Medioevo n. 187, Agosto 2012

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aquileia beda il venerabile la civetta francesco da siena san fiorenzo dossier re taumaturghi

Mens. Anno 16 n. 8 (187) Agosto 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 8 (187) agosto 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

il magico tocco del

sovrano

quando i re facevano miracoli

beda il venerabile

e «la storia degli inglesi»

aquileia

l’età del patriarcato

francesco da siena

SIMBOLOGIA

un medico alle terme

LO SGUARDO DELLA CIVETTA

PASSIONEPER PER LA PASSIONE LASTORIA STORIA

€ 5,90

PPA AST ST



sommario

Agosto 2012 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

mostre E lucean le corazze Staffetta per un capolavoro

6 14

restauri Quasi una fotografia Un gioiello in riva all’Arno

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immaginario La civetta

Con gli occhi della verità

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di Lorenzo Lorenzi

costume e societÀ Le terme

Chiare, fresche et salutari acque...

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di Luca Pesante

musei I fasti di una capitale

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cartoline Nella rocca del cardinale

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appuntamenti Nel segno di Marquardo Tra oche e cantoni Duelli e matrimoni L’Agenda del Mese

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98 CALEIDOSCOPIO

STORIE aquileia Il patriarcato Il prestigio di Aquileia di Angelo Floramo

protagonisti Beda il Venerabile

La versione di Beda di Elena Percivaldi

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30

luoghi 42

piemonte San Fiorenzo Il teatro del sacro e della vita di Maria Paola Zanoboni

Dossier

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cartoline Arte sacra tra i vigneti

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libri L’Italia delle città Lo scaffale

108 110

musica Un’innovazione che guarda all’antico Trovatori ai piedi delle Alpi

112 114

quando i re facevano miracoli di Chiara Mercuri

42 l’arte della guerra Torri angioine

A tocchi a tocchi la campana sona di Flavio Russo

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Ante prima

E lucean le corazze mostre • Il Castello del Buonconsiglio di Trento e Castel

Beseno ospitano una rassegna sull’equipaggiamento dei cavalieri e ne raccontano il mondo e gli ideali

P

er una volta l’attaccamento di una comunità alle proprie tradizioni non è sfociato nel campanilismo o nel recupero forzato di una storia inesistente, ma ha salvato un patrimonio straordinario, che ora si offre alla nostra ammirazione. Infatti, se la Stiria, alla metà del Settecento, avesse accolto la richiesta dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, non avremmo la magnifica mostra che si è inaugurata a Trento, nel Castello del Buonconsiglio e in Castel Beseno (vedi box a p. 8). Il motivo è presto detto: l’esposizione presenta, nella sua quasi totalità, materiali provenienti dall’armeria della regione austriaca, la Landeszeughaus di Graz, che, nei piani della sovrana asburgica, doveva essere smantellata, per lasciare il passo alla creazione di un sistema di difesa centralizzato. Gli abitanti del capoluogo stiriano si opposero, chiedendo di salvare la loro istituzione, nella quale vedevano un simbolo della resistenza opposta ai Turchi, quando questi, alla fine del Seicento, erano giunti sino al Danubio, portando il loro attacco al cuore dell’impero austroungarico. La richiesta fu accolta e la Landeszeughaus cominciò cosí la sua seconda vita, che l’ha portata a essere, oggi, la piú ricca armeria esistente al mondo, con oltre 30 000 pezzi tra armi, armature da battaglia e armature da parata.

Il dipinto, voluto come immagine dello smisurato dominio acquisito dall’imperatore – si disse che sul suo regno il sole non tramontava mai, tale era l’estensione delle terre in esso comprese –, si presta come testimonial d’eccezione per il tema della rassegna, visto che il sovrano compare con indosso una corazza. Le splendide «ferraglie» esposte nelle

In alto particolare di un’armatura da torneo, presumibilmente realizzata per un membro della famiglia Herberstein. 1550 circa. Graz, Universalmuseum Joanneum, Zeughaus.

Il re del mondo A questo immenso patrimonio hanno dunque attinto i curatori della mostra, integrando la ricca selezione con materiali altrettanto scelti, come nel caso del ritratto di Carlo V realizzato da Peter Paul Rubens.

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sale del Buonconsiglio si datano tra il XVI e il XVIII secolo e dunque valicano gli abituali confini entro i quali «Medioevo» si muove, ma basta poco per comprendere come, in realtà, le tradizioni dell’Età di Mezzo siano ben presenti e vive: gli uomini che indossarono quelle armature, sia che lo facessero per andare a combattere, sia che se ne servissero per giostre e tornei, infatti, non facevano altro che rievocare il mito dei grandi cavalieri del passato. Gli stessi che Ludovico Ariosto celebrò nell’incipit del suo Orlando Furioso – citato, naturalmente, proprio all’inizio del percorso espositivo – e che, pur nelle mutate condizioni del mestiere delle armi, non cessavano di rappresentare un modello ideale. Concetti definiti e In alto l’«accampamento» ricostruito in una delle sale del Buonconsiglio, composto da una tenda militare in lino (XVII sec.), con armature di tipo ussaro (1590-1600) e una cassa in ferro per il denaro (seconda metà del XVI sec.). Graz, Universalmuseum Joanneum, Zeughaus. illustrati nel saggio d’apertura del catalogo della mostra, non a caso affidato a uno dei piú autorevoli storici del Medioevo, Franco Cardini.

La «morbidezza» dell’acciaio

Armature da giostra e da campo realizzate dall’armaiolo Michael Witz il Giovane per il barone Kaspar von Völs-Schenkenberg. 1560. Graz, Universalmuseum Joanneum, Zeughaus.

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Errata corrige con riferimento all’articolo Sogno di una notte d’estate (vedi «Medioevo» n. 186, luglio 2012) desideriamo precisare che la foto di p. 109 si riferisce all’altare maggiore della basilica di S. Giovanni in Laterano e non a quello della basilica di S. Maria Maggiore, del quale pubblichiamo qui l’immagine. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

Fin dall’inizio, colpisce il livello tecnico dei materiali esposti: è vero che, nella maggior parte dei casi, sono stati scelti equipaggiamenti realizzati dai migliori armaioli attivi nelle epoche considerate, ma di fronte a certi particolari costruttivi e a certe decorazioni, sembra quasi impossibile che le materie prime fossero il ferro e l’acciaio. La sinuosità dei profili, disegnati perché potessero adeguarsi al meglio alla fisionomia del corpo, o la ricchezza delle decorazioni danno quasi la sensazione che i loro artefici fossero riusciti a ottenere dal metallo la stessa morbidezza che una stoffa può offrire a un sarto. Ad aprire questa sfilata di «vestiti» di ferro sono otto armature da lanzichenecco commissionate a

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Ante prima Norimberga – all’epoca uno dei centri piú importanti per la produzione delle armi –, dalle rappresentanze cetuali della Stiria nel 1577. I componenti di questa sorta di pattuglia sono stati disposti cosí come le cronache tramandano che fosse organizzato un corteo nuziale, con lo sposo al centro, a cavallo, preceduto e scortato dagli altri uomini armati, a piedi. Un messaggio, dunque, tutt’altro che bellicoso, come del resto lo erano quelli trasmessi dai giochi di guerra, le giostre e i tornei, per i quali furono forgiate molte delle armature esposte.

Accorgimenti tecnici

Echi di antiche battaglie Castel Beseno, fortezza sulla Valle dell’Adige situata una ventina di km a sud di Trento, ospita la seconda parte della mostra dedicata ai cavalieri. In vari ambienti del complesso, che è la piú estesa struttura fortificata del Trentino, oltre a presentare armi, armature e altri equipaggiamenti da battaglia, sono stati riuniti tutti i reperti di natura bellica finora rinvenuti nel territorio trentino e oggi compresi nelle raccolte del Buonconsiglio. Integrano queste testimonianze spettacolari ricostruzioni realizzate in scala 1:1 – opera dell’artista e modellista Gigi Giovanazzi –, che riproducono l’alloggiamento di un cavaliere, un’armeria – dove i visitatori possono anche indossare elmi e corazze – e, soprattutto, il luogo in cui trovò la morte il capitano di ventura Roberto Sanseverino, che cadde nella battaglia di Calliano, combattuta nel 1487 ai piedi di Castel Beseno, tra l’esercito veneziano e quello asburgico.

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Le sale successive presentano numerose variazioni sul tema, che condividono la cura riposta nella realizzazione dei dettagli e, soprattutto, nella messa a punto degli accorgimenti tecnici ideati per garantire la facilità di movimento e per alleviare la fatica che derivava dall’indossare elmi e corazze e dall’uso delle armi: fra i tanti, per esempio, il dispositivo che, posto all’altezza del torace, permetteva di appoggiare la lancia e dunque evitare che il suo peso gravasse totalmente sul braccio del cavaliere.

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A destra Peter Paul Rubens, Allegoria dell’imperatore Carlo V dominatore del mondo. 1604. Salisburgo, Residenzgalerie. Nella pagina accanto, in alto il bastione sud di Castel Beseno, seconda sede della mostra sui cavalieri. Questa parte della fortezza aveva forse funzioni giudiziarie, come proverebbero due anguste celle che qui si conservano. Nella pagina accanto, in basso armature da lanzichenecco, realizzate a Norimberga su commissione delle rappresentanze cetuali di Graz. 1577. Graz, Universalmuseum Joanneum, Zeughaus. Anche tra gli armaioli, si affermarono veri e propri maestri, come Michael Witz il Giovane, attivo a Innsbruck alla metà del Cinquecento, di cui sono esposte le armature da campo e da parata realizzate per il barone Kaspar von Völs-Schenkenberg, ciambellano di corte dell’arciduca Carlo II a Graz, dal 1564 al 1568. L’aspetto che la Landeszeughaus della città stiriana aveva quando ancora funzionava come deposito a cui attingere in caso di necessità è evocato nella sala in cui, su una parete lignea, sono state allineate tre file di corazze, sormontate da una mensola per gli elmi. L’armeria, infatti, era stata realizzata, tra il 1642 e il 1645, al fine di mettere a disposizione di tutti gli uomini atti al combattimento l’equipaggiamento necessario. E si era scelto di crearla proprio a Graz, poiché la Stiria era la

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regione piú prossima al confine con l’impero ottomano, cioè piú vicina al piú temuto dei nemici. Una minaccia, quella dei Turchi, che si cercò di esorcizzare anche in occasione dei tornei, come dimostra la maschera con tratti somatici turchi, fra i quali non manca un paio di baffi realizzati con crine di cavallo, fabbricata nel 1557 e destinata a essere utilizzata in occasione di una festa chiamata «torneo ungherese».

Un mestiere disonorato Nelle sezioni finali del percorso si percepisce la sempre maggiore importanza delle armi da fuoco, che determinano nuove tecniche di combattimento e impongono anche l’evoluzione delle armature nel senso di una loro maggiore robustezza, cosí da renderle efficaci anche nei confronti dei proiettili. Archibugi e

pistole scrivono ormai un’altra storia e tracciano i confini di un mondo nuovo, in cui per i cavalieri, come scrisse ancora Ariosto, questa volta nelle rime che chiudono l’Orlando Furioso, non c’era piú posto: perché la polvere da sparo aveva distrutto la gloria militare e privato dell’onore il mestiere delle armi. Stefano Mammini Dove e quando

«I cavalieri dell’Imperatore. Tornei, battaglie e castelli» Trento, Castello del Buonconsiglio, Castel Beseno fino al 18 Novembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; lunedí chiuso Info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it www.buonconsiglio.it

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Ante prima

Quasi una fotografia restauri • Capolavoro

di Paolo Uccello, la Battaglia di San Romano recupera i suoi vividi colori e torna a offrire all’ammirazione dei visitatori la forza di una composizione dai toni quasi iperrealisti

È

tornata visibile, dopo un restauro durato tre anni, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Realizzata tra il 1438 e il 1440, l’opera raffigura il disarcionamento di Bernardino Ubaldini della Carda, comandante delle truppe senesi, avvenuto durante lo scontro svoltosi il 1° giugno 1432 nel Valdarno Inferiore, tra Firenze e Venezia da una parte, e i Senesi con i Milanesi dall’altra. Il pannello faceva parte di un ciclo pittorico, composto da tre tavole, rappresentanti diversi momenti dell’evento bellico, e oggi conservate in altrettanti musei, gli Uffizi di Firenze, il Louvre di Parigi e la National Gallery di Londra. Il dipinto è dunque l’unico superstite in Italia della terna, commissionata dal Priore delle Arti, Leonardo Salimbeni, e successivamente acquisita dal principe mediceo Lorenzo il Magnifico, nel 1484. Nonostante la netta distinzione dei tre episodi, simili a «istantanee», e le diverse proporzioni tra uomini e animali, le tavole evidenziano sia l’unità stilistica e concettuale, sia l’intento cronachistico e celebrativo della campagna militare intrapresa da Firenze contro la città di Lucca. Il restauro ha permesso di accertare che Paolo Uccello, artista che Giorgio Vasari definisce «dotato dalla natura d’un ingegno sofistico

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e sottile», non apparteneva alla linea «ufficiale» brunelleschiana del Rinascimento fiorentino, basata sull’adozione della perspectiva artificialis, legata allo studio della rappresentazione. Preferí, infatti, la prospettiva naturalis, correlata con la scienza della visione, nota in epoca medievale e ancora seguita nella prima metà del Quattrocento. Una posizione singolare, quella del pittore toscano, che si inserisce nell’alveo dell’Umanesimo di matrice tardo-gotica, scostandosi dall’elitaria ricerca del naturalismo, declinata da Masaccio o Donatello.

«Ossessionato» dalla prospettiva La sua poliedrica attività fu contraddistinta da straordinaria varietà linguistica e dall’amore incondizionato per la sua «dolce» prospettiva, coltivata fin quasi all’ossessione, apparentemente fine a se stessa e disomogenea. In realtà, anche se la visione dello spazio di Paolo Uccello non assorbí l’essenza psicologica che segnò la rinascimentale centralità dell’uomo, fu lucidamente studiata e originalmente interpretata. La Battaglia di San Romano testimonia magistralmente la sua impassibile ed estrema declinazione spaziale, ordinando il caos, il rumore

Paolo Uccello, la Battaglia di San Romano. Tempera su tavola, 1438-1440. Firenze, Galleria degli Uffizi. assordante della lotta, il fragore metallico delle lance, in un convulso gioco prospettico e cromatico. A seguito del consolidamento pittorico, sono tornate a splendere le armature brunite, sulle quali scivolano copiosi rivoli di sangue, mentre contendenti e cavalli sono immortalati nell’attimo che precede la morte. Lo scenario della macabra giostra è concitato, ma l’armamento è trattato con cura e precisione. Per rendere la lucentezza delle armature dell’epoca, Paolo Uccello impiegò lamine d’argento e oro sulla tempera, poi rifinite con la punzonatura a mano. L’aderenza al vero si riscontra anche nello sfondo paesaggistico, dove gli elementi botanici sono resi con grande accuratezza. La rimozione delle vernici ossidate ha restituito piena leggibilità al capolavoro di Paolo Uccello, che sarà esposto fino al 4 novembre al piano nobile degli Uffizi, come simbolico coronamento della mostra «Bagliori dorati, 13751440, Il Gotico internazionale a Firenze», per poi essere ricollocato nella posizione originale, al primo piano della Galleria. Mila Lavorini agosto

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I fasti di una capitale musei • Sul finire del VI secolo il capo longobardo Zottone dà vita al ducato di

Benevento: è l’inizio di una stagione di grande fioritura economica e culturale. Che ora si può leggere anche grazie alla nuova esposizione della sezione del Museo del Sannio dedicata a questo momento felice nella storia del capoluogo campano

È

stata riaperta al pubblico la sezione longobarda del Museo del Sannio di Benevento, riallestita nelle sale attigue al chiostro di S. Sofia, il luogo di culto longobardo voluto dal principe beneventano Arechi II nell’VIII secolo e, dal giugno 2011, iscritto dall’UNESCO tra i beni del Patrimonio dell’Umanità. Il periodo longobardo è di enorme rilevanza nella storia del capoluogo sannita e abbraccia circa cinque secoli: un’epoca straordinaria, durante la quale Benevento diventa la capitale del Sud d’Italia e da qui parte il primo tentativo di unità nazionale ideato proprio dai Longobardi. Il nuovo allestimento presenta le testimonianze di questo momento disposte in modo da illustrare i temi della vita e della società in età longobarda. Alla nuova sezione si accede attraverso il vestibolo che precede le sale lungo il lato ovest del

Lunetta con una coppia di pavoni che si abbevera. VII-VIII sec. Benevento, Museo del Sannio.

chiostro di S. Sofia, nel quale sono collocate epigrafi funerarie tardoantiche, datate tra il 444 e la seconda metà del VI secolo, che presentano simboli e formulari paleocristiani.

Gli epitaffi dei principi Il percorso prosegue nella sala delle epigrafi longobarde catalogate ed esposte in ordine cronologico, tra le quali si segnala la presenza degli epitaffi incisi in capitale quadrata dei principi beneventani Sicone, Radelchi e Radelgario (prima metà del IX secolo), realizzati da un’unica bottega di corte. Si passa quindi nelle sale della rappresentazione del potere, in cui sono esposti reperti, databili tra la metà del VI e gli inizi dell’VIII secolo, provenienti dalle necropoli di Epitaffio, individuata lungo la via Appia, e di Pezzapiana, scoperta a nord della città. Si tratta di attrezzi da lavoro (falcetti, coltelli) e armi (spade e cuspidi di lancia, uno scudo circolare) in ferro, oggetti di ornamento personale (collane, bracciali e orecchini anche in oro) e

devozionali (croci in ferro e in lamina d’oro), monete: tutti manufatti deposti a corredo delle sepolture per indicare posizione sociale e religiosità del defunto. Non manca l’esposizione del vasellame da mensa, qui rappresentato da brocchette acrome o dipinte a bande rosse larghe e da alcune anforette. La sala V è dedicata alle immagini e parole per l’aldilà e mostra, al centro, un sarcofago di età longobarda su cui è incisa una grande croce, mentre sulle pareti sono esposte una lastra frammentaria di un sarcofago del III secolo del tipo «a colonne» e due epigrafi databili al X secolo, di cui una, su marmo, appartenente alla sepoltura di un Gaudiosus, definito «sofista». L’ultima sala è dedicata agli elementi sculturorei altomedievali che appartengono in genere a edifici di culto, tra cui spiccano due capitelli figurati di chiara matrice longobarda e una preziosa lunetta scolpita raffigurante due pavoni che si abbeverano a una fonte d’acqua, databile tra il VII e l’VIII secolo. L’esposizione è corredata da sistemi multimediali didattici per una miglior comprensione delle testimonianze presentate al pubblico, con una particolare attenzione anche all’utenza in età scolare. Giampiero Galasso Dove e quando

Museo del Sannio Benevento, piazza Santa Sofia Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; lu chiuso Info tel./fax 0824 28831 e-mail: info@museodelsannio.com www.museodelsannio.com

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Ante prima

Un gioiello in riva all’Arno

restauri • Pisa ritrova una delle sue gemme:

la chiesa di S. Maria della Spina, riportata alla magnificenza delle sue eleganti forme gotiche

R

iapre i battenti, dopo un accurato restauro, la chiesa di S. Maria della Spina, gioiello gotico pisano, risalente al 1230. Commissionato dalla ricca famiglia Gualandi, il piccolo edificio si chiamava originariamente S. Maria di Pontenovo, perché si ergeva sulla sponda dell’Arno in corrispondenza di un ponte, poi crollato, che collegava via Santa Maria a via Sant’Antonio. L’attuale intitolazione le fu data nel 1333, quando vi fu portata una spina della corona di Cristo, ora custodita nella chiesa di S. Chiara. Inizialmente costituito da una loggia con tetto a capanna, l’oratorio fu ampliato nella seconda metà del XIV secolo, su progetto dell’architetto Lupo di Francesco, a cui succedettero Andrea e Nino Pisano.

Lo smantellamento della chiesa Proprio la sua particolare ubicazione, nelle estreme vicinanze del fiume, determinò nei secoli la necessità di ripetuti interventi di consolidamento, dovuti anche al cedimento del terreno, fino ad arrivare allo smantellamento della struttura, nel 1871. La chiesa fu spostata di alcuni metri verso est e rialzata di circa 1 m, con l’inserimento di alcuni gradini. Nonostante le sostanziali modifiche che videro anche la distruzione della sagrestia, l’edificio rimane per forma e proporzioni uno degli esempi piú significativi dello stile gotico. A pianta rettangolare, con rivestimento in marmo a fasce bicrome, l’esterno è caratterizzato da cuspidi, timpani e tabernacoli, accompagnati da raffinate decorazioni scultoree formate da tarsie, rosoni e statue: un complesso impianto ornamentale, realizzato dalle botteghe dei piú

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Pisa. La chiesa gotica di S. Maria della Spina, innalzata per volere della ricca famiglia Gualandi e portata a termine nel 1230. Il tempio ha risentito della prossimità alle acque dell’Arno, che, nell’Ottocento, obbligò persino al suo spostamento. influenti maestri del Trecento pisano. Ecco che, in facciata, troviamo l’impetuoso Giovanni Pisano e il suo seguace Giovanni di Balduccio, con esecuzioni di grande espressività, come nella Madonna con Bambino, accanto ad Andrea Pisano, protagonista di un rinnovamento nelle arti plastiche, con opere segnate da equilibrio compositivo e ricerca realistica, come nel Redentore. Il ricco apparato scultoreo, in parte formato da copie di figure di angeli, santi e apostoli conservate al Museo Nazionale di San Matteo, caratterizza tre lati del piccolo tempio, ma scompare sul fianco che corre lungo l’Arno, scandito da eleganti bifore.

Ricercatezza e sobrietà Alla ricercatezza esteriore si contrappone il semplice e scarno ambiente interno, ad aula unica con soffitto a capriate, che ospita la Madonna della Rosa, capolavoro scultoreo di Andrea e Nino Pisano,

eseguito tra il 1345 e il 1348. Collocata fino al XIX secolo entro un altare cinquecentesco, l’opera si trova, oggi, al centro del presbiterio rialzato. È stata invece trasferita al Museo di San Matteo, la Madonna del Latte, anch’essa frutto della collaborazione tra i due artisti. Rimane, in controfacciata, l’altare in marmo del 1524 che la ospitava. A ricordo della venerata reliquia della spina appartenuta alla corona della Crocifissione, abbiamo il tabernacolo murato nella parete sinistra che, lungamente, la custodí. Seppur fortemente compromessa dall’inquinamento e dalle infiltrazioni derivate dalle usurate lastre di piombo che la ricoprono, la chiesa di S. Maria della Spina è tornata a essere fruibile, grazie agli interventi operati sulle parti maggiormente danneggiate, come i paramenti murari, le porte lignee e le vetrate. M. L. agosto

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Ante prima

Staffetta per un capolavoro mostre • Recentemente attribuita ai

primissimi anni di attività del maestro, La fuga in Egitto di Tiziano ha temporaneamente abbandonato San Pietroburgo per fare tappa a Londra e poi a Venezia

T

iziano Vecellio nacque a Pieve di Cadore in una data ancora oggi controversa, ma che sembra collocabile intorno al 1490. È invece certo che, ancora giovanissimo, si trasferí a Venezia, dove fu allievo dapprima di Gentile Bellini e poi del Giorgione. Ed è proprio alle primissime fasi di una carriera lunga e prolifica – l’artista dipinse sino alle fine dei suoi giorni, che giunse nel 1576 – che si può ora assegnare uno dei suoi capolavori, La fuga in Egitto. Il dipinto, un grande olio su tela (206 x 336 cm), a seguito di un ultradecennale intervento di restauro

condotto presso il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, che ne è il proprietario, è stato infatti datato tra il 1506 e il 1507 e sarebbe stato dunque realizzato quando Tiziano era poco piú che un adolescente.

Un nobile mecenate A commissionarla al giovanissimo ed evidentemente promettente pittore sarebbe stato il patrizio veneziano Andrea Loredan, parente dell’allora doge Leonardo Loredan, che l’avrebbe voluta per il portico

del palazzo che la sua famiglia possedeva sul Canal Grande. È anche probabile che La fuga in Egitto fosse stata pensata per essere associata al Giudizio di Salomone, realizzato da Sebastiano del Piombo su incarico dello stesso Loredan. L’opera, già molto nota e apprezzata dai contemporanei (ne parla con ammirazione anche Giorgio Vasari nelle sue Vite), è stata concessa In alto Lorenzo Lotto, San Girolamo. Olio su tavola, 1509. Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo. A sinistra Tiziano, La Fuga in Egitto. Olio su tela, 1506-07. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nella pagina accanto Giovanni Bellini, Allegoria sacra. Olio su tavola, 1490-99. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Dove e quando

in prestito dal museo russo ed è attualmente esposta a Londra, in una mostra che la pone a confronto con lavori firmati da artisti attivi nello stesso periodo del pittore cadorino, tra cui i suoi maestri, Bellini e Giorgione, perlopiú scelti all’interno della collezione permanente della stessa National Gallery. Alla trasferta londinese farà seguito un nuovo allestimento, questa volta nella seconda patria del maestro,

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Venezia, che presenterà il dipinto nelle Gallerie dell’Accademia.

• «Il primo capolavoro di Tiziano: La fuga in Egitto» Londra, The National Gallery fino al 19 agosto Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (venerdí apertura fino alle 21,00) Info www.nationalgallery.org.uk (anche in lingua italiana) • «Il Tiziano mai visto. La fuga in Egitto e la grande pittura veneta» Venezia, Gallerie dell’Accademia fino al 2 dicembre (dal 29 agosto) Orario ma-do, 8,15-19,15; lu, 8,15-14,00 Info tel. 041 5200345; www.gallerieaccademia.org

Tiziano e gli altri Anche questa seconda esposizione farà dialogare La fuga in Egitto con opere di contemporanei di Tiziano, in questo caso attingendo soprattutto a raccolte italiane. Saranno esposti, fra gli altri, l’Allegoria sacra di Giovanni Bellini, la Tempesta e il Tramonto di Giorgione, il San Girolamo di Cima da

Conegliano e quello di Lorenzo Lotto. Ma l’occasione è da non perdere, soprattutto perché è la prima volta che la protagonista della mostra lascia la Russia, dove giunse nel 1768, all’indomani del suo acquisto da parte di Caterina la Grande. S. M.

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Ante prima

Nella rocca del cardinale

cartoline • Tra le mura (e all’esterno) di uno dei fortilizi voluti da Egidio

Albornoz, a Narni, il Medioevo ridiventa realtà. E grandi e piccoli possono scoprire i tanti aspetti della vita quotidiana di quasi mille anni fa modo viene illustrato il lavoro che c’è dietro alla stesura di un affresco, alla realizzazione di una balestra e all’allestimento di un ricevimento». Per preparare il nuovo percorso espositivo, gli organizzatori hanno fatto ricorso a molta manodopera locale: a Narni c’è infatti un artigianato artistico specializzato, di qualità, nato negli ultimi decenni attorno alla Corsa dell’anello, la rievocazione di una gara cortese, che si svolge ogni anno in maggio.

Per il presidio del territorio

«L

’interno della rocca trecentesca, molto ben conservata, era restaurato ma completamente vuoto. Cosí abbiamo pensato di farlo rivivere, con l’allestimento di un percorso circolare in cui si succedono diverse sale tematiche», racconta Danilo Regis, direttore artistico del primo parco medievale dell’Umbria, recentemente inaugurato a Narni (Terni) per Pasqua. La visita muove dalla Sala del Maestro di Narni, l’autore di un affresco del castello, presente anche al Petit Palais di Avignone con una pala, per proseguire con l’ambiente dedicato alla musica, in cui sono esposti flauti, arpe, ghironde, percussioni. Poi tocca alla Stanza delle Armi, a quella dei Costumi e al Salone delle Feste, ricreato nel vano piú grande del maniero, attorno a un tavolo disposto a ferro di cavallo. Il museo offre anche l’opportunità di approfondire aspetti meno noti della vita e dei mestieri medievali attraverso l’animazione, come sottolinea Regis: «In ogni sala sono disponibili operatori specializzati che guidano il pubblico attraverso

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i segreti del Trecento. Si può cosí incontrare un musicista che esegue brani sacri e profani, mentre i suoi aiutanti mostrano o fanno toccare ai visitatori le repliche degli strumenti medievali; un’esperta di sartoria spiega in che modo si confezionavano gli abiti e la biancheria, e allo stesso

Grazie alla riapertura, dunque, recupera un ruolo centrale la rocca voluta nella seconda metà del Trecento da Egidio Albornoz, il cardinale spagnolo che doveva riorganizzare lo Stato della Chiesa in previsione del rientro dei papi da Avignone. La fortezza di Narni Dove e quando

Rocca di Narni via Feronia, Narni (Terni) Orario domenica, 10,00-19,00 Info http://roccadinarni.it/

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è inserita in una rete di strutture finalizzate al presidio del territorio: a pianta quadrata, con quattro torri agli angoli, una diversa dall’altra, controlla i tragitti per Perugia e Terni, ma svetta anche sulla via Flaminia, ponendosi come un baluardo alle soglie dell’Umbria. Sorto sul sito occupato in precedenza da un monastero di Clarisse e, prima ancora, da una torre, il castello fu eretto dal 1367, anno in cui scompare l’Albornoz, che nel frattempo aveva restaurato l’autorità papale, recuperando alla Chiesa zone che sembravano perse. Le costruzioni commissionate dal cardinale a Spoleto, Assisi, Perugia, Todi, Orvieto, solo per ricordare le piú importanti, hanno alcune caratteristiche comuni: la cancellazione degli abitati precedenti e un impianto semplice, che si percepisce subito anche da lontano. E questo vale anche per la Rocca di Narni, che ora vanta un parco pensato per l’intrattenimento, soprattutto delle famiglie, ma creato senza perdere di vista il rigore filologico dovuto a un luogo cosí carico di memorie storiche. All’esterno è stato ricostruito un campo con quattro tende, un poligono per il tiro con l’arco e con la balestra, mentre per i bambini è stato creato un percorso fantastico, che prevede l’incontro con elfi, maghe, e con l’albero parlante Artú, alto 4 m, che muove rami, bocca e occhi. Stefania Romani

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In alto l’albero parlante Artú nel parco medievale della Rocca di Narni. Nella pagina accanto, in alto botteghe medievali ricostruite all’esterno della rocca. Nella pagina accanto, in basso la Sala dei Costumi, nella quale sono esposte riproduzioni di abiti dell’età cortese.

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Ante prima

Nel segno di Marquardo appuntamenti • All’epoca del tedesco von Randeck, che fu patriarca di Aquileia

nella seconda metà del Trecento, anche Cividale visse un momento di grande sviluppo economico, rievocato ogni anno dal Palio di San Donato

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icorre il 21 agosto la festa di San Donato, patrono di Cividale del Friuli. Nel Medioevo, almeno fin dal XIV secolo, la cittadina in provincia di Udine lo celebrava con solenni riti religiosi e un Palio, consistente in corse a piedi e a cavallo, confronti di arcieri, balestrieri e in seguito anche archibugieri, in rappresentanza di borghi cittadini e altre città o castelli, fra intrattenimenti fastosi, con grande partecipazione di nobili e popolani. La competizione vedeva la massiccia presenza di Udinesi, ma anche rappresentanti trevigiani e veneziani. Di solito, le corse a cavallo si svolgevano su un percorso che si snodava dal campanile del Duomo fino alla «pietra della corsa», oltre l’abitato di Gagliano, un cippo tuttora esistente. I premi per i vincitori consistevano in preziosi tessuti, acquistati anche a Venezia, di damasco o altre stoffe di valore.

L’età d’oro di Cividale Cividale – l’antica cittadina romana di Forum Iulii fondata da Giulio Cesare, divenuta poi Civitas Austriae con Carlo Magno – raggiunse il suo massimo splendore nel XIII e XIV secolo. In quell’epoca era capitale del patriarcato di Aquileia (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 30-41). Ricca di attività produttive e floridi commerci, Cividale era collegata alle miniere del ferro tedesche e alle vicine miniere di mercurio slave. Oggi nel week end piú vicino al giorno di San Donato, quest’anno da venerdí 24 a domenica 26 agosto, la cittadina friulana celebra il proprio passato con una rievocazione storica cronologicamente collocata nella seconda metà del XIV secolo, per la precisione nel periodo in cui governò

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Due immagini del Palio di San Donato, la rievocazione storica che ogni anno, a Cividale del Friuli, fa rivivere i fasti della cittadina all’epoca della sua massima fioritura, tra il XIII e il XIV sec.

il patriarca Marquardo von Randeck, dal 1368 al 1382. Marquardo diede un importante nuovo ordinamento al suo potentato con le Constitutiones Patriae Forojulienses, che restarono in vigore anche dopo il passaggio del patriarcato alla dominante Venezia. Oggi il Palio di San Donato comprende una gara pedestre, una competizione di tiro con l’arco e una di tiro con la balestra, fra i cinque borghi storici cittadini di Borgo Duomo, Borgo Brossana, Borgo San Domenico, Borgo San Pietro e Borgo di Ponte. Vince il Palio chi ottiene piú punti, sommando quelli ottenuti nelle tre singole prove. Per tre giorni il pubblico viene coinvolto nella suggestiva atmosfera che deriva dalla ricostruzione storica e dalle ambientazioni sceniche, animate da spettacoli di tamburi, giocolieri, mangiafuoco, menestrelli, giullari e musici. Tiziano Zaccaria agosto

MEDIOEVO



Ante prima

Tra oche e cantoni

appuntamenti • Festeggia il

suo primo quarto di secolo il Palio de lo Daino di Mondaino, una competizione animata, che vede «correre» anche i... palmipedi

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al 16 al 19 agosto torna a Mondaino, sulle colline riminesi, il Palio de lo Daino, rievocazione medievale giunta alla XXV edizione. Per quattro giorni, il paese romagnolo si rituffa nel proprio passato, ricostruendo vita, usi e costumi di un castello rinascimentale in tempo di pace. Proprio a Mondaino, infatti, nel novembre 1459, fu sancita la pace tra i Malatesta e i Montefeltro: Sigismondo Pandolfo Malatesta e Federico da Montefeltro s’incontrarono sul monte Formosino per stipulare una tregua che, però, fu di breve durata. La rievocazione si conclude

domenica 19, con il Palio de lo Daino fra le quattro contrade di Mondaino: Borgo, Castello, Contado e Montebello. La competizione inizia con la Corsa delle Oche, un concentrato di fortuna e destrezza, che impegna un giocatore per contrada. Le quattro oche vengono «spinte» lungo il percorso di via Roma fino al traguardo di piazza Maggiore dai rispettivi conduttori, che possono usare soltanto la voce e il battito delle mani, e in nessun modo toccare l’animale. La contrada vincitrice ottiene il privilegio di scegliere per prima le postazioni per il vero e proprio Palio, disputato In questa pagina la Corsa delle Oche e il mercato medievale: due dei momenti che segnano, ogni anno, il Palio de lo Daino di Mondaino. Nella pagina accanto il corteo storico che attraversa le vie di Popoli in occasione del Palio della Ruota e del Certame de la Contea.

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dalle 22,30 in piazza Maggiore, una sorta di «gioco dei quattro cantoni». Le squadre sono composte da due giocatori per contrada, che si dispongono su otto postazioni disegnate complessivamente a forma circolare, una al centro e sette sulla circonferenza. A un segnale, i due componenti di una squadra devono scambiarsi un testimone e andare a occupare una delle postazioni. A ogni tornata, una postazione viene esclusa e di conseguenza il giocatore che ne resta privo viene eliminato.

Balli, giochi e un... ospedale Nelle quattro serate, le vie del paese saranno animate da musici, cantori, giocolieri, giullari, sputafuoco e sbandieratori e piú di cento artigiani daranno dimostrazione della lavorazione di metalli, tessuti, vetro, carta e pelli. Nelle botteghe e lungo le strade si potranno vedere all’opera maiolicari, pittori, armaioli, liutai, amanuensi, miniatori e intarsiatori, mentre melodie rinascimentali verranno riproposte per le strade e nelle piazze. Saranno ricostruiti anche un Ospitale «per la cura de li malati» e un laboratorio dell’alchimista, con preparati, alambicchi ed esperimenti in diretta. Sabato 18, in piazza Maggiore, è in programma anche una sfida tra i balestrieri del castello. Fra gli spettacoli, non mancheranno momenti di suggestione quale il Processo alle Streghe e la Danza agosto

MEDIOEVO


Macabra nella ricostruzione di un cimitero medioevale. La piazza del paese sarà poi teatro dello spettacolo centrale, L’Aquila et l’Aliphante, legato alla storia della lotta tra Federico da Montefeltro, simboleggiato dall’aquila, e Sigismondo Pandolfo Malatesta, l’aliphante o elefante. Per tutte le quattro serate nelle vie del paese saranno disponibili punti ristoro con ricette medievali.

Nel segno di Diana Quando si parla della storia di Mondaino, viene subito in mente il Medioevo per la rocca che sovrasta il paese e le sue possenti mura castellane. Ma le origini del borgo vanno molto piú indietro nel tempo, intrecciandosi con la leggenda legata a Diana, dea della caccia. La sua figura torna spesso nelle vicende storiche di Mondaino, per esempio nell’etimologia del nome del paese, che nasce dal daino, animale sacro alla dea. A livello documentario, Mondaino appare per la prima volta nel 1069, con la donazione del castrum fatta dal nobile riminese Pietro di Bennone al monastero di S. Gregorio in Conca e S. Pier Damiani. Nel Duecento sul colle sorse un convento di Francescani. All’inizio del Trecento fu costruita la rocca, con funzione sia difensiva che residenziale. Una giusta intuizione, poiché il castello di Mondaino subí ben sette assedi dal 1331 al 1517, da parte della Chiesa, dei Malatesta e delle truppe feltresche, riuscendo quasi sempre a restare inespugnabile. Con la signoria di Sigismondo Pandolfo il castello fu ingrandito e fortificato per contrastare il nemico Federico da Montefeltro. Ma ciò non bastò a salvare il dominio malatestiano, che, di lí a poco, terminò con la sconfitta patita nel 1462 contro l’esercito pontificio e feltresco. Da quel momento Mondaino passò sotto l’autorità ecclesiastica, che durò per diversi secoli, interrotta solo per brevi periodi da quella di Cesare Borgia, del principe di Macedonia e dei Medici di Firenze. T. Z.

MEDIOEVO

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Duelli e matrimoni appuntamenti • La cittadina abruzzese di Popoli

rievoca la vicenda della duchessina Diana e della sua famiglia, i Cantelmo, che furono signori del borgo per quasi cinquecento anni

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el XVI secolo il borgo abruzzese di Popoli (oggi in provincia di Pescara) era uno dei feudi piú fedeli al Regno di Napoli. Per questa lealtà, nel 1557, il signore cittadino Giovan Giuseppe Bonaventura Cantelmo fu nominato Primo Duca di Popoli da Filippo II di Borbone re di Spagna. Secondo una leggenda popolare, in quel periodo Cantelmo apprese che Vittorio Carafa da L’Aquila e Luciano Gaetani da Alvito si erano sfidati a duello per ottenere la mano di sua figlia Diana. Per non perdere nessuno dei due valorosi cavalieri innamorati, il signore di Popoli decise che la figlia sarebbe andata in sposa a chi avesse vinto il duello, ma stabilí anche che lo sconfitto non dovesse essere ucciso, bensí avrebbe sposato la sorella, Bianca Ippolita. Cantelmo decise altresí che il Certame, ovvero il duello, si sarebbe svolto nel giorno di festa per la sua nomina a Duca, in piazza Maggiore, alla presenza della sua corte, dei nobili delle città vicine e del popolo. Quel giorno, al termine di un fastoso corteo per le vie cittadine, si svolse la sfida fra Vittorio Carafa e Luciano Gaetani. Una grande festa salutò il vincitore, del quale le cronache dell’epoca non riportano il nome, anche perché in seguito non ci fu alcun matrimonio a causa della morte della duchessina Diana. Oggi, per rievocare questo episodio storico avvolto nella leggenda, e piú in generale in memoria della famiglia dei Cantelmo, a Popoli si disputano il Palio della Ruota e il Certame de la Contea, quest’anno in programma nel pomeriggio e nella serata di domenica 19 agosto. Palio e Certame consistono rispettivamente in una gara di tiro alla fune e in una competizione fra balestrieri. A sfidarsi sono i portacolori dei quattro rioni cittadini: Castello, Sant’Anna, Torre de L’Aia e Attoja. Fa da cornice il corteo storico, formato da tamburini, sbandieratori, cavalieri, alabardieri e altri armati, dame e signori. Molteplici sono le ipotesi sull’origine del nome Popoli. La teoria piú accreditata riguarda un gruppo di cristiani fuggiti da Corfinio, che si rifugiarono in questo territorio formando un agglomerato urbano che chiamarono Popoli, nel senso di unione di piú persone. Il primo documento che menziona il borgo risale all’816 ed è l’atto con cui l’imperatore Ludovico II conferma ai monaci del monastero di S. Vincenzo al Volturno il possesso della chiesa di S. Liberatore. Nel 1268 la città finí sotto il controllo dei Cantelmo, con Giacomo I venuto in Italia dalla Provenza al seguito di Carlo D’Angiò. Questa signoria dominò per ben ventitré generazioni, fino al 1749, anno in cui, a seguito della morte di Giuseppe III Cantelmo, il feudo passò a Camilla, sorella di quest’ultimo e sposa di Leonardo Tocco, principe di Montemiletto. T. Z.

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agenda del del mese mese

Mostre Noventa di Piave Le memorie ritrovate U CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia), all’interno di Veneto Designer Outlet fino al 19 agosto (prorogata)

Le «memorie» esposte sono state ritrovate nell’antico e perduto convento delle Clarisse di S. Chiara a Padova, che fiorí tra il XIV e il XVIII secolo, ma che, negli anni Sessanta del secolo scorso, fu demolito per erigere la Questura. Nel 2000, indagini archeologiche condotte nel cortile della Questura stessa hanno portato alla luce una struttura esagonale, residuo dell’impianto originario del convento. Sulla base dei materiali rinvenuti e delle notizie d’archivio sulle vicissitudini del monastero, si ipotizza che la struttura fosse impiegata come ghiacciaiadispensa in epoca tardomedievale (XIII e XIV secolo) e sia stata poi adibita a immondezzaio in età rinascimentale (XV e XVI secolo). info tel. 0421 307738; www.noventartestoria.it ginevra Al calar delle tenebre. Arte e storia dell’illuminazione U Musée d’art et d’histoire fino al 19 agosto

La luce sprigionata da una lampadina è un fenomeno ai nostri

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a cura di Stefano Mammini

occhi normale, quasi ovvio, e dunque privo di particolare interesse. Eppure, per arrivare a quella luce, il cammino è stato lungo, anzi lunghissimo, come racconta la mostra allestita a Ginevra che, dalla vicenda mitica di Prometeo all’intuizione geniale di Thomas Alva Edison ripercorre la storia dell’illuminazione. Una vicenda in cui il Medioevo ha un ruolo da protagonista: uno dei punti forti dell’esposizione è, infatti, la presentazione di un insieme di quaranta lucerne medievali in terracotta, mai esposte prima d’ora. Rinvenute nel 1910 nei pressi della chiesa della Maddalena,

costituiscono un caso unico a livello europeo, poiché si tratta della sola testimonianza archeologica a oggi nota del conflitto fra cattolici e protestanti, che si accese a Ginevra nel 1535, all’indomani della fuga dalla città del principe-vescovo e della «conquista» dei luoghi di culto del cattolicesimo da parte dei seguaci della Riforma luterana. info www.ville-ge.ch/mah/

perugia, orvieto, città di castello Luca Signorelli, «de ingegno et spirto pelegrino» fino al 26 agosto

La vicenda umana e artistica di Luca Signorelli è al centro della grande mostra articolata nella Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, nel Duomo, nel Museo dell’Opera e nella chiesa dei Santissimi Apostoli di Orvieto, e nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello. A Perugia è illustrata l’intera carriera artistica di Signorelli, a eccezione di alcuni dipinti della maturità, presentati a Città di Castello. A Orvieto, nel Museo dell’Opera del Duomo (MODO), viene individuato uno spazio, interamente dedicato all’artista cortonese, in cui è allestito il cantiere di restauro della Pala di Paciano aperto al pubblico e dove sono esposti la Santa Maria Maddalena e il

raro dipinto su tegola di terracotta che ritrae Luca Signorelli e Niccolò Franchi. Nel monumentale palazzo Vitelli alla Cannoniera di Città di Castello, costruito agli inizi del XVI secolo dall’omonima casata magnatizia alla quale Signorelli si legò fin da giovane, è allestito l’ultimo segmento espositivo. info tel. 199 757513; www.mostrasignorelli.it Firenze ANDREA COMMODI, Dall’attrazione per Michelangelo all’ansia del nuovo U Casa Buonarroti fino al 31 agosto

Negli anni Venti del Seicento Andrea Commodi (1560–1638), pittore fiorentino, dopo lunghi soggiorni tra Roma e Cortona, aveva fatto definitivo ritorno a Firenze. Comincia allora la frequentazione della Casa Buonarroti da parte dell’artista,

che si risolve nel dono a Michelangelo il Giovane di un bellissimo autoritratto, presente in mostra, ma anche, e soprattutto, nella devota e cospicua copia delle opere di Michelangelo conservate ed esposte dal pronipote. Infatti si trova tuttora presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze un nutrito gruppo di fogli autografi del Commodi nei quali si riconoscono copie da disegni e bozzetti di Michelangelo. Partendo di qui, la mostra si propone di accostare le copie agli originali michelangioleschi, effettuando per questa via un confronto di eccezionale effetto visivo, e insieme una verifica scientifica dal punto di vista collezionistico. info www.casabuonarroti.it

venezia San Michele in Isola, Isola della Conoscenza U Museo Correr, Museo Archeologico Nazionale, Biblioteca Nazionale Marciana fino al 2 settembre

In occasione del millenario della

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mostre • Aurea Umbria. Una regione dell’impero nell’era di Costantino U Spello - Palazzo Comunale

fino al 9 dicembre info call center sistema museo tel. 199 151 123; www.aureaumbria.it

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ono trascorsi 1700 anni dal regno di Costantino il Grande (306-337 d.C.) e l’Umbria moderna riflette su una pagina della propria storia: la concessione fatta alla città di Hispellum del nome di Flavia Constans per dimostrare la sua fedeltà alla famiglia imperiale. Nel corso di tre secoli (III-VI d.C.), grazie alla riorganizzazione promossa da Costantino, l’impero espresse infatti una forte vitalità, prima della guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano. La mostra racconta la vita in Umbria durante questi secoli, attraverso un cospicuo insieme di materiali archeologici: dalle manifestazioni dell’arte ufficiale (ritratti e iscrizioni) e dalle espressioni della vita delle aristocrazie (mosaici, arredi) agli oggetti della quotidianità dei ceti medi e subalterni. La ricerca storica e archeologica, infatti, è in grado oggi di configurare il volto di un’età tardo-antica, che fu «aurea» per la sua vitalità, e non di «ferrea» decadenza, come a lungo la storiografia moderna ha proposto. Mentre il potere carismatico degli imperatori si rispecchia nei ritratti e il rango delle aristocrazie si rivela nella ricchezza delle decorazioni a mosaico e nelle argenterie, i modi in cui la religione e i culti cristiani si sostituirono alla tradizione e alla ritualità del politeismo parlano di convivenza, sincretismo, commistione. Anche nell’Umbria tardo-antica, pagani e cristiani provarono in vario modo a dialogare: lo mostrano le immagini sui sarcofagi, i corredi delle sepolture, gli oggetti preziosi e i diversi manufatti artistici, ma, soprattutto, il Rescritto di Spello, un documento che attesta il permanere, durante tutto il regno di Costantino, di un istituto politico e religioso «tradizionale» quale il culto dell’imperatore e della sua famiglia. fondazione dell’Ordine dei Camaldolesi e degli 800 anni dalla fondazione del cenobio camaldolese veneziano di S. Michele in Isola è stata allestita una mostra che illustra i molteplici aspetti della secolare presenza camaldolese a Venezia, a partire dalla ricostruzione della sede, delle collezioni e della prestigiosa biblioteca dello stesso monastero di S. Michele e di quella degli altri non meno importanti monasteri camaldolesi veneziani di S. Mattia di Murano, S. Giovanni Battista della Giudecca e S. Clemente in Isola. Si possono ammirare materiali di grandissimo pregio e perlopiú inediti, in parte

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conservati a Venezia e in parte presso l’Eremo di Camaldoli (Arezzo), dove furono raccolti per salvarli dalle dispersioni ottocentesche. Tra le opere esposte, spicca lo straordinario Mappamondo di fra’ Mauro, «monumento» geografico prodotto a S. Michele nella metà del XV secolo (e ora alla Biblioteca Nazionale Marciana), restituito per l’occasione al pubblico dopo un recente e complesso intervento di restauro. info tel. 848 082 000; http://correr.visitmuve.it roma Lux in Arcana. L’Archivio Segreto Vaticano si rivela U Musei Capitolini fino al 9 settembre

Dall’Archivio Segreto

org, settimana dopo settimana, si possono scoprire curiosità e approfondimenti sui singoli documenti. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.luxinarcana.org, www.museicapitolini.org, www.060608.it

Faenza e di Urbino, nel Cinquecento esse incontrarono il massimo favore delle corti e dei signori di tutta Europa, coniugando alle forme maestose e complesse (talvolta addirittura monumentali) della ceramica, la suggestione

firenze Vaticano si offrono all’ammirazione del pubblico 100 originali e preziosissimi documenti, tra cui la bolla di deposizione di Federico II, gli atti del processo a Galileo Galilei e la bolla di scomunica di Martin Lutero. Attraverso i piú conosciuti social network è possibile seguire le attività collaterali alla mostra e sul sito www.luxinarcana.

Fabulae pictae. Miti e storie nelle maioliche del Rinascimento U Museo Nazionale del Bargello fino al 16 settembre

La mostra nasce dall’attrattiva che possono esercitare il fasto principesco e la varietà decorativa delle maioliche «istoriate». Prodotte specialmente dalle manifatture di

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agenda del del mese mese della grande pittura contemporanea e dei suoi illustri soggetti di mitologia classica e di storia antica, contribuendo allo sviluppo di uno stile pittorico «che – come scrive Cristina Acidini – ebbe nella maiolica, a causa e in forza delle tinte limitate, le sue riconoscibili tipicità: gli azzurri intensi di cieli e acque, i gialli luminosi, i verdi freschi, tutti condotti con un ductus ampio e sicuro, che raggiunse nelle grottesche “alla raffaellesca” prove di guizzante compendiario». info tel. 055 294883 Padova TIZIANO E PAOLO III. IL PITTORE E IL SUO MODELLO U Musei Civici agli Eremitani fino al 30 settembre

Agli Eremitani di Padova si può assaporare un momento di grande emozione e di indubbio interesse a livello internazionale, perché nelle sale dei musei patavini si scopre un nuovo tassello della vicenda artistica di Tiziano, attraverso due

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lavori finora sconosciuti e di grande qualità. Da un lato un Autoritratto del maestro, un impressionante olio su carta proveniente dalle collezioni della Casa Reale di Hannover, singolare per l’impostazione per niente aulica e autocelebrativa, dall’altro un superbo Ritratto di Paolo III senza camauro, che si viene ad aggiungere, come «originale multiplo», agli esemplari noti in cui il pontefice appare senza copricapo. Entrambi i ritratti sono esempi di quella tecnica pittorica rivoluzionaria messa a punto dal pittore, che tanto influenzò i grandi pittori veneziani del XVI secolo (Tintoretto, Veronese, Bassano) e i principali autori del secolo seguente. info tel. 049 82045450

mostre • De reditu, Il ritorno. Libri e manoscritti di U Pienza – Palazzo Piccolomini e Cripta della Cattedrale fino all’8 settembre info www.comune.pienza.siena.it

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nche questa esposizione si inserisce nel quadro delle celebrazioni del Giubileo Pientino, indetto da Benedetto XVI per ricordare i 550 anni dalla dedicazione della Cattedrale di Pienza, consacrata il 29 agosto 1462 da Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini), uomo di lettere e dotto umanista. Il grande pontefice torna nella sua città attraverso gli scritti di una vita: dai giovanili Historia de duobus amantibus e De miseria curialium, entrambi del 1444, alle opere storiche e geografiche, fra le quali spicca una copia dell’Historia rerum ubique gestarum locorumque descriptio, nell’edizione Venezia, Iohannes de Colonia, 1477, la stessa che fu fra i testi che contribuirono alla formazione di Cristoforo Colombo (come dimostra l’esemplare da lui annotato, che si conserva nella Biblioteca Colombina di Siviglia); dall’Epistola ad Mahumetem ai testi che ci raccontano la sua vicenda umana, quali le epistole e le orazioni; fino all’opera in cui piú alta si dispiega l’abilità di scrittore di Enea Silvio, i Commentarii rerum memorabilium quæ temporibus suis contigerunt, la sua autobiografia in 12 volumi. Insieme ai preziosi volumi (manoscritti, incunaboli e cinquecentine) provenienti dalla biblioteca conservata nel Palazzo Piccolomini di Pienza sono esposti pezzi provenienti dalla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena e dal Museo petrarchesco piccolomineo di Trieste, oltre a quelli di alcuni collezionisti privati. Si possono ammirare anche arredi e opere d’arte presenti nella Cripta della Cattedrale, oltre a un pregiato mobile da sacrestia senese con l’arme vescovile dei Piccolomini, realizzato intorno alla metà del XV secolo, che fa parte della Collezione della Banca Monte dei Paschi di Siena.

Pienza Il «Maestro di Pio II» a Pienza U Museo Diocesano fino al 30 settembre

Per unirsi ai festeggiamenti del Giubileo Pientino, indetto da Benedetto XVI per ricordare i 550 anni della dedicazione della Cattedrale, consacrata il 29 agosto 1462 da Pio II, il Museo Diocesano di Pienza accoglie uno squisito rilievo in marmo risalente a una commissione dello stesso pontefice. Si tratta di un’immagine della Madonna col Bambino e angeli che un tempo si trovava nella Cattedrale di

Montepulciano e da qualche anno, a seguito del restauro, è esposta nel Museo Civico Pinacoteca Crociani di quella città. La presenza dello stemma di Pio II nella cornice inferiore indica che la Madonna fu scolpita per il papa e non è da escludere una originaria destinazione a Pienza, magari a Palazzo Piccolomini. Impreziosito da raffinate dorature, il

delizioso rilievo è opera di un elegante scultore quattrocentesco che la storiografia artistica, in assenza di una sicura identità anagrafica, ha battezzato con l’appellativo di «Maestro di Pio II», poiché la sua mano, con quella di Paolo Romano, è riconoscibile nel monumento sepolcrale di Pio II, oggi in S. Andrea della Valle a Roma. info tel. 0578 749905 torino Ricetti del Piemonte. I castelli del popolo U Borgo Medievale fino al 7 ottobre

I ricetti sono una forma piemontese di rifugio e fortificazione, diffusa lungo tutto il Medioevo, che ebbe grande importanza

nella storia della regione. L’esposizione ne documenta l’architettura, le tipologie, le aree di localizzazione. Ciascun ricetto ha una storia differente, ma esistono elementi comuni: una cinta muraria potenziata da torri d’angolo, una o piú torri-porta d’accesso ed edifici interni non molto grandi, destinati ad abitazione e magazzino, separati da strette vie. La fondazione di un ricetto è una questione complessa: poteva essere costruito per volontà di un signore, di un’abbazia o di una comunità. È preponderante, tuttavia, il caso della gestione condivisa dalla comunità e dal signore. La mostra presenta agosto

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Pio II fra Quattro e Cinquecento a Pienza

i Grue, che hanno reso famosa la maiolica castellana in tutto il mondo. La mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme, colori e motivi tipici di questa produzione, magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi. L’evento presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», che si

teramo Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 e terzo fuoco. La collezione Matricardi U Pinacoteca Civica fino al 31 ottobre

lo stato dell’arte sull’idea di ricetto e di fortificazione, cercando, al contempo, di valorizzare la capillare

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diffusione di queste opere architettoniche piemontesi. info www. borgomedioevaletorino.it

L’esposizione presenta una selezione di 220 capolavori, realizzati tra il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e

deve all’ingegner Giuseppe Matricardi, il quale, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica. info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it

U Museo Civico, Museo dei Beni Ecclesiastici e Officine Fondazione Varrone fino al 4 novembre

Articolata in tre sedi espositive, la mostra propone alcuni episodi artistici legati alla figura del Santo di Assisi, allo scopo di promuoverne la conoscenza sul piano biografico e iconografico e di valorizzare l’importanza del territorio reatino nella storia del francescanesimo. La centralità dell’area laziale per la definizione e la diffusione dell’immagine di Francesco è attestata del resto dalla presenza della piú antica rappresentazione del Santo nella cappella di San Gregorio nel Sacro Speco di Subiaco, tanto che la regione può essere certamente considerata una meta privilegiata per la conoscenza complessiva degli aspetti storici e artistici legati all’origine e alla diffusione della Regola francescana. info tel.: 0746.259291 e-mail: info@ francescoilsanto.it; www.francescoilsanto.it

Rieti FRANCESCO, IL SANTO. Capolavori nei secoli e dal territorio reatino

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agenda del del mese mese

firenze BAGLIORI DORATI. IL GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE. 1375-1440 U Galleria degli Uffizi fino al 4 novembre

Allestita nelle sale del piano nobile degli Uffizi, la mostra ricostruisce il panorama dell’arte fiorentina nel periodo mirabile e cruciale approssimativamente compreso tra il 1375 e il 1440. Per restituire il clima colto e prezioso di quella lunga stagione, accanto a dipinti celebrati da secoli, sono esposte altre opere pregevolissime ma finora poco conosciute al grande pubblico, cosí come sculture lignee e marmoree, codici miniati, lavori d’arte sacra e profana: creazioni di sommo pregio e di assoluta rilevanza storica, provenienti da prestigiose istituzioni museali pubbliche, nonché da collezioni private italiane e straniere. Il percorso, cronologico, prende le mosse dalle opere

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degli interpreti massimi dell’ultima fase della tradizione trecentesca, quali Agnolo Gaddi e Spinello Aretino, e si chiude con uno dei testi piú insigni del primo Quattrocento, restituito a una insospettata leggibilità: la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, un volo fantastico, capace di sintetizzare i sogni di un’epoca irripetibile info www.polomuseale. firenze.it Venafro Splendori del Medioevo. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno U Museo Archeologico, ex Convento di Santa Chiara fino al 4 novembre

La mostra ripercorre la storia dell’abbazia, a partire dalle sue fasi piú antiche, alle quali appartiene, tra i reperti piú importanti, l’altare affrescato del tardo VIII secolo proveniente dalla Chiesa Sud. Si prosegue con La rinascita carolingia, che presenta l’abbazia

al massimo del suo splendore, quando l’abate Giosuè trasformò S. Vincenzo in uno dei piú grandi monasteri d’Europa. Alla metà del IX secolo l’abbazia annoverava ben nove chiese, tra cui la Basilica maior, in grado di gareggiare con le piú splendide chiese abbaziali dell’Europa carolingia. Dopo il saccheggio da parte di predoni arabi nell’881, la comunità dei monaci fu costretta a trasferirsi, ma, alla fine del X secolo, il monastero ebbe una fase di rinascita. Alla fine dell’XI secolo, però, di fronte alla comparsa dei Normanni, la

comunità decise di trasferirsi sulla riva opposta del Volturno, per edificare un monastero interamente nuovo e fortificato. Chiude il percorso la sezione sulla presenza araba, di cui sono testimonianza significativa gli scacchi rinvenuti nel 1932 in una sepoltura di Venafro ed esposti in Molise per la prima volta. info tel. 0865 900742

dei vigneti e il vino, insieme al pane, è l’elemento base della dieta quotidiana, per uomini, donne, ma anche per i bambini! Caratteristica che non doveva però indurre al consumo smodato, perché, come illustrano alcuni dei documenti esposti, anche nell’Età di Mezzo l’ubriachezza veniva severamente condannata. info www. tourjeansanspeur.com

Parigi

Trento

Il vino nel Medioevo U Tour Jean Sans Peur fino all’11 novembre

I CAVALIERI DELL’IMPERATORE. guerra e tornei nei castelli in arme U Castello del Buonconsiglio, Castel Beseno fino al 18 novembre

Al centro dell’esposizione è il ruolo cruciale del vino nella società medievale, descritto in un percorso articolato in cinque sezioni, con oltre un centinaio di documenti, e arricchito dalla ricostruzione di una taverna. Nel Medioevo si registra la massima diffusione

Il Castello del Buonconsiglio e Castel Beseno rivivono la stagione dei grandi tornei e delle parate rinascimentali, il clangore degli assalti all’arma bianca e i duelli cui erano affidati l’onore dei contendenti e delle loro dame sin’anco il destino di regni e principati. Protagonisti della mostra sono gli uomini d’arme che, vestiti d’acciaio, si scontravano in battaglia o esibivano la loro audacia e abilità nei tornei. A Castel Beseno, agosto

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a essere messe in scena saranno le battaglie, l’assedio, le armi e le strategie militari; al Castello del Buonconsiglio si respirerà invece l’atmosfera del duello, dell’amor cortese e delle virtú eroiche. Un’occasione unica per ammirare pezzi provenienti da importanti armerie europee oltre alla piú completa collezione al mondo di armi e armature da combattimento e da parata, proveniente dalla Landeszeughaus, l’armeria di Graz. info www.buonconsiglio.it Londra Shakespeare. Mettere in scena il mondo U The British Museum fino al 25 novembre

La rassegna intende documentare il contributo fondamentale che l’opera di Shakespeare diede all’affermazione della capitale britannica come metropoli cosmopolita e polo culturale di importanza primaria. Per raggiungere tale obiettivo, sono stati riuniti poco meno di 200 oggetti e opere d’arte, piú della metà dei quali è approdata al British Museum grazie ai prestiti concessi da musei, istituzioni e collezionisti di tutto il mondo. Grazie ai materiali esposti, è possibile scoprire come l’attività teatrale sia stata capace di influenzare e orientare l’approccio della gente comune nei confronti dei problemi della vita

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Appuntamenti l’aquila VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale 12-15 settembre

d’ogni giorno; come abbia contribuito alla formazione di una identità nazionale, dapprima inglese e poi britannica; o, ancora, come le opere portate in scena abbiano aperto finestre rivelatrici su un mondo ben piú vasto di quello al quale si era normalmente avvezzi, che spaziava dall’Italia all’Africa e alle Americhe. info www.britishmuseum.org

L’Aquila ospita l’incontro che, con cadenza triennale, viene organizzato, dal 1997, dalla Società degli Archeologi Medievisti Italiani (SAMI). Ricco e articolato è il programma delle tre giornate, che prevedono interventi distribuiti in sei sezioni tematiche: Teoria e metodi dell’Archeologia Medievale, Archeologia delle architetture, Territorio e insediamenti, Luoghi di culto e archeologia funeraria, Produzioni, commerci, consumi,

La città. Sono previsti poco meno di 150 contributi – già raccolti in un volume di pre-atti –, che rispecchiano i vari filoni di indagine di cui si occupa la disciplina, sia nell’ambito accademico che in quello piú attinente alla libera professione. A

conclusione dei lavori è prevista una tavola rotonda sul tema, quanto mai attuale, «Il ruolo dell’archeologia nella prevenzione e nell’intervento di emergenza in occasione di calamità naturali». info http:// archeologiamedievale. unisi.it/sami/

appuntamenti • Festival della Mente U Sarzana

31 agosto, 1 e 2 settembre info www.festivaldellamente.it

È

giunto alla sua IX edizione il Festival della Mente, la prima rassegna in Europa dedicata alla creatività e ai processi creativi, che chiama a raccolta filosofi, scienziati, scrittori, artisti, musicisti, psicoanalisti, storici, attori e registi, italiani e stranieri, i quali abbiano avviato riflessioni originali sulla natura e sulle caratteristiche di una delle piú apprezzate tra le capacità umane. Il Festival della Mente è un festival di approfondimento culturale con un programma di 80 eventi che hanno luogo nel cuore storico della città. Tre giornate di conferenze, letture, spettacoli e performance, workshop e una sezione creata ad hoc di laboratori dedicati a bambini e ragazzi con circa 40 eventi per stimolare le menti e la creatività dei piú piccoli. A tutti i relatori si chiede di raccontare non solo il cosa, ma soprattutto il come e il perché del loro lavoro e del loro percorso creativo. Ecco alcuni protagonisti dell’edizione 2012: Gustavo Zagrebelsky, Andrea Moro, Franco Cordero, Luca Ronconi, Rafael Spregelburd, Marco Paolini, Paolo Rumiz, Enzo Moscato, Sergio Givone, Mario Brunello, Marc Augé, Erri De Luca, Marco Belpoliti, Telmo Pievani, Haim Baharier, Alessandro Barbero, Giulia Lazzarini, Anna Salvo, Ruggero Pierantoni, Giuseppe Civitarese. Prosegue la pubblicazione de i Libri del Festival della Mente, collana che nel 2010 è approdata integralmente anche in digitale ed è scaricabile dal sito del Festival della Mente. Sono 16 i titoli che propongono in modo divulgativo brevi saggi su quei temi che grandi nomi della scienza, della filosofia, delle arti e della storia hanno affrontato nelle edizioni passate del Festival della Mente.

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storia il patriarcato di aquileia

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Il prestigio di di Angelo Floramo

Aquileia Il 3 aprile del 1077 l’imperatore Enrico IV concede a Sigeardo, patriarca di Aquileia, l’investitura feudale sull’intero territorio friulano: nasce cosí una delle piú importanti realtà politico-ecclesiastiche del Medioevo. Che, per quasi quattro secoli, ebbe un ruolo decisivo nel complesso gioco di equilibri di potere tra il Sacro Romano Impero germanico e la Chiesa di Roma

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agro romano aquileiese, per sua stessa vocazione geografica e storica, era aperto alle influenze eterogenee che, assieme a uomini, merci e beni, seguivano le vie dirette al Norico, alla Pannonia e alla Dalmazia, regioni culturalmente ed etnicamente caratterizzate da una molteplicità di lingue, popoli e religioni destinate a fondersi assieme dapprima nella koinè imperiale romana e quindi nell’ecumene cristiana. Il prestigio di Aquileia era cosí grande da poter indirizzare i suoi scambi mercantili con i bacini del Mar Nero, del Mar Baltico e ovviamente dell’Adriatico (e quindi del Mediterraneo), affrontando con varie vicissitudini un destino di cicliche cadute e rinascite entro un arco cronologico di lunga durata. Aquileia – assieme al suo territorio – diventa pertanto un caso esemplare per analizzare i delicati problemi che insorgono quando si cerchi di comprendere le complesse stratificazioni culturali sottese a pratiche rituali e cultuali che nel tempo si intrecciano fra loro, una sorta di laboratorio storico in un contesto geografico ben definito, vista la permanenza del ruolo economico, politico e culturale della città tanto in San Pietro consacra vescovo Sant’Ermagora. Particolare del ciclo pittorico che ha per soggetto le vicende di Ermagora, primo vescovo della diocesi di Aquileia e patrono della città, affrescato sulle volte della cripta della basilica di Aquileia. Prima metà del XII sec.

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storia il patriarcato di aquileia Veduta della basilica di Aquileia, ricostruita in forme romaniche, per iniziativa del patriarca Poppone (prima metà dell’XI sec.), sul luogo di un primitivo edificio di culto, risalente agli inizi del IV sec.

Il diploma di Enrico IV

3 aprile 1077: nasce la Patria del Friuli «Nel nome della Santa e Indivisibile Trinità. Noi Enrico, per divina clemenza re, seguendo l’esempio dei nostri padri dall’integerrima fede, che costruirono con i loro beni chiese a Dio, e una volta edificate le arricchirono sia con quello che possedevano di proprio che con ciò che era loro pervenuto a mezzo delle entrate regali, avendo noi trascorso i giorni della gioventú in salute e onestà e affinché la nostra vita possa godere anche nella maturità di tempi ancor piú gioiosi e pacifici, desideriamo continuare con zelo simili iniziative. Per questo vogliamo sia noto a tutti i sudditi di Cristo e nostri, sia quelli che tali sono oggi, che quelli che lo saranno nel futuro, che per la salvezza della nostra anima e per intervento della nostra eccellentissima madre e imperatrice Agnese, della nostra sposa e regina Berta e di altri nostri fedeli sudditi, ossia l’arcivescovo di Milano Teodaldo, di Ravenna Viperto, e anche su richiesta del nostro carissimo cancelliere Gregorio, vescovo di Vercelli, di Burcardo vescovo di Losanna, di Eppone vescovo Cizaniense, di Bennone vescovo Osnaburgense, del duca Luitoldo e dei marchesi Guglielmo, Azzone e Adalberto, e per il fedele servigio del patriarca Sigeardo, doniamo e trasferiamo al detto patriarca Sigeardo, ai suoi successori e alla chiesa aquileiese, la contea del Friuli e il villaggio chiamato Lucinico, con ogni diritto e beneficio che aveva il conte Ludovico nella contea medesima, e con tutte le prerogative e i privilegi già di pertinenza reale e ducale, ossia le convocazioni dei placiti, il diritto di fodro e ognuno e tutti i redditi a ciò legati o che potranno provenire nel futuro per qualsivoglia causa e motivo. Ordiniamo che nessun marchese, conte, visconte o altra persona con qualsivoglia carica nel nostro regno ardisca privare, molestare, insidiare la predetta chiesa o il nostro predetto fedele suddito patriarca Sigeardo e i suoi successori nelle cose qui donate e trasferite. Se ciò accadrà, il colpevole sia punito con una multa di cento libbre d’oro, metà da versare alla nostra camera fiscale e metà alla chiesa aquileiese. E affinché questa nostra regale donazione possa rimanere inalterata e indiscussa, ordiniamo che la si scriva in questa carta e che vi venga impresso e posto il nostro sigillo. Segno del nostro signore Enrico quarto, re invincibile. Io, Gregorio vescovo di Vercelli e cancelliere in vece del signore Istoldo, arcivescovo di Colonia e arcicancelliere, autentico. Dato l’anno dall’incarnazione di nostro signore Gesú Cristo 1077, indizione quindicesima, ventiseiesimo anno dalla nomina di Enrico quarto, ventiquattresimo del suo regno. Fatto felicemente in Pavia». (testo tradotto da: Dietrich von Gladiss [a cura di], Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae, t. VI: Heinrici IV. Diplomata [Die Urkunden der deutschen Koenige und Kaiser], t. VI: Heinrici IV. Diplomata [Die Urkunden Heinrichs IV], I-II, Hannover 1959)


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Regno normanno di Sicilia (dal 1194 passato agli Hohenstaufen) Confine del Sacro Romano Impero germanico

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Principali battaglie della Lega contro Federico II di Svevia

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Giudicato In alto l’assetto seno alla civiltà romana che in ambito M a r paleocristiano di Logudoro geopolitico e quindi medievale. dell’Italia centroIl patriarcato riassunse in sé questa meravigliosa SARDEGNA settentrionale inOristano complessità, con la sovrapposizione dei due poteri, Giud. T i r dir eunn principe o età comunale, un temporale e spirituale, nelle mani sodi contesto nel quale loArborea – fedele al papa e all’imperatore – ed estese le sue il patriarcato di pertinenze entro i confini di una diocesi vastissima, Iglesias Giud. di Cagliari Aquileia ebbe un che amministrava anime di lingua latina, germanica Cagliari ruolo di primo e slava; come Stato, fu uno dei principati piú interespiano. santi d’Europa, dotato di leggi statutarie proprie e di A destra istituzioni che lo resero interlocutore importante nella Aquileia. La fitta rete di rapporti geopolitici fra le istituzioni eurocolonna romana pee, sia occidentali che orientali, dal 1077, anno della sormontata da sua costituzione, fino alla caduta sotto le insegne veuna statua della neziane nel 1420. Trapani lupa capitolina, EGADI posta davanti Nasce il principato ecclesiastico all’imponente Nel IX secolo i confini della metropoli diMazara Aquileia si campanile della estendevano a Occidente fino ai territori pertinenti al basilica. lago di Como, a Nord includevano le diocesi di Tren-

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storia il patriarcato di aquileia Cronologia

I fasti di Poppone e Sigeardo IV sec. d.C. Aquileia è sede vescovile. La città è sede del patriarcato. VI sec. Il patriarcato si separa da Grado, VII sec. dove la sua sede era stata trasportata per la minaccia longobarda. Il patriarcato estende la sua IX sec. giurisdizione ecclesiastica all’Istria e ai territori verso il Danubio. Con Poppone (1019-1042) e XI sec. Sigeardo (1068-1077) il patriarcato vive il suo momento di massimo splendore. Nel 1077 Sigeardo ottiene da Enrico IV la contea del Friuli. Venezia conquista il patriarcato XIV sec. (1420); nel 1445 al patriarca sono assegnati la signoria di Aquileia e i castelli di San Daniele e San Vito. XVI sec. Gli Asburgo invadono il Friuli. Il patriarcato viene soppresso (1751) XVIII sec. e diviso nei vescovadi di Udine e Gorizia.

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e dalla Sava; la sua giurisdizione, quindi, declinava in terra carniolana, tra le attuali Carinzia e Slovenia, e su buona parte dell’Istria. Ma in base alla firma apposta a Verona l’11 giugno del 983, Ottone II, imperatore del Sacro Romano Impero germanico, concedeva al patriarca Rodoaldo di assumere il controllo di cinque castelli in terra friulana: Buja, Fagagna, Braitan (oggi Brazzacco), Gruang (oggi Santa Margherita del Gruagno) e Udine. È l’inizio di quella sovrapposizione di poteri nelle mani di un vescovo-conte che caratterizzò buona parte dell’età medievale, creando non pochi problemi giurisdizionali ed etico-politici: a chi avrebbe dovuto obbedienza un vescovo insignito di poteri temporali dall’imperatore? A costui o al papa? Piace pensare che i chierici dell’università di Cividale, voluta dal patriarca Bertrando già nella prima metà del XIV secolo, risolsero il problema convertendosi al celebre canone dei Carmina Burana secondo il quale, almeno in taberna: «tam pro papa quam pro rege bibunt omnes sine lege» («tanto per la salute del papa quanto per quella dell’imperatore tutti bevono smodatamente»). Per complicare ulteriormente il quadro istituzionale qualche anno piú tardi, e piú precisamente nel 1007, Enrico II di Baviera donò al vescovo di Bamberga i feudi appartenuti all’amata sposa Cunegonda, al fine di ricordarne in morte la memoria; terre che si estende-

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lo studio delle fonti

I patriarcati degli Slavi Fin dalle sue origini, il patriarcato di Aquileia indirizza la sua attenzione nei confronti dei popoli dell’Europa orientale dalla loro comparsa entro i territori della sua vasta diocesi a seguito delle grandi migrazioni del V secolo. Un interesse che si rafforza nei secoli e giustifica anche il ripopolamento delle pianure e delle valli alpine successivo alla vastata Ungarorum del X secolo con genti di stirpe slava, una scelta fortemente voluta congiuntamente dall’impero e dal patriarcato. Tale presenza necessita, oggi piú che mai, di un’attenta investigazione delle fonti. Si tratta, in particolare, di testi tardo-antichi e medievali che, per varie ragioni, si sono occupati del mondo slavo. Un corpus notevole, eterogeneo e per molti aspetti ancora quasi del tutto inesplorato. Sono

fonti secondarie indirette: cronache monastiche, vite di santi e di vescovi evangelizzatori, visite pastorali, ma anche lettere apostoliche, atti conciliari, relazioni e diplomatica varia. Si datano, all’incirca, tra l’XI e il XIV secolo. Sono la Cronaca di Tietmaro di Merseburg, le Gesta di Adamo di Brema, il Dialogo di Erbordo, l’Omeliario di Ermanno Praghese, la Vita di Ottone di Ebbo o ancora la Cronaca degli Slavi di Elmold fino agli scritti di Sassone il Grammatico. Tali fonti sono perlopiú legate alla cristianizzazione guidata dagli episcopati germanici dell’Europa nord-orientale nei confronti delle popolazioni slave a essi pertinenti. Vi si aggiungono i documenti nati dall’opera di evangelizzazione portata avanti dal vescovo di Salisburgo o dal patriarca di Aquileia in terra Sclavorum. Piccole e ricchissime testimonianze, come il Libretto sulla conversione dei Bavari e dei Carantani, o gli atti del concilio sulle rive del Danubio, tenutosi per volontà del patriarca Paolino d’Aquileia nel 796 e rivolto alla cristianizzazione dei popoli di matrice slava soggetti alla diocesi aquileiese. Perfino testimonianze preziose come il Placito di Risano o Pala in argento sbalzato e dorato del patriarca Pellegrino II, raffigurante la Madonna e il Bambino, tra gli arcangeli Michele e Gabriele. Ai lati, santi e personaggi biblici. 1195-1204. Cividale del Friuli, duomo di S. Maria Assunta.

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lo stesso Codice di Frisinga, risalente al IX secolo e contenente uno dei pochi libri penitenziali ascrivibili all’area slovena, attendono ancora una moderna edizione critica che sappia interrogarne adeguatamente i testi anche da un punto di vista antropologico culturale. Tali dati dovrebbero poi essere messi a confronto con i risultati degli scavi archeologici, con le indagini etnografiche, folcloriche e antropologiche, nonché con le evidenze segnalate dalla linguistica e dalla toponomastica, in un lavoro interdisciplinare coordinato scientificamente entro i parametri di un progetto di ricerca di vasto respiro. Ne deriverebbe certamente un quadro di grande complessità, in cui «i cristianesimi» delle origini si sono innestati su terreni già fecondati da altri culti e altri miti, generando un intrecciato sistema di rituali, credenze, simboli e rappresentazioni del sacro che hanno trovato una comune matrice, quella che, in definitiva, ha permesso il dialogo tra mondi apparentemente cosí distanti e ha generato quelle originalissime forme sincretiche di culto che per secoli hanno contraddistinto il profilo del patriarcato di Aquileia.

vano da Pontafel (Pontebba) fino a Tarvisio, rese ricche dalla strategica posizione lungo una delle vie piú percorse d’Europa fin dai tempi di Roma antica, che metteva in connessione il bacino del Mare Adriatico con quello del Baltico; a questo si aggiungevano gli introiti dovuti allo sfruttamento delle ampie foreste della Valcanale, nonché delle miniere di zinco, piombo e ferro di Raibl (Cave del Predil). Da quel momento, nell’ottica di controllo territoriale cara agli imperatori germanici, le terre del Friuli venivano dunque rette «in temporalibus et spiritualibus» da due principi ecclesiastici estremamente potenti, di fatto vassalli di quell’imperatore che, avendoli insigniti di titoli e di onori, avrebbe anche preteso di vagliarne la candidatura e l’elezione. E fu ancora Enrico II, nel 1019, a volere che un suo fidato vassallo, Wolfgang di

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storia il patriarcato di aquileia

I mosaici della basilica

Immagini del Credo aquileiese Nel 1909, quando sollevarono il pavimento voluto da Poppone, gli archeologi rimasero stupefatti da ciò che videro: un meraviglioso mosaico policromo, il piú esteso tra quelli paleocristiani d’Europa, oggi dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. Inizialmente datato attorno al 308 d.C., in virtú di un’epigrafe presente nella scena di pesca (vedi foto a p. 39) che ricorda il vescovo Teodoro quale promotore del complesso cultuale, oggi gli studi si orientano ad anticiparne i termini, sottolineando cosí l’eccezionalità dell’opera, realizzata agli esordi dell’era cristiana.

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I lavori degli archeologi proseguirono fino al 1912, riportando alla luce dieci tappeti di tessere multicolori, nei quali si individuano molteplici temi simbolici, segni misteriosi e allegorie che si fanno portatori di una sapienza antica, una vera e propria espressione del Credo aquileiese colto in tutta la sua originalità, che qui si sublima in una successione di immagini legate da una misteriosa grammatica, ancora oggi oggetto di studi e di interpretazione. La grande scena di pesca che dalla navata centrale della basilica si estende sia verso

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Nella pagina accanto il profeta Giona viene ingoiato da un mostro marino. Particolare del mosaico pavimentale paleocristiano, diviso in dieci tappeti figurati

ornati con soggetti biblicosimbolici, scoperto nel 1909 sotto il pavimento popponiano. A destra il mosaico pavimentale nell’aula basilicale.

Treffen, originario di un piccolo borgo carinziano, salisse alla cattedra del patriarcato di Aquileia. Meglio noto con il nome di Poppone, a lui si deve l’ampia ristrutturazione della basilica, che assume con il campanile il profilo romanico che tuttora conserva. Agevolato dall’ascesa al trono imperiale di Corrado II, suo zio naturale, Poppone poté ulteriormente ampliare i confini della diocesi, sottraendo di fatto l’antico porto di Grado al controllo bizantino e dando vita a una corte di grandissimo prestigio, frequentata da giuristi, canonici e intellettuali di grande fama. A lui si deve la rinascita della città romana di Cividale, l’antica Forum Iulii, che nel corso della storia del patriarcato divenne una seconda e prestigiosa sede della cattedra aquileiese.

L’imperatore accolto con tutti gli onori

Ma l’atto di fondazione del principato ecclesiastico di Aquileia va ricercato nel cuore della lotta per le investiture. Spaventato e smarrito per la difficoltà degli eventi in cui era stato trascinato nella contesa con il pontefice, l’imperatore Enrico IV, scomunicato da papa Gregorio VII e insidiato da alcuni feudatari germanici che aspiravano alla sua corona, diretto a Canossa per impetrare il perdono del pontefice, si trovò a transitare entro i confini del patriarcato di Aquileia. Ricevuto con grandissimi onori dal patriarca Sigeardo, che gli mise a disposizione anche un cospicuo numero di uomini armati per vigilare sulla sua persona, l’imperatore gratificò il presule, al suo ritorno, con un atto di straordinaria rilevanza storica, politica e istituzionale. È il 3 aprile del 1077. Nasce la «Patria del Friuli», uno stato retto da un principe ecclesiastico, destina-

il presbiterio sia verso la navata di sinistra, culmina con la vicenda del profeta Giona, ingoiato da un mostro marino, e poi rigettato dallo stesso sotto una pianta di zucca; una storia che rimanda a miti e credenze precristiani, che qui si intrecciano a formare una pastorale nuova, indirizzata alle genti che popolavano l’immensa diocesi su cui Aquileia reggeva il proprio mandato. Interpretazioni gnostiche, misteriche, sovrapposizioni culturali, sincretismi, fanno di questo manufatto un labirinto di estrema complessità, esaltandone tutta la straordinaria bellezza.

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to a durare fino al 1420, quando le truppe di Venezia ne sanciscono la caduta. Il 23 agosto 1365 fu nominato patriarca Marquardo di Randeck, che resse le sorti del principato fino al 3 gennaio 1381, anno in cui la morte lo colse, ultraottuagenario, nella città di Trieste. La complessità del suo profilo, sia umano che istituzionale, nonché le azioni da lui intraprese, ne fanno con ogni probabilità uno dei piú importanti principi ecclesiastici del Medioevo occidentale. Giovane studente di diritto canonico, visse il clima culturalmente fervido e brillante dell’università di Padova. Questa passione per il «diritto» lo contraddistinse sempre, tanto che uno dei suoi principali progetti, felicemente realizzato, fu il riordino di tutti gli antichi statuti delle Comunità e dei Castelli friulani soggetti alla sua autorità, uno sforzo immane che culminò con la promulgazione delle nuove Constitutiones Patriae Forijulii (1366-1368), importantissima raccolta di leggi che definisce con grande precisione le competenze degli organi istituzionali chiamati a cooperare con il patriarca nell’amministrazione civile della Patria. Divenuto prevosto a Bamberga, città intimamente collegata con le terre del Friuli per il controllo che il vescovo di quella città esercitava sui feudi della Valcanale, si avvicinò alla corte dell’imperatore Carlo IV, tanto da essergli sempre vicino in numerose legazioni e viaggi, compreso quello in Italia del 1354. Testimonianza di tale stretto legame di amicizia è la visita di cortesia

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storia il patriarcato di aquileia A destra Osimo, cripta della Cattedrale. Particolare del sarcofago di San Leopardo con Mosè che fa zampillare l’acqua. IV sec. L’episodio, che viene narrato in un passo del Libro dell’Esodo, era oggetto delle celebrazioni svolte ogni anno dalla comunità ebraica dei Terapeuti di Alessandria d’Egitto, le cui tradizioni ebbero un peso determinante nella formazione del Credo aquileiese. Nella pagina accanto Aquileia, basilica. Particolare del mosaico pavimentale paleocristiano raffigurante amorini che pescano. La scena viene interpretata come una allusione ai «pisciculi di Cristo», cioè ai fedeli della religione cristiana, cosí definiti perché battezzati e indirizzati alla redenzione.

che l’imperatore, assieme alla moglie e alla figlia, fece a Cividale quando Marquardo già vi risiedeva come patriarca, il 27 aprile 1368, soffermandosi in città fino al 3 maggio successivo. Fra i numerosi principi, prelati e dignitari accorsi ci fu anche Francesco Petrarca, che aveva preceduto tutti gli altri di ben dieci giorni. L’accoglienza fu straordinaria, tanto che feste, banchetti e giostre cavalleresche durarono una settimana «con splendidi appartati, splendidissimi convivi et dilettevoli trattenimenti, et v’era stato dal Comune regalato di 200 staia di grano e 100 conzi di vino». Fu quasi una rievocazione della prima entrata di Marquardo in Cividale, nel 1366. Quando il 7 giugno il suo corteo attraversò la Porta di S. Pietro e venne ricevuto con i massimi onori dai maggiorenti della città e dalla popolazione, nella cattedrale fu collocata una spada sguainata, che il patriarca ripose in una fodera bianca, in segno del suo potere temporale. Ancora oggi questo evento viene ricordato ogni 6 gennaio: durante la messa solenne, detta appunto «dello spadone», il presbitero cividalese, indossando un elmo, benedice i fedeli con la spada di Marquardo, benché si tratti di una sua copia fedele di epoca quattrocentesca. Per comprendere la straordinaria complessità culturale sottesa alla Chiesa di Aquileia, è certamente si-

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gnificativo muovere i passi da Alessandria d’Egitto, la cui comunità, come ormai accertato da numerosi studi – alcuni dei quali anche recentissimi e in fase di elaborazione – è stata matrice di quella aquileiese, dal momento che entrambe attribuivano alla predicazione di San Marco Evangelista le ragioni prime della loro nascita in seno alla comunità giudaico-cristiana del I secolo.

I misteriosi Terapeuti

E proprio in Alessandria, nella dotta comunità ebraica ivi residente, si formò culturalmente Filone, filosofo neoplatonico che nell’opera De Vita contemplativa descrisse l’esperienza ascetica di un gruppo monastico di iniziati: i Terapeuti. Dediti a una vita monastica si cibavano di pane, sale, issopo (pianticella aromatica usata dagli Ebrei per le aspersioni rituali, per cui divenne simbolo della purificazione spirituale, n.d.r.) e bevevano esclusivamente acqua sorgiva. Issopo e acqua sorgiva sono anche importanti elementi rituali nelle lustrazioni, cerimonie di purificazione della terra durante le quali veniva recitato il salmo 50: «Aspergimi, o Signore, con l’issopo e io sarò purificato», rituali sopravvissuti nelle rogazioni campestri e ampiamente testimoniati per secoli in tutto il territorio della diocesi aquileiese. Le loro comunità sorgevano agosto

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pertanto in prossimità di polle e di fonti, venerate per i profondi significati simbolici a esse sottese. Il loro nome viene fatto derivare dal passo dell’Esodo in cui Dio, attraverso Mosè, stipula con Israele un patto, il berit (che nella tradizione cristiana successiva sarà celebrato come il giorno della Pentecoste, o Pasqua Rossa): «Io non farò cadere su di te alcuna delle malattie con cui ho colpito l’Egitto, perché io sono il Signore, Colui che guarisce». Il Terapeuta, appunto. Mosè ha appena attraversato l’arido deserto di Sur, e il suo popolo soffre la sete. Mancando l’acqua, il profeta pianta in una pozza salmastra un legno, e l’acqua diventa prodigiosamente dolce. In verità è questo l’ultimo episodio di un percorso iniziatico che prende le mosse dalle rive del Mar Rosso appena attraversato (è la Pesach, la Pasqua ebraica), dove in lode al portento compiuto da Dio, per cantarne la gloria, la profetessa Myriam conduce le donne di Israele in una danza salmodiante, un discanto a due cori, quasi un contrastus ritmato sul timbro di un tamburello. Per preservare la memoria di tali fatti, i Terapeuti continuarono a celebrare in modo solenne le due importanti festività, che in effetti coesistevano nella Chiesa primitiva, vivendo i 50 giorni che le separano come un momento di preparazione per l’esultanza finale, ce-

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lebrata appunto con danze estatiche al suono del tamburello, intonando discanti e indossando abiti bianchi, in prossimità delle fonti di acqua sorgiva.

Sopravvivenze pagane

Forme cultuali simili sopravvissero per molti secoli nel patriarcato di Aquileia. Ne è curiosissima testimonianza la lettera inviata il 10 giugno 1624 dal curato di Palazzolo dello Stella al Santo Inquisitore di Aquileia, con la quale il primo denunciava il comportamento di alcune donne, ritenuto «falso» e «insano», per «impetrar la pioggia dal cielo la notte della Pentecoste». A tale riguardo si deve ricordare un altro rituale sacrificale collegato al dio solare Belenos, una divinità panceltica, citata nelle fonti come protettrice di Aquileia e riconducibile a culti solari, particolarmente venerata nell’agro aquileiese, che in qualche modo mette in gioco gli stessi elementi: l’acqua, la siccità e la conseguente morte e rigenerazione in acqua per invocare la pioggia. La testimonianza ci proviene da Burcardo di Worms, che, nel suo celeberrimo libro penitenziale, Corrector sive Medicus, descrive un rito rabdomantico di grande suggestione: una vergine, sospinta da un corteo di fanciulle, viene condotta nuda al di fuori del villaggio; qui, ella raccoglie l’erba del giusquiamo, seguendo

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storia il patriarcato di aquileia A destra Aquileia, basilica. La cripta del IX sec., voluta dal patriarca Massenzio per custodire le reliquie dei Santi Martiri, tra cui il vescovo Ermagora e il suo diacono Fortunato. Gli affreschi alle pareti risalgono, invece, al XII sec. Sulle volte sono rappresentati episodi relativi all’apostolato di San Marco, fondatore, secondo la tradizione, della prima comunità cristiana aquileiese. Nella pagina accanto Aquileia, basilica, cappella di S. Ambrogio o dei Torriani. Affresco raffigurante la Crocifissione. Fine del XIII sec.

un complicato rituale. Le altre fanciulle, sospingendola con alcune verghe nel fiume vicino, ne aspergono le acque e con incantamenti invocano la pioggia. Il giusquiamo, detto anche Belisa, Belenion, Belenonzia, Herba Apollinaris è la pianta dedicata a Belenos. Ha proprietà terapeutiche e nell’antichità le si attribuiva la virtú della veggenza. Qui è utilizzata anche in rituali di aspersione con l’acqua: ancora una volta elementi comuni alle figure di cui ci stiamo occupando. Entro i confini del Friuli patriarcale si conta almeno una ventina di pievi erette in prossimità di fonti e di polle e intitolate tutte alla misteriosa figura di «Sante Sabide», ovvero Santa Sabata, nella quale, con ogni probabilità, va individuata una personificazione del sabato ebraico. Piú d’uno studioso ritiene che tale presenza sia soltanto un segno interessante della sopravvivenza in ambito cristiano – specialmente in un contesto agreste ed extraurbano – della tradizione ebraica che celebra la festa il giorno del sabato e non della domenica, ma anche una ulteriore riprova della filiazione della Chiesa Aquileiese da quella di Alessandria, con la conseguente importazione in area nord adriatica di moltissimi rituali cristiano-orientali. Suggestiva a tale proposito è l’ipotesi che una co-

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munità di Terapeuti si sia insediata pertanto anche in ambito aquileiese, una presenza destinata a influenzare notevolmente il profilo della liturgia fatta propria dal patriarcato, specialmente nell’attribuzione di speciali significati escatologici assegnati alle fonti d’acqua e alle sorgenti. Una peculiarità che nei secoli portò Aquileia a confliggere con la linea dettata dalla Chiesa di Roma, come testimoniato dallo scisma «dei tre capitoli», che, di fatto, la tenne separata dalla sede pietrina dalla prima metà del VI alla metà dell’VIII secolo.

Una liturgia unica

Nella lunga notte del Sabato Santo il clero aquileiese intonava nel buio un’antifona di grande suggestione e ricchissima di interpretazioni simboliche: «Quando Cristo, Re della gloria, scenderà all’Inferno per debellarlo, e il coro degli Angeli ordinerà che davanti a lui si aprano le porte dei Santi Principi, il popolo che veniva tenuto prigioniero della morte, con voce grondante lacrime griderà: sei finalmente giunto, desiderabile a lungo atteso, ti aspettavamo qui nelle tenebre affinché in questa notte ci liberassi dalle catene della nostra prigione. Invocano te i nostri sospiri, a te sono rivolti i nostri copiosi lamenti, tu sei speranza per i disperati grande consolazione fra i tormenti. Alleluia». agosto

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È la discesa di Cristo negli inferi, che il Credo di Aquileia continuò a professare per secoli, anche in contrapposizione a quello apostolico romano, il quale espunge proprio tale riferimento. Il Symbolum apostolorum (altra denominazione del Credo) di Aquileia è giunto fino a noi in virtú del commento che ne fece Rufino vescovo di Concordia (345-411), noto quale autorevole studioso dei padri orientali nonché per aver annotato la Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. La Chiesa di Aquileia fondò su tale tema la linea portante di buona parte delle rielaborazioni dottrinali nonché del recupero sincretico di numerosi culti, miti e rituali appartenuti ai popoli sui quali estese il suo magistero, specialmente quelli di matrice slava. Non è un caso che uno tra i testi piú controversi e misteriosi nella catechesi aquileiese sia Il Pastore, composto agli inizi del II secolo da Erma, fratello di papa Pio I, originario di Aquileia. L’opera, per quanto nel IV secolo – testimone Rufino – fosse uno dei testi piú letti e studiati nelle terre del patriarcato, è stata a lungo trascurata dall’indagine storiografica e teologica. Di fatto, uno dei concetti sui quali si strutturano i suoi contenuti è proprio quello della discesa agli inferi di Cristo. Non solo: Erma sostiene che la conseguente ascesa sarebbe

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avvenuta attraverso i varchi aperti nella terra dalle polle e dalle sorgenti d’acqua, il cui iato veniva interpretato pertanto come elemento di interconnessione privilegiata tra il mondo dei morti e quello dei vivi: tale suggestione si ricollega con tutta evidenza al culto delle acque sorgive praticato dai Terapeuti. Non basta. Nel Vangelo secondo Matteo, Cristo, accusato da Farisei e Sadducei di compiere miracoli con il favore di Beelzebub, risponde che l’unico segno che avrebbe mai dato sarebbe stato quello di Giona. Inviato da Dio a convertire gli abitanti di Ninive, Giona, preso dallo scoramento, fugge per mare, ma, travolto da una tempesta viene ingoiato dal Pistrice, un mostruoso Leviethano nelle cui viscere dimora per tre giorni e per tre notti, prima di essere rigettato nuovamente alla luce. I profondi significati cristologici sono piú che evidenti, ma è il complesso di tutte le figure che vi si sovrappongono a rendere davvero appassionante la ricerca di tutte le stratificazioni sincretistiche che si sono sovrapposte nel corso dei secoli. Ed è proprio il «Signum Jonae» che campeggia nello straordinario pavimento musivo della basilica aquileiese: un «labirinto mare», un percorso iniziatico e salvifico ricchissimo di segni che trovano nell’acqua e nella luce l’elemento simbolico piú rilevante. F

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protagonisti beda il venerabile

La versione di Beda di Elena Percivaldi

Entrato in monastero quand’era ancora bambino, il «Venerabile» benedettino inglese si affermò ben presto come una delle menti piú vivaci del suo tempo. E, oltre ai suoi studi sulle Sacre Scritture, ci ha lasciato una ricostruzione delle vicende degli antichi Anglosassoni che, ancora oggi, rappresenta un caposaldo della storiografia

«S

S

emper aut docere aut scribere», «sempre insegnare oppure scrivere». In queste poche e semplici parole si potrebbe sintetizzare l’attività di Beda, vissuto in Anglia, l’odierna Inghilterra, fra il 672 e il 735. E, in effetti, l’intera sua esistenza fu segnata da uno studio lungo e continuo e dalla composizione di innumerevoli opere – molte delle quali andate perdute –, caratterizzate da un latino pulito, elegante, sobrio, ma non privo di squarci di vivacità. Quasi tutto ciò che sappiamo di lui è lo stesso Beda a raccontarlo nei suoi scritti. Approssimandosi ormai l’ora della fine, nel 731 portò a termine la sua opera principale – l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum –, riassumendo con queste parole la sua esperienza terrena: «Cosí io, Beda, servo di Cristo e sacerdote del monastero dei Beati Apostoli San Pietro e San Paolo, che si trova a Wearmouth e a Jarrow (nell’allora Northumbria; vedi box a p. 46), con l’aiuto di Dio ho composto fino a dove ho potuto raccogliere, o dagli antichi documenti o dalle tradizioni degli anziani o dalla mia conoscenza, questa storia ecclesiastica della Britannia, e specialmente alla razza anglicana. Sono nato nel territorio del detto monastero, e all’età di sette anni i miei genitori mi affidarono alla cura del reverendissimo abate Benedetto, e successivamente a Ceolfrid, perché mi istruissero. Da quel momento ho passato tutta la mia vita all’interno del monastero, dedicando tutte le mie fatiche allo studio delle Scritture, e fra l’osservanza della discipli-

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Perché «venerabile»? Sembra che il titolo di «Venerabilis» sia stato associato al nome di Beda già a partire da due generazioni dopo la sua morte. Per la religione cattolica, però, la sua importanza fu pienamente riconosciuta solo nel 1899, quando Beda fu santificato e dichiarato Dottore della Chiesa, ma l’iter non fu semplice: il cardinale Nicholas Patrick Stephen Wiseman e alcuni vescovi inglesi indirizzarono alla Santa Sede un’apposita petizione nel 1859. Dopo decenni di dibattito, il 13 novembre 1899 Leone XIII decretò la canonizzazione di Beda il Venerabile Santo e gli conferí il titolo di Doctor Ecclesiae, stabilendo che la sua festa fosse celebrata da tutta la Chiesa cattolica il 25 maggio. In alto miniatura raffigurante un chierico, forse identificabile con Beda, che lavora come scriba. Da un’edizione del De vita et miraculis Sancti Cuthberti, episcopi Lindisfarnensis, opera storica scritta dallo stesso monaco benedettino. Fine del XII sec. Londra, British Library.

Nella pagina accanto la pagina d’apertura del Libro I di un’edizione dell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile. 820-830 circa. L’opera, in cinque volumi, narra la storia dell’Inghilterra dal tempo di Giulio Cesare al 731, data di composizione. Londra, British Library.

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protagonisti beda il venerabile

793

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793-850 793-850

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DANESI DANESI 868 868

L’assetto geopolitico dell’Inghilterra tra il V e il X sec., epoca che dunque comprende il periodo in cui Beda il Venerabile visse e operò. Il dotto Benedettino fu un testimone d’eccezione di molti degli avvenimenti piú importanti che si svolsero tra il VII e l’VIII sec., dei quali ha lasciato resoconti puntuali e articolati nelle sue principali opere di taglio storico.

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V sec. sec. V

Wareham Wareham

La Manica

DANESI 840 840

Invasioni Invasioni di popoli popoli germanici EE ss ss ee xx Stato Stato dell’Eptarchia Regno Regno sassone di Egberto Egberto di Wessex (802-839) (802-839)

nel IX IX sec. sec. L’Inghilterra nel Regno di di Wessex Wessex Regno Ducato di di Mercia Mercia Ducato «Danelaw» Il «Danelaw»

Linea Linea di spartizione tra Danesi Danesi e Sassoni (886)

Ducato di di Northumbria Northumbria Ducato

Le Le «Cinque città», colonie colonie danesi dall'877 al 942

Battaglie Battaglie

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gli anglosassoni

Dall’invito di Vortigern al primo re d’Inghilterra 449

Gli Juti, popolazione germanica proveniente

dallo Jutland e dalle isole Frisone, sbarcano in Britannia, insieme ai Sassoni e agli Angli, invitati dal re dei Britanni Vortigern, per combattere contro i Pitti e gli Scoti. Hengist, figura leggendaria della tribú degli 455 Juti, diviene re del Kent. I Sassoni meridionali, popolazione germanica 491 proveniente dall’Holstein, occupano Anderida (Pevensey) e fondano il regno del Sussex. I Sassoni orientali fondano il regno dell’Essex. 500 500-540 Gli Angli, popolazione germanica proveniente dalla foce dell’Elba, si stanziano nell’Anglia orientale, nel Lincolnshire e Yorkshire. Cerdic, re dei Sassoni, fonda il regno del 519 Wessex, su cui regna sino al 534. 520 circa Sconfitta dei Sassoni occidentali a Mount Badon contro re Artú. 530 Cerdic conquista l’Isola di Wight. Ida, primo sovrano anglo, fonda il regno di 547 Bernicia. 552-577 Espansione dei Sassoni verso est e verso nord. Un gruppo di monaci dall’Irlanda approda 563 nell’isola di Iona dove San Colombano fonda un monastero. Ceawlin, re del Wessex, perde gran parte del 577 Gloucestershire e del Somersetshire, ma rafforza il Wessex, separando i Britanni del Galles del Nord da quelli dell’Ovest. Papa Gregorio Magno invia nel Kent alcuni 596

na monastica e del compito quotidiano di cantare in chiesa, è stato sempre mia delizia imparare o insegnare o scrivere. A diciannove anni fui ammesso al diaconato, a trent’anni al sacerdozio, entrambi nelle mani del reverendissimo vescovo Giovanni, e sotto la disciplina dell’abate Ceolfrid. Dal momento dell’ammissione al sacerdozio al mio attuale cinquantanovesimo anno, mi sono sforzato di scrivere brevi note sulle Scritture, tratte dai lavori dei Venerabili Padri o in conformità con il significato e le interpretazioni da essi indicati, e ciò per mio uso personale e per quello dei miei confratelli».

Uno storico di grande spessore

Un uomo all’apparenza estremamente umile, che tendeva a sminuire il grande contributo che invece diede non solo alla teologia e alla storia ecclesiastica, ma anche – e soprattutto – alla storia del suo popolo. Entrato all’età di sette anni nel monastero di Wearmouth, nel Northumberland (una contea ai confini con

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617–633 664

688–726 700–800 790–852 800–900 802-839 867 874 878

X secolo 901–924 924–940

monaci missionari con lo scopo di diffondere il cristianesimo. Supremazia del regno di Northumbria sotto re Edwin, che si convertí al cristianesimo nel 627. Sinodo di Whitby, in Northumbria, che sciolse la controversia tra cristiani celti e romani circa la data della Pasqua, risolta in favore dell’uso romano. Ine, re del Wessex a cui si deve una raccolta di leggi pubblicata intorno al 693, conquista il Somersetshire, il Kent, l’Essex e Londra. Supremazia del regno di Mercia. Prime incursioni danesi sulle coste inglesi. Supremazia del regno del Wessex. Regno di Egberto di Wessex. Conquista del regno di Deira da parte dei Danesi. Conquista del regno di Mercia da parte dei Danesi. Con il trattato di Wedmore si giunge a una tregua tra Alfredo, re del Wessex (871-899), e Guthrum, re dei Danesi, che accetta di convertirsi al cristianesimo. Affermazione della potenza dei Sassoni con la conquista del Danelaw. Edoardo il Vecchio, re del Wessex, estende la sua signoria sul Galles del Nord, Nothumbria e Strathclyde. Atelstano, figlio di Edoardo, è il primo re d’Inghilterra.

la Scozia) divenne diacono a diciannove anni e sacerdote a trenta. Nel raggiungere tali traguardi gli giovarono gli ottimi rapporti con l’abate Benedetto Biscop – che nel 674 era stato il fondatore del cenobio –, ma anche la non comune intelligenza e la voglia di apprendimento, che lo misero in luce anche nell’altro monastero «gemello», Jarrow, creato nel 682 da Ceolfrid. Tra Beda, Benedetto e Ceolfrid dovette stabilirsi un rapporto di profonda intesa intellettuale, imperniata sull’amore, quasi viscerale, per i libri. Lo stesso Beda, infatti, racconta che Ceolfrid accompagnò Biscop a Roma per procurarsi manoscritti – all’epoca merce rara – e dotarne la biblioteca di Wearmouth, che, nel giro di pochi anni, divenne la piú ricca dell’intera Inghilterra anglosassone, con i suoi 300 volumi, consultati da studiosi di tutta Europa. Beda leggeva di tutto e voracemente: dai classici «pagani» come Plinio il Giovane, Virgilio, Lucrezio, Ovidio e Orazio, alla patristica, che dominava a memoria. Pare addirittura che – cosa eccezionale in un’epoca in

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protagonisti beda il venerabile cui, salvo rari casi, era un idioma del tutto dimenticato – padroneggiasse anche il greco e persino un po’ di ebraico. Un simile ingegno avrebbe dunque potuto giocare un ruolo di primo piano anche al di là della semplice erudizione, ma egli sentiva questa sete di conoscenza come una missione. La sua bibliografia è sterminata. Fu un vero e proprio «poligrafo»: si occupò, cioè, delle discipline piú diverse, tutte maneggiate con grande competenza. Dai trattati di grammatica scritti per gli allievi agli studi sui fenomeni naturali (De Rerum Natura, in continuità con i modelli classici, per esempio, di Lucano), alla scienza – fu tra i primi a credere nella sfericità della Terra, tonda «come una palla da gioco» –, da un’edizione importantissima della Bibbia ai commentari di libri dell’Antico e Nuovo Testamento, fra cui i Proverbi, dalle omelie ai trattati su brani delle Sacre Scritture, alla cronologia (De temporibus liber e De temporum ratione).

I precedenti dell’età classica

E proprio trattando di cronologia, cioè del susseguirsi dei fatti, Beda decise di scrivere quella che sarebbe divenuta la sua opera piú importante: la già citata Historia ecclesiastica gentis Anglorum. Per comprenderne a fondo lo spirito innovativo converrà fare un piccolo passo indietro e ricordare che, fino a quel momento, gli intellettuali cristiani che si erano occupati di storiografia l’avevano fatto seguendo una prassi fondamentale: quella della «storia universale». Anche la grande storiografia latina degli ultimi secoli prima dell’inizio del Medioevo aveva inaugurato la prassi di raccontare le vicende del mondo «dalle origini»: basti pensare a Tito Livio e ai suoi monumentali Ab urbe condita libri. L’esempio era stato poi seguito da molti storiografi successivi, anche se molti, imitando invero i Greci, avevano posto l’accento su quella che si potrebbe definire «etnografia», cioè la descrizione dei vari popoli che abitavano il mondo allora conosciuto. Basti pensare alla Germania di Tacito, o al De Bello Gallico di Cesare, e alle opere di Plinio. Con la diffusione e l’imposizione del cristianesimo, la storiografia aveva rielaborato le umane vicende dando loro una visione di carattere provvidenziale. Ai corsi e ricorsi storici era seguita una interpretazione piú «lineare», frutto soprattutto dell’elaborazione di Sant’Agostino, per il quale la storia stessa, realizzando il piano della Provvidenza, tendeva all’escatologia, cioè al fine ultimo dell’uomo. La visione dominante (presente anche in un altro intellettuale di grandissimo peso come Isidoro da Siviglia) era quella che suddivideva la storia in sei età, corrispondenti ad altrettante fasi della vita umana: la sesta età era quella in corso e si sarebbe conclusa quando a Dio fosse piaciuto. Tali elucubrazioni, però, non furono condivise da Beda, il quale forní una sua personale «versione dei fatti». Quattro sono le principali opere di carattere storiografico da lui lasciate: a parte il suo capolavoro, la Historia Abbatum (721), che narra la fondazione e le vicende

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Northumbria

Una breve parabola di gloria La Northumbria, uno dei sette regni dell’eptarchia (letteralmente, «sette sovranità») anglosassone, si estendeva a nord del fiume Humber e della Mercia, occupando le regioni di Deira e Bernicia, unite nel 588 dal re Etelrico. Suo figlio, Etelfredo, sconfisse nel

613 gli Scozzesi a Chester, separando le popolazioni celtiche del Galles dallo Strathclyde. Con Edvino, la Northumbria conobbe un periodo molto felice. Il re, infatti, dopo aver battuto Britanni e Sassoni occidentali, estese i domini fino al Firth of Forth. Fu battezzato a York nel 627. I successori

dei monasteri di Jarrow e Wearmouth, il De temporibus liber e il De temporum ratione (oltre a una Vita di San Cutberto di Lindisfarne). Dal punto di vista del dibattito storiografico le piú interessanti sono il De temporibus liber e soprattutto il De temporum ratione, nel quale si spinge fino a inserire un «sabato delle anime», che sarebbe iniziato con la morte di Abele e sarebbe finito nel giorno della resurrezione dei santi, quando, a sua volta, sarebbe cominciata la ottava e definitiva età, con il trionfo dei giusti e la dannazione degli empi. Idee forti e innovative, ma mai quanto quelle proposte nella Historia gentis Anglorum, con la quale egli si «sgancia» dalla visione storiografica a indirizzo universale – presente nella tradizione latina, ma anche greca – per concentrare l’attenzione su un unico aspetto: quello di una storia della Chiesa «nazionale».

«Anglocentrismo»

Beda decide di mettere al centro della storia un popolo ben preciso, gli Angli – il suo! –, concentrando le vicende su quanto avviene nell’isola. Il dottissimo monaco, naturalmente, non è un rivoluzionario: egli scrive una storia ecclesiastica «nazionale» non perché questa fosse «scissa» dal resto della storia della chiesa universale – che, anzi, è ben presente sullo sfondo con numerosi episodi –, ma per dare alle vicende del suo popolo una dignità del tutto diversa. Beda, peraltro, conosceva molto bene l’opera di un altro importante storiografo del tempo, quel Gregorio di Tours autore della Historia Francorum, cosí come doveva conoscere la Storia dei Goti di Jordanes. Ma fa un passo oltre. La sua Historia è piú ambiziosa. Divisa in cinque libri, tratta le vicende dell’isola dal tempo di Cesare alla data in cui fu composta, il 731. Almeno per la fase iniziale agosto

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favorirono le varie missioni cristiane, trovando l’accordo con la Chiesa di Roma. Nell’827 la Northumbria dovette riconoscere la supremazia del Wessex e nella seconda metà del IX secolo, dopo aver patito le scorrerie dei Vichinghi, subí l’occupazione danese. Dall’876 cessò di esistere come regno autonomo. (red.)

In alto la Fibula Kingston, cosí chiamata dal luogo di rinvenimento in una sepoltura femminile nel Kent. Oro intarsiato con granati, vetro blu e madreperla di produzione anglosassone. Inizi del VII sec. Liverpool, National Museums.

A sinistra la Croce di San Cutberto, in oro e granati, uno dei rari esemplari di produzione anglosassone cristiana, rinvenuto all’interno della sepoltura del santo. Fine del VII sec. Durham, Tesoro della Cattedrale.

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della storia le fonti sono sempre le stesse (né, si presume, Beda potesse avere accesso a documenti diretti): Plinio, Solino, Orosio per la descrizione delle popolazioni, ancora Orosio, Eurtopio, Prospero e soprattutto Gildas per il periodo romano. Come ha scritto lo studioso di letteratura latina Luigi Alfonsi (1917-1987): «È una storia religiosa e politica insieme, ricca di riflessioni personali con intendimento morale, con una quasi moderna scrupolosità documentaria, con uno sguardo attento alle tradizioni locali: scritta in uno stile sobrio e non di rado vivace». Destinata a enorme fortuna, l’opera contiene, in margine al piú antico manoscritto conosciuto (datato al 737), i cosiddetti Moore Memoranda, una breve lista di re e di dati cronologici la cui importanza è decisiva per la ricostruzione della storia dei regni angli.

Un’opera dagli orizzonti nuovi

Come ha scritto un altro autorevole studioso, Bruno Luiselli: «come la Historia Romana del cristiano Memmio Simmaco e la Storia dei Goti del cristiano Cassiodoro (perduta, n.d.r.) avevano aperto la strada rispettivamente alla storiografia cristiana di indirizzo nazionale

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protagonisti beda il venerabile Ritratto di Beda il Venerabile, dal De temporibus liber, composto dallo stesso monaco. VII-VIII sec. Cava dei Tirreni (Salerno), Archivio della Badia della SS. Trinità.

San Cutberto, vescovo di Lindisfarne, salva con le sue preghiere imbarcazioni in difficoltà nei pressi di Tynemouth, in Inghilterra. Miniatura di scuola inglese tratta da un’edizione del De vita et miraculis Sancti Cuthberti, episcopi Lindisfarnensis di Beda il Venerabile. Fine del XII sec. Londra, British Library.

romano e a quella, sempre cristiana, con indirizzi nazionali germanici, cosí la Historia di Beda, che vastissima fortuna ebbe nell’Età di Mezzo, aprí la strada alla vasta fioritura medievale di storie e cronache ecclesiastiche locali», ma nella Storia di Beda c’è di piú. Nella Storia dei Goti di Jordanes, nell’anonima Origo gentis Langobardorum, nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono (che pure le accoglie in maniera molto

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critica liquidandole come stupide favole) e nella Historia Brittonum di Nennio esiste sempre, ed è anzi fondante, il richiamo alle origini «mitiche» del proprio popolo da una divinità o da una stirpe particolarmente carismatica, mentre in Beda tutto ciò non avviene. Per lui gli Angli, i Sassoni e gli Juti provenivano dalla Germania, ma non cita mai alcun antenato divino, né parla della loro «preistoria». Perché? La risposta è abbastanza sempli-

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ce: Beda è sí appartenente alla stirpe degli Angli, ma si sente profondamente erede della cultura e della civiltà romana e, soprattutto, è cristiano. Il che, naturalmente, gli impedisce di aderire a miti di fondazione pagani. La realtà del suo popolo, quindi, non può che essere ricondotta, ancora e sempre, alla unità della civiltà latina con fondamenta solide e verificabili. Gli «Anglosassoni», dunque, appaiono nella sua ope-

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protagonisti beda il venerabile una leggenda curiosa

L’epitaffio corretto nella notte Quando Beda fu seppellito, il compito di scrivere l’epitaffio sulla tomba fu assegnato a un monaco che, evidentemente, lo conosceva poco. «Hic sunt in fossa Bedae ossa», si era limitato laconicamente a scrivere. La mattina dopo, qualcuno aveva misteriosamente aggiunto la parola «venerabilis» per rimarcarne la straordinarietà, e la gente gridò al miracolo. Comunque sia, Venerabile – e quindi degno di venerazione, come un beato – egli è già definito da alcuni intellettuali di poco posteriori, come Alcuino di York (il precettore di Carlo Magno, un anglo anche lui), mentre il concilio di Aquisgrana dell’835 lo cita come «venerabilis et modernis temporibus doctor admirabilis», ossia «il venerabile e meraviglioso dottore dei nostri tempi».

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Durham (Inghilterra nord-orientale), Cattedrale. La cappella di Galileo, nella quale è collocata la tomba di Beda il Venerabile, morto nel 735, canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa nel 1899.

ra come già presenti in Britannia, e l’autore conosce e tiene come sottofondo le testimonianze greche o romane mentre esclude completamente o quasi l’etiologia orale della sua gente, che pure doveva essergli familiare. Dal punto di vista del metodo, tuttavia, al di là delle auctoritates a lui note, sappiamo che, a partire dall’anno 596, le fonti documentarie e quelle orali sono puntualmente verificate e sottoposte a critica. Beda fu anche il primo a citare sistematicamente le fonti e a introdurre la «nota a piè di pagina», il che gli procurò non pochi guai: una di queste, relativa al calcolo dell’età della Terra, fu presa di mira dal vescovo Vilfrido di York, che lo accusò addirittura di eresia per aver citato – e non espresso – una propria opinione!

Oltre le divisioni nazionali

Per Beda, dunque, gli Angli e i Sassoni si erano insediati in una Britannia fortemente romanizzata e lui, che pure era un «barbaro» di nascita, essendo un intellettuale, sentiva di discendere e appartenere a quel mondo ricco di gloria. La storia della Britannia romana e quella successiva che scrive si saldano, dunque, senza soluzione di continuità. Anche la dedica al re Ceolwulf, re della Northumbria dal 729 al 737 (anno in cui si ritirò volontariamente nel monastero di Lindisfarne), è concepita come un tentativo di superamento delle divisioni nazionali, evidentemente ancora esistenti e ben sentite, tra Britanni e Germani: Beda tende (o meglio, auspica) di vedere gli insulari, finalmente, come una «nazione». In ciò anticipando nettamente quell’opera di unificazione politica e culturale che si realizzò solo un secolo dopo con re Alfredo il Grande (848-899). Alla fine della sua grande fatica, Beda conclude con queste toccanti parole: «E io Ti prego, Gesú amorevole, che come Tu mi hai graziosamente dato di bere con piacere della tua conoscenza, cosí voglia Tu pietosamente concedermi di attingere un giorno a Te, la fontana di tutta la saggezza, e di comparire per sempre davanti al Tuo Volto». L’invocazione fu «accolta» da Dante, che gli riserva, nella Commedia, un ruolo di tutto rispetto, collocandolo, in Paradiso, nel cielo del Sole tra i beati della prima corona, insieme a Isidoro di Siviglia e Riccardo di San Vittore, altri due fulgidi esempi di intellettuali: Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, che a considerar fu piú che viro. (Paradiso X, 130-132) La vasta erudizione, l’umiltà, la costante ricerca e l’interrogarsi, mettendosi in gioco in tutti i possibili campi dello scibile, fa meritare a Beda, forse piú e meglio di ogni altro, il titolo di santo patrono degli studiosi. Il suo ultimo lavoro, completato sul letto di morte, fu la traduzione in lingua anglosassone del Vangelo secondo Giovanni: un segno del profondo attaccamento alle sue origini, ma sempre nella luce della Salvezza. F

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immaginario la civetta

Con gli

di Lorenzo Lorenzi

occhi della verità Saggia, buona e fortunata, ma anche portatrice di notizie ferali: ecco solo alcuni dei molteplici significati simbolici della civetta, la cui immagine si insinua spesso nelle grandi opere dei pittori e scultori del Medioevo

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el corso del Medioevo, la raffigurazione degli animali ha costruito un repertorio di bizzarrie formali e interpretative che richiamano il tema della salvezza e il suo opposto. La civetta è il paradigma di questa ambiguità semiotica e forse, piú di ogni altro animale, è la piú riuscita rappresentazione allegorica del senso, tutto umano, del libero arbitrio connesso alla presenza del divino. I suoi grandi occhi esprimono fortezza nella dimensione dell’oscurità, assurgono a simbolo di luce del percorso razionale, costituiscono il sostrato dei pilastri della teofania cristiana (nascita e crocifissione del Salvatore), senza che per questo le sia estranea la mistica mortuaria del cattivo presagio. Questo secondo aspetto ha la sua origine nella cultura latina, in cui l’epiteto piú frequente era feralis, a differenza di quella greca, presso la quale, come emblema di Atena, era espressione di grazia lunare, chiaroveggenza e sapienza.

Una lucciola nella notte

L’Età di Mezzo conserva e struttura questo duplice significato, sebbene l’arte cristiana ne prediliga il risvolto positivo; poiché l’animale ha capacità di volare al di sopra di ogni cosa, questo vedere tutto dall’alto esprime la sua vicinanza alla santità cristiana e la sua complementarietà con l’aquila, immagine della giustizia divina. Come lucula noctis (lucciola della notte), presiede e controlla ogni fatto notturno (declinando significati quali l’attesa, la riservatezza, la malinconia, ma anche l’aristocrazia e la fortuna), incarnando il risveglio iniziatico dell’uomo sulla strada della chiara verità e del bene (che è anche il senso della sua stilizzazione nell’araldica anglosassone).

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Adorazione dei Magi. Olio su tavola di Ludovico Mazzolino (1480 circa-1528 circa). 1512, Mamiano di Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani Rocca. Sulla sinistra è raffigurato un giovane paggio – allegoria dell’uomo in perenne conflitto tra bene e male – con, sul braccio, una civetta, simbolo, in tale contesto, di sapienza divina, in contrapposizione alla scimmia dipinta ai suoi piedi, emblema del vizio.

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immaginario la civetta Atena Glaucopide

Argentea e sapiente Figlia di Zeus e di Metide, Atena simboleggia la saggezza, le arti tessili, metallifere e dell’artigianato, ma anche la giusta causa nella guerra; per questo motivo, è protettrice degli eroi combattenti, con particolare riferimento a Eracle e Giasone; dal suo nome sembra derivare il nome della città di Atene, luogo eletto per la nascita del pensiero razionale occidentale. Nell’iconografia tradizionale indossa un elmo e uno scudo su cui compare l’effigie della Gorgone Medusa,

capace di cacciare le forze avverse. Le spalle e il busto sono coperte da una corazza di pelle della capra Amaltea, dono del padre Zeus. Il tutto assurge a simbolo di forza e vittoria, e, non a caso, spesso (in bassorilievi e sculture) è affiancata dalla dea Nike, assieme ad altri due simboli sacri complementari: l’ulivo e la civetta appollaiata sulla testa. La presenza di quest’ultima ha una probabile derivazione preistorica: Atena, infatti, nasce come animale femmineo, alato e primordiale, essere pennuto e rapace,

Digione, cattedrale di Nôtre-Dame. La civetta scolpita su un contrafforte della facciata laterale. XIII sec. Secondo una credenza locale la scultura porterebbe fortuna se toccata con la mano sinistra.

A Digione, città templare, su uno dei contrafforti della facciata laterale della chiesa di Nôtre-Dame, compare una scultura di civetta con funzione apotropaica: chiunque la tocchi con la mano sinistra (corrispondente al cuore) vedrà realizzato il suo destino e vivrà nella fortuna sino alla vecchiaia. Diversamente, una leggenda altomedievale di origine spagnola narra come la civetta (in altre varianti il gufo) abbia assistito alla morte di Gesú vegliando il suo corpo: da allora il suo destino è stato quello di evitare la luce del giorno piangendo le sofferenze del Redentore; da quel momento non ebbe piú a pronunciare suoni soavi, bensí tonalità perturbanti e cacofoniche ( «Cruz! cruz!»). Nella tavola della Crocifissione di Anversa (1475) dipinta da Antonello da Messina, una civetta è presente nella solarità del giorno appollaiata su una roccia, in fiduciosa attesa del riscatto dell’umanità dal peccato; con funzione di nocchiere, appare in procinto di condurre le anime dei

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capace di scorgere la strada nel caos. Nell’Odissea Omero parla di lei aggettivandola come «glaucopide», da glaux cioè riflettente, argenteo (ma anche indicante il colore azzurro o verde), il cui sguardo intenso e perenne, senza battito di ciglia, ha la forza di sconfiggere la tenebra: da qui l’appellativo di sapiente, suffragato anche dal fatto che gli occhi e il becco dell’animale seguono la lettera alfabetica greca phi (fi) della filosofia, che è al tempo stesso espressione della sezione e aurea.

defunti del regno dell’oltretomba per il giudizio finale. Allo stesso modo, nella pala di Pietro di Giovanni D’Ambrogio, della prima metà del Quattrocento, una civetta è assisa al centro della capanna e presiede l’evento dell’Adorazione dei Magi, in qualità di forza luminosa che frantuma le tenebre; il rapace, pertanto, puntualizza la funzione del Cristo come luce dell’Umanità, ma, al tempo stesso, presagisce il suo destino luttuoso.

Messaggio salvifico

Sulla base del reliquiario contenente un «Osso di un dito di San Giovanni Battista» (databile al XIV-XV secolo e conservato al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze) compare l’immagine a cesello di una testa di civetta, vista come sintesi della forza silente della bellezza divina, come anima del mondo e come sostanza di Dio che caccia il peccato; in essa, infatti, rivive il messaggio cristiano della salvezza, come dimostrano le parole di Cristo che col Salmista afferma: «Sono divenuto come la civetta fra le rovine, come l’uccello solitario sul tetto». Questa valenza cristologica si mantiene sino al Rinascimento e lo dimostra l’Adorazione dei Magi di Ludovico Mazzolino (vedi foto alle pp. 5253), che tratteggia una scena quasi cortese, festante e gaudente, con un paggio infante che tiene una civetta sul braccio, quasi fosse un dono da portare in omagagosto

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A sinistra La foresta che ascolta e il campo che vede. Disegno a penna e bistro di Hieronymus Bosch (1450 circa-1516). 1500 circa. Berlino, Staatliche Museen. A destra Uomo-Albero. Disegno a penna e bistro di Hieronymus Bosch. 1470 circa. Vienna, Graphische Sammlung Albertina. In basso giovane paggio con civetta, particolare dell’Adorazione dei Magi di Ludovico Mazzolino. 1512. (vedi alle pp. 52-53).

I suoi grandi occhi esprimono fortezza e assurgono a simbolo di luce, una valenza «cristologica» che manterrà fino al Rinascimento gio; la scimmia che gioca ai suoi piedi ricorda invece il vizio e la sensualità irrazionale, in quanto il diavolo scimmiotta l’Uomo-icona (Gesú). Cosí si spiega il bestiario di questa scena, che presenta l’uomo in perenne tensione fra ragione e istinto maligno. Nella Francia medievale si usava mettere sulle porte delle case una civetta crocifissa, infilzata con aghi o chiodi puntuti, in quanto il corpo martoriato cacciava il malaugurio; un’usanza che tradisce il retaggio della cultura precristiana. Virgilio nelle Georgiche (I, vv. 402-3) dice: «Solis et occasum servans de culmine summo nequiquam seros exercet noctua cantus» («osservando dall’alto di un tetto il tramonto del sole, senza motivo la civetta fa sentire i canti vespertini»); e Plinio il Vecchio afferma «Noctua in imbre garrula, et sereno tempestate» («la civetta canta quando c’è cattivo tempo e quando annuncia la tempesta al posto del sereno», Storia Naturale, XVIII, 362).

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L’ambito nordico predilige della civetta l’aspetto negativo: in un disegno di Bosch, precedente e preparatorio all’Inferno musicale della tavola di destra del trittico del Giardino delle Delizie (1480-1490), si osserva la figura dell’Uomo-Albero, composto da due tronchi nodosi poggianti su barche adagiate nell’acqua. Il corpo ha la forma di un uovo rotto, con all’interno una bisca, sulla testa è poggiato un grosso disco sormontato da una brocca ansata; alle sue spalle un albero ospita una civetta vegliante. Quest’ultimo particolare, studiato in un altro disegno, evidenzia il volto malinconico e rassegnato del soggetto, nonché il paesaggio spoglio e desolato, che rendono la scena funesta e poco edificante. Allo stesso modo, nella tavola con la scena del Concerto, il bene e male si confondono e un vago senso del vizio sembra radicarsi in ogni segno, in ogni soggetto vegetale e animale, ma senza un preciso riferimento. L’uovo in sé, che è simbolo del(segue a p. 59)

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immaginario la civetta il gufo

L’uccello-vampiro Nella tradizione ebraica e biblica, il gufo è sostanzialmente un essere impuro, presagio di abbandono e desolazione, mentre nella mitologia greca è una delle espressioni visive di Atropo, la prima delle tre Parche, responsabile della durata della vita degli uomini. L’animale è immagine di cattivo auspicio e simboleggia la fredda notte e la dimensione della morte. Contrariamente alla civetta, domina la dimensione dell’ignoranza e della cecità, in sintonia col significato primigenio attinto dalla cultura egizia, nel cui alfabeto geroglifico un glifo, suo simbolo, esprime la lettera M, quale involuzione e fine del tutto. Si distingue per avere un suono lamentoso e lo sguardo penetrante, a simboleggiare la permanenza del male nel mondo degli uomini. Ovidio, traendo informazioni dalla perduta opera greca Ornithologia, ne fa una descrizione inequivocabile: «Grossa testa, occhi fissi, con becco rapace e con penne bianche e gli artigli fatti a modo di uncino; [i gufi] volano di notte e cercano i bambini che sono senza balia, li rubano dalle culle e poi ne fanno strazio. Si dice che col rostro strappino i visceri ai lattanti e si empiano il gozzo del sangue succhiato. E si chiamano strigi: sogliono di notte stridere orrendamente» (Fasti, VI, 131). Sono pertanto considerati uccelli-vampiri notturni, in relazione al mito di Ascalafo (figlio di Gorgira e Acheronte), trasformato da Demetra in gufo (o civetta) per aver accusato la figlia Persefone di aver rotto il giuramento del digiuno. A sinistra La Regina della Notte. Lastra

in argilla cotta, da Babilonia, raffigurante una figura femminile alata, identificata con la dea Ereshkigal, sovrana dell’aldilà, tra una coppia di leoni e due gufi, animali notturni, presagio di cattiva sorte, che simboleggiano il vizio, l’ignoranza e la cecità. 1800-1750 a.C. Londra, British Museum. A destra Il concerto nell’uovo. Olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1475-1480. Lille, Musée di Beaux Arts.

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immaginario la civetta

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Civetteria

L’arte della seduzione Nella tradizione la civetteria è una forma di vanità che si traduce in un comportamento amoroso o amorevole di contenuto futile, tipico delle donne maliziose (giovani o meno) e superficiali. Essa assume forme gestuali inerenti la seduzione apportata con ammiccamenti ambigui, presunta disponibilità all’incontro o all’accoppiamento sessuale. In età moderna non è ritenuta propriamente un vizio, bensí una mancanza di contenuto morale e di buon gusto; particolarmente additate sono le donne mature, che amano ancora credersi capaci di sedurre uomini giovani o potenti. È probabile una derivazione dall’Odissea in cui si narra di come l’animale fosse caro a Calipso, la quale cercò in tutti i modi di attrarre a sé il naufrago Ulisse. Nel De natura animalium, Claudio Eliano riferisce come le civette siano simili alle donne dedite a stregonerie e incantesimi. Boccaccio afferma invece che il suono delle civette è una lusinga, uno zimbello, un richiamo irresistibile. Per Poliziano, il civettare è l’arte di attirare uomini mediante moine e il fatto che tale atteggiamento abbia un riferimento alla civetta è dato dalla

Vanitas (La vecchia civetta).

Tela di Bernardo Strozzi (15811644). 1637 circa. Mosca, Museo statale di arti figurative Puskin.

presunta furbizia e forza d’animo di coloro che cercano tramite malie di ottenere favori. Nell’Alto Medioevo, la vanitas era collegata al vizio della superbia, mentre dal Trecento in poi è palmare al narcisismo, quale atteggiamento auto-idolatrico di puro egoismo: nelle pitture d’età cinquecentesca e barocca, la vanità trova espressione nell’immagine di un teschio in primo piano, affiancato da fiori recisi, clessidre o strumenti

Nella pagina accanto Trittico del Giardino delle delizie, particolare del pannello centrale. Olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1480-1490. Madrid, Museo del Prado.

la creazione, è rotto e schiacciato, deforme rispetto alla sua perfezione naturale, cosí anche i volti, sacri o profani, presentano fisionomie irregolari: un personaggio si caratterizza per avere sulla testa un copricapo a forma di imbuto messo alla rovescia; esso è simbolo di follia in relazione alla civetta appollaiata sul capo di un altro astante, a sua volta coronata da un uccello nero: il tutto a esprimere compiutamente la cattiva sorte. Nella scena centrale del già citato trittico delle Delizie, che narra la storia dell’umanità attraverso un geniale incastro di riferimenti biblici, esoterici e allegorie pro-

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musicali, oppure nell’immagine di una donna che rimira il suo volto allo specchio e che crede di vedere nel riflesso di sé una bellezza permanente; in realtà è solo illusione e confusione, come ebbe a dire San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «ma ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa». Bernardo Strozzi, nel 1637, ritrae una donna anziana allo specchio, che si pavoneggia credendosi ancora attraente.

fane, si osserva una pianura verdeggiante punteggiata da inserti lacustri e popolata da figure nude di uomini e donne in atteggiamenti amorosi, sensuali, ma anche in platonica contemplazione. Nell’insieme la scena vuol essere un ammonimento contro i pericoli della tentazione, tanto che alcune figure danzanti tengono in mano grosse ciliegie, simbolo del vizio della lussuria: la loro testa è occultata da un bocciolo gigante sul quale siede un gufo vegliante a connotare la potenza diabolica, la magia, la stregoneria («strige» in greco significa gufo).

Emblema dei vizi umani

Quale specchio della civetta, questo animale rappresenta i vizi della specie umana, tanto che, su una vetrata della cattedrale gotica di Saint-Etienne, a Bourges, il

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immaginario la civetta Il figliol prodigo. Olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1510. Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen.

La civetta sintetizza aspetti positivi e negativi, ponendosi quale chiave interpretativa della complessa condizione umana demonio si palesa ad Adamo ed Eva sotto le spoglie di un gufo dalla testa umana, appollaiato sull’Albero della conoscenza. Nelle cattedrali di Le Mans e Poitiers, cosí come nelle chiese di Avesnières-en-Laval e di Auguesvives, sono presenti indistinti uccelli notturni (gufi o civette) beccati da volatili diurni. In alcuni compendi medievali (primo fra tutti il Bestiario Divino di Guillaume de Normandie), il gufo viene identificato col «popolo giudeo», che ciecamente non riconobbe il Salvator mundi. Nella Nave dei folli di Bosch (1494) il gruppo di personaggi, presentati all’osservatore come dediti al vizio, richiama la condanna del peccato; in effetti i gesti e le

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movenze inconsulte fanno da contraltare al gufo assiso nella parte apicale dell’albero, cosí come la presenza della ciliegia sul tavolo e i polli spennati e appesi visualizzano i vizi della gola e dell’impudicizia in generale, richiamando un’antica tradizione popolare tradotta nel poema De Blauwe Scuut di Jacob van Oestvoren, nel quale si tratteggia la baldoria sconcia del popolo durante i festeggiamenti di carnevale. Interessante è poi il dipinto intitolato Il figliol prodigo, anch’esso di Bosch, nel quale la civetta, immobile sul ramo secco di un albero frondoso, sembra sintetizzare i due aspetti positivi e negativi prima accennati, ponendosi quale chiave interpretativa della complessa condizione umana. È posta sulla sommità di un albero e guarda il viandante fermo di fronte a un cancello sbarrato; sovraintende la vita di lui, sottoposta in ogni istante alla crisi della scelta. L’animale si propone come allegoria dei momenti del comportamento morale umano: il libero arbitrio e la scelta del bene, la decisione di lasciare una strada errata (che nell’opera è simboleggiata dalla casa vetusta) per una piú sicura ma ancora ineffabile, infine la tappa piú ardua, scaturita dalla somma dei due significati precedenti, ovvero il morire e il risorgere dalle brutture di esperienze passate nella speranza di immettersi sul sentiero della vera conoscenza. F

Da leggere U Maria Altobella Galasso, La civetta dagli altari agli

scongiuri, 1987. U Franco Cardini, La civetta, www.francocardini.net. U Massimo Centini, Bosch. Una vita tra i simboli, Polistampa,

Firenze 2003. U Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli,

voll. 2, Rizzoli, Milano 1986. U Angela Cerinotti, Miti dell’antica Grecia e di Roma antica,

Demetra, Verona 1988. U Carl Linfert, Bosch, Milano, 1995

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Miniatura raffigurante i bagni alle terme, da un’edizione del De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli. Prima metà del XIV sec. Cologny, Fondazione Martin Bodmer. L’autore, letterato alla corte degli imperatori Enrico VI e Federico II, dedicò l’opera, composta tra il 1211 e il 1220 circa, alle virtú curative di una trentina di fonti termali della zona flegrea, ubicate tra Napoli e Baia.


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Chiare, fresche et salutari acque di Luca Pesante

Del ristoro e dei benefici apportati dai bagni termali si giovarono, nell’Età di Mezzo, pontefici e signori, rinnovando cosí la grande tradizione inaugurata dai Romani. E alle virtú terapeutiche delle sorgenti sparse un po’ in tutta Italia dedicò un prezioso trattato il medico senese Francesco Casini, amico del Petrarca e di Santa Caterina

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lla fine del Medioevo la consuetudine quotidiana del bagno termale, cioè quella pratica igienica diffusa in ogni angolo dell’impero romano e occasione essenziale per un’intensa vita sociale, era ormai un ricordo lontano e confuso. L’uomo medievale dell’Occidente cristiano non si lava – come invece i contemporanei medio-orientali fanno meticolosamente –, e fu anche per questo che la terribile peste del 1348 flagellò un terzo della popolazione europea, risparmiando gran parte del mondo arabo. A questo riguardo, non senza ironia, lo storico della medicina Giorgio Cosmacini ha scritto: «l’ira di Dio e la grazia di Allah sembrano mediate dall’igiene intima dei rispettivi popoli fedeli».

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Fin dalle origini le prime comunità cristiane abbandonano l’antica abitudine di lavare spesso il corpo in nome di un ideale di vita contemplativa: il bagno viene ora destinato esclusivamente a sollievo e guarigione dalle malattie. È il mondo musulmano che eredita la tradizione romana della pulizia e della cura per tenerla viva fino a oggi. In realtà, nel corso del Medioevo, chi poteva permetterselo si

Sigillo della città di Siena. Acquerello da un manoscritto di Girolamo Macchi. 1247. Siena, Archivio di Stato. La città toscana diede i natali al medico Francesco Casini, autore del Tractatus de Balneis, nel quale sono contenute le descrizioni di vari bagni termali e le loro proprietà ristoratrici e curative.

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Nella pagina accanto xilografia raffigurante i bagni di Plombière, in Francia, dalla prima edizione del De Balneis omnia quae extant apud Graecos, latinos et Arabas, un trattato di idrologia medica e balneoterapia, contenente la descrizione di circa 200 località termali, stampato a Venezia nel 1553 da Tommaso Giunti. A destra particolare di una miniatura raffigurante alcune donne dirette al Balneum Raynerii, una delle numerose sorgenti termali che Pietro da Eboli cita nel De Balneis Puteolanis e che si trovavano nei pressi del villaggio, oggi scomparso, di Tripergole, presso il lago di Lucrino. 1211-1220 circa. Roma, Biblioteca Angelica. Le acque di questa terma curavano la scabbia e le imperfezioni cutanee.

bagnava nelle acque naturalmen- è la presenza di numerosi bagni. delle case quadruplicava quando il Matteo Paris scrive che Gregorio pontefice giungeva in città. te calde che sgorgavano in diverse località della Penisola – si trattava IX (1170-1241) «aveva molti calcoli, L’uso di sorgenti d’acqua terspesso di un privilegio raro, di cui era molto vecchio e aveva bisogno male per scopi terapeutici prende non tutti riuscivano a godere – e, di bagni in cui era solito ristorarsi la forma di un vero e proprio terpur di trovare una tregua dal tor- a Viterbo». Non è pertanto un caso malismo organizzato tra il XIV e il mento che scabbia, pustole, infe- che alti prelati, come l’astronomo XV secolo, a volte con l’intervento zioni e piaghe infliggevano giorno Campano da Novara (†1296), ab- delle autorità pubbliche o delle élie notte, si affrontavano ben volen- biano investito somme ingenti a te urbane che ne valutano il potentieri anche ore di marcia per im- Viterbo nella costruzione di dimore ziale politico a favore di una città mergersi nelle piú vicine sorgenti importanti. «Motivazione igienico- e del suo territorio. Di pari passo sanitarie – ha rilevato Agostino Pa- la scienza medica inizia a occuristoratrici. L’importanza sociale di una ravicini Bagliani – costituiscono la parsi delle proprietà curative delstraordinaria risorsa che la le acque calde, sviluppando natura ha generosamenuna letteratura specializzata Richiamati dalle sue terme, te reso disponibile quasi sull’argomento che non esii papi soggiornano volentieri steva nei secoli precedenti. in ogni regione italiana si coglie non appena la lente Gentile da Foligno, morto di a Viterbo, che, cosí, diviene dello storico si avvicina per peste nel 1348 mentre eserciuna seconda Roma mettere a fuoco i particolari tava il mestiere di medico, fu di questo fenomeno: si può in questo ambito un grande cosí scoprire che le società medie- trama di fondo dell’impressionante innovatore per aver consacrato tre vali hanno saputo trarre beneficio mobilità curiale duecentesca, anche sue opere – di grande successo – alanche dai bagni termali in un’epo- là dove i piú impellenti problemi le acque minerali. ca che, dopo l’ecatombe della peste politici sembrano fornire al fenoDa questo momento in poi si nera, segna un decisivo e clamoroso meno spiegazioni apparentemente conta una quindicina di trattati sui sviluppo economico e civile d’Italia. piú sicure». bagni (De Balneis), composti da cePer l’abate di Andres, Viterbo in lebri medici in un arco cronologico La vera ragione del trasferimento dell’intera corte pontificia a Vi- questo periodo è una seconda Ro- che si chiude intorno alla metà del terbo, fin dall’epoca di Innocenzo ma, proprio in ossequio di quella ri- XV secolo, quando il padovano MiIII (1160-1216) – per lunghi perio- flessione giuridica che nel Duecen- chele Savonarola (nonno dell’ancor di, che a volte eccedevano i mesi to affermava: «ubi papa, ibi Roma». E piú celebre Girolamo) redige la sua estivi nei quali sistematicamente i persino nel prezzo degli affitti si tro- opera sulle acque termali. Alcuni di papi si allontanavano dalla calura e va un riflesso della presenza dell’il- essi, per esempio Giovanni Dondi dalla malaria che infestava Roma – lustre ospite: la cifra di locazione e Francesco da Siena, oltre a in-

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costume e società le terme Le terme di Petriolo

Bagni buoni per ogni male «Del bagno di Petriolo. Dico dunque che il bagno di Petriolo è composto da un’acqua che scorre attraverso minerali di zolfo con un moto velocissimo e in abbondantissima quantità; è inoltre di forte calore, sia attuale (in atto) che potenziale (in potenza), ed emette vapori sulfurei in grande quantità, come una nube; chi vi si reca per la prima volta sente in modo molto forte un odore di zolfo da lunga distanza, all’inizio con difficoltà si riesce a sopportare tale odore; e quando gli uomini escono da lí diffondono l’odore di zolfo su chiunque si avvicini loro, e lo stesso fanno i loro vestiti. Inoltre, chiunque si trovasse in quel luogo, a mala pena riuscirebbe a viverci a lungo, poiché soffocherebbe a causa dei vapori. Al termine poi della conduttura, quest’acqua viene raccolta in tre casali scoperti, poiché se avessero una copertura non potrebbero stare in piedi: nel primo casale l’acqua è molto calda, moderatamente nel secondo e poco nel terzo, cosí che gli uomini possano procedervi gradatamente come è salutare. Questo bagno si trova nel vostro [il trattato è dedicato a Gian Galeazzo Visconti, al quale l’autore si rivolge piú volte] territorio della città di Siena, lontano quindici miglia dalla città in direzione del litorale, è inoltre situato in un luogo boscoso e concavo, e presso di esso scorre un piccolo fiume chiamato Farma con un’acqua potabile freschissima e chiarissima al punto che chi si trova accaldato nei bagni beve in grande quantità senza alcun danno e con grande refrigerio. Inoltre si chiama bagno di Petriolo poiché un certo piccolo villaggio cosí chiamato si trova nelle sue vicinanze. In quello stesso luogo vi sono delle abitazioni abbastanza ordinate nelle quali dai luoghi circostanti vengono portati ottimi alimenti di ogni genere, in particolare vi si trovano vini rossi chiari e ben digeribili. Il sito fortificato e circondato da mura piú vicino a detto bagno è il castello di Pari, distante un miglio circa, di proprietà dei Malavolti di Siena. Questi bagni sono divisi e separati, con una onesta divisione tra uomini e donne. Inoltre essi giovano in modo straordinario a tutte le persone grasse eliminando l’umidità superflua. Giovano per ogni infermità causata da materia flemmatica come sono la podagra frigida e umida, il rilassamento dei nervi, il catarro frigido e umido, e principalmente per queste cose è utile il loro uso. Rinforzano anche gli stomaci frigidi e umidi. Inoltre, le donne che a causa di un’eccessiva pinguedine o di un’eccessiva umidità dell’utero non riescano a procreare, purché non siano private della capacità di procreare per via dell’età e di altre condizioni, da lí possono ricavare giovamento in modo straordinario. Tuttavia chi ha il fegato troppo caldo e gli uomini

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molto macilenti non debbono lí bagnarsi; scendendo d’altra parte nel particolare dico, impudentemente, e sottoponendomi alle critiche dei vostri esperti, che questi bagni sono ottimi per la vostra illustrissima persona che voi foste degnato di presentarmi, e gioverebbero straordinariamente. Parimenti affermo che tali bagni sarebbero ottimi per l’illustrissima signora duchessa, perché potrebbero impedire e risolvere la sua piuttosto eccessiva corpulenza e le restituirebbero il colorito nel modo migliore, in modo da potere – credo – nuovamente piú volte procreare. Al contrario, non sarebbero buoni per il vostro devotissimo Francesco Barbavara, se usati per il corpo, ma andrebbero invece bene per bagnarsi il capo. Inoltre il periodo d’uso di questo bagno va dal principio del mese di novembre fino al principio del mese di maggio». (Francesco da Siena, Tractatus de Balneis, Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. Lat. n. 6979).

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segnare medicina nelle principali università italiane, sono i medici personali di imperatori, principi e papi, ai quali indirizzano e dedicano le loro opere. La compilazione di un trattato che riguarda le sorgenti di acqua termale richiede un’esperienza diretta da parte del medico circa le proprietà medicamentose dei bagni. Dopo aver letto gli scritti degli antichi medici (se disponibili) sul medesimo argomento, si procede a un’analisi dell’odore, del colore, del L’edificio termale dei Bagni di Petriolo, la cui fondazione risale all’età rinascimentale. La fonte, che sgorga lungo le sponde del fiume Farma, in provincia di Siena, molto frequentata nel Medioevo, era probabilmente già conosciuta in epoca romana.

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sapore e del peso delle acque; ci si immerge personalmente, si osservano gli effetti su se stessi e sugli altri bagnanti; a queste informazioni vengono poi affiancate accurate descrizioni – al pari delle migliori guide specializzate – della qualità degli alberghi, della qualità dell’aria, del carattere dei locali, della possibilità o meno di reperire cibi di stagione, e dei vari pericoli dai quali il lettore deve essere messo in guardia. Non mancano perfino cenni storici e particolari che solleticano la curiosità dei lettori, come le note sugli illustri personaggi che erano soliti frequentare i bagni citati.

Una nuova «moda»

La velocità con cui tra il XIII e il XV secolo cresce la frequentazione dei bagni e si sviluppa una specifica

letteratura di riferimento, ha fatto pensare a una vera e propria «esplosione» del fenomeno termale, legato a una nuova «moda» all’interno di una società in crescita economica e culturale. Oltre alla spontanea iniziativa e alle tradizioni locali, ci si recava presso i bagni su indicazione dei medici e per una diffusa consuetudine che accomunava diversi strati delle società cittadine e rurali. Un dipendente del grande mercante pratese Francesco Datini scrive al suo padrone nel 1405, mentre si curava presso le terme di Petriolo (nei dintorni di Siena, sul fiume Farma): «Qui ci sono assai fiorentini e c’è tanta gente che non ci si vive, ma io sto bene e in buon luogo e sono servito bene, però ce ne sono alcuni che Iddio solo sa come stanno». Chi non poteva recarsi perso-

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costume e società le terme nalmente ai bagni si faceva portare l’acqua entro botti di legno, nonostante i medici avvertissero che il viaggio poteva indebolirne le virtú terapeutiche.

Guida alle terme

Nella Biblioteca Nazionale di Parigi si conserva un manoscritto prezioso – ancora in gran parte inedito – forse l’unico, oggi noto, che contiene la piú interessante «guida» medievale sui bagni termali di Campania, Lazio e Toscana. Vi sono descritti circa sessanta luoghi nei quali l’autore ha immerso il suo corpo e condotto alcuni malati per sperimentarne le virtú. L’autore non è un medico come molti altri: si chiamava Francesco Casini ed era un Senese, amico di Francesco Petrarca, Coluccio Salutati e Santa Caterina da Siena, che spese buona parte della propria vita, oltre a insegnare medicina, diviso tra Roma e Avignone come medico personale di diversi pontefici. Nelle prime righe, dedica il proprio Tractatus de balneis a Gian Galeazzo Visconti, che, al momento della composizione dell’opera (1399), era divenuto signore di Pisa, Piombino e dell’isola d’Elba. Francesco si propone di «discutere delle cause e delle varietà dei bagni e dei modi del loro uso, per bere o per lavarsi […] con un linguaggio chiaro», tralasciando quelli ancora non esaminati, per esesmpio i bagni di Lombardia e fuori d’Italia, iniziando dai «bagni piú vicini, vale a dire quelli di Siena, di Pisa, di Lucca, di Viterbo, di Roma e di Napoli» e per primi i «bagni di Siena che da tempo ho conosciuti, amati e apprezzati». L’autore, inoltre, ci informa dettagliatamente per ciascun bagno delle virtú delle acque, delle modalità di impiego, indicando la stagione migliore per bagnarsi, frequenza e durata delle abluzioni, del regime alimentare da seguire, in tal modo

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marcando la diversa specializzazione terapeutica dei vari bagni. Sui bagni di Viterbo scrive Casini: «quando papa Urbano V riportò la curia in Italia, e sono passati ormai 32 anni circa, mi inviò con altri sette medici a indagare le virtú dei bagni viterbesi, che sono senza dubbio grandi e numerose, e infatti ho sentito raccontare dagli storici che al tempo dei romani i cittadini che avevano combattuto in guerra, giunti all’età della vecchiaia, si riti-

Miniatura da un’edizione del De Balneis Puteolanis di Pietro da Eboli. Prima metà del XIV sec. Cologny, Fondazione Martin Bodmer.

ravano a Viterbo e grazie alla qualità dell’aria, alla bontà dei cibi e all’abbondanza di acque sia potabili che minerali riuscivano a riprendere le loro forze. Si dice infatti che il nome “Viterbo” derivi da vita inermium, insomma essa senza dubbio è una città amena ma è abitata da pessimi villani». Non manca Francesco di dichiarare in quell’occasione l’ine-

sperienza sua e degli altri medici («non eramus experti et maxime ego qui tunc eram viginti quatuor annorum»), ma ricorda che tra di loro ce n’era uno di Viterbo, tale Girolamo, egli sí esperto (e valens homo), autore di un trattatello proprio sui bagni viterbesi dedicato a papa Innocenzo VI, che il medico senese trascrive integralmente all’interno della sua opera. Tra le prime testimonianze sulla vita di Francesco Casini, nato a Siena probabilmente nel 1343, alcune notizie fanno supporre che egli abbia iniziato la propria carriera accademica a Firenze, nell’insegnamento di logica e filosofia a partire dal 1363, le stesse materie che, prima di lui, erano affidate al fratello Giovanni presso il medesimo ateneo. Al periodo dell’insegnamento fiorentino risale la prima delle due celebri lettere che Francesco ricevette da Petrarca, datata al 1372. Nel giugno del 1367 papa Urbano V fece ritorno da Avignone via mare, approdò nel porto di Tarquinia (l’antica Corneto) per poi recarsi direttamente a Viterbo, da secoli residenza abituale dei pontefici durante i mesi estivi, grazie alla presenza di numerose sorgenti di acqua calda. E proprio per investigare i pregi dei bagni viterbesi Francesco, che nel frattempo era tornato a Siena per insegnarvi logica e filosofia, fu chiamato dal pontefice con altri sette medici.

Al servizio del papa

Due anni piú tardi, nel 1369, il medico senese compie due viaggi a Roma per sbrigare alcuni affari per conto del Comune di Siena, ma nell’Urbe egli presta anche servizio come medico per il pontefice, che soffriva terribilmente di calcoli (in una lettera spedita in questi mesi si firma Franciscus medicine doctor). Urbano lascia Roma in precarie agosto

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petrarca scrive a francesco casini

La diffidenza del poeta «Da Arquà, 1 maggio 1374. Quando ho visto all’interno della tua lettera il mio biglietto ho sorriso di questo tuo astuto amichevole artificio e mi sono detto: non ho via d’uscita devo rispondere per forza. E cosí sei riuscito a farmi scrivere, io che sono stanco non solo di scrivere ma anche di vivere […]. Sul finire della tua lettera tu mi esorti ad amare la medicina, e io amando te amerò tutto ciò che è tuo, salvo tutto ciò che sarà pernicioso. Non sarei degno di esserti amico se fingessi con te. Ti dico dunque che io amo davvero la medicina, ed essendo uomo ne ho avuto sempre bisogno, soprattutto ora che sono vecchio. Io odio invece le menzogne dei medici, di quelli che usurpano ingiustamente il nome di medici. Vedo che hai letto la mia invettiva contro quel cicalone del medico del Papa che grazie a qualche aforisma male inteso si era cosí gonfiato nell’orgoglio da credersi asceso fin sopra il cielo da dove pensava di investigare i segreti piú intimi della natura […]. Ho conosciuto un medico [Giovanni Dondi] di cosí nobile e perspicace ingegno che se la medicina non gli avesse tarpate le ali si sarebbe levato fino alle stelle. Tre anni fa, sapendo come io fossi malato di febbre e non potendo raggiungermi mi visitò per lettera e mi prescrisse ciò che avrei dovuto fare. Nonostante sia ormai diminuito con gli anni l’ardore della mia natura, immaginando le sue parole, prima ancora di leggere la sua lettera gli risposi subito […]. Fra le altre cose pretendeva che io mi astenessi dalla frutta, dal bere acqua e dal digiunare, io che mi conosco abbastanza so bene che sarei morto dopo tre giorni senza bere acqua. Non credo di essere di cosí poco conto al punto che un grecuzzo o un arabetto, già sepolto da mille anni quando io nacqui

e che mai mi conobbe, sia migliore di me a giudicare il mio temperamento […]. Quel mio amico asserisce che se obbedissi ai medici io vivrei piú a lungo ma, al contrario, sono invece persuaso che sarei morto prima. Mi è spesso accaduto di ascoltare i consigli dei medici, ma non ho mai creduto ad alcuno, perché nessuno si è rivelato efficace […]. Io non credo alle chiacchiere, credo soltanto ai fatti che non ingannano. Quando vedo entrare un medico in camera mia già so ciò che sta per dire: mangia polli appena nati, bevi acqua tiepida che prima abbia bollito, adopera quello sporco rimedio che i medici appresero da un uccello palustre, ed altre ciancie simili. Tale è la stima che io ho dei medici in generale, quanto a te non posso dire nulla di certo: vedo che sei uomo d’ingegno e discreto, ma non so come sei come medico, lo saprei se tu fossi qui, ora che essendo infermo avrei bisogno di un vero medico. Se mi credi degno di fede ti dico: cerca di diventare non uno di quelli che sono bravi a recitare sillogismi ma uno che sa curare gli infermi […]». (Francesco Petrarca, Lettere senili, libro XVI, III).

L’arte della medicina. Formella in marmo scolpita da Andrea Pisano per la decorazione del campanile del Duomo di Firenze. 1334-1336. Firenze, Museo dell’Opera di S. Maria del Fiore.

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agosto

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costume e società le terme Caterina da Siena scrive a Francesco Casini

Una esortazione accorata «A Maestro Francesco, di Maestro Bartolomeo, Medico di Siena di gran fama. Al nome di Gesú Cristo crocifisso e di Maria dolce. Carissimo fratello in Cristo dolce Gesú. Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesú Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi spregiatore del peccato mortale, perocché in altro modo non potreste avere la divina Grazia nell’anima vostra […] […]. Ordinate la vita vostra, aprite l’occhio dell’intelletto a cognoscere la gravezza della colpa, e la larghezza della bontà di Dio. Facendo cosí, in ogni stato che voi sarete, piacevole a Dio; e sarete arbore fruttifero, e producerete frutti di vita, cioè di vere e sante virtú: e in questa vita comincerete a gustare l’arra di vita eterna. Ma considerando me, che in neuno modo la pace, la quiete, e la grazia possiamo ricevere senza il cognoscimento col lume della santissima fede […], però vi dissi che io desideravo di vedervi spregiatore della colpa del peccato mortale; e cosí vi prego che facciate. Altro non vi dico. Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio. Gesú dolce, Gesú amore». (Le Lettere di Caterina da Siena, n. CCXLIV)

condizioni di salute nel settembre del 1370, si imbarca a Tarquinia, diretto verso Avignone, dove muore pochi mesi dopo. Ritroviamo Francesco l’anno seguente nella cittadina della Francia meridionale come ambasciatore dei Senesi presso Gregorio XI, il medesimo pontefice che, in una lettera del gennaio 1373, parla di Francesco come professore di medicina a Roma per plures annos. Proprio a questo periodo, tra l’insegnamento romano e i soggiorni presso la curia avignonese, risale la seconda lettera di Petrarca a Francesco (1374): una lettera

Santa Caterina da Siena guida il papa Gregorio XI nel suo ritorno da Avignone a Roma. Affresco di Laurent Pécheux (1729-1821). XVIII sec. Roma, chiesa di S. Caterina da Siena.


essenziale – come ritengono i petrarchisti – per la comprensione dell’aspra polemica del poeta contro i medici e la loro arte. Forse infastidito anche dall’incapacità dei vari medici di curare la scabbia che aveva contratto durante un viaggio, Petrarca esorta l’interlocutore a osservare direttamente la «complessione» del paziente, a cercare di curare la malattia mediante l’attenta analisi della natura umana e a evitare di esercitarsi in quei fuorvianti sillogismi che molti medici praticano con pertinacia. Nel 1373 troviamo ancora una volta Francesco in veste di amba-

sciatore, per conto del governo senese, presso la curia avignonese, nel tentativo di risolvere, in virtú del rapporto di fiducia che lo legava al papa, alcune dispute tra Siena, Firenze e altre città limitrofe.

Per il «diletto figlio»

L’anno seguente Gregorio XI decide di programmare il viaggio di ritorno a Roma, ed esprime la volontà di passare da Perugia, città che aveva particolarmente a cuore, al punto da manifestare piú volte l’intenzione di accrescerne il prestigio e di elevare la qualità del suo ateneo, destinando uno stipendio

di duecento fiorini d’oro al «diletto figlio» Francesco da Siena per andare a insegnare la medicina in quello Studio, già reso celebre dalla presenza del grande maestro di diritto Baldo degli Ubaldi. Il progetto andò in fumo, a causa del forte inasprimento dei rapporti tra Siena e Perugia. Nel corso nel 1375 aumentò anche la diffidenza del pontefice nei confronti della politica senese: alcune lettere giunte in curia riferivano dello sconfinamento dei Senesi in tre punti dello Stato della Chie-


Una sorgente termale nei pressi di Viterbo.

sa, e soltanto le rassicurazioni di Francesco riuscirono a placare Gregorio XI. Giunti alla Pasqua del 1376, Gregorio, dopo infiniti rinvii, ancora non si era deciso a lasciare Avignone. Il 18 giugno Caterina da Siena (la futura santa) entra nella cittadina della Provenza con l’intento di convincere il papa a fare il suo ritorno a Roma. Sembra che la presenza di Francesco fosse determinante per introdurre Caterina nell’ambiente curiale. Finalmente, il 13 settembre, Gregorio inizia il suo viaggio alla

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Forlí

volta dell’Urbe. Da una lettera di Giovanni Casini apprendiamo che il fratello Francesco avrebbe atteso il pontefice a Livorno per poi precederlo nel percorso, organizzando l’accoglienza dell’illustre viaggiatore a Orbetello.

Burrasca in Maremma

Mentre tutto era pronto per onorare l’approdo, nella notte tra il 17 e il 18 novembre una violentissima burrasca di fronte alle coste della Maremma senese provocò la dispersione della flottiglia: le galee di alcuni cardinali affon-

darono davanti a Talamone, altre riuscirono a riparare a Scarlino e a Porto Ercole, mentre l’imbarcazione del pontefice si rifugiò presso l’isola d’Elba. Calmate le acque e rientrato finalmente il papa a Roma, Francesco, dal gennaio del 1377, si stabilisce in Curia con la propria famiglia al seguito, madre compresa. In una lettera dichiara di essere «cappellano» del cardinale Niccolò Orsini mentre i figli maschi sono «suoi donzelli». La sottile e laboriosa azione diplomatica di Francesco presso la Curia pontificia dovette svolgersi agosto

MEDIOEVO


le terme di san giuliano

Ben venga maggio... «Del bagno di Monte Pisano [terme di San Giuliano]. A questo punto passo ai vostri [anche in questo caso l’autore si rivolge a Gian Galeazzo Visconti] bagni pisani; i bagni che voi possedete, chiamati di Monte Pisano, situati a Pisa alle pendici del monte che si trova tra Pisa e Lucca, a tre miglia da Pisa e a sette miglia da Lucca; presso i quali l’imperatore Nerone, soggiornandovi spesso con diletto, fece magnifiche costruzioni, cosí come appare da alcune rovine di edifici. Lí sgorgano moltissimi bagni, in uno dei quali, chiamato bagno Vecchio, si trova abbastanza zolfo che non si scioglie nonostante la presenza dell’allume e del ferro. Similmente, un altro chiamato bagno Grande ha la stessa composizione minerale. In terzo luogo, qui si trova un bagno che è chiamato bagno della Regina, che è puramente ferroso, e non so da quale regina abbia preso il nome, né il signor Pietro Gambacorta né altri pisani hanno saputo dirmi la causa di tale nome. Da questo bagno una parte dell’acqua viene estratta con ingegnosità e depositata in un certo piccolo fortilizio lí costruito dal Signor Pietro Gambacorta affinché potesse bagnarsi senza essere visto da alcuno e trovarsi in un luogo fortificato. Ora, prima di affrontare le virtú di questi bagni, faccio sapere che a causa della negligenza dei governanti, questi bagni hanno perso molto della loro virtú poiché vi è mescolata ad essi un’acqua fredda di un piccolo rigagnolo che scorre lí vicino, per cui gli uomini che si trovano nel bagno talvolta sentono sgorgare acqua fredda verso una parte del corpo e non verso l’altra, e tale flusso non è continuo ma va e viene. E piú volte ho detto ai governanti della città di Pisa, cioè il signor Pietro, signor Giacomo e Vanni, che questo difetto si poteva correggere con poca spesa, avendo degli artigiani in grado di separare queste acque, dare all’acqua di pari passo con la professione di medico: alla fine di marzo, egli scrive ai Senesi, informandoli della morte di Gregorio XI avvenuta il giorno 26 (dello stesso mese) del 1378 alla seconda ora di notte, alla sua presenza e di quella di altri medici. Il 9 aprile segue una seconda lettera, nella quale Francesco informa il suo governo dell’elezione, in quello stesso pomeriggio, del nuovo papa: Bartolomeo Prignano da Napoli, arcivescovo di Bari, amico intimo dello stesso dottore, del quale, tra l’altro, aveva battezzato due figlie.

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fredda un suo corso, facendo sul fondo dei bagni un pavimento perforato di marmo da cui l’acqua potesse ascendere. Perciò ora immagino che Nerone si fosse servito di tali bagni quando essi erano molto piú virtuosi di come sono ora. (...) Similmente, faccio sapere che nei pressi dei bagni anzidetti si trova una certa piccola cappella che fece costruire Guido da Montefeltro quando fu capitano, o meglio signore dei pisani; e in questa cappella, sulla superficie esterna della parete, c’è una grande pietra di marmo sulla quale è scolpita un’iscrizione con versi che celebrano le virtú di quei bagni; e mi sembra opportuno che vi facciate inviare quei versi poiché spero che una volta restaurati i bagni vi si troveranno grandi virtú. Questi bagni inoltre sono circondati da mura ottime e di bell’aspetto che lo stesso Guido ha fatto costruire, tanto per la bellezza e il decoro quanto per la protezione dai venti; quel luogo è infatti molto ventoso, vi soffiano con eccessiva forza l’acoro e altri venti australi, e anche Pietro Gambacorta, per difendersi da essi, fece piantare molti alberi presso questi bagni e in tutta la zona intermedia tra i bagni e il mare in modo tale che i venti potessero giungere attenuati e meno nocivi. Inoltre egli purificò molti luoghi dalle acque paludose e stagnanti, per la stessa intenzione e per una maggiore salubrità della città e del territorio pisano, e queste disposizioni posso testimoniare che hanno molto giovato; poi ho scoperto che il bagno Vecchio giova per i dolori delle giunture frigide e per il rilassamento dei nervi e ha parte delle virtú del bagno di Petriolo; il periodo d’uso di questo bagno è maggio». (Francesco da Siena, Tractatus de Balneis, Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. Lat. n. 6979).

Gli anni che seguono videro Francesco impegnato su tre fronti: come intermediario privilegiato tra la Curia romana e la repubblica di Siena, come medico – ma a fasi alterne – degli stessi pontefici e di alcuni importanti personalità, e, infine, come professore di medicina. Nel periodo 1387-1388, in cui dichiara di essere medico del papa e di Gian Galeazzo Visconti, è impegnato nell’insegnamento a Perugia, tre anni dopo è invece nell’ateneo di Siena, e nel 1393 a Pisa. Sul finire del secolo figura come medico personale di Mala-

testa Malatesta, mentre, nel maggio 1400, è di nuovo a Perugia, come lettore presso l’università. Fu negli anni seguenti al servizio dei cardinali Landolfo Maramaldo e Antonio Caetani prima di passare a insegnare nell’università di Roma e nuovamente a Perugia. L’ultimo documento su Francesco Casini porta la data del 4 gennaio 1416 e ci informa che fu inviato come ambasciatore senese presso la corte di Napoli. Da quel momento in poi, il silenzio delle fonti d’archivio lascia pensare che morí poco dopo. F

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di Chiara Mercuri

Miniatura raffigurante l’incoronazione di Enrico III, re d’Inghilterra dal 1207 al 1272. 1280-1300 circa. Londra, British Library.

Quando i re facevano

miracoli

Qual è l’origine della sacralità dei monarchi del Medioevo? E come si spiega la loro magica capacità di guarire dalle malattie? Se accantoniamo l’interpretazione della regalità sacra come lascito di ascendenza germanica (o, addirittura, dovuta a una non meglio definita «ingenuità popolare»), si apre una prospettiva diversa: che vede i «re taumaturghi» come il risultato di una raffinata operazione di propaganda politica, frutto dell’eterna competizione tra l’autorità monarchica e quella religiosa, tra impero e papato, vescovi e re…


Dossier

L L

a monarchia medievale è un’istituzione barbarica. I Romani usavano il termine rex per indicare i capi dei popoli che, dopo avere forzato i confini dell’impero, erano riusciti a farsi assegnare territori da governare secondo le loro leggi. Queste monarchie attraversarono una lunga fase di assestamento, durante la quale cercarono di darsi una struttura sempre piú istituzionalizzata, processo che in molti casi fu consacrato solo attraverso il passaggio obbligato al cristianesimo di dottrina romana. Convertirsi fu il modo piú semplice per governare i nuovi popoli sottomessi, ma anche per farsi accettare dalle classi dirigenti romane che intendevano mantenere i re germanici nelle originarie funzioni burocratiche. Dopo la metà del V secolo, la Chiesa abbandonò di fatto al proprio destino l’impero ormai agonizzante e s’impegnò invece a stabilire contatti con le popolazioni assoggettate ai nuovi re, per orchestrarne la conversione e per rinsaldarne i legami con le genti di lingua romanza (derivante dal latino volgare, n.d.r.). Proprio all’azione dei vescovi locali si dovette, infatti, l’adesione di molti re germanici alla fede professata nell’antica e sconfitta capitale imperiale. Il caso forse piú famoso fu la conversione di Clodoveo, re dei Franchi, battezzato insieme al suo popolo dal vescovo Remigio.

Origine germanica?

L’importanza della Chiesa nella delicata fase di passaggio delle nascenti monarchie barbariche l’autorizzò a esercitare, in un secondo momento, numerose incursioni nella sfera politica. Abbandonata la fase della ricerca di legittimazione, le monarchie cercarono di far dimenticare la loro entrata nella Christianitas sotto la tutela del potere religioso e per contrastare l’ingerenza del clero iniziarono a rivendicare una propria aura sacrale, indipendente dal potere ecclesiastico. La storiografia ha cercato di comprendere se l’immagine della regalità sacra, cosí come venne a

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definirsi nei secoli dell’Alto Medioevo, fosse un lascito di ascendenza germanica o se, invece, si trattasse di una costruzione originale, peculiare dell’età medievale. Durante l’Alto Medioevo l’interesse dei dotti e dei chierici era rivolto in modo preponderante verso l’Antico Testamento, testo che si offrí sia come modello per l’elaborazione della liturgia ecclesiastica, sia come

fonte d’ispirazione per la gestualità del potere civile. Cosí, per i neoconvertiti monarchi germanici, il modello di re per eccellenza divenne il veterotestamentario David. Questi, infatti, incarnava l’esempio del monarca intermediario tra Dio e il suo popolo: lui aveva stabilito il patto tra il popolo ebraico e il Dio d’Israele e lo aveva suggellato con la realizzazione del Tempio. agosto

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La monarchia medievale fu, quindi, una costruzione originale d’ispirazione veterotestamentaria, che poco o nulla aveva a che fare con la figura del divus imperator del mondo romano o del basileus bizantino. Altrettanto fuorviante è immaginare che la sacralità del re medievale derivasse dalle caratteristiche magico-sacrali dei capi germanici, o vedervi similitudini con

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la «regalità sacra» come si presenta nelle società preletterate indagate dall’antropologia culturale. Si tratta, in quest’ultimo caso, di confronti arbitrari, vista la lontananza spaziale e temporale dei due fenomeni, e dell’errata classificazione di molti degli aspetti sopradescritti, che in modo improprio si fanno rientrare nella già citata categoria concettuale di «regalità sacra». Tale defini-

Vignetta miniata raffigurante il re David che suona l’arpa e lo stesso sovrano, giovane, che sta per colpire il gigante Golia con un colpo scagliato dalla sua fionda, da un’edizione della Historia Scholastica di Pietro Comestore. Prima metà del XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève. Il sovrano d’Israele fu il principale modello di riferimento per i monarchi germanici convertitisi al cristianesimo.

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Dossier zione indicherebbe l’attitudine dei «sudditi» a considerare sacra la regalità, attitudine presente – secondo gli antropologi culturali – anche negli uomini medievali, che non esitavano ad attribuire ai propri re facoltà soprannaturali quale, per esempio, quella di saper «magicamente» guarire dalle malattie.

Nella pagina accanto Luigi IX il Santo, re di Francia dal 1226 al 1270, cura un malato affetto da scrofola, un’infezione alla pelle. Miniatura di scuola francese da Les Grandes Chroniques de France. 1335-1340. Londra, British Library. Nel Medioevo ai re di Francia e d’Inghilterra furono attribuiti miracolosi poteri guaritori, legati all’origine divina della regalità.

Alla base del potere

In realtà, come ha mostrato per primo Marc Bloch nel suo ormai classico studio sulla regalità medievale, I re taumaturghi, pubblicato in Francia nel 1923, l’aura sacrale che circonda il capo non ha nulla a che vedere con un preteso bisogno del «suddito» a considerarlo come tale. È invece, il frutto di una sapiente costruzione del potere. Da questo punto di vista, si sono rivelate di gran lunga piú illuminanti le connessioni stabilite tra la sacralità regia medievale e la liturgia del potere nella Germania nazista o – in tono minore – con alcune forme di «liturgia di Stato» praticate anche nei Paesi democratici. In questa seconda tipologia si sono fatte rientrare, per esempio, le esequie solen-

In alto sigillo di Filippo II Augusto, re di Francia dal 1180 al 1223. Parigi, Archives nationales de France.

ni organizzate in Francia alla morte di François Mitterrand. A partire da Marc Bloch, dunque, si è dimostrato come alcune «credenze» un tempo attribuite «all’ingenuità popolare» siano piuttosto il frutto di un indottrinamento da parte del potere, con aspetti che potremmo definire di pura «propaganda politica». Se si accetta tale rovesciamento di lettura, è necessario, però, riconoscere come la categoria concettuale di «regalità sacra» non sia piú adatta a designare taluni fenomeni, per i quali è molto piú opportuna la definizione di «teologia politica»: ovvero, la pretesa del potere di presentarsi come «divinamente fondato». Permane tuttavia, anche in chi scrive, l’imbarazzo nell’uso di tale categoria, di cui fu assertore e massimo studioso Carl Schmitt (intellettuale di riferimento del partito nazista e imputato al processo di Norimberga). Nel 1922 Schmitt pubblicò un saggio intitolato, appunto, La teologia politica, nel quale rivendicava l’esistenza di un fondamento giuridico nella presunta sacralità del «Capo», che egli

Re taumaturghi

Il «tocco» del sovrano L’approccio all’affascinante tematica della sacralità regia non può prescindere dal libro che ha dato avvio a tale filone di studi, I re taumaturghi di Marc Bloch, pubblicato in Francia nel 1923 (ed edito in Italia da Einaudi). Lo studio del grande storico francese ripercorreva la storia della nascita e dell’affermarsi della credenza nel potere guaritore dei re in Francia e Inghilterra. Si trattava del presunto potere dei sovrani di guarire le scrofole, oggi note con il nome di adenite tubercolare. Bloch fu il primo a negare che tale credenza fosse il frutto della credulità popolare e a mostrare come invece si trattasse di una sapiente costruzione del potere. Un potere interessato a far dimenticare, nel caso della Francia,

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l’avvento al trono dei Capetingi in rottura con la linea di continuità dinastica carolingia. Anche la frequenza con cui veniva dispensato il rito era da mettersi in relazione con la maggiore o minore stabilità del potere monarchico, mentre la pratica di distribuire un’offerta ai malati a rito compiuto testimonia la volontà di fidelizzare il popolo al «pellegrinaggio» al Palazzo. In Inghilterra il rito fu introdotto una settantina di anni dopo la comparsa sul suolo francese e mantenne le stesse caratteristiche. Anche qui ai malati veniva consegnata un’offerta e il re non veniva aiutato da alcun rappresentante del clero nell’esercizio della sua funzione taumaturgica. Sulla base della documentazione

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superstite, Bloch stimò che i re inglesi «toccassero» circa mille malati l’anno. Nel Quattrocento quando i due rami della dinastia dei Plantageneti, Lancaster e York, si affrontarono nella guerra delle due Rose, entrambi rivendicarono a sé il potere guaritore. Per ottenere un ulteriore accrescimento della propria aura sacrale gli Inglesi introdussero, a partire da Edoardo II (1307-1327), desideroso di riequilibrare la sua enorme impopolarità, un secondo miracolo regio. Nel corso di una complessa cerimonia dedicata all’adorazione della croce, il re poneva

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sull’altare monete d’oro e d’argento dalle quali, in un secondo momento, si ricavavano anelli (cramp-rings) usati come talismani per alleviare il dolore degli ammalati. Nella stessa categoria rituale rientrava, secondo Bloch, anche la cerimonia della Santa Ampolla, recata miracolosamente da una colomba il giorno del battesimo di Clodoveo. Con il crisma di Clodoveo si sarebbero in seguito unti tutti i re di Francia. Ancora una volta gli Inglesi ripresero il rito francese attribuendo la comparsa del proprio olio santo a un dono della Vergine.

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Dossier poneva a necessario fondamento del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo. Il legame tra le idee presenti nel testo di Schmitt e la successiva ascesa al potere di Hitler hanno marchiato di un’aura infamante la stessa definizione di «teologia politica». Ne è prova anche la prudenza con cui è usata per spiegare alcuni aspetti del potere e della propaganda nel mondo occidentale (mentre si è molto meno timidi a usarla per definire alcune costruzioni politiche fondamentaliste di area islamica).

Il «miracolo regio»

Prima dell’avvento delle democrazie, le quali hanno a fondamento del proprio mandato il voto popolare, il potere ha spesso faticato a trovare un principio universale a cui legare la propria funzione. Se, infatti, il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo trovavano in età monarchica il proprio fondamento nella figura del re, non appariva sempre evidente che cosa gli conferisse tale legittimità. Il problema si pose con forza quando dalla consuetudine elettiva, in uso presso le tribú germaniche, si passò de facto all’ereditarietà della carica monarchica. Fu allora necessario trovare, di volta in volta, un canone di legittimazione, tale da mettere il monarca al riparo dalla mancanza di riconoscimento della sua funzione. Tutto ciò portò all’adozione di misure cautelative, la prima delle quali fu di rendere rapidissima l’operazione di intronizzazione del figlio del re, fino al punto di compierla quando il padre era ancora vivente. Di qui anche la necessità di sacralizzare le insegne del potere, come scettri, corone e anelli; di presentare l’elezione dei nuovi re sempre all’interno della continuità dinastica; di nobilitare le case regnanti attraverso la canonizzazione di re e regine. Ne conseguí, anche, la creazione di una liturgia dell’incoronazione che nel Medioevo si accrebbe della pratica dell’unzione, e perfino della comparsa del cosiddetto «miracolo regio», la presunta capacità dei re di toccare e guarire le scrofole (vedi box alle pp. 78-79).

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Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante il re di Francia Carlo V il Saggio (13641380) e Carlo IV del Lussemburgo (1355-1378), imperatore del Sacro Romano Impero in processione, da Les Grandes Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

san marcolfo

Il santo «concorrente» del re di Francia La virtú di Marcolfo di guarire gli scrofolosi è segnalata per la prima volta in una raccolta di miracoli del XII secolo, in cui si legge che il santo era in grado di sconfiggere «il male reale». Ciò vuol dire che la sua specializzazione nacque in un momento successivo a quella dei re di Francia. Ma chi poteva avere interesse a «inventare» per Marcolfo, che non era mai stato invocato per impetrare la guarigione delle scrofole, una qualifica che lo poneva in concorrenza con il potere taumaturgico dei re di Francia? La risposta sembra trovarsi nelle vicende giudiziarie di cui fu protagonista il piccolo santuario di S. Marcolfo a Corbeny. Le reliquie di San Marcolfo riposavano ab antiquo (fin dal VI secolo) nell’abbazia di SaintLo, fino a quando, nell’890, i monaci in fuga dagli attacchi vichinghi le affidarono al re. Carlo il Semplice le fece deporre a Corbeny, in un piccolo monastero di sua fondazione tra Laon et Reims, che venne in seguito donato all’abbazia di Saint-Remi di Reims. I monaci di Saint-Remi divennero quindi i tutori delle reliquie di San Marcolfo, e in due occasioni decisero di onorarne la memoria, scrivendo una biografia del santo. La prima risale al X secolo, periodo in cui il monastero entrò a far parte della giurisdizione dell’abbazia di Saint-Remi; la seconda, invece, all’inizio del XII. Nella prima, il santo appare sprovvisto della facoltà di guarire le scrofole (coerentemente con la precedente tradizione agiografica), mentre nella seconda biografia, quella del XII secolo, egli appare ormai in grado di curare il «male reale». Da che cosa poteva essere motivato tale cambiamento della sua memoria agiografica? Nel XII secolo il tocco delle scrofole da parte dei re di Francia si era ormai già pienamente affermato e il clero

La ricerca di sacralizzazione da parte delle monarchie non va però confusa con il tentativo opposto, da parte del potere religioso, di sottomettere quello politico, rivendicando pratiche di cui il clero era il solo dispensatore. Il Medioevo, infatti, fu l’età dell’eterna lotta tra l’autorità monarchica e quella religiosa, fu il terreno di scontro privilegiato tra papato e impero e tra vescovi e re. Il Sacro Romano Impero aveva confini sovranazionali, che resero, in particolare in Italia, molto difficile la coabitazione con l’altro potere assoluto presente nella Penisola, quello pontificio. La lotta tra le due superpotenze medievali ven-

ne spesso combattuta su un piano simbolico, attraverso la costruzione di rituali tesi a introiettare l’idea di supremazia dell’uno o dell’altro.

Scontri sotterranei

Per ciò che riguarda invece le nascenti monarchie europee, quali l’Inghilterra e la Francia, lo scontro avvenne tra i re, impegnati in un’imponente opera di accentramento del potere, e i vescovi, decisi a mantenere la propria autonomia restando sottomessi solo al pontefice. Anche in questo caso la lotta si svolse spesso in maniera sotterranea, attraverso la costruzione e la propagazione di messaggi subliagosto

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cominciò a pensare che fosse pericoloso lasciare tale pratica alla sola gestione del re. È plausibile, quindi, che cercò di affiancargli una figura controllata dalla Chiesa, un santo capace di esercitare il suo stesso potere. San Marcolfo, infatti, diventa guaritore delle scrofole solo quando Corbeny è divenuta una cellula dell’abbazia di Saint-Remi. Da allora si afferma anche la pratica per il re di recarsi in pellegrinaggio nel santuario di Corbeny dopo aver ricevuto l’unzione nella vicina cattedrale di Reims. In altre parole si tenta di suggerire che solo il passaggio a Corbeny permetterà al re consacrato di ottenere la grazia del «tocco». Attraverso la figura di San Marcolfo la

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Chiesa cercò di ridimensionare la presunta facoltà dei sovrani di operare guarigioni miracolose. L’invenzione della nuova specializzazione di San Marcolfo, un santo fino ad allora semisconosciuto che si prestava ad acquisire una nuova fisionomia sotto la penna faziosa di un monaco remense, fu operata per correggere il segno di un rito che il sovrano pretendeva di compiere senza l’intermediazione del clero.

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Calice di San Remigio, in oro, pietre preziose e smalti. Fine del XII sec. Reims, cattedrale di Notre-Dame. Remigio (440 circa-533), vescovo di Reims, convertí il merovingio Clodoveo I, re dei Franchi, al cattolicesimo, battezzandolo il 25 dicembre del 496, nella cattedrale di Notre-Dame. La conversione dei re germanici e del loro popolo alla fede cristiana fu soprattutto opera dei vescovi locali. Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante il battesimo di Clodoveo I che riceve dallo Spirito Santo, in forma di colomba, l’olio santo per l’unzione, da Les Grandes Chroniques de France. 1375-1379.

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minali, tesi a ribadire le rispettive preminenze. Frequente fu il caso della vera e propria invenzione di santi, di reliquie prestigiose, di miracoli che dovevano di volta in volta accrescere il prestigio e l’autorevolezza dell’uno o dell’altro potere. Quando i vescovi, come vedremo, affermarono, attraverso la pratica dell’unzione dei re, che solo il potere religioso aveva la facoltà di riconoscere quello politico e non viceversa, i sovrani risposero avocando a sé un potere guaritore di origine divina. Il re medievale, continuamente esposto agli attacchi del potere religioso spesso coalizzato con principi e vassalli, dovette cosí giocoforza presentarsi come «sacro». Egli aveva bisogno di trovare, almeno agli occhi dei sudditi, una legittimazione soprannaturale alla sua minacciata funzione. Ancora oggi vi è chi ritiene che la pratica di ungere i re a seguito dell’incoronazione avesse come scopo quello di accrescere la loro aura sacrale, cosí che, al termine della funzione, si presentassero rafforzati da una natura simbolica. Tale rito riproponeva, invece, tutta l’ambiguità di un rapporto mai chiarito tra i due poteri, un rapporto che la Chiesa tendeva a spostare sul terreno della liturgia, nell’elaborazione della quale era stata, fin dalle origini, maestra.

Pubblica promessa

Per quanto si voglia leggere la cerimonia dell’unzione nell’ottica del do ut des, propria dei rapporti tra Chiesa e potere politico in età medievale, il gesto dell’incoronazione di un re o di un imperatore dalle mani dell’autorità ecclesiastica restava un atto di deferenza del

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potere politico di fronte a quello religioso. In Francia la cerimonia s’incentrava sulla promessa che il re doveva pronunciare davanti al vescovo, al clero e ai pares di Francia, di conservare e difendere i privilegi della Chiesa e osservare le sue leggi. In cambio egli otteneva una corona che, quando gli spettava di diritto, di fatto inutilmente riceveva dal vescovo, mentre quando non gli spettava legittimamente, come nel caso di Ugo Capeto, riceveva come segno della sua subalternità.

L’unzione dei re fece la sua prima apparizione nella Spagna visigota e fu poi stabilmente adottata in Francia e Inghilterra. Tale rito ricordava il sacramento del battesimo e del viatico e per tale motivo la Chiesa dovette intervenire piú volte, nei secoli del Medioevo centrale, per precisare che essa non implicava il conseguimento di alcun tipo di grazia o funzione particolare, e come tale non rientrava nel novero dei sacramenti, come invece sembravano suggerire gli Ordines (la

raccolta delle regole liturgiche e le descrizioni delle cerimonie sacre della Chiesa cattolica, n.d.r.) per la consacrazione, composti sul modello dei libri liturgici usati per l’unzione dei vescovi.

Modelli biblici

Il linguaggio degli Ordines si basava sul richiamo puntuale all’unzione dei re veterotestamentari, David e Salomone. Tuttavia, la ripresa di tali modelli dal Libro dei Re, implicava l’idea della subalternità del potere monarchico rispetto a quello religioso. Nella Bibbia, infatti, l’unzione ha un carattere prettamente antimonarchico, in quanto suggerisce una forma di monarchia controllata dai sacerdoti. L’obbedienza del monarca alla Torah e l’unzione dei re vengono infatti presentate come mete ineludibili cui il monarca deve giungere sotto la guida dei sacerdoti, i soli che possono garantire che egli agisca nel rispetto della legge divina. In altre parole, la cerimonia dell’unzione era costruita come un «Fürstenspiegel», uno specchio dei principi che i sacerdoti intendevano proporre al re. Nell’Occidente medievale, la ripresa di tale rito avvenne nello stesso segno. Fu infatti il vescovo Incmaro, nel secolo IX, a confezionare la cerimonia dell’unzione, in un momento in cui la sua diocesi, Reims, era impegnata a rafforzare l’autonomia dei vescovi. Con tale cerimonia Incmaro affermava la necessità per il monarca di essere riconosciuto a Reims. Per meglio esplicitare l’obbligatorietà di tale passaggio, egli non esitò a rispolverare la coppia RemigioClodoveo. Se, infatti, il vescovo Remigio, battezzando Clodoveo, gli aveva permesso di uscire da

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Dossier A sinistra l’Angelo sorridente, scolpito sul portale sinistro della facciata occidentale della cattedrale di Notre-Dame a Reims. 12361245 circa. Tranne poche eccezioni, a Reims furono incoronati tutti i re di Francia fino a Carlo X, nel 1825.

una dimensione tribale e provinciale iscrivendo il suo potere nella legittimità imperiale romana, cosí Incmaro permetteva al potere regio di ottenere una legittimazione divina, stabilendo però un modello del rapporto potere vescovile/potere monarchico che si voleva affermare anche per il presente. Nei propri scritti, Incmaro rivendica apertamente la superiorità del carisma vescovile rispetto a quello monarchico: «la dignità del potere dei vescovi è superiore a quella dei re poiché i re vengono consacrati re dai vescovi mentre non accade il contrario». Tale affermazione fu poi rafforzata in una lettera indirizzata nell’868 all’imperatore Carlo il Calvo: «È grazie all’unzione, atto episcopale e spirituale, grazie a questa benedizione piuttosto che alla vostra potenza terrena, che voi avete conseguito la dignità regia».

Un rito teocratico

Anche nei secoli del Basso Medioevo, nonostante il potere monarchico si fosse notevolmente rafforzato, il carattere teocratico del rito rimase invariato. L’incoronazione e, piú tardi, l’unzione dei re ha sempre rappresentato un atto di non belligeranza nei confronti della Chiesa, sancendo un patto di collaborazione tra poteri A destra reliquiario della Santa Ampolla, in argento dorato, dai regalia di Carlo X di Francia (1825-1830). Secondo la tradizione, si trattava di una fiala – rotta durante la Rivoluzione francese, e di cui oggi si conserva solo un frammento – contenente l’olio crismale utilizzato durante le cerimonie di incoronazione per l’unzione dei re di Francia, sin dal battesimo del re Clodoveo I. Reims, Tesoro della cattedrale di Notre-Dame. Attraverso la cerimonia dell’unzione i vescovi affermarono la superiorità del potere ecclesiastico su quello monarchico.

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concorrenti. Lo stesso Carlo Magno ricevette a Roma la corona da parte di Leone III con grande riluttanza, e le fonti coeve sottolineano come egli tenesse a ribadire di essere «Rex a Deo coronatus». Sotto il regno di Filippo IV il Bello, all’apice del processo di autonomizzazione del potere monarchico francese da quello religioso, non sfuggí al pubblicista Jean de Paris che l’unzione di Reims suggeriva un’immagine d’inferiorità del carisma monarchico rispetto a quello vescovile. Egli, infatti, ammoní che sarebbe stato sbagliato pensare che «l’unzione» fosse indispensabile all’esercizio della dignità regia. Non si mette qui in dubbio che la cerimonia dell’unzione avesse anche una ricaduta positiva sul prestigio del monarca, per il quale rappresentava un investimento in termini di propaganda; un investimento di cui valutava appieno la portata, com’è

Reims

Nella cattedrale dei re di Francia Massimo monumento cittadino è la cattedrale di NotreDame, uno dei migliori esempi di gotico in Europa (in foto, la navata centrale). Iniziata nel 1211, fu terminata nei primi anni del XIV secolo: la relativa rapidità dei lavori spiega l’estrema unitarietà dello stile. Fu restaurata dopo i pesanti danneggiamenti subiti nella prima guerra mondiale. I tre portali della facciata principale (occidentale) sono ornati da splendidi rilievi gotici, tra i quali sono famosi i gruppi dell’Annunciazione e della Visitazione nel portale centrale, modelli stilistici per molti scultori gotici tedeschi e italiani, e l’Angelo sorridente nel portale sinistro. Nel vasto e luminoso interno notevoli sono i capitelli scolpiti, le sculture della controfacciata e le vetrate del coro (XIII secolo). La notte di Natale del 496 il vescovo Remigio vi battezzò Clodoveo e per ricordare quell’avvenimento tutti i re di Francia (a partire da Luigi VII fino a Carlo X, ultimo re di Francia) si fecero incoronare a Reims (del lungo elenco fanno eccezione solo Enrico IV e Luigi XVIII).

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Reims e le altre Come Reims per la Francia, altre città europee e le loro cattedrali furono scelte per l’incoronazione dalle diverse monarchie: ● Arles in Borgogna, ● Westminster in Inghilterra, ● Monza e poi Pavia in Italia, ● Toledo in Spagna, ● Uppsala e poi Stoccolma in Svezia, ● Mosca nel granducato di Moscovia, ● Aquisgrana e poi Ratisbona e Francoforte in Germania. A Roma, per mano del papa, era riservata l’incoronazione imperiale; ma dal XVI secolo in poi tutta la cerimonia ebbe luogo in Germania, con i principi elettori laici che offrivano i simboli del potere mentre quelli ecclesiastici imponevano la corona.

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dimostrato dalle ingenti spese sostenute per allestirne la scenografia. Al tempo stesso, però, i contenuti di quella cerimonia non potevano non frustrare una vocazione monarchica «assolutista», almeno fino a quando a ungere il re non sarebbe stato un vescovo della Chiesa gallicana.

La cattedrale e il palazzo

La cattedrale di Reims dunque non rappresentò, almeno nel Medioevo, il luogo dell’affermazione simbolica della funzione monarchica. La ricerca di uno spazio sacro autonomo rispetto al clero fu infatti creato lontano e in concorrenza con la cat-

tedrale di Reims, nel Palazzo regio. Fu infatti nel proprio palazzo che, a partire dall’XI secolo, il sovrano iniziò a esercitare una funzione taumaturgica. Solo nell’esercizio del «Tocco», della guarigione miracolosa degli ammalati, il sovrano poteva usurpare al clero il gesto che gli era proprio, la benedizione col signum crucis. Inoltre, se durante l’unzione il re era ospite del potere ecclesiastico, durante «il tocco» egli era unico officiante del rito all’interno del suo palazzo privato. Un’altra forma di sacralizzazione della funzione regia fu rappresentata dalla promozione di numeagosto

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L’arcivescovo di Reims incorona Carlo V re di Francia nel 1364. Miniatura da The Coronation Book of Charles V, king of France (1364– 1380). 1365 circa. Londra, British Library.

rosi suoi esponenti alla santità. Il Medioevo produsse un elevatissimo numero di santi re e sante regine. Un tempo si era soliti scorgere anche in tale fenomeno il lascito dell’eredità germanica, contrassegnata dalla concezione carismatica del capo. La santità regale in età medievale fu, invece, di matrice cristiana e rimase sempre in linea con i modelli di santità proposti di volta in volta dall’istituzione ecclesiastica. Il maggior numero di re considerati santi prima del IX secolo, per esempio, è rappresentato da monarchi periti sui campi di battaglia e per tale ragione associati ai martiri. Lo studioso ceco Frantisek Graus, che per primo studiò i culti dinastici in età medievale, ha dimostrato che essi non erano legati a sopravvivenze di elementi di matrice germanica: i monarchi che arrivavano a guadagnare l’aureola, infatti, non la ottennero in quanto detentori del potere, ma, al contrario, perché a quel potere avevano, contro ogni aspettativa, rinunciato. Vi era poi la tipologia dei re che In basso corona-reliquiario donata da Luigi IX il Santo ai frati domenicani di Liegi. Fine del XIII sec. Parigi, Museo del Louvre.

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il doppio corpo del re

Umano e deperibile, simbolico e immortale Il doppio corpo del re, edito a Princeton nel 1953, rappresenta il testo di culto dell’antropologia religiosa. Il suo autore, Ernest Kantorowicz, ne riprendeva il titolo da una misteriosa formula impiegata dai giuristi inglesi del periodo elisabettiano circa il «doppio corpo del re». Come mostrò lo storico tedesco, seppur derivante dal concetto di persona mixta di ascendenza giuridica, essa sintetizzava un lungo processo di riflessione sull’essenza della regalità, intesa come unione di una doppia natura del monarca: l’una umana e deperibile, l’altra simbolica e immortale. La prima acquisita alla nascita, la seconda assunta durante la cerimonia dell’unzione. Per Kantorowicz l’unzione costituiva una delle molte «finzioni» che permisero al potere di suggerire l’esistenza di una sua natura

simbolica. Era infatti tale cerimonia a introiettare l’idea dell’immortalità della funzione regia la quale non sarebbe stata scalfita dalla fine biologica del sovrano. L’occultamento della salma del monarca nel corso dei riti funebri doveva concorrere a ribadire l’eternità della sua funzione. La stessa fattura dei gisants, i monumenti funebri dei re di Francia ancora visibili nella necropoli regia di Saint-Denis, suggerisce che furono realizzati per contribuire a tale finzione. Essi sarebbero stati concepiti su due piani proprio per rappresentare la doppia natura del re: in alto, infatti, egli era rappresentato ancora vivente e in basso adagiato senza vita. La tesi di Kantorowicz, che non manca di affascinare ancora generazioni di storici, è stata fortemente messa in discussione dallo

Il funerale di Filippo IV il Bello, re di Francia, nel 1314, nella basilica di SaintDenis. Miniatura di scuola francese da Les Grandes Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, British Library


storico francese Alain Boureau il quale, nel suo libro dal titolo programmatico Le simple corps du roi, ne rivela tutta l’inconsistenza attraverso l’esempio, da lui ritenuto emblematico, della Rivoluzione francese. L’immagine del dissotterramento dei corpi dei re nella necropoli di Saint-Denis, corpi che sono nelle mani dei rivoluzionari semplici cadaveri putrescenti, mostrerebbe, a suo avviso, la totale assenza di una qualsivoglia credenza nella sacralità dei re. L’accanimento rivoluzionario sul corpo del sovrano, stigmatizzata con la decapitazione di Luigi XVI, e da molti considerata come una lotta ingaggiata contro la sua «essenza sacra», mostrerebbe invece, secondo Boureau, che essi non credessero affatto nella sacralità del monarca. I sanculotti che scavavano alacremente a Saint-Denis per distruggere il sacrario della monarchia non erano mossi a suo avviso dall’intento di desacralizzare il corpo del sovrano, ma di denunciarne la sua evidente umanità.

L’esecuzione per decapitazione di re Luigi XVI il 21 gennaio del 1793, durante la Rivoluzione francese, in un’incisione a colori. Parigi, Musée Carnavalet.

avevano, attraverso la propria conversione, determinato il passaggio al cristianesimo di tutto il proprio popolo. A tale categoria apparteneva il primo esempio di santo re medievale, il burgundo Sigismondo (morto nel 523), il quale fu il primo re germanico a convertirsi all’ortodossia cattolica in Gallia. Seguirono i re morti a causa di congiure di palazzo, quali il franco Dagoberto II e l’anglosassone Edoardo II. Tali modelli di santità dinastica tramontarono, com’era naturale che avvenisse, con la fine degli spostamenti delle popolazioni germaniche.

«Buono e giusto»

Durante la fase successiva il modello maggiormente apprezzato e promosso dalla Chiesa fu pertanto quello del «rex bonus et justus», ovvero quello del sovrano munifico e collaborativo con l’istituzione eccle-

È la Rivoluzione francese a demolire la concezione della sacralità del corpo del re MEDIOEVO

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Dossier siastica. Tale categoria è, infatti, la piú nutrita e si perpetuò senza soluzione di continuità da Gontrano (morto nel 593) a Luigi IX (morto nel 1270). L’interesse della Chiesa a proporre modelli di santità vantaggiosi per il proprio operato s’incontrò spesso col desiderio delle case regnanti di accrescere il proprio prestigio dinastico. Come è stato notato in molti studi, a partire dal XII secolo i sovrani cercarono un po’ in tutta Europa di ottenere nuove canonizzazioni per accrescere ulteriormente il carattere sacro della propria stirpe. A tal fine, nel 1161, in Inghilterra fu richiesta e ottenuta la canonizzazione di re Edoardo il Confessore. Il suo corpo fu trasferito nell’abbazia La profanazione delle tombe reali nella chiesa abbaziale di Saint-Denis, durante la Rivoluzione francese, in un dipinto di Robert Hubert (1733-1808). 1793. Parigi, Musée Carnavalet.

di Westminster, luogo emblematico di incoronazione e sepoltura dei re anglosassoni. Appena qualche anno dopo Federico Barbarossa impose la canonizzazione di Carlo Magno, al fine di rendere la cappella regia di Aquisgrana, dove riposavano le spoglie del primo imperatore, il luogo simbolo del potere sacrale dell’impero. Gli uomini di Chiesa piú avveduti cercarono sempre di negare il binomio «regalitàsantità» e, per tale ragione, in età bassomedievale iniziarono a usare nelle Vitae (le biografie) dei santi, l’espressione «nobilis origine sed nobilior virtute» (cioè «nobile per nascita ma ancor piú nobile per virtú»).

Con ciò si cercò di superare l’idea della «santità» di stirpe, insistendo sulla santità dei costumi che doveva passare al vaglio della Chiesa. La canonizzazione di un membro della dinastia reale restò, tuttavia, un abile stratagemma, attraverso il quale si continuò a nobilitare le famiglie regnanti di mezza Europa nell’ottica della «ligne de sainteté» (linea di santità), una linea di trasmissione del carisma che prescindeva dal merito dei singoli, Nella pagina accanto le statue di Ferdinando I d’Aragona (1380-1416) e della moglie Eleonora d’Alburquerque, nel sepolcro del monastero di S. Maria di Poblet in Catalogna, scolpito nel 1417, dove è tumulata la salma del sovrano.


privilegiando l’idea di un accumulo di sacralità che si trasmetteva ai discendenti. La santità dinastica, tuttavia, non derivò sempre dal tentativo di sacralizzare il potere politico. Molti culti regi, a un piú attento esame, si rivelano «costruiti» dalla Chiesa di Roma con l’intento di promuovere modelli di regalità deferenti rispetto al potere religioso. Sappiamo, per esempio, che la monarchia francese non era interessata alla santificazione di Ludovico il Pio, e che la stessa santificazione di Luigi IX di Francia fu il mezzo attraverso il quale il fratello Carlo d’Angiò intese suggellare la propria alleanza con il papato.

I funzionari del sacro

Un discorso diverso va fatto per l’acquisizione e la promozione di reliquie prestigiose da parte delle case regnanti. In questo caso, l’accumulo di pignora sacra fu un’operazione del tutto autonoma del potere politico, che rivela appieno la propria ambizione a strappare al clero il monopolio della funzione «sacerdotale». L’istituzione di culti stabiliti dall’autorità regia all’interno delle cappelle palatine permise ai monarchi di presentarsi come veri e propri funzionari del sacro. In età medievale ogni cappella palati-

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na si dotò, infatti, di un suo culto principale, legato a reliquie prestigiose, acquisite sborsando somme ingenti di danaro. In tali ricorrenze il re o l’imperatore portavano personalmente le reliquie in processione e organizzavano solenni funzioni con enorme concorso di popolo: processioni e cerimonie che si trasformavano in vere e proprie parate politiche. Molte case regnanti fecero delle reliquie la vetrina del proprio prestigio come mostrano i casi celebri della «Vera Croce» di Aquisgrana e della «Corona di spine» della Sainte-Chapelle di Parigi. In altri casi a essere sacralizzate dalla presenza di reliquie furono le stesse insegne del potere, com’è dimostrato dalla frequente pratica di inserire frammenti di reliquie all’interno di spade, elmi, scettri e corone. Tale pratica, del resto, è attestata fin dal IV secolo, come mostra la leggenda dell’invenzione della croce da parte di Elena, madre di Costantino. Secondo tale tradizione Elena avrebbe fatto fondere nell’elmo del figlio un chiodo della Vera Croce. Da allora la tradizione imperiale intese sempre fregiarsi del possesso di reliquie attribuite al ritrovamento della prima imperatrice cristiana. Nel XIV secolo, tale tradizione era ancora talmente

viva che l’imperatore boemo Carlo IV fece istituire la festa della «Santa Lancia» nella quale, come egli stesso fece scrivere, era stato fuso uno dei chiodi ritrovati da Elena. Attraverso la promozione di tale culto egli si proclamava, di fatto, erede della funzione imperiale, iscrivendosi alla linea di successione di Costantino per il tramite delle reliquie di Elena. V

Da leggere U Marc Bloch, I re taumaturghi,

Einaudi, Torino 1989 U Ernst Kantorowicz, I due corpi del

re, Einaudi, Torino 1989 U Alain Boureau, Le simple corps

du roi. L’impossible sacralité des souverains français XVe-XVIIIe siècle, Paris 1988 U Sergio Bertelli e Cristiano Grottanelli (a cura di), Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceauçescu, Gruppo editoriale Fiorentina, Firenze 1990 U Franco Cardini (a cura di), Per me reges regnant, Il Cerchio, Rimini 2002 U Teologie politiche. Modelli a confronto, Atti del convegno di Studi, a cura di Giovanni Filoramo, Editrice Morcelliana, Brescia 2005

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l’arte della guerra torri angioine Miniatura raffigurante la sconfitta subita dalla flotta siciliana a Capo d’Orlando, nel 1299, per mano delle forze guidate da Giacomo d’Aragona e Ruggero di Lauria. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

A tocchi a tocchi la campana sona di Flavio Russo

Nella guerra dei Vespri, che per un ventennio insanguinò il Mezzogiorno d’Italia, molti furono gli scontri navali e decisiva fu la possibilità di controllare i movimenti delle flotte. Un compito che gli Angioini affidarono innanzitutto alle loro torri costiere, che, anche dopo la fine del conflitto, continuarono a essere gli elementi fondamentali di un collaudato sistema di sorveglianza e di difesa

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A sinistra l’isolotto di Nisida, nel golfo di Baia, prospiciente la cittadina di Pozzuoli. Nelle sue acque, nel 1284, Carlo II d’Angiò fu sconfitto dalla flotta guidata da Ruggero di Lauria.

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l 31 marzo 1282, Lunedí di Pasqua, sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo di Palermo, un soldato angioino, tal Drouet, oltraggia una nobildonna, finendo subito ucciso con la sua stessa spada: è l’inizio della guerra dei Vespri. La rivolta, che da tempo cova nell’isola, esplode con il diffondersi della notizia e in pochi giorni dopo una furiosa caccia all’uomo, il presidio lasciatovi dal re Carlo d’Angiò è sterminato. Per vendicare le vittime e riaffermare il suo potere in Sicilia, il sovrano, con un cospicuo corpo di spedizione, sbarca a maggio presso Reggio, da dove avvia l’assedio di Messina. Il 2 giugno il primo assalto anfibio si in-

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frange contro le salde mura della città, e la disfatta si rinnova il 25 luglio, convincendo Carlo, nel settembre successivo, al definitivo abbandono dell’impresa. Per la dinastia angioina quello fu l’irreversibile addio alla Sicilia, imposto anche dal sopraggiungere a Trapani, il 30 agosto, con la possente squadra navale di Ruggero di Lauria, di Pietro III d’Aragona, marito di Costanza, che, in quanto figlia di Manfredi, rivendicava per il consorte un qualche diritto al regno. Carlo d’Angiò non poteva certo accettare l’umiliante mutilazione, per cui avviò i preparativi per un attacco in grande stile, mentre l’Aragonese, sfruttando la

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l’arte della guerra torri angioine vittoria riportata dalle navi di Lauria, il 5-6 giugno del 1283 nelle acque di Malta, lo autorizzò a moltiplicare le incursioni contro le coste napoletane. La sua guerra di corsa infuriò sempre piú temeraria, tanto che nell’aprile dell’anno seguente, con una trentina di galere, dopo avere saccheggiato le coste della Calabria e del Principato, comparve nel golfo di Napoli. Il principe ereditario, Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, disobbedendo agli ordini paterni, uscí per rintuzzare la provocazione, accettando battaglia presso l’isolotto di Nisida, ma finí sconfitto e catturato – fu poi liberato, ma solo nel 1288 – insieme a molti nobili della sua corte, ponendo termine cosí a ogni velleità di riconquista. Le ultime illusioni tramontarono quattro anni piú tardi, quando Ruggero di Lauria, con una squadra numericamente inferiore, distrusse la flotta angioina, premessa per la conclusione della guerra, che giunse soltanto nel 1302. In questo ventennio, vi furono ripetute scorrerie e incursioni contro gli abitati rivieraschi, che si aggiunsero alle razzie che compivano da secoli barbareschi, Genovesi e Pisani. Dal punto di vista strategico, questi attacchi differivano fra loro, ma erano tatticamente simili, per cui si cercò di contenerli con un unico sistema di difesa. All’epoca anche il solo ipotizzare un dispositivo attivo di interdizione costiera era una mera utopia, poiché non esistevano armi in grado di colpire le navi in atterraggio e le balestre potevano, al massimo, decimare eventuali razziatori nel raggio di un centinaio di metri. Il solo aiuto per le popolazioni inermi era un dispositivo di allarme che, segnalando la presenza di navi sospette, ne sollecitava la fuga. Una prassi modesta, eppure rimasta in uso per secoli, di cui si coglie un’eco nelle note strofe, cantate in tutti i dialetti italiani: «a tocchi a tocchi la campana sona, li mori so’ sbarcati alla marina».

Ubicazione strategica

Carlo d’Angiò, del resto, sin dal suo insediamento, aveva dovuto prendere provvedimenti per frustrare le incursioni da mare, che si abbattevano con micidiale frequenza lungo le sterminate coste del suo regno. Constatata l’efficacia delle torri di avvistamento e di avviso, decise di incrementarne il numero, collegandole fra loro in prossimità degli abitati e ubicandole nei punti di piú probabile sbarco, cioè arenili, foci fluviali e piccoli promontori. Elementari erano le loro caratteristiche architettoniche: pianta circolare, corpo cilindrico su base scarpata, ingresso sopraelevato, cisterna alla base e coronamento merlato con caditoie. Sulla loro copertura si effettuava la vigilanza continua, tra aprile e novembre, utilizzandone i vani interni, uno o due impalcati lignei, per il soggiorno del personale. L’altezza non eccedeva la quindicina di metri: piú che all’avvistamento, però, serviva a proteggere gli uomini di vedetta da eventuali assalti. La segnalazione degli avvistamenti effettuati dalle torri va distinta in due tipologie: di preallarme, destinata alle torri contigue, e di allarme, destinata alla popolazione. Spesso, infatti, l’avvistamento prima di essere

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sentinelle a strapiombo sul mare

Spaccato assonometrico di una torre angioina, come l’Assiola di Positano. Il terrazzo di copertura delle torri, per l’ingegneria militare, si definiva «piazza d’armi», anche quando queste si riducevano a semplici balestre, o a massi da far piombare dalle caditoie, buche ricavate nell’impalcato alle spalle dei merli. Il corpo delle torri angioine era cilindrico, su basamento leggermente scarpato. La scelta derivava, probabilmente, dalla piú facile ed economica esecuzione rispetto a una torre quadra e, al contempo, dalla maggiore resistenza ai colpi. Il coronamento torico che scandiva l’avvicendarsi della sezione cilindrica su quella tronco-conica, ebbe in seguito la funzione di deviare le schegge prodotte dagli impatti balistici.

Nel basamento delle torri era sempre ricavata una cospicua cisterna, che raccoglieva l’acqua piovana invernale, assicurando al caposaldo un’ampia autonomia idrica. La conserva, necessaria tutti i giorni, diveniva però fondamentale in caso di attacco corsaro, improbabile, ma non raro.

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A sinistra il coronamento vicereale, parzialmente distrutto, di torre Assiola. La struttura doveva essere sicuramente esistente alla data del 1279, quando viene nominata in un elenco di 13 postazioni dislocate lungo la costa tra Agropoli e Sorrento.

Gli spessori murari delle torri costiere angioine sono relativamente modesti, non dovendosi opporre a investimenti ossidionali, sia pure di minima entità, esulando tale prassi dagli assalti corsari. I piani interni erano ottenuti perlopiú con volte a calotta, di grande resistenza, interponendo fra loro impalcati lignei. L’accesso a ciascun livello era garantito da scale volanti, che, alla leggerezza, abbinavano la facilità di rimozione in caso di intrusioni nemiche.

Alle cannoniere verticali fu data la sagoma di una spatola, poiché anche le torri angioine furono dotate di cannoncini petrieri, che generavano un’ampia rosa di frammenti di pietra e schegge di ferro appena fuori dalla bocca, come fossero grosse «lupare».

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gli alloggiAMENTI PER I CANNONI Coronamento sostitutivo di epoca vicereale: sotto le cannoniere orizzontali per il tiro offensivo, quelle verticali per il tiro difensivo.

Sulla piazza d’armi delle torri angioine, trasformate in vicereali, si aprivano immediatamente sotto le cannoniere orizzontali le buche delle verticali, o «troniere». Le prime erano destinate al tiro offensivo con pezzi di tipo navale su affusto «a cassa», a quattro ruote, le seconde al tiro difensivo, tramite cannoncini petrieri su affusto «a cavalletto». Dietro un «merlone» dal profilo sfuggente, definito «profilo balistico», sbarcava la scala d’accesso alla piazza d’armi, ricavata nello spessore del muro perimetrale dal lato monte.

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l’arte della guerra torri angioine

diretto, cioè compiuto dagli uomini della torre, era anticipato dai segnali delle altre torri, che lo rilanciavano a partire da quella che lo aveva realmente effettuato, ponendo cosí l’intero dispositivo zonale in allerta. Una condizione che, accentuando la vigilanza, consentiva anche di evacuare la popolazione con maggiore anticipo, nonché di far convergere in tempo utile reparti militari. Le modalità di segnalazione erano due: ottiche per il preallarme, acustiche per l’allarme. Le prime diffondevano tramite un facile codice, di giorno con colonne di fumo e di notte con fiamme emesse da appositi bracieri, l’avvistamento, notificando col numero dei fumi e fuochi il numero delle navi sospette, o facendoli roteare se piú di tre. L’origine di quei segnali si perde nell’antichità classica, e ne troviamo menzione già in Plinio il Vecchio (Storia Naturale, II, 181) che, definendole Turres Hannibalis, cosí ne tratteggiò il funzionamento: «in Asia simili osservatori di difesa furono istituiti sotto la spinta del terrore dei pirati, e piú volte i loro fuochi d’allarme appiccati alla sesta ora del giorno erano scorti alla terza ora notturna nel punto piú arretrato». Anche Dante (Inferno VIII, 1-9) ricorda quelle segnalazioni con queste tre terzine: «Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre e un’altra da lungi render cenno tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.

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E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: “Questo che dice? e che risponde quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”». Il perché delle due diverse modalità scaturiva dall’essere quello ottico migliore per trasmettere informazioni piú dettagliate, avendo come presupposto operativo la vigilanza diurna e notturna dei torrieri. Discorso diverso per la popolazione che, o perché intenta al lavoro o perché nel sonno, non poteva costantemente osservare le torri per decidere quando porsi in salvo. L’allarme, perciò, era acustico, captabile dovunque senza alcuna attenzione particolare: la campana delle strofe popolari è appunto quella delle torri che, con i suoi rintocchi, spesso amplificati dalle maggiori delle chiese, sollecitava la fuga.

«Contro i pirati e contro i nemici»

Come accennato, le torri costiere angioine, sebbene si fossero moltiplicate dopo l’esplodere della guerra dei Vespri, rimontano all’avvento della dinastia nel 1266: tre anni dopo, infatti, in data 18 novembre, si ordinava di disporre «sentinelle, riparare e fortificare le torri di tutto il Regno per difesa contro i pirati e contro i nemici» (questa e le successive citazioni sono tratte da I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, Napoli 1950-80, III, p. 61). Non trattandosi di un ordine di costruzione, ma di manutenzione, ne deriva la conferma di quanto ipotizzato, cioè che si trattasse, all’inizio, di un gruppo eretto durante il biennio 1267-8, solo in seguito incrementato. E proprio dal 1268 iniziano le incursioni piú devastanti condotte dai Pisani agosto

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A sinistra Positano, torre Trasita. Una delle due torri angioine conservatesi fino ai giorni nostri. Nella pagina accanto il promontorio d’impianto di torre Assiola.

lungo la costa d’Amalfi, per resistere alle quali Positano rinforzò le mura, di cui sopravvivono due torri, Trasita e Sponda – poi trasformate in abitazioni – premessa di un piú fitto schieramento. Un documento del 1279, infatti, nomina altre 13 torri tra Agropoli e Sorrento, tra cui Torre Assiola, presso Positano, ancora al suo posto, ma ridotta in altezza e alterata nel coronamento. Il peggiorare della situazione causato dalla guerra dei Vespri, costrinse Carlo d’Angiò a istituire una continua perlustrazione lungo la stessa costa, compiuta da una galera di Amalfi per la sorveglianza fino a punta della Campanella, e una di Ischia fino alla foce del Volturno. In data 26 febbraio 1284 fu inoltre ordinato a: «tutti i Giustizieri del Regno che tanto nelle torri che in tutti i luoghi marittimi si facciano i fari (fuochi) per potere avvisare l’approssimarsi del nemico e dei ribelli, avendo saputo che i Siculi-Aragonesi con gran numero di vascelli si preparavano a passare contro il continente». E ancora in data 2 maggio: «ordina ai Giustizieri del reame di fare custodire con somma diligenza le torri del littorale destinate pe’ fari , e che gli uomini messivi a custodia siano attenti di sollecitamente avvertire lo avvicinarsi al lido delle navi nemiche e de’ ribelli col segno del fumo nel giorno e col fuoco nella notte, e nel modo consueto per indicare il numero delle navi; del quale ordine ne dà avviso a Giacomo de Burson viceammiraglio del Regno. E manda a Rimbaldo de Alamannia capitano della parte montuosa di Amalfi 75 stipendiari fanti toscani per ingrossare le milizie che à sotto il suo comando e per rimanere giorno e notte a custodia di que’ luoghi e a difesa degli abitanti contro i nemici». Anche la perlustrazione navale venne rinforzata,

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spingendola fin dentro il golfo di Napoli, poiché in data 10 maggio: «avendo saputo che alcune galere sicule-aragonesi navigavano pel mare di Principato e facevano temere delle scorrerie a danno di quelle terre messe sul littorale, ordina a Guglielmo di Donnamaria che con gli uomini e vascelli della sua terra di Gragnano, e a Geberto de Herville che con gli uomini e vascelli della sua terra di Lettere stiano a custodia del littorale di Castellammare di Stabia e sue adiacenze. A Landulfo Caracciolo giustiziero degli scolari dello Studio di Napoli affida la custodia del littorale della città di Napoli e de’ luoghi circostanti, e a Tommaso di Aquino poi ordina che co’ suoi uomini e vascelli di Capua, Aversa, Calvi, Rocca di Mondragone, Sessa, Traetto, Fondi ecc. custodisca il littorale da Sperlonga fino a Pozzuoli».

Restauri e nuove fondazioni

La situazione rimase sempre critica anche dopo la liberazione di Carlo lo Zoppo, che, nel 1290, diede ordine di restaurare tutte le torri litoranee e di costruirne di nuove lungo le coste del regno. Il programma, però, fu attuato solo parzialmente, per le difficoltà intrinseche e per i relativi costi. Il concetto informatore restava sempre quello di una sorta di sistema di allarme perimetrale, che, evitando le impreviste incursioni, ne frustrava la virulenza. È del 1298 un’altra ordinanza, intitolata De locis marittimis bene custodiendis, che intimava: «a tutti i castellani; affinché tengano vedette che segnalino l’approssimarsi di galere dei nostri nemici e che facciano tanti segnali quanti sono le galere o i navigli da guerra avvistati, di giorno col fumo e di notte con l’accensione di fuochi». Anche sugli scogli delle Sirene, abitualmente denominati «i Galli» di fronte a Positano e a Punta delle Campanella, si eressero torri del genere intorno al 1332, segno che, pur essendosi ormai da un trentennio conclusa la guerra dei Vespri, la situazione lungo le coste non era affatto migliorata. E purtroppo non migliorò neppure nei secoli successivi, fino al 1830. Delle torri angioine molte furono distrutte dal mare, molte altre finirono aggregate alle successive e piú grandi torri vicereali o restarono come ruderi al loro fianco e solo pochissime, come l’Assiola, continuano a svettare, sicuro rifugio di gabbiani. F

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luoghi san fiorenzo La chiesetta dedicata a San Fiorenzo, patrono di Bastia Mondoví (nel Monregalese) conserva un ciclo pittorico di grande vivacità. Esso celebra le gesta del martire ma, al contempo, ammonisce i fedeli sulle scelte da compiere per mantenersi sempre sulla retta via

Il

di Maria Paola Zanoboni

teatro del sacro e della vita I I

l Monregalese, e soprattutto l’area compresa tra il corso del fiume Stura e quello del Tanaro, è disseminato di piccole cappelle ricavate da edifici in un primo tempo utilizzati come ricovero per gli attrezzi agricoli, come riparo dalle intemperie e luogo di sosta per i pellegrini, e solo in seguito ampliati e adibiti a uso religioso. Una sorta di «museo diffuso», costituito da chiese, pievi, cappelle incastonate nel verde delle colli-

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Bastia Mondoví (Cuneo), chiesa di S. Fiorenzo. Il martirio del santo, decapitato per non aver voluto rinunciare alla sua opera di evangelizzazione. Dal ciclo con le storie della vita del martire, affrescato su commissione di Bonifacio della Torre e datato al 1472 (o, secondo una diversa interpretazione, al 1466). Nella pagina accanto San Michele pesa le anime, particolare degli affreschi dell’abside, che corrisponde, con la primitiva cappella sorta sul sepolcro del santo, al nucleo piú antico dell’edificio, risalente all’XI sec.

ne, testimonianza della devozione popolare e di un mondo cancellato dalle trasformazioni della modernità, di cui solo recentemente è iniziata la valorizzazione. Si tratta quasi sempre di edifici affrescati, internamente e talvolta (almeno in origine) esternamente, anche se delle pitture esterne rimangono oggi rare tracce. Sorta di «preghiere dipinte», realizzate fra Tre e Quattrocento, secondo gli schemi di un’arte popolare, ispi-

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rata ai Vangeli Apocrifi, e ricca di dettagli delle Sacre Scritture, interpretati secondo una lettura che talora evidenzia particolari della vita quotidiana tipici del mondo contadino. In altri casi, invece, dimostra un gusto per l’abbigliamento e le acconciature mutuato dalla coeva pittura d’Oltralpe: pettinature ricercate, tessuti e aureole decorati con motivi vegetali, stoffe damascate e trapunte di gioielli, elaborati copricapi, mantelli foderati di ermel-

lino, secondo i dettami del gotico internazionale. Il tutto unito a una profonda umanità dei personaggi e a una tenerezza nei gesti che dimostrano l’influenza della cultura giottesca.

Scene ricorrenti

I temi rappresentati, volti a intenti didascalici, prediligono alcuni soggetti che si ripetono in molti cicli pittorici del territorio; il filo conduttore è rappresentato dalla richiesta

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luoghi san fiorenzo Bastia Mondovì

di protezione a determinate figure sacre. Ricorrono perciò le storie della vita della Vergine e di Gesú, l’iconografia della «Madonna del Manto», dispensatrice di grazia, protezione e aiuto; quella di San Rocco e San Sebastiano, protettori contro le pestilenze; di San Giacomo, soccorritore dei pellegrini, di Santa Lucia, Sant’Apollonia e Sant’Antonio, guaritori da molte malattie. Altri motivi ricorrenti sono quelli con intento didascalico: la «cavalcata dei vizi», le «sette opere di misericordia», la Gerusalemme celeste, i tormenti degli inferi, un’iconografia macabra fatta di scheletri, teschi e cadaveri, crudo richiamo alla caducità della bellezza e alla fragilità umana, nonché monito all’imprevedibilità e all’ineluttabilità della morte. Gli autori di questi cicli pittorici diedero vita a composizioni molto simili tra loro, poiché utilizzano spesso gli stessi modelli: cartoni, disegni preparatori e taccuini di disegni che circolavano nell’ambito delle botteghe della zona. Recenti studi hanno dimostrato

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A sinistra cartina del Piemonte con l’ubicazione di Bastia Mondoví. Nella pagina accanto l’area presbiteriale della chiesa di S. Fiorenzo. Sotto la volta a crociera, affrescata con gli Evangelisti in trono e il Cristo benedicente, sull’abside compaiono la Crocifissione e la Madonna in trono con San Martino e San Fiorenzo, in abito da cavaliere, che offre un biancospino a Gesú.

come l’utilizzazione di incisioni che riproducevano le grandi opere dei maestri nordici o i capolavori del Rinascimento, fosse una pratica assai diffusa fin dal XV secolo. Questo fece sí che le tendenze della maniera fiamminga, da un lato, e i modelli dei grandi pittori dell’Italia Centrale, dall’altro, potessero giungere, semplificati e reinterpretati, fino alle cappelle e alle pievi delle Langhe.

La committenza era rappresentata da personaggi illustri delle comunità cittadine, laici ed ecclesiastici, che impartivano agli artisti precise indicazioni sui materiali da utilizzare e sui soggetti da eseguire.

Lungo la «via del sale»

Situata ai margini delle Langhe, nei pressi di Bastia Mondoví, tra il verde della campagna, la chiesetta di S. Fiorenzo sorse intorno all’XI secolo, in corrispondenza del primitivo monumento sepolcrale del Santo e a ridosso di una delle principali «vie del sale», come cappella destinata ai pellegrini. Fu ampliata e fatta affrescare nel XV secolo da Bonifacio Della Torre, la cui famiglia dominava Bastia dal 1449. Il ciclo pittorico, che reca la data 27 (o 24) giugno 1472 (o forse, secondo un’altra interpretazione, 27 o 24 giugno 1466), occupa una superficie di ben 326 mq, e venne sovrapposto a precedenti pitture trecentesche, di cui sussistono ancora le tracce su parte della parete di destra e su quella esterna. La cappella costituiva il cardine della struttura urbanistica a cui apparteneva, in un rapporto ideale con il nucleo antico, arroccato oltre i ciglioni del Tanaro. Si trattava di un insediamento con prevalente urbanistica difensiva, come in generale i centri fortificati sorti nella zona tra il X e il XIII secolo, parallelamente all’intensa attività di

la vita di fiorenzo

Il militare che non volle rinnegare la fede La vita di San Fiorenzo è avvolta nella leggenda: nato da famiglia nobile, molto dotato nell’uso delle armi, si sarebbe arruolato nella Legione tebea, un contingente romano storicamente attestato al tempo di Diocleziano e composto da soldati reclutati nella regione egiziana della Tebaide. Con quell’unità, comandata dal principe Maurizio (il futuro santo), Fiorenzo partí per Gerusalemme, dove si convertí e ricevette il battesimo. Tornò in Italia quando la legione fu richiamata e inviata in Gallia per unirsi ad altre forze romane e sedare la ribellione dei Bagaudi, contadini che combatterono una lotta di guerriglia contro i ricchi proprietari e il dominio romano tra il III e il IV secolo. Arrivato sul luogo, dopo aver appreso

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che i nemici da combattere erano anch’essi cristiani, disertò assieme agli altri componenti della legione, che fu inseguita e annientata dal resto dell’esercito romano, guidato dall’imperatore Massimiano Aurelio Erculeo. Fiorenzo, con alcuni compagni, riuscí a salvarsi dalla strage fuggendo sulle montagne circostanti. Decise quindi di scendere in Piemonte per predicarvi il Vangelo e si fermò a Bastia, dove fu accolto in modo benevolo dagli abitanti e compí numerosi miracoli. Scoperto dalle autorità romane, fu imprigionato e condannato a morte salvo rinnegare la fede cristiana, ma rifiutò l’offerta di grazia e fu quindi decapitato. (red.)

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luoghi san fiorenzo Il fianco destro della chiesa di S. Fiorenzo. L’ingresso della cappella primitiva è segnalato da affreschi tre-quattrocenteschi raffiguranti San Cristoforo, la Madonna con il Bambino e l’Annunciazione.

rante la Vergine col Bambino, San dissodamento e di messa a coltura e le sue grandi paure: cataclismi, Giovanni e San Fiorenzo, e sovradi nuove terre. guerre, epidemie. Un’arte espresstato da un rosone. L’importante arteria di comusione dell’essenziale, che insiste sul L’interno, tipicamente gotico, è nicazione sulla quale l’edificio recarattere catartico delle immagini, costituito da un’unica navata, inteligioso era situato, al centro di un quasi trasformandosi in un atto di ramente affrescata con le storie delreticolo di scambi commerciali e religiosità. la vita di San Fiorenzo (che si penpellegrinaggi, ne faceva un nodo Tra il 1440 e il 1490 l’attivismo sava sepolto nella cappella piú antiprimario e un punto di aggregaziodegli ordini religiosi in questa zona ca, a sinistra dell’abside), di quella ne di capitale importanza per la codel Cuneese tendeva necessariadi Cristo e di Sant’Antonio, le opere munità rurale che vi afferiva. mente a influenzare l’espressione ardi Misericordia e il Paradiso, la caIl nucleo piú antico della chiesa, tistica: il santo protettore, il racconche, come già detto, risale to di un martirio, l’inferno all’XI secolo, è stato indivientravano a far parte L’iconografia religiosa è immersa stesso duato nella piccola cappella della vita di ogni giorno. Al in uno spazio sociale agricolo, a sinistra e nella parte ora tempo stesso l’iconografia ridotta ad abside, affrescaviene proiettata in fatto di scene di vita quotidiana religiosa ta già nel XIII-XIV secolo, uno spazio sociale agricocome appare dallo strato di lo: scene di vita quotidiana valcata dei Vizi, con un linguaggio pittura ancora affiorante. In questa (buoi, contadini scalzi, aratri, monatipico dei ceti rurali: diretto, intenso zona era collocato l’ingresso prici che preparano il formaggio, pecore e giocoso, coinvolgente e concreto, mitivo, indicato all’esterno dagli e cani pastore) in tempi di continue caratterizzato da uno stile elemenaffreschi trecenteschi e quattrocarestie e guerre. tare, scevro da qualsiasi preoccucenteschi raffiguranti San CristoAnche il colore è reale e concrepazione formale nei confronti delle foro, una Madonna con Bambino e to nel maggiore dei modi: domina nuove tendenze pittoriche e delle un’Annunciazione. San Cristoforo, il rosso corposo e consistente, mendiscussioni sulla prospettiva (vivaci protettore dei pellegrini, era reso in tre al bianco è riservato un ruolo di nei decenni centrali del Quattromodo da poter essere avvistato da sfondo. Il segno grafico fissa i lecento anche in Piemonte). Un’arlontano dai viandanti. gami essenziali e misura i contorte che mirava a un’immediatezza Il portale in arenaria della coni, bloccando il racconto nei punti di comunicazione volta a favorire struzione attuale, ampliata nel XV essenziali e mettendone a fuoco il la religiosità popolare, e che rifletsecolo, è decorato da un affresco realismo, annullando ogni astratta teva con concretezza la vita rurale della fine del Quattrocento, raffigusimbologia. Quasi come una Biblia

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Il portale in arenaria, attuale ingresso alla chiesa di S. Fiorenzo, è ornato da un affresco della fine del XV sec., raffigurante la Vergine col Bambino, San Giovanni e San Fiorenzo.

pauperum per immagini, l’interno di S. Fiorenzo illustra la vita quotidiana della comunità contadina, con un modo espressivo essenziale che suscita la commozione. Le scene raffigurate sulle pareti della cappella coincidono con quelle di alcune sacre rappresentazioni e dimostrano lo stesso impegno realistico: come nel teatro medievale, il racconto procede per azioni in cui il protagonista era collocato al centro di un gruppo numeroso, in modo simile alle puntate di un racconto a fumetti, affinché l’esposizione risultasse il piú possibile comprensibile ed esplicita. Un tono didascalico, frammentario, iterativo tipico del teatro, con un procedimento narrativo continuo e multiplo.

Un lavoro a piú mani

Non si tratta dell’opera di un unico pittore, ma del lavoro di gruppo di un cantiere attivo in altre cappelle della zona e dell’entroterra ligure. Sono noti i nomi di alcuni di questi artisti: Antonio Monregalese (1435), Frater Henricus (1451), Giovanni Mazzucco (1481-1491), Tommaso e Matteo Biazaci (attivi anche in Liguria). Il fatto che molte immagini ricorrano identiche in affreschi diversi lascia supporre che questi pittori dovessero utilizzare cartoni o sagome fustellate che permettevano di riprodurre le figure in serie. La decorazione ebbe inizio probabilmente dall’abside (la parte piú antica e piú restaurata), con volta a crociera a sesto acuto, completamente affrescata. Sulle vele della volta, bordate da un finissimo fregio con motivi vegetali di fiori e ghirlande, sono raffigurati gli Evangelisti, assisi in troni gotici, e il Cristo Benedicente. La parete sinistra del presbiterio immette alla cappella, ornata da stucchi barocchi, in cui si crede che si trovino le spoglie di San Fiorenzo.

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luoghi san fiorenzo Da leggere U Associazione «Terra dei Bagienni»

(a cura di), Preghiera dipinta. Itinerari artistici e naturalistici fra Tanaro e Stura, Europa Edizioni, Cuneo sd U Andreina Griseri, Giuseppe Raineri, San Fiorenzo in Bastia Mondoví, Il Portico Editrice, Villanova Monferrato 2004 U Adriano Antonioletti Boratto, San Fiorenzo di Bastia Mondoví, Il Portico Editrice, Villanova Monferrato 2004

Uno scorcio della parete destra della chiesa di S. Fiorenzo affrescata con il Giudizio Universale. In primo piano, l’Inferno, con Satana al centro e, ai lati, diavoli che infliggono torture ai dannati. In basso, la Cavalcata dei Vizi, inghiottiti dalla bocca di un drago.

Gli affreschi si snodano poi lungo tutte le pareti della chiesa. All’inizio della parete destra emergono protagoniste le figure della Madonna con San Martino e San Fiorenzo nell’atto di offrire un biancospino al piccolo Gesú, rappresentati secondo i canoni di eleganza del gotico cortese: la Vergine con una veste a pieghe fitte col manto bordato di ermellino; San Fiorenzo in abito da cavaliere completato dal mantello e dalla spada da parata. Sono immagini in deciso contrasto con quelle della Crocifissione, dal ritmo serrato e drammatico.

Abiti tipici dell’epoca

Anche nella scena del martirio del Santo, al quale la chiesa è dedicata, gli aguzzini indossano abiti tipici del gotico cortese: intorno al Santo (vissuto in epoca romana) si dispongono giovani in giornea (una sorta di casacca, n.d.r.) da parata con sopravvesti, gonnellino e cappelli appuntiti, manti foderati di ermellino e corazze. Alle storie di San Fiorenzo seguono, sulla stessa parete, quelle della vita di Sant’Antonio Abate. Gli episodi sono un crescendo che culmina nella porzione piú decorata della parete destra, quella con le scene dell’Inferno, della cavalcata dei Vizi, delle opere di Misericordia e della Gerusalemme celeste. Al centro dell’Inferno troneggia la gigantesca figura di Satana che

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ghermisce con gli artigli e maciulla i peccatori, mentre altri diavoli si accaniscono a infliggere ogni sorta di tortura alle anime dannate. Sotto la raffigurazione dell’Inferno, contrapposta alle opere di Misericordia, si snoda la cavalcata dei Vizi in cui quattro figure maschili (Superbia, Gola, Ira e Accidia) e tre femminili (Invidia, Lussuria e Avarizia), incatenate per il collo, vengono trascinate verso la gola spalancata di un drago. La Superbia è rappresentata da un giovane munito di spada a cavallo di

un leone; l’Avarizia da una donna macilenta e malvestita che cavalca un cane; la Lussuria da una donna riccamente vestita, a cavallo di un caprone; l’Invidia cela il volto dietro una maschera, mentre la Gola è impersonata da un giovane con uno spiedo sulle spalle; un altro giovane che cavalca un lupo e si trafigge la gola con la spada personifica l’Ira; chiude la schiera l’Accidia, rappresentata da un ragazzo adagiato sulla groppa di un asino. È importante notare che la figura del drago infernale, tipica del agosto

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Info repertorio medievale, ebbe fortuna anche in altre aree geografiche, e in particolare nelle cappelle dei monasteri della Romania (per esempio a Voronet), affrescate (altra analogia), sia internamente che esternamente nello stesso arco cronologico, talvolta con temi analoghi (come il Giudizio Universale), e anch’esse testimonianza di un’arte popolare con intenti didascalici che, con modalità espressive immediate e dirette, voleva costituire una Biblia pauperum per le popolazioni rurali di quella zona.

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Di fronte alla scena dell’Inferno, sulla parete sinistra, si trovano gli episodi della Passione, e, sulla stessa parete, proseguendo verso l’entrata della chiesa, l’infanzia e la vita di Cristo. Negli episodi dell’infanzia le culle fatte di cesti intrecciati, particolari come vivande e suppellettili di uso comune, e i visi grotteschi dei carnefici nella strage degli Innocenti, denunciano l’influsso di maniere pittoriche nordiche, maniere che si ritrovano anche nel modo grottesco di raffigurare i carnefici (gozzuti e deformi) nella Passione.

Associazione Culturale S. Fiorenzo O.n.l.u.s. c/o chiesa di S. Fiorenzo, Bastia Mondoví (Cuneo) Tel. 338 4395585 o 0174 60233; e-mail: sanfiorenzo@infinito.it; www.sanfiorenzo.org Furono probabilmente l’Ordine francescano e quello domenicano, che nella zona operavano all’unisono (come dimostrano anche le immagini di San Domenico e San Francesco raffigurate sull’arco trionfale della chiesa), a orchestrare questo ciclo di affreschi. F

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caleido scopio

Arte sacra tra i vigneti cartoline • Statue di santi, arredi

liturgici e altri documenti formano la collezione allestita nel convento francescano di Cassine, in provincia di Alessandria. Una raccolta di pregio, inserita in un contesto che vanta importanti testimonianze d’arte

A

Cassine (Alessandria), un borgo dell’Alto Monferrato acquese dall’impianto urbanistico medievale, immerso tra dolci colline ricoperte di ondulati vigneti, candidate a Patrimonio dell’Umanità nell’ambito dei «Paesaggi vitivinicoli del Piemonte», è stato recentemente aperto il Museo di San Francesco. Dedicata alla benefattrice Paola Benzo Dapino, la raccolta d’arte sacra è stata allestita in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici del Piemonte nel trecentesco complesso conventuale francescano.

Una presenza di lunga data La comunità dei Francescani Minori Conventuali era già presente a Cassine nel 1232, ma, nel 1327, abbandonata la vecchia fondazione, si trasferí in questo luogo di culto, intitolato al santo fondatore dell’Ordine e posto al centro dell’abitato, nel quartiere denominato Guglioglio. I frati Minori vissero a Cassine fino al 1802, anno in cui il monastero fu soppresso per decreto napoleonico. Mezzo secolo piú tardi, nel 1858, la chiesa e il convento divennero proprietà comunale. L’esposizione, che integra e completa la visita alla chiesa conventuale,

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A sinistra statua lignea policroma di Sant’Antonio Abate. XIV sec. Cassine (Alessandria), Museo di San Francesco «Paola Benzo Dapino» si snoda in tre sale e accoglie arredi devozionali provenienti dal monastero francescano, da poco recuperati e restaurati. Una moderna struttura in vetro, riprendendo la funzione dell’antico chiostro, ormai scomparso, permette l’entrata indipendente al museo. Il percorso inizia dalla Sala Capitolare, un vasto ambiente a pianta rettangolare dipinto su tre lati. Il locale ospita due Crocifissi lignei policromi, databili tra il XV e il XVI secolo, una quattrocentesca statua in legno di Sant’Antonio Abate, il triregno funebre di papa San Pio V, realizzato intorno al 1588, e alcuni reliquiari eseguiti tra il 1710 e il 1711, e arrivati da Roma il 14 ottobre 1713 a corredo delle spoglie di Sant’Urbano martire, venerate nella chiesa del monastero.

Una testimonianza preziosa Gli affreschi alle pareti, opera di un abile quanto ignoto maestro, profondamente intriso di cultura lombarda, chiamato a Cassine sul finire del quarto decennio del agosto

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Nel Medioevo si costruiva cosí Ogni anno il primo week end di settembre (in questo caso sabato 1 e domenica 2) Cassine si anima con una rievocazione a tema. Argomento dell’edizione 2012, dal titolo Artifex et Aedificator, sono le «Arti nelle Costruzioni». Mostre, incontri e convegni dedicati all’arte del costruire nel Medioevo, illustrano il funzionamento di un cantiere edile e il lavoro svolto dalle numerose e diversificate professionalità coinvolte. La festa è anche l’occasione per visitare il centro storico di Cassine Superiore, che conserva numerosi edifici nobiliari, del XV e XIV secolo. Palazzo Zoppi ne è un interessante esempio. L’architettura civile, casa-forte dal Duecento al Quattrocento e poi dimora di famiglia, quando gli Zoppi furono investiti del feudo di Cassine, custodisce un bellissimo ciclo a fresco con scene di caccia e giochi, realizzato alla metà del Quattrocento da due distinti artisti e considerato un raro esempio di pittura cortese. Non mancano tornei, spettacoli d’animazione e sontuosi banchetti, organizzati in onore di Gian Galeazzo Visconti, giunto in visita a Cassine. Cassine (Alessandria). La facciata (a sinistra) e la navata centrale (in basso) della chiesa conventuale di S. Francesco.

La presenza di una comunità francescana nella cittadina piemontese è attestata già agli inizi del XIII sec. in alto, una fascia che racchiude tondi con figure, alternate a racemi di foglie spinose e ghiande.

Affreschi e tele

Trecento, sono una delle poche decorazioni architettoniche e figurate dell’epoca nel Basso Piemonte, chiara spia di quello che doveva essere il patrimonio artistico dell’area, ora segnata dalla perdita della maggior parte delle sue testimonianze e dalla disomogeneità culturale del territorio. Il progetto scenografico d’insieme ruota intorno a una grande immagine di Crocifissione, che, affollata da vari personaggi, è connotata dalla straordinaria vivacità

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descrittiva e costituisce un antefatto per la pittura alessandrina. Alla Crocifissione conducono idealmente i due episodi legati all’infanzia di Cristo, che occupano l’intera parete a sinistra. Il primo narra la visita dei Magi a Erode, il secondo l’Adorazione dei Magi. Invece, a destra, divise in due riquadri, sono rappresentate figure votive di santi, la cui presenza è giustificata dalla particolare devozione del committente. A incorniciare le raffigurazioni corre,

Dalla Sala Capitolare si passa alla sacrestia. Innalzata contemporaneamente all’aula del Capitolo dei monaci e modificata nel 1713, in occasione dell’arrivo delle spoglie di Sant’Urbano, è ingentilita alle pareti da affreschi cinquecenteschi, tra cui un’interessante Vergine col Bambino, San Matteo e San Bonaventura, attribuibile a Luchino Ferari. La visita termina con la quadreria, che, concepita come corridoio di collegamento tra la sacrestia e la chiesa, presenta tele dipinte tra il Cinquecento e il Settecento. Chiara Parente Dove e quando

Museo di San Francesco «Paola Benzo Dapino» Cassine, piazza Vittorio Veneto, 3 Orario da maggio a settembre: sa-do, 16,00-19,00; da ottobre ad aprile: do, 15,00-18,00 Info tel. 0144 715151; e-mail: segreteria@comune.cassine.al.it

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caleido scopio

L’Italia delle città libri • Ma qual era, veramente, la vita che si conduceva nei centri urbani della

Penisola? E che cosa determinò i loro momenti di sviluppo e quelli di crisi? A queste e a molte altre domande risponde un nuovo e approfondito saggio

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l tema «città italiane nel Medioevo», vastissimo e tra i piú dibattuti negli ultimi trent’anni, viene magistralmente sintetizzato in questo volume dagli autori, dotati della non comune capacità di saper guidare il lettore attraverso la sovrabbondante bibliografia sui centri urbani della Penisola nel periodo cruciale compreso tra il XII e il XIV secolo, focalizzando l’attenzione sul dinamismo continuo dei dibattiti storiografici e mettendone in evidenza le problematiche principali (per esempio, le ipotesi sulle origini del Comune e sul passaggio dal Comune alla signoria, il dibattito sui ceti dirigenti cittadini – origine «feudale» o mercantile –, le problematiche relative all’economia – distinzione fra i concetti di artigianato e manifattura accentrata o disseminata –), anche attraverso puntuali riscontri documentari. Un lavoro, dunque che, pur nella sintesi, non rimane superficiale e asettico, ma sa calarsi nella realtà del mondo medievale. I secoli considerati coincidono con la piú straordinaria espansione del fenomeno urbano in Italia, perché caratterizzati dall’accelerazione del dinamismo demografico-economico e dall’affermazione di nuove forme di potere (i Comuni nel Centro-Nord e la monarchia nel Mezzogiorno), fino al rallentamento dello sviluppo e al crollo demografico che si registrò alla metà del Trecento (culminato nella pestilenza del 1348), con la parallela trasformazione degli apparati di governo nella maggior parte delle città. Il libro è diviso in tre parti: nella prima (Il dinamismo demografico ed

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economico) emerge il dibattito sulle cause che determinarono la crescita della popolazione tra il X e il XIV secolo nelle aree urbane soprattutto, e quello sulla «crisi» del Trecento, ormai considerata dalla storiografia come un momento di riconversione piuttosto che di stagnazione (pur con la necessità di valutare di volta in volta i singoli contesti demografici ed economici cittadini evitando le generalizzazioni). Tra il XII e il XIII secolo le città assunsero un nuovo volto, vennero ampliate le cinte murarie per accogliere la popolazione sempre piú numerosa, e per proteggere i sempre piú complessi, delicati e costosi impianti industriali che via via venivano creati, e che, soprattutto grazie all’applicazione dell’energia idraulica, potevano essere adattati a svariate esigenze produttive (dai magli per la lavorazione dei metalli alle folle per i tessuti di lana, alle cartiere e ai «mulini da seta»).

Aperti alle esportazioni Le realtà urbane di questi secoli furono, infatti, fulcro di consumi, scambi e commerci, ma anche di produzioni manifatturiere, il cui numero e le cui dimensioni crebbero vertiginosamente a partire dal XII secolo, orientandosi sia verso le esigenze dei mercati locali, sia anche, e sempre di piú, verso l’esportazione internazionale. Nelle città del CentroNord le innovazioni industriali, commerciali e bancarie favorirono un aumento produttivo tale da permettere alle loro economie di raggiungere, tra il XIII e il XV secolo, livelli di sviluppo paragonabili solo a quelli del XX secolo. L’analisi delle

pratiche mercantili e bancarie dei principali centri commerciali italiani (Venezia, Pisa, Genova, ma anche Asti, Piacenza, Siena e Firenze), la geografia e la tipologia delle produzioni urbane (settore tessile, edilizia, concia del cuoio, lavorazione dei metalli e produzione cartaria), e l’organizzazione del lavoro, sono i tre nuclei principali su cui è costruita questa sezione, in cui sono sintetizzati con chiarezza i principali problemi e dibattiti sulla storiografia economica medievale. Per quanto riguarda i circuiti e gli scambi commerciali, per esempio, sono evidenzate le tesi piú recenti, volte a sfatare l’idea tradizionale secondo cui gli scambi con l’Oriente fra il XIII e il XIV secolo si sarebbero basati soprattutto sull’importazione in Europa di spezie e seterie, e sull’esportazione di merci voluminose di minor valore, come i drappi di lana e gli oggetti metallici prodotti in Occidente. Le spezie ci furono sicuramente, ma in quantità limitata: dall’Oriente giungevano anche altre merci, come pietre preziose e perle, e persino vetro, sapone e carta. Mentre nelle esportazioni verso il Vicino e l’Estremo Oriente ebbero notevole importanza i tessuti in lana e in cotone, e rilevante era anche la circolazione di prodotti alimentari (grano, sale, olio, vino, frutta secca), materiale tintorio e materie prime (lana, seta, cotone, pelli, metalli). Accanto ai circuiti del commercio internazionale, vengono presi in considerazione quelli circoscritti all’ambito regionale (entro i quali venivano capillarmente ridistribuiti i prodotti importati), e i «centri agosto

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minori», come San Gimignano (che nel 1332 poteva vantare almeno 60 imprese commerciali), ricostruendo cosí, in modo vivace ed estremamente incisivo, le linee fondamentali di un mercato fatto di differenti livelli, tesi a mescolarsi e a integrarsi fra loro.

Una puntuale analisi delle fonti Un altro degli argomenti affrontati è costituito dall’analisi delle forme societarie (dalla commenda al contratto di assicurazione), e delle tecniche commerciali (dalla lettera di cambio alla partita doppia, ai manuali per l’insegnamento delle pratiche di mercatura), un’analisi effettuata non attraverso un’asettica enunciazione teorica, ma completamente calata nella realtà dell’epoca attraverso esempi concreti, basati su un’ampia casistica di studi e di fonti documentarie. Ancora attraverso la sintesi di uno svariato numero di studi specialistici, nonché di fonti cronachistiche e documentarie di prima mano, vengono sviluppati i temi della produzione urbana (in particolare il settore tessile, costituito principalmente dalla lavorazione di lana, seta e cotone, ma anche le manifatture del cuoio, delle pelli, dei metalli, e del vetro, l’edilizia, i cantieri navali), e dell’organizzazione del lavoro. Al centro del capitolo sul tessile va senz’altro segnalata l’innovativa teoria secondo cui l’imitazione dei prodotti di successo provenienti da altre regioni (in particolare, nella Firenze trecentesca, l’imitazione dei tessuti di lana delle Fiandre e del Brabante), anziché la migrazione delle maestranze, fu in molti casi alla base dello sviluppo di una produzione su grande scala. Le pagine sull’organizzazione del lavoro analizzano i modelli degli storici dell’economia, basati sulla distinzione tra produzione domestica (volta a soddisfare le esigenze di autoconsumo del nucleo familiare in ambito rurale, senza contatti con l’economia di mercato), artigianato

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Franco Franceschi, Ilaria Taddei Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo Bologna, Il Mulino, 2012, 334 pp. 22,50 euro ISBN 978-88-15-13825-5 www.mulino.it (definizione caratterizzata, per alcuni, dalla proprietà della materia prima e dei mezzi di produzione, e da altri dal possesso di adeguate competenze tecniche), manifattura accentrata (lavoro salariato nella bottega dell’imprenditore) e manifattura disseminata (a domicilio o nel laboratorio artigiano, e coordinata dal mercante imprenditore che forniva la materia prima o il semilavorato e remunerava coloro che lavoravano per lui). Il problema dell’origine delle corporazioni e il loro ruolo nella società urbana, il lavoro femminile e l’apprendistato, caratterizzato da una «mutazione genetica», a partire dalla metà del Duecento, da rapporto basato sull’insegnamento, a rapporto in cui diviene centrale il ruolo produttivo del discepolo,

assimilabile a quello di un salariato, costituiscono gli ulteriori temi trattati. Tutto questo intenso fervore di manifatture e commerci che animava le città della Penisola, aveva naturalmente sentito l’esigenza, fin dal suo inizio, di strutture politiche adeguate tali da favorire e proteggere lo sviluppo commerciale e industriale. Era stato cosí che, nelle realtà urbane del CentroNord soprattutto, nel momento in cui la «lotta per le investiture» (metà dell’XI secolo) aveva momentaneamente distolto dalle città l’interesse dei due massimi poteri – il papato e l’impero –, i cives riuniti inizialmente intorno al vescovo, avevano assunto progressivamente in prima persona quelle incombenze di carattere amministrativo, fiscale e giurisdizionale che già esercitavano in passato per incarico vescovile. E questo appunto era stato il momento della nascita del Comune (fine dell’XIinizi del XII secolo), il momento, cioè, in cui i ceti dirigenti cittadini, costituiti sia dalla nobiltà delle campagne inurbata, sia anche, e soprattutto, da commercianti, cambiavalute, giudici e notai, messo da parte il vescovo, cercarono di ottenere dall’impero (con risultati diversi a seconda della città) la sanzione di quelle prerogative di carattere amministrativo, fiscale e giurisdizionale che già di fatto esercitavano.

I notai al potere In questa evoluzione istituzionale ricoprirono un ruolo determinante i notai che, in quanto funzionari nominati direttamente dall’impero, si ponevano come garanti del diritto e tutori della fides publica e della legalità in ogni tipo di transazione che riguardava i privati cittadini. Per questo motivo in alcune città (come Bologna) i notai entrarono a far parte della pubblica amministrazione comunale, di cui nel Duecento costituirono il nerbo. I centri urbani,

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caleido scopio dunque, rappresentarono, per cosí dire, isole di diritto pubblico in un universo, quello delle campagne, che si andava «privatizzando» col passaggio, sempre piú spesso ereditario, dei diritti fiscali e giurisdizionali detenuti da conti e marchesi signori del contado, finché l’espansione del Comune sul territorio circostante non avocò alle magistrature cittadine anche la giurisdizione sul contado (con esiti molto diversi a seconda delle città, e a Firenze al massimo grado). La seconda parte del volume (La società urbana nell’Italia comunale), quindi, dopo aver definito le caratteristiche essenziali delle città italiane e la loro peculiarità rispetto a quelle d’Oltralpe (qualità, ampiezza e pienezza del dominio sul

territorio circostante), evidenziando la forte urbanizzazione del territorio della Penisola rispetto al resto dell’Europa, le tappe fondamentali della formazione del comune e il ruolo essenziale delle figura vescovile, prende in considerazione le istituzioni politiche, le strutture sociali, i quadri religiosi e culturali.

Le origini del Comune Vengono cosí analizzate le problematiche istituzionali e politiche, a partire dal dibattito sull’origine del Comune (non organismo di rottura, ma naturale prosecuzione delle forme politiche precedenti), e del rapporto tra i cives e il vescovo, alle questioni relative ai suoi ceti dirigenti (vassalli vescovili, ma anche, se non soprattutto,

mercanti, giudici, e notai), al suo sviluppo istituzionale, al problema della legittimazione giuridica del nuovo organismo politico e di conseguenza del suo rapporto con l’impero, a quello dell’espansione e del controllo giurisdizionale sul territorio circostante (non conquista, ma strategia laboriosa e sottile di accordi con i signori e le comunità rurali), ai conflitti interni (dovuti, secondo le tesi piú recenti, alla difficoltà crescente del regime comunale di conciliare due tipi di economia, l’uno fondato sulla guerra e l’altro sull’economia di mercato e la produzione di beni di consumo), che portarono progressivamente all’avvento della fase «popolare» e poi di quella «podestarile», e infine alla signoria. Concludono la seconda

Lo scaffale Monica Cardarelli Gallo I passi e il silenzio A piedi, sulle strade di Chiara d’Assisi

e Francesco

Porziuncola Edizioni, S. Maria degli Angeli, Assisi (PG), 192 pp.

13,00 euro ISBN 978-88-270-0950-5

La figura di Chiara d’Assisi, forte e affascinante, con uno spessore intellettuale che di frequente non viene colto, viene raccontata da un punto di vista inedito nelle pagine di questo I passi e il silenzio, la prima guida a piedi lungo il suo pellegrinaggio per le terre umbre. «L’idea del testo nasce dall’interesse per Chiara e per il suo cammino. Nel riprendere Tommaso da Celano, una delle fonti clariane, in cui sono descritti gli

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spostamenti della religiosa, ho deciso di cercare i suoi luoghi e di ripercorrerli, sperimentando il suo percorso», racconta Monica Cardarelli. Che spiega: «Quando questo progetto è stato tradotto in una guida, è subentrato Francesco Gallo, escursionista esperto: ne è nato un libro in cui alla parte tecnica, con l’indicazione di tragitti, cartine, distanze, grado di difficoltà, si aggiunge il racconto del legame fra il luogo trattato e la vita di Chiara. Cosí l’itinerario diventa un percorso di vita, perché a ogni tappa fisica corrisponde una tappa spirituale». Il cammino della fondatrice delle Clarisse si dipana per 24 km nel territorio di Assisi: abbandonata

la casa del padre, Chiara raggiunge Francesco e i frati Minori alla Porziuncola e, da lí, il monastero benedettino di S. Paolo delle Abbadesse, a Bastia

Umbra, dove trova un ambiente ricco, che la fa sentire inquieta, non completamente a suo agio. Sono legati alla sua vita anche la chiesetta di S. Angelo in Panzo, alle pendici del Monte Subasio, nella quale la monaca di Assisi fa

il suo primo miracolo, e S. Damiano, il luogo in cui visse in clausura per piú di quarant’anni. La convinzione di Cardarelli è che anche la vita di Chiara sia stata un percorso: «Lo indicano suoi scritti, la sua biografia, il suo testamento, nel quale ringrazia per la vocazione. Lei aveva la volontà ferma di vivere il Vangelo e la povertà, ma il come l’ha costruito giorno dopo giorno, e nelle sue parole i riferimenti al cammino sono numerosi. Rileggendo le fonti, dalla Vita di Chiara d’Assisi di Tommaso da Celano, al Testamento, alla Regola, fino alle Lettere ad Agnese di Praga affiorano gli aspetti meno

noti della sua personalità». A cominciare da una grande apertura, pur nell’obbedienza alla Regola, alla quale si associa l’attenzione per i rapporti con gli altri, perché la religiosa viveva la clausura come un modo per arrivare alle altre persone, anche se molto lontane. E non è un caso che Agnese di Praga, la figlia del sovrano boemo che decide di consacrare la sua vita a Dio, venga affascinata proprio dal modello dell’Assisiate. Chiara era anche una donna molto concreta, come emerge dalle testimonianze delle sorelle nel processo di canonizzazione: le accudiva, le curava, le abbracciava, asciugava le loro lacrime; cercava quindi anche il agosto

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parte del libro i capitoli dedicati alle strutture sociali (legami di parentela, lignaggio, consorteria, vicinato, confraternite, società di giovani), e ai quadri religiosi e culturali.

Affinità e differenze La terza e ultima sezione (Le città dei Regni) è dedicata alle differenze politiche, istituzionali ed economiche tra le città del CentroNord e quelle del Mezzogiorno (pur con l’attenuazione di una contrapposizione eccessiva tra questi due modelli, evidenziata dalla storiografia piú recente), alla peculiarità dell’urbanizzazione nell’Italia Meridionale e all’atteggiamento di Federico II e poi di Manfredi e degli Angioini nei confronti delle città del regno

contatto fisico, vivendo appieno la sua umanità. Dagli scritti si evince infine un forte spessore intellettuale, perché se Chiara si è rifatta alle scelte di Francesco, ha anche dato al monachesimo un apporto personale importante. Stefania Romani Marco Scataglini Terre e castelli tra Corneto, Tuscania e Viterbo

Edizioni Penne & Papiri, Tuscania, 168 pp., ill. b/n

10,00 euro ISBN 978-88-89336-50-2

La Tuscia viterbese e la confinante Maremma laziale, che la sfiora dal versante costiero tirrenico, costituiscono, paesaggisticamente e storicamente parlando, una delle zone piú interessanti della campagna situata a cavallo tra le odierne

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di Sicilia. Se non si può negare la divaricazione fra i destini delle città del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno, non si può neppure parlare di una contrapposizione radicale e assoluta. La storiografia piú recente riconosce, infatti, che anche nell’Italia Meridionale le città avevano un ruolo tutt’altro che trascurabile, accanto alla corona e alla feudalità, arrivando talvolta persino alla formazione di organismi comunali. Soprattutto sotto il regno di Manfredi (1250-1266) e poi con quello immediatamente successivo di Carlo d’Angiò (1266-1285), le realtà urbane del Mezzogiorno furono valorizzate e ottennero un’autonomia amministrativa che mai piú ebbero nei secoli a venire. Fondamentale è la bibliografia

province di Roma e Viterbo, attraversate, sin dall’antichità, da importanti assi viari come la Clodia, la Cassia e la Francigena. In questo territorio, nel quale si susseguono le brulle colline della bassa Maremma e le forre dei tanti paesaggi tufacei del Viterbese, hanno trovato sviluppo importanti centri etruschi e, nel corso del Medioevo, villaggi e innumerevoli roccaforti oggetto di perenne contesa tra autorità locali, il Patrimonio di San Pietro e le famiglie baronali romane. La presenza di testimonianze architettoniche legate in particolar modo ai secoli dell’Età di Mezzo è quanto mai unica in queste terre e a queste singolari «presenze», spesso ridotte a ruderi fagocitati

dalla vegetazione, ma, in taluni casi, ammirabili in tutto il loro splendore, è dedicata la guida di Marco Scataglini, un fotografo, nonché un «cacciatore di

rovine» – come ama definirsi –, naturalista per vocazione e attento osservatore e conoscitore del territorio in questione. Partendo dalle ricerche condotte tra Otto e Novecento da storici come Vincenzo Campanari, Giulio

tematica finale, che spazia dall’economia alla politica, alla demografia; bibliografia tanto piú preziosa in quanto comprende sia opere di carattere generale, sia contributi specifici apparsi in pubblicazioni periodiche, atti di convegni, o volumi miscellanei. Questo volume, di piccolo formato solo in apparenza, in realtà densissimo di concetti, sintesi tematiche e storiografiche fondamentali, spunti ed esempi concreti, costituisce dunque un ausilio di primaria importanza e un punto di partenza irrinunciabile per chi voglia organizzare tematicamente e sinteticamente la svariata e spesso eccessivamente prolissa e dispersiva bibliografia esistente sulle città italiane medievali. Maria Paola Zanoboni

Silvestrelli, Edoardo Martinori, e sulla base dei resoconti di eruditi locali, viene delineata una accurata mappa in cui ogni singolo lacerto, ogni testimonianza architettonica viene storicamente collocata e descritta attraverso schede che si rivelano ottimi itinerari storiconaturalistici verso luoghi difficilmente segnalati e/o conosciuti. L’autore si sofferma innanzitutto sui castelli per i quali, seppur citati dalle fonti piú antiche, permangono ampi dubbi in merito alla loro precisa collocazione sul territorio, non essendone rimasta piú alcuna traccia. Da questi si passa dunque a quei resti di villaggi, roccaforti, complessi conventuali

le cui storie ci raccontano di vicende alquanto burrascose, che hanno visto nei primi secoli del millennio protagoniste, e spesso in perenne contrasto tra loro, le città di Corneto (la moderna Tarquinia), Tuscania e Viterbo. Con uno stile di facile e immediata fruizione, e forse poco ortodosso rispetto a un approccio tipicamente storico-erudito, ecco finalmente una guida agevole, ma anche un prezioso contributo alla conoscenza di un territorio che si arricchisce di uno strumento adatto a ogni tipo di lettore, dall’amante della natura all’incallito appassionato di reperti storici, all’insegna di un autentico spirito di avventura. Franco Bruni

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caleido scopio

Un’innovazione che guarda all’antico

musica • Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento molti compositori

si cimentano con brani scritti per voci soliste, al piú accompagnati da uno o due strumenti, tra i quali viene sovente scelta la tiorba, una sorta di grande chitarra

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usiche a voce sola», «arie musicali», «scherzi», «villanelle»: nei primi anni del Seicento, si comincia a denominare, con questa variegata terminologia, un nuovo genere, l’aria solistica con accompagnamento strumentale, che si emancipa, sempre piú, dall’imperante linguaggio polifonico. A questo recupero dell’antica teoria degli affetti e della capacità che la melodia aveva, nell’antichità, di coinvolgere direttamente l’ascoltatore, si dedicano i compositori della fine del Cinquecento con modalità e percorsi stilistici diversi e di cui le tre registrazioni che qui presentiamo danno ampia testimonianza.

L’Accademia musicale di Evaristo Baschenis, con lo stesso Baschenis, seduto, alla spinetta e Ottavio Agliardi, con arciliuto (o tiorba). 1664-1666.

Monteverdi e gli altri Con Ohimè. Love, passion and mystery in baroque Italy (AE 10043, 1 CD, distr. Jupiter Classics), la scelta cade su un gruppo ristretto di celebri compositori attivi tra il XVI e il XVII secolo, tutti provenienti da una ferrea formazione contrappuntistica e tutti straordinariamente innovativi e aperti alle nuove estetiche musicali. Giocata sull’alternanza di stili diversi, l’antologia offre un vasto panorama sull’espressione monodica del tempo, con momenti musicali in cui a volte domina la dimensione poetico-drammatica, altrove il virtuosismo vocale o, ancora, la semplicità di uno schema strofico ripetuto. Fa la parte del leone Claudio Monteverdi, che il soprano Amaryllis Dieltiens interpreta egregiamente con approccio vocale garbato e stilisticamente consono

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al repertorio; accompagnano il maestro cremonese colleghi illustri, come Girolamo Frescobaldi, la cui formidabile produzione organistica ha lasciato spazio, durante la sua carriera, a piccoli capolavori vocali di strepitosa bellezza; seguono Girolamo Kapsberger, altro esimio protagonista della scena romana del primo Seicento, particolarmente rinomato per la sua arte liutistica e per la produzione vocale. Stili piuttosto diversi si incrociano dunque in questa silloge, in cui, dal modello della canzone strofica, si passa al genere del recitar catando – a metà strada tra aria, arioso e recitativo – ad arie su basso ostinato, come Quel sguardo sdegnosetto di Monteverdi, piccolo gioiello di pittura visiva e virtuosismo vocale in cui la voce del soprano si muove con leggiadria,

accompagnata dagli ottimi componenti del gruppo Capriola di Gioia, composto da organo/cembalo, arciliuto/chitarra barocca e violone.

Compositore girovago Benedetto Ferrari, di cui si può ascoltare un’aria nella precedente antologia, fa da trait d’union con la seconda registrazione, Amanti io vi sò dire. Musiche varie a voce sola del sig. Benedetto Ferrari (STR 33877, 1 CD, distr. Milano Dischi), a lui dedicata. La sua è una tipica figura di compositore girovago, la cui presenza è attestata a Roma nel 1617-8, alla corte farnesiana di Parma negli anni 1619-1623, a Milano e, infine, a Vienna dove, dal 1651 al 1653, si occupa della musica e delle feste di corte dell’imperatore Ferdinando III. Linguaggio agosto

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affascinante, quello di Ferrari, ben avvezzo a rappresentare le passioni umane. Ma l’abilità del Ferrari non si limita a una profonda conoscenza della vocalità e del modo di far risaltare le passioni; la sua è anche, e soprattutto, una abilità di suonatore di tiorba, tanto lodata all’epoca ma, stranamente, non testimoniata da alcun brano solistico dedicato dal musicista al suo strumento prediletto. Musiche splendide e decisamente innovative quelle di Ferrari; in particolare quelle in cui la narrazione musicale porta in nuce quelle che saranno, di lí a cinquant’anni piú tardi, le caratteristiche della cantata solistica. L’alternanza di passaggi quasi recitativi a quelli piú melodici permette al soprano Peggy Bélanger di giocare su una vasta gamma interpretativa, con un forte gusto teatrale che ben si addice a queste musiche, in bilico tra l’aria da camera e la piú complessa scena d’opera. Michel Angers, oltre all’accompagnamento strumentale delle arie, si esibisce con raffinata tecnica anche in alcuni assolo per tiorba composti, nel XVII secolo, da Alessandro Piccinini, Girolamo Viviani e Bellerofonte Castaldi.

Tiorba e tiorbino E proprio con Bellerofonte Castaldi, arriviamo all’ultima registrazione, Ferita d’amore. Musiche in habito tiorbesco di Bellerofonte Castaldi (A368, 1 CD, distr. Jupiter Classics), un’antologia splendida, che dà modo di saggiare, ancora una volta, la produzione tiorbistica accompagnata

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da due arie per voce e strumento. Un personaggio singolare, dalla vita piuttosto movimentata, che, vivendo di rendita, ebbe il privilegio di seguire in maniera del tutto autonoma il suo percorso artistico, libero da incombenze economiche e/o dalle restrizioni imposte da capricciosi mecenati. Una totale libertà creativa, dunque, che si produce in una interessantissima produzione solistica per tiorba e tiorbino – quest’ultimo una variante della tiorba, creato dallo stesso Castaldi – e da una produzione vocale di tutto rispetto. Capricci, follie, gagliarde, sonate, ogni genere qui proposto, tratto dalle due raccolte date alle stampe (1622 e 1623), offre un campionario assai ricco della produzione solistica per questo strumento, sfruttato anche virtuosisticamente in tutte le sue possibilità. Anche le due arie qui incluse, in cui la tiorbista Evangelina Mascardi, secondo una prassi storicamente accertata, aggiunge preludi e ritornelli da lei composti, evidenziano una sensibilità del compositore verso il testo poetico con un adeguamento della linea vocale atto a far risaltare ogni sfumatura, anche attraverso l’uso di virtuosismi e madrigalismi vari. La splendida tecnica della Mascardi, vera protagonista di questa incisione, si accompagna nelle due arie con la voce di Marco Beasley, un tenore sui generis, dalla vocalità contraddistinta da una naturalezza timbrica avulsa da ogni riferimento belcantistico e, sicuramente, piú vicina ai tempi di Castaldi. Riuscitissimo il connubio artistico dei due interpreti, affiancati in alcuni brani da Monica Pustilnik al tiorbino. Franco Bruni

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Trovatori ai piedi delle Alpi musica • Poeta,

compositore, menestrello, nonché diplomatico al servizio dell’imperatore Sigismondo I, Oswald von Wolkenstein ci ha lasciato numerose prove delle sue notevoli qualità musicali. Di cui si ha un saggio illuminante nella raccolta interpretata con maestria dall’ensemble Unicorn

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ulla scia del vasto filone poetico-musicale che andò sviluppandosi nell’area sudtirolese tra il XII e il XIII secolo e che vide protagonisti i Minnesänger, variante locale dei trovatori provenzali (vedi anche «Medioevo» n. 183, aprile 2012), si inserisce l’interessante figura di Oswald von Wolkenstein (1376 o 1377-1445). Un poeta-musicista, tra i piú grandi del suo periodo, a cui è dedicata la spumeggiante antologia Frolich, zärtlich, lieplich… Oswald von Wolkenstein. Canzoni d’amore (RK 2901, 1 CD, distr. Jupiter Classics). Numerose sono le sue composizioni, pervenuteci in due codici pergamenacei conservati a Vienna e Innsbruck e che raccolgono circa 130 liriche e musiche; una testimonianza di grande rilievo che consente di conoscere ogni aspetto della variegata produzione musicale di questo personaggio.

L’amore in ogni sua declinazione Le musiche qui presentate ripercorrono i tanti stili compositivi dell’epoca mentre costante è il tema

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dell’amore, descritto in tutte le sue sfaccettature e gli stati d’animo, spesso accompagnati da descrizioni naturalistiche che fanno da contorno al sentimento amoroso. Particolarmente ricorrente nelle sue liriche, e qui proposto in vari brani, è il tema del Tagelied, una rivisitazione dell’aubade provenzale, detto anche «canto del mattino», in cui, durante la notte, l’innamorato riesce a incontrare segretamente l’amata, mentre la luce del giorno, avanzando, porta con sé lo sconforto della separazione. Nello stile compositivo l’autore si sbizzarrisce, creando un linguaggio che va dalla semplice monodia, alla composizione polifonica a piú voci, passando per l’antico stile dell’hoquetus, una sorta di canto «a singhiozzo» in cui le linee melodiche risultano spezzate da continue pause, arrivando infine all’utilizzo di modelli musicali altrui, spesso francesi, e riadattati con nuove liriche. Un contesto musicale assai

mutevole, in cui emerge una mente fervida, capace di soluzioni originali e di grande sensibilità, esaltate ancor piú da un ampio campionario strumentale fatto di arpa, viella, liuto, organo, percussioni e flauto che si accompagnano alle cinque voci dell’ensemble.

Collaborazione vincente È un gran piacere constatare come la fusione di competenze musicologiche e la bravura degli interpreti dell’ensemble Unicorn, diretto da Michael Posch, riescano con grande maestria a calarsi nello spirito dei brani, infondendo la giusta intenzione interpretativa. Il gruppo, infatti, oltre a essere uno dei pochi specializzati su questo repertorio, collabora attivamente col dipartimento musicologico dell’Università di Vienna; una garanzia, questa, per un prodotto artistico consapevole e di grande fascino sonoro. F. B. agosto

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