Medioevo n. 190, Novembre 2012

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battaglia di cortenuova rocca di montefiore casa della sapienza albania dossier luigi IX

€ 5,90

Mens. Anno 16 n. 11 (190) Novembre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 11 (190) novembre 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

cortenuova 1237

la vendetta di federico II

islam

quando a baghdad si leggevano i greci

luigi IX

IL re che volle farsi santo

montefiore

una rocca per i malatesta

PPA AST ST

PASSIONEPER PER LA PASSIONE LASTORIA STORIA

la cappella brancacci

firenze



sommario

Novembre 2012 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

restauri Il capolavoro dell’artista senza nome Vieni, c’è una chiesa nel bosco...

islam Nella casa della sapienza

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mostre Tesori di un collezionista

di Marco Di Branco

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appuntamenti Aspettando il Natale... 12 Il patrono tre volte splendente 14 L’Agenda del Mese 16

92 CALEIDOSCOPIO

STORIE battaglie Cortenuova La vendetta di Federico II di Francesco Colotta

26

26

luoghi cappella brancacci I maestri di Firenze

di Ludovica Sebregondi

Dossier

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cartoline L’ultima dimora di un re d’Inghilterra?

108

libri Artisti senza fissa dimora Lo scaffale

111 111

musica Un Metodo di successo Se l’oboe resta Solo

113 114

luigi IX il re che volle farsi santo di Chiara Mercuri

archeologia Montefiore Conca

Un Guastafamiglia a corte di Simone Biondi

albania Dove volano le aquile

di Giovanni Armillotta

dimensione guerra Il generale inverno di Flavio Russo

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Ante prima

Il capolavoro dell’artista senza nome restauri • Risalente

alla prima metà del Trecento, la Croce dipinta della basilica di S.Croce a Firenze è stata riportata al suo antico splendore dal restauro, ed è ora possibile riscoprirne le preziose decorazioni e le numerose sfumature di colore

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novembre

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È

tornata a splendere la grande Croce dipinta del coro della basilica di S. Croce a Firenze, opera del cosiddetto Maestro di Figline, appellativo che fa riferimento alla Maestà, conservata nella collegiata di Figline Valdarno, che l’anonimo artista dipinse nel 1317. Arcaico e moderno allo stesso tempo, formatosi in ambiente giottesco e forse identificabile con Giovanni di Bonino, pittore di vetrate ad Assisi, il Maestro resta a tutt’oggi una figura misteriosa, senza nome. Il Crocifisso fiorentino prova che poteva essere considerato una valida alternativa a Giotto per l’abilità esecutiva, nonché per l’abbinamento di lirismo ed espressività nel rappresentare un vero corpo.

Lo schema giottesco Tra le piú importanti testimonianze religiose e artistiche della prima metà del XIV secolo appartenenti alla basilica fiorentina, la Croce riprende il semplice schema giottesco: al centro è il Cristo morente, con occhi e bocca socchiusi, dall’aureola a rilievo, che si staglia su un fondo oro, sormontato da una tabella con iscrizione in caratteri latini, affiancata dalle figure dei due Dolenti, la Vergine e San Giovanni. La scena è racchiusa da formelle polilobate e tralci vegetali, in cui si inseriscono otto figure legate al drammatico evento rappresentato,

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tra cui San Giovanni Battista e Giuseppe d’Arimatea. Dopo l’abbattimento dell’iconostasi, avvenuto nel Cinquecento, seguendo i dettami della Controriforma e la trasformazione dell’edificio religioso, il capolavoro ligneo fu piú volte spostato all’interno della stessa chiesa, fino al 1933, anno in cui venne collocato nell’attuale cappella maggiore, affrescata da Agnolo Gaddi. Il restauro dell’opera ha consentito il recupero e la rilettura dei preziosi pigmenti, come l’azzurrite, il blu lapislazzuli impiegato per il manto della Madonna, mescolato con la biacca per sottolineare le zone in luce delle pieghe della stoffa, o la lacca rossa che contorna i denti di San Giovanni, aggiungendo drammaticità al suo dolore.

Dove e quando

Basilica di S. Croce Firenze, ingresso per i visitatori: largo Bargellini Orario lu-sa, 9,30-17,00; do e festività di precetto, Epifania (6 gennaio), Assunzione (15 agosto), Ognissanti (1°novembre), Immacolata Concezione (8 dicembre), 13,00-17,00 Info tel. 055 2001642; e-mail: info@santacroceopera.it; www.santacroceopera.it

Oro e argento a profusione L’importanza della committenza è suggerita dall’ampio uso di lamine d’oro e d’argento di notevole spessore, sul fondo e sulla cornice, con alcune aree brunite per rendere lucida la doratura, cosí da illuminare i personaggi: una ricerca accurata e sofisticata, sottolineata anche dalla presenza, consueta per l’epoca, di una tela di rivestimento incollata sul supporto ligneo, per contenere i naturali movimenti del legno. La scelta scrupolosa e inusuale di proteggere anche le traverse denota, inoltre, che il Maestro di Figline conosceva bene le condizioni climatiche della basilica di S. Croce, vicina al fiume e quindi soggetta a inondazioni. Liberata dalla vernice ingiallita e dalle stuccature alterate, l’opera ha riacquistato la brillantezza cromatica, grazie anche al reintegro con colori ad acquerello e a vernice. Per circa un anno, la Croce rimarrà in posizione verticale all’interno di uno spazio ricavato nel cantiere degli affreschi dell’altare maggiore. Al termine dell’intervento sul ciclo pittorico della cappella, sarà sistemata in una nuova struttura di sostegno, movimentabile per la manutenzione periodica. Mila Lavorini

Sulle due pagine particolari del Crocifisso dipinto dal cosiddetto Maestro di Figline per la basilica fiorentina di S. Croce. Prima metà del XIV sec. Oltre al Cristo, si riconoscono (dalla pagina accanto, in alto, in senso orario): l’Addolorata, San Giovanni Evangelista, San Giovanni Battista, Niccodemo e San Francesco d’Assisi.

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Ante prima restauri

Il complesso monastico duecentesco nel Bosco di San Francesco d’Assisi è di nuovo aperto e visitabile, anche grazie a un ampio progetto di recupero del paesaggio umbro legato alla figura del Santo

Vieni, c’è una chiesa nel bosco... D

opo sei anni di chiusura, è appena stata riaperta al culto la chiesa duecentesca di S. Croce, all’interno del Bosco di San Francesco d’Assisi. L’edificio, come il mulino medievale nelle immediate vicinanze, è stato oggetto di lavori di restauro: sono interventi che rientrano in un progetto piú ampio, promosso dal FAI (Fondo Ambiente Italiano), che sta recuperando il paesaggio umbro in cui meditava il Poverello (vedi «Medioevo» n. 178, novembre 2011). Il complesso monastico di S. Croce si raggiunge seguendo il percorso che scende dalla Basilica Superiore e poi risale la valle del Tescio fino al Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, opera di Land art inaugurata l’anno scorso: 121 ulivi a doppio filare disegnano un cerchio principale, affiancato da due cerchi piú piccoli e simmetrici. Al centro un’asta in acciaio alta 12 m allude all’unione fra il cielo e l’acqua. La chiesa ha una semplice fronte a

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Assisi, Bosco di San Francesco. Una veduta della chiesa di S. Croce (in alto) e l’interno dell’edificio di culto (a destra), di cui è stato appena ultimato il restauro.

capanna, aperta da un portale a tutto sesto con archivolto a sesto acuto, sopra al quale si trova una nicchia con Storie della Passione dipinte da Gianni e Lella Berti nel 1983.

Un’unica navata Alla sommità della facciata svetta un piccolo campanile a vela in laterizio, probabilmente piú tardo. L’interno a navata unica è arricchito da un affresco sopra l’altare con S. Elena e S. Caterina in adorazione della nuda

Croce, attribuito all’artista assisano Girolamo Marinelli e datato 1643. Senza catino absidale e piuttosto compressa rispetto all’alzato, la chiesetta doveva in origine essere piú allungata, come sembrano indicare anche le tracce di innesti murari sulla parete di fondo. Lungo il corso del Tescio, la chiesa di S. Croce sorge vicino ai resti di un monastero e di un ospedale, nei pressi del ponte dei Galli, citato per la prima volta in uno scritto novembre

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Il complesso monastico sorto nei pressi della chiesa di S. Croce comprendeva anche un mulino, che qui vediamo in una foto scattata prima del recupero architettonico (a sinistra) e dopo l’intervento (in basso), grazie al quale la struttura è stata trasformata in punto di ristoro per i visitatori del Bosco di San Francesco.

A sinistra la Torre Annamaria, una costruzione trecentesca adibita alla difesa di un opificio: nella regione era comune la presenza di centri manifatturieri fortificati.

del 1160, l’anno in cui Assisi entra nella sfera di dipendenza diretta dall’imperatore, con il diploma del Barbarossa, che, di fatto, svincola il centro umbro dal ducato di Spoleto.

L’ospedale vicino al ponte La menzione di una realtà architettonica attorno al Pons Gallorum risale invece al 1250: in un legato testamentario c’è il riferimento a un hospitalis, mentre solo a partire dal 1300

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ricorre la dicitura monasterio Sancte Crucis de Ponte Gallorum. Sembra che il convento, di cui faceva parte la chiesa restaurata, non abbia sostituito l’ospedale, perché entrambe le strutture risultano impegnate nell’attività di accoglienza. Del monastero medievale, oltre agli edifici restaurati, rimane parte della cerchia muraria, con nicchie a diverse altezze, che sembrano suggerire una disposizione su vari livelli degli stabili all’interno del perimetro difensivo. Il restauro architettonico è partito dal consolidamento strutturale, condotto in modo omogeneo su tutto il tessuto murario, per ovviare alle sollecitazioni causate dal terremoto del 1997. I tecnici hanno quindi

realizzato la deumidificazione, che ha toccato anche il pavimento, ora riscaldato con un sistema a onde geotermiche, che funziona a «costo zero», senza inquinare. Poi è toccato alla pulitura della pietra, tanto all’interno quanto all’esterno, e al restauro dell’affresco seicentesco, che in alcuni punti è stato velato ad acquerello. Gli interventi hanno inoltre coinvolto la canonica, adibita a punto informazioni, accoglienza e bookshop, mentre il mulino, sotto il quale sono state ritrovate le antiche canalizzazioni sotterranee, è diventato un punto di ristoro. Stefania Romani Dove e quando

Bosco di San Francesco Assisi (Pg) Orario fino a marzo, tutti i giorni, 10,00-16,00; chiuso lunedí Info tel. 075 813157; www.fondoambiente.it

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Ante prima

Tesori di un collezionista mostre • Attraverso

manoscritti ed edizioni pregiate, l’esposizione in Palazzo Madama ripercorre le tappe piú significative della produzione iconografica legata all’opera di Dante attraverso i secoli. Dal Trecento fino all’Ottocento e oltre

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a rassegna «Dante ti amo», allestita in Palazzo Madama, a Torino, fa luce sulla fortuna del capolavoro dantesco, ponendo l’accento sulla nascita e l’evolversi dell’iconografia legata alle Cantiche: novanta opere, provenienti dalla collezione privata dell’imprenditore Livio Ambrogio, coprono un arco cronologico di sette secoli. Affascinato dal mondo che ruota attorno al sommo poeta, il bibliofilo piemontese ha acquisito, oltre a testi scritti, disegni, sculture e dipinti. Il percorso espositivo si apre con

la sezione dei manoscritti, in cui figurano una stesura della Commedia prodotta nel Trecento a Firenze e due copie, entrambe quattrocentesche, delle Rime di Dante e delle Georgiche di Virgilio. Nelle parte dedicata alle edizioni a stampa, spiccano l’Editio princeps della Commedia, uscita a Foligno l’11 aprile 1472, e quella di Mantova, dello stesso anno, con la prima pagina miniata.

E la chiamarono «divina» Poi c’è la prima versione illustrata dell’opera dantesca, realizzata a Firenze nel 1481, con il testo commentato dall’umanista Cristoforo Landino. Risale a dieci anni piú tardi il volume con il primo ciclo completo di raffigurazioni, mentre un altro primato spetta al libro del 1555, in cui debutta l’aggettivo «divina». Dove e quando

«Dante ti amo. Testo e immagini della Divina Commedia» Torino, Palazzo Madama fino al 31 gennaio 2013 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; do, 10,00-20,00; chiuso lunedí Info tel. 011.4433501: www.palazzomadamatorino.it

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In alto frammento di un’edizione della Commedia. Firenze. Fine del XIV sec. In basso il frontespizio di un’edizione del Convivio, stampata a Venezia nel 1521. Palazzo Madama propone anche edizioni di forte impatto visivo, come le stampe veneziane uscite nel Settecento dai torchi di Antonio Zatta, con illustrazioni, in bianco e nero e a colori, su una carta azzurra particolarmente preziosa. Il secolo successivo è invece testimoniato dalle iconografie di maggior successo, prima fra tutte la Commedia illustrata da Gustave Dorè. Il pittore francese, famoso per aver rappresentato fra gli altri anche l’Orlando Furioso, le Fiabe di Perrault, il Don Chisciotte e la Bibbia, per Inferno, Purgatorio e Paradiso ricorre a un tratto deciso, che comunica gli aspetti realistici del testo dantesco, filtrato dal sentimento romantico. Segue una teca dedicata alle opere minori dell’Alighieri, tra cui una Vita Nova appartenuta alla principessa Maria Josè di Savoia, mentre un’altra sezione è destinata alla letteratura dantesca. Qui ci sono un manoscritto autografo di Borges, un’opera di Dante Gabriel Rossetti, e poi autori come Alessandro Manzoni e Thomas Stearns Eliot. S. R. novembre

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Ante prima

Aspettando il Natale...

appuntamenti • Dalla fine di novembre, dall’Alta Austria al Tirolo è possibile

rivivere le suggestive atmosfere natalizie dell’Avvento, tra mercatini pittoreschi, botteghe artigiane e specialità gastronomiche

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alla fine di novembre, decine di mercatini natalizi avvolgono città e paesi dell’Austria con la loro calda atmosfera mitteleuropea. Chiamati Weihnachtsmarkt, mercato dell’Avvento, o Christkindlmarkt, mercato di Gesú Bambino, hanno tutti radici comuni che si perdono nei secoli nel Medioevo. Lo splendido centro storico di Graz, capoluogo della Stiria, ospita cinque mercatini (quest’anno dal 23 novembre al 23 dicembre), aperti ogni giorno dalle 10,00 alle 22,00. Il principale si trova sulla Hauptplatz, la piazza del Municipio, dove oltre quaranta stand propongono decorazioni, oggetti in vetro, ceramica, legno intagliato, candele e tessuti fatti a mano, nonché prodotti gastronomici tipici come i Weihnachtskekse (biscotti di

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Il mercato dell’Avvento allestito nella cittadina austriaca di Mariazell. Natale) e l’olio di semi di zucca. Altri quattro mercatini, sempre con prodotti dell’artigianato e della gastronomia locale, si sviluppano nella Franziskanerplatz, nella graziosa Mariahilferplatz, nella Farberplatz (solo venerdí e sabato) e a Eisernes Tor (solo il pomeriggio).

Un presepe di ghiaccio Nel Tirolo austriaco, il tradizionale mercatino di Hall (23 novembre-24 dicembre) ospita bancarelle con vendita di addobbi, oggetti da regalo in terracotta, legno, vetro e paglia, specialità gastronomiche tirolesi come i krapfen e i kiachl (gnocchi dolci ripieni), vino brulé e punch caldo. Bande musicali, cantastorie

e una carrozza per i piú piccoli rendono l’atmosfera ancor piú suggestiva.Dal 1° al 24 dicembre sulle case affacciate sulla Oberer Stadtplatz vengono proiettati i numeri del Calendario dell’Avvento. Sempre nel Tirolo, il Mercatino di Innsbruck (15 novembre-6 gennaio) si sviluppa ai piedi del Tettuccio d’Oro, simbolo della città vecchia sul fiume Inn. Nella Landhausplatz, le bancarelle espongono e vendono prodotti tipici dell’artigianato locale, giocattoli, decorazioni e specialità gastronomiche. Capoluogo regionale dell’Alta Austria, Linz ospita il Mercatino di Gesú Bambino (17 novembre-24 dicembre) nella Hauptplatz, la piazza centrale barocca, dove ogni giorno, dalle 10,00 alle 20,00, numerose casette ottagonali novembre

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Cartina dell’Austria con l’indicazione delle località citate nel testo.

Landschut

E52

Ulm

Augsburg

Linz E52

Ravensburg

A1 E45

Salisburgo

A1

Vienna

Steyr Mariazell

E60

Hall in Tirol Innsbruck

Judenburg Klagenfurt

E43

Graz

Bolzano

dicembre) si trova davanti alla vendono prodotti artigianali e Basilica. souvenir. Ogni anno un Comune dell’Alta Austria dona a Linz un abete alto una ventina di metri, La casa di panpepato che viene sistemato e addobbato Sulle bancarelle di legno vengono nel centro della piazza principale. offerti prodotti genuini, fra musica Nelle vetrine, nelle chiese e negli romantica e una grande casa di angoli piú pittoreschi del centro panpepato alta 5 m, realizzata con storico si possono ammirare presepi oltre una tonnellata di panpepato al provenienti da ogni parte del mondo. miele. Ogni week end è animato da un A Mariazell, da secoli fra i piú vasto programma di letture, concerti importanti centri spirituali e di gospel, recite, cori e rappresentazioni pellegrinaggio europei, il mercato teatrali di favole. U&C_12_MED_205X135 OK.pdf 1 11/09/12 16:40 Il centro storico di Salisburgo ospita dell’Avvento (30 novembre-23

un mercatino (23 novembre-23 dicembre) che risale a un’antica fiera degli stracci del XV secolo, con numerose bancarelle per la vendita di candele, giocattoli di legno, bichieri decorati, lanterne, ceramiche, ornamenti, specialità gastronomiche e vino aromatico. Non mancano gli eventi culturali: dalle letture con sottofondo musicale nel settecentesco castello di Leopoldskron, ai concerti nella fortezza medievale Hohensalzburg. Infine a Steyr, chiamata «la città di Gesú Bambino», oltre al suggestivo mercato della Città Vecchia con ghiottonerie culinarie regionali e idee regalo (23 novembre-31 dicembre), durante l’Avvento si possono visitare decine di presepi antichi e moderni, mentre il castello medievale di Lamberg ospita una tradizionale esposizione d‘artigianato. Tiziano Zaccaria


Ante prima

Il patrono tre volte splendente appuntamenti • Ogni 10 novembre

ad Adelfia, in Puglia, una festa celebra San Trifone, vissuto in Asia Minore nel III secolo, con una processione, spettacoli pirotecnici e una fiera

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gni anno, il 10 novembre, il piccolo centro barese di Adelfia festeggia il suo patrono, San Trifone, fin dalla peste che colpí nel 1656 oltre i due terzi delle popolazioni locali, anche se, con ogni probabilità, il suo culto è precedente. In occasione della ricorrenza, il paese ospita una fiera con prodotti tipici dell’enogastronomia e dell’artigianato. La festa inizia in mattinata con la processione religiosa delle confraternite locali che portano il simulacro del santo, seguite da centinaia di fedeli e pellegrini. Nel pomeriggio si svolge una gara di fuochi pirotecnici.

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Adelfia. Due momenti della festa con la quale si celebra il patrono locale, San Trifone. San Trifone, il cui nome significa «splende tre volte», visse nell’Asia Minore nel III secolo. Morí ad appena 18 anni, nel 250, subendo il martirio a Nicea durante la persecuzione di Decio.

Contro le cavallette Nel Medioevo il suo culto si sviluppò soprattutto fra i contadini, che lo invocavano affinché proteggesse le colture

dalle invasioni di cavallette, dalle infestazioni di rettili, di insetti e di altri animali nocivi. Nella nostra Penisola questa tradizione si propagò soprattutto nel Meridione, dove si moltiplicarono i luoghi nei quali, in seguito a invasioni di cavallette, le popolazioni si votarono alla protezione del santo. Dai racconti agiografici pervenuti fino a oggi, il documento piú antico dei quali risale all’VIII secolo, Trifone viene presentato come un giovane pastore di oche, capace di operare guarigioni ed esorcismi. La Cattedrale di Cattaro, cittadina della Repubblica del Montenegro sulla costa adriatica, è dedicata a Trifone e conserva la testa e parte del corpo del santo. Il 3 febbraio 809 la Confraternita Marinereza di Cattaro ne acquistò le reliquie da marinai veneziani che le stavano portando nella Serenissima, dopo averle trafugate a Costantinopoli. In Bulgaria, San Trifone è il patrono dei viticoltori e viene celebrato il 14 febbraio con grandi feste all’aperto. T. Z. novembre

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Paestum: è l’ora della Borsa

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Testo Box 2009 l’Assessorato all’Istruzione, formazione e lavoro della Regione Lombardia ha avviato in Valtellina l’iniziativa sperimentale Learning Week, proponendo alle scuole settimane di iniziative culturali extracurricolari. Nel panorama scolastico e formativo italiano i percorsi Learning Week, caratterizzati da una forte valenza esperienziale sul territorio e da una modalità «full immersion», sono unici per lo schema attuativo e per la possibilità data a ogni destinatario di poter partecipare al percorso formativo ritenuto piú corrispondente alle proprie esigenze. All’interno del progetto «L’Orlando Furioso in Valtellina» è stata quindi inserita la Learning Week «L’immaginario ariostesco negli affreschi valtellinesi», che, organizzata dal Centro di Formazione Professionale e dal Liceo Scientifico i apre il 15 novembre la XV edizione della Borsa di Sondrio, per la Promozione Sistema Paese Ministero degli Donegani oltre a offrire agli del studenti un momento di formazione Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, Affari Esteri.permette È stato invitato a concludere PieroinGnudi, culturale tipicamente scolastico, loro il positivo inserimento un manifestazione che rinnova il suo impegnocontesto al fine disociale e lavorativo. Ministro per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport.

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Modererà il direttore di «Archeo» Andreas M. Steiner. Venerdí 16 è previsto il convegno «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo», a cura della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, con la partecipazione dei Direttori delle missioni archeologiche impegnate nei Paesi dell’area: Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia, Turchia. Tra giovedí 15 e sabato 17 gli «Incontri con i Protagonisti» porteranno alla ribalta, tra gli altri, l’ingegnere Giorgio Croci e l’architetto Andrea Bruno, tra i massimi esperti di conservazione e restauro architettonico, Folco Quilici, Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica di Atene e Presidente Fondazione Paestum, e l’archeologo Andrea Carandini. Domenica 18, in occasione del trentennale della Domenica, avrà luogo la conferenza «Il Manifesto del Sole 24 Ore per la diffusione della cultura, la conservazione, la tutela e la valorizzazione. Le Associazioni per il patrimonio culturale». A questi incontri si affiancano iniziative ormai «tradizionali» per la Borsa, come ArcheoVirtual, mostra e workshop sull’archeologia virtuale; la presentazione di corsi di laurea e master in archeologia, beni culturali e turismo culturale nell’ambito di ArcheoLavoro; la proiezione dei film vincitori della XXIII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto e dei filmati di Rai Educational per ArcheoFilm. Per ulteriori informazioni e per il programma completo, si può consultare il sito: www.borsaturismo.com

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informazione pubblicitaria

valorizzare destinazioni e siti archeologici, di favorire la commercializzazione di prodotti turistici specifici, di contribuire alla destagionalizzazione, e di incrementare le opportunità economiche e gli effetti occupazionali. Paese Ospite ufficiale è quest’anno l’Armenia, con una presenza nel salone espositivo di oltre 30 Paesi esteri, tra cui, per la prima volta, il Kenya e la Federazione Russa. Ricordiamo, qui di seguito, alcuni degli appuntamenti previsti dal ricco programma della manifestazione (che chiuderà i battenti il 18 novembre). Giovedí 15 e venerdí 16, a cura della Direzione Generale per le Antichità e la Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale del MiBAC, si svolge il convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia». Giovedí 15, la Direzione Generale per l’istruzione e formazione tecnica superiore e per i rapporti con i sistemi formativi delle Regioni del MIUR presenterà l’offerta formativa nazionale degli ITS, Istituti Tecnici Superiori, un canale formativo di livello postsecondario, parallelo ai percorsi accademici. Venerdí 16, al VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione, la promozione», in collaborazione con ICCROM e «Archeo», parteciperanno, oltre ai direttori delle principali testate archeologiche, Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale Direttore Generale dell’UNESCO, Stefano De Caro, Direttore Generale dell’ICCROM, Maurizio Melani, Direttore Generale DG


agenda del mese

Mostre Parigi Il vino nel Medioevo U Tour Jean Sans Peur fino all’11 novembre

a cura di Stefano Mammini

veniva severamente condannata. info www. tourjeansanspeur.com Trento I CAVALIERI DELL’IMPERATORE. Tornei, battaglie e castelli U Castello del Buonconsiglio, Castel Beseno fino al 18 novembre

Al centro dell’esposizione è il ruolo cruciale del vino nella società medievale, descritto in un percorso articolato in cinque sezioni, con oltre un centinaio di documenti, e arricchito dalla ricostruzione di una taverna. Nel Medioevo si registra la massima diffusione dei vigneti e il vino, insieme al pane, è l’elemento base della dieta quotidiana, per uomini, donne, ma anche per i bambini! Caratteristica che non doveva però indurre al consumo smodato, perché, come illustrano alcuni dei documenti esposti, anche nell’Età di Mezzo l’ubriachezza

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Il Castello del Buonconsiglio e Castel Beseno rivivono la stagione dei grandi tornei e delle parate rinascimentali, il clangore degli assalti all’arma bianca e i duelli cui erano affidati l’onore dei contendenti e delle loro dame sin’anco il destino di regni e principati. Protagonisti della mostra sono gli uomini d’arme che, vestiti d’acciaio, si scontravano in battaglia o esibivano la loro audacia e abilità nei tornei. A Castel Beseno, a essere messe in scena saranno le battaglie, l’assedio, le armi e le strategie militari; al Castello del Buonconsiglio si respirerà invece l’atmosfera del duello, dell’amor cortese e delle virtú eroiche. Un’occasione unica per ammirare pezzi provenienti da importanti armerie

europee oltre alla piú completa collezione al mondo di armi e armature da combattimento e da parata, proveniente dalla Landeszeughaus, l’armeria di Graz. info www.buonconsiglio.it Londra Shakespeare. Mettere in scena il mondo U The British Museum fino al 25 novembre

d’ogni giorno; come abbia contribuito alla formazione di una identità nazionale, dapprima inglese e poi britannica; o, ancora, come le opere portate in scena abbiano aperto finestre rivelatrici su un mondo ben piú vasto di quello al quale si era normalmente avvezzi, che spaziava dall’Italia all’Africa e alle Americhe. info www.britishmuseum.org

Venafro Splendori del Medioevo. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno U Museo Archeologico, ex Convento di Santa Chiara fino al 2 dicembre

La rassegna intende documentare il contributo fondamentale che l’opera di Shakespeare diede all’affermazione della capitale britannica come metropoli cosmopolita e polo culturale di importanza primaria. Per raggiungere tale obiettivo, sono stati riuniti poco meno di 200 oggetti e opere d’arte, piú della metà dei quali è approdata al British Museum grazie ai prestiti concessi da musei, istituzioni e collezionisti di tutto il mondo. Grazie ai materiali esposti, è possibile scoprire come l’attività teatrale sia stata capace di influenzare e orientare l’approccio della gente comune nei confronti dei problemi della vita

Alla metà del IX secolo l’abbazia annoverava ben nove chiese, tra cui la Basilica maior, in grado di gareggiare con le piú splendide chiese abbaziali dell’Europa carolingia. Dopo il saccheggio da parte di predoni arabi nell’881, la comunità dei monaci fu costretta a trasferirsi, ma, alla fine del X secolo, il monastero ebbe una fase di rinascita. Alla fine dell’XI secolo, però, di fronte alla comparsa dei Normanni, la comunità decise di trasferirsi sulla riva opposta del Volturno, per edificare un monastero interamente nuovo e fortificato. Chiude il percorso la sezione sulla presenza araba, di cui sono testimonianza significativa gli scacchi rinvenuti nel 1932 in una sepoltura di Venafro ed esposti in Molise per la prima volta. info tel. 0865 900742 Venezia Il Tiziano mai visto. La fuga in Egitto e la grande pittura veneta U Gallerie dell’Accademia fino al 2 dicembre

La mostra ripercorre la storia dell’abbazia, a partire dalle sue fasi piú antiche, alle quali appartiene, tra i reperti piú importanti, l’altare affrescato del tardo VIII secolo proveniente dalla Chiesa Sud. Si prosegue con La rinascita carolingia, che presenta l’abbazia al massimo del suo splendore, quando l’abate Giosuè trasformò S. Vincenzo in uno dei piú grandi monasteri d’Europa.

Un ultradecennale intervento di restauro condotto presso il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, che ne è il proprietario, ha permesso di datare tra il 1506 e il 1507 la Fuga in Egitto di Tiziano Vecellio. Il dipinto, un grande olio su tela (206 x 336 cm), sarebbe stato dunque realizzato quando Tiziano, nato a Pieve di Cadore nel 1490, era poco piú che un adolescente. novembre

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Spello Aurea Umbria. Una regione dell’impero nell’era di Costantino U Palazzo Comunale fino al 9 dicembre

L’opera, concessa in prestito dal museo russo, viene presentata nella seconda patria del maestro, Venezia, in una esposizione che la fa dialogare con opere di artisti contemporanei di Tiziano. Un’occasione

da non perdere, perché è la prima volta che la grande tela lascia la Russia, dove giunse nel 1768, all’indomani del suo acquisto da parte di Caterina la Grande. info tel. 041 5200345; www.gallerieaccademia.org

A 1700 anni dal regno di Costantino, l’Umbria riflette su una pagina della propria storia: la concessione fatta alla città di Hispellum del nome di Flavia Constans per dimostrare la sua fedeltà alla famiglia imperiale. Nel corso di tre secoli (III-VI d.C.), grazie alla riorganizzazione

promossa da Costantino, l’impero espresse infatti una forte vitalità, prima della guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano. La mostra racconta la vita in

mostre • Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca e la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento U Milano – Pinacoteca di Brera

fino al 17 febbraio 2013 (dal 13 novembre) info tel. 02 722 63 264; www.brera.beniculturali.it

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el 2009 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, esercitando il diritto di acquisto all’esportazione, ha comprato il piú antico mazzo di tarocchi italiano completo (che è anche il piú antico esistente al mondo), noto come mazzo Sola Busca dai nomi dei precedenti possessori (la marchesa Busca e il conte Sola) e l’ha destinato alla Pinacoteca di Brera, che già conservava un gruppo di 48 carte, parte di un prezioso mazzo tardo-gotico realizzato per il duca di Milano (mazzo cosiddetto Brambilla). La mostra presenta questa importante acquisizione, indagandone il contesto culturale e le possibili fonti, nonché la complessa iconografia, arrivando cosí anche a precisarne la datazione e a identificare l’artista che l’ha realizzata. Il mazzo è composto da ben 78 carte, 22 «trionfi» e 56 carte dei quattro semi tradizionali italiani (denari, spade, bastoni e coppe). Si tratta di stampe su carta da incisioni a bulino, montate anticamente su cartoncino, che sono poi state miniate a colori e oro. L’iconografia dei «trionfi» si discosta da quella piú tradizionale dei mazzi quattrocenteschi, una sequenza che dal Bagatto arrivava fino al Mondo e al Giudizio Universale (Angelo), in una sorta di percorso di elevazione del giocatore dalle condizioni piú legate alla terra fino a Dio. Nei tarocchi Sola Busca, infatti, i «trionfi» ospitano figure di guerrieri dell’antichità romana ovvero eroi della storia biblica, legandosi in qualche modo alla tradizione degli Uomini illustri proposti come exempla da imitare, che affondava le sue radici nella cultura medievale, da Petrarca a Boccaccio (anche se, spesso, si possono leggere in controluce alcuni dei soggetti piú tradizionali dei «trionfi», come nel caso del Trionfo della Fortuna in Venturio.X o del Trionfo della Morte nel Catone.XIII). Ancora al tema degli Uomini illustri rimanda Alessandro Magno, a cui è dedicato nel mazzo il seme di Spade. Una figura che, grazie all’episodio dell’elevazione al cielo su un carro trainato da grifoni, era divenuta a partire dal Medioevo per molti signori italiani (per esempio Este e Sforza) un simbolo dell’anelito all’immortalità.

MEDIOEVO

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Umbria durante questi secoli, attraverso un cospicuo insieme di materiali archeologici: dalle manifestazioni dell’arte ufficiale (ritratti e iscrizioni) e dalle espressioni della vita delle aristocrazie (mosaici, arredi) agli oggetti della quotidianità dei ceti medi e subalterni. La ricerca storica e archeologica, infatti, è in grado oggi di configurare il volto di un’età tardo-antica, che fu «aurea» per la sua vitalità, e non di «ferrea» decadenza, come a lungo la storiografia moderna ha proposto. info call center sistema museo tel. 199 151 123; www.aureaumbria.it

mantova Da Mantova al Württemberg: Barbara Gonzaga e la sua corte U Museo di Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2013

Il Palazzo Ducale di Mantova rende omaggio a Barbara Gonzaga, ottava figlia di Ludovico III, secondo marchese di Mantova, e di Barbara di Hohenzollern. La mostra

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agenda del mese dà conto della sua vicenda umana, culturale e politica, ripercorrendo il cammino della vita di Barbara Gonzaga, ricostruendo l’ambiente culturale e politico delle diverse corti principesche, e tracciando un profilo della principessa attraverso le sue testimonianze personali. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti, disegni e incisioni a bulino, stoffe e gioielli, monete e vasellame da tavola che, incorniciati dalla grandiosa musica di corte dei Gonzaga, trasmettono un’impressione autentica dell’ambiente di vita di una grande nobildonna del Rinascimento. info tel. 0376 224832; www.mantovaducale. beniculturali.it New York Giardini cinesi U The Metropolitan Museum of Art fino al 6 gennaio

Attorno alla Astor Court, uno degli spazi piú visitati del Metropolitan Museum, a cui fu dato l’aspetto del cortile di una residenza cinese del XVII secolo, si snoda il percorso della rassegna che, attraverso una selezione di cui fanno parte dipinti, ceramiche, oggetti in lacca e metallo, stoffe, indaga le strette e feconde relazioni tra la pittura e l’arte dei giardini, nel corso di oltre mille anni. Nelle popolose città della Cina i giardini interni

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sono sempre stati parte integrante delle architetture residenziali e palaziali ed erano considerati come prolungamenti degli spazi del vivere quotidiano. Sedi predilette di cenacoli letterari e rappresentazioni teatrali, vennero spesso realizzati secondo principi compositivi analoghi a quelli adottati nella pittura. E, proprio come nel caso dei paesaggi idealizzati dagli artisti, la loro struttura si ispirava a temi letterari già battuti dai pittori. info www.metmuseum.org Parigi «Ed essi si meravigliarono...», la Croazia medievale U Musée de Cluny, Musée nationale du Moyen Âge fino al 7 gennaio 2013

«Ed essi si meravigliarono…»: cosí scrisse Goffrédo di Villehardouin, uno dei protagonisti della quarta crociata, per descrivere la reazione dei pellegrini alla vista della città dalmata di Zara (l’odierna Zadar, in Croazia). E cosí è intitolata l’esposizione, allestita nel Museo di Cluny, che riunisce una quarantina di opere, scelte a rappresentare non soltanto il dinamismo e l’originalità delle creazioni artistiche locali fiorite tra il IX e il XIV secolo, ma anche la ricchezza degli scambi tra le province dell’odierna Croazia con il resto d’Europa in quel periodo. Componenti di spicco della selezione sono le oreficerie e alcune pregevoli sculture. Ma non sono da meno anche i documenti miniati, che fanno da elegante corollario a questo campionario di «meraviglie».

vanto del Ticino e di Roma nel primo terzo del Seicento, è noto quale uno dei piú rilevanti interpreti della tendenza naturalistica di tutto il secolo. Pittore ignorato dai suoi contemporanei, viene riscoperto e rivalutato dalla critica del Novecento che gli assegna finalmente il giusto posto nella costellazione dei piú importanti pittori della storia dell’arte in Italia. Si deve soprattutto al piú grande storico dell’arte italiano del secolo passato, Roberto Longhi, il merito di averlo valorizzato come uno

dei massimi rappresentanti del movimento caravaggesco definendolo «non soltanto il piú forte pittore del Canton Ticino, ma uno dei maggiori di tutto il Seicento italiano». A distanza di circa vent’anni dall’ultima monografica, la Pinacoteca Züst propone un’attenta retrospettiva dell’artista, affiancata da dipinti di suoi compagni di avventura figurativa, cosí da mostrare al pubblico come il fenomeno che oggi per semplificazione viene definito come «naturalismo» avesse preso piede nelle terre prealpine piú di quanto generalmente sino a ora sospettato. info tel. +41 (0)91 8164791; e-mail: decs-pinacoteca.zuest@ti. ch; www.ti.ch/zuest

info www.musee-moyenage.fr

rancate (Mendrisio) Serodine e brezza caravaggesca sulla «Regione dei laghi» U Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 13 gennaio 2013

Giovanni Serodine (1594/1600-1630), novembre

MEDIOEVO


roma Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese U Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2013

Conoscitore e mercante d’arte, Johannes Vermeer (1632-1675) si considerava soprattutto un pittore, eppure dipinse non piú di 50 quadri (oggi se ne conoscono solo 37). Lavorò solo su commissione e non realizzò mai piú di due o tre opere l’anno, il necessario per mantenere la moglie e gli undici figli: oggi è considerato tra i piú grandi pittori di tutti i tempi. Delle sue opere riconosciute autografe, nessuna appartiene a una collezione italiana e solo 26 dei suoi capolavori, conservati in 15 collezioni diverse, possono essere movimentati. Le Scuderie del Quirinale ne accolgono 8, dalle donne «ideali» alla celebre Stradina, affiancati da cinquanta capolavori degli artisti suoi contemporanei, tra cui Carel Fabritius e Nicolaes Maes, Gerard ter Borch, Pieter de Hooch, Gerrard Dou, Gabriel Metsu, Frans

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van Mieris e Jacob Ochtervelt. Vermeer è noto anche come il «Maestro della luce olandese» per la sua straordinaria capacità di descrivere la luce del cielo d’Olanda. Sembra, infatti, che dopo l’avanzata del terreno bonificato, il colore del cielo olandese sia cambiato, perché la luce non è stata piú riflessa verso l’alto dalle paludi e dai laghi. Questi dipinti, nei quali dominano il blu e il giallo, sono dunque una testimonianza preziosa per rivivere la delicata luminosità dei cieli olandesi. info e prenotazioni tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it

HAARLem Il michelangelo olandese. Cornelis van Haarlem (1562–1638) U Frans Hals Museum fino al 20 gennaio 2013

Ispirato dai grandi maestri italiani, primo fra tutti Michelangelo, Cornelis van Haarlem fece il suo apprendistato ad Amsterdam, per poi completare la sua formazione a Rouen e Anversa. Rientrò nella natia Haarlem a ventun anni, dopo aver fatto sua la lezione

manierista, di cui elaborò una personale interpretazione. Nelle sue grandi tele, rappresentò spesso temi fortemente drammatici, con toni molto decisi, sorprendendo l’osservatore con composizioni ricche di pathos e caratterizzate da colori violenti, grande espressività dei gesti e corpi di cui la nudità esalta la muscolatura possente. info www.franshalsmuseum.nl

teramo Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 e terzo fuoco. La collezione Matricardi U Pinacoteca Civica fino al 31 gennaio 2013 (prorogata)

L’esposizione presenta una selezione di 220 capolavori, realizzati tra il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni

famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e i Grue, che hanno reso famosa la maiolica castellana in tutto il mondo. La mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme, colori e motivi tipici di questa produzione, magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi. L’evento presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», che si deve all’ingegner Giuseppe Matricardi, il quale, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica. info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it zurigo Capitale. Mercanti a Venezia e Amsterdam U Museo Nazionale Svizzero fino al 17 febbraio 2013

La mostra ripercorre le origini del nostro sistema economico attuale, il capitalismo, nella storica

Repubblica marinara di Venezia e nell’«Età dell’oro» di Amsterdam. Venezia a partire dal XIII secolo e Amsterdam nel XVII secolo svolsero un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale dell’Occidente. I commercianti di allora inventarono forme di finanziamento, di credito e di commercio che sono tuttora in uso. Entrambe le città erano rivolte verso il mare, correvano rischi,

costruivano vascelli, praticavano il commercio a lunga distanza, subivano perdite ma ottenevano anche ingenti profitti. Con l’aumento del benessere e la nascita di una società borghese pre-moderna, per esempio ad Amsterdam, la cultura e lo sfarzo presero il sopravvento sul rischioso commercio a lunga distanza. Si iniziò cosí a investire nella cultura e nel lusso, decretando cosí la fine dell’epoca di massimo splendore di entrambe le città. Come la mostra suggerisce, ciò che sembra appartenere alla storia e lontano dalla nostra realtà si rivela invece di sorprendente attualità. info www.kapital. landesmuseum.ch

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agenda del mese milano Giovanni Bellini: dall’icona alla storia U Museo Poldi Pezzoli fino al 25 febbraio 2013 (dal 7 novembre)

umanistica del Cristo in Pietà, come testimoniano altre tre splendide opere provenienti da prestigiosi Musei italiani. Dipinti di precursori ed epigoni di Bellini nel Museo Poldi Pezzoli vengono per l’occasione accostati a questo nucleo centrale, per far comprendere al pubblico l’impatto che l’artista veneto ebbe non solo sulla pittura contemporanea, ma anche sul gusto e sulle diverse epoche. info www.museopoldipezzoli.it

La mostra ruota intorno a uno dei capolavori del Museo Poldi Pezzoli, l’Imago pietatis di Giovanni Bellini (1430 circa-1516), opera giovanile con la quale l’artista si misura con il tema della Pietà, partendo dal modello bizantino. Nel giro di pochi anni, tra la seconda metà degli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento, Bellini compí il passaggio dall’icona bizantina all’immagine pienamente rinascimentale-

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milano Costantino 313 d.c. U Palazzo Reale fino al 17 marzo 2013

La rassegna celebra l’anniversario dell’editto con cui, nel 313 d.C., Costantino dichiarava lecito il cristianesimo. Il percorso si articola in sei sezioni che approfondiscono tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Una sezione importante è dedicata a Elena,

madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa. Una parte consistente dell’itinerario espositivo è inoltre riservata alla rivoluzione politica e religiosa operata dall’imperatore, e sono attentamente analizzate anche le tre istituzioni protagoniste dell’età di Costantino: l’esercito, la chiesa e la corte imperiale. Ritratti, monete e oggetti documentano il nuovo aspetto pubblico dell’imperatore, della corte, dei grandi funzionari, dell’esercito, della Chiesa e dei suoi vescovi fino ad Ambrogio. Oggetti d’arte e di lusso appartenuti a personaggi dell’élite dell’impero o destinati alle chiese testimoniano il passaggio, nel corso del IV secolo, del cristianesimo da devozione lecita privata a una dimensione pubblica e ufficiale e, infine, a unica religione dell’impero. La mostra si chiude con una ricca rassegna di documenti e dipinti, che ricordano la santa imperatrice dall’età bizantina al Rinascimento, dalle pergamene del IX secolo ai quadri di grandi artisti del Rinascimento che testimoniano il culto trionfale della Croce, indissolubilmente legato alla scelta operata da Costantino nel 313.

info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket.it/costantino

Treviso Tibet. Tesori dal tetto del mondo U Casa dei Carraresi fino al 2 giugno 2013

La lunga storia del Tibet, segnata da avvenimenti di grande rilievo anche al di là dell’ambito locale, viene ripercorsa dalla nuova esposizione allestita in Casa dei Carraresi. A Treviso si possono ammirare oltre 300 oggetti e opere d’arte che coprono un vasto orizzonte cronologico. Il percorso si apre con l’inquadramento storico dell’altopiano, da quando Gengis Khan lo incluse nell’impero mongolo-cinese del XIII secolo. In questa sezione, oltre a mappe, carte geografiche e documenti storici, risultano di particolare interesse i doni che i vari Dalai Lama presentarono alla corte imperiale di Pechino e le statue del buddhismo tantrico al quale si convertirono gli imperatori Ming e Qing. Ampio spazio è quindi riservato alle numerose divinità buddhiste tibetane e alla

produzione di statue e dipinti a esse dedicati. Accanto alla statuaria, che tocca vette artistiche di notevole valore, sono esposti anche gli oggetti di culto tuttora usati nei monasteri e nei templi. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata alle Tangke, i dipinti sacri che, oltre a rappresentare le storie del principe Siddharta – il Buddha storico – celebrano la ritualità nei monasteri e nei templi con la raffigurazione dei Dalai Lama e dei monaci. L’epilogo è infine affidato alle maschere divinatorie indossate dai monaci nelle danze rituali e al ricco patrimonio folklorico del popolo tibetano. info tel. 0422 513150; www.laviadellaseta.info Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 23 giugno 2013

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati dai maestri dell’arte del fuoco tra la metà del Trecento e il

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Cinquecento. Ma la mostra non è solo questo: gli scavi hanno restituito utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi, ricostruendo uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobo. beniculturali.it

Appuntamenti Firenze Florens 2012 dal 3 all’11 novembre

Il programma della seconda edizione della Biennale Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali prevede il Forum Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali, convegni e dibattiti; lectio magistralis; mostre; appuntamenti musicali. Tutti gli eventi sono gratuiti e aperti al pubblico e coinvolgono l’intera città, dai luoghi

del sacro (Battistero, Cattedrale) a quelli delle istituzioni civiche (Palazzo Vecchio), dalle piazze (piazza Santa Croce, piazza San Giovanni) ai Musei, all’Università. Florens 2012 può essere seguita anche in diretta streaming, con possibilità di intervenire con contributi tramite diversi social network e l’animazione di 57 blogger da tutto il mondo. info www.florens2012.it Torino DOMENICHE AL CASTELLO. Fiori d’autunno nel giardino di Palazzo Madama 18 novembre e 16 dicembre

Il Giardino del Castello

apre le porte al pubblico e offre la possibilità di avvicinarsi alle piante coltivate

proprio nel cuore della città. Con i volontari del progetto Senior Civico della Città di Torino, è


agenda del mese possibile acquistare piante aromatiche e ornamentali prodotte nel vivaio del Borgo Medievale, partecipare ad attività pratiche di giardinaggio e conoscere meglio le aiuole tematiche dell’orto con piante medicinali, utili, magiche, alimentari. L’ingresso costa 1 euro per gli adulti e i fondi raccolti serviranno per la cura e la gestione dello spazio verde. Il giardino di Palazzo Madama è una ricostruzione del giardino medievale del castello di Torino: le tre zone in cui è articolato – giardino del principe, orto e boschetto – riprendono fedelmente la partizione del XV secolo, a noi nota grazie a preziosi documenti d’archivio

che descrivono il cantiere del castello e la realizzazione del giardino (1402-1415). Per la partecipazione alle attività è gradita la prenotazione. info e prenotazioni tel. 011 4429911 (lu-ve, 9,00-16,00); e-mail: madamadidattica@ fondazionetorinomusei.it; www. fondazionetorinomusei.it

Terre di Siena Autunno al Museo 2012 fino al 25 novembre

Torna l’iniziativa volta a favorire la conoscenza dello straordinario patrimonio custodito nei musei della provincia di Siena. Fino al 25 novembre, cittadini e turisti potranno approfittare di un ricco calendario di appuntamenti per

vivere appieno i 43 musei diffusi nelle Terre di Siena. Nei fine settimana, è possibile scoprire i tesori del sistema museale senese, accompagnati dagli allievi del corso per guida turistica, formati dall’Istituto Dante Alighieri. E, per sottolineare il legame tra museo e territorio, molti appuntamenti sono stati pensati in concomitanza con eventi culturali e festività della tradizione legate alla cultura contadina o al folklore locale. Le suggestioni del Chianti sono protagoniste nel week end del 10 e 11 novembre, con il Museo del paesaggio di Castelunovo Berardenga e il Museo Archeologico di Castellina in Chianti

sede di Chianti d’Autunno e San Giovanni d’Asso, dove si rinnova la mostra mercato del tartufo Bianco delle Crete senesi. Sabato 17 novembre, a Chianciano Terme i visitatori del

Museo Civico Archeologico potranno godersi un tè con gli Etruschi, mentre a Colle val d’Elsa il Museo Civico e Diocesano, il Museo del Cristallo e il Museo Archeologico si vestiranno di musica.

appuntamenti • «Oltre le icone» con la Sezione Didattica del Polo Museale Fiorentino U Firenze - Polo Museale Fiorentino

fino a gennaio 2013 info tel. 055 284272; fax 055 2388680; e-mail: didattica@polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it/didattica

L

a Sezione Didattica del Polo Museale Fiorentino vara due nuove iniziative – «Visti da vicino» e «Autunno ad arte» –, piú una terza – «Un museo al mese» –, già sperimentata con successo. Le prime due iniziative si rivolgono al pubblico adulto, con un abbinamento ponderato tra grandi pinacoteche «centrali» e realtà museali legate al territorio, come le ville e i cenacoli. Entrambe nascono dalla convinzione che sia compito del servizio educativo estendere il proprio impegno in programmi che vadano oltre la scuola. Nella mentalità corrente, infatti, si va consolidando l’abitudine a pensare il museo come uno splendido contenitore di «icone», cioè immagini-simbolo, totem, opere d’arte che si devono vedere durante una visita, generalmente di breve durata, senza possibilità di altre divagazioni. Con i due progetti prende il via un esperimento: provare a «migliorare» questa mentalità, spostando l’attenzione dall’«icona» ai molti capolavori meno noti. Infatti vedere non equivale a osservare, cosa che invece implica un appropriarsi di ciò che si vede, sia con i sensi, sia con il pensiero. L’obiettivo è proprio questo: accompagnare il visitatore in un percorso che lo porti «dal vedere

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Chiude gli appuntamenti, il 24 e il 25 novembre, il Museo dell’antica Grancia e dell’Olio di Serre di Rapolano, che attende i visitatori in occasione di Crete d’Autunno. info tel. 0577 530164; www.museisenesi.org Bassano del Grappa (VI) Fantastico Medioevo. Simboli e simbologie dell’età di mezzo U Istituto Scalabrini fino al 23 marzo 2013

Il Centro Studi Medievali Ponzio di Cluny ha dedicato il

suo XV corso di storia medievale agli aspetti simbolici e fantastici del mondo medievale. Le conferenze sono in programma il 3 e il 24 novembre, il 15 dicembre, il 12 e il 26 gennaio 2013, il 9 e il 23 febbraio 2013, e il 9 marzo e il 23 marzo 2013, con inizio alle ore 17,30. Per la partecipazione, è prevista una quota di iscrizione. info tel. 0444 965129 (Marco Ferrero); e-mail info@ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny. it; www.ponziodicluny.it

all’osservare», fornendogli gli strumenti per capire i tanti significati e i molteplici messaggi che un’opera d’arte è capace di trasmettere a ciascuno. Il visitatore si sentirà accolto e ascoltato, grazie a un approccio comunicativo e colloquiale proprio del metodo del nostro servizio educativo, arrivando a scoprire la bellezza, il fascino, e l’importanza storico artistica che ogni opera d’arte, anche se non è tra le piú note, possiede. «Visti da vicino» è in programma, ogni sabato, fino a gennaio 2013. Davanti a un’opera di volta in volta diversa, i visitatori troveranno un operatore formato dalla Sezione Didattica che fornirà loro un approfondimento anche in lingua inglese. I percorsi di «Autunno ad arte» sono invece in programma fino a dicembre, con appuntamenti nei cenacoli fiorentini (Ognissanti, Andrea del Sarto, e Sant’Apollonia) e nella sala del Perugino a S. M. Maddalena de’ Pazzi. La terza iniziativa, «Un museo al mese», è una conferma e propone alle famiglie un programma di incontri domenicali: un operatore affiancherà i bambini che effettueranno un percorso nel palazzo trecentesco. Per partecipare è obbligatoria la prenotazione presso la Sezione Didattica.

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battaglie cortenuova

L’imperatore Federico II, particolare dal ciclo affrescato nel Salone Baronale del Castello della Manta, in provincia di Cuneo. 1420 circa.


27 novembre 1237

La vendetta di Federico

di Francesco Colotta

«Travolgete con il vostro furore codesti ratti, che hanno osato uscire dalle loro tane. Che provino oggi le lance folgoranti dell’imperatore romano»: con queste parole, riportate dal cronista Matteo Paris, Federico II esortò i suoi uomini quando, presso Cortenuova, li lanciò contro le truppe della Lega Lombarda. Alla violenta esortazione fece seguito una vittoria clamorosa, con la quale lo stupor mundi lavò l’onta subita, cento anni prima, dal suo illustre avo, Federico Barbarossa

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no dei capitoli piú sanguinosi della storia dei conflitti tra Comuni e Sacro Romano Impero fu scritto nel novembre del 1237, presso Cortenuova, nel Bergamasco. In quell’autunno si consumò una vera e propria rivincita della battaglia di Legnano che, nel 1176, aveva costretto Federico Barbarossa alla resa contro le truppe della Lega Lombarda, con la benedizione di papa Alessandro III (vedi box a p. 30). Il sovrano, che ambiva a unire l’Italia sotto il controllo di un forte potere centralizzato, si era dovuto piegare alla richiesta di autonomia delle città del Nord, dirottando in seguito le sue mire altrove. Il suo progetto di importare il modello germanico di burocrazia statale nella Penisola era rimasto, quindi, incompiuto, ma riprese vigore pochi anni piú tardi nei propositi strategici del nipote Federico II. L’ascesa al trono imperiale di quest’ultimo minacciò nuovamente le città del Settentrione e le loro conquiste sul piano dell’autogoverno comunale. E si sentí in pericolo anche la Chiesa di Roma che, ironia della sorte, aveva contribuito in modo decisivo all’affermazione politica del monarca svevo.

Il pontefice come tutore

Papa Lotario dei Conti di Segni, eletto con il nome di Innocenzo III, aveva lanciato Federico II nella lotta alla corona imperiale. In precedenza, il pontefice lo aveva

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Le truppe ghibelline di Federico II, particolare di una miniatura raffigurante la battaglia di Cortenuova – combattuta nel 1237 contro l’esercito della Lega Lombarda –, dal Codice Chigi, manoscritto figurato della Nuova Cronica di Giovanni Villani. Seconda metà del XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

«adottato», facendogli da tutore su invito della madre del giovane nobile, Costanza, rimasta vedova dopo la morte di re Enrico VI. Favorendo l’ascesa del ragazzo, Innocenzo III sperava di avere assicurato alla Chiesa un potente alleato per il futuro, ma si trovò presto di fronte un nemico insidiosissimo. Tuttavia, l’obiettivo principale di Federico non era la guerra contro il papato: sebbene di indole ghibellina, come nota lo storico Ludovico Gatto «sarebbe difficile non collocare colui che fu definito lo stupor mundi nell’ambito della tradizione cristiana, la medesima della sua famiglia e della società medievale in cui egli visse e operò». Non a caso il sovrano, divenuto imperatore, aveva dato la sua disponibilità a partecipare alla crociata in Terra Santa, su sollecitazione del nuovo pontefice, Ono-

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battaglie cortenuova

Federico II e Gregorio IX, pontefice che scomunicò l’imperatore due volte. Miniatura da un manoscritto del XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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In basso il ritratto di Hermann von Salza (1179 circa-1239), Gran Maestro dell’Ordine Teutonico e uomo di fiducia di Federico II.

rio III, un invito piú volte disatteso. Federico ambiva soprattutto a estendere la propria autorità sull’intero territorio italiano, a scapito dei potenti Comuni e passò subito all’azione, imponendo un controllo amministrativo sul centro-nord della Penisola: cinque vicariati sotto una rigorosa supervisione imperiale, a cui spettava anche il compito di avallare la nomina dei giudici. Il provvedimento, in sostanza, annullava gran parte delle conquiste delle città lombarde ottenute con la pace di Costanza del 1183, che aveva sancito i nuovi equilibri maturati dopo la battaglia di Legnano.

La nuova Lega Lombarda

L’impresa di Federico si annunciava ben piú ardua di quella, peraltro fallita, del nonno: in sessant’anni i Comuni si erano rafforzati, al Sud la situazione del regno di Sicilia appariva difficile, con sacche di resistenza da piegare, e, inoltre, il papato possedeva strumenti politici piú efficaci rispetto all’epoca di Alessandro III. L’imperatore, a ogni modo, non si fece scoraggiare e nel 1226 indisse una dieta a Cremona, convocando tutti i rappresentanti delle città soggette al suo dominio. Si trattava di un atto di forza, volto a spiazzare i suoi interlocutori, a intimidirli, sfruttando il fattore sorpresa, con una tattica che da comandante utilizzò poi nelle sue campagne militari. Alcuni disertarono l’appello di Cremona, soprattutto i Comuni della seconda Lega Lombarda, di fresca costituzione, alla quale avevano aderito Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Bergamo, Torino, Vicenza, Padova e Treviso. Successivamente anche Piacenza, Verona, Vercelli, Lodi, Faenza, Crema, Alessandria e Ferrara confluirono nella nuova alleanza. I ribelli del Nord si mobilitarono subito, bloccando i valichi sulle Alpi e gli accessi dal Veneto, in modo da tagliare i rifornimenti all’imperatore. Nel frattempo anche il pontefice – il neoeletto Gregorio IX – era sceso sul piede di guerra, scomunicando Federico per la sua mancata partecipazione alla sesta crociata. Il papa, poi, si adirò ancor di piú per il fatto che il sovrano, giunto finalmente in Terra Santa, aveva preferito accordarsi con i musulmani invece di attaccarli. Per ragioni di opportunità politica, Gregorio tornò presto sui suoi passi: a Roma il clima era turbolento e la Chiesa, non riuscendo ad affermare da sola la propria autorità sull’Urbe, necessitava di un alleato forte. La tregua si estese anche al conflitto tra la Lega Lombarda e l’imperatore, ma fu di breve durata: Federico riprese la sua battaglia politica rientrando nel 1234 in Germania, per piegare la ribellio-

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ne del figlio Enrico che si era accordato con le città della Lega, poi tornò subito in Italia pronto a imporre con le armi il suo ambizioso progetto. Le ultime speranze per evitare un conflitto tra Comuni e impero erano riposte nel pontefice, sempre interessato a coinvolgere il sovrano svevo nelle missioni militari in Terra Santa; il fallimento dell’azione diplomatica papale segnò l’inizio degli scontri armati. Federico fece la prima mossa, nell’autunno del 1236, attaccando i territori della Lega Lombarda dopo aver pronunciato la celebre frase «i pellegrini e i viandanti possono liberamente andare ovunque; non potrò dunque io, l’imperatore, avventurarmi nelle terre dell’impero?». Le sue truppe effettuarono incursioni nei territori di Mantova e Brescia, poi puntarono su Vicenza, saccheggiandola. Ma non andarono oltre, cedendo il passo alla diplomazia, nel tentativo di evitare battaglie ben piú sanguinose. Ancora una volta fu Gregorio IX ad assumere il ruolo principale di mediatore, convocando una dieta a Brescia nel 1237, alla quale parteciparono i legati di tutte le parti in lotta. Qualsiasi accordo, tuttavia, risultò arduo da sottoscrivere, a causa delle pesanti richieste degli imperiali rappresentati in quel consesso dal Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, Hermann von Salza, e dal cancelliere Pier Della Vigna: se i Comuni volevano evitare l’invasione dell’esercito di Federico avrebbero dovuto sciogliere subito la Lega Lombarda con la promessa di non ricostituirla mai piú.

Brescia l’inespugnabile

Una nuova Legnano era nell’aria e Federico si preparò alla battaglia allestendo un’armata imponente. Dalla Germania portò 2000 cavalieri d’élite, molti dei quali appartenenti all’Ordine Teutonico, e stabilí il suo quartier generale a Verona. Nella città veneta confluirono anche i rinforzi italiani, sotto la guida di Ezzelino III da Romano, quelli provenienti dalle storiche città ghibelline come Pavia, Modena, Parma, Cremona e Reggio Emilia, oltre ai contingenti del regno di Sicilia. In totale l’imperatore poteva contare su un esercito di circa 15 000 effettivi, mentre sul versante nemico le unità arruolate erano in numero inferiore, meno di 10 000 unità. Due importanti Comuni della Lega, Bergamo e Mantova, si arresero ancor prima di incrociare le armi. Cosí non fece Brescia che, nell’ottobre del 1237, oppose una strenua resistenza all’assedio, potendo contare su alcuni reparti accorsi da Milano. La città restò alla fine inviolata grazie alla valorosa azione di 1500 fanti e di una ventina di cavalieri che riuscirono a trattenere per due settimane i militari di Federico all’altezza di Montichiari, dando modo alle truppe della Lega di asserragliarsi a difesa dei Bresciani. L’esercito lombardo era giunto al

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battaglie cortenuova

legnano

La disfatta dell’imperatore Federico Barbarossa sfidò i Comuni del Nord Italia prima con la Constitutio de regalibus del 1158, che concentrava i poteri di governo, soprattutto in materia fiscale, nelle mani dell’imperatore. Poi passò a misure piú drastiche, distruggendo Milano nel 1162. Le città minacciate dal Barbarossa si riunirono a Pontida, costituendo la Lega Lombarda che, in previsione dello scontro con il sovrano germanico, allestí un’armata di circa 12 000 uomini sotto il patrocinio di papa Alessandro III. La battaglia avvenne presso Legnano nel 1176 e

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sembrò all’inizio favorevole alle truppe di Federico, in inferiorità numerica. Ben presto, però, il muro dei fanti dei Comuni, disposto su quattro file, impedí agli avversari di far breccia nel cuore dello schieramento, dove era custodito il Carroccio (carro militare considerato il simbolo della libertà comunale: l’asta centrale terminava in una croce, sotto la quale sventolava la bandiera del Comune, e componente essenziale era anche la martinella, cioè la campana che dava il segnale della battaglia, n.d.r.). I soldati del Barbarossa, respinti

dagli scudi dovettero, poi, difendersi dal ritorno dei cavalieri della Lega. Una tradizione leggendaria riporta le gesta della «Compagnia della morte» guidata da Alberto da Giussano, un nucleo di 900 cavalieri che avrebbe avuto un ruolo determinante nella vittoria dei Comuni. L’imperatore che combatteva a ridosso della prima fila rischiò di morire sul campo di battaglia, ma alla fine fuggí con quel che restava del suo esercito. La disfatta fu totale e i Comuni ottennero di nuovo la loro autonomia. novembre

MEDIOEVO


Cronologia

L’impero contro i Comuni

La battaglia di Legnano, dipinto di Amos Cassioli (1832-1891). 1860-1870. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.

1152 Federico Barbarossa è eletto re di Germania. Alla dieta, convocata dall’imperatore a Costanza, inviati di Lodi chiedono protezione, lamentando la prepotenza di Milano. 1154 Prima discesa in Italia di Federico. 1155 Federico è incoronato re d’Italia a Monza e poi imperatore, a Roma, da Adriano IV. 1158 Seconda discesa in Italia di Federico e dieta di Roncaglia; imposizione delle prerogative imperiali (regalie) ai Comuni. 1158-1162 Guerra dell’imperatore contro i Comuni ribelli della Lombardia. Nel 1160 viene distrutta Crema; nel 1162, dopo un lungo assedio, Milano è rasa al suolo. 1159 Elezione di papa Alessandro III, al quale una minoranza, sostenuta dai rappresentanti imperiali, oppone l’antipapa Vittore IV. 1164 Formazione della Lega Veronese (Verona, Padova, Vicenza e Treviso) 1167 Formazione della Lega Cremonese (Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova). Ricostruzione di Milano. 1167 Giuramento di Pontida e nascita della Lega Lombarda. 1168 L’esercito imperiale, decimato da un’epidemia, è costretto a riparare in Germania. Fondazione della città di Alessandria. 1175 Assedio fallito di Alessandria da parte dell’imperatore. 1176 Battaglia di Legnano; vittoria di Milano sull’esercito imperiale. 1177 Pace di Venezia tra Federico Barbarossa e papa Alessandro III, che l’imperatore riconosce come solo pontefice legittimo. 1183 Pace di Costanza tra l’imperatore e i Comuni. 1190 Morte di Federico Barbarossa, annegato in Cilicia durante la terza crociata. 1226 Ricostituzione della Lega Lombarda contro l’imperatore Federico II. 1237 Battaglia di Cortenuova; vittoria di Federico II sui Milanesi. 1248 Disfatta delle truppe di Federico II sotto le mura di Parma. 1250 Morte dell’imperatore Federico II. La Lega Lombarda non verrà piú rinnovata.

completo, con il Carroccio scortato dalla «Compagnia dei Forti», i fedelissimi addetti alla sua difesa. La fallita presa di Brescia non scoraggiò Federico, che diede ordine ai suoi uomini di accamparsi sulle sponde dell’Oglio, a Pontevico, non lontano da Cremona. I soldati della Lega, volendo evitare lo scontro in campo aperto, scelsero una postazione prudente, tale da permettere soltanto la difesa delle loro principali roccaforti. Si attestarono a Manerbio, in una zona paludosa, poco piú a nord di Pontevico. Tutto lasciava presagire un’imminente offensiva degli imperiali che, invece, il 23 novembre decisero di levare le tende e tornarono in territorio ghibellino. Si trattava di una ritirata strategica o della fine ufficiale della missione? Molti interpretano quell’improvviso ripiegamento come una trappola tesa agli avversari, in linea con le tesi propagandistiche filo-federiciane del

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novembre

Duecento. Ma fu quella davvero l’intenzione dell’imperatore? O forse voleva davvero smobilitare e in itinere si rese conto che la ritirata poteva offrirgli l’occasione di un assalto a sorpresa?

Il lento ritorno verso Milano

Tra le file dell’armata dei Comuni circolava la voce che il sovrano germanico si fosse stabilito a Cremona per trascorrervi l’inverno. L’esercito lombardo diede credito a quelle indiscrezioni e si adeguò all’inaspettata decisione dei nemici, ripiegando verso Milano. La marcia dell’armata della Lega procedette a rilento, transitando per Lograto, Chiari, Palazzolo e Pontoglio, alla ricerca del punto ideale per attraversare l’Oglio. Le truppe avanzavano ignare di quanto accadeva a poca distanza dalle proprie linee.

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battaglie cortenuova Federico non era lontano e meditava di compiere un’aggressione fulminea. Per questo fece stanziare i suoi soldati a Soncino, un luogo strategico perfetto per osservare da vicino le mosse avversarie. Dalla cittadina era possibile controllare Cortenuova, snodo fondamentale per chi da quella zona si dirigeva verso Milano. Avendo arruolato reparti che stavano giungendo da Bergamo, l’imperatore contava di attaccare da piú direzioni, stringendo l’armata dei Comuni in una morsa.

Massacro all’alba

Quando l’esercito della Lega arrivò nei pressi di Cortenuova, fu notato proprio dai Bergamaschi (appostati nella vicinissima Cividate al Piano), che avvisarono immediatamente Federico attraverso alcuni convenuti segnali di fumo. Era il momento propizio per attaccare e, nel pomeriggio del 27 novembre 1237, il sovrano puntò verso Cortenuova. Giunto a destinazione, ordinò ai suoi uomini di passare subito all’azione, senza disporli in modo strategico sul campo. Per prima partí la cavalleria con l’ausilio di una pioggia di frecce scagliate da un battaglione di Saraceni. L’armata lombarda fu colta di sorpresa mentre si stava accampando e non poté opporre una valida difesa: gli uomini della Lega sembravano non avere scampo e, nel caos generale, finirono anche per scontrarsi fra loro nel tentativo di ripiegare. Visto il favorevole andamento dell’assalto, il sovrano tedesco lanciò nella mischia anche la fanteria per completare il massacro prima dell’arrivo della notte. L’ultima resistenza degli assediati si attestò disperata-

mente attorno al Carroccio e riuscí a non capitolare sotto la pressione dei soldati federiciani, che durante i loro tentativi di sfondamento gridavano «Roma guerriera! L’imperatore guerriero!». Federico, impaziente di dare il colpo di grazia all’avversario, obbligò il suo contingente a dormire con indosso le armature in modo da poter dare l’assalto alle prime luci dell’alba. Per i militari lombardi, ormai orfani del loro comandante Tiepolo caduto in mani ghibelline, non c’era altra soluzione che la fuga. E nella notte si ritirarono rinunciando a portare con sé il Carroccio (o parte di esso secondo alcuni storici), che con il terreno paludoso avrebbe rallentato il loro cammino. La mattina del 28 novembre l’armata di Federico si impossessò di Cortenuova e, non paga della conquista, sterminò i soldati della Lega dopo averli inseguiti per chilometri. La fuga degli sconfitti, infatti, si era rivelata difficoltosa anche senza il peso del Carroccio a causa delle piogge novembrine che avevano trasformato Un tratto dell’Oglio, nel territorio presso cui si svolse la battaglia di Cortenuova. Con la vittoria, Federico II vendicò la sconfitta di Legnano, segnando il declino della Lega Lombarda.

Replica della spada in legno, oro, smalti e pietre preziose, realizzata a Palermo nel XIII sec. per l’incoronazione di Federico II a sovrano del Sacro Romano Impero. La cerimonia, presieduta da papa Onorio III, si svolse nella basilica di S. Pietro a Roma, il 22 novembre del 1220. Aquisgrana, SuermondtLudwig-Museum. Sul fodero è raffigurato lo stemma della casata sveva: un’aquila nera ad ali spiegate su fondo oro.

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SVIZZERA TRENTINOALTO ADIGE

Lago Maggiore

Lago di Como

Varese

Lago di Garda

PIEMONTE

Bergamo Monza

Lumezzane

Campo ghibellino

Cortenuova C Brescia

Milano

attacco a sorpresa

Il 23 novembre Federico smobilitò le sue truppe, accampate a Pontevico, attraversò l’Oglio e passò in territorio ghibellino, dando l’impressione di voler porre fine alla campagna.

VENETO

Vigevano Pavia

Pontoglio Ci Cortenuova

Pianura Padana

Cremona

vi

Mantova

da Chiari te al Pi an o

Rivolta

Voghera

EMILIA-ROMAGNA

Guelfi

Palazzolo

Ghisalba

Crema

Ghibellini

Campo guelfo

Brescia Lograto

Soncino

Montichiari Manerbio

il terreno in una palude quasi impraticabile e accresciuto, inoltre, il livello dell’Oglio. In molti caddero sotto i colpi degli imperiali, altri affogarono nelle acque gelide del fiume. Secondo stime approssimative, tra gli sconfitti i caduti furono quasi 5000, piú della metà dell’intero esercito. La minoranza superstite finí nelle mani nemiche

Lodi Pontevico

▲ Da Manerbio, l’esercito lombardo si mise in marcia verso nord per fare ritorno a Milano. Intanto da Soncino l’imperatore teneva sotto osservazione Cortenuova, punto di passaggio obbligato per la Lega, trovandosi nella posizione ideale per chiudere in una tenaglia gli avversari in ritirata. Ghisalba Cortenuova

Palazzolo Pontoglio Cividate al Piano

Brescia

Chiari

Rivolta

Lograto Soncino

Montichiari Manerbio

Lodi Pontevico

▲ La mattina del 27 novembre, l’esercito della Lega attraversò l’Oglio presso Cortenuova. Il contingente bergamasco di Federico, posizionato a Cividate al Piano, avvertí l’imperatore che da Soncino si mosse immediatamente verso nord. Palazzolo Pontoglio

Ghisalba Cortenuova Rivolta

Ci

vi

da Chiari te al Pi an o

Brescia Lograto

Soncino

Montichiari Manerbio

Lodi Pontevico

▲ Arrivato presso Cortenuova, Federico mandò all’attacco la cavalleria, fiancheggiata da un battaglione di Saraceni, sorprendendo i nemici mentre si accampavano.

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battaglie cortenuova e non si sa quanti sopravvissero alla prigionia. L’imperatore, però, commise un errore strategico che finí poi con il pagare: i suoi soldati, lanciati all’inseguimento dei fuggitivi, erano arrivati a pochi chilometri da Milano che, in quel momento, risultava sguarnita di difese.

L’oltraggio ai danni del doge

Federico, insomma, poteva conquistare la capitale della Lega con il minimo sforzo, ma non diede l’ordine di farlo. Si accontentò del trionfo di Cortenuova, celebrandolo con grandi feste, in particolare con un fastoso corteo che si svolse a Cremona il 1° dicembre. Dopo aver messo pubblicamente alla berlina il comandante nemico sconfitto, Pietro Tiepolo, lo fece giustiziare, provocando la dura reazione della Repubblica di Venezia, dal momento che si trattava del figlio del doge. Con la vittoria di Cortenuova Federico II riuscí ad assoggettare il Nord d’Italia, «ven-

La celebrazione del trionfo Federico II celebrò la vittoria di Cortenuova in modo fastoso a Cremona il 1° dicembre 1237. Dispose di far sfilare per le strade della città il Carroccio trainato da un elefante addobbato a festa. Sopra il baldacchinosimbolo della Lega Lombarda fu legato il grande sconfitto della battaglia di Cortenuova, il comandante Pietro Tiepolo. Lo stesso spettacolo fu replicato in altre città con un mulo al posto dell’elefante. Tiepolo venne poi deportato in Puglia e morí a Trani sul patibolo.

A sinistra la torre campanaria chiamata comunemente «Torrazzo». XIII sec. È il simbolo di Cremona, città di tradizione ghibellina. Nella pagina accanto Federico II entra trionfalmente a Cremona, dopo la battaglia di Cortenuova. Miniatura dal Codice Chigi. Seconda metà del XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Dietro i prigionieri, il Carroccio, emblema della Lega Lombarda.


Il Carroccio

Un regalo speciale Dopo la vittoria di Cortenuova e la fine delle relative celebrazioni, Federico II decise di inviare a Roma nel 1238 il Carroccio come omaggio, o piú probabilmente come provocazione, al papa. Il sovrano con quel gesto simbolico annunciava il ritorno dei fasti della gloriosa Roma imperiale, come testimoniato dalla sua lettera di accompagnamento. Federico raccomandava ai Romani di custodire con cura il prezioso dono che aveva inviato, perché, in caso contrario, sarebbe intervenuto con durissime rappresaglie. L’arrivo del carro fu accolto trionfalmente dai militanti del partito ghibellino dell’Urbe e anche da qualche cardinale con particolari simpatie federiciane. Venne, quindi, esposto in Campidoglio dove restò per diversi anni. Secondo il cronista religioso Salimbene de Adam, il Carroccio fu, in seguito, bruciato dai guelfi romani in segno di oltraggio all’imperatore. La storiografia moderna ha espresso qualche dubbio su questa versione e ritiene che il baldacchino subí la sorte di tante reliquie scomparse a causa del trascorrere dei secoli. Tuttora in Campidoglio esiste una Sala del Carroccio che riporta un’iscrizione su una barra di marmo a testimonianza di quell’omaggio alla città di Roma da parte del vincitore della battaglia di Cortenuova.

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dicando» in modo simbolico la sconfitta patita dall’avo Barbarossa nella battaglia di Legnano. La Lega Lombarda subí un colpo durissimo e i suoi Comuni furono costretti alla resa totale o, nella migliore delle ipotesi, a strappare condizioni favorevoli di pace in accordi separati. Presto, però, la situazione politica si rovesciò. Certo di poter ripetere l’exploit del novembre 1237, l’imperatore cinse d’assedio senza successo Milano e Brescia, la cui resistenza galvanizzò di nuovo il fronte guelfo. Nel 1239 Federico si trovò a fronteggiare anche la «controffensiva» di papa Gregorio IX, il quale lo scomunicò per la seconda volta. Tra dissidi e riconciliazioni strategiche i rapporti del monarca con la Chiesa conobbero il loro punto piú basso con l’avvento di Innocenzo IV, il pontefice che ebbe il coraggio di deporre Federico nel 1245. Per il sovrano, sempre piú solo, arrivò anche la capitolazione sul campo, appena due anni dopo, prima a Parma e in seguito a Fossalta per mano dei guelfi bolognesi. Cortenuova era lontana e l’Italia del Nord si preparava a combattere nuovi nemici. F

Da leggere U Riccardo Caproni, La battaglia di Cortenuova, Biblioteca

comunale di Cortenuova, Cortenuova (BG), 1987 U Andrea Frediani, Le grandi battaglie del Medioevo, Newton

Compton, Roma 2006 U David Abulafia, Federico II, Einaudi, Milano 2006 U Mariateresa Fumagalli, Beonio Brocchieri, Federico II,

Laterza, Bari 2006

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archeologia montefiore conca

Un

Guastafamiglia di Simone Biondi

a corte

Chissà quale fu la ragione del curioso nome di quel nobile Malatesta che divenne signore della rocca di Montefiore, grazie a un atto concesso dal potentissimo cardinale Albornoz nel 1355. Certo è che l’imponente fortificazione – oggetto di recenti esplorazioni archeologiche – val bene una visita; anche per scoprire che, già nel Basso Medioevo, esisteva la… «raccolta differenziata»

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R R

omagna, entroterra di Rimini. Su un terrazzo af- teusi al Capitolo della Cattedrale di Rimini. La costrufacciato sul mare, cantato da Ludovico Ariosto zione dell’imponente fortezza, innalzata a dominio e nell’Orlando Furioso, posto a guardia del confi- difesa della strada che collegava Rimini a Urbino, ebne con le Marche, si apre Montefiore Conca. Protetta be però inizio solo nella prima metà del XIV secolo. Le dalle sue mura di pietra gialla, circondata da boschi di origini della fabbrica della rocca sono state ricostruiquerce e cullata dalle nuvole, si staglia verso il cielo la te per la prima volta nei primi anni del Seicento dallo Rocca medievale, il simbolo per eccellenza del potere storico riminese Cesare Clementini (1561-1624), che, malatestiano di tutta la Valconca. per farlo, utilizzò un documento Le cinte murarie e le torri di guarda lui rintracciato presso l’archivio dia racchiudono i simboli e i luoghi comunale di Montefiore, il «Regidelle alterne vicende dei Malatesta stro di lettere dei Malatesti». Da che qui presero dimora, dipanate questo documento, andato perdufra matrimoni e congiure, incoroto durante gli anni della seconda nazioni e delitti. guerra mondiale, sappiamo che la Cosí, ogni anno, centinaia di Rocca attuale fu edificata attorno visitatori, richiamati dal fascial 1340 da Guastafamiglia Malano delle geometrie della Rocca e testa (1299 circa-1364), ampliata dall’imponenza dell’edificio, perdai figli Pandolfo II (1325-1378) e corrono le vie del borgo storico. Galeotto (1327-1372), detto «l’UnAppena giunti in paese, si è acgaro» perché nominato nel 1347 colti dall’arco d’ingresso al borgo, cavaliere dal re d’Ungheria Luigi detto Porta Curina (XIV-XV secoI d’Angiò, e successivamente ablo), in cui sono murati gli stemmi bellita e sviluppata da Sigismondo del pontefice Pio II Piccolomini e Pandolfo (1417-1468), nipote di del cardinale Fonteguerri. Si sale Pandolfo II. I Malatesta, nella perL’emblema di famiglia poi lungo la strada di pietra afsona del Guastafamiglia, divenLo stemma dei Malatesta, uno scudo a fiancando la chiesa trecentesca di nero però ufficialmente signori di bande trasversali a scacchiera, con elmo S. Paolo per incrociare poco oltre, In basso una veduta di Porta Curina, a pennacchio, posto all’ingresso del sulla sinistra, la bottega del vasal’antico ingresso al borgo di Montefiore. palatium, il cortile interno del castello. io, l’antico laboratorio artigiano della famiglia Franchetti.

La vedetta di Montefiore

Proseguendo lungo il percorso che porta alla Rocca, si raggiunge il cosiddetto «muro grosso di ponente», una solida cortina che, appoggiata su due torri quadrate, univa la prima cinta muraria all’ultima, con il duplice scopo difensivo e di collegamento fra il castello e la campagna. L’accesso è possibile passando sotto la porta a saracinesca; si sale quindi per una breve scalinata che consente, superato anche l’ultimo giro di mura, di giungere al castello. Qui una porta sormontata dallo stemma dei Malatesta permette l’ingresso al palatium, il cortile interno del castello. L’accesso è sorvegliato ancora oggi da una piccola civetta scolpita nella pietra, nello spigolo delle mura, messa a protezione del forte. Un simbolo di buona fortuna per chi entra in pace e di cattivo presagio per i nemici. La prima notizia del castrum Montisfloris risale al 1170, quando papa Alessandro III lo concesse in enfiNella pagina accanto veduta aerea della Rocca Malatestiana e del borgo di Montefiore, nell’entroterra riminese. La Rocca fu costruita da Guastafamiglia Malatesta (1299 circa-1364) e ampliata dai figli Pandolfo II e Galeotto. In alto, un piatto da esposizione in maiolica istoriata a tema erotico, con un satiro a pesca. Inizio del XVI sec. Montefiore Conca, Rocca Malatestiana.

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archeologia montefiore conca Montefiore con un atto dell’8 luglio 1355, concesso dal potentissimo cardinale Albornoz in seguito alla bolla di papa Innocenzo VI, emessa ad Avignone il 20 giugno dello stesso anno, con la quale si concedeva alla loro famiglia il vicariato di Rimini e del suo contado. Le successive vicende del castello sono molto complesse, soprattutto per quel che riguarda il controllo politico del centro. Nei secoli XV e XVI fu oggetto di passaggi di potere quasi continui fra i Malatesta, i Montefeltro (che lo occuparono per la prima volta nel 1458) e la Santa Sede, che lo detenne pressoché ininterrottamente, fatte salvo alcune piccole parentesi, sino all’Unità d’Italia. La rovina della Rocca cominciò già nel Seicento, in seguito all’abbandono della struttura e alla sua mancata manutenzione. A questa incuria si aggiunsero gli effetti dei disastrosi terremoti come quello del 1584, del 1672 e quello della notte di Natale del 1786, che colpirono il territorio di Rimini, con danni assai gravi per Montefiore.

Un imperatore fra mitici antenati

Qui sopra la piccola civetta scolpita nelle mura del cortile, a protezione del castello. In alto cartina dell’Emilia Romagna, con l’indicazione del borgo di Montefiore Conca. In basso la «stanza della cisterna» dopo gli scavi archeologici. Al centro, la cisterna alla «veneziana» del XIV sec., collegata a un impianto di recupero dell’acqua piovana.

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Grazie ai recenti lavori di restauro eseguiti dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio di Ravenna, sono di nuovo visitabili diversi ambienti e locali della Rocca, fino a poco tempo fa inaccessibili. Fra questi, la camera detta dell’Imperatore o del Trono, dove soggiornò nel 1453 l’imperatore Sigismondo. La sala si trova al piano nobile della Rocca ed è formata da un ampio salone affrescato, a pianta trapezoidale, coperto da una volta a sesto acuto. Gli affreschi furono commissionati, nel decennio compreso fra il 1362 e il 1372, al pittore bolognese Jacopo Avanzi dall’Ungaro, che fissò qui la propria residenza preferita, divenuta ben presto luogo d’incontro di artisti e cortigiani, richiamati dal suo mecenatismo per l’arte e la letteratura. Le pitture, in questo che costituiva uno degli ambienti

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Nella «sala dell’imperatore»

In alto e in basso due particolari della «battaglia di fanti», affrescata sulla lunetta della sala, dopo i restauri. I dipinti furono realizzati tra il 1362 e il 1372 dall’artista bolognese Jacopo Avanzi, su commissione di Galeotto Malatesta, detto «l’Ungaro» (1327-1372).

Particolare del cosiddetto «imperatore», che dà il nome alla sala, affrescato sulla parete occidentale, all’interno di un baldacchino.

di rappresentanza di maggior prestigio, dovevano in antico rivestire interamente sia le pareti che il soffitto. Oggi si conservano lacerti di grandi dimensioni nella parete di fondo, dove campeggia maestosa la figura di un uomo armato, forse un membro della famiglia Malatesta, ritratto in piedi dentro un’edicola gotica. L’uomo indossa sulla corazza un ampio mantello e tiene con la mano destra uno scettro e nella sinistra una spada; il cartiglio che doveva contenere il suo nome è oggi totalmente consunto. Nella lunetta superiore compaiono i frammenti di una scena di battaglia, con l’assalto di una città da parte di un esercito di fanti, mentre sul lato opposto i dipinti strappati negli anni Settanta (ora esposti nella sala contigua detta «delle volte a crociera»), mostrano una galoppata di cavalieri in fuga seguiti da un manipolo di avversari. Sulla volta si conservano ancora numerose parti della decorazione originaria, realizzata su un cielo in lapislazzuli che il tempo ha trasformato in verde malachite, punteggiato da stelle d’oro. Qui, sotto complesse architetture

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dipinte che scandiscono lo spazio, si aprono dieci medaglioni, cinque per lato, entro cui sono disposte solenni le figure di antichi eroi. L’unica scritta superstite SILVIUS, che fiancheggia una delle due figure staccate in passato, ha fatto supporre che l’intero ciclo traesse ispirazione dall’Eneide, poema virgiliano particolarmente apprezzato nel Trecento. La rappresentazione di cicli epici e di grandi imprese della storia rientrava in uno sperimentato programma culturale, noto già dall’antichità classica, che cercava di dare lustro al proprio casato e nobilitarne le origini attraverso il recupero di leggendari capostipiti. Fra i personaggi nobili legati alle origini della famiglia Malatesta, si annoverano cosí figure come quella di Tarcone, figlio del re di Troia Laomedonte, o di Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano, particolarmente gradito a Sigismondo Pandolfo Malatesta. La trasformazione delle rocche nel corso nel tardo Medioevo interessò non solo il rinnovamento dell’apparato difensivo, ma anche la concezione stessa di fortezza, considerata non piú solo come uno strumento di

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archeologia montefiore conca A sinistra la «stanza dei butti», in cui venivano buttati i materiali di rifiuto, dopo lo scavo archeologico. A sinistra, le murature che chiudevano le discariche. In basso la sequenza stratigrafica dei depositi all'interno di una delle discariche documentata durante gli scavi archeologici.

L’importanza dei butti

A tavola e in giardino Piú d’un autore rinascimentale illustra l’abbondanza e la raffinatezza delle mense dei nobili. Dagli scavi di Montefiore ne è venuta l’ennesima conferma: i resti di pasto recuperati nel corso delle indagini lasciano immaginare la dimensione principesca delle cucine che operavano al servizio dei Malatesta. cacciagione e ostriche Si tratta di porzioni di ossa di animali domestici e selvatici buttati all’interno delle discariche e recuperate durante gli scavi archeologici. Questi reperti forniscono preziose informazioni sulla dieta e sui gusti culinari dell’epoca, costituendo un vero e proprio «archivio» alimentare. Dagli studi condotti sappiamo che, escluso i giorni di magro in cui era osservata l’astinenza dalle carni, la preparazione dei pasti prevedeva l’utilizzo di manzo, vitello, maiale, agnello e capretto, come pure della carne di lepre, coniglio e altri animali da cortile quali galline, polli, capponi, oche e, per quanto scarsi, colombi. I resti ossei recano ancora le tracce dei colpi che il beccaio aveva inferto per dividere in mezzene (divisione a metà in senso longitudinale lungo la spina dorsale) le carcasse animali e i tagli procurati nelle cucine per la preparazione degli arrosti, degli umidi e dei brodi. Anche il pesce doveva essere consumato frequentemente, anche se, sfortunatamente, le discariche non ne hanno restituito traccia: d’altronde è difficile che questi reperti si conservino nei depositi archeologici a causa della loro fragilità. Al contrario è stato recuperato

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un grande numero di valve di ostrica, a conferma della ricchezza della mensa malatestiana. A questi resti si aggiungono quelli del carapace di due tartarughe palustri, che potrebbero rappresentare i resti di pasto o forse semplici rifiuti, cosí come gli scheletri di alcuni gatti e cani finiti in discarica e ritrovati durante i recenti lavori di scavo. Valentina Catagnano il paesaggio Studi in corso sui resti vegetali e sui pollini campionati negli strati di riempimento degli ambienti di servizio, stanno dando anche alcune prime indicazioni sul paesaggio circostante la rocca di Montefiore, con foreste di carpinifolia/Carpino nero e Quercus cf. petrea/Rovere e macchie di Abies Abeti bianchi provenienti probabilmente dalla fascia collinare/ montana. Marco Marchesini novembre

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difesa, ma come residenza ed espressione di ricchezza e potenza del signore. La funzione abitativa in precedenza svolta dal mastio passò al palazzo, vera e propria dimora signorile. Si ebbe uno stravolgimento della funzione primaria, con il prevalere della parte residenziale su quella difensiva e la trasformazione della rocca in un palazzo fortificato, riservato a ricevere personaggi illustri o a ospitare un certo numero di cortigiani, servitori e armati. In quest’ottica, la ricercatezza e l’ostentazione di arredi preziosi e opere d’arte, cosí come la commissione all’Avanzi degli affreschi per la Sala dell’Imperatore, rispondevano a una precisa volontà di manifestare benessere e potere, allo scopo di impressionare ambasciatori e ospiti, accrescendo il prestigio del signore.

Nel palazzo del signore

L’attuale struttura della Rocca di Montefiore è costituita da due corpi di fabbrica affiancati, di epoca diversa e successiva. Il nucleo piú antico, databile entro la metà del Trecento, comprende la struttura centrale con gli alloggi padronali (oggi sede del bookshop e della biglietteria) e l’ala sud con il mastio, di cui resta solo una parte del muro esterno e i locali annessi come le stalle, il deposito degli armamenti e la gendarmeria. L’elemento meglio conservatosi è una grande torre residenziale che presenta, al piano superiore, una splendida «grande salle» in doppia altezza, coperta con doppia volta a crociera e illuminata da finestre con panche laterali e finestroni posti a quota elevatissima. Il secondo nucleo, comprendente l’ala nord con la Sala dell’Imperatore, è databile con quanto riportato dalle fonti alla metà del Trecento, agli anni delle signorie di Pandolfo II e dell’Ungaro. È in questo settore della Rocca che si sono concentrati gli scavi archeologici condotti fra il 2006 e il 2007 da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Lasciata la biglietteria, passando per la corte interna, si entra nei locali d’uso della rocca. La sezione archeologica del museo si sviluppa in una successione di ambienti posti su piú piani. Partendo dalle cucine, passando dai magazzini e attraversando la Sala dell’Imperatore, si arriva nelle stanze, un tempo private, nelle quali oggi sono esposte le maioliche e i reperti ritrovati negli scavi. Pannelli informativi, immagini e materiali provenienti dalle discariche del castello illustrano la vita e i costumi degli abitanti della rocca negli anni di signoria dei Malatesta, dalla metà del Trecento e ai primi anni del Cinquecento. Al piano di corte si conserva, oggi musealizzata all’interno del locale che ne prende il nome, la cisterna alla veneziana in uso nella rocca fino alla seconda metà del Quattrocento. Si tratta di un’opera d’ingegneria specializzata realizzata contemporaneamente ai lavori di ampliamento del castello fra il 1350 e il 1370. L’acqua piovana raccolta dal tetto (riportato in luce nei recenti lavori di restauro) era convogliata attraverso un sistema di gronde in cotto, che correvano all’interno del muro

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perimetrale, per essere immessa nella vasca al centro della stanza al piano terra, dov’era filtrata dalla sabbia e dall’argilla, e infine canalizzata nel pozzo di raccolta. La presenza di una cisterna di questo tipo era fondamentale per un apparato difensivo come quello di Montefiore, che doveva poter disporre di una riserva idrica in caso di assedio. L’impianto fu poi abbandonato, molto probabilmente per problemi legati alla manutenzione delle condotte, e sostituito dal cisternone ubicato nella corte interna, ancora oggi in uso. Dalla stanza della cisterna si accede anche ai magazzini o «camera dei butti». Le recenti prospezioni e i successivi scavi archeologici hanno messo in luce alcuni ambienti sotterranei in muratura usati come discariche fino agli inizi del Cinquecento. Altri immondezzai sono stati ritrovati nei locali al piano terra, nelle cucine e in alcuni ambienti annessi. La costruzione di queste camere di raccolta rivela un’accurata programmazione dal punto di vista igienico. Un impianto del genere, di fatto, era facilmente controllabile e utilizzabile secondo un programma di raccolta differenziata dei rifiuti, del tutto simile a quanto avviene oggi. La successione degli scarichi in queste fosse ha formato, nel tempo, una stratigrafia precisa che ha permesso non solo la ricostruzione delle abitudini alimentari degli abitanti del castello, ma anche il recupero delle ceramiche, dei vetri e degli altri reperti esposti nelle vetrine nella sezione archeologica. Si tratta di ritrovamenti di notevole importanza, perché forniscono indicazioni preziose sulle abitudini Maioliche usate come servizio da tavola nel Quattrocento, esposte in una vetrina della Rocca Malatestiana.

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archeologia montefiore conca e la vita all’interno della rocca fra il Basso Medioevo e il primo Rinascimento. I reperti permettono di datare le fasi d’uso e mostrano i rapporti commerciali e culturali dell’epoca, testimoniando la vitalità negli scambi fra Montefiore e le città del Centro e del Nord d’Italia, fin dall’Alto Medioevo. Gli oggetti sono perlopiú maioliche e stoviglie da fuoco, a riprova della diffusione dei mercati regionali e locali (Ravenna, Forlí, Cesena, Rimini e Pesaro), che erano i punti di acquisto di eccellenza dei prodotti per la tavola. Numerosi sono i boccali di prima epoca malatestiana, alcuni recanti lo stemma del casato, con lo scudo a bande trasversali a scacchiera, i boccali in zaffera e le ceramiche graffite padane.

Dalla maiolica alla porcellana

Sono presenti tutte le fasi delle produzioni di maiolica, dai tipi arcaici in verde ramina e bruno di manganese, a quelli a zaffera in rilievo e diluita, fino alle produzioni faentine del gotico floreale del pieno Quattrocento o alla porcellana. Proprio in questo periodo, dalla metà del XV secolo, inizia ad affermarsi il servizio da tavola,

A destra sigillo a doppio punzone in bronzo con la raffigurazione di una balestra. Si tratta di un pezzo unico, di proprietà di un certo Pierucole de Mathei, datato alla fine del Trecento. L’iconografia della balestra potrebbe far pensare a una funzione politica e militare del titolare del sigillo. In basso bicchieri e bottiglie in uso nel Trecento, esposti nella Rocca Malatestiana.

fragili trasparenze

Come opere d’arte In ogni museo prima o poi incontri il vetro. Possono essere contenitori enigmatici o una lunga teoria di bicchieri, lacrimatoi, contenitori di essenze o, a volte, un’unica coppa bianca. Se poi il tempo continua a scorrere, fino a raggiungere il presente, ecco che, dopo poco piú di settecento anni, le tavole dei Malatesta riprendono vita, fra servizi per i pranzi di tutti i giorni con bicchieri dalle forme semplici e pulite, e calici dai pregiati decori che accompagnano ricercate bottiglie dai diversi colori. Mentre i bicchieri dallo spessore di pochi millimetri sono molto simili a quelli attuali, i calici, perlopiú prodotti a Venezia nel corso del Quattrocento e Cinquecento, hanno un fragile e lungo stelo che sorregge la coppa realizzata nelle forme piú svariate. Su alcuni è applicata una preziosa foglia d’oro, su altri filamenti di vetro colorato, altri ancora sono decorati «a reticelli». Si tratta di una complessa tecnica di produzione, inventata dai muranesi Bernardo e Filippo Serena nel XVI secolo, che richiedeva un’estrema precisione, perché realizzata da sottilissime canne di vetro cristallino contenenti spirali e fili di vetro bianco, modellati su un piano di marmo, cosí da ottenere la caratteristica forma a spirale. Rare e preziose come l’oro, erano le coppe in lattimo, opache e bianche come il latte. Piccole e leggere erano le fiale per balsami e olii. Altrettanto rari sono gli orinali in vetro, usati per le necessità personali e dai medici per accertare lo stato di salute del paziente. Chiara Cesaretti

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Da leggere U Valter Piazza e Cetty Muscolino, La Rocca di Montefiore

e il sigillo ritrovato, Maggioli editori, Sant’Arcangelo di Romagna 2009. U Elisa Tosi Brandi (a cura di), Castelli e fortificazioni del riminese, ed. CLUEB, Bologna 2007.

inteso come corredo di stoviglie (ciotola, piatto, scodella e altri contenitori di forme e dimensioni diverse) in ceramica, decorato in modo omogeneo, a formare l’occorrente per ogni singolo commensale. Come in tutti i castelli medievali, anche a Montefiore non dovevano mancare i lavori di piccoli artigiani e operai specializzati nella lavorazione del legno o del metallo. Le necessità di quella che era in tutto e per tutto una piccola comunità erano, infatti, assai varie come testimoniano gli oggetti recuperati negli scavi, dagli strumenti d’uso quotidiano come le chiavi, i chiodi e i coltelli, agli attrezzi per l’agricoltura come le roncole, i falcetti, o le bilance, fino ai dardi da balestra, le punte di lancia e le matrici in terracotta per le munizioni degli archibugi. Alla cerchia domestica e ai lavori femminili in genere rimandano invece gli oggetti per il cucito, co-

me gli spilli in bronzo e i ditali. La sfera privata piú intima si rivela infine nella cosmesi e nella cura del corpo, con i pettini in osso, i monili, i bracciali, le collane e le fibbie per le cinture e i calzari. Fra i reperti in bronzo, un pezzo unico è rappresentato dal sigillo con balestra incisa di Pierucole de Mathei (vedi foto alla pagina accanto), datato alla fine del Trecento. L’iconografia della balestra potrebbe far pensare a una funzione politica e militare del titolare del sigillo e trova interessanti confronti con una matrice conservata al Museo del Bargello di Firenze, appartenente agli Ufficiali dei balestrieri della comunità cittadina, una milizia istituita alla metà del Trecento e abolita appena un secolo dopo, nel 1425. F Piatto decorato con il monogramma di San Bernardino da Siena «IHS» («Ihesus», Gesú), al centro, e motivi ad ali ricorrenti a colori alterni entro filetti in bicromia, sulla fascia.

Imparare a restaurare

Un passato da ricostruire Il restauro degli spazi della rocca e l’allestimento della sezione archeologica del museo rappresentano un importante traguardo nella valorizzazione del patrimonio culturale di Montefiore. Con la mostra «Sotto le tavole dei Malatesta», è stata recuperata una preziosa pagina di storia sulla rocca di Montefiore e sul suo passato. L’esperienza dei due cantieri scuola di restauro, realizzati nel 2009 e 2010, ha consentito di esporre buona parte dei reperti archeologici ritrovati. Il progetto, coordinato da restauratori qualificati, ha permesso a studenti e corsisti di avvicinarsi al restauro ceramico attraverso interventi pratici e lezioni teoriche di approfondimento: esperienza non comune e spesso di difficile realizzazione, resa possibile dalla collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Il primo passo è stato quello di far conoscere ai

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corsisti la storia della ceramica. Si è poi passati alla pratica vera e propria sui reperti ceramici, a partire dalla pulitura a secco dei depositi e delle incrostazioni di varia natura che nel corso dei secoli si erano depositate sulle superfici dei manufatti. Si è quindi proseguito con la cernita dei frammenti e la suddivisione delle diverse tipologie di oggetti, il lavaggio, l’essiccamento, il consolidamento (se necessario), la ricerca e l’incollaggio dei frammenti, l’integrazione formale e pittorica. Ogni intervento è stato preceduto da un’analisi preliminare utile a stabilire quali fossero le operazioni piú idonee da seguire secondo la natura dei materiali: reperti in ceramica, vetro, bronzo o semplice ferro. Mauro Ricci, Enrico Bertazzoli, Antonella Pomicetti, Virna Scarnecchia, Micol Siboni, Monica Zanardi

Dove e quando «Sotto le tavole dei Malatesta. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca» Montefiore Conca (RN), Rocca Malatestiana fino al 23 giugno 2013 Orario fino a febbraio: domenica e festivi, 10,30-16,30; marzoaprile: sabato, domenica e festivi, 10,30-13,00 e 14,00-18,00; per gli orari estivi, rivolgersi al servizio informazioni; chiuso il 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0541 980179 (Rocca) oppure 0541 980035 (Comune); infoline per info e prenotazioni: 199.151.123; numero verde per info e prenotazioni servizi educativi: 800 961 993; e-mail: montefioreconca@sistemamuseo.it

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Nella casa della Sapienza di Marco Di Branco

Con l’avvento della dinastia abbaside e la fondazione della nuova capitale, Baghdad, la civiltà islamica visse un’epoca di massima fioritura. A essa contribuí l’istituzione del bayt al-hikma, la biblioteca di proprietà del califfo, ben presto divenuta un centro di sapere enciclopedico, alimentato dalla fervente opera di traduzione degli scritti del pensiero greco, da Aristotele a Plotino

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l califfato abbaside (749-1258) si instaurò in seguito a una rivolta contro la dinastia omayyade (661-749; vedi box a p. 49). Fautori di una nuova interpretazione dell’Islam come teocrazia sovraetnica, accentratrice e «illuminata», gli Abbasidi fondarono nel 762 una nuova capitale dell’impero islamico, Baghdad, e crearono – soprattutto nel primo secolo del loro dominio – le condizioni per lo sviluppo della civiltà islamica «classica»: se ne può avere un’idea pensando alle Mille e una Notte, ambientate nella Baghdad di quest’epoca, che fu considerata aurea: vi compare spesso come protagonista il califfo abbaside Harun al-Rashid (r. 786-809). In questo periodo venne fondato il bayt al-hikma («Casa della Sapienza»), divenuto quasi il simbolo del cosiddetto «movimento di traduzione» dal greco all’arabo, a cui diede un enorme impulso il califfo al-Ma’mun (r. 813-833), figlio di Harun al-Rashid. Inizialmente biblioteca di palazzo privata — a differenza della piú tarda dar al-’ilm fatimide («Dimora della Scienza»), che fu invece istituzione pubblica –, durante il califfato di

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al-Ma’mun il bayt al-hikma divenne un centro di sapere enciclopedico e fu collegato allo svolgimento di osservazioni astronomiche e ricerche matematiche.

Un movimento di corte

Si parla di movimento di traduzione per sottolineare che l’acquisizione del patrimonio delle scienze non coraniche – matematica, astronomia, fisica, alchimia, medicina e filosofia – non prese avvio soltanto dall’interesse di singoli scienziati, desiderosi di attingere a un sapere straniero per le proprie necessità intellettuali, ma fu anche, e forse soprattutto, l’esito di un coinvolgi-

mento diretto del califfo e della sua corte. Intenzionato a rivendicare con forza al califfato la guida sia politica che religiosa della comunità islamica, al-Ma’mun proclamò dottrina di Stato la tesi mu’tazilita del «Corano creato». I mu’taziliti (letteralmente «secessionisti») designarono se stessi con l’espressione, «la

gente della giustizia e dell’unicità divina» (ahl al-’adl wa-l-tawid): sostennero la trascendenza assoluta di Dio e affermarono che il Corano non fosse Parola di Dio increata, ma fosse stato creato e dovesse dunque essere interpretato. Sostennero, inoltre, che l’uomo è autore e

Aristotele insegna agli studenti l’uso dell’astrolabio. Miniatura di scuola turca da Le migliori sentenze e i dettami piú preziosi, manoscritto selgiuchide di Al-Mubashir. XIII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

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islam traduzioni responsabile delle proprie azioni, negando di conseguenza la predestinazione e affermando che Dio è necessariamente giusto. Arbitro illuminato e assoluto dell’interpretazione della Parola di Dio, il califfo si circondò di dotti per giudicare ciò che è meglio per la comunità dei credenti: la supremazia culturale di un califfato che promuove le scienze doveva riunificare la comunità dei credenti sotto una teocrazia responsabile della conformità individuale e sociale rispetto alla verità e alla sapienza (hikma) di Dio e che il califfo, successore del Profeta, conosceva meglio di ogni altro.

Inquisizione di Stato

Questa concezione dell’Islam favorí l’ingresso del patrimonio scientifico e filosofico greco; non si deve tuttavia attribuirle una valenza tollerante e liberale ante litteram: essa comportò, infatti, anche la promulgazione della mihna, l’inquisizione di Stato contro le autorità religiose, fedeli talvolta sino alla morte alla tradizionale visione del Corano come Parola increata di Dio. Contrapponendosi cosí violentemente a un elemento costitutivo della religiosità islamica, ossia la fede nella Di-

Il bayt al-hikma secondo Dimitri Gutas

Fantasmi sassanidi L’arabista e grecista statunitense Dimitri Gutas è autore del saggio Greek Thought Arabic Culture (tradotto in italiano da Cecilia Martini). Nel volume, lo studioso sostiene che il bayt al-hikma non sarebbe altro che un’istituzione dell’apparato statale amministrativo e burocratico dell’impero sassanide di Persia (conquistato dagli Arabi nel 651) fatta propria dai primi califfi abbasidi, senza alcun rapporto con il movimento di traduzione dal greco all’arabo. La sua reale funzione sarebbe stata invece quella di trascrivere e conservare i testi della storia nazionale iraniana. Si sarebbe dunque trattato di un ufficio creato quando la prima amministrazione abbaside stava prendendo forma sulla base dei modelli sassanidi e sotto la direzione di burocrati impregnati di cultura persiana. In effetti, la documentazione sassanide attesta due entità piuttosto interessanti: la «Fortezza delle scritture» e il «Tesoro satrapale» (o «Tesoro reale»). Si tratta però di istituti menzionati unicamente in relazione alla trasmissione dell’Avesta, la grande raccolta delle sacre scritture iraniche: in realtà, del «Tesoro satrapale» e della «Fortezza delle Scritture» non sappiamo praticamente nulla. Inoltre, la presenza di biblioteche palatine non è esclusiva del mondo persiano, e, anzi, sin da tempi remoti, è un elemento tipico del rapporto fra potere e scrittura. Non si vede dunque quali siano gli indizi reali della derivazione del bayt al-hikma abbaside da un modello sassanide. Sembra piú plausibile pensare che il bayt al-hikma sia semplicemente la forma assunta dalla biblioteca palatina in ambito islamico, esattamente come il califfato e il sultanato sono le tipiche forme della regalità musulmana. In basso due pagine dal Libro di Euclide sugli elementi, tradotto in arabo da un anonimo e copiato in nash (scrittura elegante utilizzata dai copisti abbasidi dalla metà del X sec.) da Mas ‘ud b. Muhammad b. Sa ‘id nel 1888. Il testo è accompagnato da una notevole quantità di figure geometriche.

scesa del Corano promulgato da Dio «in arabo chiaro» (Cor. XII: 2 e XVI: 103), la teologia mu’tazilita perse presto il predominio. Dapprima il califfato stesso rinunciò ufficialmente alla dottrina del Corano creato (al-Mutawakkil, 848); in seguito, al-Ash’ari (m. 935), un teologo che vi aveva a lungo aderito, sconfessò clamorosamente il mu’tazilismo; da allora in poi, la teologia ash’arita (dal nome del teologo, n.d.r.), destinata a divenire molto influente nell’Islam sunnita, proclama che la trascendenza e l’unicità di Dio possono essere conosciute solo a partire dalla Rivelazione e che l’Islam consiste, appunto, nell’accettazione dell’insondabile volontà e onnipotenza di Dio. La filosofia arabo-musulmana, nata da quella greca, intrattenne

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A sinistra otto precetti di saggezza politica, in una pagina miniata tratta da un manoscritto ottomano contenente la traduzione in arabo del Secretum secretorum, guida all’arte del governare di epoca medievale, attribuita allo pseudo-Aristotele. In basso l’imperatore bizantino Teofilo (a destra) invia in missione diplomatica Giovanni il «Grammatico» presso il califfo abbaside al-Ma’mun (a sinistra), nell’829. Particolare di una miniatura da un’edizione della Cronaca di Giovanni Skilitzes. XIII sec. Madrid, Biblioteca nazionale.

una costante dialettica con queste concezioni teologiche e con le altre due scienze tradizionali dell’Islam: il diritto e la grammatica.

Le prime traduzioni

Il celebre Kitab al-Fihrist (Libro del catalogo), composto a Baghdad entro la fine del X secolo dal figlio di un libraio della capitale, Abu ‘l-Faraj ibn al-Nadim, ci informa sul patrimonio filosofico e scientifico a disposizione degli intellettuali musulmani dell’epoca. Questo Catalogo – il piú antico di una serie di opere bio-bibliografiche che giungono in pieno XVII secolo – elenca i filosofi greci da Pitagora a Giovanni Filopono (grammatico e filosofo alessandrino attivo nel VI secolo, n.d.r.), citando spesso l’esistenza di una traduzione in siriaco o in arabo delle loro opere. Dapprima gli orientalisti europei e in seguito studiosi di madrelingua araba hanno scoperto e pubblicato i manoscritti che conservano queste traduzioni. Anche se molte ope-

re rimangono ancora sconosciute o inedite, ciò che possediamo – le traduzioni stesse, i resoconti biobibliografici relativi agli scienziati e ai filosofi greci, nonché gli scritti dei filosofi arabo-musulmani – ci offre un’immagine molto ricca del rapporto fra il pensiero arabo e la filosofia greca. Quest’ultima, e in particolare la logica aristotelica, era

stata resa accessibile in siriaco ben prima della conquista araba di Damasco e della Siria (636): nella prima metà del VI secolo, cioè all’incirca nello stesso periodo in cui Boezio (480 circa-526 o 524) avviava il progetto di traduzione delle opere di Aristotele e di Platone, in Siria, Sergio di Resh’ayna (m. 536) traduceva l’Organon, scritti di Galeno e il corpus neoplatonico cristiano dello pseudo-Dionigi Areopagita. Sergio aveva studiato ad Alessandria alla scuola di Ammonio, un commentatore neoplatonico di Aristotele del quale fu discepolo anche Giovanni Filopono. La cultura dei cristiani di Siria passò da un iniziale antagonismo nei confronti della filosofia greca (IV secolo) a una sempre piú completa assimilazione (VII secolo); nel IX secolo, incontriamo numerosi cristiani di Siria al centro del movimento di traduzione. Le traduzioni in arabo di opere greche erano iniziate già durante

al-ma’mun

La ricerca dei manoscritti «Tra al-Ma’mun e l’imperatore dei Rum (cioè dei Bizantini, n.d.A.) c’era una corrispondenza, poiché al-Ma’mun lo aveva sopraffatto. Allora, egli scrisse all’imperatore bizantino chiedendo il suo permesso di ottenere una selezione di antichi testi scientifici, custoditi e tesaurizzati nel paese dei Rum. Dopo un primo rifiuto, quegli acconsentí. Di conseguenza, al-Ma’mun inviò colà un gruppo di uomini, tra i quali al-Hajjaj ibn Matar, Ibn al-Batriq, Salman, il direttore del bayt al-hikma (sahib bayt al-hikma), e altri con loro. Essi portarono ad al-Ma’mun i libri scelti fra ciò che avevano trovato, ed egli ordinò di tradurli, cosicché essi fecero la traduzione» (Ibn al-Nadim, Fihrist, ed. G. Flügel, p. 243).

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islam traduzioni il califfato omayyade: Salim Abu l’Ala’, segretario del califfo Hisham ibn ‘Abd al-Malik (r. 724-743), aveva fatto tradurre un corpus di presunte lettere di Aristotele ad Alessandro Magno, destinate a formare il nucleo del Secretum secretorum, il piú famoso fra gli «specchi dei principi», noto anche nel mondo latino e nella prima età moderna. Ma, come si è detto, le vere e proprie traduzioni scientifiche e filosofiche iniziarono e si svilupparono sotto gli Abbasidi. Delle prime traduzioni di opere logiche e della Fisica aristotelica effettuate sotto al-Mansur (r. 754-775) e i suoi successori al-Mahdi (775-785) e Harun al-Rashid è rimasto ben poco, ma molte delle traduzioni prodotte all’epoca di al-Ma’mun e dopo di lui sono giunte sino a noi.

Il circolo di al-Kindi

Il fatto che il primo filosofo arabo, Abu Yusuf ibn Ishaq al-Kindi (m. 860 circa) fosse anche l’ispiratore di un vero e proprio circolo di traduttori fu determinante per la formazione e lo sviluppo della falsafa (filosofia arabo-musulmana). Precettore del figlio del califfo alMu’tasim, al-Kindi commissionò la traduzione della Metafisica di Aristotele e intervenne direttamente su quella delle Enneadi IV-VI di Plotino. Oltre a queste due opere, che segnarono l’agenda della cosmologia, della metafisica e della teologia razionale di buona parte della filosofia araba posteriore, il «circolo di al-Kindi» mise a disposizione degli intellettuali di lingua araba il Timeo platonico (traduzione perduta), il De Caelo, i Meteorologica, il De generatione animalium e il De partibus animalium di Aristotele, alcuni brevi scritti di Alessandro di Afrodisia, l’Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa, gli Elementi di Teologia di Proclo, parti del De aeternitate mundi contra Proclum di Giovanni Filopono e una parafrasi neoplatonica del De Anima di Aristotele (traduzioni esistenti, in tutto o in parte). Nell’ambito del circolo di alKindi, e forse per opera del suo

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stesso ispiratore, le Enneadi IV-VI di Plotino, con la loro descrizione dei tre principi sovrasensibili Uno, Intelletto e Anima, si trasformarono nella Teologia di Aristotele, mentre gli Elementi di Teologia di Proclo si trasformarono nel Libro di Aristotele sull’esposizione del Bene Puro (il Liber de Causis delle università latine). La cosmologia e la metafisica di Aristotele furono cosí coronate dalla dottrina neoplatonica dell’Uno, e direttamente ad Aristotele fu attribuita non solo la gerarchia dei principi Uno, Intelletto e Anima del cosmo, ma anche il piú tipico rimaneggiamento subito dagli scritti di Plotino e Proclo nel corso della versione in arabo: la trasformazione della causalità dell’Uno nella creazione dell’universo dal nulla. A un periodo di poco posteriore appartengono le traduzioni di Hunayn ibn Ishaq (m. 873), di suo figlio Ishaq ibn Hunayn (m. 911) e dei loro collaboratori. Medico e scienziato, grande traduttore di opere scientifiche e soprattutto di Galeno, Hunayn tradusse anche le Leggi e il Timeo platonici (ma queste traduzioni sono perdute) e praticamente l’intero corpus aristotelico: alcune opere di Aristotele, come si è visto, erano già state tradotte; altre lo furono per la prima volta, e di alcune Hunayn fece una traduzione siriaca e il figlio Ishaq una traduzione araba. Grazie all’opera di Hunayn e dei suoi collaboratori entro il primo quarto del X secolo il corpus aristotelico, accompagnato dalle opere dei commentatori (Alessandro di Afrodisia, Temistio, Filopono) era disponibile per gli scienziati e gli intellettuali arabi.

tempo, si sviluppava la trattatistica filosofica inaugurata da al-Kindi. Verso la metà del X secolo, Abu Bishr Matta ibn Yunus, un cristiano di Siria che ebbe tra i suoi allievi anche il grande filosofo islamico al-Farabi, realizzò nuove traduzioni Miniatura di scuola persiana raffigurante Harun al-Rashid, quinto califfo della dinastia abbaside, e il barbiere in un bagno turco, da un manoscritto del XV sec. Londra, British Library.

Felicità e filosofia

La logica e la fisica di Aristotele si trovarono al centro del dibattito scientifico nei circoli filosofici in cui si studiavano le opere del «Maestro Primo» (cosí Aristotele venne designato dai filosofi arabi) e i loro commenti; il legame intrinseco fra la felicità umana e la pratica della filosofia fu riproposto in opere di carattere piú divulgativo. Nel fratnovembre

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di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Temistio. Abu Bishr Matta ibn Yunus non traduceva dal greco, ma volgeva in arabo traduzioni siriache piú antiche. In una celebre disputa con il grammatico al-Sirafi, che gli contestava l’insensatezza di questa impresa, difese la possibilità di accedere a una sorta di logica universale dello spirito umano, anteriore a ogni linguaggio naturale. Questa convinzione ricompare nelle opere del suo maggiore allievo, al-Farabi, ed è condivisa da tutti i filosofi arabo-musul-

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Una nuova era

La rivoluzione abbaside Gli Abbasidi traggono il proprio nome da al-’Abbas, trisavolo di Abu l-’Abbas, primo califfo della dinastia. Impadronitisi del califfato nel 749-750, sostituendosi agli Omayyadi, gli Abbasidi conservarono il potere sino al 1258. La rivolta ebbe origine nel 747 in Persia e in Iraq, dove era facile sfruttare il malcontento contro gli Omayyadi, e si valse dell’aiuto degli elementi sciiti che, fedeli ai discendenti di ‘Ali ibn Abi Talib, consideravano quella dinastia come usurpatrice. Saliti al potere, gli Abbasidi (parenti di ‘Ali ma non suoi diretti discendenti) persero l’appoggio degli sciiti, ma, avendo ormai consolidato la loro posizione, poterono lasciare questi all’opposizione. Numerosi e sostanziali furono i mutamenti introdotti dagli Abbasidi che vollero inaugurare una nuova era. Il califfato riaffermò il suo carattere religioso, condannando la mondanità e lo spirito profano degli Omayyadi; assunse la forma di un dispotismo orientale (allontanandosi in questo dalla tendenza democratica degli Arabi), ma, in pari tempo, si assoggettò all’autorità degli ‘ulama, i grandi dottori dell’Islam, soli interpreti autorizzati del messaggio del Profeta. Sul piano politico, il cambiamento fu ancora piú vistoso: l’impero arabo diventava un impero islamico, abbracciante molti popoli con eguale dignità ed eguali diritti. Di prettamente arabo, in questo vastissimo dominio, rimasero solo il Corano e la lingua ufficiale dello Stato, quella dei cavalieri del deserto. La situazione mutò anche dal punto di vista territoriale: infatti Spagna, Marocco e qualche altra regione dell’Africa settentrionale rifiutarono di sottomettersi al califfato abbaside.

La stessa capitale fu spostata verso oriente: Baghdad, fondata dal secondo califfo abbaside, era, infatti, situata sul Tigri e guardava piú alla Persia, attraverso cui l’impero si protendeva verso l’India, che non all’Arabia. In questo modo si modificò anche la vita culturale dell’impero: attraverso i Siriaci, preziosi intermediari tra Greci e Arabi, si imposero infatti la filosofia e la scienza greche (come si legge nelle pagine di questo articolo), mentre i costumi, la letteratura, la lingua e la cultura in genere subivano l’influsso persiano, che fu tanto forte da lasciare una certa impronta persino nell’Islam. La rivoluzione abbaside fu importantissima anche dal punto di vista sociale: soggetto della storia non furono piú le vecchie tribú nomadi e guerriere, ma una borghesia attiva e spesso agiata che, nella pace e nel benessere generale, fioriva esercitando la mercatura, coltivando gli studi e le arti. L’età dell’oro degli Abbasidi corrispose press’a poco al primo secolo del loro dominio. Tuttavia, nel giro di pochi decenni, cominciarono a manifestarsi i primi segni di decadenza e la loro supremazia politica si indebolí. Nell’XI secolo poi, i Turchi Selgiuchidi, provenienti dalle steppe dell’Asia Centrale, cominciarono a penetrare nei territori dell’impero. Nel 1055 essi entrarono a Baghdad e, accolti favorevolmente dal califfo, imposero di fatto la loro autorità. Sullo scorcio del XII secolo, l’animoso califfo an-Na’sirr riuscí per breve tempo a restaurare un califfato indipendente, ma nel 1258 l’invasione dei Mongoli, che occuparono Baghdad, distruggendola in parte, e massacrarono il califfo con tutti i suoi, pose fine al califfato abbaside. (red.)

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islam traduzioni il progetto «Greek into Arabic» Dal 2007 l’ ERC (European Research Council; http:// erc.europa.eu/) finanzia progetti di ricercatori dei Paesi comunitari, incoraggiando in modo particolare l’interdisciplinarietà e l’innovazione nella ricerca scientifica. Nell’ambito delle scienze umane, è attivo dal 2010 il progetto «Greek into Arabic. Philosophical Concepts and Linguistic Bridges», dedicato alla trasmissione del sapere greco nel mondo arabo.

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Al centro di queste ricerche è uno dei testi piú importanti della filosofia arabo-islamica delle origini, la cosiddetta Teologia di Aristotele. Basata su estratti di Plotino accresciuti da numerose aggiunte, la Teologia attribuita ad Aristotele ebbe un ruolo decisivo, intorno alla

metà del IX secolo, nel persuadere le élite del primo califfato abbaside del fatto che la filosofia greca collimava perfettamente con la dottrina islamica del «tawhid» (unicità e trascendenza di Dio). Intervenendo sul contenuto e sul lessico della Teologia di Aristotele, si ottenne anche di far

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proclamare ad Aristotele, il Maestro Primo della filosofia dei Greci, la creazione dell’universo da parte di Dio «benedetto ed eccelso». I principali risultati del primo anno di lavoro sono disponibili sul sito web: www.greekintoarabic.eu. Il progetto Greek into Arabic è coordinato da Cristina D’Ancona (Università di Pisa), Gerhard Endress (Università di Bochum) e Andrea Bozzi (ILC/CNR, Pisa), con sede presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa. appuntamento a pisa Dal 12 al 14 novembre, a Pisa, il progetto «Greek into Arabic» tiene il suo secondo incontro, nel quale vengono tra l’altro presentati i recenti ritrovamenti di manoscritti nelle biblioteche extra-europee. Al centro delle giornate di lavoro dei mani, sia in Oriente, con la grande opera sistematica di Avicenna, che nell’Occidente musulmano, con la vasta impresa di commento del corpus aristotelico di Averroè. Nel corso dei secoli durante i quali la falsafa è fiorita (IX-XII) o si è perpetuata (XIII-XVII), le risposte alle questioni formulate dalla filosofia greca sul Primo Principio, sul cosmo e sull’uomo sono state anche profondamente diverse fra loro; ma la fisionomia essenziale di questo pensiero è stata tracciata a cavallo fra la metà dei secoli IX e X, cioè nel periodo in cui si addensa anche la maggior parte delle traduzioni.

Missione a Bisanzio

Due testimonianze offerte dal Kitab al-Fihrist (Libro del catalogo) sembrano attestare un ruolo di primo piano del bayt al-hikma nel Miniatura di scuola turca raffigurante un filosofo e due studenti, da Le migliori sentenze e i dettami piú preziosi, manoscritto selgiuchide di Al-Mubashir. XIII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

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tre gruppi di ricerca sono la tradizione manoscritta e la circolazione della pseudo-Teologia di Aristotele. Questo testo fondatore della filosofia nel mondo islamico attende ancora un’edizione critica e un approfondito commento: molti manoscritti sinora ignoti sono stati ritrovati grazie alle missioni rese possibili dal progetto ERC «Greek into Arabic». Il testo della pseudo-Teologia viene studiato con l’abituale strumentazione degli storici della filosofia, ma anche dal punto di vista della tecnica di traduzione – grazie alla straordinaria esperienza del gruppo di ricerca che fa riferimento al Seminar für Orientalistik della Ruhr-Universität Bochum – e con l’ausilio delle piú innovative tecniche informatiche, elaborate nell’Istituto di Linguistica Computazionale del CNR, Area della Ricerca di Pisa. movimento di traduzione. Ibn alNadim, infatti, scrive che il califfo al-Ma’mun avrebbe inviato nei territori bizantini un’équipe di cui faceva parte il direttore del bayt alhikma (sahib bayt al-hikma) alla ricerca di manoscritti greci, e che la stessa équipe avrebbe poi curato la traduzione dei testi reperiti. Questa «missione culturale» abbaside nei territori bizantini può essere inserita nella cornice delle numerose trattative diplomatiche che impegnarono le delegazioni dei due imperi tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo e che, non di rado, comportarono pagamenti di tributi (da parte bizantina) e scambi di doni. Ed è soprattutto interessante soffermarsi sui membri di tale spedizione menzionati da Ibn alNadim: al-Hajjaj ibn Matar, Ibn alBatriq e Salman. Il primo è noto per aver lavorato per Harun al-Rashid e al-Ma’mun, per i quali tradusse l’Almagesto e gli Elementi di Euclide; il secondo, era un traduttore di testi greci alla corte di Baghdad (tra l’altro, elaborò una parafrasi araba del

Timeo platonico); il terzo studioso chiamato in causa è, in questa sede, il personaggio piú importante (e probabilmente lo era anche all’interno della spedizione): si tratta infatti del sahib bayt al-hikma, cioè del direttore della biblioteca califfale, coinvolto, quindi, in prima persona in una missione finalizzata al reperimento di antichi testi scientifici greci e successivamente nella loro traduzione, affiancato da due dei maggiori specialisti nel campo delle traduzioni greco-arabe. Salman, dunque, operava anche in ambito greco, sia procurando manoscritti, sia occupandosi della loro traduzione. E un altro passo del Fihrist ci informa del fatto che egli avrebbe anche preso parte all’opera di coordinamento della traduzione di uno dei piú importanti testi scientifici greci, l’Almagesto di Tolomeo di Tolemaide, opera alla quale partecipò, tra gli altri, anche al-Hajjaj ibn Matar, che aveva accompagnato lo stesso Salman nella spedizione nei territori bizantini. Quest’ultimo si rivela dunque una figura straordinariamente eclettica, in grado di operare in ben tre ambiti linguistici: quello medio-persiano, quello greco e quello arabo. La partecipazione del direttore del bayt al-hikma ad attività di raccolta e volgarizzamento di manoscritti greci mostra quindi che l’istituzione era senz’altro coinvolta nel movimento di traduzione. F

Da leggere U Cristina D’Ancona, La Casa della

Sapienza, Guerini & Associati, Milano 1996 U Dimitri Gutas, Pensiero greco e cultura araba, trad. it. di Cecilia Martini Bonadeo, Einaudi, Torino 2002 U Cecilia Martini Bonadeo, Le biblioteche arabe e i centri di cultura fra IX e X secolo, in Storia della filosofia nell’Islam medievale, a cura di Cristina D’Ancona, Einaudi, Torino 2005; pp. 261-281

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Dove volano le aquile di Giovanni Armillotta

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Dalla spartizione sotto l’impero romano alle invasioni barbariche, dall’amministrazione bizantina alle gesta dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg: ma perché la millenaria storia dell’Albania, che il 28 novembre celebra il 100° anniversario della proclamazione d’indipendenza dagli Ottomani, ci conduce fino al Gargano? Una veduta del castello di Argirocastro, nel sud dell’Albania. Prima di essere assoggettata all’impero ottomano, nel 1417, la città fece parte del despotato d’Epiro, sorto dalla frammentazione dell’impero bizantino nel corso della quarta crociata, dopo il 1204. Nella pagina accanto la bandiera albanese, caratterizzata da un’aquila nera a due teste su fondo rosso.

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a moderna Albania (Shqipëria nella lingua madre: «Paese delle Aquile») cominciò a essere cosí chiamata a partire dall’XI secolo, innanzitutto dagli storici di Bisanzio, e, in seguito, nell’Ovest del nostro Continente. L’origine della denominazione, dunque, non ha il significato di «regione dell’alba» (termine che implicherebbe una prospettiva occidentale), poiché è stato coniato da scrittori che vivevano a oriente del Paese. In proposito, il latinista e lessicografo Ferruccio Calonghi (1866-1945) fa riferimento al tema non indoeuropeo alb- con valore di «monte», da dove poi è derivato pure il termine latino Alpes: Alpi. E, infatti, l’Albania è un Paese montuoso, facile da difendere e arduo da occupare, come hanno dimostrato i molteplici tentativi d’invasione subiti nella propria storia ultramillennaria. Gli stessi Romani, ancor prima della divisione in due parti dell’impero, identificavano in Albani (Augusto, Plinio il Vecchio) gli abitanti dell’Albània, regione caucasica a occidente del Mar Caspio, oggi Shirvan (Azerbaigian) e parte del Daghestan (Federazione Russa). Al contempo gli abitanti dell’attuale Albania erano nominati Illyrii (Ennio, Livio, Plauto) o Illyrici (Ampelio, Cicerone, Plinio il Vecchio), a testimonianza dell’autoctonia del popolo albanese e del proprio idioma, che è il piú antico della famiglia indo-europea. All’indomani della prima spartizione dell’impero romano (286 d.C.), l’Albania di oggi era divisa in due parti – Praevalitana (tra le bocche di Cattaro e il fiume Shkumbini) ed Epirus Nova (fino a sud del golfo di Vlorë, Valona). Quest’ultima passò all’amministrazione diretta dell’Augusto d’Oriente, l’illirico Diocleziano, mentre la restante parte dell’Illyria – da Cattaro alla Dalmazia sino a nord – andava all’Augusto d’Occidente, l’illirico Massimiano; e la situazione fu confermata nelle successive divisioni imperiali.

Una storia di invasioni

Dal V secolo in poi nei Balcani illirici ci furono invasioni di popoli barbarici (Goti, Ungari, Bulgari, Avari), «ma – come afferma la Treccani – piú pericolose di tutte furono le incursioni slave» provenienti dalle steppe orientali. Però «la pressione slava si fece avvertire piú pericolosamente poco piú tardi, quando, nel 636, i Serbi vennero chiamati nelle regioni medio-danubiane dallo stesso imperatore Eraclio, che volle opporli agli Avari». Nelle vicende successive l’Albania fu attraversata da orde di Serbi, Bizantini, Bulgari e poi nuovamente dagli eserciti dell’impero romano d’Oriente. Attorno all’anno Mille, lo Stato bizantino – che negli ultimi trecento anni aveva subito prima i colpi dei barbari longobardi da nord-ovest, poi dei Persiani e dell’Islam da est e da sud, e quindi dei barbari slavi e dei Bulgari (popolo di origine mongolica che assunse lingua e costumi slavi) da nord-est – aveva stabilito cinque regioni militari (themata in greco; sing.: thema). Il Thema Longobardia, corrispondeva press’a poco alle attuali Puglia e Basilicata, con Sipontum rifondata nel

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storie albania LA MASSIMA ESPANSIONE RAGGIUNTA DAL DESPOTATO DELL’EPIRO Territorio del Despotato, 1205-1212

Prima espansione, 1211-1215

Espansione sotto Teodoro, 1215-1230

Stati feudali, 1227-1232 ROMANIA

Territori soggetti temporaneamente, 1207

Mar M Nero N Ragusa

RASCIA

ITALIA

Durazzo Ocrida

Serres

Prilep

IMPERO LATINO Costantinopoli

Drama Demotica

Tessalonica

Pegai

Larissa

Bursa

Grecia

Corfú

Tebe

Cefalonia

Platamonia

Balikesir

Negroponte (Eubea) Smirne

Atene

Mar Ionio

IMPERO DI NICEA

Denizli

Metone Koron

MAR MEDITERRANEO

Antalya Chania

Creta

1256 da re Manfredi col nome di Manfredonia; BariumBari, e Brundusium-Brindisi come principali città; il Thema Calabria coincideva con la regione di oggi, e aveva in Cosentia uno dei centri piú importanti. Due themata furono infine creati in Albania: Thema Dyrrachium (con Dyrrachium, Durrës-Durazzo, e Antibaris-Bar) e Thema Nicopolis (con Aulon Ebellona, Vlorë-Valona, ButhrotusSarandë e Nicopolis-Prevesa), nonché un ultimo Thema Cephalenia, che raggruppava Corfú e le isole Ionie settentrionali. Successivamente i due themata albanesi divennero le basi per la riconquista dei territori temporaneamente

L’eroe nazionale Statua equestre del condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405-1468) a Croia, sua città natale, in Albania. Cresciuto alla corte di Murad II, Scanderbeg si distinse come cavaliere al servizio dei Turchi, conquistando la fiducia del sultano. Nel 1443, tradí l’esercito ottomano e divenne capo della Lega dei principi albanesi, contro l’oppressione turca, riconquistando in breve tempo tutte le fortezze occupate. Nel 1461 fu nominato dal sultano Maometto II principe d’Albania e d’Epiro.

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occupati dagli Slavi; infatti, dall’XI al XIV secolo, i principi albanesi ripresero gran parte delle attuali regioni albanofone. Quando i Veneziani espugnarono Costantinopoli (12 aprile 1204) e debellarono l’impero romano d’Oriente, Michele I (il cugino dell’imperatore bizantino Alessio III Angelo Comneno, 1195-1203), si accordò con i príncipi albanesi per costituire il despotato d’Epiro in funzione antiveneziana; esso confinava con l’impero latino, sorto dopo la soppressione di quello bizantino nel corso della quarta crociata del 1204, sfuggita dagli intenti di papa Innocenzo III (1198-1216) e manipolata dai mercanti della Serenissima, i quali, per un breve periodo, controllarono Albania ed Epiro. Nel 1261 la famiglia Paleologo restaurò l’impero romano d’Oriente, ma il despotato albanese d’Epiro preservò la propria indipendenza.

Il primo «principe»

Nel 1355 la grande forza militare dei Serbi condusse il loro re, Stefan Dušan a sconfiggere gli imperiali ad Adrianopolis (Edirne), umiliando i Bizantini e dilagando per quasi tutta la Grecia. Nel frattempo gli Albanesi non solo respinsero i Serbi, ma, nel 1358, il principe schipetaro Carlo Thopía batté il despota d’Epiro, Niceforo II Orsini: l’Albania rafforzava il suo limes. Carlo Thopía – storicamente il primus albanensis inter pares (alcuni studiosi lo definiscono primo «re d’Alba-

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In alto le rovine della cattedrale all’interno del castello di Rozafa, presso Scodra (Albania nord-occidentale). I resti ancora oggi visibili sono principalmente di origine veneziana.

nia») – era figlio di Andrea, a sua volta figlio di Thanas, che, alla fine del XIII secolo, piegò i Serbi a Durazzo; in seguito Carlo, nel 1368, liberò la stessa Durazzo dagli Angioini napoletani. Nel giorno di San Vito del 1389 la coalizione dei popoli balcanici (Albanesi, Bosniaci, Bulgari, Dalmati, Serbi, Ungheresi e Valacchi) fu sconfitta a Kosovo Polje (Piana dei Merli) da Murad I Pascià, sultano dei turchi ottomani: l’esercito del pascià era in gran parte costituito piú da milizie serbe arruolate da Murad I in Macedonia che da Ottomani, mentre gli Albanesi si erano schierati col principe cristiano. Il soldato albanese Millosh Kopili uccise il sultano, mentre Stefan (figlio del re serbo, Lazar, comandante militare della coalizione) e Vuk Brankovic (il feudatario serbo del Kosovo) passarono nelle schiere islamiche. Stefan dette sua figlia, Maria Despina, quale concubina al nuovo sultano, Bayezid I Ilderim (il Lampo), inoltre divenne generale turco e conservò i propri possedimenti. All’indomani dell’infelice battaglia della Piana dei Merli, i tre principi albanesi, Balsha, Giorgio II e Teodor II Muzaka – con alla testa Giorgio I Castriota (figlio di Carlo Thopía e nonno di Skënderbeu-Scanderbeg) – si

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In alto veduta di Monte Sant’Angelo, centro sorto sul promontorio del Gargano, intorno al santuario di S. Michele Arcangelo, meta di intenso pellegrinaggio sin dall’Alto Medioevo. Incisione del XVII sec. Foggia, Biblioteca Provinciale.

In basso Monte Sant’Angelo. Particolare della facciata del santuario di S. Michele Arcangelo. Nel 1464, Ferdinando I d’Aragona, in segno di riconoscenza per l’aiuto ricevuto contro gli Angioini, concesse a Scanderbeg il feudo di Monte Sant’Angelo, che comprendeva gran parte del Gargano.


ritirarono nei loro confini e, resistendo ai Turchi, furono in grado di erigere un’entità cristiana albanese che si estendeva dai confini meridionali di Ragusa (Dubrovnik) al golfo di Patrasso. Frattanto, nel 1396, il già citato generale Stefan, con 12 000 soldati, dette l’appoggio decisivo a Bayezid I nella battaglia di Nicopolis (Nikopol, oggi in Bulgaria), nella quale, con l’aiuto serbo, il sultano sbaragliò sanguinosamente l’esercito crociato di Francesi, Scandinavi, Tedeschi, Ungheresi e Valacchi, che si prefiggeva di arginare l’espansione islamica nell’Europa balcanica e sud-orientale (vedi «Medioevo» n. 176, settembre 2011). Restarono gli Schipetari, che, nel XV secolo, si opposero da soli contro i Turchi, mentre «è gloria dell’Albania l’aver dato in questo periodo alla cristianità e contro l’Islam, uno, e forse il piú grande, dei suoi difensori, Giorgio Castriota» (dalla voce Albania, in Enciclopedia Italiana, 1929), detto Scanderbeg.

Napoli e Venezia, interessi nei Balcani

Nonostante tutto, e sia pure formalmente sotto i governi prima imperial-orientali e poi turchi, nel corso dei secoli si andarono formando in Albania principati locali che si mantenevano in ottimi rapporti con Veneziani, Napoletani e Amalfitani. Gli staterelli balcanici in seno all’impero bizantino erano interessati agli approdi mediterranei, e la Serenissima e Napoli controllavano tutta la costa est-adriatica, mentenendo buoni rapporti con gli Albanesi per motivi sia commerciali che geopolitici (canale di Otranto). I Partenopei badavano a intessere rapporti diplomatici con gli Albanesi, mentre la Repubblica di Venezia mirava anche a una presenza stabile strategico-militare. Però furono principalmente i sovrani napoletani (normanni, svevi e angioni) a consolidare una politica estera albanese, che, col tempo, rafforzò continuamente i legami politici, economici e morali fra il Paese delle Aquile e l’Italia nel suo complesso. In seguito, l’inconsistenza delle difese bizantine, l’invasione turca e la morte di Scanderbeg (17 gennaio 1468), assieme alle molteplici rivalità intestine fra le anarcoidi signorie albanesi – a cui l’eroe nazionale cercò di porre freno – fecero venir meno la Lega di Lezhë (Alessio). Al momento delle massime vittorie di Scanderbeg, l’Albania si estendeva dai confini odierni a Kosovo, Novi Bazar, Metohija, Dibra, Ocrida, Ioannina e Arta. Subentrò l’occupazione turca, e molti schipetari si rifugiarono a Venezia e nell’Italia meridionale, ove già esistevano forme di amministrazione locale, governate da Albanesi. Vittorio Emanuele III fu re d’Italia e d’Albania dal 16 aprile 1939 al 25 ottobre 1943. Ma c’è un aspetto poco noto che contraddistinse un’epoca storica in cui parte del territorio italiano fu governato dagli Albanesi. Col senno di poi, se volessimo adoperare il metro dell’attuale diritto internazionale, era piú albanese quella parte d’Italia retta dagli Schipetari nel XV secolo, che non l’Albania «italiana» voluta dal regime fascista.

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greci

Gli Albanesi d’Italia Tra i numerosi paesi che ospitano gli Arbëresh, gli Albanesi d’Italia, vi è Greci, in provincia d’Avellino. Posto in cima a un picco di 821 metri slm, fu fondato dai Bizantini, da cui prese il nome. L’imperatore illirico Giustiniano I il Grande, nelle guerre gotiche inviò nella Penisola il generale Belisario, che creò molte colonie e fra queste Greci. Il borgo fu devastato dai Saraceni nel 908 e riedificato nel 1039 su iniziativa del principe beneventano Pandolfo III. Alla metà del XV secolo si registrò un primo grande arrivo di Albanesi, guidati da Scanderbeg, che ripopolarono la frazione. L’eroe schipetaro era approdato in Italia nel 1459 per sostenere il re di Napoli Ferdinando I – figlio naturale dell’amico di Scanderbeg, Alfonso V d’Aragona il Magnanimo – nelle lotte contro l’acerrimo nemico Giovanni d’Angiò e i baroni. Le unità albanesi dell’esercito ferdinandeo dettero l’apporto decisivo all’affermazione regia in specie nella battaglia di Orsara di Puglia (allora Terrastrutta), a nord-est di Greci, il 18 agosto 1461, la cui vittoria marcò la rovina delle pretese angioine alla corona napoletana. Per omaggiare i soldati albanesi, Ferdinando concesse a quanti lo avessero voluto, di rimanere in Italia e rifondare Greci. Gli Albanesi avrebbero cosí potuto controllare i vicini paesi, tutt’oggi di origine e idioma franco-provenzale di Faeto e Celle San Vito (attualmente in provincia di Foggia), fedeli alla sconfitta dinastia transalpina. Col trascorrere dei secoli, centinaia di famiglie albanesi, indotte dall’avanzata turca nel proprio Paese, arrivarono sulle coste della Puglia e di là a Greci e in altri centri e città del Regno di Napoli e di Sicilia, portando con sé lingua e tradizioni. Ma vediamo come si svolsero gli eventi, analizzando il grande rilievo storico e strategico delle regioni in questione. Monte Sant’Angelo, maggior centro del Promontorio garganico, famoso sin dall’Alto Medioevo per il Santuario di S. Michele Arcangelo – visitato da numerosi papi, imperatori e principi – divenne una delle tappe sacre dei penitenti che si recavano in pellegrinaggio in Terra Santa o alle Crociate. Anche San Francesco d’Assisi vi si recò dal 1216 al 1222. Notevoli, storicamente e artisticamente, anche la chiesa di S. Pietro, la cosiddetta «Tomba» del re longobardo Rotari, la chiesa di S. Maria Maggiore, e l’imponente Castello Normanno, alla cui edificazione, come vedremo, gli Albanesi dettero un decisivo contributo. La città, sorta intorno al piú antico santuario della cristianità dopo Gerusalemme e Roma, ebbe notevolissima importanza sin da epoca tardo-romana e altome-

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storie albania dievale. Per oltre un millennio fu ininterrottamente fortificata e la sua importanza tattico-logistica è stata ben descritta nel 1500 con le parole del Marcoldi: «Però è da sapere che quattro sono le parti principali, per le quali si dubita, che il turco possa mettere il piede nel Regno, cioè Taranto, Bari, Trani e Monte Sant’Angelo [...] Resta il Montesantangelo, il quale stando a Cavallero di tutta la Puglia circonda sessantamiglia, con una parte sopra il mare, di sito fortissimo».

Il feudo in dono

L’Honor di Monte Sant’Angelo fu costituito nel febbraio 1177 da Guglielmo II il Buono di Sicilia (1166-89), come dominio «in cui si esercita un’autorità piú alta di quella feudale» (come ha scritto lo storico Pier Fausto Palumbo; Il castello di Monte Sant’Angelo, appartenuto per circa un ventennio, dal 1464 al 1484, alla signoria degli Scanderbeg. Nel 1483, l’erede di Giorgio Castriota Scanderbeg, il figlio Giovanni, avviò il restauro della fortezza.

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1916-2000), in riconoscimento del prestigio che era legato al santuario, ovvero alla sacralità del luogo. Il dominio comprendeva, oltre alla capitale Monte Sant’Angelo, anche Siponto, Vieste, Lesina, Peschici, Ritum (forse l’attuale Rodi Garganico), Carpino, Cagnano, Sfilzi, Candelaro, Versentino, Lanzano, e i monasteri di S. Giovanni in Lamis, S. Maria di Pulsano, nonché i loro possedimenti. L’Honor fu assegnato in dotalizio a Giovanna, figlia di Enrico II re d’Inghilterra (1154-89), e moglie del suddetto re Gugliemo. Quando Ferdinando I d’Aragona re di Napoli (145894) dovette riparare a Barletta, per sottrarsi all’attacco degli Angioni, fu assediato in quella città, e poté essere salvato per l’intervento di Scanderbeg. In segno di riconoscenza, il re, nel 1464, diede in feudo al principe albanese il ducato di Monte Sant’Angelo, che comprendeva anche San Giovanni Rotondo, ossia l’Honor. L’antico Honor, con tutto il suo vasto territorio, interruppe il proprio processo di dissoluzione, e a esso subentrò un ducato di proporzioni molto ridotte e di giurisdizione piú limitata, rispetto al passato, ma piú facilmente difendibile.

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La signoria di Scanderbeg e dei suoi eredi durò circa un ventennio. Ferdinando I aveva voluto dimostrare la sua gratitudine al principe albanese, concedendogli, insieme al feudo, ampiezza di poteri e di entrate, quali il privilegio della «marittima», cioè la riscossione di balzelli sulle merci imbarcate e sbarcate, la diretta giurisdizione regia – che ne escludeva ogni altra – la facoltà di esportare merce di qualsiasi valore dalla costa di Monte Sant’Angelo e dal porto di Mattinata, con esenzione dai diritti dovuti a Manfredonia. Mentre Scanderbeg era in Albania, a combattere contro i Turchi nel 1467, la moglie, Andronica Comneno, venne a Monte Sant’Angelo a prendere possesso del Castello e a dimorarvi. Ma, dopo pochi mesi, dovette accorrere in Albania, per assistere l’eroico marito malato, che morí a 65 anni. Rimasta vedova, Andronica, col figlio Giovanni Castriota, se ne andò a vivere a Napoli con le rendite che ricavava dal ducato di Monte Sant’Angelo, dove aveva ottenuto anche la riscossione della tassa sul sale. L’usura del tempo e gli assalti subiti avevano già da anni lasciato i segni sul Castello Normanno e le mura

fortificate. Ferdinando I, che nel 1475 tornò a Monte Sant’Angelo, non da guerriero, ma in veste di pellegrino, si rese conto di persona, forse in quell’occasione, della necessità di restaurare i punti piú importanti delle fortificazioni. Non tralasciò di dare le opportune disposizioni nell’ambito di un disegno generale, per il quale, nel 1483, ordinò a Giovanni Castriota di provvedere affinché «le terre di marina, della Montagna, di Vieste non abbiano a dubitare dell’armata nemica». I lavori di restauro procedettero di sicuro in modo soddisfacente, se, nel 1484, il re «scrive ai cittadini di Monte Sant’Angelo, ringraziandoli della loro diligenza con la quale si attende alle fortificazioni e al restauro delle mura e dei passi di quella città. Si prega di perseverare nel bene, tanto piú che è assente l’Ill.mo Giovanni [Castriota], loro utile signore, il quale se ne reca in terra d’Otranto, contro i nemici» (N. Barone).

La permuta di Giovanni

Al termine dei lavori, nel 1493, il castello di Monte Sant’Angelo, come avvenne nello stesso tempo per quello di Manfredonia, risultò rafforzato da due grandi e maestose torri tronco-coniche e dal bastione orientale, oltre che Da leggere munito di elevate cortine in robusta muratura e con feritoie idonee U Antonello Biagini, Storia a fronteggiare le nuove esigenze dell’Albania dalle origini ai giorni difensive, nate con l’uso delle arnostri, Bompiani, Milano 1998 tiglierie e, in genere, delle nuove U Sisto Capra (a cura di...), Albania armi da fuoco. Il re si sentí molto proibita. Il sangue, l’onore rinfrancato dai lavori compiuti e, e il codice delle montagne. nell’informare, nel 1492, Giacomo Con la versione integrale del Kanun Pontano e altri dei provvedimenti di Lek Dukagjini, Mimesis, da lui adottati nel caso che «il TurMilano 2000 co rompesse la pace», dette disposiU Antonio Ciuffreda, Uomini e fatti zioni perché «Messer Theodoro de della Montagna dell’Angelo, Centro Trivulci vada ad lo monte de Sancto Studi Garganici, Monte Sant’Angelo Angelo con cento uomini d’arme» 1989 (Trinchera). È questo il periodo in U Robert Elsie, A dictionary of cui Ferdinando I cominciò a far eriAlbanian religion, mythology and gere le numerose torri di guardia folk culture, Hurst & Company, contro i Saraceni, che, costruite in London 2001 maggior numero durante il periodo U Id., Early Albania. A Reader spagnolo, ancora si osservano lungo of Historical Text 11th-17th la costa del Gargano e di tutta l’ItaCenturies, Harrassowitz, lia Meridionale. Wiesbaden 2003 Tornando alle vicende del feudo U Edwin E. Jacques, The Albanians. albanese, Giovanni Castriota, nel An Ethnic History from Prehistoric 1484, mal sopportando l’irrequieTimes to the Present, McFarland tezza dimostrata dalla popolazione and Company, Jefferson (Nc) 1995 per il necessario fiscalismo inteso U Arben Puto, Stefanaq Pollo, alla fortificazione della zona, chiese L’histoire de l’Albanie des origins e ottenne da re Ferrante la permuta à nos jours, Editions Horvath, Paris di Monte Sant’Angelo e di San Gio1981 vanni Rotondo con le terre di Soleto U John Wilkes, Gli Illiri, ECIG, e di San Pietro in Galatina, presso Genova 1998 Lecce, col titolo di conte. F

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di Chiara Mercuri

Luigi IX, re di Francia dal 1226 alla morte, nel 1270. Particolare della Crocifissione del Parlamento di Parigi Didascalia (vedi alle pp.aliquatur 78-79),adi olioodis su tavola del Maestro queDreux di vero Budé, ent quiundoloreium anonimo conectufiammingo. pittore rehendebis1450 eaturcirca. tendamusam Parigi, Museo consent, del Louvre. perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Il re che volle farsi santo

Luigi IX fu uno dei piú importanti monarchi del Medioevo. In Francia gli anni del suo dominio sono ricordati come un’epoca d’oro, in cui il Paese raggiunse le vette della politica e dello sviluppo economico, mentre la Chiesa ci ha restituito l’immagine di un re pio e obbediente. Ma fino a che punto le fonti ufficiali tracciano un ritratto fedele? Partendo da una «biografia non autorizzata», redatta da un siniscalco della sua corte, emerge un quadro molto diverso: quello di un personaggio ben «oltre» l’istituzione ecclesiastica e che, senza l’impegno del fratello Carlo d’Angiò, forse non sarebbe nemmeno stato canonizzato…


Dossier

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el 1273, papa Gregorio X apre un’inchiesta a SaintDenis sui miracoli che si verificano sulla tomba del re di Francia, Luigi IX, morto tre anni prima, e, contemporaneamente, incarica l’ex confessore del sovrano, il domenicano Geffroy de Beaulieu, di scrivere un libro sulle sue virtú. Altre cinque biografie vengono com-

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missionate sulla base del materiale raccolto in vista del processo di canonizzazione, che si conclude con esito positivo nel 1297, quando papa Bonifacio VIII iscrive il defunto re di Francia nel catalogo dei santi, al giorno 25 di agosto. Secondo Jacques Le Goff, lo storico che ha consacrato dieci anni della sua vita e dei suoi studi al

Luigi IX sul trono, circondato da dignitari ecclesiastici; alla sinistra del re, la madre, Bianca di Castiglia. Miniatura tratta da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France, che traccia la storia della monarchia francese dalle origini, commissionata da Luigi IX a Primate, monaco dell’abbazia di SaintDenis intorno al 1270. Inizio del XV sec. Londra, British Library.

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prima e dopo luigi IX Filippo II Augusto =

Isabella di Hainaut

(1180-1223)

Luigi VIII

=

Bianca di Castiglia

(1123-1226)

Giacomo I

Enrico III

Roberto I

Alfonso III

Carlo I

Re d’Aragona

Duca di Brabante

Conte d’Artois

Conte di Poitiers

Conte d’Angiò

Luigi IX (1226-1270)

=

Margherita di Provenza

Filippo III (1270-1285)

piú famoso tra i sovrani capetingi, il materiale acquisito grazie all’inchiesta papale va del tutto ignorato e il «vero» Luigi IX va cercato altrove, lontano dagli echi del processo di canonizzazione. Tutti gli autori delle biografie, infatti, sono religiosi, e dai loro scritti emerge un profilo stereotipato del re, mite e penitente, funzionale ai fini della proclamazione della sua santità. Partendo da tali fonti, sembra difficile in effetti poter arrivare a conoscere il nostro personaggio. Ma se a nessuno di tali scritti ci si può affidare, ognuno di essi può concorrere a fornirci una chiave d’accesso al vero Luigi IX, in quanto la loro stessa mendacità è indizio di una mentalità vigente, che appartenne anche al monarca.

Un ottantenne si mette a scrivere...

Finita la lunga parentesi del processo di canonizzazione, durata circa vent’anni, quando ormai i religiosi hanno fatto il possibile per nascondere il vero volto del sovrano dietro gli stereotipi e i cliché tipici della letteratura agiografica e la vera immagine del re sembra perduta per sempre, quando, come scrive lo storico francese, «tutto sembra compiuto (...) quando egli [Luigi IX] ormai è stato

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canonizzato (...), quando gli agiografi che l’hanno conosciuto (...) hanno scritto (...) la vita e gli autentici miracoli di un re santo (...) un ottantenne si mette a dettare un libro». Ma chi è questo ottantenne che comincia a scrivere quando i giochi sembrano ormai definitivamente fatti? Si tratta del siniscalco del re, un nobile della Champagne che aveva seguito Luigi durante la prima delle sue crociate: Jean de Joinville (1225-1317). Dotato di intelligenza e di notevole spirito critico, era divenuto suo consigliere privato e fu lui a sostenerlo nelle piú importanti decisioni durante i lunghi anni della crociata. Sconvolto dagli esiti sconcertanti di tale impresa, rifiutò però di imbarcarsi una seconda volta quando Luigi riprese la croce d’oltremare nel 1270. Secondo Jacques Le Goff, la Storia di San Luigi (Le livre des saintes paroles et des bons faits de notre Saint roi Louis, terminato nel 1309) di Joinville cambia in modo essenziale le nostre possibilità di approccio alla «vera» personalità del sovrano. Joinville, infatti, è un laico e quindi – secondo lo storico francese – piú libero da pregiudizi e da intenti apologetico-commemorativi. A differenza degli altri biografi, inoltre, egli non scrive in vista del (segue a p. 66)

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Dossier Luigi IX, il ÂŤbuon cristianoÂť

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Nascita di Luigi

Educazione di Luigi

Luigi nutre un monaco affetto da lebbra

Luigi lava i piedi a un povero

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1214 Nasce a Poissy, da Luigi VIII e da Bianca di Castiglia. 1226 Muore il padre; a Reims, a 12 anni, viene consacrato erede alla corona, con il titolo di re di Francia; fino al 1236 Bianca di Castiglia assicura la reggenza. 1234 Luigi sposa Margherita di Provenza. 1242 Luigi IX vince a Saintes il re d’Inghilterra Enrico III. 1244 Strage dei catari, mille persone, assediate nel castello di Montsegur, si arrendono per essere poi arse nei roghi ai piedi del castello. 1248-1252 Luigi s’imbarca ad Aigues-Mortes per la settima crociata, Bianca di Castiglia riprende il governo. 1249 Vittoria di Damietta. 1250? Sconfitta di Mansourah e prigionia di Luigi IX. 1251 «Crociata dei pastori» guidata dal monaco detto Maestro d’Ungheria. Successiva scomunica del nuovo esercito crociato che viene definitivamento disperso a Bourges per ordine di Bianca di Castiglia. 1254? Ritorno di Luigi in Francia. 1258 Trattato di Corbeil, Giacomo I d’Aragona lascia la Provenza e la Languedoc in cambio del Roussillon e della Catalogna. 1259 Trattato di Paris che porta al termine il conflitto con l’Inghilterra. Gli Inglesi rinunciano alle loro pretese verso la Normandia, il Maine, l’Angiò, la Touraine e il Poitou ma avranno in cambio il Limousin, il Quercy e il Périgord. 1266 Carlo d’Angiò, con l’aiuto del fratello Luigi IX riceve il regno di Sicilia. 1270 Luigi IX parte per l’ottava crociata. Muore a Tunisi di peste. 1297 Luigi IX è canonizzato da papa Bonifacio VIII. Scene della vita di Luigi IX che sottolineano l’indole pia del sovrano, da una miniatura di scuola francese tratta da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1375-1379. Parigi, Bibliothèque nationale.

Luigi seppellisce i resti dei crociati a Sidone MEDIOEVO

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Luigi viene flagellato dal suo confessore 65


Dossier Due pagine miniate da un’edizione della Storia di San Luigi, biografia del sovrano commissionata da Giovanna di Navarra al siniscalco del re, Jean de Joinville (1225-1317), che seguí il sovrano nella settima crociata. Joinville è raffigurato mentre dona il manoscritto (a sinistra) e, contraddistinto dal blasone di famiglia, durante la presa di Damietta (nella pagina accanto), avvenuta nel 1249. 1360 circa. Parigi, Bibliothèque nationale.

una spiccata tendenza all’egocentrismo, che lo porta a presentarsi nelle pagine del suo scritto come un eroe in grado di dare lezioni al re su molteplici campi, il che induce il lettore a pensare di trovarsi piú spesso di fronte a un’autobiografia che a una biografia. Infine, la sua presunta mancanza di condizionamenti culturali appare un equivoco storiografico, in quanto anche «il laico Joinville» è influenzato da un suo preciso modello di riferimento, quello cavalleresco.

Quale Luigi?

processo di canonizzazione, ma per se stesso, per ritrovare l’amico morto trent’anni prima, un uomo che Joinville ha conosciuto e non «un modello ideale trasmesso dalla cultura».

Il vero volto

Il siniscalco, inoltre, è l’unico a poter parlare del re-cavaliere, perché è il solo dei suoi biografi che abbia vestito i suoi stessi panni. Egli poi, a differenza degli agiografi, non sottace i difetti del re, anzi ci presenta il ritratto di un uomo testardo, imprevedibile e duro nei confronti della moglie e dei figli. Infine, dato

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non certo irrilevante, Joinville scrive in francese, facendo dunque parlare l’amico, a differenza degli altri biografi, nel suo idioma originale. L’apprezzamento che la Storia di Joinville ha da sempre incontrato presso gli storici ha tuttavia impedito di metterne a fuoco i limiti. Il siniscalco, infatti, scrive mezzo secolo dopo gli eventi di cui fu protagonista, quando non solo la sua memoria appare sbiadita, ma le complesse vicende seguite alla morte del re, non ultima la sua canonizzazione, hanno cambiato sostanzialmente la sua idea del sovrano. Tradisce in numerosi passi

Dato ultimo e non trascurabile, Joinville scrive la sua biografia in un momento in cui, regnante Filippo IV, egli non è piú un personaggio di spicco a corte, anzi è stato messo ai margini e addirittura escluso dalla spartizione di alcune reliquie del re, a cui mostrava di tenere molto. Possiamo, quindi, immaginare che, nel momento in cui inizia a scrivere, su invito dell’unica amica che gli è rimasta a palazzo, la regina Giovanna di Navarra, egli sia animato da un sentimento di rivalsa, che lo spinge all’autocelebrazione. Resta dunque il dilemma su quale Luigi sia possibile avvicinare partendo dalle fonti. A quale verità si possa approdare. Si insinua il dubbio di rimanere impigliati nella sapiente opera di costruzione degli agiografi, nei codici di un’epoca, nell’imponderabile della storia e, con lo storico Jacques Le Goff, viene da chiedersi: «San Luigi è esistito?». Ovvero, è possibile rintracciarlo attraverso le lenti deformanti delle sue biografie? Per comprendere la personalità novembre

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Dossier di Luigi IX, si deve quindi fare un passo indietro e soffermarsi sulla sapiente opera di accentramento e di costruzione della monarchia francese compiuta dal nonno, Filippo Augusto. Questi affrancò la dinastia a cui apparteneva, quella dei Capetingi, dal peso dell’usurpazione compiuta dal suo avo, Ugo Capeto.

L’eredità del nonno

Ugo si era fatto incoronare re dei Franchi nel 987, a Noyon, in luogo del legittimo successore al trono. Il fatto di avere interrotto, con la sua incoronazione, la linea di successione carolingia, spinse la neoeletta stirpe dei Capetingi a cimentarsi in imprese sempre piú grandiose che dovevano far dimenticare l’antico strappo. Filippo aveva infine trovato il modo di colmare tale frattura, grazie al matrimonio con Isabella di Hainaut, discendente dell’ultimo re carolingio. Tramite la moglie, aveva reso possibile il reditus ad stirpem Karoli (il ritorno alla stirpe di Carlo Magno) sul trono di Francia. Il desiderio di conferire legittimazione alla propria dinastia lo aveva, inoltre, spinto ad allargare notevolmente il numero dei possedimenti direttamente soggetti alla corona. Egli si era poi dedicato alla costruzione di una «religione regia», attraverso l’affermazione di una simbologia sempre piú accentuata, a partire dal suo regno, della suzeraineté (sovranità): dalla consacrazione a Reims con l’olio del battesimo del re merovingio Clodoveo alla sepoltura nel sacrario regio di Saint-Denis. Proprio su tale strada, Luigi IX, molto piú del padre, proseguí la politica del nonno, cosí attenta alla liturgia regia. Sotto il suo regno si restaurarono e ricopiarono i libri per la consacrazione dei re di Francia, basati sul mito dell’olio carismatico di Reims, e fu realizzato, quello che è stato definito «il piú grande programma funerario del Medioevo»: la risistemazione delle tombe dei re di Francia a Saint-Denis, trasformata in «luogo di immortalità monarchica».

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Sempre il nonno, Filippo Augusto, aveva trasmesso al nipote la gioia patriottica della vittoria di Bouvines (27 luglio 1214). Come ebbe a scrivere Georges Duby in un suo celebre saggio, la battaglia, nella quale il re di Francia fu costretto ad affrontare la temibile coalizione del re Giovanni d’Inghilterra, interessato a recuperare i suoi perduti possedimenti sul suolo francese, fu la prima delle grandi battaglie «europee», destinata a definire nei secoli l’assetto politico-territoriale del continente e a far nascere il sentimento francese dell’unità nazionale. In breve, Filippo Augusto aveva posto le basi per lo sviluppo dello Stato monarchico francese, indirizzando moralmente il nipote a procedere in quella direzione. L’esempio del nonno fu determinante nella formazione della «coscienza regia» del giovane Luigi, turbato dal ricordo dei tumultuosi giorni del suo breve interregno di quindici giorni, tra la morte del padre e la sua consacrazione, durante i quali la nobiltà aveva tentato di contestare il suo diritto alla successione. Furono questi gli elementi che instillarono, nel neoeletto sovrano, l’orgoglio di re, mettendolo al tempo stesso in guardia sulla dura disciplina che tale compito avrebbe richiesto.

Spada e tunica tradizionalmente attribuiti a Luigi IX e custoditi nella basilica di Saint-Denis.

L’esempio di Filippo Augusto fu fondamentale per la formazione religiosa e morale del giovane Luigi

Il re fanciullo

Alla morte del padre, nel novembre del 1226, Luigi ha appena 12 anni e a tenere le redini del Paese è la madre, Bianca di Castiglia. Di origine spagnola e di temperamento austero, è una cattolica di ferro e instilla nel giovane monarca un intransigente sentimento religioso. Lo storico statunitense William Chester Jordan presenta l’educazione religiosa del giovane Luigi come uno strumento usato dalla madre per indirizzare le sue scelte future. In realtà, alla prova dei fatti, l’influenza della madre appare limitata, anzi essa sembra subire le decisioni improvvise e inaspettate del figlio, come quando, contro il parere di lei, novembre

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parte in crociata e le lascia per la seconda volta la reggenza del regno. Sulla crociata è necessario soffermarsi, perché essa appare l’ossessione di Luigi IX e insieme la sua impresa piú inspiegabile. Nel corso del Duecento, la spinta verso l’impresa d’oltremare si era notevolmente indebolita. Il susseguirsi di spedizioni disorganizzate e da-

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gli esiti sconcertanti, la volontà dei papi di sollecitare interventi armati anche all’interno della christianitas, lo spostamento degli interessi mercantili delle città marinare, avevano logorato dall’interno l’idea di crociata. La quarta, che si era conclusa con il saccheggio e la conquista di Costantinopoli, aveva deluso profon-

damente quanti si erano imbarcati a Venezia per salpare alla volta della Terra Santa. I barbari esiti di quella spedizione avevano contribuito a fomentare sentimenti fortemente anticrociati. Anche la spedizione contro gli albigesi del 1208 aveva avuto effetti nefasti sulla mentalità collettiva, perché vide affermarsi in quell’occasione la pratica della «cro-

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Dossier ciata politica», destinata ad avere grande successo nel XIII secolo. In seguito, la quinta crociata (1217-1221) – quella di Federico II – aveva ancora una volta cambiato natura e volto di tale impresa. Partito nel 1219 per convertire il sultano, l’imperatore concluse invece un negoziato politico che stabiliva la coabitazione dei cristiani e dei musulmani in Terra Santa. Tale accordo, risultato scandaloso agli occhi del papato, aveva spinto Gregorio IX a inviare lettere ai potenti d’Europa affinché insorgessero contro la scellerata politica oltremarina dello stupor mundi. In un periodo di cosí forte impopolarità della crociata e contro la volontà della famiglia, prese invece forma il proposito di Luigi IX di prendere la croce. Alcuni storici hanno voluto leggere in tale scelta l’attaccamento del re a un cliché superato, quello del re cavaliere e crociato: un anacronistico tentativo di compiere un’impresa ormai al tramonto. Altri, al contrario, vi hanno intravisto l’inizio della futura politica coloniale francese. Il frangente in cui matura tale progetto sembra però dare piú ragione ai primi che ai secondi.

un re di giustizia

Luigi IX e la riforma dei costumi Nel campo della giustizia Luigi fu un vero innovatore, capace di grandi slanci ammodernatori da una parte e di iniziative retrive e conservatrici dall’altra. Profuse lo sforzo maggiore nella riforma della macchina statale, che intese moralizzare dalle sue fondamenta. Rafforzò il potere centrale a scapito del potere signorile e delle comunità cittadine e utilizzò come strumento privilegiato della propria azione di governo l’ordinanza regia, legge o provvedimento declamato nelle pubbliche piazze. È stato notato come il moltiplicarsi delle ordinanze sotto il regno di Luigi IX sia il riflesso

del buono stato di salute del potere monarchico, che si rafforza e si centralizza sempre piú e tende quindi attraverso i molti provvedimenti legislativi, a uniformare la giustizia in tutto il regno. La moralizzazione della macchina statale si realizza attraverso il controllo serrato della condotta dei siniscalchi e dei balivi. Nel 1247, però, prima di compiere le riforme necessarie in tal senso, Luigi ordina un’inchiesta in tutto il regno, nel corso della quale gli intendenti del re si recano in ogni lembo della terra soggetta alla corona per raccogliere testimonianze ed

Le reliquie di Liegi Corona-reliquiario in argento dorato e pietre preziose, donata da Luigi IX ai frati domenicani di Liegi. Fine del XIII sec. Parigi, Museo del Louvre. Il diadema è costituito da otto piastre decorate e separate da statuette di angeli. Al centro di ogni piastra sono inseriti alcuni frammenti di reliquie della Passione di Cristo: schegge della Sacra Lancia, della Vera Croce e della Corona di spine, oltre a frammenti di ossa senza nome di apostoli e martiri, acquistati dal sovrano a Costantinopoli.

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eventuali lagnanze circa presunti abusi dei siniscalchi regi. Solo a seguito di tale inchiesta e sulla base delle lamentele raccolte viene studiata la riforma piú importante in campo legislativo compiuta dai Capetingi: la «Grande Ordinanza» del dicembre del 1254. Si tratta di un testo ampio e articolato, che riunifica provvedimenti nuovi e passati e che intende imprimere alla riforma dell’amministrazione un carattere chiaro e univoco. Poiché, come abbiamo detto, la Grande

Sigillo di Luigi IX, raffigurato con lo scettro e il Giglio, simbolo araldico della dinastia capetingia. 1252 circa. Parigi, Archives nationales de France.

Ordinanza rappresentò lo sbocco naturale dell’inchiesta del 1247, essa tende principalmente a moralizzare la condotta dei funzionari pubblici. I funzionari regi devono far rispettare la giustizia senza distinzione di persona; non devono accettare regali in pane, vino o frutta; né accettare doni per le proprie mogli e i propri figli, né, a loro volta, offrire doni alle mogli o ai figli dei propri superiori. Si vieta ai funzionari regi la bestemmia, il gioco dei dadi, la frequentazione dei bordelli. Essi non possono praticare l’usura, che nel caso dei funzionari, viene equiparata al furto. Nel territorio nel quale esercitano le proprie funzioni non possono acquistare immobili, né sposare figli o farli entrare nei monasteri o conventi di detto luogo. Non possono vendere la propria carica, né appaltarla. Non possono imporre alcuna multa prima che gli accusati non siano stati riconosciuti colpevoli in giudizio. L’ordinanza insiste con forza sulla presunzione d’innocenza, che deve essere ritenuta per chiunque fino al pronunciamento della condanna. Essi poi non possono ostacolare la circolazione del grano e si prevedono pene severe per la requisizione abusiva dei cavalli. La rimozione dalla loro funzione è prevista

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in caso di lagnanza verso il loro operato. Nella Grande Ordinanza vi sono poi provvedimenti che riguardano la morale generale. Sono vietati i giochi dei dadi (di cui si punisce anche la fabbricazione), il trictrac, la dama e gli scacchi. Le prostitute vengono portate fuori le mura cittadine, lontano dalle chiese e dai cimiteri, e la pena per chi affitta loro casa è stabilita nella confisca di un anno di canone di locazione. Per i residenti è vietata la frequentazione delle taverne, che restano aperte per i soli viaggiatori. Nell’Ordinanza vengono anche riuniti i provvedimenti contro gli Ebrei promulgati in due documenti precedenti, uno del 1230, nel quale il re ratificava le decisioni assunte da un’assemblea di baroni contro il prestito a usura, e un secondo (perduto) del 1240, nel quale si rinnovava il divieto del prestito a usura e della lettura del Talmud. Nel 1256, i provvedimenti contenuti nella Grande Ordinanza vengono reiterati e ampliati in un nuovo testo legislativo, meno attento alla moralizzazione dei funzionari regi e piú rivolto alla giustizia comune. Appaiono qui ridimensionate le iniziative contro la prostituzione, si ribadiscono ancora il principio della presunzione d’innocenza e il diritto a un regolare processo; spariscono i provvedimenti nei confronti degli Ebrei, non perché venga attenuata la politica di repressione nei loro confronti, ma, al contrario, perché, separato dalla giustizia generale, si puntualizza e si inasprisce in un capitolo a sé dell’attività legislativa del monarca.

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Dossier Nel 1244 il re si ammala gravemente e a Parigi si diffonde la notizia che egli è morto. Il suo biografo Joinville racconta: «Giunse, si diceva, a tali estremi che una delle dame che lo assisteva voleva stendere il lenzuolo sul viso e diceva che era morto. Un’altra dama, che stava dall’altra parte del letto, non lo permise e asserí che egli aveva ancora l’anima attaccata al corpo. Nostro Signore operò in lui e gli restituí la buona salute (…) ed egli non appena fu in grado di parlare, chiese di diventare crociato». Accompagnato dai fratelli, il suo prediletto Roberto d’Artois e il meno limpido e generoso Carlo d’Angiò, nel 1248 si imbarca nel porto da lui edificato per la crociata: AiguesMortes, nei pressi di Montpellier. Salpa alla volta di Cipro e da lí prepara l’offensiva contro il sultano

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d’Egitto, che dal 1244 aveva ripreso Gerusalemme ai crociati.

Prigioniero di «infedeli»

Sbarca presso Damietta, alla foce del Nilo, conquista la città e prosegue verso il Cairo, ma viene sconfitto e catturato col suo esercito nella battaglia di Al-Mansura, nel corso della quale il fratello Roberto, suo conforto e sostegno, perde la vita. Viene liberato solo a seguito del pagamento di un enorme riscatto. Sono già passati due anni dall’arrivo in Africa, e la Francia è certa che il re si accinga a tornare al suo popolo, che reclama la presenza del sovrano in patria. Ma Luigi non rientra neppure nel 1252, quando viene raggiunto dalla notizia del decesso della madre e rimanda di altri due anni il rientro, nella speranza di vedere la liberazione di tutti i suoi cavalieri.

Gli altri, fanti e balestrieri, che non possono pagarsi il riscatto, vengono nel frattempo uccisi. La catastrofe e l’umiliazione sono difficili da sopportare e in una lettera aperta al suo popolo, il re scrive che cosí è accaduto a causa dei propri peccati e di quelli dei suoi sudditi. Nel 1254, Luigi rientra portando sulle spalle il peso della dura sconfitta e l’idea di avviare un’ineluttabile azione moralizzatrice del Paese: quest’ultima, se, da una parte, si esprime in una salutare riforma della macchina statale, dall’altra assume i contorni di una politica di crescente oppressione delle minoranze religiose, bollate come nemiche della cristianità. L’impegno nelle riforme e nell’ammodernamento del regno si moltiplica e tutti sono ormai convinti che la triste pagina dell’impresa d’oltremare sia stata voltata per sempre.

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A destra Luigi IX parte da Aigues-Mortes per la VII crociata. Miniatura da Vita e miracoli di San Luigi del frate francescano Guillaume de Saint Pathus. 1330-1350. Parigi, Bibliothèque nationale. In basso morte di Luigi IX a Tunisi, il 25 agosto del 1270. Miniatura da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. Metà del XIV sec. Londra, British Library.

Un decennio piú tardi, invece, il re torna a porvi ogni suo sforzo. Gli uomini a lui piú vicini rimangono sconcertati: sfuggono loro i motivi di un’impresa inutile, per la quale la Francia ha già pagato un prezzo altissimo, in termini economici e di prestigio.

L’inutile impresa

Lo stesso fratello, Carlo d’Angiò, appena infeudato nel regno di Sicilia, rifiuta di accompagnare una seconda volta il fratello in crociata, nonostante sia desideroso di rafforzare la sua posizione politica nel Mediterraneo. Altrettanto fa il suo siniscalco e biografo, Jean de Joinville. Sprezzante dei consigli dei suoi piú fidati consiglieri laici e religiosi e spinto da nessun altro se non dal suo personale proposito, Luigi si imbarca nuovamente il 1° luglio del 1270. Per ragioni non chiare agli storici, la spedizione, invece di dirigersi in Terra Santa, punta su Tunisi. Forse si vuole usare la città come base per una successiva spedizione in Palestina o per un’incursione in Egitto, dove la conquista di qualche città commerciale potrebbe costitu(segue a p. 76)

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Parigi. Veduta (in alto) e disegno ricostruttivo (a destra) della Sainte-Chapelle. L’edificio, considerato un capolavoro dell’arte gotica francese, si trova sull’Île de la Cité, nel cortile del Palazzo di Giustizia, residenza reale sino al XIV sec. Attribuito all’architetto Pierre Montreuil, il santuario, consacrato nell’aprile del 1248, sorse come cappella palatina per volere di Luigi IX al fine di conservare la reliquia della Corona di spine, acquistata dal sovrano nel 1239. Distrutta da un incendio nel 1630, la Sainte-Chapelle subí nuovi danni durante la Rivoluzione francese, e, agli inizi dell’Ottocento, fu restaurata da Eugène Viollet-leDuc, Jean-Baptiste Lassus, JacquesFélix Duban ed Émile Boeswillwald.

Sainte-Chapelle: la «casa» della Corona 74

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LA cappella superiore (in alto) era riservata alla famiglia reale. Le pareti sono ricoperte, per tutta l’altezza, da grandi vetrate istoriate policrome in gran parte originali del XIII sec., che presentano storie dell’Antico Testamento e della Passione di Cristo. Qui sopra, due angeli sorreggono la Corona di spine, particolare del rilievo ligneo del baldacchino.

la Cappella inferiore (in basso), collegata al piano superiore da una stretta scalinata a chiocciola, era destinata al popolo e alla servitĂş.

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Dossier ire la base di un eventuale scambio con Gerusalemme. Difficile da accogliere l’ipotesi che, con la conquista di Tunisi, il re intendesse arrecare aiuto al fratello Carlo, rafforzando la sua posizione nel Mediterraneo. I documenti, infatti, mostrano come si è detto, la totale freddezza di Carlo nei confronti dell’impresa di Luigi. Sbarcato a Tunisi nell’estate del 1270, il sovrano viene colto da dissenteria e trova la morte il 25 agosto dello stesso anno. La crociata, nata come pegno-voto in una situazione di grave malattia del re, è la sola azione fallimentare nella politica di questo sovrano. Eppure una determinazione sconConsegna della Corona di spine a Luigi IX. Miniatura di scuola boema da un’edizione de Livre des merveilles du monde dell’esploratore Jehan de Mandeville, tra il 1357 e il 1371. 1410 circa. Londra, British Library.

La Corona di spine

Strumento del re All’inizio del XIII secolo, Parigi mancava ancora di una reliquia prestigiosa con la quale la città potesse identificarsi, come accadeva a Roma con la Veronica e a Costantinopoli con il Mandylion (una sorta di Sindone, che riproduceva il solo volto del Signore); un sacro resto, che, come nei casi sopracitati, fosse in grado d’istituire un richiamo diretto con Cristo. Le complesse conseguenze provocate dalla conquista latina di Costantinopoli offrirono alla giovane capitale del regno di Francia l’occasione per dotarsi del piú cospicuo corpus di reliquie gerosolimitane della cristianità. Nel 1236 la situazione dell’impero latino d’Oriente continuava a essere critica. Mancavano i mezzi per mantenere un territorio, ormai stretto in un accerchiamento totale. Baldovino II aveva inviato ripetute ambasciate a papa Gregorio IX per sollecitare soccorsi dall’Occidente in denaro e in

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uomini, ma il tentativo di organizzare una crociata era fallito. Per far fronte a tale contingenza, i latini d’Oriente cominciarono a scambiare e a vendere (e in alcuni casi a svendere) i «gioielli» bizantini: suppellettili, icone, reliquie e reliquiari, impoverendo irrimediabilmente il patrimonio artistico della capitale dell’impero romano d’Oriente. In tale contesto, il re di Francia, nel 1239, decide di impiegare una somma ingente per acquistare la piú importante delle reliquie gerosolimitane, la corona di spine. Per ospitare tale reliquia egli fa poi costruire uno dei piú mirabili santuari regi del Medioevo, la Sainte-Chapelle. La decisione di Luigi IX di custodire privatamente la reliquia e di costruire ad hoc una cappella palatina, non va però letta solo come volontà di accrescere il prestigio della reggia parigina, ma anche come possibilità che la corona di spine desse vita a una sorta di

religione laica, controllata interamente dal palazzo, in concorrenza con gli spazi destinati alla fruizione del sacro da sempre gestiti dalla Chiesa. Con la costruzione della SainteChapelle, la monarchia rivendicava un suo spazio sacro all’interno del palazzo, che gestiva con l’aiuto di un corpus di chierici stipendiati dalla corona. Il re seleziona, remunera, istruisce il «suo» clero sulle feste che intende celebrare; si assicura un personale deposito di reliquie a cui egli solo ha accesso, abbandonando cosí la politica dei suoi predecessori, Carlo il Calvo e Filippo Augusto, i quali avevano ceduto le proprie reliquie all’abbazia di Saint-Denis. Nel giorno anniversario dell’acquisizione della Corona di spine, l’11 agosto, Luigi IX la porta in processione all’interno del palazzo della Cité: «Nel giorno di detta festa, il re benedetto faceva chiamare quanti piú vescovi potesse, e faceva fare loro la processione insieme ai novembre

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certante spinge Luigi a ripeterla per la seconda volta, andando incontro a un tragico destino, al quale già a stento era scampato la prima volta. Per molti l’impresa oltremarina va letta nell’ottica di convertire i non cristiani, nella quale si devono anche far rientrare le ambasciate ai Mongoli, il prosieguo della crociata contro i catari e l’attacco agli Ebrei. Le Goff afferma che «Il Mediterraneo del XIII secolo è per i cristiani latini, per San Luigi in particolare, lo spazio di una grande illusione: quella della conversione, conversione dei musulmani, conversione dei Mongoli, ritorno dei cristiani grecoortodossi in seno alla cristianità». Ciò che appare evidente è che tale impresa fu in netto contrasto con gli interessi politici del regno. E se in passato la crociata poteva essere considerata come «il coronamento della condotta di un principe cristiano», nel XIII secolo il sen-

timento anticrociato è ormai a tal punto diffuso che difficilmente una severa educazione cristiana implica un atteggiamento favorevole a tale impresa.

La fine di un sogno

La stessa Bianca di Castiglia, infatti, si dimostra contrarissima alla partenza del figlio, tanto che i buoni rapporti che in genere Luigi intrattiene con lei, s’incrinano in quell’occasione e il biografo della regina scrive che quando ella apprende che il figlio, riavutosi dalla malattia, ha chiesto la croce, desidera vederlo morto. Per sostenere il suo progetto oltremare, Luigi intacca il tesoro accumulato con pazienza dal nonno (al fine di rendere autonoma la monarchia nelle sue scelte politiche) per votarsi a un’impresa che ormai non ha piú senso. Un’impresa osteggiata dall’opinione pubblica,

dimenticata dai papi, che rivolgono altrove le loro crociate, aborrita dai familiari, sconsigliata dagli amici; subisce l’umiliazione della prigionia e ciononostante decide di rimanere in Oriente per sei anni (mai un re partito per la crociata era rimasto cosí a lungo lontano dal suo regno). Muore infine a Tunisi, prima ancora di combattere, ucciso dalla malattia, invocando una Gerusalemme che non vedrà mai. A seguito della canonizzazione, che, come abbiamo detto, fu La Corona di spine. Parigi, NotreDame. La reliquia è racchiusa in un contenitore circolare trasparente, di 21 cm di diametro. Molte delle spine, probabilmente staccate da rami di Zizyphus – un arbusto spinoso comune in Giudea –, furono disperse nei secoli, perché offerte in dono dagli imperatori bizantini e, successivamente, dai re di Francia.

frati attorno al palazzo reale e poi di ritorno alla Sainte-Chapelle e durante la processione il re portava sulle sue proprie spalle la detta reliquia. E tale processione riuniva il clero e il popolo di Parigi» (Vita di San Luigi scritta dal confessore della Regina Margherita, in Historiens de Gaule et de la France, Tomo XX, p. 75). L’identificazione tra la corona di Cristo e la dignità regia, inoltre, fu resa possibile qui e non altrove, proprio perché Luigi IX seppe costruirle un culto separato rispetto alle altre reliquie del suo «tesoro». Egli, infatti, volle identificare il suo regno e il suo potere con la sola corona di spine che Dio gli aveva affidato – come si legge nell’ufficio liturgico da lui commissionato – per suggellare il patto dell’alleanza con il nuovo popolo eletto, il popolo franco, che tanti meriti aveva saputo conquistare grazie alle gesta gloriose dei re capetingi (vedi «Medioevo» n. 159, aprile 2010).

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Dossier Santi «reali» La Crocifissione del Parlamento di Parigi, olio su tavola del Maestro di Dreux Budé. 1450 circa. Parigi, Museo del Louvre. Sulla pala, dipinta da un anonimo pittore fiammingo su commissione di Dreux Budé, funzionario del re, sono raffigurati i santi protettori della monarchia francese: San Luigi, canonizzato nel 1297, Saint-Denis, primo vescovo di Parigi e patrono del regno di Francia, rappresentato dopo il martirio, con la testa mozzata tra le mani, e Carlo Magno, canonizzato nel 1165. Sullo sfondo a sinistra, tra San Luigi e San Giovanni Battista, si apre una veduta realistica del Louvre.

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san Giovanni battista

LA vergine maria

san Giovanni evangelista novembre

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pronunciata da Bonifacio VIII nel 1297, Luigi IX si distingue nei documenti e nelle biografie coll’epiteto di «rex christianissimus», già attribuito ai suoi predecessori, ma che per lui diviene attributo costante. Nel sermone di canonizzazione Bonifacio si era sforzato di presentare questo re come fedele alleato della Chiesa, rifulgente di ogni virtú cristiana. Col passare del tempo, l’effetto dello stravolgimento operato nelle fonti scritte per il processo di canonizzazione finí per consegnare ai posteri l’immagine stereotipata (segue a p. 83)

saint-Denis (dionigi)

MEDIOEVO

novembre

carlo magno

sovrani guaritori

Il tocco che risana

A partire dall’XI secolo, i Capetingi hanno iniziato a esercitare anche una funzione taumaturgica: toccare gli ammalati di adenite tubercolare nella pretesa di guarirli miracolosamente. Cosí facendo sono entrati in concorrenza con i poteri soprannaturali dei santi. Nell’esercizio del tocco hanno usurpato al clero il gesto che gli è proprio, la benedizione col signum crucis, e, soprattutto, hanno preteso di compiere quel «gesto» in un’area privata, il palazzo del re (vedi «Medioevo» n. 187, agosto 2012). Se, durante l’unzione, il re è nella cattedrale, ospite del potere ecclesiastico, durante «il tocco» egli è nel suo palazzo privato: «Chascun jour au matin, quant il avoit oy ses messes et il revenoit en sa chambre, il fesoit apeler ses malades des escroeles et les touchoit; cil qui avoient esté herbegiez la nuit devant en lostel du saint roi». (Ogni giorno al mattino, dopo aver preso messa, il re tornava nella sua camera e faceva chiamare i suoi malati di scrofole e toccava quelli che erano stati ospitati durante la notte presso l’ostello del santo re) (Cfr. Guillaume de Saint-Pathus, Vie de Saint Louis, in Recueil des Historiens de Gaules et de la France, t. XX, ed. Danou, Naudet, Paris 1840, pp. 58-121, pp. 98-99). L’accoglienza dei malati e il tocco avvenivano dunque «en la cort du saint roi» (nella corte del santo re), senza l’intermediazione di alcun ecclesiastico. La stessa pratica di offrire un’elemosina ai malati alla fine del tocco, indica la precisa volontà da parte dei sovrani di fomentare il pellegrinaggio a corte, che trasformava la reggia in un vero e proprio santuario. Non sfuggí ai contemporanei che tale pratica rappresentasse un’evidente usurpazione delle prerogative del clero. Geffroi di Beaulieu, biografo del re, mostrava infatti un certo disagio nel parlare di un miracolo che si voleva attinto alla sola sacralità regia, e scriveva – per correggerne la valenza simbolica – che il re non pensava di attribuire quelle guarigioni alle sue facoltà personali ma al segno di croce che proprio Luigi IX, per primo, avrebbe iniziato a fare sulla parte malata del corpo da risanare. Sappiamo invece che anche gli altri predecessori di San Luigi toccavano gli scrofolosi facendo il segno della croce sulla parte malata. È evidente, dunque, che Geffroi si trovi nell’imbarazzo di parlare di una pratica che si presenta con ogni evidenza in concorrenza con il carisma sacerdotale e vorrebbe correggerne il segno, sottolineando che mai il re pensò di poter attribuire tale potere alla regia maestà ma alla sola virtú del signum crucis.

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Dossier

L’affaire du Talmud Tra il 1239 e il 1254, Parigi vide il sodalizio tra la monarchia e l’Ordine domenicano in quello che è stato denominato l’affaire du Talmud, evento che determinò un radicale inasprimento della polemica antigiudaica rispetto ai secoli precedenti e rappresentò un punto di non ritorno nei rapporti tra cristiani ed Ebrei. Nel 1236 un ebreo convertito, Nicolas Donin de la Rochelle, avrebbe riferito al papa Gregorio IX, che gli Ebrei trascuravano l’Antico Testamento e si lasciavano guidare da un libro pieno di errori, che conteneva bestemmie contro Gesú e la Madonna, divenuto la loro nuova «Legge», il Talmud. La personalità e la vita di Nicolas Donin non sono ben conosciute, ma egli figura in alcuni documenti ebraici come «karaïte», cioè condannato dai rabbini, e viene citato puntualmente negli atti relativi a quelle dispute contro gli Ebrei che si susseguirono dopo il 1240. La notizia secondo la quale la sua denuncia sarebbe stata all’origine dell’affaire del 1240, si trova nelle Extractiones du Talmut composte per ordine del vescovo di Tuscolo, Eudes de Châteauroux, da un altro ebreo convertito, Thibaud de Sézanne. Nel 1239, a seguito delle accuse di Nicolas Donin, il papa scrisse una lettera agli arcivescovi e ai sovrani della cristianità affinché requisissero il Talmud agli Ebrei e verificassero se davvero vi fossero contenuti errori dottrinali. Nel 1240, in Francia, unico Paese in cui l’invito fu accolto, i Domenicani entrarono nelle sinagoghe e confiscarono tutti i libri. L’operazione assunse un tono particolarmente aggressivo, in quanto venne condotta di sabato, mentre gli Ebrei erano riuniti nelle sinagoghe per la preghiera. Il domenicano Enrico di Cologne

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fu il principale protagonista della pubblica condanna del Talmud nell’università di Parigi, da cui il testo fu bandito. Sebbene in seguito la Curia avesse cercato di smorzare i toni dell’operazione, con la bolla del 9 maggio del 1244 autorizzò Luigi IX, che ne aveva fatta esplicita richiesta, a procedere con roghi del Talmud in tutto il regno. Nel 1247, Innocenzo IV, spaventato dalle dimensioni che l’affaire stava assumendo in Francia, decise di sanzionarne gli zelanti esecutori, ordinando loro di sospendere la persecuzione contro gli Ebrei e di rendere loro i libri precedentemente confiscati. In risposta a tale perentorio invito, essi si affrettarono invece ad accelerare la procedura inquisitoriale avviata quasi dieci anni prima; essa prevedeva, infatti, che, una volta ordinata l’inchiesta dal pontefice, spettasse poi al vescovo pronunciarsi in base alle prove raccolte dagli inquisitori domenicani e francescani. La requisitoria, ordinata tanti anni prima, si ritorceva ora contro il pontefice, il quale, nel frattempo, aveva cambiato avviso, ma rimase impassibile di fronte al vescovo di Parigi che, il 15 maggio del 1248, pronunciò la sua condanna contro il Talmud. Dopo la decisione del prelato, infatti, il papa non poteva piú intervenire senza entrare in contraddizione con la procedura inquisitoriale. Nel 1250, nuovi libri furono requisiti in diverse città francesi. I Domenicani cercarono inoltre di cacciare gli Ebrei dalle università come si evince da una lettera di Alessandro IV del 1256, nella quale il pontefice ribadisce che gli Ebrei e tutti i non cristiani devono essere ammessi nelle università, dove «si apprende la legge divina» e si confuta l’errore dottrinale. L’atteggiamento della Curia romana restò tuttavia oscillante in merito alla gestione dei

rapporti con la sinagoga; una lettera di segno opposto fu infatti inviata a Luigi IX nel maggio del 1244. Nella lettera, Innocenzo IV si esprimeva in termini di «perfidia dei Giudei» e di «enormità del loro crimine». Il successo crescente dei Mendicanti, inoltre, rappresentò un decisivo peggioramento della loro condizione, soprattutto perché, a seguito delle pressioni esercitate dai frati, fu tolto loro il diritto alle dispute nel corso delle quali avevano in passato potuto difendersi grazie all’efficacia della loro cultura teologica. Uno scrittore ebreo della fine del XIII secolo, in una nota in margine al Deuteronomio scriveva che per mezzo dei Domenicani e dei Francescani «Israele è oppresso in ogni luogo» e definiva i Mendicanti «non persone». Il che rende perfettamente la percezione che gli Ebrei avessero dei frati francescani e domenicani. Il clima era divenuto in generale piú ostile non solo a causa dell’avvento dei Mendicanti. Piú di un papa inasprí i rapporti tra le due comunità con provvedimenti tesi a stigmatizzare l’estraneità del popolo ebraico in seno alla cristianità. Tra le prescrizioni del IV Concilio Lateranense (1215), si legge infatti «il consiglio» di far applicare sugli abiti degli Ebrei, in segno di riconoscimento, una rondella di tessuto giallo. Tale disposizione fu ignorata da tutti i Paesi della cristianità, ma Luigi IX, di propria iniziativa, decise di porla in obbligo. La prescrizione fu abolita dal figlio di Luigi IX, Filippo III l’Ardito, nel 1272, ma mantenuta in vita negli ultimi anni del suo regno. Nell’ordinanza di attuazione, Luigi affermava, svelando l’origine della sua ispirazione, di aver voluto accogliere con tale provvedimento la richiesta del frate domenicano Paolo Chrétien. Lo stesso Domenicano


Lezione di Torah. Miniatura da un manoscritto ebraico del XIV sec. Londra, British Library.

fu incaricato dal re di tenere una pubblica predica nella quale venne ribadita e argomentata la natura malvagia dell’indole degli Ebrei.  Nel XIII secolo, su una popolazione di circa 150 000 abitanti, vivevano a Parigi tra i 5000 e gli 8000 Ebrei, che risiedevano soprattutto nell’isola della Cité dove costituivano il 20% della popolazione. Sullo sfondo del clima sopra descritto, Luigi IX decise di impiantare il culto della corona di spine proprio nel cuore della Cité. Qui, come altrove, agli Ebrei era proibito uscire nei giorni anniversari della Passione di Cristo. La festa dell’11 agosto entrò presto nel novero di tale ricorrenza in quanto celebrava uno degli strumenti della Passione, ovvero la Corona di spine. Nell’ufficio liturgico che Luigi IX aveva commissionato ai Domenicani, si leggeva che gli Ebrei (e non i soldati romani) avevano imposto la corona dagli aculei pungenti al Cristo crocefisso per crudeltà. Come accadeva durante la settimana pasquale, quando le parole pronunciate dai pulpiti delle chiese infervoravano gli animi dei fedeli e attizzavano odi viscerali nei confronti d’Israele, tali festività dovettero avere una forte ripercussione. La Corona di spine aveva del resto già assunto una valenza antigiudaica ai tempi del nonno di Luigi IX: il biografo di Filippo Augusto, Rigordo, ricorda infatti una condanna comminata dal re contro otto Ebrei accusati di aver costretto un cristiano a percorrere le vie del villaggio di Bray-sur-Seine con una corona di spine in testa. Tale racconto mostra come già sotto Filippo Augusto, nell’immaginario cristiano, la reliquia fosse associata a uno strumento di tortura usato dagli Ebrei. (segue a p. 82)

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Dossier

Lettera autografa di Luigi IX, datata al gennaio del 1246, con cui si ratifica la fondazione della Sainte-Chapelle. Parigi, Archives nationales. Il sovrano decise di edificare la cappella sull’Île de la Cité, zona in cui viveva il maggior numero di Ebrei di Parigi, considerati nell’immaginario cristiano i torturatori di Cristo.

Nonostante gli sforzi compiuti dall’arcivescovo di Sens e dal suo entourage per impedire che la celebrazione di tale festa assumesse toni aggressivi, la scelta di Luigi IX di commissionare un ufficio liturgico proprio all’Ordine domenicano andò nella direzione opposta e consolidò il sodalizio politico-culturale operatosi tra la monarchia e l’ordine dei Predicatori in vista degli anni dell’affaire du Talmud. Nell’ufficio, gli Ebrei si sovrappongono ai soldati romani nel ruolo di carnefici e torturatori di Cristo. Essi sono l’Impia gens, la Synagoga crudelis che ride di soddisfazione della sua crocifissione: «Summum regem glorie spiniis coronatum ridet plebs perfidie morti comdemnatum alleluya!» («Ride il Popolo di perfidia che a morte sia condannato il sommo re di gloria di spine coronato!»). «Xristum sub serto spineo deridet plebs perfidie cuius cruore roseo sertum confertur glorie» («Il perfido Popolo deride Cristo oppresso dal serto spinoso il cui rosso cruore gli conferisce gloria»). (Manoscritto latino 1023, f. 389v, Parigi, Biblioteca Nazionale)

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La prima pagina del commento al Talmud di Salomone Isaccide (1040-1107), detto Raschi, tra i maggiori commentatori della Bibbia e del Talmud. Parigi, Bibliothèque nationale. novembre

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del re santo che nulla ebbe a che vedere con il vero personaggio storico. La Francia clericale della fine del XIX secolo ha poi fatto di San Luigi, in coppia con Giovanna d’Arco, un emblema, ogni volta che ha inteso riaffermare la propria supremazia.

ne anche verso le risentite parole del pontefice in reazione all’accordo stipulato da Federico II con il sultano Al-Kamil nel 1228: «Numquid super hiis non indignabitur zelus tuus aut impune Christus de regno suo et sedes repellitur, et transactionem principis solo nomine christiani qua templum Dei conceditur Machometo religio christiana conniventibus oculis approbabit» (Perché dunque non ti indigni di fronte a ciò? O forse Cristo deve essere scacciato impunemente dalla sua sede e la religione cristiana deve approvare, con occhi conniventi, l’accordo di un principe «cristiano» solo di nome che concede il tempio di Dio a Maometto?). Il pretestuoso sdegno del papa, come pure la fittizia urgenza d’inviare l’imperatore in crociata, accrescono agli occhi di Luigi la scarsa credibilità della Curia pontificia. Il suo rifiuto del feudo siciliano per il fratello Rober-

della Curia. Anche l’iniziativa della crociata, come abbiamo visto, rientra in tale autonomia d’intenti. La Chiesa, infatti, non sollecitò mai la sua impresa oltremare, proprio per la necessità di mantenere il potente monarca vicino durante i duri anni dello scontro con Federico II. Stereotipi e realtà Per due volte poi, Luigi IX deNel 1873, quando venne costruita la cise d’inviare ambasciate presso i chiesa del Sacro Cuore (sulla collina Mongoli, come se egli stesso e non di Montmartre, n.d.r.) per celebrare il papa fosse il «capo» riconosciuto la vittoria dei reazionari sulla Codella cristianità. Il papa aveva già mune di Parigi, la chiesa si riempí di provveduto ad affrontare diplomaimmagini e statue di San Luigi che, ticamente il problema mongolo, nell’immaginario dei committenti, inviando nel 1245 il francescano simboleggiava l’alleanza trionfante Giovanni di Pian del Carpine e, nel tra potere politico e potere religio1247, il domenicano André de Lonso. Tuttavia, nella realtà storica, la jumel presso il Gran Khan, per cofigura di Luigi IX è quanto di piú noscere da vicino gli orientamenti lontano vi sia dall’immagine del re della sua politica e scoprire se esialleato fedele della Chiesa cattolica. stesse la possibilità di un accordo. Egli, infatti, intrattenne con il Gli esiti della missione del Franceclero rapporti assidui, ma dimoscano furono poi ben conosciuti in strando di valutarne spesso negatitutta la cristianità, dal momento vamente l’operato. Ciò vache, come egli stesso atle in primis per il papato, di Il sovrano controllava ogni aspetto testa, al suo rientro la sua cui egli critica soprattutto di viaggio venne della vita religiosa, prevaricando relazione la disinvolta pratica di decopiata e diffusa. Si tratcretare scomuniche ai fini il clero di Roma tava di un testo che non di una politica personale e lasciava alcuna speranza aggressiva. Per tale ragione decide to d’Artois va letto come riflesso sulla possibilità di arrivare a un acdi non prendere parte al primo con- della preoccupazione di rimanere cordo diplomatico con il Khan, ma, cilio di Lione (nonostante i ripetuti impigliato nelle maglie della poli- ciononostante, nel 1248, Luigi IX, inviti del pontefice), nel corso del tica pontificia. Quando l’altro, ben da Cipro – dove si trovava in attequale viene comminata la scomu- piú ambizioso fratello, Carlo d’An- sa di passare in Siria per la crocianica nei confronti dell’imperatore giò, decise invece di accettare per ta – prende accordi per inviare una Federico II. sé l’offerta del papa, Luigi lo privò sua autonoma missione che prende E quando il papa, per ingraziarsi del suo appoggio, e a nulla valsero, forma nel 1253 col francescano Guil suo appoggio contro lo scomuni- anche in questo caso, le suppliche glielmo di Rubruk. cato imperatore, gli offre il feudo indignate del papa al fine di sollesiciliano per il fratello Roberto d’Ar- citare il suo aiuto nei momenti di «Oltre» la Chiesa Anche nella vicenda dell’«affaire» tois, Luigi gli fa rispondere tramite difficoltà militare del fratello. i suoi ambasciatori: «Nolit dominus L’emergere, nel XIII secolo – pro- del Talmud (vedi box alle pp. 80-82) ut unquam ascendat in cor nostrum ut prio a seguito delle critiche che da Luigi IX dimostra di non valutare aliquem christianum sine manifesta piú parti si levano contro l’istituzio- minimamente i continui richiami causa impugnemus» (Non vogliate ne ecclesiastica –, dell’ipotesi di un del papa, ma di seguire con caparSignore, che in cuor nostro scen- possibile rapporto «personale» con bietà la propria volontà di ridefida il proposito di portare guerra Dio dovette rafforzare, anche nel po- nire la posizione dei non-cristiani ad alcun cristiano senza manifesta tere politico, l’idea della legittimità nel suo regno. Tali posizioni, che si causa). Tale espressione sintetizza di un’autonoma condotta religiosa. presentano in netto contrasto con l’idea che Luigi IX ha della politica Luigi IX non solo dimostra di sentir- l’immagine stereotipata del re pio papale e che determina la sua ferma si autorizzato a seguire l’ispirazione e obbediente alla Chiesa, rivelano posizione di neutralità nei confron- personale in campo religioso, ma piuttosto l’immagine, molto meno ti dello scontro in atto tra papato e anche ad assolvere compiti e missio- confortante per il clero, di un moimpero. Una neutralità che mantie- ni tradizionalmente di competenza narca che si sente «oltre» l’istituzio-

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Dossier sopra) del feudo siciliano per il fratello Roberto d’Artois: «Nec nos pulsat ambitio; credimus enim dominum nostrum regem Galliae, quem linea regii sanguinis provexit ad sceptra francorum regenda, excellentiorem esse aliquo imperatore, quem sola provehit electio voluntaria; sufficit domino comiti Roberto, fratrem esse tanti regi». (Non siamo spinti dall’ambizione; crediamo infatti che il re della Gallia, Signore nostro, il quale per linea di sangue arrivò a reggere lo scettro dei Franchi, sia Autonomia religiosa piú eccellente di qualunque altro Una monarchia che mostrava di imperatore che vi pervenne solo per avere eccessiva consapevolezza delelezione volontaria; è sufficiente al la sua posizione di superiorità nei Signor Conte Roberto essere fratello confronti del clero, o almeno di una di cosí tanto re) (Matteo Paris, Chroparte di esso. Un clero che fu genenica Majora, ed. H. R. Luard, Londra ralmente alle dirette dipendenze del 1872-1883, III, pp. 627). re, che seguí obbediente le direttive Se Roberto d’Artois condivise in del sovrano, aiutandolo nella sua pieno tale visione del regno di Franambizione di gestire e amministrare cia e del suo ruolo di nazione-guida il sacro. Quando ciò non avvenne, lo in seno alla christianitas, Carlo d’Anscontro fu aperto come a Beauvais giò, invece, continuò a nutrire quella o a Reims, dove l’autorità piú angusta della superiorimonarchica entrò in aspro Attraverso la canonizzazione la tà della stirpe e dell’espancontrasto con l’autorità vesione della Francia in EuChiesa si riappropriò di Luigi IX, ropa e nel Mediterraneo. scovile (la vera concorrente del potere monarchico). La fiducia nella superiorità ricostruendo l’immagine del re Vi furono anche ecmorale della Francia, per secondo i propri criteri cezioni, come nel caso Luigi, superava l’idea della dell’arcivescovo di Sens, centralità del papato nella Gautier Cornut, grande fautore del- esplicita spesso nei suoi documen- Respublica Christiana. Luigi IX comla monarchia capetingia; ma la vera ti. Gli eventi positivi – come l’ar- batté questa centralità anche se in alleanza il sovrano la strinse con i rivo di reliquie preziose – vengono forme molto meno spettacolari di neonati Ordini mendicanti, che gli infatti presentati come ricompense quelle usate da Federico II. permisero di avere a disposizione per i meriti acquisiti dalla dinastia un «esercito di religiosi» in espan- capetingia, mentre gli insuccessi Un nuovo sovrano sione, bisognoso della sua prote- – la crociata in particolare – come Carlo d’Angiò invece, attraverso la zione, il cui radicamento in Francia punizioni per i demeriti. Egli appa- sua nomina al feudo siciliano, enavvenne nel segno del suo mecena- re convinto della superiorità mora- trò nella sfera d’influenza papale e impresse ai rapporti tra Capetingi e tismo. Il controllo poi, attraverso le della monarchia francese. l’Università di Parigi, sull’«intelliUna convinzione che i contem- Curia un andamento molto diverghenzia» del clero, rafforzò ulterior- poranei sembrano condividere, co- so da quello voluto e realizzato da mente la sua posizione di autono- me si evince dalle parole degli am- Luigi IX. L’iniziativa di Carlo di promia dalla politica pontificia. basciatori francesi che si recano dal porre la canonizzazione del fratello Il re controllava ogni aspetto papa per rifiutare l’offerta (ricordata va letta alla luce di tale mutato rapporto. Fu sua, infatti, l’iniziativa, e della vita religiosa; fondava nuovi solo a lui debbono essere attribuiti monasteri e nuovi conventi che viDa leggere gli sforzi per attuarla. sitava con regolarità; imponeva le Pronunciando il lunghissimo sue feste; amministrava il traffico U Jacques Le Goff, San Luigi, sermone per la canonizzazione di delle reliquie del quale si fece distri ed. Einaudi, Torino 1996 Luigi IX, Bonifacio VIII, pontefice butore in prima persona; dichiarava U Chiara Mercuri, Saint Louis et la particolarmente sensibile nel coautonomamente le proprie crociate couronne d’épines, ed. Riveneuve, gliere i segni d’insubordinazione contro i musulmani in Oriente o Parigi 2011 del potere politico, fu molto attento contro i catari e gli Ebrei nel suo ne ecclesiastica. Se, tuttavia, egli, riuscí a mantenere buoni rapporti con la Chiesa, ciò fu possibile solo a causa della delicata situazione politica, piú volte ricordata, del titanico scontro in atto tra papato e impero. Se il pontefice, infatti, non fosse stato a tal punto bisognoso di alleati, non avrebbe mostrato un atteggiamento altrettanto celebrativo nei confronti della monarchia francese.

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regno. Egli mostrava di non avere necessità d’investiture da parte del potere religioso, perché, di fatto, si trovava in una posizione di forza rispetto a quel potere, a cominciare dai chierici francesi, beneficiari della sua protezione e del papato, bisognoso del suo sostegno, o almeno della sua neutralità. Come è stato notato, già dal XII secolo i sovrani cercarono un po’ in tutta Europa di attribuire un carattere sacro alla propria dinastia, sollecitando la canonizzazione di un proprio membro. In Inghilterra fu canonizzato Edoardo il Confessore, mentre Federico Barbarossa impose il riconoscimento della santità di Carlo Magno. Si tratta dell’abusato stratagemma della creazione di un santo in famiglia, cosí da nobilitare l’intera stirpe. Luigi non è animato da tale intento, perché coltiva un’idea nuova della nobiltà di stirpe. Un’idea legata al merito, come

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Riesumazione dei resti di Luigi IX, ordinata da Bonifacio VIII in vista del processo di canonizzazione, concluso nel 1297. Miniatura di scuola francese da Les Grandes Chroniques de France. XV sec. Parigi, Archives Charmet.

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a sottacere tutti gli aspetti che mostravano un Luigi indifferente al potere religioso nelle proprie iniziative; e costruí piuttosto l’immagine del martire, caduto a Tunisi nel tentativo di passare in Terra Santa. Attraverso la canonizzazione, la Chiesa si riappropriò di Luigi IX, riproponendo le sue azioni nell’ottica dell’obbedienza e dello spirito di servizio verso il papa e verso la cristianità. E, oltre a ciò, proclamandolo santo, ribadiva la necessità del suo sigillo, del suo imprimatur, nel riconoscimento della presunta eccellenza del monarca. Si trattava di un processo esattamente inver-

so a quello attuato da Luigi IX, il quale aveva preteso di poter amministrare il sacro nel suo palazzo in maniera autonoma, sia attraverso il tocco dei malati, sia attraverso il culto della Corona di spine, usando tali iniziative per una propaganda a beneficio della sola monarchia. Con la sua canonizzazione, al contrario, la Curia plasmava, secondo propri criteri di opportunità, i contorni e i contenuti della santità del monarca, che dovevano essere in linea con il rispetto dell’autorità ecclesiastica di cui si celebrava, in ultima istanza, la potestà e la preminenza. V

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dimensione guerra inverno

Il generale

di Flavio Russo

Piú pericoloso di qualsiasi nemico, l’avvento della stagione fredda ha costituito un ostacolo insormontabile per gli eserciti di ogni tempo. Perché il successo di una campagna militare dipendeva in primo luogo dalla capacità di ottenere una rapida vittoria prima della fine dell’estate, cioè fino a quando era possibile garantire il vettovagliamento delle truppe 86

inverno N N elle rievocazioni storiche la cattiva stagione viene tradizionalmente considerata come il «generale inverno», perennemente vittorioso, solo perché, al suo apparire, entrambi i combattenti deponevano le armi, come in una resa incondizionata o in un armistizio coatto. Mai come in questo caso, però, la suggestiva etichetta si conferma antitetica, piuttosto che errata, poiché l’alto grado militare poco si confà a un «personaggio» talmente pacifista da inchiodare tutte le armi e bloccare tutte le battaglie... Il perché di un esito tanto «umanitario», affermatosi sin dagli albori della storia e non ancora dissoltosi completamente – sebbene minacciato dai nostri piú sofisticati siste-

mi d’arma e veicoli –, va attribuito all’instaurarsi di condizioni meteoambientali incompatibili con le operazioni campali e con la stessa sopravvivenza di uomini e di animali, perlopiú cavalli e muli. Infatti, se requisire il vettovagliamento per le milizie si dimostrò spesso arduo, riuscire a foraggiare il bestiame si confermò quasi sempre impossibile, senza contare che la brevità

In alto il Castello Comitale di Carcassonne, nel Sud della Francia, sotto la neve. Nella pagina accanto il «Generale Inverno» batte le truppe tedesche sul fronte orientale nel 1915-1916, copertina del supplemento illustrato del quotidiano parigino Le Petit Journal (in stampa fino al 1944), del 9 gennaio 1916. novembre

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dimensione guerra inverno Campagna militare in inverno. Olio su tela di Gillis Mostaert (1528-1598). 1590 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Anche nel Medioevo, compiere operazioni militari in inverno era considerato come un azzardo. In quella stagione, infatti, a causa delle condizioni meteorologiche avverse e per la scarsità degli alimenti, era difficile ricevere rifornimenti per uomini e animali.

delle giornate e la rigidità del clima frustravano qualsiasi velleità di svernare nelle tende o nelle rare baracche, appena meno inospitali. E quando si volle infrangere questa remotissima prassi i prezzi pagati furono altissimi e, per contro, modestissimi i risultati. Nel caso degli assedi poi si verificò una tragica inversione di ruoli: mentre gli assediati attendevano la buona stagione nel tepore delle proprie case, nutrendosi con le abituali provviste, gli assedianti si vedevano costretti a farlo in leggere tende, torturati dalla fame e dal freddo e, non di rado, dalle epidemie conseguenti.

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Si spiega anche cosí la proliferazione dei castelli nel Medioevo, ben al di là della effettiva valenza difensiva, poiché il protrarsi per pochi mesi di una loro sia pur tenue resistenza bastava a vanificare ogni investimento ossidionale.

Ingaggi di breve durata

Un esplicito riscontro del quadro fin qui delineato ci viene dalla breve durata degli ingaggi e degli arruolamenti, che andavano dai soli 40 giorni per le milizie feudali a un massimo di 3 mesi per quelle comunali, dal momento che un qualsiasi ulteriore decorso sarebbe stato inu-

tile. Scriveva Karl von Clausewitz, agli inizi del XIX secolo, riproponendo esperienze e conoscenze ultramillenarie, che, in ultima analisi, il perno della guerra consisteva, piú ancora che nell’armamento e nelle munizioni, nel vettovagliamento delle truppe. Ritenere che un soldato potesse continuare a battersi mangiando per giorni un tozzo di pane era una pura utopia, per cui nell’accingersi allo scontro era necessario predisporre un’intendenza efficiente, in quanto non si poteva fare affidamento, come nel passato era spesso accaduto e sopratnovembre

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tutto nel Medioevo, sui saccheggi e sulle requisizioni. Queste procedure erano agevoli e persino remunerative quando imposte ed effettuate da piccoli eserciti su grandi centri abitati, soprattutto durante la stagione propizia, perché all’ampia disponibilità delle derrate si univa anche quella dei coscritti. Dall’inizio della primavera all’autunno, infatti, un gran numero di produzioni agricole erano ormai a dimora, determinando una abbondanza di viveri, nonché un’eccedenza di braccia, che si protraeva fino al raccolto autunnale. Le brutali requisizioni in territo-

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rio ostile, perciò, oltre a risolvere il vettovagliamento, si rivelavano remunerative anche tatticamente, perché, privando il nemico delle sue risorse alimentari, lo prostravano gravemente.

A dorso di mulo

Dopo il collasso dell’impero romano d’Occidente l’idea di provvedere con un efficace servizio d’intendenza al vitto delle proprie truppe in avanzata o all’offensiva, compito precipuo della logistica, non fu piú presa in considerazione, in quanto l’operazione risultava estremamente complessa e spesso aleatoria. Sa-

rebbe stato, infatti, assurdo immaginare di trascinare al seguito delle colonne le lente salmerie, dette anche «coda logistica», con i viveri per l’intera campagna; è ancor piú irrealistico pensare di provvedere al vettovagliamento con convogli di carri. In quest’ultimo caso l’avanzare dell’esercito avrebbe peraltro provocato l’allungamento eccessivo delle carovane, esponendo cosí quel delicato cordone ombelicale al saccheggio nemico, con un doppio danno. Può sembrare ridicolo, ma nel contesto spietato delle guerre combattute nell’Età di Mezzo, essendo le salmerie prive di difesa, si

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dimensione guerra inverno reputò sleale attaccarle: il che non lo impedí mai! La vera interdizione ai combattimenti in inverno scaturiva, comunque, da una motivazione piú stringente, insormontabile nella sua banalità.

Una «dieta» impossibile

Sempre von Clausewitz osservava che se i soldati potevano tollerare qualche breve periodo di scarso vitto e finanche qualche giorno di digiuno, una «dieta» del genere non poteva essere imposta ai cavalli, che, per giunta, essendo erbivori, in carenza di foraggio deperivano molto piú rapidamente degli uomini. Entrando nel dettaglio, annotava poi che la razione per un cavallo pesava circa il decuplo di quella per un uomo e poiché, sin dall’antichità, il rapporto fra militi e cavalli, soprattutto dopo l’avvento della cavalleria, era pari a tre o quattro uomini per ogni animale, attraversando territori deserti o innevati, sarebbe stato necessario trasportare quantità di foraggio di peso almeno triplo e di volume molto maggiore dei viveri per gli uomini. Un’ipotesi che si dimostrò sempre inattuabile. Conoscendo quel rigido limite operativo, i Bizantini, nei loro trattati di arte militare, prescrivevano di bruciare tutti i pascoli incontrati durante l’avanzata in territorio nemico, frustrando cosí qualsiasi eventuale contrattacco: assenza di pascoli, infatti, significava assenza di cavalli e quindi assenza di eserciti in campo. Quanto all’espediente di far portare ai loro cavalieri un po’ di foraggio, non andò mai oltre al fabbisogno di un paio di giorni, stipato in apposite sacche ai lati delle selle. Grande impaccio e insignificante vantaggio, per cui la soluzione per antonomasia del foraggiamento restò sempre subordinata al pascolo in zona operativa, a patto, ovviamente, che vi fosse. Una potenzialità che, cessando con l’avvento dell’inverno, imponeva l’arresto di ogni campagna, peraltro già pesantemente condizionata proprio dal foraggiamento, che costringeva a scontrarsi al di fuori dei propri confini e a non

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sostare a lungo in una medesima regione, pena il suo esaurirsi. In via meramente teorica, sarebbe stato possibile condurre un assedio anche in pieno inverno, dal momento che, in un simile frangente, la cavalleria non aveva ruoli significativi. E, in effetti, vi furono casi del genere, ma, piú ancora delle marce e dei trasferimenti, i soldati in esso impegnati andavano costantemente vettovagliati, dal momento che il territorio circostante, già appositamente devastato dai difensori, dopo pochi giorni non forniva loro piú alcuna risorsa. Occorreva allora far affluire viveri in grandi quantità con convogli di carri che, per quanto in precedenza osservato, implicavano il pieno controllo dell’intero territorio attraversato, oltre a una abbondante riserva accumulata nelle basi di partenza. L’abnorme protrarsi degli assedi a città costiere sembrerebbe smentire quanto appena detto, ma si spiega con l’inarrestabile flusso via mare di viveri e di armamenti, sia per gli assediati che per gli assedianti, una circostanza che giustifica la preminenza difensiva assegnata e goduta dalle piazzeforti marittime. Tuttavia, anche in questo contesto, con l’avanzare della cattiva stagione, la navigazione delle unità minori, per le condizioni proibitive del mare, si interrompeva spesso, rendendo i rifornimenti problematici.

Tempo di guerra

La conflittualità medievale, pertanto, fu sostanzialmente una sequenza di brevi scaramucce tra potentati locali contigui, tra signorotti della guerra confinanti e tra comuni limitrofi, con rari scontri campali, durante i quali, non di rado, la popolazione vigilava per scongiurare la distruzione dei raccolti e degli alberi. In definitiva, si può concludere che sia gli scontri che gli assedi si estrinsecavano quasi sempre nell’arco primavera-estate, evitando qualsiasi cimento in autunno-inverno. Un limite rigido, in qualche occasione infranto nelle contese tra comuni

Miniatura di scuola francese raffigurante l’assedio di un castello, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1487. Londra, British Library.

limitrofi, per l’adiacenza fra il teatro operativo e la base di partenza, ma si trattò di una eccezione che confermava una regola. Paradossalmente, in larghi strati della società medievale, non si attendeva l’inverno per la pace che esso garantiva, ma la primavera per la guerra che prometteva! Uomini che vedevano nel combattimento una attività economica significativa, e un’opportunità di rapido arricchimento, attendevano la stagione che lo consentiva con ansia e ne accoglievano l’avvento con gioia. Una eco emblematica si coglie nell’Elogio della guerra, una composizione poetica attribuita con buona probabilità al trovatore provenzale Bertran de Born, che cosí recitava intorno alla metà del XIII secolo:

«Molto m’aggrada la stagion di Pasqua / che fiori e foglie adduce / mi giova udir la gioia degli augelli / che di loro canti riempiono il boschetto. / Ma pur mi piace vedere tra i prati / levarsi tende e padiglioni; / e grande allegrezza mi dà, per la campagna / ordinati veder cavalli e cavalieri armati; / villani e armenti fuggir dinanzi alle staffette / e dietro, una gran massa d’uomini d’armi; / di gioia mi empie il cuore / nel veder castella cinte d’assedio / rotte le palizzate… Masse d’armi, di spade, d’elmi colorati, e scudi / presto vedrem spezzate / vassalli cozzar insieme, e in mezzo / alla ventura errare i cavalli dei morti e dei feriti… e i morti infine con nel fianco ancora / i tronconi di lancia co’ lor pennoni». F novembre

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luoghi cappella brancacci

I maestri di Firenze di Ludovica Sebregondi

La chiesa fiorentina di S. Maria del Carmine conserva uno straordinario ciclo pittorico: commissionato agli inizi del Quattrocento da Felice Brancacci, a testimonianza del prestigio raggiunto dal proprio casato, è opera di tre grandi artisti del primo Rinascimento. Nelle pagine che seguono, le immagini e il racconto di una particolarissima collaborazione professionale...

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Firenze, S. Maria del Carmine, cappella Brancacci. Pagamento del tributo, affresco di Masaccio (al secolo Tommaso di ser Giovanni; 1401-1428), facente parte del ciclo delle Storie di San Pietro, commissionato dal notabile fiorentino Felice Brancacci, ed eseguito insieme a Masolino (al secolo Tommaso di Cristoforo Fini; 1383-1440 circa) tra il 1425 e il 1427. L’opera fu completata da Filippino Lippi tra il 1481 e il 1482.

pibile l’impegno della consorteria (istituzione sorta nel Medioevo per rafforzare il peso politico della famiglia, che veniva potenziata associando ai membri già uniti da vincoli di sangue gli affini e le persone appartenenti ad altri casati, n.d.r.), i cui membri sono affermati setaioli.

Seta e diplomazia

I I

Brancacci erano una delle famiglie inurbatesi nel corso del Duecento a Firenze, provenienti, per dirla con Dante, «di Campi, di Certaldo e di Fegghine». Erano originari proprio della zona di Campi e Brozzi, località della pianura in direzione di Prato, e l’inurbamento avvenne Oltrarno, non lontano da S. Maria del Carmine, complesso dell’Ordine carmelitano a cui la famiglia ha poi legato il proprio nome. La posa della prima pietra della chiesa del Carmine risale al 30 giugno 1268, e, già dal 1286, è attestato il rapporto con i Brancacci, anche

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Setaiolo è anche Felice di Michele Brancacci, nipote di Piero di Piuvichese, che nasce a Firenze nel 1382: a lui si deve la committenza del notissimo ciclo di affreschi. Felice ricopre incarichi importanti, anche militari, e inizia la carriera politica con la partecipazione alle Pratiche, organo consultivo della Repubblica fiorentina in cui vengono preventivamente trattate e discusse le decisioni prese dal governo. Si immatricola nell’Arte della Seta nel 1413 e, nello stesso periodo, trentunenne, sposa Ginevra Arrighi, che di anni ne ha sedici ed è fornita di una cospicua dote. A Felice vengono assegnati compiti di natura diplomatica non privi se è solo Piero di Piuvichese che vi fondò, prima della morte, avvenuta nel 1367, una cappella. Il lascito di Piero prevedeva un versamento annuo di 5 fiorini per un totale di 200, somma sufficiente unicamente per l’edificazione della cappella: solo nel 1387 si ha la certezza di interventi murari, mentre di decorazioni si comincia a parlare dal 1389 nel testamento di un altro membro della famiglia, Serotino di Silvestro, con una donazione di 50 fiorini, cifra inadeguata per la realizzazione di un importante ciclo pittorico. In ogni caso nella cappella è perce-

Dove e quando Cappella Brancacci Firenze, piazza del Carmine 14 Orario tutti i giorni, salvo il martedí, 10,00-17,00; domenica e festività religiose infrasettimanali, 13,00-17,00; chiuso nei giorni di Capodanno, 7 gennaio, Pasqua, 1° maggio, 16 luglio, 15 agosto, 25 dicembre Info tel. 055 2382195; www.museicivicifiorentini.it/ brancacci/

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luoghi cappella brancacci di rischi e che necessitano, oltre che di capacità di mediazione, anche di audacia e coraggio fisico. La missione piú significativa ha inizio il 30 giugno 1422, quando si imbarca per una ambasceria al Cairo.

Il testamento

Quattro giorni prima della partenza detta il testamento: il piccolo figlio Michele è nominato erede universale, ma viene citata anche la cappella del Carmine, che risulta fulcro dell’unità della consorteria, mezzo di distinzione nella società e di redenzione dell’anima. Nell’atto notarile – evidentemente connesso alla pericolosa missione – Felice attesta il proprio patronato sulla cappella di famiglia.

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L’ambasceria intende ottenere dal sultano d’Egitto il permesso di commercio per i mercanti fiorentini, la creazione di un fondaco ad Alessandria e l’accettazione del corso del fiorino con valore pari a quello del ducato veneziano. Risale infatti al 6 e 7 giugno, subito prima della partenza degli ambasciatori da Firenze, una provvisione che adegua al ducato dimensioni e peso del fiorino (il nuovo «fiorino largo») per contrastare l’egemonia dei mercanti veneziani nei commerci con l’Oriente. La missione raggiunge i suoi scopi, e anche la Repubblica di Venezia deve prendere atto dei privilegi concessi dal sultano ai concorrenti.

La cautela dimostrata nel redigere il testamento in vista della partenza – una consuetudine usuale al tempo data la pericolosità delle spedizioni, ma in questo caso anche per la delicatezza della missione – si rivela tutt’altro che eccessiva, poiché altri membri della spedizione muoiono e lo stesso Felice viene colpito da febbri. Anche il viaggio di ritorno, che inizia il 15 novembre e si protrae per tre mesi, è funestato

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Porta San Gallo Fortezza da Basso

A destra pianta del centro storico di Firenze con la collocazione della chiesa di S. Maria del Carmine (in alto, la facciata in laterizio rimasta incompiuta), eretta nel 1268, da un gruppo di frati carmelitani. In basso Trittico di San Giovenale. Tempera e oro su tavola di Masaccio. 1422. Cascia di Regello (Firenze), Museo Masaccio.

Giardino della Gherardesca San Lorenzo

Santa Maria Novella

Duomo

Ar no

Santa Maria del Carmine Giardino Torrigiani

Palazzo Pitti

Palazzo Vecchio

Santa Croce

Arno Forte di Belvedere

Giardino di Boboli Porta Romana

da avversità atmosferiche, nonostante le quali la spedizione rientra nel febbraio 1423: l’importanza dei privilegi commerciali ottenuti è tale che, al rimpatrio dell’ambasceria, a Firenze viene emesso un bando di chiusura delle botteghe e si tengono celebrazioni religiose.

Una vendita sospetta

I positivi risultati raggiunti consacrano definitivamente la posizione politica e sociale di Felice, non solo all’interno della consorteria, ma anche nell’ambito del ceto dirigente cittadino. Ma, proprio al ritorno dal Cairo, all’apice della sua popolarità, Felice, inspiegabilmente, vende due case e, in seguito, anche la propria schiava. La decisione di liquidare le abitazioni di famiglia a Firenze non pare determinata da difficoltà finanziarie, perché la sua attività di setaiolo risulta in attivo. La necessità di denaro contante, dunque, va probabilmente posta in relazione con l’inizio dell’esecuzione degli affreschi nella cappella del Carmine, a cui Felice affida con lungimirante chiarezza il compito di tramandare il nome del proprio casato.

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Le informazioni sul ciclo sono purtroppo molto limitate e le opinioni sulla data di inizio dei lavori di decorazione spesso discordanti, ma vi si pose verosimilmente mano intorno al 1424-1425 e l’intervento fu quindi programmato poco dopo il ritorno dalla missione in Egitto. Non è neppure documentato che sia stato proprio Felice a commissionare il ciclo, ma la sua posizione di preminenza all’interno della consorteria, unita all’affermazione nel primo testamento del 1422 del patronato sulla cappella e all’asserzione in quello definitivo di dieci anni dopo, che i «suoi» affreschi sono incompiuti, ce lo indicano come committente. La vendita delle case va collegata alla decisione di eseguire il ciclo pittorico: difficilmente un mercante avveduto come Felice avrebbe sacrificato un simbolo concreto della presenza della sua famiglia in città se non a favore di un emblema tangibile e prestigioso del potere della consorteria, quale un ciclo affrescato in una chiesa importante. Un ulteriore episodio potrebbe essere riferibile alla commissione del ciclo: dal 1° febbraio 1425 Felice ricopre l’ufficio di cassiere della Camera del Comune. Solo sette anni piú tardi una commissione verificherà l’esistenza di una malversazione di 2800 fiorini, regolarmente registrati sul quaderno di Felice, ma da lui trattenuti indebitamente. Non esistono prove della destinazione della notevole somma sottratta, ma forse fu destinata anch’essa alla grande impresa artistica. Poco dopo la morte di Ginevra, Felice nel 1431 sposa Lena di Palla Strozzi, vedova di Neri Acciaiuoli: il matrimonio con la figlia di uno degli uomini piú influenti di Firenze lo porta a una ricca attività e a una costante presenza alle Pratiche. Gli incarichi ricoperti lo mostrano membro del ristretto gruppo di cittadini nelle cui mani sono accentrate le decisioni politiche, e Felice viene inviato quale ambasciatore a Roma, presso Eugenio IV. Al tempo del regime instaurato (segue a p. 98)

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luoghi cappella brancacci Masolino

1

Predica di San Pietro

Masaccio

2

San Pietro risana gli infermi con la propria ombra

un capolavoro 1 2

1 3 4

2

lato sinistro 1

Masaccio

Pagamento del tributo 2

Masaccio

Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre 3

Lippi

San Pietro visitato in carcere da San Paolo 4

Masaccio – lippi

Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra

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masaccio

3

masaccio

4

Battesimo dei neofiti

Distribuzione dei beni e Morte di Anania

a sei mani 1 2

3

3 4

4

lato destro Masolino

1

masolino

2

lippi

3

lippi

4

San Pietro guarisce lo storpio e Resurrezione di Tabita

Tentazione di Adamo ed Eva

San Pietro liberato dal carcere

Disputa di Pietro e Paolo con Simon Mago e Crocifissione di San Pietro

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luoghi cappella brancacci Ritratti

I «grandi» di Firenze Molti personaggi illustri sono stati identificati nella cappella Brancacci, anche se, spesso, le individuazioni proposte risultano contrastanti o poco attendibili. Masolino (San Pietro risana gli infermi con la propria ombra)

Nell’uomo col cappuccio della scena in cui Pietro risana gli infermi si è ravvisato Masolino, tanto che Vasari ne ha ricopiato le sembianze per l’incisione che precede la Vita masolinesca. brunelleschi e masaccio (San Pietro in cattedra)

Al limite destro si riconoscono il ritratto di Brunelleschi e il presunto autoritratto di Masaccio. felice brancacci (Pagamento del tributo)

Nell’ultimo personaggio a destra tra gli apostoli del Tributo, si è voluto vedere il committente della cappella, Felice Brancacci, promotore della riforma tributaria, conclusasi con l’introduzione del Catasto, nel 1427. pittori, politici e poeti (Resurrezione del figlio di Teofilo)

Al centro della Resurrezione, Vasari – secondo il quale il giovane figlio di Teofilo nudo ha le fattezze del pittore Francesco Granacci – ricorda la presenza dei politici fiorentini Tommaso Soderini, Piero Guicciardini, Piero del Pugliese, e del letterato Luigi Pulci. Lippi e pollaiolo (Disputa con Simon Mago)

Sempre secondo Vasari, Filippino Lippi avrebbe segnato con la presenza propria e dell’amico Antonio Pollaiolo la Disputa con Simon Mago.

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da Rinaldo degli Albizzi, che invia in esilio a Venezia Cosimo dei Medici, Felice non è tra i partigiani piú accesi, ma risulta schierato sulle posizioni moderate del suocero, Palla Strozzi. Ciononostante, dopo il rientro a Firenze di Cosimo, tocca allo Strozzi prendere la via del confino a Padova, il 9 novembre 1434. Felice Brancacci viene coinvolto nelle congiure antimedicee ordite dal suocero e, vistosi scoperto, lascia Firenze nel dicembre di quell’anno: non tornerà mai piú in patria. Nel gennaio vengono sentenziati il suo esilio e il confino a Capodistria, ordini ai quali però non si adegua, venendo di conseguenza dichiarato ribelle. La sua situazione si fa difficile, ma riceve l’aiuto di Eugenio IV: Vespasiano da Bisticci, proprio illustrando la generosità del papa, narra che Felice «sendo in exilio et povero» con fare «vergognoso» si rivolge al pontefice, che lo soccorre con estrema larghezza. L’ultima notizia che riguarda Felice risale al 1447. Dopo la morte del figlio Michele, un’altra linea della famiglia, quella di Serotino, che dopo la condanna all’esilio aveva pronunciato con un atto pubblico la «rinuncia» ai consorti in disgrazia, si inserisce nuovamente nella vita politica cittadina.

I due «Tommaso»

I due Tommaso – nome che in Toscana diventa Maso – detti l’uno Masaccio e l’altro Masolino, sono gli autori del ciclo della cappella Brancacci, insieme a Filippino Lippi, che completò l’opera lasciata interrotta. Masaccio, cosí soprannominato per la «tanta trascuraggine avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose dell’arte sola» come spiega Vasari, nasce il 21 dicembre 1401 a Castel San Giovanni (oggi San Giovanni Valdarno), dal notaio ser Giovanni, figlio di un legnaiolo che realizzava mobili, forzieri e casse di legno, attività che valse alla famiglia il cognomen di «Cassai». Intorno al 1418 Masaccio si trasferisce a Firenze, iscrivendosi nel 1422 all’Arte dei Medici e Speziali, di cui facevano parte i pitto-

In alto San Pietro risana gli infermi con la propria ombra, dipinto da Masaccio sul registro inferiore della parete centrale della Capella Brancacci.

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In quel periodo Masaccio risulta dunque già in contatto con il complesso del Carmine, e anche con l’altro Tommaso, figlio di Cristoforo Fini e detto Masolino, che nasce a Panicale in Valdelsa nel 1383, e che Vasari ricorda come allievo di Ghiberti, con il quale avrebbe collaborato alla prima porta del Battistero. Masolino compie forse anche un apprendistato presso Gherardo Starnina, da cui trae il gusto di quell’operare sofisticato che lo caratterizza, soprattutto prima dell’incontro con il tanto piú giovane Masaccio. I due artisti collaborano almeno tre volte: nella cappella Brancacci, alla tavola della Sant’Anna Metterza per la chiesa fiorentina di S. Ambrogio, e nel polittico di S. Maria Maggiore a Roma, realizzato forse in concomitanza di un comune viaggio nella città del papa per il Giubileo nel 1423.

Una stretta collaborazione

ri: l’immatricolazione è da collegare all’esecuzione del Trittico di San Giovenale, primo suo lavoro noto, che reca la data del 23 aprile 1422. Un anno significativo per l’artista ventunenne, che, qualche giorno prima, il 19 aprile, assiste insieme a Brunelleschi, Donatello e Masolino alla fastosa cerimonia di consacrazione della chiesa del Carmine a Firenze, da lui rievocata

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successivamente nella famosa Sagra (consacrazione, appunto) di cui parlano le fonti. L’affresco, eseguito in chiaroscuro a terretta verde nel chiostro della chiesa carmelitana, e di cui restano copie parziali oltre a una descrizione vasariana, è stato in epoca successiva occultato o distrutto, e vari sono stati i tentativi – sinora infruttuosi – per trovarne traccia sotto gli intonaci.

Le opinioni dei critici sul procedere dell’intervento divergono profondamente: i due artisti, nel 1423 e 1424, furono impegnati altrove, quindi probabilmente Masolino eseguí la volta, le lunette e il registro mediano tra il completamento del lavoro di Empoli, nel novembre del 1424, e la partenza per l’Ungheria, il primo settembre 1425; gli affreschi del registro mediano dimostrano la stretta collaborazione di Masaccio con Masolino, prima dell’allontanamento di quest’ultimo, in seguito al quale Masaccio procedette ad affrescare il registro inferiore. Questa è una possibile cronologia del lavoro, ma è oggetto di discussione se, essendo probabilmente la commissione originaria fatta a Masolino (piú anziano di diciotto anni), questi avesse coinvolto Masaccio sin dall’inizio o solo in un secondo momento. I risultati del restauro indicano una presenza contemporanea di Masaccio e Masolino, avvalorando l’ipotesi di una collaborazione iniziata già nella fase di progettazione del lavoro e proseguita poi strettamente du-

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luoghi cappella brancacci Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dipinta da Masaccio sul pilastro esterno della parete sinistra della cappella Brancacci, prima (a destra) e dopo il restauro (in basso) ultimato nel 1990. L’intervento ha eliminato le foglie dipinte alla fine del XVII sec. per coprire le nudità dei progenitori, restituendo al dipinto l’aspetto originario.

Nella pagina accanto la Tentazione di Adamo ed Eva, affrescata da Masolino sul pilastro esterno della parete destra. Nel dipinto, l’albero della conoscenza, dal quale Eva ha staccato il frutto proibito, è un fico, secondo la tradizione mediterranea.

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rante buona parte dell’esecuzione. Proprio per sottolineare il continuo interscambio tra i due artisti (come la partecipazione di Masaccio alla parte di fondo della Resurrezione di Tabita), al critico Roberto Longhi si deve la controversa ma affascinante proposta che il volto di Cristo del Tributo sia opera di Masolino.

Dieci affreschi per uno

I due si erano divisi circa dieci affreschi per ciascuno, e forse, quando partí, Masolino aveva finito la propria parte. Nel 1426 anche Masaccio sospese il lavoro, per realizzare un polittico – oggi smembrato – destinato alla chiesa di S. Maria del Carmine a Pisa. Masaccio riprese gli affreschi della Brancacci nel 1427, e la sua presenza è documentata a Firenze ancora il 29 luglio; ma poi interruppe nuovamente l’intervento alla fine dell’anno per recarsi a Roma, dove morí ventisettenne nel 1428. Il ciclo pittorico è dedicato a storie di San Pietro. Prima che venisnovembre

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sero distrutte nei rinnovamenti settecenteschi, le vele della volta presentavano i quattro Evangelisti che Vasari dice eseguiti da Masolino, al pari delle due lunette delle pareti laterali con, a destra, Cristo che cammina sulle acque e, sulla parete opposta, la Chiamata dei Santi Pietro e Andrea intenti alla pesca. Le due scene erano accomunate dall’ambientazione tra barche e acque. Lateralmente alla bifora originaria sono stati rinvenuti, in alto sotto l’intonaco, gli arricci con le relative sinopie di due dipinti, i cui soggetti sono stati identificati come il Pentimento di Pietro per aver rinnegato Cristo a sinistra, attribuito dubitativamente a Masaccio, e Pasce agnos meos, pasce oveas meas (Giovanni 21, 15-23) a destra, ascritto a Masolino. Alla prima scena si riferisce la sinopia con una figura ammantata seduta, mentre alla seconda l’immagine di quattro pecore, che rinviano al mandato di pastore universale conferito a Pietro.

Figure idealizzate

La vita di San Pietro è dipinta in ordine cronologico da sinistra a destra in sezioni discendenti, mentre è opposto l’ordine delle due scene sui pilastri d’ingresso: sul sinistro appare la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre di Masaccio di fronte la Tentazione di Adamo ed Eva di Masolino. La successione temporale è dunque invertita a specchio. Nella Tentazione, l’albero dal quale Eva ha staccato un frutto e al quale si avvolge il serpente tentatore, è un fico: la tradizione di individuare nel fico l’Albero della conoscenza del Bene e del Male è piú mediterranea che orientale, mentre il melo deriva da una tradizione nordica portata dal gotico internazionale. Le due figure idealizzate di Masolino risentono del clima delle corti per l’eleganza della posizione, la grazia tranquilla delle fisionomie, la serenità arcadica, ma appare forte anche il richiamo all’antico e alla scultura romana. In accordo con la consuetudine del tempo, il corpo maschile è piú scuro di quello femminile.

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luoghi cappella brancacci Antitetico è l’episodio dipinto di fronte da Masaccio, tanto che le immagini vengono spesso accostate per evidenziare la diversità del linguaggio figurativo dei due artisti. Masaccio mostra un dramma, quello dei progenitori cacciati da un imperioso Angelo vendicatore vestito di rosso che brandisce la spada. Adamo nasconde il volto tra le mani, Eva – la cui bocca si contorce in un urlo disperato – cerca di coprire le nudità divenute indecenti dopo il peccato. La ricerca dell’espressione si unisce all’imponenza delle forme, le superfici plastiche sono definite da luce e ombra, le figure si ispirano a modelli classici pur mantenendo una forte connotazione naturalistica: Eva, nonostante il gesto della Venere pudica romana, ha un corpo greve e reale. Il Pagamento del tributo è un soggetto raffigurato raramente, tratto da un episodio del Vangelo di Matteo in cui si narra che, all’ingresso della città di Cafarnao, alcuni esattori chiesero a Pietro se il suo Mae-

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stro avesse pagato il tributo che gli Ebrei dovevano versare per accedere al tempio. Gesú allora inviò Pietro a pescare nel lago, annunciandogli che avrebbe trovato, in bocca al primo pesce preso all’amo, una moneta d’argento sufficiente per pagare la tassa.

Un soggetto inconsueto

Masaccio mostra tre diversi momenti: al centro il gabelliere esige il tributo da Gesú che indica il lago sulla sinistra, dove compare nuovamente Pietro accoccolato per prendere dalla bocca del pesce la moneta, che a destra consegna al gabelliere. Le figure centrali, nella loro disposizione semicircolare, mostrano una gravità antica, ma, nonostante il riferimento al mondo classico, sono ritratti di individui reali, protesi verso la testa di Cristo, che costituisce il centro prospettico della scena. La scelta dell’inconsueto soggetto è stata collegata alle discussioni, a cui prese parte Felice Brancacci che ne fu un assertore,

sulla riforma tributaria che imponeva la denuncia dei redditi al fine di una distribuzione piú equa delle tasse. Il dibattito si concluse nel 1427 con l’istituzione del Catasto. Ai lati della finestra sulla sinistra Masolino ha realizzato La predica di San Pietro, e a destra Masaccio il Battesimo dei neofiti, due scene collegate non solo tematicamente, perché la prima prepara la seconda, ma anche nell’ambientazione tra montagne brulle. Sulla parete destra, nel registro mediano, sono riuniti due episodi: San Pietro guarisce lo storpio e la Resurrezione di Tabita. Nonostante la disparità delle opinioni, generalmente si ritiene che l’esecuzione spetti a Masolino, mentre gli edifici e le figurine sul fondo sarebbero di Masaccio. Rinviano a Masolino e alla grazia del gotico internazionale i due eleganti giovani al centro, vestiti alla moda fiorentina e indifferenti alla realtà circostante, che hanno funzione di collegamento tra le due scene, mentre indirizzano al nome di Masaccio

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i fabbricati dello sfondo, veri brani di vita quotidiana con i loro accurati dettagli (vedi box a p. 104). Nella Distribuzione dei beni e morte di Anania a un lato della finestra, e nel San Pietro risana gli infermi con la propria ombra dall’altro, il miracolo non è proposto come evento sovrumano, ma viene calato nella realtà. Masaccio non cerca di sollecitare emozioni, e l’evento miracoloso è appena avvertibile. Non si hanno eclatanti manifestazioni soprannaturali, ma Pietro si muove con calma e gravità e compie il prodigio senza neppure gettare uno sguardo sull’infermo. Quasi non è possibile accorgersi che sia avvenuto qualcosa di straordinario. A Masaccio si deve anche la scena della Resurrezione del figlio di TeofiLa Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra, affrescati da Masaccio sul registro inferiore della parete sinistra. La parte centrale del dipinto, rimasto probabilmente incompiuto, è opera di Filippino Lippi.

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lo e San Pietro in cattedra, ma è ancora aperta la discussione se il pittore abbia terminato l’opera o se, alla partenza per Roma, la parte centrale fosse incompiuta, dato che quella attuale è opera di Filippino Lippi.

Miracolo ad Antiochia

Secondo la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, San Pietro fu liberato dal carcere dal prefetto di Antiochia, Teofilo, perché resuscitasse suo figlio morto undici anni prima. Dopo il miracolo, gli abitanti della città si convertirono ed edificarono una chiesa dove posero Pietro in cattedra. A Masaccio si devono lo sfondo e una parte delle figure, a Filippino il gruppo sulla sinistra (ma la terza testa è di Masaccio) e la zona centrale dall’avambraccio di Pietro fino ai due frati a sinistra della cattedra. Intorno al 1454 all’altare della cappella Brancacci fu trasferita la tavola duecentesca raffigurante la Madonna del Popolo attribuita a Coppo di Marcovaldo o al Maestro

di Sant’Agata, già sull’altare maggiore. I Carmelitani ridedicarono la cappella alla venerata immagine, forse per cancellare il ricordo di un patronato diventato politicamente scomodo. Per poter collocare la tavola fu distrutto un affresco di Masaccio presente sulla parete di fondo dietro la mensa e che fungeva da decorazione dell’altare. Parte della critica ritiene che, in quell’occasione, sia stata anche scalpellata la parte centrale della scena della Resurrezione del figlio di Teofilo con ritratti di membri della famiglia Brancacci. Appare comunque piú probabile che Masaccio abbia lasciato la scena incompleta, come ci informa Vasari, che non fa alcun cenno alla damnatio memoriae.

Significati nascosti

Perché Pietro? L’illustrazione della vita di Pietro è collegata a un intento celebrativo del papato e la scelta degli episodi della vita del Santo non fu lasciata alla discrezionalità degli artisti, ma si deve sicuramente a un teologo, anche perché la stessa Firenze appare lo scenario della missione e del suo martirio. Nell’iconografia tradizionale, la Genesi non risultava particolarmente connessa a San Pietro, ma, probabilmente, si è desiderato sottolineare il parallelo tra il Peccato originale e la possibilità della redenzione ottenuta per il tramite della Chiesa e del papato. Nelle numerose scene d’acqua si è anche voluto vedere una allusione al commercio marittimo, base della fortuna della famiglia, e, nel Tributo, un riferimento all’introduzione del Catasto. Inconsueta infine, e difficilmente spiegabile, la mancanza dell’episodio piú noto e dell’attributo iconografico piú famoso di Pietro: le chiavi e la scena della loro consegna, che abitualmente costituisce il momento centrale della vicenda pietrina, poiché sancisce il potere della Chiesa.

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luoghi cappella brancacci La cappella rimase incompiuta fino agli inizi degli anni Ottanta del secolo, quando Filippino Lippi la ultimò con San Pietro visitato in carcere da San Paolo e San Pietro liberato dal carcere sui pilastri esterni, e con la scena della Disputa di Pietro e Paolo con Simon Mago e la Crocifissione di San Pietro. È difficile risalire ai committenti del completamento: si è pensato a un Brancacci, dato che un marchese «de Brancas», che risiedeva in Francia, rinunciò al pa-

Particolare della parete destra della cappella con San Pietro guarisce lo storpio e la Resurrezione di Tabita, affrescati sul registro mediano (qui sotto) da Masolino; si ritiene che gli edifici sullo sfondo della Resurrezione siano, invece, opera di Masaccio.

firenze com’era

La città nel XV secolo Dipingendo la città sullo sfondo, Masaccio applica la sua esperienza in campo prospettico mostrando strade in scorcio. Lo spazio urbano ci viene riproposto con i suoi palazzetti, le case, le logge: negli edifici del primo Quattrocento veniva spesso usato l’intonaco, non solo bianco ma anche a colori brillanti come il rosa. Assai diffusi erano anche i costosi paramenti a bugnato, mentre nelle case piú modeste persisteva l’antico uso degli sporti, strutture aggettanti ai piani superiori, sostenute da mensole oblique lignee, che permettevano di ampliare i ristretti spazi abitativi. Al pian terreno si aprivano piccole finestre collocate in alto al riparo da pericoli o curiosità, a cui mancavano le imposte, ma che erano protette da sbarre di ferro. Le finestre dei piani superiori presentavano dimensioni maggiori: lateralmente sporgevano gli arpioni da stanghe, gli erri, il cui nome derivava dalla somiglianza con la lettera «R». Vi si infilavano stanghe di legno che correvano orizzontalmente davanti alla finestre e servivano a reggere i panni stesi ad asciugare e a sorreggere le tende o i drappi che ornavano la facciata durante le feste. Alle stanghe venivano anche attaccati al guinzaglio degli animali – qui un piccolo orso e una scimmietta – o gabbie degli uccelli.

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Nel registro inferiore (in basso), la Disputa di Pietro e Paolo con Simon Mago e la Crocifissione di San Pietro, affrescati da Filippino Lippi, che completò il ciclo pittorico della cappella Brancacci tra il 1481 e il 1482.

tronato solo alla fine del Settecento, ma la famiglia – pur riabilitata politicamente – non aveva risorse finanziarie sufficienti. Si è anche ipotizzato che a far ultimare il lavoro siano stati confratelli della Compagna di Santa Agnese, della quale facevano parte membri di illustri casati non solo della zona, dato che vi era iscritto Lorenzo il Magnifico. Un’altra ipotesi vede il completamento come volontà di eminenti abitanti del gonfalone del Drago che vi furono ritratti, quali Tommaso Soderini, che sovvenzionò altri interventi al complesso carmelitano. È comunque poco probabile che un committente – privato, confraternita o gruppo – abbia finanziato un lavoro impegnativo e importante come la conclusione della cappella, senza poi apporre alcuno stemma. I soli ritratti erano effimeri come prova tangibile di una committenza – infatti già nella generazione successiva se ne sarebbe perso il ricordo – mentre un’arme segnava inequivocabilmente un intervento.

L’ora di Filippino

Forse la decisione di far completare gli affreschi risale agli stessi frati del Carmine, che vedevano la propria chiesa alterata da una cappella, vicina alla maggiore, con vistose lacune nella decorazione pittorica. Lo farebbe fra l’altro pensare la scelta di avvalersi del giovane figlio del carmelitano Filippo Lippi, che aveva vissuto nel convento e aveva poi mantenuto rapporti stretti nonostante le turbolente vicende che lo avevano visto unito alla suora Lucrezia Buti, madre di Filippino. La decisione di mostrare le figure di facoltosi fiorentini del gonfalone del Drago potrebbe far ipotizzare che a essi si debba il finanziamento del lavoro, non in prima persona (ipotesi improbabile in una cappella ancora di patronato Brancacci), bensí con l’intermediazione del convento. Il pittore era appoggiato anche da Lorenzo il Magnifico, assai vicino a Tommaso Soderini. In ogni caso, il compito affida-

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luoghi cappella brancacci

Da leggere U Anthony Molho, The Brancacci Chapel: Studies in its

Iconography and History in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 40 (1977), pp. 72-83 U Leonida Pandimiglio, Felice di Michele vir clarissimus e una consorteria: i Brancacci di Firenze, Olivetti, Ivrea 1987 U Umberto Baldini, Ornella Casazza, La Cappella Brancacci, Electa, Milano 1990 U Luciano Berti (a cura di), La Chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, Giunti, Firenze 1992. U John T. Spike, Masaccio, Fabbri Editori, Milano 1995 U Jonathan K. Nelson, Patrizia Zambrano, Filippino Lippi, Electa, Milano 2004

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to a Filippino era difficile, perché la decorazione della cappella costituiva già un punto di riferimento importante per gli artisti, ma il giovane pittore seppe rispettare l’omogeneità del ciclo, adeguando il proprio stile e adattandosi all’impronta masaccesca.

Le foglie della vergogna

La cappella – già trasformata per l’inserzione della Madonna del Popolo – continuò a essere oggetto di manomissioni: risale probabilmente alla fine del Seicento, al tempo del bigotto granduca Cosimo III l’aggiunta di frasche per coprire le nudità di Adamo ed Eva. Poi, tra il 1746 e il 1748, si ebbero interventi drastici anche alla struttura architettonica: fu modificato l’arco d’ingresso a sesto acuto, con la conseguente riduzione in altezza degli affreschi del Paradiso terrestre; la volta a vele venne distrutta e sostituita da una cupola con La Vergine dà lo scapolare a Simone Stock di Vincenzo Meucci e architetture illusionistiche di Carlo Sacconi, mentre sulla parete di fondo fu collocato un grande altare barocco, poi rimosso. Nel 1771 la chiesa del Carmine fu devastata da un incendio, che risparmiò la cappella Brancacci, ma provocò alterazioni sulla superficie affrescata. Un impegnativo restauro (1983-1990) che si deve a Umberto Baldini e Ornella Casazza, ha messo in luce l’unitarietà del grande ciclo decorativo e ne ha ripristinato la leggibilità e l’antico splendore. Si sono scoperti brani sconosciuti, come i frammenti sotto il davanzale e la facciata di una chiesa, trovate le sinopie sotto le quadrature settecentesche, e rinvenute due piccole teste circondate da racemi nello sguancio della finestra. Ma gli interventi hanno consentito soprattutto il recupero della cromia originale degli affreschi che era stata offuscata dal tempo, dall’incendio e da precedenti restauri, restituendoci immagini colorate e chiare e cancellando l’idea di un Masaccio tragico e severo. F

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A destra Deposizione. Olio su tavola di Giovan Battista di Jacopo, detto «Rosso Fiorentino». 1521. Volterra, Pinacoteca Civica. Per dipingere San Giovanni Evangelista piangente (a destra), il pittore si è ispirato alla figura dell’Adamo dipinto da Masaccio nella Cacciata dal Paradiso terrestre. Nella pagina accanto San Pietro visitato in carcere da San Paolo, dipinto da Filippino Lippi sul pilastro esterno sinistro della cappella Brancacci.

Masaccio

Senza scuola, ma con molti allievi Nonostante la precocissima morte non gli abbia consentito di formare una scuola, come era avvenuto a Giotto, l’opera di Masaccio (per l’interesse alla prospettiva e al dato naturale), costituisce la base della formazione dei pittori rinascimentali. La sua rivoluzionaria interpretazione della realtà fu infatti punto di riferimento obbligato per le generazioni successive: Giorgio Vasari cita tutti coloro – e sono i principali maestri del Quattro e primo Cinquecento – che dalla Brancacci trassero ispirazione e che l’hanno copiata. Nel lungo elenco, l’autore delle Vite, inserisce Beato Angelico, Filippo Lippi, Alesso Baldovinetti, Andrea del Castagno, Andrea del Verrocchio, Domenico Ghirlandaio, Botticelli, Leonardo, Perugino, Fra Bartolomeo, Mariotto Albertinelli e Michelangelo. Ancora Raffaello, Francesco Granacci, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Baccio Bandinelli, Jacopo da Pontormo, Rosso Fiorentino. Il San Giovanni evangelista piangente dipinto un secolo dopo proprio da Rosso sulla destra della Deposizione oggi nella Pinacoteca di Volterra è, nella posa, copia della figura di Adamo nella Cacciata. Famose le parole di Brunelleschi alla notizia della prematura morte di Masaccio: «noi habbiamo fatto una gran perdita».

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caleido scopio

L’ultima dimora di un re d’Inghilterra?

cartoline • Alberto, monaco benedettino, giunge a Butrio, nell’Oltrepò pavese, poco

dopo il Mille e fonda un eremo. E, nello stesso luogo, trecento anni piú tardi, si sarebbe rifugiato Edoardo II, per sfuggire alla congiura ordita ai suoi danni dalla moglie...

L’

eremo di S. Alberto a Butrio (Pavia), nel territorio comunale di Ponte Nizza, è abbarbicato su uno dei primi contrafforti rocciosi dell’Appennino ligure-emiliano, a 687 m d’altitudine, tra le faggete e i castagneti dell’Alta valle Staffora. La data di fondazione del manufatto è sconosciuta, cosí come è impossibile qualsiasi assegnazione cronologica puntuale per i differenti corpi di fabbrica di cui si compone. L’unica certezza è l’anno della decorazione pittorica, poiché i frescanti, in calce a molte raffigurazioni, hanno inserito commenti e iscrizioni esplicative, annotandovi anche il periodo in cui

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sono state realizzate, ossia tra luglio e settembre del 1484. Tale datazione coincide comunque con l’ultima delle tappe di completamento della difficile vicenda costruttiva del monumento, le cui origini si perdono nell’Alto Medioevo o, forse, in epoche ancor piú lontane. Dove e quando

L’eremo di S. Alberto a Butrio ospita una comunità di monaci eremiti orionini. Info e visite guidate Associazione culturale «Spino Fiorito»: cell. 333 3418574, 339 2098288 o 328-9094024

Al primo impatto visivo attrae l’attenzione dei visitatori la torre, alta 16 m e impostata su una pianta quadrangolare di 6 m per lato. La muratura del suo basamento presenta elementi morfologici simili a quelli di edifici militari d’età tardo-imperiale, e non si può escludere che a quel periodo risalga la prima fabbrica del manufatto, successivamente rimaneggiato fino ad assumere l’aspetto attuale. Sembra che a dar vita alla fiorente abbazia, edificata tra gli inizi dell’XI e la metà del XII secolo al centro delle terre comprese nel feudo marchionale della potente famiglia Malaspina – allora dominatori novembre

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incontrastati del territorio appenninico settentrionale, che per questo era anche chiamato «Langhe Malaspina» –, sia stato un monaco benedettino, forse cluniacense, di nome Alberto. Certamente protetto dagli stessi marchesi, che all’aprirsi del Mille risiedevano già nel vicino castello di Oramala, l’eremita Alberto, oltre al nucleo monastico principale, fondò personalmente anche cellae sparse in valle Staffora e cenobi con ramificazioni nel piacentino e nella piana oltrepadana.

Potente e indipendente Il monaco morí verosimilmente il 5 o il 9 settembre del 1073 e, pochi decenni piú tardi, l’abbazia era già un’istituzione molto potente. Padrona di vasti territori, gestiva un buon numero di luoghi di culto da essa dipendenti, amministrava un patrimonio economico-fondiario rilevante ed estendeva la propria influenza su gran parte della valle Staffora, con cunei di penetrazione nelle aree circostanti. Poteva persino contare sul privilegio dell’esenzione dalla giurisdizione vescovile. La ricchezza e il potere del monastero aumentarono Butrio (Pavia), eremo di S. Alberto. Una veduta generale del complesso (nella pagina accanto) e uno scorcio del chiostro (in basso)

ulteriormente nel secolo successivo grazie a lasciti, donazioni e acquisti e al consolidarsi dell’autorità feudale dei Malaspina di Oramala che in quel periodo ebbero il loro piú illustre rappresentante: il marchese Obizzo. La tradizione vuole che il nobile, fedele a Federico Barbarossa, sceso nella Penisola italica per la quarta volta nel 1166, avesse salvato l’imperatore dall’agguato teso contro di lui a Pontremoli l’anno dopo. Obizzo avrebbe tratto in salvo Federico attraverso i suoi feudi montani, percorrendo un antico tragitto, che passava anche per Butrio, e permettendogli in tal modo

di riparare in patria, evitando gli eserciti della Lega, sancita contro di lui a Pontida nell’aprile 1167.

Dalla fioritura alla soppressione L’apogeo dell’abbazia si colloca nel Duecento, parallelamente al massimo splendore del castello di Oramala, che allora ospitò una tra le principali corti trobadoriche. Nel Trecento, a causa delle ripetute suddivisioni familiari dei feudi malaspiniani, anche il castello di Oramala e, di conseguenza, l’abbazia di Butrio, persero prestigio e autorità. I monaci si rifugiarono sotto la protezione dei conti Dal

Il miracolo dell’acqua Molto poco sappiamo sulla vita di Alberto, ma è presumibile che uno degli episodi centrali della sua esistenza sia narrato nel grande riquadro Sant’Alberto, alla mensa del papa Alessandro II e in presenza di tre cardinali, converte l’acqua in vino, affrescato sulla parete sud del presbiterio nella chiesetta a lui dedicata (foto qui sopra). La scena, dall’importante valore biografico e documentario, illustra un miracolo descritto nei perduti Atti della Vita del Santo e comunque presente nella tradizione orale. La storia racconta che Alberto, tacciato di aver celebrato la messa senza osservare il prescritto digiuno, per discolparsi dalla presunta infrazione, ritenuta gravissima, abbia dovuto recarsi a Roma dal papa, probabilmente Alessandro II. La raffigurazione lo ritrae all’estremità sinistra della tavola, in piedi e di fronte, vestito di un saio scuro, con la mitra e il pastorale, mentre benedice una brocca presentatagli da un paggio. Alle sue spalle, al centro dell’immagine, c’è una lunga mensa imbandita, dietro vi sono seduti il Papa e tre cardinali. I bicchieri trasparenti poggiati sul tavolo lasciano intravedere il vino di cui sono colmi, versato da quelle stesse brocche, prima riempite con l’acqua del pozzo e poi benedette da Alberto.

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caleido scopio Verme, che estendevano i propri domini dal Vogherese a Bobbio. Nel 1449 il Feudo di Pizzocorno, comprendente anche il territorio di Butrio, fu ceduto a Luigi Dal Verme, conte e signore di Voghera, Bobbio e Castel San Giovanni. Il sintomo piú evidente della decadenza fu il passaggio dell’abbazia al regime commendatario, avvenuto nella metà del Quattrocento. Quattro secoli dopo, il 25 aprile 1810, l’eremo di Butrio venne soppresso. Agli albori del Novecento la struttura, ormai abbandonata e in rovina, suscitò l’interesse di Don Orione. Nel 1925 il santo si fece affidare dal Vescovo la gestione della Parrocchia di Butrio e da allora trasformò l’eremo nella sede di una colonia di frati suoi seguaci, i «Figli della Divina Provvidenza».

Tre cappelle comunicanti Il nucleo architettonico principale dell’abbazia è composto da un complesso chiesastico di tre cappelle addossate e comunicanti, a cui si raccorda la casa canonica. Il piú antico dei tre luoghi di culto è la piccola chiesa di S. Maria, che risale alla prima metà dell’XI secolo. Ad aula unica absidata, orientata con l’altare a est, secondo l’interpretazione escatologica del primo cristianesimo, si presenta scandita in due campate, coperte da altrettante volte quadrate a crociera nervata. I fedeli, però, varcano l’area sacra dalla chiesa di S. Antonio,

Butrio, eremo di S. Alberto, chiesa di S. Antonio. Alcuni degli affreschi della parete sud: a sinistra, il martirio di San Sebastiano; a destra, episodi della vita di Santa Caterina da Alessandria. 1484. che, detta anche Torre Quadrata o Vestibolo, si trova a un livello piú basso rispetto all’entrata. Questa mostra un’organizzazione interna piuttosto anomala. Lo schema planimetrico, ad aula, ha forma trapezoidale e si presenta scandito in quattro campate da un unico grosso pilastro centrale cruciforme, a lesene e semicolonne addossate. Gli affreschi ornano le pareti perimetrali, le coperture, i sostegni e l’altare, e sembrano adattarsi perfettamente alla struttura spaziale dell’ambiente. L’aggetto e i profili di ciascun elemento architettonico sono infatti sottolineati da cornici policrome, al punto che l’architettura romanica tende a scomparire, nascosta dall’esuberante decorazione policroma. La bottega artefice dell’opera, pur nella forma un po’ ingenua dei motivi decorativi a greca, losanga, fiori, stelle e strisce, che invadono l’ambiente, accompagnano e rimarcano i

Gli ultimi giorni di Edoardo II Le cronache ufficiali inglesi sostengono che il re Edoardo II d’Inghilterra sia morto il 21 settembre 1327 nel castello di Berkeley, trucidato dai sicari assoldati dalla moglie Isabella di Francia e dall’amante, Lord Ruggero Mortimer. Invece, il filologo e diplomatico Costantino Nigra (1828-1907), nel saggio Uno degli Edoardi in Italia; favola o storia? (in Nuova Antologia, I, Roma 1901), sulla base di ulteriori considerazioni, valuta la possibilità che il monarca sia deceduto come eremita tra le colline dell’Oltrepò pavese. Secondo la sua tesi, ripresa anche da altri ricercatori, pare alquanto probabile che il rifugio di Edoardo II sia stato il tranquillo e isolato eremo di S. Alberto a Butrio. Sembra, infatti, che lo sventurato sovrano, sfuggito ai suoi aguzzini, si sia rifugiato prima al castello di Melazzo, vicino ad Acqui Terme (Alessandria), e poi tra le ospitali mura del convento oltrepadano.

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contorni delle figure e incorniciano i riquadri, ha inteso privilegiare i toni del rosso, bianco, verde e giallo, con una notevole sapienza di variazioni cromatiche. In origine le pitture murali dovevano, con molta probabilità, impreziosire completamente anche il tempietto di S. Alberto, completando il programma votivo, cosí ben espresso nella chiesa S. Antonio.

Per le spoglie del fondatore Questo secondo luogo devozionale, realizzato ex novo o per adattamento di strutture già esistenti, dopo la morte del santo fondatore per custodirne e venerarne le spoglie, conclude il percorso nel complesso chiesastico. L’accesso all’edificio, adesso ingentilito soltanto da alcuni lacerti a fresco, è consentito da una modesta apertura, inserita nella parete dirimpetto all’entrata principale dell’abbazia. L’interno si sviluppa in lunghezza, seguendo il fianco sud delle altre due chiese. Il chiostro, appoggiato al muro settentrionale della chiesa di S. Alberto, appare formato da una sequenza di arcate, in cui si alternano una trifora e tre bifore, separate da pilastri, ad archi strombati, sorretti da colonnine con capitello e pulvino. Inserito nel muro del portico c’è un loculo tombale, ormai vuoto, sormontato da un arco a tutto sesto: la leggenda vuole si tratti della tomba del re Edoardo II, riparato a Butrio, dopo essere fuggito dall’Inghilterra. Chiara Parente

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Maestri senza fissa dimora libri • Grazie ai contributi presentati in occasione

di un seminario internazionale, il volume curato da Serena Romano e Damien Cerutti sviluppa un aspetto decisivo della produzione artistica trecentesca

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ffre un punto di vista particolare sull’arte del XIV secolo, questo Artista girovago. Il volume, che raccoglie le ricerche presentate in occasione di una giornata di Studi all’Università di Losanna, mette in luce il ruolo chiave svolto dall’artista nel diffondere modelli figurativi. Pittori, scultori e progettisti sono girovaghi per definizione perché, alla ricerca di committenze sempre

Lo scaffale Francesca Allegri Donne e pellegrine dall’Antichità al Medioevo

Editoriale Jaca Book, Milano, 110 pp.

12,00 euro ISBN 978-88-16-41148-7 www.jacabook.it

Uno spaccato di storia femminile in cui le numerose protagoniste

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nuove, si muovono richiamati da centri di potere, esportando cosí formule e stili che vanno a innestarsi su tradizioni diverse. Lo scenario è l’Italia settentrionale del Trecento: nei primi decenni ci sono città vivaci come Rimini, in cui il passaggio di Giotto, diretto a Padova, fa risvegliare il fermento creativo nelle botteghe, Bologna, con i miniatori che invece resistono a lungo alla monumentalità del giottismo, mentre la Lombardia

si accostano al pellegrinaggio per i motivi piú diversi, ma, come emerge alla fine, sempre per una motivazione comune. Attraverso una fluida carrellata di vicende, supportata dalla documentazione bibliografica, emergono diversi profili di donna: la santa, la prostituta, la regina, la nobildonna, la guerriera, la religiosa, sono solo alcune delle figure di un variegato mosaico di umanità che abbraccia oltre mille anni di storia. Interessante, nelle conclusioni, il confronto di

queste protagoniste con le loro coeve controparti maschili, da cui vengono distinte per varie ragioni. Innanzitutto, per l’attenzione al mondo fisico che rimane viva anche nel perseguimento di un obiettivo trascendente, poi per il coraggio, in larga misura maggiore, e, infine e soprattutto, per la volontà ferrea e incrollabile, che rese capaci queste donne di accettare la rinuncia a quanto di piú caro, non esclusa, all’estremo, la loro stessa essenza femminile. Paolo Leonini

Serena Romano e Damien Cerutti (a cura di) L’artista girovago. Forestieri, avventurieri, emigranti e missionari nell’arte del Trecento in Italia del Nord Viella, Roma, 348 pp., ill. b/n 48,00 euro ISBN 978-88-8334-697-2 www.viella.it

Ivano Ceriani Francesco e il Principe di Gerusalemme

Edizioni Terra Santa, Milano, 32 pp., ill. col.

5,50 euro ISBN 978-88-6240-149-4 www.edizioniterrasanta.it

Si rivolge ai bambini dai tre anni in su, questo testo sul Poverello di Assisi,

appena uscito per i tipi di Edizioni Terra Santa. Per introdurre i piccoli al tema del dialogo, Francesco e il principe di Gerusalemme riporta con un linguaggio immediato e illustrazioni vivaci la leggenda legata al viaggio del Santo a Gerusalemme e al suo incontro con Valí, il principe musulmano della città. L’episodio narrato non è documentato sul piano storico, ma nasce dalla devozione popolare per Francesco e per il Santo Sepolcro, una devozione che, nel corso dei secoli, dà forma a questo

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caleido scopio richiama artisti toscani per campagne ambiziose. Nella seconda metà del XIV secolo gli Stati signorili dei Visconti a Milano, dei Savoia in Piemonte, degli Estensi a Ferrara, e poi dei Gonzaga, degli Scaligeri, dei Da Carrara in altri centri, inaugurano un nuovo corso: le esigenze di rappresentanza delle corti si traducono in commissioni architettoniche e pittoriche, che impegnano anche gli artigiani del lusso. E naturalmente le stesse figure professionali lavorano anche per gli Ordini religiosi, soprattutto cittadini, perché la realizzazione di edifici di culto rientra nell’ambito della ricerca del consenso.

Dai Campionesi a Giotto Il testo insiste cosí sui modelli stilistici che precedono la nascita del Gotico internazionale, e, in particolare, sulla cultura che ruota attorno alla Milano dei Visconti, nella quale si costruiscono edifici

Lo scaffale racconto: nell’ora piú calda del giorno, per le vie della Città Santa si aggirano due fraticelli, che vogliono visitare il Sepolcro. L’ingresso, però, è a pagamento: i due non hanno un soldo e la loro richiesta di pregare scatena l’ira del Valí. Ma quando il principe scopre che i frati sono accompagnati da una lettera vergata in oro dal sultano, che chiede di proteggerli, vuole ricompensare i religiosi con il dono della prima casa francescana a Gerusalemme. Con 15 tavole da colorare, il volumetto segue la precedente pubblicazione di Francesco e il

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grandiosi come il Duomo e la Certosa di Pavia. È l’ambiente in cui i Campionesi lavorano per generazioni nella scultura, imponendo uno stile riconoscibile, mentre, sul versante pittorico, la tradizione naturalistica sposa l’influsso giottesco. Il maestro fiorentino, a Milano attorno al 1335 per dipingere cicli di affreschi perduti nel palazzo di Azzone Visconti, introduce le sue forme moderne e pone le basi per la nascita di una pittura cortese che, nel secondo Trecento, si diffonde in tutta l’area lombardo-veneta. Fra i temi ai quali il volume dedica approfondimenti figurano il ruolo dei miniatori bolognesi che lavorano fra corti e università, quello dei pittori che si muovono lungo la via Emilia nel tratto compreso fra Reggio a Piacenza, o la presenza di scalpelli toscani fra Milano e Genova, nella prima metà del Trecento, e ancora l’influsso assisiate lungo la via Francigena. Stefania Romani

Lodi, S. Francesco. Maestro della tomba Fissiraga, Madonna col Bambino, San Bassiano e San Francesco che presentano Antonio Fissiraga, particolare.

sultano, in cui si narra la vicenda storica dell’incontro tra Francesco e, appunto, il sultano, attraverso illustrazioni accompagnate da testi brevi, ma fedeli alle fonti francescane. Stefania Romani

che si intrecciavano con gli spostamenti. Viene anche indagata la tradizione metallurgica del territorio, con un capitolo dedicato agli antichi opifici nell’area pistoiese. P. L.

Iacopo Cassigoli e Francesca Rafanelli (a cura di) Piteglio e l’antica viabilità della Val di Lima Storia, arte e religiosità sulla stratam de hospitali Crucis Brandeliane unde veniunt Carfagnini

Agnese Morano, Arianna Angelelli, Paola Costantini L’abbazia cistercense di Santa Maria di Falleri

Settegiorni Editore, Pistoia, 136 pp., ill. b/n

15,00 euro ISBN 978-88-97848-02-8 www.settegiornieditore.it/

Il paese di Piteglio, sulle alture dell’Appennino pistoiese, cade al centro di un antico tracciato viario, con una storia plurisecolare. Il volume ricostruisce questi percorsi, esaminando anche la toponomastica dei luoghi e le pratiche religiose e devozionali

insediamento di Falerii Novi (nei pressi dell’odierna Civita Castellana,in provincia di Viterbo) per prevenirne la totale decadenza. La popolazione aveva infatti deciso di trasferirsi sui monti, per via dell’eccessiva vulnerabilità del sito, esposto alle incursioni militari, e ridare vita all’antica

Morphema Editrice, Terni, 62 pp., ill. b/n

10,00 euro ISBN 978-88-96051-16-0 www.morphema.it

L’abbazia di S. Maria di Falleri fu costituita intorno alla metà del XII secolo nell’antico novembre

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Un Metodo di successo musica • Strumento spagnolo per antonomasia,

la chitarra ebbe in Luis de Briceño uno dei compositori che meglio seppero valorizzarla

L

a musica di Luis de Briceño, compositore spagnolo che si stabilí verso gli anni Venti del XVII secolo a Parigi, emerge in tutto il suo estro grazie all’uso della chitarra, a cui dedicò tutta la sua produzione. Uno strumento caro alla tradizione spagnola, nella sua versione a cinque cori (corde) e diffuso anche in Italia piú che in Francia, legata piuttosto alla raffinata tradizione del liuto, e che accettò con pacato entusiasmo la presenza dello Spagnolo a corte. Con la pubblicazione nel 1626 del Metodo mui facilissimo para aprender a tañer la guitarra a lo español, da parte dello

Falerii Veteres, un tempo distrutta dai Romani durante l’assoggettamento dei Falisci, ma mai scomparsa dal territorio. Il libro esamina la storia dell’abbazia, entrando nel dettaglio delle sue origini, analizzando le sue decorazioni artistiche, la sua genesi architettonica e le sue vicende costruttive anche attraverso raffronti con altre chiese. Un capitolo è dedicato all’approfondimento della scultura, con particolare attenzione alle iscrizioni del portale d’ingresso. P. L.

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stampatore reale Pierre Ballard, basato su di un originale sistema di intavolatura numerico, Briceño iniziò a ottenere un certo successo, aprendo la strada a generi che presero sempre piú piede anche negli esigenti ambienti di corte transalpini.

Melodie cariche di passione Con brani tratti perlopiú dal summenzionato Método, la registrazione Luis de Briceño. El Fenix de Paris (Alpha 182, 1 CD) da parte del gruppo francese Le Poème

Paolo Nanni (a cura di) Olivi di Toscana

Edizioni Polistampa, Firenze, 302 pp., ill. col. e b/n

38,00 euro ISBN 978-88-596-1106-6 www.polistampa.com

La «cultura» e la «coltura» dell’olivo in Toscana si incontrano in questo volume bilingue (italianoinglese). Il tema è affrontato a tutto

tondo, a cominciare dagli aspetti storicoculturali concernenti l’olivo e l’olio, attraverso l’analisi delle numerosissime testimonianze iconografiche, letterarie, nella cultura popolare nonché nel paesaggio stesso. L’attenzione si sposta quindi sulla realtà produttiva contemporanea, esaminando le tecniche colturali moderne, le diverse varietà, nonché il mercato di un prodotto di eccellenza che, per rimanere tale, dovrà anche saper interpretare il cambiamento. P. L.

Harmonique diretto da Vincent Dumestre, si addentra nei meandri di un repertorio in cui emerge potente la carica passionale della musica iberica, qui esaltata dalla chitarra, accompagnata da nacchere, violini, viole e contrabbasso. Ai movimenti di danza di origine spagnola – villancicos, pasacalles, españoletas, romances, ecc. – Briceño affianca melodie francesi a cui abbina testi spagnoli (tonos frances), creando un connubio stravagante, ma di ottimo risultato artistico. Le Poème Harmonique, con la sua grande frequentazione del repertorio seicentesco vocale-strumentale della Francia del XVII secolo e in particolare della musica di scena, è il gruppo che meglio di ogni altro poteva affrontare questo repertorio. I suoi interpreti, sia le belle voci del soprano Claire Lefilliatre e del mezzosoprano Isabelle Druet, sia gli strumentisti sanno infondere un tono quasi popolaresco a composizioni destinate a un ambiente di corte. Entusiasmante è il risultato, che vede sinergie e intenti interpretativi a volte lontani fondersi in una gaia festa musicale nella quale i brani di Luis de Briceño, intercalati da altri anonimi, vengono esaltati in tutta la loro passionalità. Franco Bruni

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caleido scopio

Se l’oboe resta Solo

musica • Un album doppio propone

un ricco e articolato itinerario alla scoperta della versatilità di uno strumento forse troppo spesso considerato come uno dei tanti «comprimari» di un’orchestra

È

un viaggio affascinante intorno al suono quello che ci offre la doppia antologia Solo (CR 101, 2 CD, distr. www.continuorecords. com), che Marika Lombardi ha dedicato al suo strumento, l’oboe, con un itinerario musicale denso, nel quale si confrontano in un dialogo articolato e fruttuoso mondi musicali diversi, quello contemporaneo, segnato dalla ricerca di ataviche sonorità, e quello raffinato e formale del barocco.

si amplia con un approccio piú libero, meno rigoroso rispetto agli spartiti bachiani, nel quale l’interprete si cimenta con una struttura apparentemente piú «improvvisativa» nella sua mutevolezza di colori, ritmi e forme utilizzate.

Riletture moderne

Follie e danze Il primo CD, dedicato a musiche del Sei e Settecento, si apre con Marin Marais, celebre compositore di musiche per viola da gamba, di cui viene qui eseguita una trascrizione per oboe delle variazioni sul tema della folia di Spagna tratta dalle Pièces pour violes (1701), per poi soffermarsi sulle grandi figure del barocco maturo. Johann Sebastian Bach primeggia con la sua magnifica Partita in la minore, un esempio di purezza formale nella sua suite di danze in cui la Lombardi si destreggia egregiamente. Ai Bach ci riconduce il secondo

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ascolto, una sonata di Carl Philipp Emanuel composta nella stessa tonalità del la minore, quasi un omaggio a Bach padre, seppur con stilemi decisamente diversi. Con quattro Fantasie (nn. 2, 6, 8, 120) di Georg Philipp Telemann, il discorso

Col secondo CD, è il Novecento piú recente a fare la parte del leone, con un’unica presenza relativa al nuovo millennio (Tom Johnson), offrendo assaggi tanto rari quanto inusuali dedicati espressamente all’oboe, che diviene mezzo di sperimentazione dagli esiti piú originali. Marika Lombardi, da molti anni in Francia, mostra appieno le sue capacità, muovendosi con disinvoltura tra repertori musicali distanti. Un’antologia da non perdere e soprattutto un’occasione per avvicinarsi a uno strumento tanto conosciuto quanto insolito nella veste di protagonista assoluto di questi spartiti. F. B. novembre

MEDIOEVO



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