri di fuoco Nel paese dei campanelli L’Agenda del Mese

20 21 26

collezionismo Da Gregorio a Francesco

22

luoghi

immaginario

i borgia e la musica Echi di Spagna per il trono di Pietro

Divina Commedia

Beatrice, Matelda e le altre di Chiara Mercuri

di Claudia Perassi

Il viaggio dell’abate Emo Dalla Frisia con furore 32

di Franco Bruni 50

50 Monete come amuleti Liberi dal male con un soldo

STORIE

di Dick E.H. de Boer e Aart Heering

COSTUME E SOCIETÀ

60

CALEIDOSCOPIO cartoline Piemonte nobile e cortese

106

libri Il valore delle microstorie Lo scaffale

109 110

musica Musiche per i potenti 112 Un compositore instancabile 112 Frottole e Vespri 114

Dossier

i magi: una storia medievale di Francesco Colotta

32

protagonisti Gregorio di Tours

Quel «manifesto» dei secoli bui di Elena Percivaldi

42

dimensione guerra Il fuoco greco

Le fiamme dell’angelo di Flavio Russo

88

94

67


Ante prima

Leonardo senza segreti

restauri • L’Adorazione dei Magi del maestro vinciano ha lasciato gli Uffizi per

essere affidata alle cure dell’Opificio delle Pietre Dure. E le accurate analisi fin qui condotte rivelano particolari importanti sulla realizzazione dell’opera

I

l dossier del numero di «Medioevo» che state sfogliando è dedicato alla storia dei Magi (vedi alle pp. 67-87) e anche l’autore dell’articolo ricorda una delle rappresentazioni piú celebri dell’omaggio al Bambino reso dai tre re venuti dall’Oriente: la grande Adorazione dei Magi a cui Leonardo da Vinci cominciò a lavorare nel 1481. Sebbene incompiuto, il dipinto, commissionato dai canonici regolari di Sant’Agostino del monastero fiorentino di S. Donato a Scopeto, è considerato uno dei capolavori del maestro ed entrò a far parte della collezione degli Uffizi nel 1670. Fu quindi trasferito nella Villa di Castello, ma tornò definitvamente alla Galleria nel 1794. Nel novembre 2011 l’opera ha affrontato un nuovo viaggio, che l’ha portata alla Fortezza da Basso, nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure. Qui ha avuto inizio una campagna di indagini diagnostiche, da poco ultimata, condotta in funzione dell’intervento di restauro prima

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di cui l’Adorazione sarà oggetto. La scelta di sottoporre ad approfonditi accertamenti l’opera non è nata unicamente da esigenze di carattere tecnico, ma è stata dettata anche dal desiderio di poter sciogliere i non pochi interrogativi che da sempre circondavano il dipinto. E, in questo senso, i dati acquisiti hanno fornito risposte in piú d’un caso decisive.

Il verdetto della Fluorescenza Per esempio, a seguito di precedenti indagini, era stata avanzata l’ipotesi che l’Adorazione dei Magi fosse un originale attribuibile a Leonardo unicamente per ciò che concerne il disegno preparatorio e che la versione che oggi se ne può ammirare fosse l’esito di una ridipintura piú tarda. Gli esami condotti con la tecnica della Fluorescenza X hanno invece dimostrato – come ha riferito Cecilia Frosinini, vice-direttore dell’OPD – che «tutte le stesure brune presenti sul dipinto siano state dopo

realizzate con una miscela in cui le percentuali degli elementi chimici che la compongono sono uguali per oggetti omogenei. Prova quindi del fatto che si trattò di un’unica fase di realizzazione dato che l’artista utilizzò la stessa “partita” di pigmenti che aveva in quel momento a disposizione in bottega. Se ci fosse stato un reintervento (di Leonardo stesso in una fase successiva o, a maggior ragione, di un altro artista più tardo) queste percentuali non potrebbero essere le stesse in quanto, pur nel voler ottenere lo stesso colore, inevitabilmente le percentuali chimiche sarebbero variate».

Dieci assi di pioppo Indicazioni importanti sono venute anche sul fronte dello stato di conservazione del quadro e, soprattutto, del supporto ligneo scelto da Leonardo: l’Adorazione fu dipinta su una grande tavola (246 x 243 cm), composta da dieci assi di pioppo di qualità mediocre, che hanno avuto e hanno la tendenza a incurvarsi, e potrebbero perciò causare distacchi di colore. Per questo motivo, fra i provvedimenti previsti, vi è la realizzazione di una cornice dotata di una scatola climatica posteriore, cosí da garantire una maggiore stabilità del supporto. Quando tornerà al suo posto nella Galleria degli Uffizi, l’Adorazione dei Magi avrà dunque recuperato la sua vividezza originaria e potrà sopportare meglio lo scorrere del tempo. Stefano Mammini dicembre

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L’Adorazione dei Magi, il dipinto su tavola iniziato da Leonardo da Vinci nel 1481 e rimasto incompiuto. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nelle foto sulle due pagine, l’opera prima dell’intervento di restauro e alcuni particolari, documentati da immagini fotografiche a raggi ultravioletti e positive. prima

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dicembre

dopo

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Ante prima restauri • Uno dei

vanti dell’Accademia Carrara di Bergamo, la Madonna con il Bambino di Andrea Mantegna, ha recuperato l’originario splendore. E dal suo restauro sembra emergere un piú sicuro inquadramento cronologico

prima

Il capolavoro sospeso D

opo quattro anni di assenza, la Madonna con il Bambino di Andrea Mantegna dell’Accademia Carrara di Bergamo torna a essere esposta al pubblico, a conclusione dell’intervento di restauro progettato e realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Formatosi nella bottega del padovano Francesco Squarcione, il Mantegna elaborò uno stile originalissimo, contraddistinto dalla linea netta e da un intenso chiaroscuro che accentuano i tratti anatomici delle sue figure. Un’arte,

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quella dell’artista mantovano, che unisce brillantezza cromatica e prospettiva architettonica su un impianto di chiara matrice archeologica. Visto il soggetto e le dimensioni contenute, il piccolo dipinto della Carrara era probabilmente destinato alla devozione privata.

Il dibattito sulla datazione Tuttora incerta è la data della sua realizzazione, collocata dalla critica in periodi diversi dell’attività di Mantegna, in un

arco di tempo molto ampio; negli ultimi anni, però, ha raccolto un significativo consenso l’ipotesi di porre cronologicamente l’opera tra il 1475 e il 1480, all’apice della stagione mantovana del pittore rinascimentale. D’altronde i lavori non datati di Mantegna costituiscono un vero rompicapo, dal momento che l’artista raggiunse uno stile definito e sicuro a un’età straordinariamente precoce e dal punto di vista tecnico affinò i suoi metodi, perfezionandoli all’estremo, senza tuttavia mai dicembre

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Lo stato di conservazione del dipinto, infatti, era monitorato dall’Opificio delle Pietre Dure sin dagli anni Novanta, soprattutto per la situazione critica dell’ancoraggio della tela al telaio. Il progetto di restauro e successiva prevenzione, affidati all’istituto fiorentino, hanno definito una serie di soluzioni assolutamente innovative. Dopo un capillare e minuzioso intervento per recuperare le numerose lacune, attraverso l’inserimento di frammenti di tela dello stesso filato del materiale originale, al fine di ridare solidità al supporto, sono stati rimossi gli strati alterati aggiunti durante i secoli, per passare alla fase finale di ripristino cromatico. Ma la vera novità riguarda l’allestimento in una teca del dipinto, la cui tela, disancorata dal telaio, è sospesa. La tensione viene controllata costantemente, tramite un sistema a molle, regolate da dinamometri applicati lungo nuovi margini saldati ai bordi della tela antica. L’opera è esposta nella Galleria dell’Accademia di Firenze fino al 9 dicembre e, successivamente, sarà riportata a Bergamo, nel Palazzo della Ragione, sede espositiva temporanea dell’Accademia Carrara, (la cui sede storica è attualmente in corso di restauro). Mila Lavorini

dopo Sulle due pagine la Madonna con il Bambino di Andrea Mantegna, prima e dopo l’intervento di restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. 1475-80. Prima di tornare all’Accademia Carrara di Bergamo, alle cui collezioni appartiene, l’opera è esposta a Firenze, nelle Galleria dell’Accademia. cambiarli sostanzialmente. La Madonna con il Bambino, che induce un sottile senso di mistero, entrò nelle collezioni dell’Accademia di Bergamo nel 1851, grazie al lascito del collezionista Carlo Marenzi: è un capolavoro raffinato, realizzato con una tecnica rara e particolare, che prevede una sofisticata preparazione e conferisce alla superficie pittorica un effetto chiaro e poroso, vicino agli esiti della pittura murale. Si tratta, infatti, di una tempera su tela, un caso eccezionale di «tempera magra», non verniciata, che ha mantenuto

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effettivamente il risultato artistico ricercato dal suo autore, nonostante i danni provocati dal tempo.

Fragilità di un dipinto Negli ultimi decenni, proprio la natura fragile del delicato manufatto ha indotto gli organizzatori ad astenersi dal concederne il prestito per l’importante occasione di studio offerta dalle mostre di Londra nel 1992, dalle esposizioni italiane nel V centenario della morte di Mantegna del 2006 e della mostra del Louvre, svoltasi tra il 2008 e il 2009.

Dove e quando

Esposizione della Madonna con il Bambino di Andrea Mantegna Firenze, Galleria dell’Accademia fino al 9 dicembre Orario ma-do, 8,15-18,50; lu chiuso Info tel. 055 2388612; e-mail: galleriaaccademia@polomuseale. firenze.it; www.uffizi.firenze.it Accademia Carrara Bergamo, Palazzo della Ragione Orario ma-ve, 9,30-17,30; sa-do, 10,00-18,00; chiuso lu non festivi, 25 dicembre, 1° gennaio Info tel. 035 399677; www.accademiacarrara.bergamo.it

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Ante prima

Variazioni sul tema

mostre • Giovanni Bellini, uno dei grandi della pittura quattro-cinquecentesca,

si cimentò piú volte con la Pietà, elaborandone numerose versioni. Che denunciano una matrice comune, quella di un’immagine apparsa in Oriente nel XII secolo viene adottata anche in Occidente e diviene l’archetipo da cui parte l’evoluzione del tema della Pietà. I monaci certosini di S. Croce in Gerusalemme a Roma, una delle piú importanti chiese romane, sostenevano di possedere l’esemplare originale della Pietà, dispensatrice di miracoli sin dai tempi di Gregorio Magno.

Un’icona leggendaria

N

on c’è forse iconografia piú significativa di quella della Pietà per comprendere le differenze nel rapporto con l’arte sacra tra Oriente e Occidente, due mondi che presero strade diverse proprio verso la fine dell’epoca medievale. Nei dipinti bizantini i personaggi sono l’immagine assoluta, sacra e immutabile del mondo divino. Le icone orientali erano immagini di culto, che avevano la pretesa di essere antichissimi ritratti autentici dei santi. La loro caratteristica era l’immutabilità: il loro potere miracoloso si poteva trasmettere dall’una all’altra solo attraverso l’esatta riproduzione dell’«originale».

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Cristo in pietà fra la Vergine e San Giovanni dolenti e due angeli. Maestro veneziano del XIV sec. Torcello, Museo Provinciale. Il Cristo come uomo dei dolori, in greco Akra Tapeinosis (Somma Umiliazione), è una rappresentazione devozionale non narrativa, che appare in Oriente dal XII secolo, in connessione con la liturgia della Pasqua. Nelle icone, il Cristo è raffigurato frontalmente, a mezzo busto, con le stimmate e la ferita sul costato, gli occhi chiusi, sullo sfondo del legno della croce o di un colore neutro. Verso la fine del XIII secolo questa immagine

Si trattava ovviamente di una leggenda perché la piccola icona a mosaico, successivamente incastonata in un sontuoso armadio reliquiario, era stata eseguita a Bisanzio verso l’anno 1300. Tuttavia, essa consolidava la fama di un «originale» che si era canonizzato attraverso gli esemplari circolanti ovunque. Uno di questi è esposto nella mostra del museo Poldi Pezzoli: si tratta di un esemplare antichissimo, realizzato da un maestro veneziano agli inizi del XIV secolo e oggi conservato al Museo di Torcello. Nel XIII e XIV secolo, infatti, Venezia, grazie al suo rapporto privilegiato con l’Oriente, svolse un ruolo diretto nella diffusione dei modelli bizantini e anche i pittori veneziani si adeguavano a quella forma stilistica. Nell’esemplare di Torcello l’iconografia orientale si adatta alla sensibilità occidentale con l’aggiunta dei dolenti. Maria e San Giovanni Evangelista sono figure connesse all’episodio storico della Crocefissione: in Italia, infatti, gli Ordini mendicanti, domenicani e francescani stavano promuovendo l’illustrazione della Passione quale racconto narrato. In Occidente, cioè, il potere conferito all’immagine sarà dicembre

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sua lunga carriera, era destinato a divenire il pittore piú importante della sua città. La mostra si concentra sui primi quindici anni della sua attività (1455-1470) e sull’attenzione che l’artista dedicò a questo tema: lo riprodusse cosí spesso e con tali e tante varianti, di volta in volta scegliendo modelli e riferimenti diversi, che si può percorrere lo straordinario sviluppo stilistico di questo genio focalizzandosi esclusivamente sulle sue Pietà. Nell’Imago Pietatis del Museo Poldi Pezzoli, realizzata intorno al 1457, Giovanni Bellini riprende l’antica iconografia dell’Akra Tapeinosis – il Cristo morto con le braccia incrociate e un’espressione di dolente tristezza –, che probabilmente aveva potuto conoscere proprio da questo dipinto di Torcello o da altre opere, bizantine o veneziane, che circolavano a Venezia nel Quattrocento.

Alle prime luci del giorno

quello drammatico, di narrazione di una storia. L’icona bizantina conservata a Roma, il cui modello era diffuso attraverso molti esemplari identici, era ancora considerata un riferimento attuale a Venezia alla metà del Quattrocento, quando muoveva i primi passi come pittore Giovanni Bellini. Egli apparteneva a una dinastia di pittori: il padre Jacopo (1400-1470) aveva iniziato come artista gotico, ma ben presto era entrato in contatto con l’ambiente fiorentino, mente il primogenito Gentile (1430-1507) fu un attento cronista della città. Giovanni (1435 circa-1516), con la

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L’Imago Pietatis di Giovanni Bellini. 1457. Milano, Museo Poldi Pezzoli. Il pittore veneziano riprende l’iconografia dell’Akra Tapeinosis – il Cristo morto con le braccia incrociate e un’espressione dolente – che aveva probabilmente potuto conoscere grazie al dipinto di Torcello. Dove e quando

«Giovanni Bellini. Dall’icona alla storia» Milano, Museo Poldi Pezzoli fino al 25 febbraio 2013 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso martedí Info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it

Ma il Cristo è immerso in un tempo, le prime luci dell’alba, e in uno spazio, un paesaggio roccioso, con un sentiero che si snoda lungo uno specchio d’acqua: si è calato cioè nella storia. Proprio grazie alla fedeltà a un modello bizantino, cogliamo con maggiore nettezza la forza innovativa di questa immagine, che sta tutta nell’interpretazione. In questa primizia della sua produzione artistica il pittore racchiude in nuce tutta la sua poetica successiva, nella concezione lirica del paesaggio – in cui sono descritti con precisione l’ora del giorno e la stagione –, dove il colore diviene in assoluto l’elemento dominante. Le altre tre Pietà in esposizione sono una catena di idee pittoriche sperimentate su un unico soggetto e che mostrano l’evolversi del tema attraverso la variante dei dolenti. Nel dipinto dell’Accademia Carrara la Vergine e San Giovanni fiancheggiano il Cristo morto e lo sorreggono come nel racconto della Deposizione. Il formato verticale,

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il fondo scuro e le lettere greche ci assicurano che è ancora orientale la griglia di partenza, ma il pittore si concentra ora sulla poetica degli affetti e l’icona si carica di emozione e si drammatizza. Nei dipinti di Venezia e Rimini gli angeli sostituiscono i dolenti, invitando il fedele a meditare sulla simbologia eucaristica del corpo di Cristo. Il pathos è sempre piú forte, e nel dipinto di Rimini la distanza col fedele si annulla grazie all’espediente delle gambe di Cristo che scivolano fuori dal sepolcro e invadono lo spazio dello spettatore. Sono immagini destinate alla devozione privata, realizzate per umanisti, come Rainerio di Lodovico Migliorati, uomo di fiducia di Sigismondo Pandolfo Malatesta e committente del Cristo in Pietà sorretto da quattro angeli del Museo di Rimini. Intellettuali che abbracciano la devotio moderna, una nuova formula di spiritualità, piú intima e solitaria rispetto alla religiosità collettiva medievale, che necessitava di nuovi dipinti di fronte a cui meditare. Lavinia Galli Michero

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Tre versioni della Pietà realizzate da Giovanni Bellini ed esposte nella mostra allestita al Museo Poldi Pezzoli. Le opere sono la testimonianza della sperimentazione attuata dall’artista, il quale conserva come riferimento il modello di partenza, quello dell’Akra Tapeinosis, e lo sviluppa soprattutto attraverso l’evoluzione nella composizione delle figure dei dolenti

che affiancano il Cristo. A sinistra Cristo in pietà tra la Vergine e San Giovanni Evangelista. 1455-70. Bergamo, Accademia Carrara. A destra Cristo in pietà sorretto da angeli. 1460-70. Venezia, Museo Correr. In basso Cristo morto sorretto da quattro angeli. 1465-75. Rimini, Museo Comunale.

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Quando la miniatura si fa arte

mostre • Una grande rassegna

allestita a Monaco presenta i capolavori della produzione miniaturistica tedesca, dall’età carolingia all’epoca romanica. E propone anche un ricco e vivace apparato multimediale

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razie a settantadue codici di straordinario valore, appartenenti al fondo della Biblioteca Nazionale Bavarese (Bayerische Staatsbibliothek), e a tre preziosissimi volumi provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Bamberga (Staatsbibliothek Bamberg), la mostra «Pracht auf Pergament» («Splendori su pergamena») presenta un’ampia rassegna dei piú antichi e preziosi testimoni dell’arte della miniatura tedesca, a partire dall’epoca carolingia, passando per la produzione artistica ottoniana fino all’arte romanica. Questi 75 manoscritti fanno parte del novero delle piú alte prove artistiche e culturali della propria epoca, e i codici di lusso di epoca ottoniana rappresentano il fulcro piú prezioso – e universalmente famoso – del ricco fondo della Biblioteca Nazionale Bavarese. Trattandosi di oggetti estremamente fragili, oltreché di grandissimo valore, questi volumi non abbandonano praticamente mai le cassaforti nelle quali sono custoditi normalmente. L’esposizione è dunque un’occasione irripetibile per chi voglia ammirare in originale gli splendidi testimoni millenari della cultura tedesca ed europea.

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Il manoscritto piú antico risale all’epoca dell’ultimo duca bavarese della dinastia degli Agilolfingi. I codici carolingi prodotti a Salisburgo, Tegernsee e Freising – allora tra i centri piú famosi per l’arte della miniatura – testimoniano al meglio l’alta qualità della produzione artistica del nono secolo. L’epoca degli imperatori della casata di Sassonia – da Ottone il Grande (912–973) fino a Enrico II il Santo (973–1024) – è uno dei periodi piú importanti per la prima miniatura occidentale, che, proprio in quegli anni, raggiunge una posizione autonoma tra le arti. In particolare, i grandiosi ritratti di monarchi – che uniscono sfera sacra e profana, documentando la sacralità della dignità imperiale – vanno annoverati tra le maggiori conquiste artistiche di quel tempo.

L’Apocalisse di Bamberga

Evangelistario di Enrico II. Reichenau, probabilmente tra il 1007 e il 1012. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

Furono i principi secolari, cosí come quelli della Chiesa, a incaricare i migliori scriptoria e centri di miniatura dell’epoca della realizzazione di manoscritti liturgici. Tali evangeliari, evangelistari e sacramentari furono riccamente ornati con splendide miniature dai colori vivi e oro. Le loro preziose legature furono decorate con rilievi d’avorio, gemme e cammei, che talora risalgono all’antichità

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Ante prima oppure all’epoca bizantina e carolingia. Provengono dai conventi dell’isola di Reichenau, dove durante il regno di Ottone III e Enrico II ebbero sede gli scriptoria imperiali, quattro codici di fama mondiale esposti in mostra: l’Evangeliario di Ottone III, l’Evangelistario di Enrico II, l’Evangeliario del Duomo di Bamberga e la cosiddetta «Apocalisse di Bamberga» (volumi che l’UNESCO, nel 2003, ha inserito nel Registro della Memoria del Mondo).

Dall’arte ottoniana al Romanico Anche Regensburg fu un importante centro di produzione di manoscritti liturgici riccamente ornati, come testimoniano l’Evangeliario della badessa Uta e il Sacramentario di Enrico II. L’arte della miniatura ottoniana sopravvisse ai sovrani sassoni fino alla dinastia salica di Franconia, dunque non è possibile stabilire con precisione quando si verificò il passaggio dall’arte ottoniana a quella romanica. Grazie ad altri esemplari manoscritti

riccamente miniati si riesce a illustrare al meglio da un lato la continuità che si riscontra nell’arte miniaturistica dell’ XI secolo – periodo che va dai sovrani salici fino all’inizio del periodo romanico –, dall’altro lo sviluppo dell’arte libraria romanica e il suo periodo di fioritura massima fino all’imperatore Federico I di Hohenstaufen detto il Barbarossa (1122-1190). Alcuni dei manoscritti esposti possono essere sfogliati, in modo da mostrare un maggior numero di fogli di questi splendidi esemplari, e, all’indirizzo http://pracht-aufpergament.digitale-sammlungen. de/, è possibile consultare tutti i

codici selezionati per la mostra. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito internet della Biblioteca Nazionale Bavarese: www.bsb-muenchen.de Béatrice Hernad

Dove e quando

«Splendori su pergamena. Tesori della miniatura dal 780 al 1180» Monaco, Hypo-Kulturstiftung fino al 13 gennaio 2013 Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 Info www.hypo-kunsthalle.de

In alto fuga della Donna dell’Apocalisse, dall’Apocalisse di Bamberga. 1010 circa. Bamberga, Staatsbibliothek. Qui accanto piatto anteriore della legatura dell’Evangeliario di Ottone III. 1000 circa. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek. A sinistra piatto anteriore della legatura dell’Evangelistario di Enrico II. Probabilmente tra il 1007 e il 1012. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

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I tesori del venerabile Federico mostre • Uno dei personaggi

illustri della Trento medievale, il principe vescovo Federico Vanga, è il protagonista di una rassegna dedicata alla produzione artistica del suo tempo e al ruolo decisivo del presule nella costruzione della cattedrale di S. Vigilio

I

l Museo Diocesano Tridentino rende omaggio a Federico Vanga, principe vescovo di Trento tra il 1207 e il 1218, nonché ispiratore della cattedrale di S. Vigilio, di cui ricorre l’VIII centenario della fondazione. Discendente da una nobile famiglia della Val Venosta, imparentata con le piú potenti dinastie dell’area alpina, Vanga – che l’imperatore Federico II definí «nostro consanguineo» – negli anni del suo episcopato giocò un ruolo decisivo sul piano pastorale, politico, economico, legislativo. Non meno importanti furono le iniziative promosse in ambito artistico:

edifici, codici miniati, oggetti d’oreficeria ci tramandano il ricordo indelebile di uno dei piú interessanti mecenati del Medioevo alpino e attestano le relazioni ad ampio raggio con centri di produzione artistica tra i piú famosi e di piú alto livello che il presule seppe coltivare. La mostra ruota attorno al piccolo, ma preziosissimo nucleo di oggetti mobili, oggi custoditi dal Museo ma in passato conservati nell’ambito del tesoro della cattedrale, per la quale furono commissionati dal presule.

Adamo, magister del duomo Viene inoltre approfondito il ruolo di Federico Vanga in ambito architettonico e la sua relazione con Adamo d’Arogno, capomastro del cantiere del duomo, citato quale magister dell’edificio nell’iscrizione commemorativa un tempo murata all’esterno della cattedrale, in Miniatura con Federico Vanga nel Lectionarium. Inizi del XIII secolo. Trento, Museo Diocesano Tridentino.

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In alto riccio di pastorale. Frater Willelmus (?), 1175 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A sinistra mitria. Metà del XII-metà del XIII sec. Verona, Basilica di S. Zeno Maggiore. prossimità dell’attacco dell’abside maggiore. Essa indica nel 29 febbraio del 1212 la data di avvio dei lavori, allorché «presidente e disponente» era appunto «il venerabile vescovo di Trento, Federico Vanga». (red.) Dove e quando

«Un vescovo, il suo tesoro, la sua cattedrale. La committenza artistica di Federico Vanga (1207-1218)» Trento, Museo Diocesano Tridentino fino al 7 aprile 2013 (dal 14 dicembre 2012) Orario tutti i giorni, 9,30-12,30 e 14,00-17,30; chiuso il martedí Info tel. 0461 234419; e-mail: info@museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it

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Un settennato decisivo mostre • A soli trent’anni, Raffaello è un

pittore richiestissimo: e, per far fronte alle commesse, si circonda di un vero e proprio «esercito» di collaboratori. Primi fra tutti, Giulio Romano e Gian Francesco Penni

N

egli ultimi sette anni di vita, tra il 1513 e il 1520, Raffaello (che era nato a Urbino nel 1483) realizza le opere destinate ad avere un’infuenza determinante negli sviluppi dell’arte europea. Tuttavia, i dipinti attribuibili a questo periodo sollevano non poche questioni, per via dei loro problemi di datazione,

A destra Raffaello, San Michele sconfigge Satana, noto anche come Gran San Michele. 1518. Parigi, Musée du Louvre. In basso Raffaello, Sacra Famiglia con il piccolo San Giovanni Battista, detta Madonna della rosa. 1516 circa. Madrid, Museo Nacional del Prado.

per le sorprendenti diversità che li caratterizzano e, soprattutto, perché potrebbero non essere stati realizzati da Raffaello stesso. Un particolare, quest’ultimo, che sottolinea l’importanza della bottega dell’artista e del ruolo svolto dai suoi assistenti principali, Giulio Romano e Gian Francesco Penni. Dall’insieme di questi elementi ha preso spunto la «triplice» esposizione allestita al Louvre, una rassegna che, per la prima volta, ricostruisce le fasi finali della carriera del maestro urbinate, l’opera dei suoi collaboratori Gian Francesco Penni e Giulio Romano – i quali ebbero anche un’attività indipendente da quella svolta al servizio di Raffaello – e il percorso artistico del fratello di Gian Francesco, Luca. Quest’ultimo, formatosi a Roma nella cerchia raffaellesca, colse i suoi maggiori successi in Francia, quando fu voluto

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dal re Francesco I per il cantiere del castello di Fontainebleau. Mettendo a confronto le opere del maestro e quelle dei suoi allievi – riferibili agli anni in cui l’artista era ancora vivente e a quelli immediatamente successivi – la mostra punta i riflettori sui rispettivi livelli di intervento del primi e dei secondi e, al contempo, sottolinea il contributo intellettuale ed estetico che gli allievi offrirono al maestro nella realizzazione delle sue ultime opere.

L’incontro con Michelangelo Il percorso espositivo prende le mosse nel 1513, all’epoca in cui Raffaello, da cinque anni, era attivo a Roma, impegnato soprattutto nella decorazione delle Stanze Vaticane. È il periodo in cui ha modo di incontrare, tra gli altri, Michelangelo, allora impegnato nella decorazione della Cappella Sistina, e Sebastiano del Piombo. La capitale della cristianità stava allora vivendo una fase di grande rinnovamento e abbellimento, imponendosi come polo di riferimento di tutta la produzione artistica italiana. Dopo Firenze, si può dire che il Rinascimento abbia conosciuto in quel tempo un’età dell’oro romana, grazie alla presenza contemporanea, sulle sponde del Tevere, dei piú insigni pittori, scultori e architetti, che alimentano un clima di straordinaria effervescenza culturale. Quando Leone X succede a Giulio II, Raffaello vede aumentare il numero delle commissioni, sia da parte del pontefice, sia per decisione di altri grandi mecenati – in Francia, a Napoli, Palermo, Bologna –, al punto che l’artista si vede obbligato a circondarsi di un gran numero di assistenti. Quasi cinquanta allievi e collaboratori vanno a ingrossare le fila di quello che, all’epoca, fu con ogni probabilità il piú grande atelier diretto da un singolo pittore. Occorre peraltro ricordare che Raffaello, appenna trentenne in quel 1513, non si accontenta di dipingere al cavalletto, attività di cui sono frutto le opere esposte al Louvre:

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Raffaello, autoritratto con Giulio Romano, l’assistente che spesso sostituí il maestro nell’esecuzione dei lavori piú importanti. 1519-1520. Parigi, Musée du Louvre. lavora anche alla progettazione e alla realizzazione di affreschi monumentali e spettacolari. Per il Vaticano, innanzitutto, ma anche per la Villa della Farnesina; disegna i cartoni per la creazione di arazzi destinati alla Cappella Sistina; all’indomani della morte del Bramante, assume la direzione, in qualità di architetto, del cantiere per la ricostruzione della basilica di S. Pietro; si dedica al rilievo dei monumenti della Roma antica… Insomma, cortigiano e letterato, perfettamente integrato nella cerchia degli umanisti, tra i quali annovera amicizie solidissime, Raffaello incarna in maniera esemplare il prototipo dell’artista universale e gli ideali del Rinascimento. Dopo essersi mosso nel solco del Perugino, aver ammirato Leonardo da Vinci, osservato Michelangelo e analizzato la statuaria dell’età classica, il maestro acquisisce a Roma la piena padronanza della

sua arte, fondata su un senso dell’equilibrio innato. E ciò che piú impressiona, tra le opere dei suoi ultimi anni, è il genio compositivo: l’Urbinate ha il dono dell’immagine armoniosa, a un tempo forte ed esplicita, anche se dietro questa apparente semplicità si celano lo studio minuzioso di ogni singolo dettaglio e un’attenta opera di ricomposizione.

Una produzione poliedrica Le opere piú note e piú innovative che il maestro realizza tra il 1513 e il 1520 sono affreschi, ma grande importanza storica e artistica hanno anche i dipinti a soggetto religioso – che rappresentano perlopiú la Sacra Famiglia o la Madonna con il Bambino – e i ritratti. Le opere destinate agli altari sono una testimonianza esemplare della volontà di Raffaello di rivoluzionare gli schemi della tradizione, introducendo il linguaggio drammatico che egli sviluppa,

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Ante prima Giulio Romano, Vergine con il Bambino e il piccolo San Giovanni Battista e Santa Elisabetta, nota come Piccola Sacra Famiglia. 1517-1518. Parigi, Musée du Louvre. dai grandi atelier del XVII secolo. Il lavoro all’interno della bottega si basa su un rapporto di stretta collaborazione: Raffaello crea le composizioni, Penni si fa carico di realizzarne le «belle copie» – motivo per il quale viene spesso citato come fattore, cioè come ricopiatore – e gli allievi realizzano i cartoni. Il maestro interviene nuovamente al momento dell’esecuzione pittorica, nel corso della quale è però regolarmente assistito da Giulio Romano, che non di rado lo sostituisce nell’esecuzione delle commissioni piú importanti. In ogni caso, il delegare sempre piú spesso ai suoi assistenti migliori la realizzazione delle opere non impedisce a Raffaello di esercitare un controllo rigoroso sull’insieme della produzione, cosí da garantire l’omogeneità dei risultati.

I collaboratori piú fidati

allo stesso tempo, negli affreschi e nei cartoni degli arazzi. Mentre la Madonna del pesce (1513-14) risponde ancora ai canoni tradizionali, il Monte Calvario (detto Lo spasimo; 1515-16) o il Gran San Michele (1518) incarnano in maniera spettacolare la ricerca narrativa dell’artista e l’attenzione per l’espressione delle passioni.

Personaggi illustri e amici Le Madonne raffaellesche hanno destato un’impressione cosí forte tra i contemporanei e tra i posteri da mettere spesso nell’ombra la produzione dei ritratti, un’arte che, invece, Raffaello ha saputo ancora una volta rivoluzionare. Occorre peraltro sottolineare che vi sono differenze significative tra le rappresentazioni ufficiali e le immagini degli amici. Sebbene si

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trattasse di committenti illustri, l’artista sembra aver accordato un’importanza relativa alle prime, parte della cui esecuzione era spesso affidata ai suoi collaboratori. Per contro, i ritratti delle persone a lui piú care e vicine denotano, nella maniera di dipingere piú che nella forma, un notevole acume psicologico e una grande profondità nella resa della personalità del modello. Ne sono eccezionali testimonianze il Baldassarre Castiglione, l’Autoritratto con Giulio Romano, la Velata e il Bindo Altoviti. Come già detto, il successo a cui va incontro, impedisce a Raffaello di poter far fronte da solo a tutte le commissioni e cosí, negli ultimi anni della sua carriera dà vita a un sistema assai efficiente, destinato a essere preso a modello

Tra i collaboratori del maestro si distinguono, dunque, Giulio Romano e Gian Francesco Penni, il cui contributo emerge soprattutto nei dipinti a soggetto religioso destinati alla devozione privata. Entrambi, oltre a lavorare per conto di Raffaello, come nella Piccola Sacra Famiglia, destinata al cardinal Bibbiena, eseguono dipinti composti a partire da motivi raffaelleschi, al di fuori degli incarichi ricevuti dal maestro. Giulio dimostra di possedere una personalità piú forte e, progressivamente, elabora una propria estetica, che in parte riversa anche nelle opere realizzate per Raffaello, di cui è il collaboratore piú stretto, piú versatile e piú ambizioso. Il suo talento si esprime in opere complesse, il cui stile si libera dell’influenza raffaellesca, come nel caso della Deisis o del grande cartone per la Lapidazione di Santo Stefano. La figura di Gian Francesco Penni, invece, è meno nettamente definita: piuttosto noti e studiati sono i suoi dicembre

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disegni, mentre l’opera pittorica ha cominciato a uscire dall’ombra solo in tempi recenti. Con la partenza di Giulio Romano per Mantova nel 1524 e il sacco di Roma del 1527 la bottega di Raffaello si disperde e, spostandosi presso le principali corti d’Italia, dove fanno conoscere la maniera moderna, i suoi allievi contribuiscono alla nascita del manierismo. (red.)

Gian Francesco Penni (?), Vergine con il Bambino e San Giuseppe, detta Madonna del libro. 1512-1514. Firenze, Galleria Palatina, Palazzo Pitti.

Dove e quando

«Raffaello. Gli ultimi anni» Parigi, Museo del Louvre, Hall Napoléon «Giulio Romano. Allievo di Raffaello e pittore dei Gonzaga» Parigi, Museo del Louvre, Aile Denon «Luca Penni. Un discepolo di Raffaello a Fontainebleau» Parigi, Museo del Louvre, Aile Sully fino al 14 gennaio 2013 Orario tutti i giorni, 9,00-17,45 (me e ve, apertura serale fino alle 21,45); ma chiuso Info www.louvre.fr


Ante prima

Auguri di fuoco appuntamenti •

Un tronco di alloro dato alle fiamme: era questo il culmine di un antico rito propiziatorio genovese. Recuperato in anni recenti, è uno dei momenti piú sentiti del periodo natalizio

L’

associazione A Compagna, fondata a Genova nel 1923 per salvaguardare le tradizioni religiose, il dialetto e la cultura popolare locale, organizza convegni, conferenze e rievocazioni storiche e, nel periodo natalizio, commemora la cerimonia de O Confeugo. Un rito antico, ritenuto fra le piú arcaiche manifestazioni genovesi legate al Natale e al Capodanno, che consiste nello scambio di voti augurali fra la comunità e le piú alte cariche cittadine. Le prime notizie sull’omaggio del Confeugo, un grosso tronco di alloro, coperto di rami e adorno di nastri bianchi e rossi, dapprima al Podestà, poi ai Capitani del Popolo e dal 1339 al Doge, risalgono agli inizi del XIV secolo. A consegnare il grande ceppo erano gli Abati del Popolo, che rappresentavano le Podesterie del Bisagno, del Polcevera e di Voltri, ma ben presto, forse sin dal 1307, tale privilegio fu riservato al solo Abate del Bisagno. Da allora, la mattina del 24 dicembre – con toga, collare e berretto senatorio –, egli aveva l’obbligo di recarsi in Bisagno per incontrare il suo successore, informarlo su richieste e proteste della comunità e consegnargli lo

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In alto e in basso immagini del Confeugo, la cerimonia di origine medievale che si svolge ogni anno a Genova nella mattina del sabato che precede il Natale. stendardo di San Giorgio. Il nuovo Abate, con tanto di corteo, si dirigeva quindi in città, seguendo un percorso che terminava a Palazzo Ducale. Qui il suo seguito era salutato dalla guardia in armi, mentre egli portava i voti augurali al Doge, dal quale riceveva in cambio un biglietto della Banca di S. Giorgio.

A ciascuno il suo tizzone La sera, durante una solenne celebrazione il tronco veniva bruciato in piazza (Confeugo = Festa del Fuoco), e il Doge versava sul fuoco vino, zucchero e confetti.

Il popolo, attribuendo al fusto arso poteri magici si accalcava per prenderne i tizzoni, gelosamente custoditi sino all’anno venturo. All’accensione dell’alloro assisteva anche l’arcivescovo, che terminata la cerimonia era invitato al banchetto dato dal Doge a Palazzo Ducale. Interrotto piú volte nel corso dei secoli, dal 1951 il Confeugo è continuato di anno in anno. La rievocazione si svolge la mattina del sabato precedente il Natale, quest’anno il 22 dicembre. Vi partecipano gruppi storici in costume e il presidente di A Compagna, che, impersonando l’Abate del Popolo, regala al sindaco di Genova una pianta di alloro benaugurale, adorna di nastri rossi e bianchi. Integrato dal 1994 con il dono di un piatto in ceramica decorato a mano, il cosiddetto «tondo de Natale», dal 1998 il Confeugo si svolge a Pâxo(contrazione dall’antico termine genovese Pâraxo), ossia nella sede storica di Palazzo Ducale, dove era stato istituito nel Medioevo. Info: Associazione A Compagna, tel. 010 2469925; e-mail: posta@acompagna.org; www.acompagna.org Chiara Parente dicembre

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Nel paese dei campanelli I

l 5 gennaio, dal pomeriggio fino a notte inoltrata, nei villaggi della regione austriaca del Salzkammergut (area montuosa che si estende nella zona centrale del Paese, nelle Alpi di Salisburgo, n.d.r.) si aggirano curiosi personaggi, interamente vestiti di bianco, con enormi copricapi geometrici a forma di stella a piú punte. Sono i glöckler, figure che, secondo la tradizione, popolare hanno il compito di attirare gli spiriti buoni e scacciare quelli cattivi, attraverso il rumore sordo delle campanelle cucite sui loro vestiti e la luce dei propri copricapi. Gli enormi cappelli dei glöckler, alti fino a 2 m e pesanti fino a 20 kg, sono vere e proprie opere dell’artigianato artistico locale. Sono costruiti con un telaio di legno, che viene poi rivestito da un tessuto riccamente decorato. Il rito del Glöcklerlauf si celebra con particolare fastosità e interesse a Traunkirchen, piccolo villaggio con meno di duemila abitanti nel distretto di Gmunden. I campanellari si muovono già nel pomeriggio del 5 gennaio per le strade dei paesi, bussando di casa in casa (da qui il termine glöckler, che letteralmente significa «bussatore»), dove vengono accolti festosamente e rifocillati con pietanze locali, ciambelle dolci e bevande calde come vin brûlé e the. I personaggi ringraziano con auguri di Buon Anno e il canto di canzoni natalizie. Verso le 22,00, le comitive si portano al centro dei villaggi, per eseguire danze con canti tradizionali assieme alle popolazioni locali. Tiziano Zaccaria Traunkirchen (Austria). Due glöckler con i loro giganteschi copricapi illuminati.

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Ante prima

Da Gregorio a Francesco collezionismo • Venduto a Londra un prezioso codice con le vite dei santi

scritte da Gregorio Magno e le opere di Bonaventura da Bagnoregio sull’Assisiate

H

a visto la luce in uno scriptorium ed è stato silenzioso testimone delle preghiere di una comunità monastica, ma ora, a settecento anni di distanza dalla sua creazione, un prezioso manoscritto di produzione italiana è finito sul tavolo di un battitore d’asta. È successo a Londra, dove la casa di vendite Bonhams ha aggiudicato il documento per poco meno di 50 000 sterline. Intitolato Gregorio I, Santo e papa, il manoscritto riunisce due opere copiate nel XIV secolo e raccolte in una preziosa rilegatura con impressioni a secco. Il primo nucleo comprende i Dialoghi dello stesso Gregorio I (Dialogi de vita et miraculis patrum Italicorum), un’opera in quattro tomi, di cui il papa e dottore della Chiesa ultimò la prima edizione nel 593-94, cioè durante i primi anni del suo pontificato. Raccoglie le storie e i miracoli dei maggiori santi d’Italia e di uomini e donne distintisi per la loro santità, con l’intento di dimostrare che simili personaggi non vissero e operarono soltanto in

Oriente, ma furono presenti anche nella Penisola. Il secondo libro, in particolare, è dedicato interamente a Benedetto da Norcia, mentre il primo e il terzo narrano le vite di molti santi meno noti; il quarto tomo, infine, descrive visioni della vita ultraterrena.

Una biografia in due versioni Il secondo nucleo del manoscritto ha come protagonista Bonaventura da Bagnoregio, da molti considerato come una sorta di secondo fondatore dell’Ordine francescano. Nel 1263 il Capitolo generale dei Francescani gli chiese di scrivere una biografia di San Francesco: ne derivarono una Legenda Minor, concepita per essere letta quotidianamente dai frati, e una Legenda Maior, destinata agli studi teologici. Trovarle entrambe in un codice che già comprende i Dialoghi di Gregorio I e che fu compilato a meno di un secolo di distanza dalla redazione della piú recente delle opere originali, suggerisce che il manoscritto fosse

stato realizzato per una comunità francescana. Le miniature dell’opera non mirano solo ad abbellirla, ma creano anche un legame fra i due testi che – molto lontani tra di loro dal punto di vista cronologico – finiscono con l’essere presentati in sequenza, come se la biografia di San Francesco fosse un quinto volume dei Dialoghi. Piú d’una illustrazione presenta ritratti all’interno di medaglioni e nei Dialoghi compaiono immagini dello stesso Gregorio nelle vesti di vescovo, oppure mentre dialoga con un monaco o insieme all’immaginario lettore della pagina. All’inizio del secondo libro lo si vede invece in conversazione con Benedetto da Norcia, mentre in apertura del quarto discorre con un frate non identificato. Uno scriba laico è invece riaffigurato, sorprendentemente, all’inizio del terzo libro, mentre San Francesco prende il posto di San Gregorio nell’apertura del secondo testo contenuto nel codice. L’esame dei colori utilizzati nelle decorazioni floreali e lo stile adottato nella resa delle figure suggeriscono che l’opera provenga da uno scriptorium di Bologna o Padova – che furono entrambe sedi del movimento francescano –, che l’avrebbe realizzata alla metà del XIV secolo. Le miniature e alcune correzioni al testo inducono inoltre a credere che il libro fosse destinato a un convento dei Frati Minori, con ogni probabilità appartenente all’Ordine francescano e situato in Emilia-Romagna. (red.) Il codice venduto a Londra che raccoglie i Dialoghi di Gregorio Magno e le biografie di San Francesco scritte da Bonaventura da Bagnoregio. Metà del XIV sec.

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Lo sviluppo? Comincia dal passato A

ncora una volta, e siamo ormai alla XV edizione, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico non ha tradito le aspettative. Per quattro giorni, dal 15 al 18 novembre, Paestum si è trasformata in una vera e propria cittadella dell’archeologia, qui intesa non solo come studio del passato, ma anche come veicolo di sviluppo economico. E tra le maggiori potenzialità del patrimonio, vi è naturalmente quella di essere una meta turistica di straordinario interesse, fenomeno da cui nasce l’idea stessa della Borsa, che, in questo quadro, ha avuto quest’anno come ospite ufficiale l’Armenia e ha tenuto a battesimo le partecipazioni di Indonesia, Kenya e Tatarstan (Federazione Russa). Il calendario dei lavori della rassegna, come sempre fittissimo, ha offerto importanti momenti di dibattito. Come nel caso del convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», organizzato dalla Direzione Generale per le Antichità e la Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale del MiBAC, o anche dell’incontro sul tema «Etica, innovazione e sostenibilità: come può cambiare l’approccio al turismo», in occasione del quale è stato anche illustrato, come esempio di best practice, il Progetto «Pompei». E le «buone prassi» sono state al centro anche del VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione, la promozione», che, moderato da Andreas M. Steiner, direttore di «Archeo», ha visto la partecipazione dei responsabili delle piú importanti riviste d’archeologia. Di particolare rilevanza è stato anche il convegno «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce

degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo», curato dalla Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, al quale hanno partecipato i direttori delle missioni archeologiche impegnate in Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libia, Palestina, Siria, Tunisia, Turchia. Una finestra sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie è stata aperta dal workshop «Patrimonio dell’Umanità e Musei Virtuali: nuovi modelli per il futuro del turismo culturale», in occasione del quale esperti del settore si sono confrontati sulla possibilità di creare un’offerta turistica capace di valorizzare risorse artistiche e culturali meno note, anche attraverso l’arte digitale, la virtualità, circuiti di piattaforme turistiche con i Musei Virtuali accessibili in rete e su smartphone/tablet. Ampia è stata la presenza del pubblico, che ha potuto apprezzare le iniziative ormai tradizionali della Borsa, come ArcheoVirtual, mostra e workshop sull’archeologia, i laboratori di archeologia sperimentale, mirati a far conoscere la cultura antropologica e materiale dell’antichità attraverso la riproduzione delle tecniche utilizzate dall’uomo per realizzare manufatti di uso quotidiano, e, soprattutto, ArcheoLavoro, sezione nella quale le Università hanno presentato i Corsi di Laurea e i Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre esperti del settore hanno illustrato le figure professionali e le competenze emergenti. Il XV anniversario della Borsa è stato celebrato anche con un annullo filatelico, emesso da Poste Italiane. Foto e materiali informativi sulla XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico sono disponbili sul sito ufficiale della manifestazione: www.borsaturismo.com

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informazione pubblicitaria

Paestum. I due templi maggiori della città, rispettivamente noti come «Basilica» (a sinistra) e tempio «di Nettuno».


agenda del mese

Mostre Spello Aurea Umbria. Una regione dell’impero nell’era di Costantino U Palazzo Comunale fino al 9 dicembre

a cura di Stefano Mammini

un’età tardo-antica, che fu «aurea» per la sua vitalità, e non di «ferrea» decadenza, come a lungo la storiografia moderna ha proposto. info call center sistema museo tel. 199 151 123; www.aureaumbria.it

mantova Da Mantova al Württemberg: Barbara Gonzaga e la sua corte U Museo di Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2013

A 1700 anni dal regno di Costantino, l’Umbria riflette su una pagina della propria storia: la concessione fatta alla città di Hispellum del nome di Flavia Constans per dimostrare la sua fedeltà alla famiglia imperiale. Nel corso di tre secoli (III-VI d.C.), grazie alla riorganizzazione promossa da Costantino, l’impero espresse infatti una forte vitalità, prima della guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano. La mostra racconta la vita in Umbria durante questi secoli, attraverso un cospicuo insieme di materiali archeologici: dalle manifestazioni dell’arte ufficiale (ritratti e iscrizioni) e dalle espressioni della vita delle aristocrazie (mosaici, arredi) agli oggetti della quotidianità dei ceti medi e subalterni. La ricerca storica e archeologica, infatti, è in grado oggi di configurare il volto di

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Il Palazzo Ducale di Mantova rende omaggio a Barbara Gonzaga, ottava figlia di Ludovico III, secondo

marchese di Mantova, e di Barbara di Hohenzollern. La mostra dà conto della sua vicenda umana, culturale e politica, ripercorrendo il cammino della vita di Barbara Gonzaga, ricostruendo l’ambiente culturale e politico delle diverse corti principesche, e

tracciando un profilo della principessa attraverso le sue testimonianze personali. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti, disegni e incisioni a bulino, stoffe e gioielli, monete e vasellame da tavola che, incorniciati dalla grandiosa musica di corte dei Gonzaga, trasmettono un’impressione autentica dell’ambiente di vita di una grande nobildonna del Rinascimento. info tel. 0376 224832; www.mantovaducale. beniculturali.it

New York Giardini cinesi U The Metropolitan Museum of Art fino al 6 gennaio

Attorno alla Astor Court, uno degli spazi piú visitati del Metropolitan Museum, a cui fu dato l’aspetto del cortile di una residenza cinese del XVII secolo, si snoda il percorso della

compositivi analoghi a quelli adottati nella pittura. E, proprio come nel caso dei paesaggi idealizzati dagli artisti, la loro struttura si ispirava a temi letterari già battuti dai pittori. info www.metmuseum.org Parigi «Ed essi si meravigliarono...», la Croazia medievale U Musée de Cluny, Musée nationale du Moyen Âge fino al 7 gennaio 2013

rassegna che, attraverso una selezione di cui fanno parte dipinti, ceramiche, oggetti in lacca e metallo, stoffe, indaga le strette e feconde relazioni tra la pittura e l’arte dei giardini, nel corso di oltre mille anni. Nelle popolose città della Cina i giardini interni sono sempre stati parte integrante delle architetture residenziali e palaziali ed erano considerati come prolungamenti degli spazi del vivere quotidiano. Sedi predilette di cenacoli letterari e rappresentazioni teatrali, vennero spesso realizzati secondo principi

«Ed essi si meravigliarono…»: cosí scrisse Goffrédo di Villehardouin, uno dei protagonisti della quarta crociata, per descrivere la reazione dei pellegrini alla vista della città dalmata di Zara (l’odierna Zadar, in Croazia). E cosí è intitolata l’esposizione, allestita nel Museo di Cluny, che riunisce una quarantina di opere, scelte a rappresentare non soltanto il dinamismo e l’originalità delle creazioni artistiche locali fiorite tra il IX e il XIV secolo, ma anche la ricchezza degli scambi tra le province dell’odierna Croazia con il resto d’Europa in quel periodo. Componenti di spicco della selezione sono le oreficerie e alcune pregevoli sculture. Ma non sono da meno

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anche i documenti miniati, che fanno da elegante corollario a questo campionario di «meraviglie». info www.musee-moyenage.fr

rancate (Mendrisio) Serodine e brezza caravaggesca sulla «Regione dei laghi» U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 13 gennaio 2013

Giovanni Serodine (1594/1600-1630), vanto del Ticino e di Roma nel primo terzo del Seicento, è noto quale uno dei piú rilevanti interpreti della tendenza naturalistica di tutto il secolo. Pittore ignorato dai suoi contemporanei, viene riscoperto e rivalutato dalla critica del Novecento che gli assegna finalmente il giusto posto nella costellazione dei piú importanti pittori della storia dell’arte in Italia. Si deve soprattutto al piú grande storico dell’arte italiano del secolo passato, Roberto Longhi, il merito di averlo

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valorizzato come uno dei massimi rappresentanti del movimento caravaggesco definendolo «non soltanto il piú forte pittore del Canton Ticino, ma uno dei maggiori di tutto il Seicento italiano». A distanza di circa vent’anni dall’ultima monografica, la Pinacoteca Züst propone un’attenta retrospettiva dell’artista, affiancata da dipinti di suoi compagni di avventura figurativa, cosí da mostrare al pubblico come il fenomeno che oggi per semplificazione viene definito come «naturalismo» avesse preso piede nelle terre prealpine piú di quanto generalmente sino a ora sospettato. info tel. +41 (0)91 8164791; e-mail: decs-pinacoteca.zuest@ti. ch; www.ti.ch/zuest roma Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese U Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2013

Conoscitore e mercante d’arte, Johannes Vermeer (1632-1675) si considerava soprattutto un pittore,

eppure dipinse non piú di 50 quadri (oggi se ne conoscono solo 37). Lavorò solo su commissione e non realizzò mai piú di due o tre opere l’anno, il necessario per mantenere la moglie e gli undici figli: oggi è considerato tra i piú grandi pittori di tutti i tempi. Delle sue opere riconosciute autografe, nessuna appartiene a una collezione italiana e solo 26 dei suoi capolavori, conservati in 15 collezioni diverse, possono essere movimentati. Le Scuderie del Quirinale ne accolgono 8, dalle donne «ideali» alla celebre Stradina, affiancati da cinquanta capolavori degli artisti suoi contemporanei, tra cui Carel Fabritius e Nicolaes Maes, Gerard ter Borch, Pieter de Hooch, Gerrard Dou, Gabriel Metsu, Frans van Mieris e Jacob Ochtervelt. Vermeer è noto anche come il «Maestro della luce olandese» per la sua straordinaria capacità di descrivere la luce del cielo d’Olanda. Sembra, infatti, che dopo l’avanzata del terreno bonificato, il colore del cielo olandese sia cambiato, perché la luce non è stata piú riflessa verso l’alto dalle paludi e dai laghi. Questi dipinti, nei quali dominano il blu e il giallo, sono dunque una testimonianza preziosa per rivivere la delicata luminosità dei cieli olandesi. info e prenotazioni tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it

HAARLem Il michelangelo olandese. Cornelis van Haarlem (1562–1638) U Frans Hals Museum fino al 20 gennaio 2013

Ispirato dai grandi maestri italiani, primo fra tutti Michelangelo, Cornelis van Haarlem fece il suo apprendistato ad Amsterdam, per poi completare la sua formazione a Rouen e Anversa. Rientrò nella natia Haarlem a ventun anni, dopo aver fatto sua la lezione manierista, di cui elaborò una personale interpretazione. Nelle sue grandi tele, rappresentò spesso temi fortemente drammatici, con toni molto decisi, sorprendendo l’osservatore con composizioni ricche di pathos e caratterizzate da colori violenti, grande espressività dei gesti e corpi di cui la nudità esalta la muscolatura possente. info www.franshalsmuseum.nl

parigi Cipro. Tra Bisanzio e l’Occidente, IV-XVI secolo U Museo del Louvre fino al 28 gennaio 2013

Parigi rende omaggio al semestre di presidenza di Cipro del Consiglio dell’Unione Europea con una rassegna, in corso al Louvre, che concentra la propria attenzione sull’epoca medievale e di documentare la storia cipriota nel periodo compreso tra il IV e il XVI secolo. Una ricca selezione di miniature, sculture, frammenti architettonici, gioielli e ceramiche documenta come, anche nell’Età di Mezzo, Cipro avesse mantenuto la sua natura di snodo cruciale nella rete dei rapporti economici e culturali che coinvolgeva i Paesi del Mediterraneo. In epoca tardo-antica l’isola vede accentuarsi la sua connotazione bizantina e a questa fase risale una delle presenze

eccellenti, vale a dire quella di sei piatti d’argento facenti parte del tesoro rinvenuto nella località di Lambousa, presso il

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agenda del mese villaggio di Lapithos: un magnifico insieme di oggetti preziosi recuperato intorno al 1900 e oggi diviso tra il Museo di Cipro di Nicosia, il Metropolitan di New York e il British Museum. L’importanza del ruolo di crocevia viene ribadita, piú tardi, all’epoca delle crociate, quando Cipro diviene una base essenziale per il controllo occidentale della Terra Santa. Alla fine della terza spedizione cristiana, nel 1191, è Riccardo Cuor di Leone a prendere possesso dell’isola, che entra a far parte dei domini del regno d’Inghilterra, prima d’essere ceduta ai cavalieri dell’Ordine del Tempio e poi a Guido di Lusignano. A questa fase è riconducibile, tra gli altri, lo sviluppo di una tipologia di icone dette appunto «delle crociate» o alla maniera cypria, nelle quali si osserva una singolare fusione tra la tradizione greca e quella latina. Ne è un esempio l’immagine di San Nicola proveniente dalla chiesa di S. Nicola del Tetto, nella quale l’amalgama di stili diversi trova uno degli esiti piú felici. info www.louvre.fr teramo Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 e terzo fuoco. La collezione Matricardi U Pinacoteca Civica fino al 31 gennaio 2013

L’esposizione presenta una selezione di 220 capolavori, realizzati tra

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un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica. info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it

Dante ti amo. Testo e immagini della Divina Commedia U Palazzo Madama fino al 31 gennaio 2013

poeta, il bibliofilo piemontese ha acquisito, oltre a testi scritti, disegni, sculture e dipinti. Il percorso espositivo si apre con la sezione dei manoscritti, in cui figurano una stesura della Commedia prodotta nel Trecento a Firenze e due copie, entrambe quattrocentesche, delle Rime di Dante e delle

La rassegna «Dante ti amo», allestita in Palazzo Madama, a Torino, fa luce sulla fortuna del capolavoro dantesco, ponendo l’accento sulla nascita e l’evolversi dell’iconografia legata alle Cantiche: novanta opere, provenienti dalla collezione privata dell’imprenditore Livio Ambrogio, coprono un arco cronologico di sette secoli. Affascinato dal mondo che ruota attorno al sommo

Georgiche di Virgilio. Nelle parte dedicata alle edizioni a stampa, spiccano l’editio princeps della Commedia, uscita a Foligno l’11 aprile 1472, e quella di Mantova, dello stesso anno, con la prima pagina miniata. Poi c’è la prima versione illustrata dell’opera dantesca, realizzata a Firenze nel 1481, con il testo commentato dall’umanista Cristoforo Landino. Risale a dieci

torino il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e i Grue, che hanno reso famosa la maiolica castellana in tutto il mondo. La mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme, colori e motivi tipici di questa produzione, magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi. L’evento presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», che si deve all’ingegner Giuseppe Matricardi, il quale, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere

anni piú tardi il volume con il primo ciclo completo di raffigurazioni, mentre un altro primato spetta al libro del 1555, in cui debutta l’aggettivo «divina». Palazzo Madama propone anche edizioni di forte impatto visivo, come le stampe veneziane uscite nel Settecento dai torchi di Antonio Zatta, con illustrazioni, in bianco e nero e a colori, su una carta azzurra particolarmente preziosa. Il secolo successivo è invece testimoniato dalle iconografie di maggior successo, prima fra tutte la Commedia illustrata da Gustave Doré. Il pittore francese, famoso per aver rappresentato fra gli altri anche l’Orlando Furioso, le Fiabe di Perrault, il Don Chisciotte e la Bibbia, per Inferno, Purgatorio e Paradiso ricorre a un tratto deciso, che comunica gli aspetti realistici del testo dantesco, filtrato dal sentimento romantico. Segue una teca dedicata alle opere minori dell’Alighieri, tra cui una Vita Nova appartenuta alla principessa Maria Josè di Savoia, mentre un’altra sezione è destinata alla letteratura dantesca. Qui ci sono un manoscritto autografo di Borges, un’opera di Dante Gabriel Rossetti, e poi autori come Alessandro Manzoni e Thomas Stearns Eliot. info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino. it

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milano Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca e la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento U Pinacoteca di Brera fino al 17 febbraio 2013

Nel 2009 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, esercitando il diritto di acquisto all’esportazione, ha comprato il piú antico mazzo di tarocchi italiano completo (che è anche il piú antico esistente al mondo), noto come «mazzo Sola Busca» dai nomi dei precedenti possessori (la marchesa Busca e il conte Sola) e l’ha destinato alla Pinacoteca di Brera, che già conservava un gruppo di 48 carte,

parte di un prezioso mazzo tardo-gotico realizzato per il duca di Milano (mazzo cosiddetto Brambilla). La mostra presenta questa importante acquisizione, indagandone il contesto culturale e le possibili fonti, nonché la complessa iconografia,

arrivando cosí anche a precisarne la datazione e a identificare l’artista che l’ha realizzata. Il mazzo è composto da ben 78 carte, 22 «trionfi» e 56 carte dei quattro semi tradizionali italiani (denari, spade, bastoni e coppe). Si tratta di stampe su carta da incisioni a bulino, montate anticamente su cartoncino, che sono poi state miniate a colori e oro. L’iconografia dei «trionfi» si discosta da quella piú tradizionale dei mazzi quattrocenteschi, una sequenza che dal Bagatto arrivava fino al Mondo e al Giudizio Universale (Angelo), in una sorta di percorso di elevazione del giocatore dalle condizioni piú

legate alla terra fino a Dio. Nei tarocchi Sola Busca, infatti, i «trionfi» ospitano figure di guerrieri dell’antichità romana ovvero eroi della storia biblica, legandosi in qualche modo alla tradizione degli Uomini illustri proposti come exempla da imitare, che affondava le sue radici nella cultura medievale, da Petrarca a Boccaccio (anche se, spesso, si possono leggere in controluce alcuni dei soggetti piú tradizionali dei «trionfi», come nel caso del Trionfo della Fortuna in Venturio.X o del Trionfo della Morte nel Catone. XIII). Ancora al tema degli Uomini illustri rimanda Alessandro Magno, a cui è dedicato nel mazzo il

seme di Spade. Una figura che, grazie all’episodio dell’elevazione al cielo su un carro trainato da grifoni, era divenuta a partire dal Medioevo per molti signori italiani (per esempio Este e Sforza) un simbolo dell’anelito all’immortalità. info tel. 02 722 63 264; www.brera.beniculturali.it zurigo Capitale. Mercanti a Venezia e Amsterdam U Museo Nazionale Svizzero fino al 17 febbraio 2013

La mostra ripercorre le origini del nostro sistema economico attuale, il capitalismo, nella storica Repubblica marinara di Venezia e nell’«Età dell’oro» di Amsterdam.

mostre • Riflessi d’Oriente. 2500 anni di specchi in Cina e dintorni U Torino – Museo d’Arte Orientale

fino al 24 febbraio 2013 info tel. 011 4436927; e-mail mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it

L

o specchio è l’oggetto artistico della Cina che meglio di ogni altro racchiude la storia delle concezioni estetiche e cosmologiche, lo sviluppo dei motivi decorativi e iconografici, gli interessi e le aspirazioni della società cinese di ogni epoca. Nucleo centrale della mostra che gli viene dedicata dal MAO sono gli specchi prodotti in Cina tra il periodo degli Stati Combattenti e la fine della dinastia Tang, cioè dal V secolo a.C. al X secolo d.C.: 1500 anni che corrispondono al periodo di maggiore sperimentazione e di maggiore interesse artistico-culturale nei confronti dello specchio in Asia orientale. Non mancano tuttavia produzioni piú antiche e piú recenti e all’ampliamento dell’arco cronologico corrisponde anche un’estensione del contesto geografico della mostra: alcuni esemplari provenienti dall’area iranica, per esempio, invitano a riflettere sulla reciproca interazione tra Cina e Asia occidentale attraverso la mediazione del vasto mondo delle steppe. Ben piú approfondito è il rapporto con le altre regioni dell’Asia orientale (Corea, Giappone, Sud-est), che hanno adottato forme e simboli dello specchio cinese modificandoli e adattandoli alle proprie culture. Lo specchio della Cina viene cosí calato in una realtà storico-artistica panasiatica, a ribadirne l’importanza oltre gli attuali confini nazionali. La mostra riunisce oltre un centinaio di specchi, buona parte dei quali fanno parte di una importante collezione privata torinese, integrati da pezzi appartenenti alla collezione permanente del MAO e da esemplari concessi in prestito dal Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma, dai musei Guimet e Cernuschi di Parigi, dai Musei Vaticani e dal Musée d’Art et d’Histoire di Saint-Denis. In occasione della mostra, il MAO propone anche un ricco calendario di incontri di approfondimento e di visite guidate, le cui date sono disponibili sul sito internet del Museo.

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agenda del mese

Venezia a partire dal XIII secolo e Amsterdam nel XVII secolo svolsero un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale dell’Occidente. I commercianti di allora inventarono forme di finanziamento, di credito e di commercio che sono tuttora in uso. Entrambe le città erano rivolte verso il mare, correvano rischi, costruivano vascelli, praticavano il commercio a lunga distanza, subivano perdite ma ottenevano anche ingenti profitti. Con l’aumento del benessere e la nascita di una società borghese pre-moderna, per esempio ad Amsterdam, la cultura e lo sfarzo presero il sopravvento sul rischioso commercio a lunga distanza. Si iniziò cosí a investire nella cultura e nel lusso, decretando cosí la fine dell’epoca di massimo splendore di entrambe le città. Come la mostra suggerisce, ciò che sembra appartenere alla storia e lontano dalla nostra realtà si rivela invece di sorprendente attualità. info www.kapital. landesmuseum.ch

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milano Giovanni Bellini: dall’icona alla storia U Museo Poldi Pezzoli fino al 25 febbraio 2013

La mostra ruota intorno a uno dei capolavori del Museo Poldi Pezzoli, l’Imago pietatis di Giovanni Bellini (1430 circa-1516), opera giovanile con cui l’artista si misura con il tema della Pietà, partendo dal modello bizantino. Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i Sessanta del Quattrocento, Bellini compí il passaggio dall’icona bizantina all’immagine rinascimentale-

umanistica del Cristo in Pietà, come testimoniano altre tre splendide opere provenienti da prestigiosi Musei italiani. Dipinti di precursori ed epigoni di Bellini nel Museo Poldi Pezzoli vengono per l’occasione accostati a questo nucleo centrale, per far comprendere l’impatto dell’artista veneto non solo sulla pittura contemporanea, ma anche sul gusto e sulle diverse epoche. info www.museopoldipezzoli.it

roma Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente U Palazzo delle Esposizioni 10 marzo 2013

Oltre 150 manufatti originali – opere d’arte, tessuti, parati, oggetti in vetro e bronzo – oltre a modelli, mappe, ricostruzioni, percorsi interattivi e video installazioni, raccontano la storia dell’intreccio di itinerari da Oriente a Occidente e viceversa,

riassunti poi sotto il suggestivo termine di «Via della Seta». Un itinerario percorso, tra il VII e il XIV secolo, da mercanti, pellegrini, esploratori per scambiare merci preziosissime, diffondere culture e religioni, conoscere mondi lontani. Molti i reperti di assoluta importanza, alcuni dei quali mai esposti prima, come la dalmatica del parato di papa Benedetto XI, confezionata con sete asiatiche e tessuti italiani di ispirazione orientaleggiante, una straordinaria testimonianza del gusto per le stoffe preziose tartariche e della loro fortuna nel Tardo Medioevo presso le sfere piú alte del potere civile e religioso; la fiasca cinese ottagonale del Museo di Arte Medievale di Arezzo, tra i primi vasi decorati in bianco e blu approdati in Europa; il manto di San Secondo del XIII secolo, proveniente da Venezia, una delle prime testimonianze delle manifatture della seta

in Italia e importante attestazione del legame che per tutto il Medioevo unisce i tessuti suntuari al culto delle reliquie; il manuale di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, il piú famoso e completo manuale medievale a uso dei mercanti compilato dall’uomo d’affari fiorentino Balducci Pegolotti attorno al 1330-40. info www. palazzoesposizioni.it milano Costantino 313 d.c. U Palazzo Reale fino al 17 marzo 2013

La rassegna celebra l’anniversario dell’editto con cui, nel 313 d.C., Costantino dichiarava lecito il cristianesimo. Il percorso si articola in sei sezioni che approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per dicembre

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testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313. mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata dall’imperatore, e sono attentamente analizzate anche le tre istituzioni protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la chiesa e la corte imperiale. Ritratti, monete e oggetti documentano il nuovo aspetto pubblico dell’imperatore, della corte, dei grandi funzionari, dell’esercito, della Chiesa e dei suoi vescovi fino ad Ambrogio. Oggetti d’arte e di lusso appartenuti a personaggi dell’élite dell’impero o destinati alle chiese testimoniano il passaggio, nel corso del IV secolo, del cristianesimo da devozione lecita privata a una dimensione pubblica e ufficiale e, infine, a unica religione dell’impero. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che

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info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino

Treviso Tibet. Tesori dal tetto del mondo U Casa dei Carraresi fino al 2 giugno 2013

La lunga storia del Tibet, segnata da avvenimenti di grande rilievo anche al di là dell’ambito locale, viene ripercorsa dalla nuova esposizione allestita in Casa dei Carraresi. A Treviso si possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico. Il percorso si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe, carte geografiche e

documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Ampio spazio è quindi riservato alle numerose divinità buddhiste tibetane e alla produzione di statue e dipinti a esse dedicati. Accanto alla statuaria, che tocca vette artistiche di notevole valore, sono esposti anche gli oggetti di culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere

divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno 2013

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati dai maestri dell’arte del fuoco tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille,

bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it

Appuntamenti Bassano del Grappa (VI) Fantastico Medioevo. Simboli e simbologie dell’età di mezzo U Istituto Scalabrini fino al 23 marzo 2013

Il Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny ha dedicato il suo XV corso di storia medievale agli aspetti simbolici e fantastici del mondo medievale. Le conferenze sono in

programma il 3 e il 24 novembre, il 15 dicembre, il 12 e il 26 gennaio 2013, il 9 e il 23 febbraio 2013, e il 9 marzo e il 23 marzo 2013, con inizio alle ore 17,30. Per la partecipazione, è prevista una quota di iscrizione. info tel. 0444 965129 (Marco Ferrero); e-mail info@ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny.it; www.ponziodicluny.it

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storie il viaggio dell’abate emo

Dalla Frisia con furore

Veduta del Vaticano, particolare della pianta del Lazio e della Sabina. 1580-1585. CittĂ del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche.

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O O

ttocento anni fa, nell’inverno del 1211-12, l’abate Emo da Huizinge, originario delle terre frisoni intorno alla città di Groninga (oggi nell’Olanda nord-orientale), intraprese un lungo viaggio fino a Roma. Non come pellegrino o penitente ma mosso dall’indignazione: Emo, infatti, riteneva di essere stato trattato ingiustamente dal vescovo di Münster e intendeva manifestare i motivi del proprio risentimento a papa Innocenzo III. Dell’avventuroso viaggio – in 241 giorni, Emo, in gran parte a piedi, copre una distanza incredibile per l’epoca – l’abate lasciò un resoconto contenuto nella Cronica Floridi Horti, da lui stesso redatta. Due anni fa, lo studioso olandese Dick E.H. de Boer, professore emerito dell’Università di Groninga, si è messo sulle tracce di Emo, ripercorrendo egli stesso – in automobile, in bicicletta e, a volte, a piedi –, da nord a sud e, poi, da sud a nord, le tappe di quel viaggio di ottocento anni fa. Ne è risultato un diario straordinario, pubblicato nel 2011 nei Paesi Bassi con il titolo di Emo’s reis (Il viaggio di Emo), in cui l’autore presenta una dettagliatissima «rivisitazione» di quei luoghi e di quei percorsi. Ma ecco come il professor de Boer ha riassunto, in esclusiva per i lettori di «Medioevo», la singolare impresa del coraggioso abate...

di Dick E.H. de Boer e Aart Heering

Un monaco a cavallo e un cavaliere, particolari da due miniature tratte da un’edizione de I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer (1343-1400). 1410 circa.

Il 9 novembre 1211 Emo partí per Roma, portando con sé l’amico Hendrik, che, dopo aver indossato il saio, aveva poi abbandonato il convento per lavorare come architetto. Obiettivo del viaggio era quello di ottenere il sostegno del papa nella disputa con Otto da Oldenburg, il vescovo di Münster, allora la prima autorità della zona. Pomo della discordia era la chiesa del villaggio di Wierum: Emo l’aveva chiesta per la fondazione di un nuovo convento destinato al suo Ordine, quello dei canonici regolari premostratensi (fondato nel 1120 da San Norberto a Prémontré, in Francia).

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storie il viaggio dell’abate emo

Groninga

Emo da Huizinge

Nella Cronica la sua storia Rampollo di una famiglia nobile delle Ommelanden, la pianura a nord di Groninga, Emo da Huizinge (1175 circa-1237) ricevette una buona educazione e studiò nelle università di Parigi, Orléans e Oxford. Dopo una breve carriera come insegnante nel paesino di Westeremden e come parroco nella natia Huizinge, optò per la vita monastica, entrando nell’ordine dei Premostratensi, fondato un secolo prima da Norberto di Xanten (i cui membri sono perciò anche detti Norbertini) e all’epoca assai popolare nel Nord Europa. Dobbiamo la maggior parte delle notizie su Emo alla Cronaca dell’Abbazia di Bloemhof, la Cronica Floridi Horti (a destra, due pagine del manoscritto), che copre gli anni 1204-96 ed è custodita dalla Biblioteca Universitaria di Groninga. La prima parte dell’opera, che va fino al 1234, è stata scritta dallo stesso Emo, il quale narra la storia del proprio convento e dà conto delle sue riflessioni sul sacerdozio e sulle sue difficoltà. Ma descrive accuratamente anche gli eventi politici della Frisia contemporanea. Emo narra dei Frisoni che, nel 1214, si lasciano convincere da un

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predicatore a partecipare alla quinta crociata, fino al loro arrivo in Terra Santa. Descrive un’altra crociata, locale, invocata nel 1234 contro gli Stedinger, coloni che si rifiutarono di pagare le tasse al vescovo di Brema, non senza nascondere una certa simpatia per i primi. E parla di se stesso come testimone in un processo contro gli assassini del vescovo di Liegi. La seconda parte della Cronica è stata composta nel 1249-75, in parte dal suo successore Menko, che inizia con una breve agiografia del suo predecessore e prosegue come una cronaca classica, senza il tocco personale di Emo. La Cronica termina con una terza parte, molto meno dettagliata, scritta tra il 1276-96 da un autore ignoto.

Incisione del 1729 raffigurante una veduta della città di Groninga, nei cui dintorni, a Huizinge, nacque l’abate Emo.

siena Il duomo di Siena, una delle città attraversate da Emo nel tragitto verso Roma. Particolare di una miniatura dal Liber census communis senesis et liber memoriales offensarum. 12221224. Siena, Archivio di Stato.


IL VIAGGIO DI RITORNO IL VIAGGIO DI ANDATA Nijeklooster Essen Rolde

Groninga

Coevorden Weerselo

OLANDA

Vreden Raesfeld Hamborn (Duisburg)

BELGIO

Meerbusch Mönchengladbach Maastricht Heinsberg Tongeren Houthem Heylissem Villers-la-Ville Bonne Esperance Hautmont Thenailles

Sezanne

A Roma, per avere giustizia

Clairfontaine Laon

Premontré Soissons

Lussemburgo

Chateau Thierry Orbais L'Abbaye

GERMANIA

Mery-sur-Seine Troyes

Strasburgo

Bar-sur-Seine Chatillon-sur-Seine Baigneux-les-Juifs St.-Seine-L'Abbaye

Basilea

Digione Citeaux Allerey-sur-Saône

Zurigo

Il 23 giugno del 1211 la maggioranza dei notabili locali aveva acconsentito al dono. Intorno alla metà di settembre, però, il vescovo aveva annullato tale decisione, in seguito all’opposizione di un nobile di Groninga molto influente (prepotens, come si legge nella Cronica). Una ricerca recente ha dimostrato che si trattava di un banale malinteso: una settimana prima della fatidica decisione, lo stesso nobile aveva infatti dato il suo sostegno al vescovo in una controversia che riguardava un’altra chiesa nella regione frisona. Il 23 settembre Emo presentò una protesta formale, ma senza successo, e non essendoci altro potere locale a cui appellarsi, dovette affrontare una scelta difficile: rassegnarsi e cedere, oppure andare fino a Roma per esporre la sua causa alla Curia. La seconda opzione era anche la piú difficile per quei tempi burrascosi: i contrasti tra Francia e Inghilterra andavano inasprendosi, il trono imperiale tedesco era al centro di una lotta accanita e le persecuzioni dei movimenti eretici stavano sconvolgendo molte nazioni europee. Inoltre, stava approssimandosi l’inverno. Tuttavia, spinti da un misto di coraggio, rabbia e audacia, Emo e Hendrik decisero ugualmente di partire. Nella Cronica, Emo descrive il viaggio in maniera molto sobria. Probabilmente, quando iniziò a elaborare i suoi appunti, intorno al 1219, ebbe l’impressione che molti dettagli non avessero piú importanza. Indi-

SVIZZERA

La Ferté La Salle Belleville Lione Fallavier Chambery La Tour du Pin ITALIA Aiguebelle Nances Saint-Jeoire-Prieurè Saint-Jean-de-Maurienne Lanslebourg Lucedio San Maro Torinese Avrieux Mortara Moncenisio Torino Calendasco Breme Novalesa Piacenza Pavia Susa Sacra Chiaravalle della Colomba di San Parma Fornovo di Taro Michele Berceto

FRANCIA

Pontremoli Santo Stefano di Magra Valdicastello Lucca Firenze San Miniato Poggibonsi Siena San Quirico D'Orcia

(sono evidenziate in rosso le località descritte in dettaglio da Emo nel resoconto del viaggio contenuto nella Cronica Floridi Horti)

Radicofani San Lorenzo Vecchio Viterbo Sutri

roma Particolare di una veduta di Roma, tempera su tela di scuola mantovana, da un originale tardo-quattrocentesco. 1540-1545. Mantova, Museo di Palazzo Ducale.

Roma

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storie il viaggio dell’abate emo cò in maniera generica l’itinerario che aveva seguito, si occupò ampiamente della lettera di raccomandazione lasciatagli dall’abate del convento di Prémontré, e descrisse brevemente gli avvenimenti principali della sua permanenza a Roma e della sua sosta forzata a Bologna. Per il tratto fino a Prémontré, sede dell’abbazia madre del suo Ordine, Emo elencò dodici luoghi con il loro nome, sei dei quali accoglievano un convento premostratense, due un convento cistercense e uno un convento benedettino. Una circostanza che prova quale fosse il principio fondamentale di quello che potremmo definire il viaggio «low cost» su base monastica: l’uso dell’ospitalità di conventi dell’Ordine proprio o di uno affine per pasti e pernottamenti (la regola premostratense è agostiniana, con influssi cistercensi, n.d.r.). È probabile che il viaggio si facesse perlopiú a piedi, ma i due viandanti potrebbero anche aver fatto uso di un cavallo o di un asino come bestia da soma. Emo menziona esplicitamente un mezzo di trasporto solo in occasione del viaggio di ritorno, quando racconta il tratto da Strasburgo a Colonia, fatto per nave. In ogni caso, ai fini della velocità e della distanza coperta non faceva una grande differenza. La velocità media della corrente del Reno in quel tratto è di circa 6 kmh (in giugno), e, dovendo seguire i meandri del fiume, la distanza risultava superiore a quella che sarebbe stata coperta seguendo la strada. Il viaggio di Emo passò per quella che il geografo francese Roger Brunet ha definito «Banana blu». La curiosa denominazione indica la zona piú fortemente antropizzata dell’Europa: da Londra, seguendo una striscia che va dal Nord della Francia alla regione del fiume Ruhr in Germania, fino all’Italia del Nord e quella centrale. Un segmento che presenta la curvatura di una banana e il colore blu dell’Europa, nel quale le grandi città sono i principali motori dell’economia e dell’innovazione. Un concetto moderno che può sorprendentemente essere applicato anche alla fase di rinnovamento di cui il continente era protagonista intorno al 1200. La doppia «banana» delle rotte seguite da Emo ricalca le strade battute da mercanti e pellegrini, lungo le quali, anche allora, sia beni che idee si spostavano tra città nelle quali si sviluppavano nuove pratiche economiche, espressioni culturali e visioni scientifiche.

Nella rete della burocrazia papale

Dal 19 gennaio 1212 Emo trascorse cinquanta giorni a Roma per poter presentare la sua causa al papa e ottenere un giudizio, un’impresa non certo facile. Sotto Innocenzo III (1198-1216) la Curia era cresciuta fino a diventare una burocrazia forte ma lenta, piena di dotti giuristi che avevano dato vita a un sistema di regole impenetrabili. Innocenzo aveva a cuore, in maniera quasi ossessiva, la qualità della predica, l’essenza dell’essere prete, la purezza della Chiesa e il pericolo delle eresie. E il suo anelito di purezza si tradusse, dal punto di vista burocratico, in un sistema che, come il proverbiale cane, si mordeva la coda. La discussione di una causa

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I resti dell’abbazia cistercense di Villers-la-Ville (Belgio). Fondata nel XII sec. e distrutta alla fine del XVIII, fu uno dei luoghi in cui sostò Emo, secondo la regola che prevedeva l’ospitalità in conventi del proprio Ordine – o in uno affine – per pasti e pernottamenti.

qualsiasi a Roma divenne, già allora, una procedura assai lunga e costosa. La lunga durata del soggiorno di Emo a Roma dipendeva anche dal fatto che cadde in tempo di Quaresima. In quel periodo il papa e il suo entourage erano quotidianamente in giro per celebrare la messa nelle varie chiese stazionali di Roma. Siccome questo rito si svolge secondo lo stesso schema da millecinquecento anni, possiamo intuire dove Emo si trovasse, giorno dopo giorno, e seguirlo nei suoi tentativi di raggiungere i dignitari di cui aveva bisogno. Ma i suoi possibili interlocutori avevano problemi piú seri da risolvere che non la disputa tra un abate friso-groninghese e il suo vescovo. Essi dovevano infatti occuparsi della situazione dei Balcani, delle crociate contro gli albigesi, della lotta contro i Mori in Spagna e dei tentativi di diversi Ordini mendicanti di mettere piede (nudo) nel paesaggio ecclesiale. Finalmente, Emo ottenne l’appoggio papale, seppure in una forma ben diversa da quella sperata: il suo convento poté conservare la proprietà della chiesa di Wierum, ma dovette pagare un compenso in denaro al nobile di Groninga che in precedenza si era opposto. Un compromesso in odore di simonia (il commercio di beni dicembre

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il viaggio

Seguendo Emo

spirituali – per esempio indulgenze – o di beni temporali a essi inerenti – come le cariche ecclesiastiche – cosí chiamato dal nome di Simon Mago che, secondo gli Atti degli apostoli, tentò di comperare da Pietro il potere di comunicare i doni dello Spirito Santo, n.d.r.), ma che alla fine Emo accettò come giusta soluzione.

Una scelta azzardata

Sulla via del ritorno i viaggiatori incontrarono ostacoli enormi. In primo luogo, Emo aveva consumato tutti i suoi averi, a causa del protrarsi della permanenza romana e dei costi della procedura. In piú, andava inasprendosi lo scontro tra l’imperatore scomunicato Ottone IV e l’eletto dal papa, Enrico II, motivo per il quale lungo tutta la strada era reale il pericolo di essere assaltati da mercenari antipapali. Perciò Emo diede in pegno la bolla papale, ottenuta con tanta fatica, a un gruppo di mercanti, i quali gliel’avrebbero resa a Bologna, in cambio della somma prestata. All’apparenza l’accordo garantiva un doppio vantaggio: un trasporto piú sicuro attraverso i pericolosi Appennini e la possibilità di farsi poi concedere un ulteriore prestito, piú consistente, da un banchiere di Lucca, Siena o Pavia.

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Come si legge nell’introduzione, l’autore dell’articolo che presentiamo in queste pagine, Dick E.H. de Boer, professore emerito di storia medievale all’Università di Groninga, si è trasformato in un novello Emo da Huizinge: ha infatti ripercorso il medesimo itinerario seguito dall’abate nel suo viaggio per e da Roma e dalla sua esperienza ha tratto un resoconto illustrato, Emo’s Reis (Il viaggio di Emo), pubblicato nei Paesi Bassi nel 2011 dalla Friese Pers Boekerij & Uitgeverij Noordboek di Leeuwarden (www.noordboekwinkel.nl, solo in lingua olandese). Un resoconto concepito in forma di guida, che offre indicazioni dettagliate, numerose osservazioni e un ampio apparato iconografico.

Come ha scritto lo stesso de Boer, è stata un’esperienza straordinaria: «Ovunque ho trovato ricordi visibili del tempo di Emo: perle dell’architettura tardoromanica, tratti di sentieri di pellegrini incontaminati o, al contrario, parti della via Francigena verso Roma tuttora usate da migliaia di persone, chiese stazionali dimenticate a Roma, bagni rituali ebraici nelle città tedesche del Reno. Uno degli aspetti che piú mi hanno colpito è la consapevolezza che Emo abbia valicato il Moncenisio pochi giorni dopo il Natale del 1211, quando il passo doveva essere stato chiuso per la situazione meteorologica. Piú d’uno l’aveva preceduto – per esempio Annibale o l’imperatore Enrico IV sulla via per Canossa – ma molto raramente durante l’inverno. Questa determinazione è, del resto, uno dei tratti caratteriali dell’abate, che il suo viaggio non ha fatto altro che evidenziare».

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storie il viaggio dell’abate emo IL VIAGGIO DI RITORNO Nijeklooster

Groninga Essen Rolde

IL VIAGGIO DI ANDATA

parma

Coevorden Nordhorn

Duomo di S. Maria Assunta. Deposizione dalla Croce, particolare del bassorilievo di Benedetto Antelami. 1178.

Monastero di Langenhorst Monastero di Varlar

OLANDA

BELGIO

Meerbusch Dormagen Maastricht Colonia

Münster Cappenberg Dortmund Werden Monastero di Heisterbach Sinzig Bendorf

Boppard (Bacharach)

Magonza

Lussemburgo Worms Orbais L'Abbaye

Schwarzach

spira Il duomo di Spira, in Germania, edificato nell’XI sec. Incisione del 1890 circa.

Spira

Strasburgo

FRANCIA Basilea

Offenburg Ettenheimmünster Freiburg im Breisgau Müllheim (Bad) Sackingen

GERMANIA

Zurigo Rüti Weesen Sargans SVIZZERA Chur Cazis San Bernardino Splügen Mesoco Bellinzona Lugano Chambery

Brugg

ITALIA

Como Milano Vertemate Chiaravalle Milanese Lodi Torino Pavia Calendasco Piacenza Chiaravalle della Colomba Fornovo di Taro Berceto

Parma Modena Villafranca

Bologna

Pietrasanta

bologna Incisione del XVI sec. raffigurante la città di Bologna, in cui Emo dovette fermarsi per piú giorni, lungo il viaggio di ritorno verso Wierum.

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(sono evidenziate in rosso le località descritte in dettaglio da Emo nel resoconto del viaggio contenuto nella Cronica Floridi Horti)

Firenze Galleno Poggibonsi Buonconvento Abbadia San Salvatore Acquapendente Montefiascone Sutri Roma


L’esito, invece, fu disastroso: giunto a Bologna, Emo fu informato del fatto che proprio i mercanti ai quali si era rivolto erano stati derubati. Allora, il suo compagno di viaggio, l’architetto Hendrik, decise di tornare subito a Roma, dove, conoscendo ormai la strada, arrivò molto piú velocemente e dove questa volta seppe aggirare gli scogli della burocrazia. Emo, invece, rimase a Bologna. In un primo tempo si ammalò per il dispiacere, ma poi si riprese e si mise diligentemente a copiare alcuni manoscritti conservati nella piú antica città universitaria d’Europa. Intorno al 12 maggio 1212 Hendrik tornò con un nuovo esemplare della bolla, e poco dopo i due ripresero il viaggio di ritorno. Il 6 luglio, Emo poteva riabbracciare i suoi fratelli del convento di Wierum, nella piacevole certezza che, finalmente, i problemi erano risolti. In 241 giorni, i due avevano percorso una distanza di circa 3000 km (2500 dei quali a piedi). L’anno successivo Emo fondò la sua abbazia, con il lieto nome di Bloemhof («Giardino fiorito»), dove rimase fino alla sua morte nel 1237. Per alcuni secoli l’abbazia rimase un importante centro di cultura. I monaci, inoltre, parteciparono attivamente alla bonifica e alla gestione delle acque nelle zone circostanti. Nel 1561, con l’avanzare della Riforma protestante, il convento fu abbandonato e i suoi mattoni usati per la costruzione di un nuovo palazzo governativo a Groninga. Piú di un secolo dopo, nel 1683, nello stesso luogo sorse una chiesa protestante. Ma l’eredità di Emo sopravvive ancora nel nome del piccolo villaggio che ora conta un centinaio di abitanti: non si chiama piú Wierum, ma Wittewierum, cioè «Wierum bianca», bianca come il colore della tonaca dei monaci dell’Ordine premostratense.

Una regione «a statuto speciale»

Ma perché Emo, abate di un piccolo convento nell’estremo Nord del Sacro Romano Impero, dovette andare fino a Roma per far risolvere dal papa un piccolo conflitto locale? La risposta si trova nella particolare situazione politica della sua regione, nota co-

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me Libertas Frisonica. Nella Frisia, che all’epoca di Emo comprendeva l’attuale omonima provincia olandese – in cui tuttora si parla la lingua frisona – nonché i territori dell’odierna Frisia orientale tedesca fino alla costa della Danimarca sud-occidentale, non era mai stato introdotto il feudalesimo. Politicamente la regione era composta da città indipendenti nell’Ovest e piccole repubbliche contadine verso est, nell’attuale provincia di Groninga, dove si trovava il convento di Emo. Tale situazione viene a formarsi subito dopo la conquista della Frisia da parte dei Franchi, nell’VIII secolo. La leggenda vuole che l’imperatore Carlo Magno, nell’802, avesse garantito ai Frisoni la libertà da qualsiasi signoria come ringraziamento per l’aiuto dato, tre anni prima, dal loro capo Magnus Forteman alla discesa in Italia dell’allora re dei Franchi. L’editto che avrebbe stabilito questo Privilegium Frisiorum Caroli Magni è quasi certamente un falso (la piú antica copia conservata risale al XIV secolo), ma nel Medioevo la sua veridicità non fu messa in discussione. I privilegi della Frisia furono infatti riconosciuti e riconfermati piú volte, dall’imperatore Corrado II nel 1039, da Enrico V insieme a papa Pasquale II nel 1108, e dal re di Roma Guglielmo II d’Olanda nel 1248. Ancora nel 1417, l’imperatore Sigismondo dichiarò la Frisia come una sua dipendenza diretta, senza il tramite di un conte o duca, il che equivaleva a un riconoscimento indiretto della sua indipendenza, visto che pochi imperatori avevano tempo e voglia di occuparsene. Per la verità, prima di lui alcuni imperatori avevano cercato di dare le terre frisone in feudo a un loro vassallo, ma con scarso successo. Cosí, nel 1101, Enrico il Grasso, marchese di Braunschweig, tentò di impossessarsi della regione, ma durante un Wierum. La chiesa di S. Maria, edificata nel XIII sec. e ristrutturata all’inizio del XX. Il piccolo villaggio olandese ospitò l’abbazia premostratense di Bloemhof, fondata da Emo nel 1213, dopo aver ottenuto l’assenso di papa Innocenzo III.

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storie il viaggio dell’abate emo ricevimento a Stavoren, fu assassinato dagli abitanti del luogo. Una sorte non migliore toccò a un altro pretendente, il conte d’Olanda Guglielmo IV, che, nel 1345, fu battuto e ucciso da un esercito improvvisato di cittadini e contadini, che combatterono al motto di «Meglio morto che schiavo», che è tuttora la frase-simbolo dei Frisoni (sebbene sia stata usurpata, in tempi piú recenti, dagli anarchici di mezzo mondo).

I doni di Dio, terre fertili e libertà

Per secoli, dunque, i Frisoni governavano se stessi, in una situazione di pace sostanziale, dopo la cessazione delle incursioni normanne nel X secolo. L’assenza di un’aristocrazia, con tutti gli oneri di tasse e corvée che ciò comportava, fu uno stimolo importante per l’eco-

nomia locale, come riconosce lo stesso Emo. Nella sua Cronica l’abate di Wierum elenca come ricchezze regalate da Dio ai Frisoni, oltre al gran numero di abitanti, le grasse mandrie di bestiame e le terre fertili, appunto la loro libertà. Nella seconda metà del XV secolo, tuttavia, la situazione cambia, quando la Frisia occidentale è lacerata da lotte interne tra diverse fazioni e città, mentre la città di Groninga assume il controllo della zona circostante e la nobile casata dei Cirksena dà vita alla contea della Frisia orientale. La «libertà frisone» finisce di fatto nel 1498, quando l’imperatore Massimiliano I nomina l’elettore Alberto di Sassonia podestà della Frisia, che, nel 1515, entra nel novero dei possedimenti di Carlo V. I nobili frisoni ebbero un ultimo scatto d’orgoglio in occasione dell’incorona-

A Roma

La Chiesa dei Frisoni Come altri pellegrini venuti dal Nord, l’abate Emo poteva contare sull’ospitalità offerta dalla foresteria di una piccola colonia di connazionali residenti a Roma. In seguito alla cristianizzazione della Frisia, avvenuta sul finire dell’VIII secolo, sorse questa Schola Frisonum, ai piedi del Gianicolo. La Schola si trovava molto vicino alla tomba di S. Pietro, nel rione di Borgo (l’ingresso è oggi al civico 21 di Borgo Santo Spirito), accanto a quella dei Sassoni, alla cui presenza deve il suo nome la chiesa di S. Spirito in Sassia. La Schola Frisonum è menzionata per la prima volta nel 799, quando partecipò all’accoglienza tributata a papa Leone III al suo ritorno a Roma dopo un esilio durato sei mesi. Nell’846 i Frisoni sono tra i difensori che tentano, invano, di proteggere la città da un attacco di predoni saraceni. Anche la loro Schola è distrutta, ma si riprende subito dopo la costruzione della Città Leonina. In un editto dell’854, due anni dopo la benedizione delle nuove mura da parte di Leone IV, viene già menzionata una chiesa frisone, dedicata all’arcangelo Michele. A lui piú tardi si aggiungerà San Magno, vescovo e martire di Alatri, che nel

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Medioevo raggiunse una grande popolarità nell’Europa settentrionale. Di questa chiesa, distrutta a sua volta dai Normanni nel 1084, non resta che una lapide, ora incorporata in una parete della chiesa attuale, dedicata a un certo cavaliere Hebe (tipico nome frisone), morto a Roma nel 1004. Una nuova chiesa frisone viene inaugurata nel 1141. L’attuale edificio, raggiungibile per una scala che parte di fronte al colonnato di Bernini, è stato pesantemente rimaneggiato nel Sette e Ottocento, mentre il campanile è rimasto sostanzialmente inalterato. Nel XIII secolo chiesa e «burgus Frisonum» sono nominati in diversi documenti, dicembre

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zione di suo figlio Filippo II, a Bruxelles, nel 1555. Invitati a inchinarsi davanti al sovrano si rifiutarono con la motivazione che «un Frisone si inginocchia solo davanti a Dio». Tuttora il forte senso di indipendenza e la testardaggine sono considerati l’essenza del carattere frisone. In questa situazione di anarchia moderata, l’unico a godere di un rispetto, almeno morale, in tutta la regione era il vescovo di Münster. A differenza del resto dell’Olanda, compresa Groninga, la sua diocesi amministrava gran parte della Frisia, una zona convertita solo nei decenni finali dell’VIII secolo. La diocesi continuò a comprendere la Frisia olandese (e tuttora comprende la Frisia orientale tedesca) fino al 1559, quando fu istituita la diocesi di Groninga, nel tentativo di fermare la Riforma protestante. Un tentativo comunque fallito, visto che,

ma allo stesso tempo subiscono le pressioni di prelati intesi ad annetterli ai possedimenti vaticani. Di questa lotta è testimone la lunga iscrizione nella parete sinistra della chiesa, che narra la vicenda di tre cavalieri frisoni, Ilderado di Groninga, Leomot di Stavoren e Hiaro di Esens. I Frisoni avrebbero combattuto i Saraceni nell’esercito di Carlo Magno, Nella pagina accanto la facciata e la navata centrale della chiesa dei SS. Michele e Magno, a Roma. La prima fondazione del luogo di culto risale all’VIII sec., con il nome di Schola Frisonum.

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nel 1594, l’amministrazione cittadina vietò addirittura la messa cattolica e abolí la sede vescovile, ripristinata soltanto nel 1956. In assenza di un’autorità civile in grado di opporsi alla decisione del vescovo, Emo si vide costretto ad appellarsi a un’autorità ecclesiastica superiore. Seguendo la gerarchia ecclesiastica si sarebbe dovuto rivolgere all’arcivescovo di Colonia, superiore diretto del vescovo di Münster. In quel momento, però, la dignità arcivescovile era contesa tra due pretendenti, Adolfo di Altena e Dietrich di Engelbach, ambedue fortemente coinvolti nella lotta tra guelfi e ghibellini. E cosí, piuttosto che affidarsi alla dubbia autorità dei prelati germanici, Emo decise di rivolgersi al papa. Intraprese dunque il suo viaggio e ottenne quel che voleva. Non male per un abate di provincia! F

dopodiché l’imperatore e il papa, in segno di riconoscimento, avrebbero fatto costruire per loro questa stessa chiesa, come luogo di accoglienza dei loro connazionali, «fino all’eternità». Inoltre, i cavalieri avrebbero trovato a Fondi il corpo di San Magno, portandone un braccio in patria e lasciando il resto nella chiesa Roma, SS. Michele e Magno. Epigrafe che ricorda la costruzione della chiesa, al tempo di Leone IV, e i restauri eseguiti durante il papato di Clemente VIII, nel 1608. Sopra la lapide, un rilievo con San Michele che uccide il drago.

che cosí fu dedicata anche a lui. Si tratta di un testo ovviamente apocrifo, scritto intorno al 1300, per difendere l’identità frisone della chiesa. Senza successo però, perché nel 1309 i papi si trasferirono ad Avignone, dove rimasero fino al 1376, con il conseguente arresto del flusso di pellegrini a Roma. Senza la comunità frisone la chiesa e i dintorni tornano in mano al papa, il quale nel 1446 ne toglie il possesso ai Frisoni, mentre, nel 1513, Giulio II incorpora la chiesa nel capitolo di San Pietro. Nel corso dei secoli, è stata utilizzata da varie istituzioni pie, ultima delle quali l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento. L’origine frisone-olandese non viene tuttavia dimenticata, come dimostra per esempio un disegno della «chiesa frisone» fatto nel 1932 dal grafico olandese Maurits Escher. Negli anni Ottanta del Novecento rinasce l’interesse per la chiesa, che allora si trovava in uno stato deplorevole. Furono avviati interventi di restauro conclusi nel 2011. Dal 1985 ogni domenica viene celebrata la messa in lingua olandese, e talvolta in frisone. Nel 2004 i proprietari, la diocesi di Roma e il capitolo di San Pietro, indicano SS. Michele e Magno come chiesa degli immigrati olandesi, concludendo cosí un ciclo iniziato dodici secoli prima. Aart Heering

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protagonisti gregorio di tours

Gregorio di Tours (538 circa-594), storico e vescovo della cittĂ francese. Illustrazione da Le Plutarque Francais di Edmond Mennechet. 1836.


Quel «manifesto» dei secoli bui

di Elena Percivaldi

Sul finire del VI secolo, Gregorio di Tours, vescovo e cronista, si cimenta nella missione di «creare una memoria degli uomini passati». Facendo di una certa «rozzezza di stile» il punto di forza di una narrazione chiara e diretta, l’autore dell’Historia Francorum conduce il lettore attraverso un’età incerta, funestata dall’affermazione violenta della dinastia dei Merovingi

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orse l’ultimo, vero esempio di cronista «universale», ma anche il primo narratore di storia «moderno». Cosí si potrebbe definire Gregorio di Tours, autore di una monumentale Historia Francorum (Storia dei Franchi): dieci libri che iniziano da Adamo per giungere al 584, dagli albori ai suoi tempi. Ma nonostante il titolo, e a differenza della poco piú tarda Storia Ecclesiastica degli Angli di Beda (vedi «Medioevo» n.187, agosto 2012), la sua tutto è meno che una cronaca «nazionale». Al centro delle vicende ci sono sí i Franchi intesi come un nuovo popolo che si affaccia alla storia ed è protagonista, con i suoi duchi e i suoi re, di molti fatti e parecchi misfatti. Ma Gregorio, da buon intellettuale di orgogliosa ascendenza romana – apparteneva a un’antica famiglia facente parte dell’oligarchia – non può che considerare i tempi in cui vive – la turbolenta stagione tra la metà e la fine del VI secolo – come il trionfo della barbaritas e della feretas, della ferinità e della

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Il frontespizio di un’edizione della Historia Francorum (Storia dei Franchi), opera in dieci libri composta da Gregorio di Tours. Fine del VII sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

cattiveria, rappresentate proprio dai sovrani franchi, dalle loro debolezze e degenerazioni. Quella che descrive è dunque un età di transito tra un passato da rimpiangere – quello che affondava le sue radici nella gloria e nella tranquillità dell’impero – e un presente (e un futuro?) da temere, perché governato da un popolo cieco, ottuso e spesso anche crudele. Il suo diventa cosí, inconsapevolmente, il manifesto per antonomasia dei «secoli bui».

Veneratissime reliquie

Gregorio di Tours, al secolo Georgius Florentinus (Giorgio Florentino), nacque ad Arverna (oggi ClermontFerrand), nell’Alvernia, intorno al 538. Secondo di tre figli, veniva da

una famiglia cristiana, non coltissima, ma agiata. Il padre Florenzio, senatore di Clermont, morí quando Giorgio era ancora giovane. Questi cercò in ogni modo di alleviare il dolore al padre, oppresso dalla gotta, ricorrendo alle preghiere ma, soprattutto, all’intervento miracoloso di una misteriosa figura – che poi scoprí essere quella del venerato San Martino – e delle reliquie. E le reliquie furono una presenza costante nella stirpe di GiorgioGregorio: contenute in un astuccio d’oro, dopo aver preservato il padre dalle malattie e dai pericoli corsi lungo il viaggio compiuto al seguito di re Teodeberto, passarono alla madre e, come lo stesso Gregorio racconta, dimostrarono tutta la loro

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protagonisti gregorio di tours potenza salvando dapprima i campi della sua proprietà da un incendio che stava devastando i raccolti e poi, passate a lui (le portava al collo), proteggendolo da tempeste e avversità. La madre, Armentaria, era nipote del conte di Autun e vescovo di Langres, che si chiamava Gregorio, dal quale, piú tardi, il giovane ereditò il nome. A differenza del marito, era una donna tranquilla e metodica, dolce e affettuosa, capace di colmare il vuoto lasciato precocemente da Florenzio nella vita del giovane Giorgio. Tra i due si stabilí un legame fortissimo: anche quando lui divenne vescovo di Tours, tornò a trovarla piú volte e la portò sulla tomba di San Martino per alleviare San Martino divide il mantello con un povero. Vetrata istoriata con le Storie di San Martino nella cattedrale di S. Graziano a Tours. XIII sec.

i dolori alle gambe di cui soffriva. E, dopo il trapasso, Armentaria rimase in contatto con il figlio in sogno e, anzi, fu proprio lei a esortarlo a intraprendere la carriera letteraria:«Una volta vidi in sogno – racconta – che a mezzogiorno, nella basilica di S. Martino, molti indigenti e malati, afflitti da varie indisposizioni, venivano risanati. Vidi anche mia madre che, guardandomi, disse: «Perché sei cosí esitante a scrivere le cose che vedi?». Le rispondo: «Tu sai come io sia sprovvisto nelle lettere. Non oso quindi divulgare da stolto ignorante miracoli cosí straordinari. Vivessero ancora Severo e Paolino, o almeno fosse qui Fortunato a descrivere tutto questo! Ma io, se davvero tentassi di raccontare questi fatti, davvero cadrei in ben miseri riassunti». Ed ella mi replicò: «Non sai dunque che quel che conta per la comprensione della folla è il modo in cui tu riesci

a esprimerti? Non esitare, non aver timore di raccontare perché se tacerai questi fatti, allora davvero sarai colpevole!». L’esortazione cosí accorata ha successo: poco dopo Giorgio scrive il Liber de virtutibus sancti Martini episcopi, altre opere agiografiche e inizia la Historia Francorum.

La scuola di Avito

La famiglia di Gregorio era dunque discreta ma non particolarmente colta, se dobbiamo credere a ciò che egli stesso dice a proposito della sua educazione: ricevette i primi rudimenti a sette anni dallo zio materno Nicezio, ma aveva difficoltà a leggere. Solo piú tardi poté perfezionare le sue conoscenze: dapprima con lo zio Gallo, vescovo di Clermont, e poi con Avito, anch’egli detentore della cattedra del capoluogo dell’Alvernia, che aveva radunato presso di sé una rudimentale organizzazione scolastica. Tuttavia, il ragazzo

Martino di Tours

Il soldato che divenne santo

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Nato a Sabaria, in Pannonia, nel 316 o 317, Martino di Tours, dopo aver prestato servizio nell’esercito romano in cui suo padre era ufficiale, ricevette il battesimo a 18 anni ad Amiens. Abbandonato l’esercito, si ritirò in un eremo nell’isola Gallinaria, si fece monaco e nel 371 fu consacrato vescovo di Tours. È celebrato come il fondatore del monachesimo occidentale. Fondò a Ligugé il primo monastero d’Occidente e poi quello di Marmoutier (Maius Monasterium) verso il 375. Il suo mantello, da lui diviso con un povero, fu una reliquia tenuta in grande onore nel regno dei Franchi. A Martino di Tours, il santo piú popolare della Francia medievale e uno dei piú popolari d’Europa, sono connesse molte tradizioni (preparazione di cibi speciali, accensione di fuochi, questua rituale), legate anche alla posizione della sua festa, l’11 novembre, alla chiusura dei raccolti. (red.) dicembre

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non è soddisfatto: considera tali studi sterili e incapaci di infondergli qualsiasi interesse per la grammatica o per la lettura dei classici, orientandolo invece in maniera decisa verso le scritture religiose. Gregorio, del resto, ribadisce nella prefazione alla sua opera maggiore la sua scarsa preparazione: ma la sua rusticitas (rozzezza di stile), ammessa con candore e senza vergogna alcuna, finisce per diventare un pregio e anzi un vezzo, in quanto – è la sua idea – narra la verità senza bisogno di ricorrere a inutili ampollosità letterarie. Di piú, quella di Gregorio diventa una vera e propria missione: tramandare «le lotte di uomini cattivi e la vita di coloro che vivono secondo il bene, perché si crei una memoria degli uomini passati a chi domani si accosterà a questa storia, seppur narrata in modo rozzo». Questo insistere sulla rozzezza dello stile è tanto piú singolare in quanto la natia Clermont, un tempo la gallica Augustonemetum, si faceva forte di un’eredità romana che, in Alvernia come in Aquitania, in Borgogna e Provenza, era profonda e ancora viva quando vi giunse Clodoveo, il secondo, «mitico», re dei Franchi, figlio a sua volta di Childerico, capo che, da alleato dei Romani, si era distinto dapprima contro gli Unni di Attila e poi contro i Visigoti. Il 24 dicembre 496 Clodoveo si era fatto battezzare a Reims insieme alle sorelle, facendo dei Franchi l’unico popolo germanico che si era convertito direttamente dal paganesimo al cattolicesimo, senza passare dalla dottrina «eretica» di Ario. Romanità e cristianesimo, in questa parte del regno, dunque viaggiavano di pari passo e si supportavano, grazie al prestigio del passato, a vicenda. Dopo una parentesi formativa trascorsa a Lione presso il prozio Nicezio, nel 563 Gregorio giunge finalmente a Tours. La città, bagnata dalla Loira, era allora un centro fervente di attività e di scambio tra

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due culture: quella franca, che in maniera anche turbolenta aveva abitato sin dai primordi il Settentrione, e la già citata romana, adagiata a Sud e forte della sua ricchezza e stabilità.

Nella città del Santo

Linea di demarcazione tra Neustria e Aquitania, aveva il suo fiore all’occhiello nella basilica di S. Martino, fatta costruire nel 437 per ospitare la tomba del santo di origine pannonica (316-397), divenuto vescovo della città e fondatore di monasteri. La chiesa era talmente frequentata da dover essere ampliata poco piú di un trentennio dopo. Stando alle parole di Gregorio, era «lunga centosessanta piedi e larga sessanta. La sua altezza fino alla volta è di quarantacinque piedi. Ha trentadue finestre dalla parte dell’altare e

Al centro delle vicende narrate ci sono i Franchi, un nuovo popolo, protagonista, con i suoi duchi e i suoi re, di molti fatti e parecchi misfatti In alto particolare di una statua del sovrano merovingio Childeberto I, re dei Franchi dal 511 al 558, dal refettorio dell’abbazia parigina di St.Germain-des-Prés. 1239-1244. Parigi, Museo del Louvre. A destra testa del re merovingio Clodoveo I (481-511), da un rilievo raffigurante il battesimo del sovrano, nella cattedrale di Reims. XIII sec. Reims, Palais du Tau.

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protagonisti gregorio di tours venti nella navata che è ornata da quarantadue colonne. In tutto l’edificio vi sono cinquantadue finestre, centoventi colonne, otto porte, tre presso l’altare e cinque nella navata (…) Siccome il rivestimento in legno della precedente cappella era di elegante fattura, il pontefice non credette opportuno distruggerlo e fece costruire, in onore dei santi Pietro e Paolo, un’altra basilica ove fece piazzare questo rivestimento». A impreziosirla ulteriormente era giunto anche il corpo del santo, sistemato dietro l’altare principale e sormontato da un grande blocco di marmo che doveva indicarne la posizione ai fedeli e ai pellegrini che vi si recavano in preghiera. Sul sepolcro di Martino, Gregorio si prostra con fervore per guarire da una malattia che non gli dà tregua. Riottenuta la salute, il legame tra lo scrittore e il santo divenne indissolubile e il secondo intervenne piú volte per proteggere il primo dai pericoli. Gregorio compie la sua formazione a Tours, ma anche altrove. Dapprima come diacono – sulla cattedra cittadina vi è Eufronio, cugino della madre –, poi come chierico a Sant’Illidio di Clermont, poi nuovamente come diacono a Lione e infine a San Giuliano di Brioude. Quando torna a Tours, è ormai ma-

il quadro storico

Il «trionfo della barbarie» Qualche accenno alle vicende a questo punto non sarà inutile. Sigeberto alla morte del padre Clotario (561) aveva ereditato l’Austrasia, ossia la parte orientale del regno merovingio, scegliendo come capitale Metz, ma, fin da subito, aveva cercato di strappare la vicina Neustria al fratellastro Chilperico I. Mentre si trovava a combattere gli Avari sul fronte orientale, Chilperico ne aveva approfittato entrando a Reims e suscitando le ire del fratello, il quale, terminata vittoriosamente la guerra, si era vendicato, occupando

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turo per il grande salto: alla fine di agosto del 573 ottiene la cattedra dalle mani del vescovo di Reims, Egidio, auspici re Sigeberto I (561-75) e la regina Brunilde. Egli stesso ci dà notizia delle attività che avrebbe svolto nell’ambito del suo nuovo incarico: alimentare la fede, recuperare gli edifici sacri, combattere i pagani, cercare le reliquie, restaurare le chiese e fondarne di nuove. Ma si tratta, piú che altro, di topoi letterari, che si ritrovano un po’ in tutte le biografie dei vescovi dell’epoca. Fermo restando lo spregio contro i pagani, in realtà, ciò che preme a Gregorio, piú della cura delle anime, è il dialogo – spesso lo scontro – con l’élite franca e con

La dinastia merovingia, illustrazione da La monarchie française en estampes. XIX sec. Clotario I (497-561)

la capitale del rivale e catturandone il figlio. La situazione, già esplosiva, era divampata quando Sigeberto, volendo ottenere per via dinastica l’alleanza con i Visigoti, aveva sposato la figlia del re, Brunilde. Chilperico allora, dopo aver ripudiato la prima moglie, aveva chiesto e ottenuto in sposa la sorella di Brunilde, Galsuinda, ma l’anno seguente l’aveva fatta assassinare per sposare la sua concubina Fredegonda. Mentre Gregorio diventava vescovo, Sigeberto, spinto dalla moglie a vendicare la sorella, muoveva guerra a Chilperico, lo

cariberto (521-567)

sconfiggeva e allargava i suoi territori fino alle città di Limoges e Cahors. Occupata infine la Neustria, nel 575 Sigeberto cadeva in un complotto ordito dalla moglie del nemico sconfitto. A questo punto, Chilperico faceva prigioniera Brunilde, che però riusciva a fuggire col figlioletto di cinque anni e a tornare sul trono, mentre Fredegonda combatteva per assicurare il comando ai figli avuti da Chilperico stesso. Prendendo a pretesto il matrimonio celebrato segretamente tra Brunilde e Meroveo, l’erede al trono di Neustria, faceva braccare dicembre

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Chilperico I (539 circa-584)

fredegonda (545 circa-597)

quest’ultimo fino alla morte. Brunilde, catturata in seguito da Clotario, figlio di Chilperico e Fredegonda, è torturata per tre giorni e infine – la narrazione del supplizio ci è giunta grazie allo storico franco Fredegario –, legata alla coda di un cavallo per i capelli, per un braccio e per un piede, trascinata dalla bestia a spron battuto finché non trova la morte. La barbarie, ammonisce Gregorio, sembra trionfare indisturbata. Né le cose – come dimostrarono i fatti che narrò negli ultimi libri – migliorarono.

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clotario II (584-629)

la monarchia in particolare, in un momento in cui le guerre erano all’ordine del giorno e l’esistenza sempre piú precaria.

Trame oscure e mirabilia

Gregorio coglie – anzi rende esplicita – la concitazione degli eventi, senza mezzi termini. E, in effetti, tutta la prima parte della sua opera ha qualcosa di sbrigativo. L’ambizione, come già detto, è quella di scrivere una «storia universale», che da Adamo giunga fino all’età sua contemporanea: ma se ben guardiamo la distribuzione della materia del primo libro, ci accorgiamo

nantechilde (?-646)

Dagoberto I (600-638)

che tutte le vicende bibliche, la nascita, la vita e la morte di Cristo, la diffusione della nuova religione, le persecuzioni e i tanti esempi di vescovi martiri sono affrontati in maniera superficiale e, tutto sommato, sbrigativa. Come se l’autore si sentisse in qualche modo «costretto» ad aderire a un cliché diffuso presso la storiografia antica, ma non ne fosse affatto convinto. Il primo libro termina con la morte di S. Martino; i restanti tre del primo «blocco» affrontano le intricate vicende del regno merovingio, fino alla morte di Sigeberto (575). A Gregorio interessano i fatti

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protagonisti gregorio di tours narrazione di Gregorio è la mancanza di una guida razionale, di una Provvidenza che dia un ordine ai fatti. L’opera mediatrice della Chiesa è molto debole, se non inesistente. Intorno al mondo si agitano due forze contrapposte, il Bene e il Male, e sia le virtú dei santi che le imprese feroci dei popoli vengono narrate insieme in quanto «lo prescrive non la comodità dello scrittore ma la successione degli eventi» (prefazione al l. 2).

Verso la caduta

Dischi di fibule in argento dorato decorato a filigrana e pietre preziose. Produzione merovingia, V-VIII sec. Strasburgo, Museo Archeologico.

contemporanei, attraverso i quali emerge una società fondata sul principio della vittoria del piú forte. Il libro V, scritto nel 581, è una narrazione serrata di complotti, guerre, uccisioni, devastazioni condite dall’apparizione di prodigi: «Una notte, era il terzo giorno dopo le Idi di Novembre [il 18, n.d.r.], mentre stavo celebrando le veglie del beato Martino mi apparve un grande prodigio; infatti nel centro della luna si vide brillare una stella fulgente e, sopra e sotto la luna, altre stelle apparvero vicine. In piú, apparve tutt’intorno a quella l’alone che spesso annuncia la pioggia. Tuttavia non so cosa tutto ciò volesse dire» (l. V, 23). Come poi il piú tardo Rodolfo il Glabro (985-1047), anch’egli storico d’Oltralpe (era borgognone),

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Gregorio non è dunque insensibile al fatto strano e miracoloso, a quei mirabilia che tanta parte hanno nell’immaginario collettivo del Medioevo, ma, a differenza del primo, non si sbilancia. Sono i contadini a ricordare che fenomeni simili di solito annunciano sventure. E infatti, non molto dopo, ecco nubifragi, inondazioni, ecatombi di bestiame, incendi, grandine, persino un terremoto a Bordeaux: «Tutta la popolazione fu atterrita dalla paura della morte tanto da credere che, se non si fosse salvata con la fuga, sarebbe sprofondata insieme alla città» (l. V, 33). A seguire, un’epidemia falcidia la popolazione e colpisce anche alcuni membri della famiglia regnante. Al di là dei dettagli storici (vedi box alle pp. 44-45), ciò che emerge dalla

Su questo sfondo, i fatti si susseguono disordinatamente e senza un piano, si assiste a scontri epici tra figure come appunto Brunilde, regina e figlia del re visigoto Atanagildo, e l’oscura Fredegonda, nata da una lavandaia. Di Chilperico, re di Neustria dopo la morte di Meroveo e quindi, agli occhi di Gregorio, un usurpatore, scrive che «era dedito ai piaceri della gola, e il ventre fu il suo dio. Diceva che nessuno era piú saggio di lui. […] Aveva in odio le ragioni dei poveri. Insultava continuamente i sacerdoti del Signore né altro gli piaceva di piú, quando era in privato, quanto raccontare scherzi e malignità intorno ai vescovi delle chiese» (VI, 46). Uomo rapace, lussurioso, violento (la punizione che applicava con maggiore frequenza era far cavare gli occhi), tiranno nei confronti della popolazione che depredava senza pietà, era «Nerone ed Erode del nostro tempo». Quando dunque muore assassinato per mano di un sicario, Gregorio riesce a stento a trattenere la soddisfazione: «Mai amò qualcuno di affetto sincero, da nessuno fu mai amato e, pertanto, quando esalò l’ultimo respiro, tutti i suoi lo abbandonarono». E quando nuove guerre per il potere sconvolsro il regno merovingio, esclamò allargando le braccia, nella prefazione al quinto libro: «Mi pesa raccontare le rivalità delle guerre civili che distrussero tragicamente la gente e il regno dei Franchi». dicembre

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La sua, piú che una resa, è l’ammissione di una sconfitta. Non a caso, l’opera termina con l’anno 591, appena prima della morte di re Gontrano, l’ultimo sovrano a cui Gregorio aveva demandato il compito di risolvere definitivamente il contrasto tra romanitas e barbaritas, dando vita – novello Clodoveo – a un regno franco forte e stabile. Gontrano fallisce e Gregorio, ormai persa qualsiasi motivazione, posa esausto la penna per sempre. Morí poco dopo, nel novembre dell’anno 594. Come ha scritto Massimo Oldoni: «All’alba del regno di Carlo Magno [771, ndr], i Merovingi sono il caos cieco d’un

popolo smembrato, nemmeno salvato dal brillare degli immensi tesori regi o dal breve chiarore d’un sovrano, Dagoberto I (622-638), che solo per qualche momento riesce a ripristinare l’antica e quasi mitica unità; ma Gregorio di Tours non vede questo attimo d’ordine. Da Clodoveo a Carlo Magno è possibile tracciare una parabola di caduta dove ottusità, ambizione, ansia per il potere, corruzione e stupidità sono punti obbligati di passaggio» (da Storia dei Franchi.

I dieci libri delle Storie, Liguori, Napoli 2001; vol. 1, Introduzione, p. XVII). L’immagine complessiva dei Franchi che – salvo rare eccezioni – emerge dalle pagine delle Storie è dunque pessima. Un giudizio troppo duro? Forse. Ma di certo l’opera di Gregorio è il manifesto di una crisi in cui lo scrittore, semplice pedina impotente, è coinvolto suo malgrado nel turbine degli eventi e costretto a rilevare l’inevitabile quanto drammatica irrazionalità della storia. F

Spada e scramasax (una sorta di grande coltello, caratteristico delle popolazioni sassoni e franche, con lama piatta e leggermente arcuata, a un solo taglio) merovingi con pomelli e foderi decorati a smalto cloisonné, dal Tesoro di Pouan, in Francia. V sec. Troyes, Musée des Beaux Arts.

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immaginario divina commedia

Beatrice, Matelda e le altre di Chiara Mercuri

La Divina Commedia è davvero, come viene spesso definita nella manualistica scolastica, un poema essenzialmente «religioso»? Perché, allora, alla base del capolavoro dantesco vi è un sentimento amoroso assai piú sensuale e terreno di quanto non siamo portati a credere?

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n un saggio di alcuni anni fa, La fondazione del laico, l’italianista Alberto Asor Rosa spiegava la nascita della letteratura italiana come un unicum nel panorama europeo. Se si ripercorre la storia della letteratura francese, inglese o tedesca, non ci si scontra con quello che accadde in Italia. Le altre letterature nascono in sordina, e raggiungono la piena fioritura solo a seguito di un adeguato percorso di maturazione, di accumulazione, di scoperte che, progressivamente, danno vita a una letteratura nazionale. La letteratura italiana invece, nasce esplodendo in un big bang che segna l’inizio e al tempo stesso l’apice del suo percorso. Dante è il magma incandescente di tale deflagrazione, non solo per l’altezza insuperata della sua poesia, ma anche per l’incredibile consapevolezza che egli ha dell’importanza decisiva della sua operazione: dare dignità letteraria al volgare. Una scelta che gli costò la critica degli intellettuali del tempo, i quali lo accusarono di voler nascondere dietro l’uso del volgare una scarsa virtú nell’uso della lingua latina e di cercare il plauso di gente rozza e incolta, quali tintori, osti e lanaioli. Un’impresa, invece, quella di fondare una lingua nazionale, di cui

egli dà lucidamente conto nelle sue lettere e nei suoi saggi. In particolare, nella piú famosa e significativa delle sue epistole, quella indirizzata a Cangrande della Scala (signore di Verona a cui Dante dedica il Paradiso), in cui egli spiega il valore allegorico della sua opera, costruita volutamente secondo molteplici sensi. Tale carattere polisemico permette alla Commedia, spiega Dante a Cangrande, di essere caricata di piú compiti, di piú funzioni, di portare il peso dei molteplici messaggi di cui è intessuta.

Oltre il velo della finzione

Il lettore, quindi, ha per Dante un ruolo fondamentale, in quanto dal suo sforzo e dalle sue capacità interpretative dipende la comprensione profonda della sua opera. Il lettore deve saper ricercare nella sua Commedia il significato simbolico, non deve fermarsi al senso letterale, ma deve saper cogliere anche quello allegorico e morale. Dante vuole che il lettore abbia con la sua opera lo stesso rapporto che ha con la Sacra Scrittura. Per il credente ogni racconto nella Bibbia ha un significato allegorico oltre che letterale, ed è necessario tenere costantemente presente questa duplice dimensione. Per tale ragione, nel Medioevo, la lettura della Bibbia avveniva attraverso la lectio divina, un metodo che consisteva nell’esegesi del testo secondo i quattro Dante e Beatrice volano nel cielo del Sole. Miniatura del pittore senese Giovanni di Paolo (1400-1482) che illustra il X canto del Paradiso, da un’edizione della Divina Commedia. 1450 circa. Londra, British Library.

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miti e forzature

Dante esoterico: il senso celato della Commedia Dante Alighieri detiene il non invidiabile primato di vittima designata della letteratura fantastica di età contemporanea. Per il suo carattere polisemico, la Divina Commedia è stata perfino considerata un’opera esoterica, interpretabile secondo vari livelli di comprensione. Si sono cosí moltiplicati gli studi sul carattere simbolicoesoterico dei numeri, dei luoghi, delle citazioni, delle figure allegoriche del poema. Tale corrente interpretativa, tuttavia, che potremmo definire «simbolista», non ha sempre prodotto risultati apprezzabili. Il tipo di linguaggio fortemente allegorizzante, proprio dell’età medievale, di cui

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Dante fu cosciente portatore, ha favorito infatti la nascita di miti new age e magico-esoterici. Un certo interesse editoriale nei confronti di tale tendenza ha poi fatto sí che tale filone di studi abbia, nonostante la sua inattendibilità, trovato largo spazio e una discreta eco. Secondo Barbara Reynolds, autrice di Dante: the Poet, the Political Thinker, the Man, pubblicato in Gran Bretagna nel 2006, le visioni di Dante descritte nella Commedia sarebbero dovute al consumo regolare di cannabis e mescalina, usate soprattutto per avere maggiore immaginazione fantastica nella visione del Paradiso. dicembre

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A sinistra Dante illustra la Divina Commedia, tavola di Domenico di Michelino (14171491). 1465. Firenze, basilica di S. Maria del Fiore. Alle spalle del poeta, la città di Firenze e, sullo sfondo, Inferno, Purgatorio e Paradiso. In basso un’edizione della Divina Commedia con commento in lingua volgare del grammatico bolognese Jacopo della Lana. Inizio del XV sec. Parigi, Museo del Louvre.

Vi è poi il mito di Dante esoterista: gli studi sono numerosissimi e contano un’antica tradizione a partire da L’esoterismo di Dante, pubblicato da René Guenon nel 1925. Tale saggio è alla base di tutte le successive congetture operate sul simbolismo dantesco, sia nella direzione magico-religiosa che in quella massonicoiniziatica. Il testo di Guenon ha conosciuto una notevole fortuna ed è stato piú volte ripreso anche al fine di fare di Dante Alighieri il precursore di gruppi esoterico-occultistici come i Rosacroce. In quegli stessi anni, caratterizzati da un sinistro interesse verso tematiche esoteriche e occultistiche,

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sensi: letterale, allegorico, morale ed escatologico.Nella Scrittura, infatti, il senso storico (o letterale) è in grado di produrre altri significati, come si vede, in particolare, nel racconto dell’Esodo che Dante cita nella lettera a Cangrande come esempio attraverso il quale si possono leggere con chiarezza i quattro sensi della Bibbia. Il suo significato secondo il primo senso, quello letterale-storico, è l’uscita del popolo di Israele dall’Egitto al tempo di Mosé. Secondo il senso morale, ogni uomo deve cercare il modo di uscire dalla condizione di lutto e di miseria a cui conduce il peccato e convertirsi a uno stato superiore di grazia. Dal punto di vista allegorico, la liberazione di Israele dalla cattività d’Egitto simboleggia la liberazione dell’uomo dal peccato operata dalla redenzione. Se, infine, ci rivolgiamo al suo significato escatologico (o anagogico), esso preannuncia l’uscita dell’anima che ha ben operato dalla servitú del peccato e la conseguente conquista della libertà spirituale. Dante, tuttavia, è consapevole del fatto che se il lettore, davanti alla Scrittura, è naturalmente portato a ricercare il suo significato morale a motivo del carattere di libro sacro e religioso, non si accosterà con lo stesso atteggiamento a un testo poetico come la Commedia. Proprio per questo cerca di «addomesticare» il suo pub-

Luigi Vali, un discusso ma assai considerato dantista, pubblicò Il linguaggio segreto di Dante e dei «fedeli d’amore», nel quale metteva in luce quei passi che a suo parere mostravano la vocazione esoterica della Commedia. Tali studi, in realtà, si fondano su congetture che, piú che disvelare la volontà del poeta, riflettono l’interesse per l’occultismo di una certa cultura esoterica nata nell’età dell’Illuminismo e in grado, per il secolo e mezzo successivo, di mantenere una notevole capacità di elaborazione e analisi, usandola quasi sempre in funzione eterodossa e anticlericale.

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immaginario divina commedia blico, affinché compia invece lo sforzo necessario per interpretare la sua opera, e lo fa attraverso vari strumenti, i piú importanti dei quali sono il Prologo e gli appelli al lettore. Attraverso questi ultimi, circa venti in tutta la Commedia, egli tiene alta la sua attenzione, coinvolgendolo in prima persona ed esortandolo a squarciare il velo della finzione poetica per giungere alla verità, come è chiaramente espresso in Purgatorio VIII, 19-21:

Dante incontra Matelda alle soglie del Paradiso terrestre. Miniatura che illustra il XXVIII canto del Purgatorio, da un’edizione della Divina Commedia. 1480-1482. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La «bella donna» che Dante scorge sulla riva del fiume Leté, è una figura enigmatica, probabilmente legata al vissuto personale del poeta.

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ’l velo è ora ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggero Attraverso il Prologo, invece, Dante universalizza la dimensione del viaggio ultraterreno, affinché esso possa essere metaforicamente avvertito come il percorso di ogni uomo. Il Prologo rappresenta dunque la summa del simbolismo dantesco. In esso, infatti, egli esplicita il significato allegorico del suo viaggio, che è il viaggio simbolico di redenzione di chiunque si trovi nella condizione di aver smarrito la via, di essersi perso, di non essere piú in grado di ritrovare il cammino. Il poeta si serve della metafora della selva proprio per esplicitare tale condizione di vuoto, di buio totale, di smarrimento dell’anima. Ed è questo l’espediente attraverso il quale Dante avvicina il suo lettore, lo aiuta a immedesimarsi nella sua condizione di miseria morale. Dante, infatti, non è ammesso a conoscere i misteri dell’Aldilà per i suoi meriti o per la sua fede eccezionale, ma, al contrario, perché si trova nella miserabile condizione di essere il piú sciagurato dei peccatori. La sua bassezza, e non già la sua eccezionalità, gli permette quel cammino di conoscenza e di redenzione che il viaggio ultraterreno metaforicamente simboleggia. Quando infatti Dante dice a Virgilio:

«Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ’l crede». (Inferno II, 32-33) Virgilio gli risponde che, se per Enea e San Paolo contarono i meriti eccezionali, nel suo caso invece è la sua posizione sull’orlo di un precipizio, a un passo dal baratro, ad aver allertato tre donne su nelle alte sfere del Paradiso, affinché gli sia concessa l’occasione di avvedersi e di cambiare rotta. Le tre donne sono Santa Lucia, Beatrice e la Madonna e anche in tale catena salvifica vi è una simbologia particolare, in quanto essa ha potuto mettersi in moto grazie all’unico merito acquisito da Dante: egli ha amato. Se Dante non avesse compiuto almeno tale alta impresa nell’arco della sua vita, se non avesse amato Beatrice, quel viaggio eccezionale di un vivo in carne e ossa nei tre regni dell’oltretomba non avrebbe avuto luogo. Beatrice, dunque, è all’origine di quel viaggio,

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Ecco come Dante narra il suo incontro con Matelda:

Coi piè ristetti e con li occhi passai di là dal fiumicello, per mirare 36 la gran varïazion d’i freschi mai; e là m’apparve, sì com’elli appare subitamente cosa che disvia 39 per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore 42 ond’era pinta tutta la sua via. «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti 45 che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti», diss’io a lei, «verso questa rivera, 48 tanto ch’io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette 51 la madre lei, ed ella primavera». Come si volge, con le piante strette a terra e intra sé, donna che balli, 54 e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti 57 che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, sì appressando sé, che ‘l dolce suono 60 veniva a me co’ suoi intendimenti. Tosto che fu là dove l’erbe sono bagnate già da l’onde del bel fiume, 63 di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta 66 dal figlio fuor di tutto suo costume. (Purgatorio, canto XXVIII).

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immaginario divina commedia è stata lei, allertata da Santa Lucia circa le miserevoli condizioni del suo amico, a chiedere a Virgilio di andare a recuperarlo mentre era impedito nel suo cammino da tre belve spaventose: una lonza (termine con il quale nel Medioevo si indicava un felino non ben determinato, forse la lince o il leopardo, n.d.r.), un leone e una lupa (che simboleggiano rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia).

Per raggiungere Dio

La stessa Santa Lucia, quando rimprovera a Beatrice di non accorgersi della disperata condizione in cui versa l’amico, le ricorda come questi l’abbia fortemente amata. E si faccia attenzione che l’amore a cui Dante si riferisce non è l’amore simbolico inteso come carità, bensí il sentimento provato dal poeta per la giovane fiorentina. Esso gli ha fatto maturare una sorta di «credito», che gli viene riconosciuto al momento della sua caduta. In questa concezione salvifica dell’Amore, vi è tutta l’essenza dello Stil Novo da cui Dante dimostra di essere ancora influenzato. Beatrice, infatti, non rappresenta nella Commedia la semplice guida spirituale del poeta, ma simboleggia l’amore, e il poema non rappresenta il superamento dell’esperienza amorosa e stilnovistica di Dante, in quanto l’amore rimane ancora il centro simbolico del suo intreccio. Infatti, solo grazie all’amore provato per Beatrice Dante può giungere a un innalzamento spirituale. E lo ricorda nella Commedia: grazie a lei, egli è uscito dalla «volgare schiera», ovvero ha superato i limiti dell’uomo comune, «ha trasumanato» si direbbe in gergo dantesco. Nella manualistica scolastica, con un’espressione troppo frettolosa, si definisce la Commedia come un poema didascalico-religioso. Didascalico, come abbiamo visto, lo è, in quanto Dante intende insegnare qualcosa al lettore e cioè che ogni uomo può e deve compiere «un viaggio di redenzione». Per ciò che attiene al termine «religioso», invece, occorrerebbe intendersi sul suo significato. Se, infatti, con tale termine vogliamo indicare che per Dante il viaggio di redenzione dell’uomo termina nella scoperta di Dio, ciò è incontestabile. Come pure è innegabile che la sua opera sia intessuta di una potente cultura teologico-religiosa. Tuttavia, sarebbe errato ritenere – come del resto troppo semplicisticamente si sostiene per la cultura medievale in genere – che il mondo di Dante sia un mondo proiettato verso l’Aldilà, un mondo che vive in funzione della vita ultraterrena e che nega importanza all’uomo e alla sua autonomia morale. Per molti versi l’uomo dantesco è già un uomo al centro del suo destino, un uomo del Rinascimento. Ancora una volta sarebbe opportuno tornare alle pagine del saggio di Asor Rosa per comprendere come l’opera di Dante, pur riassorbendo motivi e contenuti di ordine religioso, prescinda tuttavia dal sentimento religioso. Si è soliti ritenere che la Vita Nova, l’opera giovanile del poeta, sia l’opera dell’amore terrestre,

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e invece la Commedia il trionfo dell’amore celeste. In realtà le due opere sono interdipendenti e ciò appare evidente per il fatto che i protagonisti restano in fondo gli stessi, sono sempre Dante e Beatrice. Come del resto affermava Asor Rosa «tutta la grande letteratura italiana in volgare mette al proprio centro la riflessione sull’eros». Quando Beatrice incontra Virgilio gli spiega che vuole soccorrere Dante con le seguenti parole:

«Amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno, II, 72) Quando Lucia rimprovera a Beatrice di attardarsi nel soccorrere l’amico le dice:

«Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t’amò tanto» (Inferno, II, 103-104) Quando, sulla sommità della montagna del Purgatorio, Dante rivede Beatrice dice di riavvertire:

«d’antico amor… la gran potenza» (Purgatorio, XXX, 39) L’amore, quindi, è il grande motore di tutta l’opera. Proprio quell’amore autobiografico di cui Dante aveva parlato nella Vita Nova, spiegandoci nel dettaglio – come è tipico degli stilnovisti – tutti i repentini passaggi tra estasi e disperazione, dovuti agli incontri fortunati o ai respingimenti da parte della sua donna. E poi le

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Nella pagina accanto Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca. Miniatura che illustra il V canto dell’Inferno. Da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

fatti storici

I guelfi, come Dante, provenienti da Firenze e Lucca sconfiggono i ghibellini, provenienti da Arezzo.

Bonifacio VIII proclama il Giubileo. Carlo di Valois, che cerca di favorire i guelfi Neri, si avvicina con le sue truppe a Firenze. I Neri prendono il potere a Firenze. Nascita di Francesco Petrarca

Enrico VII, conte di Lussemburgo, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero scende in Italia, nel tentativo di restaurare i fasti dell’impero. Morte dell’imperatore Enrico VII. Nascita di Giovanni Boccaccio.

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A sinistra Dante Alighieri, particolare di un capolettera miniato da un’edizione della Divina Commedia commentata da Jacopo della Lana. Inizio del XV sec.

notizie su dante 1265 Dante nasce, probabilmente il 29 maggio, in una famiglia di piccola nobiltà cittadina. 1274 Incontra per la prima volta Beatrice Portinari e se ne innamora, come racconta egli stesso nella Vita Nova: si scambiano solo un saluto. 1283 Muore il padre. Il poeta sposa, con un matrimonio concordato da tempo, Gemma Donati, dalla quale ha tre figli (Jacopo, Pietro e Antonia). 1289 Partecipa come «feditore», cavaliere della prima linea, alla battaglia di Campaldino l’11 giugno. Dante riferisce della battaglia in Purgatorio V, 85-129. 1290 Beatrice muore all’età di 24 anni circa. 1292 Dante scrive la Vita Nova. 1294 Incontra a Firenze Carlo Martello d’Angiò, re di Ungheria ed erede al trono di Napoli e della contea di Provenza. Dante racconta il loro incontro in Paradiso VIII, 31-148, e IX, 1-12. 1295 Si iscrive alla corporazione degli Speziali, con l’intento di entrare in politica. 1300 È priore di Firenze per due mesi (15 giugno-15 agosto), uno dei sei piú alti magistrati della città. Il viaggio della Commedia viene fatto risalire alla settimana di Pasqua di questo anno. 1301 Dante si reca come ambasciatore dal papa Bonifacio VIII. 1302 Dante è bandito dalla città per due anni ed escluso per sempre dai pubblici uffici; piú tardi, il bando diventerà perpetuo, con la condanna al rogo se ritrovato nel territorio della Repubblica fiorentina. 1304 Dante scrive il De vulgari eloquentia, saggio che cerca di spiegare come il volgare può assurgere a lingua letteraria. Dei quattro libri annunciati, scrive solo il primo e quattordici capitoli del secondo. Nello stesso periodo si accinge a scrivere il Convivio. Vengono completati solo quattro dei quindici libri progettati. 1306 È probabilmente l’anno in cui, abbandonato il Convivio, comincia la scrittura della Commedia. 1310 Dante indirizza una Epistola a Enrico VII. Possibile inizio della scrittura del De Monarchia (1310-1313).

1313 1314 Pubblicazione dell’Inferno. 1315 Dante si trasferisce a Verona, ospite di Cangrande della Scala. Lavora al Purgatorio e al Paradiso, e scrive anche la Questio de aqua et terra. 1319 Si trasferisce a Ravenna, dove viene ospitato da Guido Novello da Polenta, signore della città. Intrattiene corrispondenza con l’umanista Giovanni del Virgilio. 1321 Di ritorno da una ambasceria presso il Doge di Venezia per conto di Guido da Polenta, si ammala, probabilmente di malaria, e muore il 13 (o il 14) settembre, a 56 anni.

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immaginario divina commedia insicurezze, gli scoramenti, il tentativo di nascondere il suo amore per non coprirsi di ridicolo, il desiderio di suscitare la gelosia della donna amata e, infine, la disperazione di fronte allo sdegno di lei. Insomma l’amore nella sua accezione comune, la passione sensuale, l’amore terrestre. Un amore che nella Commedia non è presente solo attraverso la figura di Beatrice, ma anche attraverso la misteriosa apparizione di un’altra donna, Matelda.

Una sconosciuta nel giardino dell’Eden

Ci troviamo nel canto XXVIII della seconda cantica, Dante è uscito dal Purgatorio e si appresta a lasciare Virgilio e prendere Beatrice come sua guida per l’ascesa finale al Paradiso. Simbolicamente, ciò vuol dire che, a seguito della purificazione operata attraverso le cornici del Purgatorio, sta definitivamente abbandonando la condizione di peccato ed è ormai pronto a raggiungere l’emancipazione finale della sua coscienza. Ma proprio in questa delicata fase di passaggio, l’amore torna a prendere il controllo, l’impulso sensuale torna a farsi sentire. L’incontro inatteso, improvviso con Matelda lo distrae, incrina la sua serenità, ricordandogli gli affanni della passione. Uscendo dal Purgatorio, Dante si inoltra in un giardino boscoso, il Paradiso terrestre. Giunto alle limpidissime sponde del fiume Leté, scorge sulla riva opposta una bella donna, che canta soavemente e raccoglie fiori che riunisce in ghirlanda. Dante è rapito da tale visione e subito è preso da desiderio. Le chiede allora di avvicinarsi affinché possa intendere ciò che canta:

«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti… tanto ch’io possa intender che tu canti» (Purgatorio XXVIII, 43-48) Dante vorrebbe raggiungerla, vorrebbe un contatto con lei ed è infastidito perché il fiume si frappone. Dice di provare la stessa sofferenza provata da Leandro separato dalla sua amata Ero. Il mito evocato qui dal poeta precisa il carattere del desiderio che egli ha provato per la giovane donna incontrata nell’Eden. Ero e Leandro vivevano sulle due opposte rive dell’Ellesponto (l’odierno Stretto dei Dardanelli, n.d.r.). Tutte le notti Leandro attraversava a nuoto il tratto di mare che separava Sesto e Abido per potersi ritrovare con la sua amata. Una traversata spesso impedita dalle violente ondate, e una notte, infine, attraversando il mare in tempesta, Leandro annegò. Dante dichiara di odiare l’acqua del fiume che lo separa da Matelda non meno di quanto Leandro odiò il tratto di mare che lo separava da Ero:

lo stil novo

«Sensuali tremori e sbigottimenti» La cultura dantesca è il frutto di un movimento culturale dirompente, che si pone in netta antitesi con la tradizione, lo Stil Novo. Come sempre accade quando ci accostiamo al mondo antico ci riesce difficile avvertire appieno «la modernità», nel senso appunto di rottura con il passato, di alcuni movimenti culturali. Nel nostro immaginario, infatti, prevale l’idea, assorbita sui banchi di scuola, secondo la quale lo Stil Novo fu una corrente letteraria in continuità con la letteratura cortese. Lo Stil Novo, tuttavia, che di quella cultura fu figlio, quando anche ripropose tali tematiche lo fece sempre come citazione e mai come manifesto della propria poetica. L’immagine della donna-angelo per esempio, vera icona della lirica cortese, viene presto superata dall’esperienza italiana dello Stil Novo. Qui l’eros non appare piú come semplice sublimazione e ascesi fine a se stessa, ma viene esaltato proprio nella sua capacità di grande scuotitore psicologico: è la fase dei

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«Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, là ’ve passò Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, piú odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch’allor non s’aperse». (Purgatorio, XXVIII, 70-75) Molto è stato scritto sulla simbologia di Matelda nella Commedia. Sorprende che Dante torni a parlarci dell’amore in un momento in cui dovrebbe ormai essersi allontanato da ogni passione terrena, in quanto ha appena attraversato le fiamme che purificano da ogni brama carnale, e lo stesso Virgilio lo ha rassicurato di essere ormai libero nella sua volontà divenuta, grazie all’azione purificatrice del fuoco, pura e santa. Con Matelda, invece, si riaccende la fiamma dell’amore carnale, a cui i dantisti non sanno quale simbologia attribuire, anche perché, a differenza degli altri personaggi della Commedia, essa sfugge a un’identificazione storica.

Contessa, monaca o amante?

Per la maggior parte degli studiosi si tratterebbe di Matilde di Canossa (1046-1115), la sostenitrice di papa Gregorio VII nella lotta contro l’imperatore Enrico IV. Il fatto, però, che avesse strenuamente sostenuto la Chiesa (a cui morendo lasciò tutti i suoi beni) non poteva farne agli occhi di Dante un personaggio a tal punto ammirato da trasformarla nella deliziosa fanciulla che lo accoglie nelle braccia del Paradiso terrestre.

Da leggere U Alberto Asor Rosa, La fondazione del laico, in Letteratura

italiana, Einaudi, Torino 1986; vol. V, pp. 17-121. U Charles S. Singleton, La poesia della Divina Commedia,

Il Mulino, Bologna 2002.

Altri hanno suggerito l’identificazione con Matilde di Hackenborn, monaca benedettina morta nel 1298 nel convento di Helfta, presso Eisleben, in Sassonia, e autrice di opere ascetiche. Ma ancora una volta tale identificazione appare in netto contrasto con il carattere idilliaco e amoroso incarnato dalla fanciulla. Dante stesso, in realtà, ci suggerisce l’identificazione con Proserpina, la figlia di Cerere e Giove rapita da Plutone proprio mentre era intenta, come fa Matelda, a raccogliere fiori sulla piana di Enna. Ma l’immagine di Proserpina appare una suggestione piú che un’ispirazione per la costruzione della leggiadra fanciulla che gli appare nell’Eden, per la cui comprensione restano piú convincenti le tesi del filologo e critico Gianfranco Contini (1912-1990). Questi, infatti, ha ricondotto la figura di Matelda al contesto della biografia privata del poeta. Ella sarebbe, cioè, una delle «amate subalterne di Dante», una delle donne citate nella Vita Nova. Proprio come Beatrice, Matelda è una figura attinta dalla sfera della vita privata di Dante, il quale, come tutti gli stilnovisti, parla d’amore ispirandosi al reale e con l’intento di descrivere e approfondire comportamenti psicologici realmente sperimentati. F

L’incontro tra Dante e Beatrice. Miniatura da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

«sensuali tremori e sbigottimenti» che i poeti dello Stil Novo intendono indagare. L’amore non è l’icona trascendente alla quale si votano come a una bandiera i cavalieri della poesia cortese, ma lo scuotimento totale provocato dal tormento, dal conflitto, dal turbamento dell’esperienza amorosa. La poesia degli stilnovisti, come scrive Asor Rosa, nasce da una libido autentica, che parte da un’esperienza autobiografica, realmente vissuta. Le loro opere si rivelano perciò «manuali attendibili dell’esperienza amorosa», dello stravolgimento dei sensi, della disperazione provocata dall’assenza della donna amata. Volgendoci indietro, non troviamo alcun altro movimento che indaghi i processi psicologici dell’amore. Nessuna descrizione di personaggi, di luoghi o di intrecci si trova nei poeti dello Stil Novo, ai quali interessa unicamente l’approfondimento psicologico. È questa l’incredibile novità rispetto al passato, che dell’amore forniva descrizioni retoriche e altisonanti, quasi sempre strumentali a intrecci

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narrativi piú complessi e di differente tematica. L’amore stilnovistico è un amore estremamente «moderno», fatto di turbamenti, brividi, emozioni improvvise, terribili disillusioni, fraintendimenti, improvvise timidezze, incapacità di parlare e di essere lucidi. Tale amore descritto per la prima volta nei suoi aspetti psicologici dagli stilnovisti (si ricordi che l’amore dei grandi poemi greci e latini veniva soprattutto descritto piú che indagato) appare ancora oggi straordinariamente attuale, soprattutto per ciò che attiene alla somatizzazione dei suoi piú evidenti risvolti psicologici. Tale dimensione non è ignorata, come si è portati a credere, nella Commedia, che a un primo approccio sembrerebbe ispirata alla sola fede e all’amore per Dio, ma resta il centro della sua trattazione, soprattutto nella completezza del suo intero paradigma. Si parte infatti dall’amore terreno descritto come capace di innalzare l’uomo a una superiore condizione spirituale per sfociare nell’ascesa dell’animo umano verso Dio.

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immaginario monete come amuleti Personaggio dalla cultura enciclopedica, il letterato bizantino Michele Italico fu nominato anche «maestro dei medici». All’indomani del prestigioso incarico, volle ringraziare chi lo aveva designato con un dono speciale, un ciondolo dotato di straordinarie proprietà terapeutiche....

Pendente con moneta aurea di Salonino, dal corredo di una tomba della necropoli rinvenuta nei cortili dell’Università Cattolica di Milano. Seconda metà del III sec. La moneta, battuta dalla zecca di Roma, presenta, al dritto (a sinistra), il ritratto del giovane Salonino, cesare dal 258 al 260; sul retro (in basso), sei strumenti sacrificali. Nella pagina accanto veduta di Costantinopoli, illustrazione dalle Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel. 1493.

Liberi dal male con un soldo M M di Claudia Perassi

ichele Italico, letterato bizantino attivo nella prima metà del XII secolo, fu professore di retorica, filosofia, teologia e, dal 1143, metropolita di Filippopoli (oggi Plovdiv, in Bulgaria). Intorno al 1150 fu nominato «maestro dei medici», forse in uno dei grandi ospedali di Costantinopoli e, in tale occasione, inviò alla piú alta autorità medica della città una lettera, per accompagnare il dono di una collana alla quale era agganciato un pendente monetale. L’epistola è la fonte letteraria piú sicura sul reimpiego ornamentale delle monete nella gioielleria antica, ampiamente testimoniato dall’archeologia. Seppure in modo retoricamente molto elaborato, Italico descrive con grande accuratezza il gioiello, tanto da poterne permettere la sua ricostruzione ideale, dal momento che il manufatto non è pervenuto fino a noi. Ecco la sua descrizione. Il monile era costituito da una catena in oro «pallido» e da un «fi-

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latterio pettorale» di oro invece «purissimo». Il pendente amuleto racchiude un nomisma Konstantineion, cioè un solido emesso da Costantino I. Su un lato del nominale aureo sono raffigurati i «divinissimi Costantino ed Elena», sull’altro l’immagine di Cristo; su una delle due facce è impressa anche una croce. Il gioiello – prosegue la descrizione contenuta nella lettera – è però in cattive condizioni. La cornice del ciondolo si è staccata dal gancio tramite il quale era appesa alla collana e sono scomparse anche le perle che la decoravano: due, molto grandi, in corrispondenza dell’appiccagnolo, e un numero imprecisato, piú piccole, intorno al bordo della moneta. Il reimpiego in gioielleria di una moneta o di un multiplo d’oro di Costantino I è verosimile. I pendenti piú spettacolari di tutta la produzione romana racchiudono, anzi, proprio doppi solidi battuti da questo imperatore nelle dicembre

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immaginario monete come amuleti Nomisma di Giustiniano II. Zecca di Costantinopoli. 705-711. Al dritto (a sinistra), Cristo con capelli ricciuti e barba inanellata, in atto di benedire; al rovescio (nella pagina accanto), Giustiniano II (669-711) e suo figlio Tiberio III (698-705) reggono una grande croce. L’immagine di Cristo entrò nel repertorio figurativo monetale solo alla fine del VII sec., appunto con le emissioni di Giustiniano II. A una moneta simile si riferiva probabilmente Michele Italico nell’epistola che accompagna il dono di un pendente aureo con incastonata una monetaamuleto, che egli identifica erroneamente con un nomisma di Costantino I.

zecche di Sirmium (oggi Sremska Mitrovica, in Serbia), Nicomedia e Antiochia fra il 321 e il 347/355. Nessuna emissione aurea costantiniana, però, ha come soggetto la figura dell’imperatore insieme alla madre, né l’immagine di Cristo. Quest’ultima entrò nel repertorio figurativo monetale solo alla fine del VII secolo, grazie a due serie di solidi di Giustiniano II, che rappresentano entrambe il busto del Salvatore visto di prospetto, in atto di benedire: sulla serie piú antica (692-695) Cristo ha lunghi capelli lisci e barba fluente, mentre sulla successiva (705-711) corti capelli ricciuti e barba inanellata. Sul rovescio di quest’ultima possono essere raffigurati Gustiniano II e il figlio Tiberio III, che reggono una grande croce.

glio imberbe e di statura inferiore – con Costantino ed Elena. Questa identificazione soddisferebbe anche altri aspetti della moneta messi in risalto nella lettera: la composizione delle scritte in «caratteri romani» e la qualificazione dei soggetti come «figurazioni alla romana, come incidevano allora». La raffigurazione di Cristo Pantocratore su monete auree contemporanee a Italico era infatti assai diversa dal giovanile volto di Cristo ricciuto impresso sui nomismata giustinianei, che dunque poteva apparirgli tipico di una produzione assai lontana nel tempo. La montatura del pendente descritta nella lettera richiama quelle di alcuni sontuosi ciondoli monetali di età medio- e tardo-romana. L’esemplare piú raffinato è il medaglione con aureo di Caracalla, agganciato alla collana rinvenuta nel tesoro di Nikolaevo (Bulgaria). Se il riconoscimento della moneta di Italico come un nomisma di Giustiniano II è esatto, la collana alla quale essa era agganciata costituirebbe la piú tarda attestazione – sebbene solo letteraria – della moda della gioielleria monetale a Bisanzio. La data di emissione del nominale aureo (705711), infatti, è successiva di poco piú di mezzo secolo a

Scambio di persone

E proprio un nomisma come questo potrebbe essere stato in realtà incastonato nel pendente di Italico, che avrebbe erroneamente identificato i due personaggi imperiali – il padre barbato, il fiA destra hyperperon di Giovanni II Comneno (1087-1143). Zecca di Tessalonica, 1118-1143. Al dritto, il Cristo Pantocratore; al rovescio, la Vergine incorona l’imperatore.

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quella delle piú recenti monete reimpiegate in monili di produzione costantinopolitana, ossia solidi e tremissi a nome di Eraclio (610-641), incastonati, però, in alcuni casi, in manufatti creati nel corso del VII secolo. La cronologia della collana di Italico confermerebbe il ruolo del movimento iconoclasta quale limite contro il quale si arrestò la consuetudine del gioiello monetale nel mondo bizantino.

Una rarità «preziosa»

In basso collana monetale con aureo di Caracalla (188-217) e pietre preziose, dal Tesoro di Nikolaevo (Bulgaria). Metà del III sec. d.C. Sofia, Museo Archeologico Nazionale. Possiamo immaginare simile a questo manufatto la montatura del pendente descritto da Michele Italico.

La categoria dei pendenti monetali appare però del tutto episodica nella gioielleria costantinopolitana, che privilegia invece pesanti collari, bracciali, cinture e fermagli. I monili piú appariscenti, entrambi di provenienza egiziana, datati rispettivamente alla metà del VI e tra gli inizi e la seconda metà del VII secolo, sono composti da un massiccio girocollo aureo con al centro una placca trapezoidale, nella quale sono inseriti dodici tremissi e una grande pseudomoneta anch’essa d’oro, con al diritto un busto imperiale. Al pettorale è poi agganciato un ampio pendente, che racchiude in un caso un solido di Teodosio, nell’altro una lamina circolare in oro, con la scena dell’Annunciazione al diritto e la raffigurazione delle Nozze di Cana al rovescio. Il tipo di montatura descritto da Italico non trova confronti in manufatti bizantini, bensí, come si è detto, in ciondoli di età romana. Si potrebbe dunque supporre che una collana monetale, creata in questo periodo, sia in seguito passata di mano in mano, subendo la sostituzione della moneta racchiusa nel ciondolo perlomeno una volta, cioè nei primissimi anni dell’VIII secolo, per essere infine regalata, agli inizi del XII, «da un uomo del potere» a Italico, come riferisce il retore nell’epistola, il quale si appresta ora a inviarla in omaggio al proprio superiore. Depongono a favore di una lunga, intensa vita del prezioso oggetto, gli acciacchi che il latore del dono non si perita di nascondere al suo destinatario. La lettera di Italico rappresenta una felice eccezione rispetto al silenzio quasi completo delle fonti scritte circa l’uso amuletico del numerario nel mondo antico e bizantino, ben attestato, invece, dalla documentazione archeologica, grazie al rinvenimento di monete in contesti rituali e in relazione a oggetti dalla chiara funzione apotropaica.

Il potere della Croce

Secondo Italico, pertanto, la forza segreta del nomisma Konstantineion deriva da due elementi. Il primo è costituito dall’immagine della Croce, definita «l’arma trionfatrice». Il carattere vittorioso della Croce, mani-

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immaginario monete come amuleti

Girocollo aureo di provenienza egiziana, con placca trapezoidale, nella quale sono inseriti dodici tremissi e una pseudomoneta con, al dritto, un busto imperiale. Al pettorale è agganciato un pendente aureo con raffigurazione dell’Annunciazione. Inizio-seconda metà del VII sec. Berlino, Staatliche Museen.

festatosi in modo clamoroso nella celeberrima visione di Costantino al Ponte Milvio, fece sí che a essa fosse attribuita anche la capacità di respingere i demoni. Considerato anzi il piú potente strumento di protezione contro il male, veniva apposta con tale funzione difensiva su tombe, reliquiari, icone, manoscritti ed edifici sacri. Ma «una particolare, segreta potenza», scrive in modo piuttosto misterioso Italico, è stata anche conferita alla moneta «in virtú di una potenza divina impressa forse dagli stessi punzoni», evidentemente nel corso dell’operazione di coniazione. Sebbene non sia specificamente rilevato, il potere del nomisma risiede certamente anche nelle immagini che Italico identifica con Costantino ed Elena. Le qualità tutelari insite nei ritratti degli imperatori sono infatti maggiormente rafforzate nel caso dell’effigie del «piú imperiale, del piú pio e del migliore» fra essi.

Contro demoni e malattie

Il nomisma Konstantineion apporta benefici alla salute, spirituale e corporale, di colui che reca su di sé il filatterio. La moneta, infatti, agisce come «difesa contro la natura detestabile dei demoni», rendendo nel contempo A sinistra una «moneta dello Spirito Santo». Monete come questa, in argento, emesse a partire dal 1655, venivano legate al collo o cucite agli indumenti dei bambini, per curare eventuali disordini nervosi convulsivi.

«esenti dalle malattie contagiose» coloro che la indossano. Le capacità protettive del nomisma sono cosí efficaci, che il suo utilizzatore non deve ricorrere a nessun’altra difesa: pertanto egli non avrà piú necessità «né di purganti, né di cambiamenti d’aria, né di nessun altro presidio medico». Portando al collo questa collana, conclude con una certa enfasi Italico, saranno allontanati «tutti i mali che ci vengono addosso». Tanta ingenua, entusiastica credulità nelle virtú difensive di una moneta da parte di un uomo colto come Italico, e per di piú appena nominato «maestro dei me-

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In alto miniatura raffigurante un medico bizantino che riceve un paziente, da un manoscritto del XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale. Nominato «maestro dei medici» intorno al 1150, Michele Italico volle donare alla piú alta autorità medica di Bisanzio la collana con il pendente, ritenuto un amuleto.

giustificazione di tipo omeopatico, che associava il colore giallo dell’oro con l’analogo colorito assunto dal malato. In genere, però, la scelta della moneta da utilizzare era motivata dalle raffigurazioni impresse su di esse (croce, immagini sacre).

dici», può suscitare il dubbio che tali affermazioni siano da interpretare in senso ironico, tanto piú che la propensione alla burla e all’umorismo mordace è uno degli aspetti del suo stile letterario. Ma, al di là del punto di vista personale del suo autore, la lettera testimonia la credenza, diffusa fra i suoi contemporanei, circa l’esistenza di monete dotate di poteri straordinari, in grado di proteggere dalle malattie. Tale convinzione aveva le sue basi nell’opinione, attestata anche in ambienti bizantini culturalmente elevati, secondo la quale le patologie avevano un’origine soprannaturale. Esse erano cioè provocate dall’influenza nefasta di demoni malvagi e del Demonio, che poteva essere contrastata ricorrendo a esorcismi, amuleti, filtri magici e all’azione dei maghi. Lo stupore e il facile sarcasmo suscitati dalle parole di Italico vengono in parte mitigati qualora si rifletta come, ancora alla metà dell’Ottocento, la medicina popolare europea non disdegnasse di affidarsi all’ausilio delle monete per la «cura» delle piú svariate malattie. Per esempio, per guarire dall’itterizia, dalle febbri e dalle patologie tipiche dell’infanzia, per superare i parti difficoltosi, si credeva fosse sufficiente tenere in mano una moneta, oppure bere l’acqua nella quale essa era rimasta immersa per alcune ore. Nel caso dell’itterizia, il ricorso a monete auree sembra fosse dovuto a una sorta di

Al collo e sul campo da gioco

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E ancora, almeno fino al primo decennio del secolo scorso, in alcune regioni italiane si attribuivano finalità preventive e curative dei disordini nervosi convulsivi della prima infanzia a monete in argento dette «dello Spirito Santo». Si trattava di esemplari emessi nel periodo di vacanza della sede papale a partire dal 1655, sui quali era raffigurato lo Spirito Santo in volo ad ali spiegate, fra raggi e lingue di fuoco, che venivano legati al collo dei bambini oppure cuciti ai loro indumenti. La fiducia nelle presunte capacità talismaniche delle monete è poi attestata anche ai giorni nostri. Lo ha dimostrato, per esempio, il rito propiziatorio attuato dalla squadra della nazionale tedesca nel corso dei Campionati mondiali di calcio del 2002. Esso consisteva nell’occultamento di un centesimo di marco nella metà campo degli avversari, prima di ogni partita: la moneta doveva pertanto favorire la conclusione in rete dei giocatori della Germania nel primo tempo della gara e impedire invece quella degli antagonisti nel secondo. La consuetudine aveva avuto inizio in occasione di un incontro particolarmente importante per la squadra tedesca, nel quale era sembrato necessario ricorrere a tutte le forze a disposizione, comprese quelle occulte, poiché da esso dipendeva l’accesso alla fase finale dei campionati. F

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di Francesco Colotta

Nel 614 d.C. l’esercito sassanide occupa Betlemme. Ma quando i soldati entrano nella basilica della Natività accade qualcosa di straordinario: davanti ai loro occhi compare un mosaico con tre figure regali in abiti persiani. Folgorati dalla loro magnificenza e frenati dal rispetto verso quegli illustri «antenati», i miliziani di Cosroe risparmiano il sacro luogo dalla devastazione...

I Magi

una storia medievale

Gaspare, particolare del trittico dell’Adorazione dei Magi, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1485-1500. Madrid, Museo del Prado (vedi foto alle pp. 84-85). Qui raffigurato come moro, il magio reca tra le mani un recipiente sferico contenente la mirra, decorato con la scena dell’Offerta dell’acqua al re David da parte dei tre Forti, su cui è appoggiato un uccello.


Dossier

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Gesú nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: [2] «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». [3] All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. [4] Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. [5] Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché cosí è scritto per mezzo del profeta: [6] “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il piú piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”». [7] Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella [8] e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». [9] Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. [10] Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. [11] Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. [12] Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro Paese. [1]

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di uno dei grandi mosaici parietali, con l’Adorazione dei Magi. 561-568. I tre re, giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.

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e orme piú profonde dei Magi conducono in un’epoca lontana dalla nascita di Cristo. E, sebbene il cammino che i tre sovrani percorsero verso Betlemme, seguendo la stella, iniziò in età antica, il loro mito nacque molto piú tardi, nel Medioevo. Solo nell’Età di Mezzo, infatti, la vicenda dei misteriosi re che provenivano da Oriente trovò una compiuta elaborazione storico-leggendaria a opera di testi religiosi, fonti letterarie e capolavori iconografici. Anche la prima testimonianza dipinta della versione odierna dei loro nomi comparve in un periodo

(Da Matteo, II, 1-12)

posteriore all’avvento del Messia, affiorando davanti agli occhi degli archeologi in uno degli insediamenti monastici egiziani del deserto delle Celle, risalenti al 600-700: su una parete campeggiavano tre enigmatiche scritte vergate in rosso, che riportavano i nomi di «Gaspare», «Belchior» e «Barthesalsa». E, ancora, in piena età medievale i monarchi divennero oggetto di un caso politico nella grande contesa tra Sacro Romano Impero e Comuni italiani: secondo la tradizione, Federico Barbarossa fece trasferire nel 1164 le presunte spoglie dei Magi da Milano a Colonia per

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Dossier punire la città lombarda della sua ribellione all’autorità del sovrano. Ancora oggi quelle reliquie sono custodite nel duomo del capoluogo renano, all’interno di un magnifico reliquiario lavorato in oro e costellato di pietre preziose (vedi box a p. 82).

Sacerdoti o ciarlatani?

Ma chi furono davvero i Magi? L’età classica ci fornisce scarne informazioni attraverso il Vangelo di Matteo (I secolo d.C) che narra la storia di alcuni «magusàioi» orientali giunti a Betlemme per rendere omaggio al

neonato «re dei Giudei». Dopo essere stati convocati dal sovrano locale, Erode III il Grande, i visitatori – come è noto – trovarono la grotta con il Bambino e gli porsero i loro doni. Al ritorno, seguendo i consigli ricevuti in sogno, non informarono Erode di quanto avevano visto e si avviarono verso la loro terra d’origine. Pochi altri dettagli emergono dal testo evangelico che sorvola su molti elementi essenziali della tradizione legata all’Epifania: non si specifica quanti fossero precisamente gli uomini «venuti da Orien-

te» che, peraltro, non vengono mai definiti «re». In base alle conoscenze dell’epoca, il termine greco «magusàioi» poteva essere associato agli indovini e agli esperti di dottrine astrologiche, allora molto popolari negli ambienti mesopotamico-caldei. Si trattava di un’attribuzione non proprio lusinghiera, poiché la parola era sinonimo di ciarlataneria, indicando un modo degenerato di praticare la scienza divinatoria. Derivante dal persiano magû, un termine riferito al clero depositario di saperi segreti in ambito religioso, esso aveva subito una corruzione nel tempo, seguendo verosimilmente il destino di quei magi perseguitati nel VI secolo a.C dal re achemenide Serse perché seguaci dell’antico culto (prezoroastriano) daivico: costretti a fuggire in Caldea, avevano negli anni tradito il carattere sacrale e sapienziale della loro pratica, degradandola a mera scienza da incantatori, se non a stregoneria.

Dubbi e interrogativi

Fu questo, allora, il motivo per cui dagli ambienti cristiani filtravano scarse informazioni sugli uomini che erano giunti a Betlemme dall’Oriente? Erano davvero «magusàioi» nel senso deteriore del termine? E perché solo Matteo ne fece cenno? Si provava forse imbarazzo a citarli come primi pagani ad aver reso omaggio a Cristo? Le moderne analisi storiche disA sinistra Persepoli (Iran), Apadana (Sala delle udienze). Rilievo raffigurante il simbolo di Ahura Mazda, dio unico del mazdeismo, religione che da lui prende nome, ma che è detta anche zoroastrismo, da Zoroastro (forma grecizzata di Zarathustra), che ne sarebbe stato il fondatore, o il profeta, o il piú importante teologo. Nella pagina accanto Yazd, Iran. Un’immagine moderna di Zarathustra, conservata nel locale tempio del fuoco zoroastriano. Le prime notizie sui Magi risalgono all’età classica: secondo lo storico Plutarco erano sacerdoti persiani legati, appunto, alla figura di Zoroastro.

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zarathustra

Come fuoco in terra La figura di Zarathustra, profeta del mazdeismo, religione iranica del periodo pre-islamico, è avvolta nel mistero. Di lui non si hanno testimonianze certe, ma piú di uno studioso gli riconosce una compiuta storicità. Il dio Ahura Mazda lo inviò sulla terra sotto le sembianze di un fuoco celeste per diffondere la religione tra gli uomini, affrancandoli da credenze violente e oscure diffuse all’interno di comunità dedite soprattutto alla guerra. La leggenda colloca il suo luogo di nascita nell’odierno Afghanistan (a Balkh) e descrive Zarathustra come un giovane sacerdote ribelle ai sacrifici effettuati in onore di Mitra. Predicò in patria per una decina d’anni, poi, a causa di dissidi con i suoi seguaci fu costretto a emigrare in Occidente. Trovò accoglienza nel regno del sovrano Vishtaspa, identificato con il monarca persiano Istaspe (padre di Dario I), e lo convertí. Sempre secondo la tradizione, il profeta morí settantenne a Keshmar, oggi nella provincia iraniana del Khorassan. La diffusione dello zoroastrismo in terra persiana fu notevolissima fino alla conquista di Alessandro Magno (331 a.C.). Dopo un periodo di oblio, la religione tornò in auge durante con i Sassanidi, dal 226 al 651 d.C., ricevendo di nuovo l’investitura di culto di Stato. Con la caduta dell’impero e l’avvento dell’Islam, i seguaci dello zoroastrismo, pur se tollerati, preferirono trasferirsi in massa verso est, in India, dove diedero vita al nuovo culto del parsismo. sipano in gran parte questi dubbi sulla scia delle narrazioni di Plutarco, che, nel II secolo d.C., rappresentò i Magi come autorevoli sacerdoti officianti riti riferibili al mazdeismo, l’antica religione iranica di cui Zoroastro (forma grecizzata di Zarathustra) sarebbe stato il fondatore e profeta. La loro scienza segreta, comprendente anche l’astrologia, era posta al servizio di una visione religiosa dualistica che teorizzava il superamento della dicotomia luce-tenebre in un principio superiore realizzabile grazie all’intervento di un «soccorritore divino» (il Saoshyant). La religione dei Magi, pertanto, era messianica e viveva anch’essa nell’attesa della nascita di un bambino sacro partorito da una Vergine, discendente,

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Dossier però, dalla stirpe di Zarathustra. Quell’evento sarebbe stato preannunciato da una stella. Verrebbe spontaneo presumere che i visitatori orientali di Gesú, di cui parlò Matteo, giunsero a Gerusalemme convinti di assistere alla nascita del Messia della religione mazdeica. Ma è solo un indizio, che non trova conferma nelle fonti. Semmai, può sorgere il sospetto che la presenza di alcuni elementi in comune tra le due profezie abbia

spinto gli scrittori cristiani a interpretare in senso «occidentale» il vaticinio di Zarathustra: il fondatore del mazdeismo, in sostanza, sarebbe stato scelto da Dio per informare coloro che si trovavano fuori dalla rivelazione cristiana sulla venuta del Redentore.

La Caverna dei Tesori

L’età classica volse al termine senza aver formulato una dettagliata storia dei Magi e dei loro tradizio-

In base alle conoscenze dell’epoca, il termine greco magusàioi poteva essere associato agli indovini e agli esperti di dottrine astrologiche I Magi, particolare di una miniatura del XII-XIII sec. Esfahan, Museo della Cattedrale del S. Salvatore. Intorno al XII sec., i Magi si differenziarono, passando a simboleggiare le tre età dell’uomo: un giovane imberbe, un uomo maturo e un anziano canuto.

nali attributi. Il primo tentativo di fornire un resoconto piú organico del loro viaggio a Betlemme fu il Libro della Caverna dei Tesori, un testo siriaco del V secolo. Gli enigmatici personaggi che seguono la stella cometa vengono per la prima volta definiti «re» e non appaiono piú in numero indeterminato. Sono tre e in piú hanno anche un nome: Hormidz di Makhodzi, sovrano di Persia, Jazdegerd, monarca di Saba, e Peroz, sovrano di Seba. Questi regnanti, due anni prima della nascita di Gesú, avevano notato in cielo una stella con al centro il volto di una Vergine che teneva un fanciullo con una corona. Ispirati dalle loro divinazioni, si convinsero che presto sarebbe nato il «re dei Giudei» e, per celebrare l’evento, decisero di portare a Gerusalemme alcuni doni prelevandoli dalla Caverna dei Tesori, sul monte Nud (forse localizzabile nell’odierno Yemen, n.d.r.). Erano regali dal grande valore simbolico perché appartenuti in (segue a p. 79)

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Astronomia L’Adorazione dei Magi, particolare della decorazione a rilievo di un sarcofago paleocristiano. IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. A sinistra, in alto, è ben visibile la stella, che, secondo il racconto di Matteo, sarebbe apparsa ai tre re orientali e li avrebbe guidati fino a Betlemme.

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Quella stella di dicembre Come scrive Matteo, «Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”» (vedi corsivo a p. 69). Ma che cos’era davvero la «stella»? Una cometa, come narra la tradizione e come molti hanno cercato di dimostrare, o un fenomeno astronomico diverso? L’ipotesi alternativa piú nota vuole che, al momento della nascita di Cristo – che si tende a collocare nel 7 a.C. – il cielo sia stato interessato dalla congiunzione astrale tra Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Padre di questa teoria è l’astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630), il quale osservò il fenomeno nel dicembre del 1603 e, sulla base di calcoli da lui stesso

elaborati, si disse certo del fatto che una congiunzione simile doveva essersi verificata anche nel 7 a.C. E, a sostegno della sua proposta, citò anche quanto aveva sostenuto un secolo prima Isacco Abrabanel (1437-1508), filosofo ed esegeta delle Sacre Scritture, secondo il quale l’unione di Giove e Saturno in Pesci aveva accompagnato l’avvento del Messia. Mancavano, ovviamente, testimonianze tali da poter confermare le valutazioni astronomiche di Keplero. Che giunsero, tre secoli piú tardi, dall’archeologia e, in particolare, da due documenti: la cosiddetta Tavola planetaria di Berlino e l’«almanacco astrale» di Sippar. La prima è un papiro egiziano, oggi conservato appunto a

Berlino e pubblicato nel 1902; il secondo è una tavoletta scritta in caratteri cuneiformi neobabilonesi, rinvenuta nella città di Sippar, sull’Eufrate, e decifrata nel 1925. Ebbene, nel papiro sono elencati i moti dei pianeti nel periodo compreso tra il 17 a.C. e il 10 d.C., che dunque include il presunto anno di nascita di Gesú; mentre la tavoletta riporta le annotazioni astronomiche dei celebri astrologi di Sippar in cui essi anticipano i movimenti e le congiunzioni celesti del 7 a.C.: in particolare quella tra GioveSaturno nella costellazione dei Pesci che, eccezionalmente, si sarebbe verificata tre volte – il 29 maggio, il 29 settembre e il 4 dicembre – e sarebbe stata visibile soprattutto nell’area del Mediterraneo.

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Dossier I Magi sontuosi di Gentile da Fabriano Nel XIV secolo l’Italia divenne uno dei maggiori centri di produzione artistica sulla leggenda dei Magi, in particolare Firenze e poi Venezia dove era sorta la Bottega degli Embriachi che realizzò molte opere in avorio per conto di nobili europei. A fondare la Bottega era stato un predestinato – si chiamava infatti Baldassarre – che negli anni maturò una vera e propria passione per l’iconografia epifanica. A Firenze,

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nel 1423, grazie al lauto finanziamento di mecenati locali, venne realizzato uno dei capolavori dell’arte sacra, la tardo-gotica Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, oggi conservata agli Uffizi. Il dipinto è lo specchio dei tempi e riflette l’evoluzione cronachistica e «orientaleggiante» delle fonti letterarie traendo ispirazione anche dal gusto del fasto che caratterizzava la cultura cortese

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del tempo. I dettagli disseminati nell’opera sono innumerevoli e l’ambientazione, sospesa in un tempo imprecisato, sembra piú consona a un ritrovo di corte che a un evento religioso.

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I luoghi dei re venuti dall’Oriente

Colonia Nel 1164, Federico Barbarossa fa trasferire le spoglie dei Magi da Milano a Colonia, perché il sovrano, dopo aver sconfitto e distrutto la città lombarda, rea d’essersi ribellata alla sua autorità, non la ritiene degna di conservarle. Le reliquie vengono accolte dalla chiesa di S. Pietro, oggi Duomo della città tedesca.

Milano Nel IV secolo, per iniziativa del vescovo greco Eustorgio, la città accoglie le spoglie dei Magi, traslate da Costantinopoli. Per custodire i sacri resti si edifica una chiesa, nel luogo in cui la cassa che li conteneva diviene improvvisamente pesantissima, tanto da non poter essere piú trasportata. Al di là della leggenda, è accertata l’esistenza della chiesa di S. Eustorgio, che oggi ospita acune reliquie dei tre re, restituite dall’arcidiocesi di Colonia nel 1903.

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Costantinopoli Secondo la tradizione, i resti dei Magi sarebbero stati rinvenuti da Elena, madre dell’imperatore Costantino, durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa. Successivamente, furono traslati nella Grande Chiesa costantiniana (l’attuale S. Sofia).

Betlemme Secondo i Vangeli, è il luogo di nascita di Gesú. La tradizione vuole che i Magi vi fossero giunti dall’Oriente, seguendo la stella cometa, per portare doni al neonato «re dei Giudei».


Iran (paese di Syr) Secondo la Cronaca pseudo-Dionisiana, un testo dell’VIII secolo, sarebbe la terra d’origine dei Magi. Il legame fra i tre sovrani e la Persia è comunque probabile, dal momento che l’antico Iran fu la culla del mazdeismo, dottrina religiosa di cui i Magi sarebbero stati autorevoli sacerdoti.

India Fonti letterarie d’epoca bassomedievale ambientano nel Paese asiatico la vicenda dei Magi. E tale legame potrebbe essere stato suggerito, anche in questo caso, dal filo che unisce i tre sovrani al mazdeismo: all’indomani della caduta dell’impero sassanide e del successivo avvento dell’Islam, molti seguaci della dottrina di Zarathustra migrarono infatti in India, dove diedero vita al parsismo, che è appunto uno sviluppo locale del mazdeismo.

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Dossier Il viaggio dei Magi nella Firenze dei Medici La cappella dei Magi venne costruita, su commissione di Cosimo il Vecchio, entro il 1459, dallo scultore fiorentino Michelozzo (1396-1472), al piano nobile di Palazzo Medici a Firenze, come cappella privata della famiglia, patrona della confraternita dei Magi. Nell’estate dello stesso 1459, il pittore Benozzo Gozzoli (1420-1497), allievo di Beato Angelico, dipinse il ciclo di affreschi che la decorano, realizzando, nel vano principale, lungo tre pareti, la Cavalcata dei Magi (vedi in basso, il corteo di Melchiorre, e i particolari alle pp. 80-81).

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L’evento si svolge in un paesaggio ricco di dettagli, con scene di caccia, piante e animali esotici, per riprodurre il quale il pittore utilizzò materiali rari e costosi, come il lapislazzuli e l’oro. Il fastoso corteo, composto da personaggi della famiglia Medici, dignitari e politici dell’epoca, parte dalla città di Gerusalemme e si sviluppa in direzione di Betlemme. I tre Magi, raffigurati secondo la tradizione, occupano ognuno una parete. Melchiorre, in abito rosso, che compare in testa al corteo sulla parete ovest, è il piú

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anziano; sulla parete sud è dipinto il corteo di Baldassarre, raffigurato in età matura e dalla pelle scura, con abito verde; la parete est è, infine, occupata dal corteo di Gaspare, vestito di bianco, il piú giovane. Nella parete nord è ricavata la scarsella con l’altare, sovrastato da una copia coeva dell’Adorazione del Bambino di Filippo Lippi (oggi ai Musei Statali di Berlino), realizzata dalla bottega dello stesso artista.

origine ad Adamo ed Eva che li avevano deposti in quel luogo dopo la loro espulsione dal Paradiso. Ulteriori particolari sul mito della stella cometa sono contenuti in un altro testo altomedievale, l’Opus imperfectum in Matthaeum, la cui datazione oscilla tra il IV e il VII secolo. Attribuito erroneamente al teologo bizantino Giovanni Crisostomo, il libro rivela che il presagio della stella era contenuto nel testamento di Adamo al figlio Seth. Per questo motivo i Magi orientali scrutavano spesso il cielo, in attesa di uno speciale evento astronomico che, alla fine, si manifestò loro insieme all’immagine di un bambino con una croce. Un testo dalla trama simile, la Cronaca pseudo-Dionisiana (774775), colloca la terra dei Magi nel paese di Syr, nell’odierno Iran, e non piú in un’imprecisata area mesopotamico-caldea. L’area di riferimento corrisponderebbe all’attuale regione del Sistan, al confine tra Iran e Afghanistan.

Un regalo «prodigioso»

Nei racconti sui Magi, la vasta produzione letterario-religiosa orientale dell’Età di Mezzo si spinse anche oltre il periodo della Natività, tema solo in parte affrontato nell’Opus. Testi uigurici e l’apocrifo Vangelo arabo dell’infanzia (VIII-IX secolo) svelano che i sovrani visitatori avevano ricevuto un regalo dalle mani del Bambino e della Vergine: una pietra, o un pane, di forma rotonda oppure un panno a seconda delle versioni. Tornati in patria, i Magi scoprirono che l’oggetto provocava prodigi, tutti in qualche modo legati alla manifestazione del fuoco. La versione del racconto in cui è presente la pietra compare anche nelle pagine de Il Milione (1298) di Marco Polo: i re, tornati a casa, gettarono il sasso in un pozzo e, vedendo una miracolosa fiamma provenire dal cielo, fondarono un culto nella loro contrada. La presenza del fuoco testimonia una continua migrazione della leggenda che seguí il percorso delle missioni nestoriane

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Dossier I tre re secondo Benozzo Gozzoli

gaspare, è il piú giovane, raffigurato in abito bianco.

baldassarre, raffigurato con abito verde, è l’uomo dalla pelle scura in età matura.

in Asia centrale. Il fuoco sacro, inre in quale senso la loro vicenda si pre secondo i padri della Chiesa, fatti, oltre a rivestire un ruolo foninserisca nella atemporale storia la stella doveva essere decifrata damentale nella cultura religiosa della redenzione cristiana». Emble- soltanto come la manifestazione iranica, rappresentava la manifematica, in questo senso, è la tesi di dello Spirito Santo, mentre il suo stazione del divino sulla terra per le San Fulgenzio di Ruspe che, nel VI aspetto e le precise modalità con credenze turco-mongole. secolo, interpretò le figure dei tre cui si era manifestata rivestivaLa storia leggendaria dei Magi sovrani come una sorta di alter ego no un ruolo marginale. In seguisi sviluppò soprattutto a Oriente, dei pastori nel disegno unificatore to l’esegesi cristiana interpretò i tre doni come simbolo delle età mentre la cultura cristiana occidendelle genti e di redenzione di Gesú. dell’uomo oppure tale elaborava paraldelle dimensioni lelamente una mera Nel Medioevo i Magi vengono del tempo o, ancoanalisi teologica della vicenda. La tradi- rappresentati secondo le tre età dell’uomo: ra, delle tre razze bibliche della terra zione patristica, poco giovinezza, maturità e vecchiaia che discendevano incline alla cronaca, esaltava il «gusto tipico del cristiaAltre letture simboliche scan- da Noè (Semiti, Camiti e Jafetiti). L’avvento della scolastica fenesimo medievale, – come osserva dagliarono il mistero del numero lo storico Alfonso Maria Di Nola – dei monarchi ritenendolo non ca- ce registrare un maggior interesse per la rivalutazione allegorica del suale in quanto espressione della verso i particolari narrativi sulla vita testo evangelico». Ai padri della Trinità, mentre le offerte di oro, dei Magi. Filosofi cristiani come AlChiesa – sottolinea sempre Di Noincenso e mirra avrebbero rivesti- berto Magno e Tommaso d’Aquino la – «non interessa, dunque, sapere to il significato, rispettivamente, si mostrarono aperti ai contributi quanti e chi erano i Magi, e donde della regalità del Messia, della cronachistici provenienti da Orienvenivano, e come tornarono alle losua essenza divina e nello stesso te, ma anche nelle loro elaborazioni ro terre, ma urge piuttosto scopritempo della sua mortalità. Sem- prevalse sempre l’aspetto teologico,

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altabarre

Ma forse ce n’era anche un quarto...

melchiorre, con abito rosso, è il piú anziano, in testa al corteo.

con una lettura allegorica del cammino dei tre sovrani verso la Terra Santa. I fatti, in sostanza, restavano insignificanti, apparendo come una pallida scenografia posta al servizio di una complessa opera di decrittazione delle verità sovrannaturali. Solo nel XIII e nel XIV secolo la cultura religiosa occidentale accolse nel suo grembo l’intero patrimonio di leggende e racconti che si erano moltiplicati in terre lontane. Lo fece grazie alla Legenda Aurea (1260), composta dal vescovo di Genova Jacopo da Varagine, ma, soprattutto, all’opera colossale di un teologo carmelitano tedesco, Giovanni di Hildesheim, il quale nell’Historia trium Regum (1338-1375), raccolse tutte le narrazioni mitico-esotiche di matrice orientale, mescolandole con gli elementi prodotti fino a quel momento dal pensiero cristiano europeo e dai Vangeli. Pur se ispirato da un intento

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Accanto a Gaspare, Melchiorre e Baldassarre nella tradizione ortodossa ha trovato spazio Altabarre, noto anche come Artaban. A fornire una delle versioni piú dettagliate della leggenda dell’«altro» re è lo scrittore e pastore presbiteriano Henry Van Dycke nel romanzo Il quarto saggio (1896). Artaban era un sacerdote persiano che praticava il culto di Zarathustra. Un giorno avvistò la stella cometa e decise in extremis di seguire i Magi nel viaggio verso Gerusalemme. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre lo attesero a lungo prima di partire, ma il quarto della compagnia non si presentò, perché nel tragitto da casa al luogo dell’appuntamento era stato fermato da un ebreo gravemente ferito. Dopo averlo soccorso, Artaban ricevette dall’uomo una rivelazione che gli annunciava la nascita del Messia a Betlemme. I suoi compagni di viaggio erano già partiti e quindi non poté far altro che allestire un convoglio per recarsi nella città della profezia. Arrivato a Betlemme, si trovò nel mezzo della strage degli innocenti e, con un gioiello, riuscí a riscattare un bimbo prima che fosse trucidato. Artaban non tornò a casa e decise di stabilirsi a Gerusalemme. Offrendo, poi, l’ultimo gioiello in suo possesso, salvò una ragazza dalla schiavitú. Alla fine riuscí a raggiungere la grotta della Natività, ma in ritardo, quando i Magi erano già da tempo andati via. Si presentò a mani vuote e per questo chiese scusa a Gesú appena nato, che gli tese la mano.

«antologico» l’autore compí anche delle scelte precise nella selezione delle fonti, stabilendo, per esempio, che le profezie recepite dai Magi non originavano da Zarathustra o dall’apocrifo Testamento di Adamo di Seth, ma da antiche credenze bibliche. La chiave dell’enigma, secondo Giovanni di Hildesheim, è contenuta nel libro dei Numeri (XXIV) che narra la storia dell’indovino caldeo Balaam, incaricato dal re moabita Moab di scagliare una maledizione contro i nemici Ebrei. Un’apparizione lo spinge, invece, ad annunciare un evento rivoluzionario e a rinunciare all’anatema: «Sorgerà una stella da Giacobbe e uno scettro si leverà da Israele».

I trenta denari di Giuda

Fu cosí che la profezia circolò in ambiente caldeo, tramandata fino alla generazione dei Magi che, poi, giunsero al cospetto del Messia con

alcuni doni particolari: in base alla versione del carmelitano tedesco i regali erano una sfera, appartenuta ad Alessandro Magno, l’incenso, la mirra e trenta danari, gli stessi riscossi poi da Giuda per tradire Gesú. Erano stati coniati dal padre di Abramo, Thore, e, dopo una lunga serie di passaggi (da Isacco a Nabucodonosor, dalla Sacra Famiglia all’Egitto), finirono nelle tasche di uno dei tre re venuti dall’Oriente che li donò al Messia. Cristo dispose di depositare le monete al Gazofilacio, dove erano conservati i tesori, nel Tempio di Gerusalemme e da lí passarono nelle mani di Giuda. Nell’Historia trium Regum è contenuta anche la curiosa tradizione che descrive i popoli orientali come minuti di statura e sordi: «E dicono gli esperti della scienza delle terre – racconta Giovanni di Hildesheim – che, nelle regioni dei tre Re, il sole si leva con cosí tremendo fragore

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Dossier che non potrebbe essere sopportato da chi non vi ha l’abitudine. E, al di là di quelle regioni, nascono uomini molto piccoli che vengono al mondo sordi, per il suono prodotto dal firmamento, e comprano, vendono e agiscono per segni». La letteratura bassomedievale sui Magi spostò la vicenda dei tre sovrani ancor di piú verso Oriente in riferimento al periodo posteriore alla nascita di Cristo, ambientandola in India, dove l’apostolo Tommaso era impegnato nell’opera di evangelizzazione. In quel luogo i re, ordinati vescovi dallo stesso Tommaso, si sarebbero dedicati ad attività caritatevoli e alla predicazione del nuovo verbo, morendo poi molto anziani e da martiri.

Dalla scoperta...

Le spoglie dei Magi legano l’Oriente alla città d’origine dell’autore dell’Historia trium Regum e coinvolgono due capitali europee (Milano e Colonia) in un gioco di coincidenze sorprendenti. I resti dei monarchi, dando credito a ricostruzioni ammantate di leggenda, furono trovati da Elena, madre di Costantino, e in seguito traslati a Costantinopoli,

nella chiesa di S. Sofia. Nel IV secolo, su iniziativa di un vescovo greco, Eustorgio, le reliquie vennero portate a Milano, città dove il porporato prestava servizio per conto dell’imperatore. I corpi partirono da Bisanzio in direzione dell’Italia con un carro trainato da due vacche, alla cui guida si pose lo stesso Eustorgio. Durante il tragitto il veicolo fu attaccato da un lupo feroce, che sbranò una delle due mucche. Il presule, non potendo continuare il viaggio in quelle condizioni, convinse la belva a sostituirsi alla vittima e, in virtú di questo avvicendamento, il carro poté arrivare nei pressi di Milano. Alle porte della città, però, la cassa contenente i corpi dei Magi divenne all’improvviso pesantissima, tanto da obbligare Eustorgio a fermarsi. I resti dei sovrani trovarono allora una sistemazione in quel luogo, dove poi sorse una chiesa che tuttora porta il nome del religioso. La storia testimonia l’esistenza di due vescovi milanesi di nome Eustorgio, morti rispettivamente nel 331 e nel 518, ma non fornisce alcuna conferma sull’arrivo delle salme dei re Magi in città. E il si-

A Colonia

L’arca delle reliquie Una grande arca di argento dorato, smalti e pietre preziose, ospita nel duomo di Colonia le reliquie dei Magi. Giunsero in Renania nell’estate del 1164, in seguito alla decisione di Federico I Barbarossa di trasferirle da Milano dopo la sua vittoria contro la ribelle città lombarda. Nello stesso anno le reliquie furono collocate nella chiesa gotica di S. Pietro, che poi divenne il grande duomo, oggi meta di pellegrinaggi da tutto il mondo. L’arca (in tedesco Dreikönigenschrein), situata dietro l’altare maggiore, ha un’altezza di oltre 1 m, una lunghezza di 2, 20 e un peso di 300 kg. Fu realizzata su iniziativa dell’arcivescovo della città tedesca Filippo di Heinsberg, il successore di Rainaldo di Dassel. Alle porte della tomba dei Magi si può ammirare uno dei rari labirinti ecclesiastici moderni. Nel Medioevo questo tipo di decorazioni del pavimento era molto diffuso, specie in Francia, e portava il nome di «cammino di Gerusalemme» perché riecheggiava, se non surrogava, il pellegrinaggio in Terra Santa. Il centro del labirinto rappresenta la città di Dio.

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In alto William Callow, Il Reno a Colonia, tecnica mista su carta. 1891. Collezione privata. In secondo piano, si riconoscono le guglie del Duomo della città tedesca, che, nel 1164, accolse le presunte spoglie dei Magi, portate in Germania da Milano, per volere di Federico Barbarossa.

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lenzio delle fonti coeve stupisce non poco vista la portata dell’evento. A Milano quelle preziose reliquie forse c’erano veramente, sebbene si ignori come e in quali circostanze vi fossero giunte. Lo confermarono varie cronache del XII e XIII secolo, riportando la vicenda del trasferimento dei resti dei Magi a Colonia, per volere dell’imperatore Federico Barbarossa.

...alla confisca

Era il 1164. Milano era stata distrutta appena due anni prima dalle truppe del sovrano germanico per essersi ribellata alla sua autorità. Le sacre reliquie facevano parte, quindi, del bottino di guerra finito nelle mani di Federico, il quale non riteneva la città lombarda degna di conservare un tesoro di tale valore simbolico. I tre re – nota lo storico Franco Cardini – «non potevano

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Dossier gaspare, il moro, offre la mirra, come narrato nel Vangelo secondo Matteo. Secondo la tradizione cristiana, la mirra, utilizzata anche nelle imbalsamazioni, simboleggiava la mortalitĂ di Cristo come essere umano.

In ginocchio, sotto la protezione di San Pietro, compare il committente dell’opera (da alcuni identificato con un ricco mercante di stoffe di Anversa, Peeter Scheyfve, da altri con Peter Bronckhorst). In secondo piano è San Giuseppe, che asciuga i panni del Bambino.

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melchiorre offre su un piatto l’incenso, che simboleggia la divinità di Cristo.

Trittico dell’Adorazione dei Magi, olio su tavola di Hieronymus Bosch (14501516). 1510. Madrid, Museo del Prado.

Baldassarre, rappresentato come il piú anziano dei Magi, è inginocchiato davanti alla Vergine con in grembo il Bambino. Il suo dono, deposto a terra, è una scultura con il «Sacrifico di Isacco», richiamo alla Passione di Cristo. Accanto, è posta anche una corona, simbolo di sapienza e dignità regale di Cristo.

La consorte del committente, è posta sotto la protezione di Sant’Agnese.

certo continuare a venir custoditi e onorati, loro, i pii e perfetti vassalli, in una città che si era macchiata di tradimento nei confronti del suo signore». Simbolo di una regalità intrisa di sacro, quelle spoglie erano qualcosa di straordinariamente affine all’ideale di potere che l’imperatore riteneva di incarnare: monarca e allo stesso tempo rappresentante di Dio in terra. Ecco perché il sovrano avallò la proposta del suo cancelliere, Rainaldo di Dassel, di trasferire i corpi a Colonia. In Germania il cancelliere, in seguito nominato arcivescovo della città renana, fece arrivare i corpi di due altri santi, Felice e Nabore, con l’auspicio di trasformare Colonia in una delle principali mete di pellegrinaggio del continente, al pari della vicina Aquisgrana, che poteva vantare la custodia delle spoglie di Carlo Magno. Donò, inoltre, tre dita dei Magi proprio alla città di Hildesheim, dove era stato prevosto, e sembra certo che il clamore di quell’avvenimento abbia attirato, due secoli dopo, l’interesse del carmelitano Giovanni, stimolandolo a scrivere la sua Historia.

Una lettera misteriosa

Qualche altro indizio avvalorerebbe la tesi della costruzione del «mito delle reliquie» da parte dei vertici del Sacro Romano Impero. In quel periodo, esattamente un anno dopo la traslazione a Colonia, cominciò a circolare in Europa una lettera fir-

il re moro

La discendenza di Noè

Nel Medioevo si diffuse la credenza che una delle figure dei Magi fosse di pelle scura, almeno nella rappresentazione iconografica. La tradizione deriva dalla tesi secondo la quale i Magi erano il simbolo delle tre razze discendenti da Noè, i Semiti, gli Jafetiti e i Camiti. Questi ultimi erano gli abitanti del continente africano e su di loro gravava una maledizione biblica. A partire dal XIII secolo il re magio nero apparve in modo sempre piú frequente nei dipinti.

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Dossier

Milano

Tra i fantasmi di Sant’Eustorgio L’antica chiesa milanese di S. Eustorgio che un tempo, secondo la tradizione, custodiva le reliquie dei Magi, è oggi una basilica imponente, situata nel quartiere di Porta Ticinese. Concepita nel IV secolo, fu poi ristrutturata in epoca moderna. Ospita ancora qualche resto dei tre sovrani, frutto della concessione dell’arcidiocesi di Colonia, che, nel 1903, esaudí le richieste del cardinale ambrosiano Andrea Ferrari, restituendo a Milano una piccola parte delle reliquie. La trattativa tra il porporato italiano e le autorità religiose tedesche fu estenuante e riportò nel capoluogo lombardo due fibule, una tibia e una vertebra dei corpi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

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mata dal fantomatico Prete Gianni, ritenuto un discendente dei re Magi. Si definiva sovrano di un imprecisato e rigoglioso territorio a Oriente e incarnava su di sé sia le funzioni regali che quelle sacerdotali. La missiva, che molti storici ritengono un falso confezionato dall’entourage di Federico Barbarossa, metteva in cattiva luce la Chiesa e magnificava la figura di un monarca-sacerdote, corrispondente in toto al profilo dell’imperatore.

Le salme a Colonia

Piú d’uno storico e cronachista dell’epoca parlò di un furto ai danni di Milano, presumendo che in città il culto per le reliquie dei Magi fosse molto sentito o che perlomeno gli abitanti sapessero che cosa custodiva la chiesa di S. Eustorgio. Il carmelitano Giovanni di Leida, nelle cinquecentesche Cronache del Belgio, fornisce una versione che farebbe propendere per quest’ipotesi, rivelando l’espediente lugubre con il quale le salme lasciarono Milano

Polittico marmoreo con l’Adorazione dei Magi, attribuito a Matteo da Campione. 1349. Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella dei re Magi.

per evitare possibili rivolte popolari. Secondo il religioso, i corpi dei Magi, ancora integri dopo secoli, furono posti in tre feretri con i nomi di altrettanti fantomatici cognati di Rainaldo di Dassel, morti a causa di una pestilenza. Piú esplicito ancora risulta il racconto di Bonvesin de la Riva, contenuto nel De Magnalibus Mediolani (1288), che descrive la sofferenza del popolo milanese per la perdita delle reliquie. In fondo anche la scelta di un percorso tortuoso per raggiungere Colonia potrebbe rivelare l’intento di sfuggire a un sommovimento di piazza, ma piú verosimilmente era una precauzione presa per evitare incidenti in un territorio ad alta densità di conflitti. Le reliquie, partite da Milano il 10 giugno 1164, arrivarono a Colonia il 23 giugno secondo dicembre

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gli Annales Agrippinenses, mentre la Chronica regia coloniensis riporta una data posteriore, il 23 luglio. Nel fitto intreccio della storia dei Magi fanno la loro comparsa anche i Mongoli: alcune cronache medievali, infatti, sostengono che le incursioni tartare in Occidente avessero avuto come obiettivo finale la presa di Colonia. Gli invasori, in base a questa tradizione, ritenevano di essere i discendenti dei tre re e per questo motivo volevano impossessarsi delle reliquie.

Lo stupore dei Persiani

Il mito dei Magi toccò, dunque, il sentimento popolare anche dei non cristiani: nel 614 – e non è una leggenda – i persiani sassanidi conquistarono la Palestina, entrando prima a Gerusalemme e poi a Betlemme. Nella basilica della Natività, però, deposero le armi, nonostante fossero penetrati nelle città sante del cristianesimo con l’intento di distruggere i segni della religione nemica. I soldati non osarono toccare nulla, quasi fossero stati paralizzati dalla bellezza di un mosaico nel quale comparivano i re Magi in costume persiano, con il tipico berretto frigio. Secondo una cronaca greca prodotta durante un sinodo svoltosi nell’836 a Gerusalemme, i Persiani videro «con stupore» le raffigurazioni dei tre re «osservatori degli astri» loro compatrioti e «per rispetto e per affezione ai loro antenati li venerarono come se fossero vivi e risparmiarono la chiesa». È probabile che il gesto di magnanimità dei soldati sassanidi non sia stato solo il frutto di un rapimento artistico e del rispetto per la storia della propria terra, ma anche l’effetto di rapporti non del tutto ostili del loro re Cosroe con la corte di Costantinopoli, che aveva in precedenza il controllo sulla Terra Santa. I Magi compaiono in costume persiano in tutte le prime rappresentazioni iconografiche come, per esempio, nel celebre mosaico del VI secolo della chiesa di S. Apollinare Nuovo a Ravenna e ancora, nello

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stesso capoluogo romagnolo, nella capsella porta reliquie del Museo arcivescovile, risalente al VII secolo. I sovrani, all’inizio, appaiono sprovvisti degli attributi regali e indossano i costumi tipici persiani dell’età ellenistico-romana. A ispirare gli artisti cristiani della tarda antichità e dei primi secoli dell’Età di Mezzo era lo schema della cosiddetta proskynesis (dal greco pros, «verso» e kyneo, «baciare», era l’usanza di prostrasi diffusa nelle corti orientali, dove il sovrano era considerato di origine divina, n.d.r.): i Magi hanno un atteggiamento di devozione che richiama l’atto di omaggio dei monarchi barbari nei confronti dell’imperatore romano al quale consegnavano doni in segno di sottomissione. Con il passare del tempo, le scene della Natività si arricchirono di particolari grazie ai contributi dei Vangeli apocrifi, e i Magi assunsero il loro aspetto regale. Ma è a partire dal XII secolo che l’iconografia cristiana occidentale si caratterizzò come una vera e propria arte del mito, ancor di piú nel Duecento e nel Trecento, attingendo alle già citate Legenda Aurea e Historia trium Regum. I sovrani, quasi sempre muniti di corona, cominciarono a essere raffigurati di età diversa tra loro, con

Da leggere U Giovanni di Hildesheim, La storia

dei Magi, Vallecchi Editore, Firenze 1966 U Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, Einaudi, Milano 2007 U Franco Cardini, I re Magi. Storia e leggende. Marsilio, Padova 2000 U A.A.V.V., I tre saggi e la stella. Mito e realtà dei re Magi, Il Cerchio, Rimini 1999 U Luca Serafini (a cura di), Il Natale dei Magi, Einaudi, Milano 2011 U Mario Bussagli, Maria Grazia Chiappori, I re Magi. Realtà storica e tradizione magica, Rusconi, Milano 1985 U Madeleine Felix, I re Magi, Jaca Book, Milano 2000

il cliché ricorrente composto da un anziano, un uomo di mezza età e un giovane. Uno di loro, poi, era talvolta di pelle scura. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento comportò un’ulteriore rivoluzione nell’iconografia dei Magi. L’aspetto fiabesco e le sontuose atmosfere di celebrazione lasciarono il passo a una rigorosa indagine storico-simbolica, tratteggiata con un’essenzialità quasi matematica, come nell’Adorazione dei Magi di Masaccio (1426). Il dipinto, appartenente al polittico di Pisa, si manifesta come l’esatto opposto della versione sontuosa di Gentile da Fabriano (vedi box alle pp. 74-75): le figure esprimono una certa sobrietà e i dettagli sono ridotti all’osso. L’intento di Masaccio era quello di rappresentare un concreto momento della storia dell’uomo e fornirne un’immagine il piú possibile realistica. Al centro del dipinto, infatti, si notano, in grande evidenza, due uomini con abiti del XV secolo, nel ruolo di testimoni del tempo che osservano attentamente l’atto di devozione al nascituro.

La versione di Leonardo

Ancor piú scientifico fu Leonardo da Vinci, che si pose nel solco piú autentico della tradizione occidentale. La sua Adorazione (1481-82) indaga sul piú profondo senso religioso della visita dei Magi, ponendo in primo piano la Vergine con il bambino e confinando gli altri personaggi nel ruolo di spettatori stupiti, in parte turbati (vedi in questo numero, la notizia alle pp. 6-7). L’inquietudine, però, non sembra esprimere un sentimento di dubbio o paura per quanto sta accadendo, bensí lo sconvolgimento interiore che segue all’irrompere di una emozione fortissima. In pieno Rinascimento la rappresentazione dei Magi fu avvolta anche da oscuri significati esoterici. Il pittore olandese Hieronymus Bosch raffigura i monarchi associandoli alle tre età dell’uomo (vedi alle pp. 8485) e colloca nel suo dipinto alcuni particolari che, ingranditi, assumono un profilo a tratti inquietante. V

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dimensione guerra il fuoco greco

Le fiamme dell’angelo di Flavio Russo

Cannoni lanciafiamme e bombe incendiarie non sono invenzioni moderne: già i Bizantini ne facevano uso per imporre la loro dominazione sui mari. Ma l’efficacia di tali spaventosi ordigni era dovuta soprattutto all’impiego di una micidiale miscela, che permetteva al fuoco di bruciare a contatto con l’acqua

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a guerra navale non ha come fine la conquista del mare, bensí il controllo delle rotte per il traffico mercantile. E poiché senza navi sull’acqua non si può combattere, il confronto non mirò mai alla soppressione dei combattenti, ma, appunto, alla distruzione delle imbarcazioni. E poiché le navi, fin quasi al secolo scorso, si costruivano in legno, il fuoco assurse ad agente distruttore per antonomasia. Già Tucidide descrisse un rozzo lanciafiamme navale, ma fu col fuoco greco che, quasi un millennio piú tardi, debuttò l’arma in-

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cendiaria piú efficace. Per le cronache medievali il fuoco greco fu una terrificante miscela incendiaria inventata dai Bizantini e adottata dal 637 per la guerra navale, in grado di accendersi furiosamente al semplice contatto con l’acqua e di bruciare senza potersi spegnere persino sulla superficie del mare. La leggenda vuole che un angelo ne avesse suggerito la formula all’imperatore Costantino per meglio difendere la sua nuova capitale. Per la storia, invece, fu papa Innocenzo II che, nel 1139, la proibí, per la sua ingiustificata efferatezza, nel Secondo Concilio Lateranense. Come spiegare, però, una presa d’atto cosí tardiva per atrocità subito tanto evidenti? E perché un’arma dimostratasi risolutiva negli scontri navali venne rapidamente dismessa ap-

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In alto affioramento naturale di bitume frammisto a petrolio. In basso dromone bizantino con sifone per fuoco greco, particolare di una miniatura dalla Sinossi della storia del bizantino Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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pena pochi decenni piú tardi? Appare logico supporre che l’interdizione prima e il progressivo abbandono poi non scaturirono da improbabili motivazioni umanitarie, bensí dal parallelo evolversi della polvere pirica che, col conseguente imporsi di artiglierie capaci di colpire a distanza le navi nemiche, inibiva la tattica dei lanci di fuoco, subordinata invece alla loro adiacenza.

Zolfo, salnitro e carbone di legna

Si trattò di un salto tecnologico non inverosimile e neppure improvviso, dal momento che, come ritengono molti studiosi, la polvere da sparo faceva già parte della formula piú avanzata della miscela. Infatti Marco Greco – autore sulla cui reale esistenza permangono forti dubbi –, nel trattato Liber ignium ad comburendos hostes (probabilmente redatto sul finire del XIII secolo, n.d.r.), cosí ne precisava la composizione, alla XIII ricetta: «Una parte di zolfo, sei di sale di pietra (salnitro) e due di carbone di legna di tiglio o di salice», aggiungendo che il piroforo da lui definito ignis volabilis, andava considerato un propyron, una sorta di pre-fuoco del fuoco greco, cioè, con definizione moderna, l’«innesco»! Il Liber ignium potrebbe essere la rielaborazione del codice bizantino di Costantino Porfirogenito (913-957), ipotesi che spiegherebbe peraltro la riproposizione della formula da parte di Ruggero Bacone (1214-92), cosí decifrata: «prendi sette parti di salnitro, cinque di legno di nocciolo giovane e cinque di zolfo». Un sistema d’arma, quindi, che pone almeno tre interrogativi: qual era la vera formula del fuoco greco, detto anche «fuoco liquido» o «fuoco marino»; perché si accendeva a contatto con l’acqua; e come veniva proiettato? Dal punto di vista storico, tutti i liquidi incendiari, tecnicamente definiti «pirofori», traggono origine da sostanze infiammabili già disponibili in natura, una

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dimensione guerra il fuoco greco potenzialità progressivamente esaltata con empiriche miscelazioni. Spicca fra tutte la nafta che affiora spontaneamente, spesso frammista al bitume, in vari luoghi dell’Asia Minore e, distillata forse fin dal VI secolo dagli alchimisti bizantini, forniva un liquido leggero e volatile, fortemente infiammabile e a noi ben noto col nome di benzina. In breve divenne la componente imprescindibile per la preparazione di qualsiasi piroforo.

Quel fuoco che l’acqua non spegne

Stando però alla stragrande maggioranza delle testimonianze sul fuoco greco, le sue piú temute peculiarità erano la capacità di aderire a qualsiasi superficie e di continuare a bruciare anche se cosparso d’acqua. La benzina non si concilia con la prima connotazione e meno che mai con la seconda, per cui si deve ipotizzarne l’integrazione con un additivo gelatinizzante, tratto da oli animali o vegetali e con un forte reagente esotermico all’idratazione. L’aggiunta alla benzina di palmitato, tratto dall’olio di palma, risponde all’esigenza, poiché la rende densa e appiccicosa, dalla violenta combustione difficilmente estinguibile. Non a caso, una Ipotetica ricostruzione grafica della prua di un dromone lanciafiamme con il relativo sifone e serbatoio del liquido piroforo.

composizione del genere si ritrova nel tristemente celebre napalm, elaborato nel 1942 e cosí battezzato dalle sillabe iniziali di na-fta (anche se altri sostengono che derivi da Na, simbolo chimico del sodio) e palm-itato. Per l’autoaccensione a contatto con l’acqua, l’ipotesi meno astrusa contempla l’impiego del ricordato pre-fuoco, cioè dell’embrionale polvere pirica. Con una ulteriore aggiunta di calce viva: il rilevante calore di quest’ultima, infatti, sviluppato dalla sua idratazione, era insufficiente per incendiare un idrocarburo, ma non la polvere pirica, Il tubo metallico che fuoriusciva dalla scatola di accumulo era raccordato tramite giunti flessibili, verosimilmente in cuoio, ed era munito di lungo braccio di manovra che consentiva al servente di dirigerne il getto sul bersaglio.

I due cilindri muniti di stantuffi erano azionati da una leva oscillante, servita da due uomini. Costituivano perciò una pompa alternativa: uno, salendo, aspirava il liquido incendiario; l’altro, scendendo, lo espelleva. Una scatola di accumulo ne stabilizzava l’emissione, immettendola in una lancia munita di ugello anteriore direzionabile.

Il liquido incendiario era contenuto in una sorta di serbatoio ermetico, quasi certamente di rame come le caldaie, posto sul fondo dell’imbarcazione, dove risultava piú protetto dai dardi nemici che, forandolo, avrebbero prodotto una istantanea e terrificante fiammata.

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cosicché la miscela, dopo una esplosione iniziale, bruciava furiosamente. Né si può escludere che il medesimo risultato si ottenesse utilizzando al posto della calce viva il sodio, metallo cosí avido di ossigeno da sottrarlo all’acqua con emissione di idrogeno, subito acceso dal calore sviluppato, o un qualche suo composto, come la soda caustica, che ha un comportamento simile ed è perciò altrettanto idonea ad accendere la polvere pirica. Si spiegherebbe forse cosí la rievocata terrificante capacità del fuoco greco non solo di bruciare sul mare, I tubi che fuoriuscivano dalla scatola di accumulo terminavano con un ugello a delta. Ugelli del genere sono ancora in uso per le lance antincendio, poiché consentono di incrementare la gittata del liquido, accentuandone la pressione e favorendone la nebulizzazione, presupposto per una combustione piú violenta e immediata. A protezione della pompa alternativa e dei suoi serventi, oltre che del puntatore, si deve ipotizzare una spessa scudatura di ferro, per schermarli dal tiro nemico, che per ovvie ragioni convergeva su di loro, e per proteggerli da eventuali ritorni di fiamma, provocati da repentini cambiamenti del vento. I cilindri e i relativi stantuffi della pompa alternativa erano realizzati in bronzo, con un grande cura. I primi venivano alesati internamente e i secondi torniti esternamente, riducendone cosí la tolleranza fino a 0,1 mm, che si annullava del tutto con guarnizioni di cuoio. Un tubo di bronzo, collegato alle valvole di aspirazione dei cilindri della pompa alternativa, succhiava il liquido dal serbatoio, munito alla sua estremità inferiore di una valvola di non ritorno, per evitarne il disinnesco.

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In alto pompa alternativa a doppio cilindro, interamente in bronzo, munita di 4 valvole, anch’esse in bronzo, e di lancia con ugello a delta, da una miniera romana presso Huelva Valverde, Spagna. Madrid, Museo Nazionale. Non si può escludere che si tratti di un proiettore per fuoco greco. A sinistra involucro in terracotta di granata a mano incendiaria per fuoco greco. Le cronache attestano l’uso di ordigni simili nell’assedio crociato di Gerusalemme del 1099 o, per esempio, nelle guerre fra Senesi e Orvietani, quando, nel 1229, furono adottati nella difesa di Montefollonico (Siena).

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dimensione guerra il fuoco greco ma anche di infiammarsi istantaneamente tra violenti scoppi e acre fumo nero, se asperso con acqua. E tanto il sodio che la soda caustica, sia pure confusamente per le diverse denominazioni avute all’epoca, sembrano nella disponibilità dei tecnici bizantini, confermando perciò indirettamente anche questa seconda ipotesi. A una miscela tanto complessa e pericolosa non si giunge per un’invenzione fortuita, ma attraverso sperimentazioni forse protrattesi per secoli, per cui la data del 637 può segnare il debutto della sua composizione ottimale. È dunque verosimile che i Bizantini disponessero del piroforo forse già nel IV secolo, come alcuni storici sostengono, epoca a partire dalla quale furono apportate continue migliorie che permisero la realizzazione di tipologie idonee a vari impieghi. L’imperatore Leone VI (886912) infatti, nel suo trattato Tactica, ne menziona tre varianti, evitando con cura di entrare nei dettagli chimici, ma precisandone la destinazione.

Tre varianti per un’arma temibile

La prima, il fuoco greco per antonomasia, era riservata alla guerra navale e negli scontri sul mare la si proiettava dalla prua dei dromoni (navi da corsa e da guerra a remi e vele in uso nell’Alto Medioevo, soprattutto presso i Bizantini, n.d.r.) lanciafiamme tramite lunghi tubi di rame. La seconda, invece, si usava per riempire gli ordigni incendiari, vasi di terracotta o di vetro muniti di una rozza miccia, come antesignane bottiglie Molotov, da scagliarsi con le normali baliste. Armi che rapidamente si diffusero dal Vicino Oriente all’India. La terza, infine, forse piú fluida e che, stando alle sue parole, sembra essere l’esito di una invenzione recentissima, è il sifone a mano o micron sifonon, una sorta di lanciafiamme manesco o portatile. Raffigurato in una miniatura si potrebbe definire d’assalto, utilizzato forse per incendiare le macchine d’assedio o i tavolati difensivi, entrambi di legno. Ma che cos’era esattamente un sifone? Un congegno simile, concettualmente e per funzionamento, alle pistole ad acqua giocattolo! Anna Comnena (1083-1148 circa), figlia dell’imperatore Alessio I Comneno, nella sua Alessiade (opera in cui narra la storia del regno paterno, dal 1081 al 1118, n.d.r.), afferma che i lanci avvenivano attraverso gli strepta e per mezzo di tubi. Il segreto rimane tale, poiché la principessa si limitava a ricordare ciò che tutti vedevano. Aggiungeva ancora, però, che nella battaglia navale combattuta presso Rodi nel 1103, fra Bizantini e Pisani, il terrore prodotto dai lanci scaturiva, piú che dalle fiamme, dal loro non essere ascendenti,

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In alto l’attacco a una torre portato da un uomo che imbraccia un lanciafiamme manesco in uso ossidionale. Illustrazione tratta dal Codex Vaticanus Graecus 1605, IX-XI secolo. Una «camicia» che circondava il cilindro con stantuffo del lanciafiamme manesco conteneva il liquido incendiario, sufficiente probabilmente solo per una mezza dozzina di lanci.

L’arma veniva azionata mediante una robusta maniglia, che ne consentiva la salda impugnatura con la mano destra, mentre la sinistra sorreggeva il tubo di alimentazione della pompa.

ma innaturalmente orizzontali, orientate a discrezione del direttore del tiro, dall’alto in basso e da destra a sinistra. Nonostante la laconicità del testo, sono comunque possibili alcune osservazioni: la combustione a fiamme orizzontali prova che il fuoco si accendeva subito dopo l’espulsione dal sifone e non al suo arrivo sul bersaglio, per cui il contatto con l’acqua doveva avvenire alla sua fuoriuscita dall’ugello dell’arma, forse sempre bagnato per raffreddarlo. Inoltre il brandicembre

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Una protezione cilindrica in rame, traforata, veniva posta intorno alla pompa, che, in fase di lancio, per lo stretto contatto con la fiamma doveva arroventarsi. Quei fori consentivano il piú rapido raffreddamento della pompa, o, almeno, ne impedivano l’eccessivo surriscaldamento. Dinnanzi all’ugello della pompa, si deve immaginare una piccola zolletta di brace, che fungeva da innesco al liquido incendiario, proiettato piú o meno nebulizzato dalla pompa.

che Vitruvio attribuisce a Ctesibio, vissuto nel III secolo a.C., di cui ci sono pervenuti i resti di numerosi esemplari, tutti meccanicamente concordanti essendo costituiti sempre di due cilindri con i relativi stantuffi e valvole. Non manca chi si ostina a tradurre il termine sifonon con «tubo», designazione fin troppo generica per una pompa nota col nome del suo inventore sin dal I secolo a.C. agli uomini di mare e ai coevi vigili del fuoco. La pompa era costituita da un cilindro di bronzo in cui scorreva uno stantuffo, simile a una normale siringa per uso medico o a un irroratore per piante. Le dimensioni deducibili dalla miniatura ne fanno ipotizzare un volume di circa 250-400 cc, Il liquido incendiario dando perciò alla camicia contenuto nella camicia serbatoio una capacità veniva aspirato dalla di circa 2,5-3 litri. pompa tramite un robusto tubo arcuato, che fungeva anche da impugnatura per la mano sinistra, munito al suo innesto con la pompa di una piccola valvola di non ritorno.

deggio e l’alzo del sifone sembrano testimoniare la presenza di un giunto universale e quindi di una manichetta flessibile tra il serbatoio del liquido e il sifone stesso. Non a caso, appunto, col termine «flessibile» viene abitualmente tradotto l’enigmatico vocabolo greco strepta, una manichetta di pelle o di tela rinforzata, munita anteriormente di una lancia di rame. Quanto alla pressione necessaria per i lanci del piroforo, l’unica risposta soddisfacente è data dall’impiego di una pompa del tipo di quelle già adottate a Roma per spegnere gli incendi. Congegno

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Questioni di lessico

Il senso, che sembra indiscutibile per il greco e per il latino decadenti, non lo è per il latino raffinato e il greco classico, per i quali la voce verbale sifonizo sta per «aspiro come un sifone», azione traente che solo il tubo di una pompa può esercitare. In latino, per contro, il tubo si chiamava fistula, essendo il sifone sempre la pompa alternativa a doppio stantuffo che Erone e Plinio il Giovane ravvisano in quella antincendio. E appunto a essa aderisce per criterio informatore, ma se ne discosta per connotazioni materiali, un singolare reperto rinvenuto in una miniera romana presso Hueva Valverde (Spagna), interamente in bronzo e di pregevolissima fattura, tanto accurata da non potersi assolutamente equiparare alle suddette, se non altro per il suo intuibile altissimo costo. Grazie alla perfetta compressione, l’arnese era in grado di proiettare un liquido a una ventina di metri di distanza, una gittata coincidente col raggio offensivo dei dromoni. Che quel singolare reperto potesse essere un proiettore per fuoco greco potrebbe sembrare una forzatura, ma la constatazione che i Bizantini ebbero sovranità su quella parte della Penisola iberica proprio dal VI al VII secolo rendono l’ipotesi meno peregrina. La breve parentesi, conclusasi con una rapida evacuazione, parrebbe suggerire che, dopo l’esaurimento del liquido, l’arma, ormai inutile, finí nascosta in una miniera, in attesa di un successivo recupero, dopo la riconquista. Una speranza rimasta tale. F

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Echi di Spagna per il trono di Pietro di Franco Bruni

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Complotti e intrighi, sfarzo e dissolutezza: è l’immagine che da sempre accompagna i Borgia, complice una vasta letteratura nera tramandatasi nei secoli. Ma Alessandro VI e la famigerata Lucrezia furono anche instancabili promotori delle arti, e della musica in particolare

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ttraversando le sale affrescate degli appartamenti Borgia al Vaticano, l’invadente ricchezza pittorica e la varietà dei cicli tematici eseguiti tra il 1492 e il 1494 su commissione di papa Alessandro VI dal Pinturicchio (al secolo Bernardino di Betto), creano quasi un effetto di straniamento. Con uno stile calato nel gusto tardo-gotico per la decorazione, la ricerca del dettaglio, ma anche aperto alle novità dell’Umanesimo, e con i riferimenti «classici» che percorrono un po’ tutta la sua produzione pittorica, Pinturicchio, con «immaginazione filologicamente orientata», incarna perfettamente il gusto di Alessandro VI. Un papa che, sebbene non avesse discendenze altrettanto nobili, potè contare sull’appoggio dello zio Alfonso Borgia, già papa qualche decennio prima sotto il nome di Callisto III, per una rapida e brillante carriera ecclesiastica.

La «musica» delle origini

Tornando agli affreschi del Pinturicchio, colpisce in particolar modo la sala dedicata alle arti liberali, su una delle cui pareti appare la Musica, accompagnata da alcuni strumenti resi con straordinario realismo. In una posa che ricorda inevitabilmente una Madonna, la Musica è raffigurata in trono mentre si accompagna con una viola, l’antica vihuela spagnola, adottata in Italia nel corso del XV secolo. L’accompagnano un suonatore d’arpa e, in basso a sinistra, un altro (segue a p. 98)

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Allegoria della Musica, particolare di una lunetta affrescata nella Sala delle Arti Liberali dell’Appartamento Borgia al Vaticano. Le stanze, antica residenza privata della famiglia, oggi parte dei Musei Vaticani, furono decorate dal Pinturicchio (al secolo Bernardino di Betto; 1454 circa-1513) con Pier Matteo d’Amelia, Antonio da Viterbo e Tiberio d’Assisi, tra il 1492, anno di elezione al soglio pontificio di Alessandro VI (al secolo Rodrigo Borgia), e il 1494.

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costume e società i borgia e la musica Luci e ombre della casata di valencia La fortuna dei Borgia, famiglia della piccola nobiltà spagnola, originaria di Játiva presso Valencia, trapiantatasi in Italia verso la metà del XV secolo, ebbe inizio con l’elezione a papa (1455) di Alfonso vescovo di Valencia, che prese il nome di Callisto III. Al seguito del pontefice vennero a Roma parecchi congiunti, fra i quali due nipoti, figli di una sorella, presto elevati agli onori cardinalizi. Il piú famoso di questi, Rodrigo, divenne papa con il nome di Alessandro VI (1492). Sotto il suo pontificato, i Borgia ebbero la loro maggior potenza e fulgore. Numerosi furono i congiunti nominati cardinali, con cospicui benefici, ma ovviamente maggiori onori e ricchezze spettarono agli stessi figli del papa. Da ignota Alessandro VI ebbe Pedro Luis, abile guerriero, creato dal re di Aragona duca di Gandía. Da Vannozza Catanei ebbe

Città del Vaticano, Musei Vaticani, Appartamento Borgia. Ritratto di Alessandro VI (a sinistra), particolare dalla Resurrezione, affrescata nella Sala dei Misteri. 1492-1494. Lo stemma della famiglia spagnola (nella pagina accanto, in basso), particolare del soffitto della Sala delle Arti Liberali. 1492-1494.

Alfonso Callisto III (1455-1458)

Pedro Luis Duca di Spoleto Prefetto di Roma († 1458)

Pedro Luis Duca di Gandía († 1488)

Giovanni II Duca di Gandía e Benevento († 1497) Giovanni III Duca di Gandía

▲ San Francesco Borgia = Eleonora Generale dell’Ordine de Castro dei Gesuiti (1510-1572) Carlo V Duca di Gandia e Viceré del Portogallo († 1592) Francesco II († 1595) Carlo Viceré di Sardegna († 1635)

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quattro figli. Il primo, Giovanni, alla morte del fratello Pedro Luis, ne sposò la vedova e gli succedette nel titolo. Dal padre ottenne l’ufficio di legato del Patrimonio e il titolo di capitano generale nella guerra contro gli Orsini. Ma Giovanni, inetto alle armi, fu battuto dagli Orsini a Soriano nel 1497. Nominato, malgrado ciò, duca di Benevento e signore di Terracina e di Pontecorvo, la notte del 14 giugno 1497, secondo una versione popolare non provata, fu pugnalato, per gelosia, dal fratello Cesare. Usati quali strumenti per alleanze a fini politici furono Lucrezia e Jofré, che sposò Sancia d’Aragona, figlia illegittima di Alfonso II d’Aragona; creato principe di Squillace e conte di Cariati, morí in una località non meglio precisata del Regno di Napoli. Con la morte di Alessandro VI e di Cesare ha termine il periodo piú fulgido della famiglia, che si estinse nel 1748. Domingo Borgia

Catalina = Juan del Milá

Isabella = Jofré

Luis Juan del Milá Cardinale dell’abbazia di Lerida († 1507) Rodrigo Borgia Alessandro VI (1492-1503)

Cesare Borgia = Carlotta d’Albret Duca del Valentinois (1475-1507)

Rodrigo Cardinale

Enrico Cardinale

Fernando

Isabella

Inigo

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Juana = Pedro Guillen Lanzol de Romani

Jofré Lucrezia Borgia (1) = (2) Giovanni Sforza di Pesaro (1481-1516) (1480-1519) (2) = Alfonso d’Aragona duca di Principe di Squillace Bisceglie ▲ Conte di Cariati († 1501) (3) = Alfonso I Duca di Ferrara

Gaspare Cardinale († 1645)

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strumento, simile a una viola, in cui l’impugnatura simile alla chitarra ci rimanda alla vihuela da mano, strumento anch’esso di tradizione spagnola, a metà strada tra la chitarra e la viola. Balza agli occhi evidente la decisa influenza spagnoleggiante nell’organico musicale rappresentato da Pinturicchio; una scelta che lascerebbe intuire un coinvolgimento nel programma iconografico dello stesso Alessandro VI, di origini valenciane, le stesse della vihuela da mano, la cui esportazione in

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Italia fu sicuramente favorita dalla presenza dei due papi spagnoli nel corso del XV secolo.

Il coro del pontefice

Il rapporto con Valencia e la tradizione musicale a essa legata dovettero lasciare un’impronta su Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, il quale, prima di essere eletto papa, fu nominato vescovo della città catalana. Proprio qui, portò al suo seguito due pittori italiani ai quali commissionò uno dei primi splen-

didi cicli rinascimentali con angeli musicanti (vedi box alle pp. 100-101). Si può dunque parlare di un certo «campanilismo» culturale durante la stagione dei Borgia, che vide la Spagna come fonte d’ingaggio di strumentisti, ma anche di cantori e di personaggi di un certo calibro, come per esempio il poeta e compositore Juan del Encina, la cui permanenza è attestata durante il papato di Alessandro VI. Già ai tempi di Callisto III, papa dal 1455 al 1458, il pontefice potedicembre

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Disputa di Santa Caterina con i filosofi davanti all’imperatore Massimino, particolare di una lunetta affrescata nella Sala dei Santi. 1492-1494. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Appartamento Borgia. Il volto della Santa è considerato un probabile ritratto di Lucrezia Borgia, figlia di Alessandro VI, mentre nell’imperatore Massimino in trono si nasconderebbero le fattezze del fratello Cesare.

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va vantare la presenza di una cappella musicale formata da cantori professionisti dediti alle esecuzioni polifoniche durante le liturgie da lui presiedute. Nel corso del XIV secolo la cappella musicale papale – evoluzione naturale della schola cantorum dedita al canto gregoriano –, durante la cattività avignonese e, in particolare, sotto i papi Benedetto XII e Gregorio XI, assunse gradualmente i contorni di un organismo musicale organizzato, divenendo un modello per le grandi cappelle di corte d’Europa. Con il XV secolo vari papi diedero una svolta allo sviluppo della cappella papale, a partire da Niccolò V che, con la riorganizzazione del coro nel 1447, fece pervenire cantori dal Nord – in genere dai Paesi franco-fiamminghi, nei quali si era sviluppata una fiorente scuola polifonica –, senza tralasciare la costruzione di un nuovo organo, e ordinando la copia di nuove musiche da eseguirsi durante la liturgia. In questa prima fase il coro papale passa dalle 10 alle 15 unità, mentre nella basilica il coro arriva alle 12 unità. Con Sisto IV della Rovere si venne invece istituendo un Collegio dei cappellani cantori, riservato al papa e, piú tardi, nel 1480, la cappella Giulia, con un ensemble vocale dedito alla liturgia della basilica di S. Pietro, cappella che ricevette la sua definitiva fisionomia sotto il papato di Giulio II della Rovere, nel 1512. Inoltre Sisto IV, nel 1480, decise di accordare i privilegi papali, normalmente riservati ai soli cantori papali, anche a quelli della basilica. Durante la reggenza di Callisto III, la cappella papale continuò ad avvalersi di cantori nordici, a cui furono aggiunti anche i primi spagnoli, come d’altronde è attestata la presenza di cantori esterni inviati dalla corte aragonese di Napoli. Sono noti i legami tra il pontefice e la dinastia reale aragonese; prima di divenire papa, Callisto III aveva infatti svolto una intensa attività presso la cancelleria di Alfonso V d’Aragona, che lo portò con sé in Italia alla conquista di Napoli, dove

gli fece ottenere, nel 1444, il titolo di cardinale dei SS. Quattro Coronati a Roma. Tuttavia la musica non fu al centro degli interessi di Callisto III, tutto preso dall’idea, in realtà mai realizzata, di organizzare una crociata anti-turca. Ciononostante, si preoccupò di aumentare di due unità il coro papale a discapito del coro della basilica di S. Pietro che dalle 6 unità andò scendendo, nel 1456, a 3/4 presenze.

Rodrigo, il mecenate

Mentre ricordiamo la figura di Callisto III per le sue doti politicodiplomatiche piú che per il suo mecenatismo artistico – nonostante avesse frequentato due umanisti del calibro di Lorenzo Valla ed Enea Silvio Piccolomini –, suo nipote Rodrigo, eletto papa nel 1492, lasciò un segno profondo del suo operato, facendo della corte papale un centro significativo di committenza artistica. Nonostante le nefandezze di cui fu accusato e che, grazie ad alcuni racconti piccanti che ricorrono nel Liber notarum del cerimoniere Giovanni Burcardo (1450 circa-1506), hanno stimolato fortemente la nascita di una tradizione letteraria «nera» sulla figura dei Borgia, Alessandro VI fu un grande promotore delle arti e delle scienze. Se lasciamo da parte la sua politica nepotistica e lo spudorato amore per le donne – comportamenti piuttosto diffusi sia fra i suoi predecessori che tra i suoi successori – tra i meriti che gli vanno riconosciuti vi fu la capacità di reimporre l’autorità papale a discapito delle potenti baronie locali, anche attraverso la riorganizzazione e il riassestamento delle precarie finanze dello Stato pontificio. Senza dimenticare il suo coinvolgimento diretto nella realizzazione di importanti interventi urbanistici: la torre Borgia, commissionata ad Antonio da Sangallo il Vecchio, la creazione della via Alessandrina e il riassetto di Castel S. Angelo con la costruzione del famoso «passetto», che lo collegava ai palazzi vaticani, solo per limitarci alla città di Roma.

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costume e società i borgia e la musica Dal punto di vista artistico a lui si devono la committenza di due capolavori del Rinascimento romano come la Pietà di Michelangelo e il Tempietto del Bramante nel chiostro di S. Pietro in Montorio. Né va dimenticato l’impulso dato allo sviluppo dello Studium Urbis, l’università romana fondata nel 1303 sotto Bonifacio VIII. Tornando alla musica, è interessante notare il ruolo di Alessandro VI nel dare una certa impronta «ispanico-catalana» alla cappella papale. In realtà, gli esordi del suo mandato pontificio non furono dei migliori per la musica in S. Pietro; nel 1495, infatti, a causa del turbolento clima causato dalla discesa di Carlo VIII di Francia, volto a conquistare la corona di Napoli in mano agli Aragonesi, i servizi liturgici furono drasticamente ridotti a S. Pietro e il coro ridotto a tre cantori. Il papa si assentò da Roma e soggiornò a Orvieto e poi a Perugia; ma il suo ritorno, il 27 giugno del 1495, fu celebrato in grande pompa e con interventi musicali in cui i cantori papali vennero «rinforzati» dai col-

Valencia

chitarra

salterio a 10 corde

tamburello a sonagli

Gli angeli musicanti La leggenda nera che ha avvolto i membri di casa Borgia ha a lungo offuscato l’obiettività di giudizio sul loro effettivo operato. Ad Alessandro VI, per esempio, si deve un grande impulso dato alle scienze, all’urbanistica e alle arti in genere. Alla sua figura è legato, tra l’altro, un episodio di committenza artistica, che ancora una volta ci rimanda alla musica. Durante il papato di Sisto IV, l’allora cardinale Rodrigo Borgia, recatosi nel 1472 a Valencia come legato apostolico – Rodrigo era vescovo della città –, portò al suo seguito due pittori italiani, Paolo di San Leocadio e Francesco Pagano. A questi il cardinale Borgia e il capitolo della Cattedrale commissionarono un affresco per la decorazione della cappella principale (vedi foto a destra). Il risultato fu uno straordinario ciclo di 12 angeli musicanti, oltre ad altri affreschi perduti, eseguiti con grande realismo e dovizia di particolari anche nella descrizione degli strumenti musicali (vihuela, viola da gamba, liuto, salterio, organo, ciaramella, bicalamo, trombe e percussione). Passati di moda, nel corso del XVII secolo se ne decise la ricopertura con una volta barocca che assecondasse le nuove tendenze artistiche. Il «suono» di questi splendidi angeli musicanti avrebbe taciuto per sempre, se non fosse stato per il ritrovamento fortuito degli stessi durante un’opera di restauro, durata dal 2004 al 2006, che ha riscoperto e portato all’originario splendore questo ciclo pittorico, considerato tra i primi piú significativi esempi di pittura rinascimentale della Spagna.

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vihuela

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arpa

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ciaramella

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costume e società i borgia e la musica leghi della cappella musicale della vicina Chiesa del Santo Spirito. Un significativo mutamento, durante il papato di Alessandro VI, fu l’ampliamento della presenza spagnola nell’entourage della «famiglia» pontificia, composta dai collaboratori piú stretti del papa, ma anche tra i cantori, le cui nazionalità erano suddivise tra quella italiana, franco-fiamminga e spagnola. La presenza di cantori «nordici», preponderante nei decenni precedenti, si arricchí tra il 1489 e il 1492 (anno di elezione di Alessandro VI), di uno dei piú significativi polifonisti della scuola fiamminga, Josquin Desprez, che, qualche anno piú tardi, dedicò lo struggente mottetto Absalon fili mi a Giovanni Borgia II, duca di Gandía, figlio di Alessandro VI, barbaramente ucciso nel 1497, forse per mano del fratello Cesare. Tra i cantori spagnoli vi erano Johannes Hillanis, Alfonsus de Troya, Valentinus de Peynetis, Diecho, Francisco Scarafanfara, Thomas de Licio, Theodericus, Rodorico e Assalon; senza dimenticare la presenza a corte di Marturià Prats e i maestri di cappella Pere Garcia e Bartomeu Martí, tutti di origine catalana. L’impronta spagnola data da Alessandro VI si fece sentire a lungo se, ancora nei decenni successivi, sotto Giulio II e Leone X, il numero di spagnoli salí a nove unità.

«Lamenti iberici»

La presenza di cantori ispanici non fu comunque il solo elemento a caratterizzare il nuovo assetto del coro papale. Leggendo alcuni passi del già citato Liber notarum di Burcardo, incuriosisce il frequente riferimento del cerimoniere all’impiego di uno stile spagnolo («more hispanico»), che prese gradualmente piede nelle esecuzioni liturgiche e, in particolar modo, in quelle della Settimana Santa. Si legge, per esempio, che le lamentazioni di Geremia Profeta erano affidate a quattro cantori spagnoli, i quali, probabilmente, eseguivano musiche in falsobordone, una tecnica che prevedeva l’esecuzione di un contrappunto

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ad andamento accordale, piuttosto semplificato rispetto al tradizionale linguaggio polifonico. Nuove prassi andarono diffondendosi anche nell’esecuzione della Passione, in cui ai passaggi nella monodia gregoriana, si alternava l’uso spagnolo di mettere in polifonia la vox populi, ma anche di altri personaggi, per enfatizzare drammaticamente i momenti piú pregnanti. Ancor piú interessante è notare che con Alessandro VI, oltre alla scelta di particolari prassi esecutive, durante la Settimana Santa fu adottato uno stile interpretativo tipicamente ispanico, caratterizzato dal tono quasi lamentoso («lamentabiliter»), stando a quanto ci descrivono i cerimonieri di corte anche nei decenni successivi. Come scrive il teorico musicale Pietro Aaron nel suo Lucidario (Venezia, 1454) sullo stile vocale dei vari popoli, tocca alli Hispagnuoli il piagnere, individuando

quella che doveva essere una naturale inclinazione interpretativa, rispetto all’urlare germanico e al giubilare degli Inglesi; commento ribadito peraltro dal teorico Franchino Gaffurio, che nel suo Theorica Musicae (Milano, 1492) parla di Hispani ploratus promunt. Germani ululatus. Al di là dei luoghi comu-

un racconto in musica

Splendori alla corte dei Borgia

Alla musica al tempo dei Borgia è dedicata una delle recenti imprese discografiche del catalano Jordi Savall, grande esperto della tradizione musicale antica spagnola. L’opera, Dinastia Borgia. Chiesa e potere nel Rinascimento, ripercorre generi e stili in auge dal XIV al XVI secolo, soffermandosi su un panorama musicale di tradizione europea, e in particolare d’area franco-fiamminga, italiana e ispanica, che fece da sfondo alle vicende dei componenti della famiglia. Encomiabile è la vastità delle scelte musicali, benché si noti qualche «assenza» importante, come, per esempio, le frottole del Tromboncino che tanto allietarono la vita ferrarese di Lucrezia Borgia. L’antologia propone comunque autentici capolavori accanto a opere meno note, come il mottetto Ecce Regis/Hic est sacerdos, composto per Alessandro VI o il Credo di Francesco Borgia, passando dalle superbe polifonie che risuonarono nelle grandi cattedrali europee, ai piú popolari saltarelli strumentali. Il tutto intercalato da letture di brani d’epoca che commentano la storia dei Borgia lungo un percorso cronologico che ha inizio a Játiva, dove la famiglia ebbe origine, e si conclude a Roma, con la morte di Francesco Borgia, nel 1572. Egregi gli interpreti vocali e strumentali degli ensemble La Cappella reial de Catalunya e dell’Hespèrion XXI, che Savall dirige magnificamente, muovendosi con maestria tra repertori contigui geograficamente, ma spesso stilisticamente lontani, come la tradizione araboandalusa della Spagna del XIV secolo. Convincente anche la regia musicale che soggiace all’organizzazione degli oltre 220 minuti di musica, capace, a ogni ascolto, di ammaliare attraverso le superbe sonorità. Dinastia Borgia. Chiesa e potere nel Rinascimento, Alias Vox, AVSA 9875 A/C, 3 CD + 1 DVD. dicembre

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ni che i teorici del tempo hanno in qualche modo tramandato nei loro scritti, resta il fatto che uno stile e una prassi esecutiva spagnoli, in riferimento alla liturgia della Settimana Santa, non avrebbero avuto quello sviluppo senza la presenza di Alessandro VI. Una corte degna del suo nome non sarebbe tale se non prevedesse anche un aspetto musicale spassionatamente profano. Pur trattandosi della corte papale, non mancano in questo senso testimonianze su interventi musicali che accompagnarono alcuni momenti puramente ludici durante il papato di Alessandro VI. Molteplici erano le occasioni festive che caratterizzavano la vita cittadina, come frequente, nelle cronache dell’epoca, è la descrizione di fanfare di trombettieri, prediletti per le esecuzioni all’aperto. L’uso degli strumenti era piuttosto diffuso anche nella Spagna

del XV secolo. Non solo nell’ambito «civile», ma anche durante i servizi liturgici – prerogativa tutta spagnola – in accompagnamento alle voci. Molta documentazione proveniente dagli archivi delle maggiori cattedrali spagnole fa riferimento all’impiego di ministril, suonatori di strumenti a fiato, ma anche strumenti d’arco in accompagnamento alla liturgia. Questi, invece, intervenivano nel resto d’Europa, e per lo meno a Roma, in ambito privato e/o cittadino come per esempio ci descrive Burcardo il 30 dicembre del 1501, quando, alla fine della corsa dei cavalli da Campo de’ Fiori a S. Pietro, «trombettieri e molti altri musicanti, radunati sulla scalinata di S. Pietro hanno cominciato a suonare con foga i loro strumenti»; oppure la descrizione di un altro evento, datato 1° gennaio 1502, quando «dopo pranzo, in piazza San Pietro si è tenuta quella festa romana che

di solito si fa nell’Agone (piazza Navona, n.d.r.)… sono stati portati i 12 carri dei rioni che evocano storie dell’antica Roma. Di notte, nella Camera del Papa sono state rappresentate commedie e sono stati fatti balli moreschi e altre danze». Ecco un altro riferimento alla Spagna, con la «moresca», una danza che, ai suoi esordi, doveva rievocare le battaglie tra i mori (Arabi) e i cristiani e che, nel corso del XVI secolo, si andò trasformando in un genere vocale popolaresco. Un altro personaggio illustre della famiglia Borgia che con la musica ebbe un rapporto privilegiato fu Lucrezia, figlia di Alessandro VI, avuta dalla relazione con Vannozza Catanei, dalla quale ebbe anche il prediletto Cesare, duca del Valentinois e di Romagna, Juan, secondo duca di Gandía e Jofré Borgia, principe di Squillace. Mentre ai figli maschi era riservata una vita d’azione, volta ad affermare il potere dei Borgia, che nelle mire di Alessandro VI avrebbe dovuto esplicarsi nella costituzione di uno Stato nello Stato, a Lucrezia toccò, suo malgrado, assecondare la mirata strategia diplomatico-matrimoniale del padre-cardinale-papa, trovandosi a essere oggetto di scambio ogniqualvolta le mutate esigenze politiche lo ritenevano opportuno.

La «vicariessa» del papa

Due pagine del Cancionero de Gandía, manoscritto musicale della metà del XVI sec. Barcellona, Biblioteca de Catalunya.

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La ritroviamo fidanzata a 12 anni a un nobilotto spagnolo, per poi, andare sposa a Giovanni Sforza, signore di Pesaro e, cosa di non poco conto, parente del potente Ludovico il Moro. Matrimonio di breve durata, sciolto dal papa nel momento in cui la ripresa delle relazioni con gli Aragonesi di Napoli – avversi agli Sforza – lo indussero a trattare un nuovo matrimonio con il figlio del re di Napoli, Alfonso d’Aragona. Quest’ultimo, assassinato probabilmente per mano del fratello di Lucrezia, Cesare, spinse infine Alessandro VI a darla in sposa, nel 1501, a un altro Alfonso, figlio del duca Ercole d’Este e futuro duca di Ferrara. Un ducato piccolo, ma

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costume e società i borgia e la musica strategicamente posizionato nella Romagna in cui Cesare, per conto del padre, si prestava a intense campagne alla conquista di territori da annettere alla Chiesa. Lucrezia, tuttavia, non fu solo una pedina strategica alla mercé della politica paterna, ma fu anche una donna di grande personalità e cultura, con capacità degne di un capo di Stato, tanto da trovarsi in piú occasioni, tra un matrimonio e l’altro, a far le veci del padre-papa come «vicariessa» durante le sue assenze dal Vaticano. Una circostanza che la dice lunga sullo spessore di questo personaggio, il quale, a dispetto di una intensa «carriera» matrimoniale coatta, ebbe piú di un’occasione per poter esprimere le sue doti; il che avvenne soprattutto a Ferrara, sede di uno degli ambienti di corte artisticamente piú ricchi d’Italia, frequentato da grandi letterati come l’Ariosto, Pietro Bembo (che fu anche suo amante), Ercole Strozzi, nonché da una schiera di musicisti di prim’ordine. Già prima del duca Ercole d’Este, i suoi predecessori Borso e Leonello d’Este avevano avuto modo di creare una cappella musicale di corte tra le piú attive e ambite, frequentata da artisti di fama internazionale.

Trombe e soni per Lucrezia

Con il matrimonio di Lucrezia e Alfonso d’Este, nel 1502, una settimana di festeggiamenti allietò la corte ferrarese con intrattenimenti teatrali, feste, danze. Come ci racconta Bernardino Zambotti nel suo Diario ferrarese, l’accoglienza a Ferrara alla neosposa, il 1° marzo del 1502, diede luogo a parate a son de trombe e pifare, tamburini e diversi instrumenti, seguite il giorno dopo da altre processioni alla presenza di piú de cento trombetti e pifari, fin tanto che la coppia di sposi arrivò al palazzo accompagnata da trombe e soni. Insomma un benvenuto sfarzoso per Lucrezia, d’altronde già abituata alla pompa magna che attorniava la vita del padre-papa. Gli interventi musicali, occasionalmente previsti nelle rappresen-

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tazioni teatrali che si tenevano alla corte di Ercole alla fine del XV secolo, divennero una presenza costante – molti sono i riferimenti nelle descrizioni delle cronache d’epoca – negli spettacoli che accompagnarono i festeggiamenti del 1502 in onore di Lucrezia e Alfonso d’Este. Interludi musicali che prevedevano spesso l’esecuzione di moresche, e canti della tradizione frottolistica che a Mantova e a Ferrara trovò, proprio grazie a due donne – Isabella d’Este, trapiantata a Mantova dove aveva sposato Francesco II Gonzaga, e Lucrezia – le due grandi patrone, nonché rivali nel contendersi i migliori musicisti dell’epoca. Rinomata era la passione di Lucrezia per la danza e per la musica in genere, le cui esecuzioni erano affidate a liutisti, cantori, suonatori di cornetto e ogni altro genere di strumenti per allietare le numerose feste che si tenevano a corte, dove la presenza di musicisti del calibro di Bartolomeo Tromboncino e Michele Pesenti, ne assicurava l’alto livello In basso Civita Castellana (Viterbo). Un bastione del Forte Sangallo, commissionato da papa Alessandro VI ad Antonio da Sangallo il Vecchio, nel 1499. Nella pagina accanto Concerto, olio su tela di Lorenzo Costa (1460-1535). 1485-1495. Londra, National Gallery.

esecutivo. In particolare Tromboncino, il piú grande esponente della frottola – un genere popolare ampiamente diffusosi in Italia a cavallo tra XV e XVI secolo –, fu il piú pagato tra i salariati personali di Lucrezia; autore, tra l’altro, di frottole in lingua spagnola, che testimoniano l’evidente desiderio di omaggiare la cultura nativa di Lucrezia. Quest’ultima poteva dunque contare sulla presenza dei summenzionati frottolisti, cantori, suonatori d’arco e di un insegnante di danza: un ensemble piú che sufficiente per dar vita a banchetti in cui la presenza della musica giocava un ruolo di prestigio. La contemporanea presenza di un ensemble di fiati a servizio del duca Alfonso, suo marito, permetteva inoltre a Isabella, in caso di necessità, di avvalersi anche dei musicisti del proprio consorte. Considerando, infine, l’esistenza di una cappella musicale di corte, impegnata nel servizio liturgico, e che vantava, tra gli altri, polifonisti autorevoli come Dufay, Desprèz, Martini, il ducato di Ferrara divenne, grazie anche a Lucrezia, un polo di produzione musicale profana di prim’ordine, teatro di una intensa attività compositiva in campo frottolistico, che ebbe paralleli solo a Mantova.

Un Santo in famiglia

La parabola della famiglia Borgia non potrebbe ritenersi conclusa senza parlare dell’ultimo grande esponente della famiglia, Francesco Borgia, bisnipote di Alessandro VI, figlio di Giovanni III duca di Gandía; un personaggio che la forte vocazione religiosa portò presto ad abbracciare i voti, e che divenne Terzo Generale dell’Ordine gesuitico. E come se non bastasse, la sua santificazione, avvenuta nel XVII secolo, fu quasi un riscatto nei confronti della cattiva fama che dovette circolare sulla famiglia Borgia. Recenti studi hanno fatto emergere un lato inedito di Francesco riguardo alle sue competenze musicali. Le nobili origini, una formazione intellettuale a tutto tondo, nonché la dicembre

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frequentazione sin da giovanissimo delle corti di Giovanna di Castiglia e successivamente di Isabella di Portogallo, moglie dell’imperatore Carlo V, permisero a Francesco di esprimere a corte il suo talento musicale, sia come interprete al clavicordo, sia come compositore. Durante la reggenza del ducato di Gandía, avvalendosi della collaborazione del frate Melchor Marco, suo domestico e musicista, provvide ad ampliare i servizi

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musicali della cattedrale e il superstite Cancionero de Gandía ne è significativa testimonianza. A Francesco si deve anche una attività compositiva in cui l’intensa devozionalità si esprime attraverso uno stile scarno, semplice, ad andamento armonicoaccordale, secondo i dettami che i padri tridentini avevano imposto in tema di musica. Con la morte di Francesco Borgia, nel 1572, può dirsi definitiva-

mente conclusa la saga di una famiglia che, seppur con atteggiamenti spesso poco ortodossi, aveva raggiunto un enorme potere politicoistituzionale. Un’influenza, quella dei Borgia, in campo artistico e musicale, che neanche l’ingombrante presenza di amanti ufficiali e ufficiosi, mariti assassinati e/o traditi, e festini lascivi descritti da una abbondante letteratura «nera», è riuscita a mettere in ombra. F

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caleido scopio A sinistra Saluzzo (Cuneo). Veduta di Casa Cavassa, l’edificio rinascimentale che è sede del Museo Civico e custodisce la collezione riunita da Emanuele Tapparelli d’Azeglio. In basso la porta cinquecentesca in legno intagliato che dà accesso alla Sala XI di Casa Cavassa.

Piemonte nobile e cortese cartoline • Esempio

mirabile di architettura rinascimentale, Casa Cavassa, a Saluzzo, fu trasformata in museo sul finire dell’Ottocento. Le sue quindici sale propongono capolavori della pittura del Quattrocento, manoscritti e preziose testimonianze storiche Dove e quando

Museo Civico Casa Cavassa Saluzzo, Via San Giovanni, 5 Orario fino a marzo 2013: ma-me, 10,00-13,00 e 15,00-17,00, gio-do, 10,00-13,00 e 14,00-17,00; chiuso dal 7 al 28 gennaio Info tel. 0175 41455; e-mail: cavassa@comune.saluzzo.cn.it; www.casacavassa.it

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asa Cavassa, sede del Museo Civico di Saluzzo (Cuneo) dalla fine dell’Ottocento, è un esempio di casa-museo tra i piú interessanti del Piemonte e d’Italia. Le sue sale ospitano la collezione, donata dal marchese Emanuele Tapparelli d’Azeglio, nipote dello scrittore Massimo. Questi, nel periodo in cui ricoprí la carica di ministro plenipotenziario a Londra, tra il 1850 e il 1876, acquistò «oggetti d’occasione» all’incanto «per un nulla», fino a divenire uno dei maggiori collezionisti d’Inghilterra. Il suo intervento in Casa Cavassa accentua il coinvolgimento emotivo del visitatore, come era caratteristico nelle case-museo del XIX secolo, che tendevano a ricostruire la vita del tempo passato.

Il cinquecentesco portale d’ingresso di Casa Cavassa. Tra le decorazioni campeggiano lo stemma di Francesco Cavassa, e il motto del casato «DROIT QUOI QUIL SOIT», traducibile con l’espressione «Giustizia in qualunque modo». Le ante, composte da trentasei pannelli in legno di noce, sono state realizzate tra il 1515 e il 1528.

Gioiello del Rinascimento

committenza desiderosa di apparire aggiornata sui nuovi modelli figurativi allora all’avanguardia. A cavallo tra Quattro e Cinquecento, quindi, la facciata del palazzo viene dipinta a chiaroscuro con bugne a punta di diamante, il porticato interno viene ingentilito con eleganti archi a pieno centro e le sale ornate da soffitti a cassettoni su travi finemente modellate, rette da mensole lignee intagliate e intervallate da fregi dipinti con motivi classicheggianti. Alla configurazione della primitiva costruzione in stile gotico appartengono invece l’articolazione degli ambienti in tre livelli, disposti su di un impianto a «L» e la distribuzione orizzontale delle sale nei due piani di rappresentanza, raccordati verticalmente da una scala a chiocciola, collocata nel loggiato, in posizione baricentrica rispetto ai due corpi. L’accesso avviene per un cinquecentesco portale dal taglio rettangolare, impreziosito con fastigi a volute e tarsie marmoree, ricche di inserti policromi raffiguranti tripodi, candelabra, mostri svolazzanti, uccelli e corone di perle. Tra le decorazioni campeggiano lo stemma di Francesco Cavassa, che, serrato

Situata nell’antico borgo di San Martino, compreso nel perimetro murato cittadino e sin dai primi del Duecento segnalato nei documenti come «borgo nuovo superiore», la residenza signorile, nonostante i pesanti ed estesi rimaneggiamenti dovuti al restauro interpretativo ottocentesco, è giunta sino a noi quasi intatta, anche nell’architettura dell’interno, ed è uno dei pochi edifici nobiliari saluzzesi del Rinascimento. Chi visiti oggi Casa Cavassa si trova dinnanzi il monumento architettonico piú bello della Saluzzo rinascimentale; un palazzo secondo, forse, solamente al castello dei marchesi. L’edificio fu venduto (o ceduto in dono) dal marchese Ludovico I (1406-1475) al nobile Galeazzo Cavassa, alla cui morte era stato ereditato dai figli Paolo, Francesco, Ilario e Giovan Pietro; dal 1505 ne era rimasto unico proprietario Francesco. Le due grandi fasi architettoniche, che coincidono con la ristrutturazione e la decorazione in forme rinascimentali del manufatto, risalgono appunto all’epoca di Galeazzo e del figlio Francesco e consentono di intravedere nei cicli pittorici e scultorei i fasti di una

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fra due volute e sormontato da un’anfora da cui fuoriesce una fiamma, reca scolpito il pesce quagliastro (Lenciscus cavedanus) e il motto del casato «DROIT QUOI QUIL SOIT», traducibile con l’espressione «Giustizia in qualunque modo», inciso in carattere capitale romano al centro di un fregio floreale. Le ante del portone, composte da trentasei pannelli in legno di noce, sono state realizzate tra il 1515 e il 1528. Inserite nell’elenco dei monumenti da tutelare in Piemonte, rimandano alla produzione di intaglio ligneo del XVI secolo, aggiornata sui motivi «a grottesche». Gli elementi formali nel portale marmoreo e nel portone ligneo sono attribuiti a Matteo Sanmicheli, esponente di una famiglia di lapicidi di Porlezza (Lugano), allora in territorio del Ducato di Milano.

Una profusione di stemmi Seguendo il percorso museale che si snoda all’interno dell’edificio, si è attratti dal proliferare di stemmi, emblemi, motti: sono stati disposti con funzione celebrativa prima dalla famiglia Cavassa e poi da Emanuele d’Azeglio, che, in sintonia con i dettami dello stile

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caleido scopio neomedievaleggiante in auge tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, aveva cercato di ricreare l’atmosfera cortese della dimora. Fece dunque affrescare diversi stemmi dei Cavassa là dove probabilmente non ve n’erano, dipingere nella sala detta «di Margherita di Foix» (Sala V) quelli delle famiglie saluzzesi dei tempi della reggente, inserire le armi della famiglia regnante Savoia-Acaia e riprodurre anche il proprio blasone. Affreschi a monocromo, aggiornati su modelli lombardi e raffiguranti alcune Imprese di Ercole, ornano la parete esterna al primo piano: opera di Hans Clemer, risalgono al periodo compreso tra il 1505 e il 1508, anno della partenza del pittore dal marchesato per la Provenza.

Particolare della Madonna della Misericordia di Hans Clemer. 1498-99. L’opera era in origine collocata nella collegiata di Revello (Cuneo), sull’altare dell’Immacolata.

Lo studio di Francesco Dal loggiato del primo piano, destinato fin dalla nascita dell’esposizione a ospitare il lapidario, si accede alle quindici sale, che compongono l’itinerario di visita. La prima di esse è l’unico ambiente voltato del palazzo e, molto probabilmente, era lo studio di Francesco Cavassa. Uno degli affreschi a monocromo di Hans Clemer raffiguranti le imprese di Ercole. 1505-08. Soggetto della scena è la lotta tra l’eroe e Acheloo, che qui ha preso le sembianze di un toro, e contro il quale dovette battersi per Deianira.

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L’ascesa di un mercante di spezie Mercante di spezie e sindaco di Carmagnola negli anni 14371442, Enrico Cavassa, è ritenuto l’artefice della ricchezza e dell’ascesa sociale della famiglia. Il trasferimento della stirpe da Carmagnola a Saluzzo avvenne nel 1450. In quell’anno Galeazzo Cavassa e Glorizia Cavassa, figlia di Enrico, subito dopo il matrimonio – celebrato tra cugini –, si trasferirono a Saluzzo, dove peraltro il fratello di Galeazzo, già possedeva alcuni beni. A decidere sia il matrimonio, che il cambio di residenza della coppia era stato il provvido Enrico Cavassa, con l’intenzione di elevare la posizione sociale della famiglia. Nella capitale del marchesato Galeazzo compí una rapida carriera politica, che lo portò ai vertici del potere marchionale. Divenuto podestà di Saluzzo nel 1461, fu nominato vicario del marchese il 6 luglio 1464, in sostituzione del defunto Andrea Della Chiesa. Negli anni successivi continuò a mantenere tale carica e consolidò il suo patrimonio immobiliare. Morí il 17 dicembre 1483 e fu sepolto, secondo le sue disposizioni testamentarie, in un mausoleo commissionato dal figlio Francesco a Matteo Sanmicheli. Francesco, figlio di Galeazzo e Glorizia, personalità centrale per la costruzione di Casa Cavassa, si laureò nel 1488 in legge civile ed ecclesiastica. Lo stesso anno fu nominato vicario generale del marchesato di Saluzzo, titolo ricoperto in precedenza dal padre. Alla morte di Ludovico II, la vedova Margherita di Foix assunse la reggenza dello Stato a nome del figlio Michele Antonio, che era in età minorile, e assegnò a Francesco un ruolo di rilievo nell’ambito della corte. Con il decesso di Michele Antonio però, Francesco Cavassa, ritenuto responsabile delle disgrazie dello Stato dal nuovo marchese Giovanni Ludovico, fratello di Michele Antonio, fu imprigionato nel carcere di Revello, dove morí avvelenato. Non gli si concesse neppure di venir sepolto nella sala capitolare del convento dei Domenicani, ove era stato lasciato libero uno spazio accanto alla tomba del padre. I suoi beni furono suddivisi tra i figli, nominati eredi universali. dicembre

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Piú avanti, si passa alla sezione dedicata ai marchesi di Saluzzo, che si apre con la già citata Sala V, che forse, un tempo, poteva essere l’ambiente di ricevimento dei Cavassa. Nel progetto tapparelliano doveva costituire un grande vano, con la concentrazione delle principali testimonianze dell’arte quattro-cinquecentesca raccolte nel territorio limitrofo.

Maestria di un artista Ed è qui, infatti, che il coro in noce – proveniente dalla cappella del castello di Revello e datato al terzo quarto del XV secolo – fa da cornice alla Madonna della Misericordia, capolavoro di Hans Clemer. La tavola, eseguita negli anni 1498-1499 e collocata all’inizio dell’Ottocento nella collegiata di Revello, sull’altare dell’Immacolata, fu acquistata nel 1886 dal d’Azeglio per Casa Cavassa. Nella composizione il pittore dispone le figure su un fondo azzurro o oro, dimostrando una profonda conoscenza dell’arte fiamminga, unita alla cura per i dettagli negli arabeschi delle vesti, nel cromatismo intenso e nella meticolosa resa della qualità materica. Dal salone d’onore si giunge a quello che, nel progetto dazegliano, doveva essere il «museo dei ricordi di Saluzzo e della Provincia», cioè lo spazio in cui le vicende della famiglia marchionale e della famiglia d’Azeglio si intersecavano sia con la storia saluzzese, che con la successiva storia italiana. Oltrepassate la Sala VII, che raccoglie oggetti, volumi e manoscritti di Silvio Pellico, l’autore delle Mie prigioni, e la Sala VIII, detta «delle Margherite» in riferimento a un fregio dipinto, si raggiunge la Sala IX. In questo ambiente la Soprintendenza per i beni Artistici e Storici del Piemonte ha collocato strappi d’affreschi provenienti dalla chiesa benedettina di S. Maria del Monastero della Manta, in conseguenza delle allarmanti condizioni in cui versavano in loco. Chiara Parente

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Il valore delle microstorie libri • Un inedito registro del monastero pavese

di S. Pietro in Verzolo è una preziosa miniera di informazioni sull’evoluzione dei sistemi economici e industriali e sull’organizzazione dell’area rurale

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Fabio Romanoni Il libro dei censi del monastero di San Pietro in Verzolo del 1315. Insediamenti, economia e società a Pavia tra città e campagna nella tarda età comunale. Guardamagna Editore, Varzi, 150 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 978-88-95193-74-8 www.edizioniguardamagna.it

l monastero di S. Pietro in Verzolo è situato alla periferia orientale di Pavia, tra la Vernavola, un modesto corso d’acqua che scorre a nord e a est della città, e la statale 234 per Cremona. In età altomedievale quest’area extraurbana, attraversata dall’antica strada romana che conduceva a Piacenza e Cremona, era caratterizzata da una fitta presenza di proprietà del fisco regio. Qui, sulla riva del Ticino, si trovava il porto di Sclavaria, controllato dal monastero di S. Giulia di Brescia e documentato dalla fine del IX secolo, accanto al quale, nel 916, l’imperatore Berengario I concesse alla figlia Berta, badessa del cenobio bresciano, licenza di edificare un castello. E qui fu innalzata, forse in età longobarda e su terreni di pertinenza regia, la chiesa di S. Pietro in Verzolo, vicino alla quale, nell’XI secolo, fu costruito il nucleo Il complesso monastico di S. Pietro in Verzolo, presso Pavia.

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caleido scopio originario dell’insediamento religioso benedettino, probabilmente una dipendenza maschile del monastero pavese di S. Maria Teodote.

Un periodo turbolento Nella quasi totale scomparsa delle pergamene anteriori al XIV secolo dall’archivio del monastero di S. Pietro in Verzolo, il ritrovamento del Libro dei Censi, un registro inedito redatto nel 1315 e conservato nel Fondo Religione dell’Archivio di Stato di Milano, fornisce informazioni piuttosto complete, focalizzate sul suburbio di Pavia e il distretto limitrofo. Compilato in un’epoca di profondi mutamenti economici e politico istituzionali, come furono per l’Italia settentrionale i decenni a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, il manoscritto, inoltre, riveste particolare interesse per la copiosa documentazione contenuta, che raccoglie anche regesti di atti, rogati a partire dal Mille. Una delle mappe inserite nella nuova edizione del Libro dei Censi del monastero di S. Pietro in Verzolo.

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Inserito nella collana «La voce dei Documenti. Historia Restituita», il volume, oltre all’edizione del Libro dei Censi corredata da un glossario dei termini latini, si propone di approfondire il serrato rapporto dialettico intercorso tra la nascita e l’espansione del patrimonio del monastero di S. Pietro in Verzolo, gli impianti industriali che via via venivano creati nell’area circostante, grazie all’applicazione dell’energia idraulica, e gli abitati rurali presenti in tarda età comunale nella Campanea Papiensis, com’era allora denominata la campagna attorno a Pavia. Autore della prefazione è Aldo Angelo Settia, ritenuto tra i massimi esperti europei della storia del popolamento e dell’organizzazione territoriale civile ed ecclesiastica, e i contributi di Fabio Romanoni, grazie ai costanti riferimenti alle dinamiche demografiche e al paesaggio agrario di altre aree dell’attuale territorio provinciale, dove il cenobio era proprietario di vasti possedimenti, conferiscono al testo interesse sovralocale. Chiara Parente

Lo scaffale Paola Supino Martini Scritti «romani» Scrittura, libri e cultura a Roma in età medievale

a cura di Giuliana Ancidei, Emma Condello, Marco Cursi, Maria Edvige Malavolta, Luisa Miglio, Maddalena Signorini, Carlo Tedeschi, Viella, Roma, 324 pp., ill. b/n

36,00 euro ISBN 978-88-8334-916-4 www.viella.it

Lo studio della scrittura e quello degli stili scrittorii, sebbene legati a una disciplina «tecnica» quale è la paleografia, hanno il merito di indagare su uno degli aspetti centrali della cultura: la trasmissione del sapere, ma anche le modalità di organizzazione dei contenuti, siano essi testimonianza di attività amministrative ovvero veicoli di cultura. In realtà, lo studio di una particolare tradizione scrittoria aiuta anche a comprendere la forma mentis attraverso la quale si è andato esprimendo un determinato ambiente culturale. Tra gli studiosi di scrittura e cultura dicembre

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libraria nel Medioevo in area romana, il nome di Paola Supino Martini è un esempio di disciplina ferrea, erudizione e grande capacità di sintesi, in particolar modo per quel che concerne lo studio dello sviluppo della «minuscola romanesca», una derivazione della scrittura carolina, alla quale la studiosa ha dedicato grande attenzione nel corso delle sue ricerche. A dieci anni dalla sua scomparsa, il volume, propone una serie di saggi particolarmente significativi nella produzione scientifica della studiosa, raccolti da alcuni dei suoi ex studenti e colleghi. Organizzati secondo un filone cronologico a partire dal 1974, i saggi ripercorrono le osservazioni e i risultati di un vasto e lungo lavoro sul campo durante il quale Paola Supino Martini ha analizzato innumerevoli fonti d’area romana e/o d’influenza romana, estendendo la sua ricerca anche al materiale epigrafico, e ampliando l’indagine in particolar modo anche alla produzione libraria delle principali abbazie laziali, come Farfa e Subiaco. Lungo un ambito di indagine che va dall’epoca di papa Damaso fino a Martino V, interessanti sono i percorsi di

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lettura proposti, che, accanto a tematiche meramente tecniche, si allargano a grandi visioni di sintesi, fornendo angolazioni sempre nuove e varie sul complesso fenomeno della scrittura. Franco Bruni Giorgio Albertini L’ultima battaglia dei templari Hattin e la caduta di Gerusalemme Newton Compton Editori, Roma, 220 pp., 7 tavv. col. n.t.

9,90 euro ISBN 978-88-541-3637-3 www.newtoncompton.com

Noto ai lettori di «Medioevo» per le sue tavole illustrate, Giorgio Albertini si propone questa volta come autore, forte della sua formazione di storico e archeologo. E sceglie uno degli episodi cruciali della storia medievale e, in particolare, delle vicende che si dipanarono in Terra Santa: la battaglia combattuta il 4 luglio 1187, ai Corni di Hattin (una località

nei pressi del lago di Tiberiade), tra le forze guidate da Guido di Lusignano, re di Gerusalemme, e quelle di Saladino. La vittoria arrise al secondo, che sbaragliò l’avversario e poté quindi conquistare quasi tutto il regno latino, compresa la Città Santa. Albertini rievoca l’evento, una delle pagine nere della storia dell’Occidente cristiano, in forma narrativa, senza però indulgere a ricostruzioni fantasiose o ipotesi mirabolanti. La sua è una cronaca puntuale, ma non pedante, dei fatti che si consumarono in quella torrida estate, alla quale si accompagna l’analisi dei pesanti riflessi politici della battaglia. Una narrazione corredata e resa ancor piú vivida dalle tavole a colori inserite al centro del volume. Stefano Mammini Silvio Longhi La spada da difesa e da duello

Edizioni Polistampa, Firenze, 192 pp., ill. b/n

23,00 euro ISBN 978-88-596-1150-9 www.polistampa.com

L’autore del volume, psichiatra e piscoterapeuta, è noto anche nell’ambito della storia delle armi per la sua ricca collezione di sciabole e altre

straordinaria varietà di forme a cui diedero vita gli armaioli europei. L’ampia bibliografia permette inoltre molti possibili approfondimenti di una materia davvero vasta. S. M.

armi bianche e per i contributi pubblicati sull’argomento. Qui ha scelto di occuparsi della spada da duello, cioè – come scrive in sede di Premessa – «di quell’arma che nell’Occidente europeo fu concepita almeno dalla fine del Medioevo per l’uso sul terreno, generalmente in campo chiuso, non per fini militari, ma (…) per dirimere controversie private perlopiú d’onore». Dopo aver dunque definito i contorni della sua trattazione, Longhi affronta la descrizione sistematica di questo tipo di spade, articolandola in due grandi sezioni, rispettivamente dedicate all’evoluzione dell’arma e alla sua iconografia. E, a proposito di iconografia, l’intero volume si giova in larga parte di disegni realizzati dall’autore, grazie ai quali, oltre ad avere un riscontro immediato dei modelli descritti, si può anche cogliere la

Giovanni Cherubini, Franco Franceschi, Andrea Barlucchi, Giulio Firpo (a cura di) Arezzo nel Medioevo Giorgio Bretschneider Editore, Roma, 320 pp., ill. b/n, XXV tavv. col.

65,00 euro ISBN 978-88-7689-268-4 www.bretschneider.it

Secondo capitolo di un progetto che ha già visto la pubblicazione di un volume dedicato all’età antica, l’opera, attraverso contributi di studiosi italiani e stranieri, ripercorre la storia di Arezzo dall’età tardo-antica al Quattrocento. In una trentina di contributi vengono affrontati temi politici, economici e culturali, offrendo un ritratto puntuale e articolato di uno dei piú importanti centri dell’Italia medievale. S. M.

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caleido scopio

Musiche per i potenti musica • Un cofanetto con due CD offre l’opportunità di riscoprire l’opera di

Johannes Ciconia, maestro di musica sacra e profana dai contorni biografici incerti, ma che seppe sicuramente farsi apprezzare in Italia, in particolare a Padova

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no degli eventi piú interessanti nella storia recente della discografia dedicata al Medioevo è il cofanetto Johannes Ciconia. Opera Omnia (RIC 316, 2 CD), a cui va il merito di aver dato voce a una delle personalità piú significative che le fonti bassomedievali ci hanno tramandato. Originario di Liegi, dove nasce intorno al 1370, e morto a Padova nel 1412, di Ciconia si sa davvero poco. Ma la presenza delle sue musiche sacre e profane in molti codici musicali coevi, non solo è la prova del valore artistico riconosciutogli dai contemporanei, ma testimonia anche la sua attività di compositore in Italia, terra in cui molti autori d’area franco-fiamminga cercavano un ingaggio presso le numerose corti.

L’antologia presenta, nel primo CD, brani profani – perlopiú madrigali, ballate e virelais – che evidenziano uno stile multiforme, a tratti legato alle raffinatezze dell’ars subtilior francese, ma anche aperto alle seduzioni della melodica cantabilità della tradizione italica.

Sia gloria ai maggiorenti patavini Brani che, traendo spesso spunto dai contesti in cui Ciconia si trovò a operare, rimandano a personaggi storici e di rilevanza politica. Fra di loro troviamo Gian Galeazzo Visconti, la cui corte era basata a Pavia – città frequentata da Ciconia –, e del quale si celebra l’alleanza con la città di Lucca nel madrigale Una panthera in compagnia de Marte. Padova, dove il Ciconia soggiornò poi fino alla morte, e i

Un compositore instancabile musica • Autore

davvero prolifico e di successo, Orlando di Lasso fu attivo presso le principali corti italiane del XVI secolo. L’ascolto dei suoi brani stupisce ancora oggi per la vocazione «sperimentalista» e innovativa 112

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l Rinascimento musicale, italiano e non solo, non avrebbe conosciuto gli sviluppi che ha avuto senza l’apporto della grande stagione polifonica fiamminga. In questo fenomeno si inserisce a pieno titolo Orlando di Lasso, che lasciò presto la nativa città di Mons (Belgio) dicembre

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suoi dignitari sono un altro dei grandi temi ricorrenti e l’omaggio musicale – si celebrano le figure di Pietro Marcello e Albano Michele vescovi della città, di Francesco Zabarella arciprete della cattedrale, e dei da Carrara, signori di Padova – si trasforma in oggetto di lode, attraverso composizioni organizzate e mirate a favorirsi la protezione dei potenti. Non mancano madrigali e ballate avulse dal contesto sociale e dedicate al tema dell’amante disperato, frequentissimo nelle composizioni di Ciconia come in tanta produzione lirico-musicale dell’epoca. Nell’ambito sacro, oggetto del secondo CD, lo stile si fa ancor piú affascinante sotto il profilo melodico, e le soluzioni musicali piú variegate. Anche in queste musiche ricorrono celati elogi alle città di Venezia e Padova, nonostante si tratti di mottetti

e viaggiò in Italia: qui entrò in contatto con importanti ambienti di corte, come quella di Ferrante Gonzaga in Sicilia, Napoli e Roma, dove fu maestro di cappella nella basilica di S. Maria Maggiore. Poi, dal 1560 sino alla morte, si stabilí presso la corte del duca di Baviera Alberto V. Una carriera fulgida e tutta in ascesa, la sua, segnata da un parallelo percorso compositivo di portata eccezionale: Lasso, infatti, compose oltre 70 messe, quasi 800 mottetti, 287 madrigali in lingua italiana, 170 chanson... Solo per citare una parte della sua variegata opera. Alla produzione liturgica e/o paraliturgica ci riportano le registrazioni che qui presentiamo e che offrono un saggio dei gusti musicali in voga presso le corti europee alla metà del Cinquecento, mostrando al tempo stesso una grande varietà stilistica. Con Lassus. Prophetiae Sybillarum (CDA 67887, 1 CD) siamo di fronte a un capolavoro che lascia stupefatti per la modernità del linguaggio e

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evidentemente destinati a una esecuzione liturgica. Non mancano numerosi Gloria e Credo, movimenti staccati dell’Ordinarium Missae, che costituiscono esempi mirabili di scrittura polifonica del tempo. Nato dalla volontà e sotto la direzione artistica di Jérôme Lejeune, questo lodevole progetto discografico vede la compresenza di due validi ensemble, La Morra e Diabolus in Musica, e la condirezione di Corina Marti, Michal Gondko e Antoine Guerber. Al gruppo La Morra è affidata l’esecuzione dei brani profani che vedono partecipi 4 voci, flauto a becco, clavicembalo, liuto, chitarra e viella mentre al Diabolus in Musica i brani sacri con 8 voci, organetto, e due tromboni. Differenti gli impasti vocalistrumentali, utilizzati con un approccio filologicamente corretto e con risultati interpretativi di indubbio valore. Franco Bruni

soprattutto per l’atteggiamento innovativo, tanto da far pensare quasi a un’opera sperimentale. I 13 brani della raccolta – che Orlando compose nel periodo iniziale della carriera, alla metà del XVI secolo, riprendendo i testi di Lattanzio (Divinae Insitutionae) e Filippo Barbieri (Sibyllarum et prophetarum) – si aprono con uno stupefacente prologo, Carmina chromatico, il cui linguaggio appunto cromatico, costruito su ardite dissonanze, connota il brevissimo ma intensissimo minuto e mezzo di musica, creando la giusta atmosfera per i brani che seguono.

Il gusto della parodia Dallo «sperimentalismo» dei Carmina, in cui predomina il linguaggio accordale, si passa a una polifonia piú tradizionale con l’ascolto di due opere che secondo la diffusa tecnica della parodia, si rifanno a musiche di altri autori, la Missa Amor ecco colei e il Magnificat Quant’in mille anni il ciel, entrambi a 6 voci, e costruite su composizioni

profane di autori meno noti. Insieme ai tre mottetti a 5 e 6 voci che concludono la raccolta, l’interpretazione del gruppo a cappella The Brabant Ensemble, diretto di Stephen Rice, è piuttosto emozionante, grazie a una fusione sonora delle 14 voci che raggiungono un livello altissimo nel magma sonoro dei Carmina Sybillarum. Al genere della messa-parodia appartiene anche la Missa Surgens Propera (RRC 1369, 1 CD, distr. Stradivarius) in cui il modello di riferimento fu per Lasso il mottetto omonimo, da lui composto, e incluso nell’antologia insieme ad altri mottetti e a un Magnificat. Anche in questa interpretazione, affidata alle voci dell’ensemble inglese The Cardinall’s Musick diretto da Andrew Carwood, risultano affascinanti gli intrecci polifonici dei mottetti, in cui il sapiente linguaggio di Lasso crea magnifici contrasti tra passaggi a due e a pieno coro, con una marcata sensibilità verso il contenuto testuale. F. B.

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caleido scopio

Frottole e Vespri musica • Dalle atmosfere «mondane» della Mantova

dei Gonzaga e della Ferrara degli Este a quelle piú spirituali delle musiche liturgiche seicentesche

T

ra i generi vocali che allietarono la vita di corte del XV e XVI secolo, la frottola ha occupato un posto di rilievo. Imparentata alla «ballata», con la sua struttura strofica e la presenza del ritornello, deve il suo successo alle origini popolari, incarnando appieno il fenomeno del riassorbimento di un genere d’origine «bassa» da parte della tradizione colta. L’antologia Frottole. Songs from the courts of Renaissance Italy (PC 10246, 1 CD) offre un generoso spaccato di questo mondo cortese, con musiche di autori che in questo genere si sono distinti in modo particolare. E, a proposito della frottola, non si può dimenticare il ruolo della corte gonzaghesca di Mantova e di quella estense di Ferrara, due centri che, grazie a Isabella Gonzaga e Lucrezia Borgia (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 94-105), salutarono la fioritura di una vasta produzione frottolistica. Legati a queste due corti sono Marchetto Cara di cui ascoltiamo due brani vocali, e il Tromboncino, con altri cinque brani per soprano e liuto, che esaltano il sottile gioco testuale-musicale. Ma l’antologia propone altri compositori, tra cui il bosniaco Bossinensis, liutista di rinomata fama, che ebbe la vincente idea di «trascrivere» per liuto alcuni brani dalla migliore tradizione frottolistica, originariamente concepita per un ensemble vocale. L’itinerario proposto dal The Modena Consort si arricchisce inoltre di ascolti meno frequentati, con autori della tradizione francofiamminga, quali Heinrich Isaac, Loyset Compère, Antoine Brumel.

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Le tematiche sono quelle di sempre, l’amore, che trova nella frottola il mezzo privilegiato, nonché il piú consono, per la diffusione di temi e concetti tipici dalla cultura cortese. The Modena Consort e il soprano Ulrike Hofbauer operano una scelta interpretativa che esalta diversi modi di accompagnamento alla voce, affidandolo a volte al liuto solo e in altre a un ensemble di flauti rinascimentali; scelte condotte anche sulla base di testimonianze documentarie e iconografiche.

L’avvento del genere concertato Spostandoci di circa un secolo, tra la seconda metà del XVI e i primi decenni del XVII, la registrazione Chamber Vespers. Miniature Masterpieces of the Italian Baroque (CHAN 0782,1 CD, distr. Stradivarius) si allontana dalla vivacità del genere frottolistico e ci proietta nella dimensione spirituale della musica per i Vespri. Lungi dal mostrare le maestose creazioni della musica sacra della fine del Cinquecento, questa scelta

antologica si concentra su una produzione piú intimista – voce sola con accompagnamento di cornetti e basso continuo – sicuramente piú diffusa rispetto alle possibilità di cappelle piú ricche. Rispetto alla precedente produzione frottolistica, in cui la voce è semplicemente accompagnata dagli strumenti, qui assistiamo a quella piccola grande rivoluzione che è l’avvento del genere concertato, con lo strumento che non si limita al mero accompagnamento, ma gioca con la voce in una sorta di dialogo/scontro/ imitazione, capace di rendere assai variegate le soluzioni musicali. Nella raccolta ricorrono nomi di musicisti celebri – Frescobaldi, Tarditi, Banchieri, Cazzati – e meno noti – Petrobelli, Monferrato, Crotti –, tutti molto attivi nell’ambito liturgico. Gli inni e i salmi che compongono il vespro sono interpretati dalla voce suadente del soprano Faye Newton, che in alcuni brani si unisce in duo al mezzosoprano Clare Wilkinson, mentre l’accompagnamento è affidato agli ottimi componenti del The Gonzaga Band, precisi nell’intonazione e «puliti» nel suono. Bene eseguiti anche gli assoli strumentali di Piccinini e Frescobaldi affidati alla tiorba e/o all’organo. F. B. dicembre

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