Medioevo n. 185, Giugno 2012

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sacro romano impero/2: gli ottoni marsilio da padova san gimignano dossier Assedio a otranto

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Mens. Anno 16 n. 6 (185) Giugno 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 6 (185) giugno 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

san gimignano

ricostruita la città delle torri

sacro

romano impero il sogno di ottone di sassonia

città eterna

pellegrini a caccia di reliquie

otranto 1480

la minaccia ottomana alle porte d’italia

PAST

PASSIONE PER LA STORIA



sommario

Giugno 2012

ANTEPRIMA

restauri Il ritorno di uno sperimentatore Racconti di vetro Dalla corona inglese al trono di Pietro appuntamenti Nella città dell’oro bianco Teodolinda all’altare Il «ballo» delle casse Uno sbarco di fortuna Sia gloria a Carlo V L’Agenda del Mese

6 7 8 10 12 14 16 18 20

44 COSTUME E SOCIETÀ

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pellegrini a roma Culti, martiri e misteri di Chiara Mercuri

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luoghi san gimignano Le verticali del potere di Francesco Colotta

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CALEIDOSCOPIO

28 STORIE sacro romano impero/2

di Chiara Mercuri

28

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scienza e tecnica Il tornio

Gira la ruota...

di Flavio Russo

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Dossier di Flavio Russo

Marsilio da Padova di Alessandro Bedini

musica La vocazione di una dinastia

Li Turchi a la marina

protagonisti Un filosofo in odore di eresia

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otranto 1480

L’età degli Ottoni

Il grande sogno del duca di Sassonia

libri Blasoni all’ombra della torre

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Ante prima

Il ritorno di uno sperimentatore restauri • Sebbene ancora poco noto al di fuori

della cerchia degli specialisti, Alesso Baldovinetti fu tra i protagonisti del secondo Quattrocento fiorentino. Come dimostrano, tra le altre, due sue opere recentemente sottoposte a restauro

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utore raffinato, ma ancora sottovalutato, Alesso Baldovinetti (1425-1499) ricoprí un ruolo importante nel panorama artistico del Rinascimento fiorentino, non solo come pittore, ma anche come disegnatore di vetrate, tarsie, mosaici e, piú umilmente, di decorazioni di forzieri e stemmi. Recentemente, un accurato restauro ha riportato all’originaria luminosità due pale d’altare, eseguite

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dall’artista intorno alla metà del Quattrocento e oggi conservate nella Galleria degli Uffizi. Liberata dalle sedimentazioni che la offuscavano, l’Annunciazione, proveniente dalla chiesa di S. Giorgio alla Costa, rivela adesso tutta la sua eleganza nell’esaltazione delle forme, delineate, ma non appesantite, e nell’uso sapiente della luce. La scena sacra è ambientata in un contesto architettonico classico, con

un loggiato sotto il quale l’Angelo dalla tunica plissettata si presenta alla Vergine avvolta in un mantello blu. Sullo sfondo, corre un muro, inferiormente abbellito da un’aiuola fiorita, oltre il quale si vedono cipressi e alberi da frutto.

La cura per i dettagli Baldovinetti, che fu sperimentatore di nuove tecniche nell’utilizzo di colori dalle calde tonalità come il rosso, che qui ritroviamo negli archi, curò molto anche i dettagli e il paesaggio. Ne è un esempio mirabile la Sacra Conversazione, realizzata per la cappella della villa medicea di Cafaggiolo su commissione di Piero de’ Medici, tornata pienamente fruibile, dopo gli interventi di ripulitura. L’iconografia della Sacra Conversazione, che prevede uno spazio unitario in cui inserire i personaggi, senza scomparti di divisione, è composta dalla Madonna col Bambino tra i santi Cosma e giugno

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A sinistra l’Annunciazione di Alesso Baldovinetti dopo il restauro e, nella pagina accanto, un particolare del volto della Madonna prima dell’intervento. 1457. Firenze, Galleria degli Uffizi. A destra il volto di Giuseppe, figlio di Mattatia, prima e dopo il restauro, in una delle vetrate realizzate su disegno di Lorenzo Ghiberti per il Duomo di Firenze. 1435-43.

Damiano, protettori di casa Medici e Giovanni Battista, protettore di Firenze, in compagnia dei santi Lorenzo, Giuliano e Antonio abate. Posta su un tappeto finemente decorato che spunta dal verde intenso di un prato, la Vergine ha ai suoi piedi i santi Francesco e

Piero martire genuflessi, lungo le linee prospettiche. La disposizione delle figure rimanda alla pala di San Marco del Beato Angelico, maestro del Baldovinetti e pittore dalla figurazione devota e puristica, soffusa di dolcezza e calda luce. Mila Lavorini

Racconti di vetro C’

è tempo fino al 25 giugno per vedere da vicino, dopo il restauro, una delle monumentali vetrate realizzate da Lorenzo Ghiberti per la cattedrale di S. Maria del Fiore di Firenze, prima che venga ricollocata nella Tribuna Nord, da dove proviene. L’opera fa parte del grandioso ciclo di 44 vetrate della cattedrale, realizzate tra il 1394 al 1444 circa. È uno dei piú importanti cicli al mondo, per l’unità cronologica e per la fama degli artisti che eseguirono i disegni preparatori, tra cui Donatello, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Agnolo Gaddi e, in modo particolare, Lorenzo Ghiberti, il cui nome è legato a 36 delle attuali 44 vetrate (45 fino al 1828). L’intervento sulla vetrata del Ghiberti, fa parte di un imponente lavoro di restauro complessivo, avviato negli anni Settanta del Novecento, che ha interessato finora 33 delle 44 vetrate esistenti. Nella composizione (1,75 x 6,75 m, divisa in 16 pannelli), eseguita tra il 1435 e il 1443 con le altre che ornano le Tribune del Duomo, dal maestro vetraio Francesco di Giovanni su cartone di Lorenzo Ghiberti,

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sono rappresentati quattro uomini in ricchi abiti orientali, con manti damascati e copricapo a turbante. Si tratta di antichi personaggi ebraici, come le oltre 150 figure rappresentate nelle vetrate del Duomo di Firenze che illustrano il mondo giudaico da cui nacque Cristo. I due personaggi nella parte superiore sono stati identificati grazie a un cartiglio che reca scritti i loro nomi: «IOANNS» e «IOSEPH». Si tratta, probabilmente, di «Ioanan, figlio di Resa» e di «Giuseppe, figlio di Mattatia», menzionati dall’evangelista Luca tra gli antenati di San Giuseppe, sposo di Maria e padre putativo di Gesú. Terminata l’esposizione al pubblico, la vetrata sarà ricollocata con l’aggiunta di uno speciale controtelaio di protezione che la isola dall’esterno, in modo che vi circoli esclusivamente l’aria interna della chiesa, mentre tutti i fenomeni di condensa andranno a formarsi sulla controvetrata. Un sistema che preserverà la vetrata dal ristagno di umidità, causa scatenante dei fenomeni di disfacimento del vetro. (red.)

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Ante prima

Dalla corona inglese al trono di Pietro restauri • Superbo dono di Isabella d’Inghilterra

a papa Giovanni XXII, il piviale di Pio II è tornato all’antico splendore, dopo un restauro accurato, che ha restituito luce e colore a uno straordinario capolavoro dell’arte tessile anglosassone

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l piviale di Pio II è uno dei tesori piú preziosi e celebri del Museo Diocesano di Pienza. È uno dei doni che il pontefice fece alla Cattedrale della «sua» neonata città, consacrata in quel fatidico 1462 di cui ricorrono ora i cinquecentocinquanta anni, festeggiati con un apposito Giubileo pientino. Un vero e proprio dono da re! Simili vesti liturgiche, destinate alle occasioni solenni, risalivano infatti a prestigiose committenze reali inglesi di un secolo e mezzo prima e sovente erano utilizzate come omaggi per le piú importanti personalità dell’Europa di allora. Nei decenni intorno al 1300, infatti, i sovrani d’Inghilterra potevano contare su maestranze specializzate in grado di realizzare tessuti istoriati di eccelsa qualità, realizzati con una laboriosa e straordinaria tecnica esecutiva detta, per l’origine della manifattura, opus anglicanum. Come ha scritto Laura Martini, il piviale di Pio II fu probabilmente realizzato intorno al 1317 e donato da Isabella d’Inghilterra a Giovanni

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XXII, che risiedeva ormai ad Avignone. Nel guardaroba pontificio avignonese è poi descritto nel 1369, ma un testimone assai attendibile sui fatti di casa Piccolomini, Sigismondo Tizio, dice che il piviale sarebbe stato recuperato da Pio II in Oriente, grazie a Tommaso Paleologo, insieme con le reliquie del braccio del Battista e della testa di sant’Andrea. Chissà, dunque, che a un certo punto della sua storia la preziosa veste liturgica non sia stata donata alla casa reale bizantina da un qualche pontefice, per poi rientrare in Occidente grazie a Pio II, che l’avrebbe messa in salvo dall’avanzare dei Turchi.

Una «casa» piú comoda e sicura Un paio di anni fa questo superbo capolavoro lasciò il Museo di Pienza per i laboratori di restauro della Pinacoteca Nazionale di Siena: aveva bisogno di manutenzione e, soprattutto, occorreva far sí che in futuro potesse «riposare» in maniera piú comoda e sicura nella sua «casa». Mentre le restauratrici

In alto il piviale di Pio II dopo il restauro. Pienza, Museo Diocesano. In basso una veduta di Pienza. Maria Giorgi e Graziella Palei, sotto lo sguardo attendo di Laura Martini e con la collaborazione di Isetta Tosini dell’Opificio delle Pietre Dure, ne verificavano lo stato di conservazione, il climatologo dello stesso Opificio, Roberto Boddi, valutava quali dovessero essere le piú opportune condizioni climatiche per assicurare il migliore futuro possibile al piviale. Si è cosí provveduto, grazie alla perizia di Etruria Musei, a intervenire sulla teca lignea piccolominea che custodisce il piviale, «climatizzandola» e facendola poggiare a terra, con una inclinazione di 40°, cosí da evitare i pericolosi sollevamenti del tessuto dovuti al posizionamento verticale. Ormai rientrato a Pienza, il piviale può finalmente essere presentato nella sua nuova veste, accompagnato da rinnovati apparati didattici. Gabriele Fattorini

giugno

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Ante prima

Nella città dell’oro bianco appuntamenti •

Sul finire del Trecento, Chioggia fu coinvolta nella guerra fra le repubbliche marinare di Venezia e Genova. La sua liberazione da parte delle armate veneziane viene ricordata dal Palio della Marciliana

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el XIV secolo il benessere di Chioggia – oggi importante centro peschiero dell’alto Adriatico – derivava principalmente dal commercio del sale, prodotto in numerosi fondamenti della laguna veneziana. Torri e castelli proteggevano l’oro bianco, fonte di ricchezza, ma anche obiettivo ambizioso delle signorie circostanti. Nel 1290 i Chioggiotti assalirono e distrussero una fortificazione eretta dai Padovani in laguna, a Petta di Bo’, per realizzarvi attorno alcune saline; dopodiché, nel 1310, confermarono le loro doti militari accorrendo in soccorso del doge di Venezia e salvandolo dalla congiura di Baiamonte Tiepolo. Nel 1336 si concluse con successo anche la guerra contro il veronese Mastino della Scala, che vide Chioggia quartier generale della coalizione antiscaligera. Poi, nel 1378, scoppiò la guerra tra le repubbliche marinare di Genova e Venezia, per l’egemonia degli scali commerciali d’Oriente. Nell’agosto dell’anno successivo i Genovesi sconfissero la flotta veneziana a Pola e, assieme a un esercito padovano alleato, con un assalto combinato da terra e da mare, conquistarono

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Chioggia e vi si asserragliarono. La città restò nelle loro mani fino al 24 giugno 1380, quando le armate veneziane la liberarono.

Il doge nella città liberata Oggi, nel terzo week end di giugno (quest’anno sabato 16 e domenica 17), a ricordo dell’ingresso trionfale del doge nella città liberata, si celebra il Palio della Marciliana. Per due giorni Chioggia si anima di personaggi e scene di vita medievale: artigiani, salinai, lavandaie, fornai, ricamatrici, osti, contadini, ragazzi intenti a giocare, armati impegnati in esercizi militari. Lungo corso del Popolo vengono allestiti anche banchetti e taverne. Il nome della rievocazione deriva dalla marciliana, l’antica nave costruita nei cantieri di Chioggia e destinata al piccolo commercio, detta magna quando raggiungeva tonnellaggi considerevoli. Per tutto il Medioevo, fino alla fine del Settecento, centinaia di marciliane percorsero l’Adriatico e il Mediterraneo orientale. Nella giornata di domenica le contrade di Montalbano, Sant’Andrea, San Giacomo, San Martino e San Michele Arcangelo si sfidano nel

Palio della Balestra, tradizione risalente al Trecento. La cittadina lagunare è inoltre animata da un fastoso corteggio storico, aperto dal gonfalone di città e composto da tamburini, armigeri, dal podestà, dal cancelliere grande, dai milites del castello delle Saline, dai gonfaloni delle contrade, da cavalieri e dame. Colonna sonora della rievocazione è il gruppo dei Musici de Clugia, che accompagnano i milites nella moresca veneziana, una danza armata che si rappresentava in occasione di celebrazioni e feste nei territori della Serenissima. Tiziano Zaccaria giugno

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Ante prima

Teodolinda all’altare appuntamenti • Nel 590, rimasta vedova di Autari, la regina longobarda sposò

Agilulfo a Lomello. Cittadina lombarda che ogni anno rievoca il felice evento con una grande festa che si snoda fra i tesori del suo patrimonio artistico

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l borgo di Lomello (in provincia di Pavia), placidamente adagiato tra le risaie della zona, nel 1296 diede i natali allo storico e cartografo Opinino de Canistris e la sua lunga storia si perde davvero nella notte dei tempi. La località, citata per la prima volta da Tolomeo nel II secolo d.C. e segnalata negli itinerari romani come mansio, cioè come stazione militare e di rifornimento sulla via che da Pavia

portava a Torino e alla Gallia, nell’Alto Medioevo era chiamata Laumellum e costituiva la sede di un ricco comitatus (contea), attraversato da un folto gruppo di percorsi secondari, che a raggiera abbracciavano l’intera zona. Non è un caso, quindi, che proprio la sua denominazione, di origine celtica, abbia generato il sostantivo Lomellina, tuttora esteso all’area

In alto Lomello. Una delle aree destinate alla rievocazione storica, allestita nei pressi del battistero altomedievale di S. Giovanni ad Fontes. A sinistra momenti della Grande festa longobarda a ridosso della basilica di S. Maria Maggiore.

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circostante, delimitata a nord-est e a nord-ovest dalla sponda destra dell’Agogna, a occidente dal Sesia e a meridione dal Po.

Matrimonio reale A Lomello – riporta Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum (III, 35,15-30) –, in un edificio religioso paleocristiano, probabilmente l’odierna cripta della basilica di S.

Maria Maggiore, nel 590 la regina Teodolinda, vedova del re Autari, sposò il longobardo Agilulfo, duca di Torino. Da alcuni anni questo importante e gioioso avvenimento viene celebrato nella Grande festa longobarda per le nozze di Teodolinda, che, giunta all’ottava edizione, si svolge durante il week end del 16 e 17 giugno. L’incontro tra i promessi sposi è fissato alle 19,00 del sabato e festeggiato alle 20,00 con un sontuoso banchetto longobardo. La rievocazione della cerimonia nuziale, preceduta dal corteo reale, giugno

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Alla scoperta di Lomello e del suo territorio Da fine marzo a fine novembre ogni domenica la Pro Loco di Lomello organizza itinerari guidati nel centro storico. La visita, di circa un’ora e mezza, comprende la basilica di S. Maria Maggiore, il battistero di S. Giovanni ad Fontes, il castello Crivelli e la chiesa di S. Michele, custode della reliquia della Santa Croce. Inoltre chi lo desidera, può partecipare al tour «All’origine del Romanico», che prevede soste anche nelle vicine località di Velezzo Lomellina (battistero di S. Giovanni Battista e chiesa pievana di S. Maria Maggiore) e Breme (abbazia di S. Pietro). In alternativa da Lomello si può proseguire al castello di Sartirana, con la mostra permanente dello stilista Ken Scott e l’inconsueto percorso di archeologia industriale nella «Pila», la vecchia riseria all’interno del maniero. è in programma nella basilica di S. Maria Maggiore alle 11,00 di domenica, con una Santa Messa officiata e cantata in latino. Al termine della funzione religiosa si ha la «Consegna dei doni» alla coppia. Poi, tutti a pranzo alla «Taberna della Regina» o alla «Locanda del Pellegrino», con porchetta, arrosticini e vin speziato. Nel corso dei due giorni di festa gli appassionati di Medioevo avranno

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inoltre l’opportunità di trascorrere una «giornata da Longobardo».

Artigiani, arcieri e menestrelli Per l’occasione, infatti, il centro storico sarà animato con botteghe di antichi mestieri, un mercato e un accampamento di armigeri e arcieri. Spettacoli teatrali, falconieri, menestrelli, sfide di vario genere e giochi al campo divertiranno grandi e piccini, mentre visite

guidate animate, anche notturne, permetteranno di conoscere e apprezzare il notevole patrimonio storico-artistico locale. La basilica di S. Maria Maggiore, tra i piú suggestivi monumenti religiosi medievali della regione, è stata costruita nel Mille e risulta caratterizzata da una pianta a croce latina irregolare. Accanto alla millenaria chiesa si erge lo splendido battistero altomedievale di S. Giovanni ad Fontes, con al centro un fonte battesimale a immersione, di forma esagonale. Nelle immediate vicinanze si trovano poi il quattrocentesco castello Crivelli, dagli ampi saloni affrescati con soggetti mitologici e religiosi, e la chiesa di S. Michele, pregevole esempio di architettura religiosa romanico-lombarda. Per informazioni: Pro Loco di Lomello tel. 333 3907797; e-mail: prolocolomello@yahoo.it; http:// prolocolomello.blogspot.com Chiara Parente

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Ante prima

Il «ballo» delle casse appuntamenti • A Ovada, nell’Alto Monferrato

alessandrino, la festa di San Giovanni viene salutata da una processione assai colorata, durante la quale monumentali macchine devozionali vengono portate in corteo e poi fatte ondeggiare ritmicamente tra la folla

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utti gli anni, il 24 giugno, Ovada, cittadina dell’Alto Monferrato alessandrino adagiata in un terrazzamento naturale alla confluenza dei torrenti Stura e Orba, celebra la ricorrenza di San Giovanni con una solenne processione dagli evidenti influssi liguri. L’appuntamento, tra i principali eventi religiosi nella diocesi di Acqui Terme, è organizzato dalla Veneranda Confraternita della SS. Trinità, che ha sede a Ovada, nell’oratorio di S. Giovanni Battista. Non si hanno notizie certe sulla nascita della manifestazione devozionale, ma l’esistenza del tempietto e dell’associazione di Disciplini nel borgo è attestata almeno dal 1464 e la cerimonia, amalgama di pietà popolare e tradizionali momenti del calendario contadino, connessi a rituali propiziatori per la fertilità della terra, risulterebbe il patrimonio spirituale ereditato dall’antica

processione messa in scena nel Medioevo dai confrati. Già prima del 1500 i soci si radunavano in un oratorio attiguo all’originaria parrocchiale. L’accesso alla chiesetta era consentito da una scala, poiché essa si trovava in posizione sopraelevata di alcuni metri rispetto al terreno, in precedenza utilizzato come area cimiteriale.

La parrocchiale cambia volto Nel 1791 l’antica parrocchiale, in condizioni precarie, venne chiusa al culto. La navata centrale e quella di sinistra furono concesse alla confraternita di San Sebastiano, ora non piú esistente, ma di cui rimane il ricordo nella denominazione «loggia di S. Sebastiano» e nella via S. Sebastiano. La nave destra, invece, fu acquistata dai soci di San Giovanni, che, per poter avere un’entrata indipendente al proprio oratorio, fecero costruire l’attuale

scalone d’ingresso. Quest’elemento architettonico conferisce alla facciata, alta e stretta, una connotazione stilistica assai distintiva, rendendo inoltre l’edificio sacro piú raccolto, rispetto alle costruzioni di Disciplini innalzate su piano strada. La Festa di S. Giovanni Battista inizia la sera del 23 giugno, con l’accensione dei falò nelle piazze del centro storico. Il giorno successivo, sin dalla mattina, i palazzi che affacciano su piazza S. Giovanni e su via S. Sebastiano sono ornati con bandiere bianche, contrassegnate dalla croce di San Giovanni, simbolo dell’unione, e frasche di rovere e castagno raccolte nei monti dell’Appennino circostante.

La sfilata dei «rossi» Nel pomeriggio, attorno alle 17,30, dall’oratorio di S. Giovanni Battista parte la processione, a cui partecipano i membri della confraternita, detta anche «dei rossi», per il colore della cappa indossata dagli adepti, i fedeli, la

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banda musicale e alcune associazioni laicali provenienti dalle località attorno e dalla vicina Liguria con i loro preziosi crocifissi. Lungo il percorso i penitenti portano a spalla due pesanti gruppi statuari intagliati nel legno, detti «casse», cadenzando la propria andatura al ritmo dettato dal battitore. Solitamente il ruolo di portatore si tramanda di generazione in generazione.

Le «macchine» in corteo Per tradizione i piú giovani sostengono la cassa che raffigura il Battesimo di Gesú nel Giordano, di dimensione e peso inferiore. Divenuti adulti, se ligi alle regole del sodalizio, trasportano la macchina processionale con la rappresentazione della Decollazione del Battista, opera dello scultore Anton Maria Maragliano, che, del peso di circa 16 q, è ritenuta un capolavoro del barocco liguregenovese. Nella sfilata sono innalzati anche il Crocifisso, eseguito tra il 1623 e il 1657 dal maestro genovese Giovanni Battista Bissoni, e alcune pregevoli mazze capitolari sei- e settecentesche in argento. Giunti nella piazzetta di S. Giovanni, come consuetudine, i portatori fanno «ballare» le casse, avanzando e retrocedendo a suon di musica, mentre ai lati la folla festante ne ammira l’abilità e la prestanza fisica. Il rientro all’oratorio con la scenografica salita in corsa dei portatori è previsto per le 18,30. La sera confratelli, devoti e turisti si riuniscono in piazza Garibaldi per il concerto della banda e la cena conviviale a base di ravioli, secondo l’usanza locale anche serviti in una tazza, con l’aggiunta di vino Dolcetto d’Ovada DOC Superiore. C. P.

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In basso e nella pagina accanto, in basso due momenti della processione che sfila per le vie di Ovada. Nella pagina accanto, in alto la «cassa» con la Decollazione di San Giovanni Battista, una macchina devozionale del peso di 16 q, realizzata da Anton Maria Maragliano.

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Ante prima

Uno sbarco di fortuna

appuntamenti • Nel 1175, mentre navigava

verso Venezia, papa Alessandro III fu colto da una tempesta e si salvò fortunosamente sulla costa picena. Dall’evento ebbe origine una festa, che può celebrarsi solo in un giorno ben preciso...

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assato il 2012, occorerà attendere il 2018 per poter rivedere la Sacra Giubilare di Grottammare (Ascoli Piceno): la rievocazione storica, infatti, va in scena solo quando il 1° luglio cade in domenica. Nella Sacra, che ha il clou nel corteo storico al quale partecipano oltre trecento figuranti, si intrecciano storia e leggenda. L’appuntamento ricorda l’ammaraggio di fortuna di papa Alessandro III sulla costa picena: nel 1175, mentre viaggiava alla volta di Venezia, per chiedere alla Serenissima di intervenire contro Federico Barbarossa, il pontefice fu colto da una tempesta che costrinse le sue imbarcazioni a riparare nel porto della cittadina.

abbaziale di Grottammare, ma solo di domenica 1° luglio. Il privilegio, confermato nel 1803 da papa Pio VII con la Bolla Ad augendam, continua a richiamare migliaia di fedeli, ai quali si aggiungono turisti affascinati dall’imponenza dell’evento, che ha

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moltitudine. Anche se il calendario dura per due settimane, a partire dal 24 giugno, lo spettacolo imperdibile è la sfilata che, muovendo dalla chiesa di S. Martino, percorre tutta la marina e le vie del centro storico.

Il papa in processione

Accolto dai monaci Lo accolsero i monaci camaldolesi di S. Martino, che lo invitarono a rimanere fino al primo di luglio, giorno in cui, presso il luogo di culto monastico, si svolgevano festeggiamenti legati alla memoria pagana del popolo piceno, ai quali si erano sovrapposti nel tempo i rituali religiosi, che facevano convergere molte persone proprio verso quel monastero. Alessandro III, commosso dallo slancio spirituale della folla, concesse l’indulgenza plenaria, come nell’Anno Santo, ai fedeli che negli anni a venire avessero preso parte alle celebrazioni nella chiesa

Per la Sacra Giubilare di Grottammare tornano a sfilare i Templari (in alto) e viene portata nelle strade la replica della galea papale di Alessandro III (in basso).

peraltro come cornice la splendida «riviera delle palme». Lo storico Giuseppe Speranza scrive che, già nel 1741, si erano mosse per la ricorrenza oltre 40mila persone, mentre quasi tre secoli prima, l’umanista Giovanni Garzoni citava genericamente una

La composizione del corteo è regolata da un rigido protocollo, che offre uno spaccato della società duecentesca. In testa ci sono suonatori di tamburi e di chiarine, quindi il papa scortato da Templari, poi cardinali e frati. Dietro alla galea papale – la barca del Duecento ricostruita dall’architetto Roberto Bua –, sfilano gli stendardi dei quartieri di Grottammare, con nobili, dame e damigelle. Infine è il turno del popolo: pescatori, artigiani, contadini, tessitrici, boscaioli, vasai, seguiti da giocolieri e musici. Alla rievocazione dell’evento medievale, si sono unite anche la messa in scena di episodi settecenteschi e una processione religiosa che ruota attorno alle reliquie dei santi. Info: tel. 0735.739240; www.comune.grottammare.ap.it Stefania Romani giugno

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Ante prima

Sia gloria a Carlo V appuntamenti • Nel nome di uno dei piú potenti imperatori della storia,

Bruxelles rivive i suoi fasti cinquecenteschi insieme alle rocambolesche avventure di una statua della Vergine, trafugata da Beatrice Soetkens, la Giovanna d’Arco locale

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gni estate, nel primo giovedí di luglio e nel martedí precedente (quest’anno martedí 3 e giovedí 5), la Grand Place di Bruxelles è percorsa dal corteo storico dell’Ommegang, termine fiammingo che singifica semplicemente «sfilata». L’evento rievoca la festa offerta il 2 giugno 1549 dal magistrato di Bruxelles in onore dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, una delle piú importanti figure storiche del Cinquecento, incoronato re di Spagna, re d’Italia, arciduca d’Austria e imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, padrone di un dominio talmente vasto che gli fu attribuita l’affermazione secondo cui sul suo regno non tramontava mai il sole. Il corteo dell’Ommegang si dispiega fra bandiere e stendardi, aprendosi coi figuranti che interpretano Carlo V d’Asburgo e gli altri personaggi della sua famiglia e della sua corte, seguiti dalla nobiltà, dai militari, dal clero, dai ceti medi, dai rappresentanti delle professioni e, infine, dal popolo.

tessuto. In questo contesto, nacque la leggenda di Beatrice, che si recò in barca sul fiume Senne fino ad Anversa, trafugando una statua della Vergine dalla Cattedrale. Nel ritorno a Bruxelles, la sua barca finí sull’isola del Sablon e la popolazione decise che la statua doveva restare in quel

La Madonna rubata L’Ommegang era legato in passato anche a Beatrice Soetkens, una donna che, nella tradizione popolare, è considerata una sorta di Giovanna d’Arco belga. Nel 1348, durante il regno di Giovanni III duca di Brabante, Bruxelles contava 40 000 abitanti, era circondata da possenti mura e prosperava soprattutto grazie all’industria del

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luogo per essere venerata. Venne cosí realizzata la chiesa di Notre-Dame du Sablon, attorno alla quale, ogni anno, si iniziò a svolgere una solenne processione con l’immagine della Vergine. L’Ommegang nacque sulla base di questo profondo sentimento di fede, poi, poco alla volta, la

processione perse il suo carattere religioso e divenne una sfilata laica, per sfoggiare le opulenze di Bruxelles durante il Rinascimento.

Come all’epoca di Carlo V Oggi il corteo si forma davanti alla chiesa della Notre-Dame du Sablon, dirigendosi poi verso la Grand Place (vedi foto), dove lo spettacolo inizia alle 21,00 (posti a sedere a pagamento). Oltre un migliaio di figuranti fanno rivivere l’epoca di Carlo V, mentre una voce narrante presenta i vari protagonisti. Nel pomeriggio e in serata, in piazza del Grand Sablon, vengono organizzate animazioni medievali, un concorso di tiro alla balestra e tornei a cavallo. La chiesa della Notre-Dame du Sablon è uno degli edifici piú importanti di Bruxelles e un vero capolavoro dello stile gotico brabantino. La costruzione fu intrapresa alla fine del XIV secolo e portata a termine in pieno XV secolo. L’edificio – che prese il posto di una piú antica cappella fatta costruire dai balestrieri della città –, dai sublimi particolari decorativi architettonici, è rimasto pressoché intatto nei secoli, senza subire particolari aggiunte o manipolazioni. L’interno, di ampie dimensioni e caratterizzato da volte a crociera e grandi polifore, è diviso in cinque navate da pilastri a fascio nelle navate laterali, e rotondi nella navata centrale. T. Z.

giugno

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agenda del del mese mese

a cura di Stefano Mammini

Mostre Mantova Vincenzo Gonzaga. Il fasto del potere U Museo Diocesano fino al 10 giugno

Un’ottantina di opere, tra gioielli, dipinti, armature, incisioni, tessuti, perlopiú inediti, delineano la figura di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato dal 1587 al 1612, la

cui corte si misurava per magnificenza e raffinatezza con le maggiori d’Europa. L’esposizione ha una preziosa appendice nella reggia di Palazzo Ducale, di cui, per l’occasione, vengono aperti tutti gli ambienti dell’appartamento ducale di Vincenzo. info tel. 0376.320602; www.vincenzogonzaga.it siena La grande Piccola Maestà di Ambrogio Lorenzetti U Pinacoteca Nazionale di Siena fino al 17 giugno

Tavola di dimensioni contenute, la Piccola Maestà concentra in sé tutte le piú alte qualità dell’arte senese del Trecento ed è stata perciò scelta come oggetto di un’esposizione monografica che

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consente di leggere con facilità una creazione di altissimo livello formale, in cui si conciliano contenuti religiosi e sociali in modo esemplare, cosí come in gran parte dell’attività del suo coltissimo autore. info tel. 0577 41246; e-mail: sbsae-si.urp@ beniculturali.it Pau Gaston Fébus (1331-1391) Prince Soleil. Armas, amors e cassa U Musée national du

château de Pau

fino al 17 giugno

Una ricca selezione di manoscritti, oggetti d’arte, sculture, stoffe e documenti d’archivio ben testimonia il lusso e la raffinatezza della corte principesca di Gastone III, conte di Foix e signore di Béarn, vissuto dal 1331 al 1391, che giunse ad autoproclamarsi Fébus, cioè dio del Sole. Personaggio dai

multiformi interessi, il nobile francese fu grande conoscitore d’armi, d’amori e di caccia (come scrisse il suo fedele trovatore Peyre de Rius, «Armas, amors e cassa», da cui il titolo della mostra) e il suo nome è stato consegnato alla posterità proprio dal Livre de chasse, un manuale sull’arte venatoria e sui cani, sul quale è imperniato il percorso espositivo. info www. musee-chateau-pau.fr

mostra alla Rocca Malatestiana non è solo questo: gli scavi hanno restituito anche utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un sigillo in bronzo del Trecento perfettamente conservato. I reperti raccontano tre secoli di occupazione della

Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 24 giugno

Ci sono armonia, equilibrio e colore nelle ceramiche esposte a Montefiore Conca: piatti, vasellame e boccali forgiati dai maestri dell’arte del fuoco tra la metà del Trecento e il Cinquecento. Ma la

rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi (dagli inizi del XIV alla metà del XVI secolo), consentendo di ricostruire uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035

oppure 980179; www.archeobologna. beniculturali.it

parigi La Sant’Anna, ultimo capolavoro di Leonardo da Vinci U Museo del Louvre fino al 25 giugno

La Vergine con il Bambino e Sant’Anna è una delle composizioni piú ambiziose di Leonardo da Vinci, frutto di una lunga meditazione, che occupa il maestro negli ultimi vent’anni di vita. Il dipinto, famoso fin dal suo concepimento, solleva ancora oggi non pochi interrogativi circa l’identità del possibile committente, la sua realizzazione e le sue vicende in età antica. Scoperte e acquisizioni recenti hanno almeno in parte squarciato il velo delle incertezze, ma sono ancora molti i punti oscuri da chiarire. L’esposizione del Louvre nasce proprio con l’intento di fare il punto della situazione, presentando l’opera restaurata e, per la

mostre • Capolavori della maiolica castellana tra ‘500 U Teramo - Pinacoteca Civica

fino al 31 ottobre info tel. 0861 250873 o 24054; e-mail: info@teramomusei.it; www.teramomusei.it, www.teramoculturale.it

L

’esposizione presenta una selezione di duecentoventi capolavori, realizzati tra il Cinquecento e il Settecento, per la maggior parte inediti, provenienti da una delle collezioni piú prestigiose e complete nel panorama internazionale. I capolavori rendono omaggio all’enorme valore della manifattura di Castelli, grazie a un percorso rappresentativo per ogni epoca e per ogni famiglia di artisti, come i Pompei, i Cappelletti, i Gentili e i Grue, che hanno reso famosa la maiolica castellana in tutto il mondo. Questi due fattori hanno permesso una rilettura storica, iconografica e scientifica della produzione castellana e dei suoi artisti. Gli oggetti – brocche, fiasche, albarelli, chicchere, piatti e piattini – sono stati ordinati in un continuum narrativo in sequenza cronologica, a partire dalla produzione cinquecentesca, e per gruppi omogenei attribuibili allo stesso autore o alla sua famiglia. La giugno

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prima volta dalla morte di Leonardo, tutti i documenti a essa legati. info www.louvre.fr

nasce da due felici coincidenze: l’esistenza nelle collezioni pubbliche e negli edifici di culto veneziani di una serie di ritratti in cera a grandezza naturale e il centenario di Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs (Storia del Ritratto in cera), il primo saggio sulla storia del ritratto in cera dello storico dell’arte viennese Julius von Schlosser (vedi «Medioevo» n. 178, novembre 2011). info tel. 041.5200995; e-mail: info@fmcvenezia.it

venezia Avere una bella cera. Le figure in cera a Venezia e in Italia U Palazzo Fortuny fino al 26 giugno

L’esposizione, la prima mai realizzata al mondo sul tema della ceroplastica, analizza un campo poco indagato della storia dell’arte: quello delle figure in cera a grandezza naturale. Il progetto della mostra

Noventa di Piave Le memorie ritrovate U CEMA (Centro

Espositivo Multimediale dell’Archeologia), all’interno di Veneto Designer Outlet fino al 30 giugno

Le «memorie» esposte sono state ritrovate nell’antico e perduto convento delle Clarisse di S. Chiara a Padova, che fiorí tra il XIV e il XVIII secolo, ma che, negli anni Sessanta del secolo scorso, fu

demolito per erigere la Questura. Nel 2000, indagini archeologiche condotte nel cortile della Questura stessa hanno portato alla luce una struttura esagonale, residuo dell’impianto originario del convento. Sulla base dei materiali rinvenuti e delle notizie d’archivio sulle vicissitudini del monastero, si ipotizza che la struttura fosse impiegata come ghiacciaia-dispensa in epoca tardo-medievale

(XIII e XIV secolo) e sia stata poi adibita a immondezzaio in età rinascimentale (XV e XVI secolo). info tel. 0421 307738; www.noventartestoria.it Mamiano di Traversetolo (PR) Divina Commedia. Le visioni di Doré, Scaramuzza, Nattini U Fondazione Magnani Rocca fino al 1° luglio

La Fondazione Magnani Rocca propone una carrellata sulla fortuna di Dante fra Otto e Novecento, con le rappresentazioni della Divina Commedia firmate dai piú importanti illustratori del tempo. Il percorso espositivo si apre con il confronto fra Gustave Doré (1832-1883) e Francesco Scaramuzza (1803-1886) e prosegue con le opere di Amos Nattini (18921985), il principale illustratore dantesco nel Novecento. info www.magnanirocca.it

parigi Cluny, 1120. Alle soglie della Maior Ecclesia U Musée de Cluny fino al 2 luglio

L’esposizione è la storia di un capolavoro nel capolavoro, cioè del magnifico portale della chiesa abbaziale di Cluny III, oggi scomparsa. Scolpito e posto in opera tra il 1110 e il 1120, il portale è tra le espressioni piú alte della scultura monumentale borgognona. L’8 maggio 1810 l’opera fu demolita con l’esplosivo e smantellata. Poi, tra il 1928 e il 1950, l’archeologo statunitense Kenneth J. Conant ne avviò la riscoperta. E ora si può ammirarne la ricostituzione parziale: i frammenti piú significativi sono stati inseriti in una struttura monumentale (alta 7 m), che, dopo la mostra, verrà installata in maniera permanente nel Musée d’art et

e terzo fuoco. La collezione Matricardi mostra intende proporre all’attenzione nazionale e internazionale la ceramica della manifattura castellana, dall’inizio del Cinquecento sino alla fine del Settecento, attraverso forme e colori tipici di questa produzione, magnificamente rappresentata dalla preziosa e ricca Collezione Matricardi, che si posiziona come una delle raccolte piú significative, insieme a quelle presenti in numerosi musei internazionali. L’evento espositivo presenta anche un mirabile esempio di collezionismo «illuminato», con oggetti di alta qualità, collezionati dall’inizio del Novecento. L’ingegner Giuseppe Matricardi, erede di una passione che ha animato tre generazioni, è riuscito a raccogliere un patrimonio artistico di enorme valenza storica e scientifica.

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ee motivi

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agenda del del mese mese d’archéologie di Cluny. Tra i materiali esposti, alcuni dei frammenti piú significativi fra quelli recuperati: la scultura che raffigura San Pietro, e il rilievo con l’aquila, simbolo di San Giovanni. info www. musee-moyenage.fr Urbino La Città Ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello U Galleria Nazionale delle Marche fino all’8 luglio

Scopo principale della mostra è quello di dimostrare come la tavola dipinta, conosciuta come Città Ideale rappresenti, insieme con i dipinti gemelli – col medesimo soggetto – di Berlino e Baltimora, il compendio della

civiltà rinascimentale fiorita a Urbino e nel Montefeltro, nella seconda metà del Quattrocento, grazie a Federico da Montefeltro. Accanto alla celebre tavola sono esposti altri dipinti, nonché sculture, tarsie lignee, disegni, medaglie, modelli lignei e codici miniati, che illustrano il felicissimo momento rinascimentale vissuto dalla piccola capitale, stretta tra i monti e le

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colline del Montefeltro, cerniera fra le terre di Toscana, Umbria, Marche e Romagna. info tel. 199 757 518; www.mostracittaideale.it strasburgo Nikolaus de Leyde, scultore del XV secolo. Uno sguardo moderno U Musée de l’Œuvre Notre-Dame fino all’8 luglio

Considerato fra i maggiori artisi della fine del Quattrocento, lo scultore Nikolaus Gerhaert, detto da Leida, si fece portatore di innovazioni decisive sia sul piano formale che iconografico. Quella di Strasburgo, è la prima esposizione monografica a lui dedicata e presenta una parte dell’opera in legno e in pietra di Nikolaus, fra cui la serie dei quattro busti maschili in gres che comprende una celebre versione, in chiave malinconica, dell’Uomo appoggiato sul gomito. Quest’ultimo, fu uno dei soggetti prediletti dall’artista, che lo caricò di tutta la sua capacità innovativa, attribuendogli una dimensione psicologica raramente raggiunta dai suoi numerosi imitatori. info www.musees. strasbourg.eu New york Bisanzio e l’Islam: un’epoca di transizione U The Metropolitan Museum of Art fino all’8 luglio

Agli inizi del VII secolo, i territori del Mediterraneo orientale

avevano un’importanza cruciale per l’impero bizantino, in termini sia politici che religiosi. Ciononostante, alla fine del medesimo secolo, le stesse regioni divennero una componente fondamentale del mondo islamico. A questo momento di passaggio, quasi una sorta di ribaltamento, è dedicata l’esposizione del Metropolitan Museum, che documenta i fenomeni di acculturazione e innovazione che segnarono i primi secoli del lungo rapporto che si instaurò fra i due mondi. info www.metmuseum.org Parigi Cima da Conegliano. Maestro del Rinascimento italiano U Musée du Luxembourg fino al 15 luglio

La carriera di Cima da Conegliano (al secolo Giambattista Cima), uno dei principali esponenti della pittura veneta tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, viene ripercorsa attraverso una selezione

composta da oltre una trentina dei suoi dipinti. Il successo di Cima derivò, innanzitutto, dalla perfezione della sua arte, che si basava sull’accuratezza del disegno, sulla padronanza della pittura a olio (che, all’epoca, era una tecnica relativamente nuova) e sull’intensità cromatica della sua tavolozza. Il virtuosismo di cui era capace gli permise di realizzare composizioni caratterizzate da una precisione eccezionale nella rappresentazione dei dettagli, come la sfaccettatura di una pietra preziosa o gli intrecci di colori di un arazzo. Ma, soprattutto, l’artista seppe imporsi per la resa dei volti dei suoi personaggi, sempre caratterizzati da sguardi intensissimi, spesso malinconici, che conferí alle sue tele una profonda umanità. info www. museeduluxembourg.fr parigi Bellezza animale U Grand Palais fino al 16 luglio

Avvalendosi di opere di grande pregio, l’esposizione parigina esplora i rapporti intrattenuti dagli artisti, tra i quali vi sono molti dei maestri della pittura e della scultura di ogni tempo, con gli animali: vengono documentati il legame fra arte e scienza, la sete di conoscenza del mondo animale e il fascino che quest’ultimo continua ancora oggi a esercitare. info www.rmngp.fr

como La dinastia Brueghel U Villa Olmo fino al 29 luglio

La mostra celebra il genio della stirpe dei Brueghel che, tra il 1500 e il 1600, ha segnato con il suo talento e la sua visione dell’umanità, a volte grottesca, la storia dell’arte europea dei secoli a venire. Le

opere di Pieter Brueghel il Vecchio e della sua genealogia scandiscono un itinerario attraverso l’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento, nel quale s’incontra come ideale compagno di viaggio Pieter Paul Rubens. Inoltre, il percorso espositivo è aperto dai Sette peccati capitali di Hieronymus Bosch – opera che giunge in Italia per la prima volta – e che è stata inserita perché il suo autore fu il punto di riferimento stilistico di Pieter Brueghel il Vecchio. info tel. 031 252352 oppure 571979; fax 031 3385561; www. grandimostrecomo.it perugia, orvieto, città di castello Luca Signorelli, «de ingegno et spirto pelegrino» fino al 26 agosto

La vicenda umana e artistica di Luca Signorelli è al centro giugno

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della grande mostra articolata nella Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, nel Duomo, nel Museo dell’Opera e nella chiesa dei Santissimi Apostoli di Orvieto, e nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello. A Perugia è illustrata l’intera carriera artistica di Signorelli, a eccezione di alcuni dipinti della maturità, presentati a Città di Castello. A Orvieto, nel Museo dell’Opera del Duomo (MODO), viene individuato uno spazio, interamente dedicato all’artista cortonese, in cui è allestito il cantiere di restauro della Pala di Paciano aperto al pubblico e dove sono esposti la Santa Maria Maddalena e il raro dipinto su tegola di terracotta che ritrae Luca Signorelli e Niccolò Franchi. Nel monumentale palazzo Vitelli alla Cannoniera di Città di Castello, costruito agli inizi del XVI secolo dall’omonima casata magnatizia alla quale Signorelli si legò fin da giovane, è allestito l’ultimo segmento espositivo. info tel. 199 757513; www.mostrasignorelli.it

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roma Lux in Arcana. L’Archivio Segreto Vaticano si rivela U Musei Capitolini fino al 9 settembre

Dall’Archivio Segreto Vaticano si offrono all’ammirazione del pubblico 100 originali e preziosissimi documenti, tra cui la bolla di deposizione di Federico II, gli atti del processo a Galileo Galilei e la bolla di scomunica di Martin Lutero. Attraverso i piú conosciuti social network è possibile seguire le attività collaterali alla mostra e sul sito www.luxinarcana. org, settimana dopo settimana, si possono scoprire curiosità e approfondimenti sui singoli documenti. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.luxinarcana.org, www.museicapitolini.org, www.060608.it firenze Fabulae pictae. Miti e storie nelle maioliche del Rinascimento U Museo Nazionale del Bargello fino al 16 settembre

La mostra nasce dall’attrattiva che possono esercitare il fasto principesco e la varietà decorativa delle maioliche «istoriate». Prodotte specialmente dalle manifatture di Faenza e di Urbino, nel Cinquecento esse incontrarono il massimo favore delle corti e dei signori di tutta Europa, coniugando alle forme maestose e complesse (talvolta addirittura

monumentali) della ceramica, la suggestione della grande pittura contemporanea e dei suoi illustri soggetti di mitologia classica e di storia antica, contribuendo allo sviluppo di uno stile pittorico «che – come scrive Cristina Acidini – ebbe nella maiolica, a

causa e in forza delle tinte limitate, le sue riconoscibili tipicità: gli azzurri intensi di cieli e acque, i gialli luminosi, i verdi freschi, tutti condotti con un ductus ampio e sicuro, che raggiunse nelle grottesche “alla raffaellesca” prove di guizzante compendiario». info tel. 055 294883 Rieti FRANCESCO, IL SANTO. Capolavori nei secoli e dal territorio reatino U Museo Civico, Museo dei Beni Ecclesiastici e Officine Fondazione Varrone fino al 4 novembre (dal 16 giugno)

Articolata in tre sedi espositive, la mostra propone alcuni episodi artistici legati alla figura del Santo di Assisi, allo

scopo di promuoverne la conoscenza sul piano biografico e iconografico e di valorizzare l’importanza del territorio reatino nella storia del francescanesimo. La centralità dell’area laziale per la definizione e la diffusione dell’immagine di Francesco è attestata del resto dalla presenza della piú antica rappresentazione del Santo nella cappella di San Gregorio nel Sacro Speco di Subiaco, tanto che la regione può essere certamente considerata una meta privilegiata per la conoscenza complessiva degli aspetti storici e artistici legati all’origine e alla diffusione della Regola francescana. info tel.: 0746.259291 e-mail: info@ francescoilsanto.it; www.francescoilsanto.it Venafro Splendori del Medioevo. L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno U Museo Archeologico, ex Convento di Santa Chiara fino al 4 novembre

La mostra ripercorre la storia dell’abbazia, a partire dalle sue fasi piú antiche, alle quali

appartiene, tra i reperti piú importanti, l’altare affrescato del tardo VIII secolo proveniente dalla Chiesa Sud. Si prosegue con La rinascita carolingia, che presenta l’abbazia al massimo del suo splendore, quando l’abate Giosuè trasformò S. Vincenzo in uno dei piú grandi monasteri d’Europa. Alla metà del IX secolo l’abbazia annoverava ben nove chiese, tra cui la Basilica maior, in grado di gareggiare con le piú splendide chiese abbaziali dell’Europa carolingia. Dopo il saccheggio da parte di predoni arabi nell’881, la comunità dei monaci fu costretta a trasferirsi, ma, alla fine del X secolo, il monastero ebbe una fase di rinascita. Alla fine dell’XI secolo, però, di fronte alla comparsa dei Normanni, la comunità decise di trasferirsi sulla riva opposta del Volturno, per edificare un monastero interamente nuovo e fortificato. Chiude il percorso la sezione sulla presenza araba, di cui sono testimonianza significativa gli scacchi rinvenuti nel 1932 in una sepoltura di Venafro ed esposti in Molise per la prima volta. info tel. 0865 900742 Parigi Il vino nel Medioevo U Tour Jean Sans Peur fino all’11 novembre

Al centro dell’esposizione è il ruolo cruciale del vino nella società medievale,

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agenda del del mese mese descritto in un percorso articolato in cinque sezioni, con oltre un centinaio di documenti, e arricchito dalla ricostruzione di una taverna. Nel Medioevo si registra la massima diffusione dei vigneti e

al consumo smodato, perché, come illustrano alcuni dei documenti esposti, anche nell’Età di Mezzo l’ubriachezza veniva severamente condannata. info www. tourjeansanspeur.com Trento I CAVALIERI DELL’IMPERATORE. guerra e tornei nei castelli in arme U Castello del Buonconsiglio, Castel Beseno fino al 18 novembre (dal 23 giugno)

il vino, insieme al pane, è l’elemento base della dieta quotidiana, per uomini, donne, ma anche per i bambini! Caratteristica che non doveva però indurre

Il Castello del Buonconsiglio e Castel Beseno rivivono la stagione dei grandi tornei e delle parate rinascimentali, il clangore degli assalti all’arma bianca e i duelli cui erano affidati l’onore dei contendenti e delle loro dame sin’anco il destino di regni e principati. Protagonisti della mostra sono gli uomini d’arme che, vestiti d’acciaio, si scontravano in battaglia o esibivano la loro audacia e abilità nei tornei. A Castel Beseno, a essere messe in

scena saranno le battaglie, l’assedio, le armi e le strategie militari; al Castello del Buonconsiglio si respirerà invece l’atmosfera del

duello, dell’amor cortese e delle virtú eroiche. Un’occasione unica per ammirare pezzi provenienti da importanti armerie europee oltre

alla piú completa collezione al mondo di armi e armature da combattimento e da parata, proveniente dall’Arsenale di Graz. info www.buonconsiglio.it

Appuntamenti Anghiari Palio della Vittoria 29 giugno

Il lontano 29 giugno 1440 ai piedi del castello di Anghiari Fiorentini e Milanesi si affrontavano nella celeberrima Battaglia d’Anghiari, la stessa che Leonardo da Vinci dipinse nel Salone dei Cinquecento a Firenze e che Machiavelli descrisse tanto dettagliatamente. Nell’anniversario del fatto d’arme, ogni 29 giugno, il borgo toscano celebra l’evento con una festa solenne: il Palio della Vittoria. Per il Decimo anno consecutivo, riprendendo una tradizione nata piú di 500 anni fa per festeggiare la vittoria ottenuta sulla piana di Anghiari dai Fiorentini

sui Milanesi, cinque rappresentanti per ogni comune toscano e umbro si affronteranno in una corsa podistica che dalla Cappella della Vittoria (costruita sul luogo dello scontro armato) percorrerà i 1440 metri in ripida salita, fino alla centrale Piazza Baldaccio. La manifestazione avrà inizio a partire dalle 18,00 quando in Piazza Baldaccio si raduneranno corridori, corpi armati,

musici, figuranti e sbandieratori di Sansepolcro e di Arezzo, mentre dalla Ruga di Corso Matteotti arriverà in Piazza il Corteo storico della repubblica Fiorentina. Seguirà lo schieramento dei gonfaloni, la consegna delle divise ai corridori, l’annuncio del palio e della sfida. info tel. 0575 749279 o 789892; e-mail: proloco@anghiari.it o turismo@anghiari.it

Appuntamenti • Antiquitas U Ferrara - Piazzetta Municipale e Giardino delle Duchesse

dall’8 al 10 giugno info e-mail: info@antiquitas-ferrara.com; www.antiquitas-ferrara.com

G

razie alla collaborazione tra l’Università degli Studi di Ferrara e l’U.T.E.F., Università per l’Educazione permanente, città di Ferrara, da un’idea di Livio Zerbini è nata ANTIQUITAS, la manifestazione che ha l’intento di mettere in luce la «contemporaneità» dell’antichità, nonché focalizzare l’attenzione sulla valorizzazione dei siti e musei archeologici. L’evento si svolge a Ferrara dall’8 al 10 giugno, presso l’Università di Ferrara e nel centro storico della città estense, e, piú precisamente, nella piazzetta Municipale e nel Giardino delle Duchesse. Per questa prima edizione, volendo coniugare la ricerca e la divulgazione, il programma prevede incontri e convegni, tra i quali l’anteprima di «ArcheoIncontri», il primo meeting dei lettori della rivista «Archeo», che si terrà venerdí 8 Giugno, dalle ore 10,00, presso l’Aula Magna dell’Università di Ferrara, nonché rievocazioni, con la partecipazione della Legio I Italica, e dimostrazioni di archeologia sperimentale. La manifestazione vedrà inoltre la partecipazione di archeologi, storici, studiosi e divulgatori, che si confronteranno sui temi dell’antichità, visti in una prospettiva di continuità storica. ANTIQUITAS sarà quindi un viaggio nel tempo, per far comprendere come il passato rappresenti non solo le radici della nostra identità, ma anche le piú solide fondamenta per il nostro futuro.

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giugno

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni

Il grande sogno del duca di Sassonia di Chiara Mercuri

Corona del Sacro Romano Impero, in oro, perle, smalti e pietre preziose, realizzata per l’incoronazione di Ottone I (912-973), nel 962 circa, con aggiunte di epoca successiva. Vienna, Hofburg (vedi anche il box alle pp. 40-41).


Nel 962, a un secolo e mezzo dalla morte di Carlo Magno, l’incoronazione a Roma di Ottone I segna la rinascita dell’istituzione imperiale, con l’avvio di una lunga serie di regnanti germanici. Prosegue cosí quella formidabile esperienza politica che, sotto la denominazione di «Sacro Romano Impero», attraverserà l’intera storia europea, dal Medioevo fino all’età moderna…

N N

el numero precedente, («Medioevo» 184, maggio 2012), è stata descritta la genesi e lo sviluppo di quello che è passato alla storia come «Impero carolingio» o «Sacro Romano Impero di Carlo Magno»; ovvero la creazione di un enorme Stato europeo, basato su una corona imperiale – cinta dal re dei Franchi, Carlo Magno – conferita dal papa di Roma. Da quell’impero continentale, che corrispondeva all’Europa occidentale, ebbero origine i tre grandi nuclei nazionali europei: la Germania, la Francia e l’Italia. Tali nazioni emersero come un insieme di caratteri culturali e sociali distintivi in un periodo ben preciso, e cioè nei difficili anni seguiti alla morte del figlio di Carlo, Ludovico il Pio, avvenuta nell’840. All’indomani della sua scomparsa, la delicata costruzione imperiale andò presto in crisi, sia a causa dei conflitti sorti tra gli eredi e i pretendenti, sia per le profonde differenze esistenti tra i territori e i popoli che li abitavano. Da tale crisi si poté uscire solo dividendo l’impero in tre tronconi. La Francia prese una strada autonoma e nazionale, e cosí avvenne – in parte – anche per la Germania e per l’Italia. Quest’ultima riprese, nell’estensione territoriale (l’Italia centro-settentrionale) e nell’espressione della sua capitale (Pavia), confini e ordinamenti molto vicini a quelli del regno longobardo a suo tempo annesso da Carlo Magno.

Quel simbolo di superiorità

Se alla morte di Carlo Magno la separazione dei vari territori che formavano l’ex impero carolingio fu un fenomeno quasi fisiologico, il problema dell’eredità imperiale restava spinoso. Solo la corona imperiale dava diritto a uno status «superiore», formale quanto ambiguo, garantito dalla vicinanza e tutela della sede pontificia. Nella cultura medievale, il papa era vicario di Cristo sulla terra, e la consacrazione dell’imperatore – che, seguendo la tradizione inaugurata da Carlo Magno, doveva avvenire proprio a Roma – era considerata una trasmissione di autorità, capace di elevare il sovrano al di sopra degli altri monarchi. Oggi una simile concezione simbolica e ideologica

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Particolare del pastorale di Erkanbald, abate di Fulda dal 997 al 1011 e arcivescovo di Magonza dal 1011 al 1020. Hildesheim, Museo Diocesano.

può forse risultare incomprensibile, ma appariva del tutto fondata nell’immaginario degli uomini medievali, educati alla suggestione della liturgia e del rito. Dai lidi scozzesi alle foreste balcaniche, l’uomo medievale riconosceva l’importanza dell’incoronazione di un imperatore da parte dell’autorità religiosa, e questo legame inscindibile, stabilitosi con l’incoronazione di Carlo Magno da parte di Leone III nella notte di Natale dell’800, rimase quindi indissolubile, anche quando l’impero carolingio vacillò e cadde in frantumi, e le strade dei diversi regni nazionali sembrarono prendere tracciati sempre piú divergenti. Il papa rivolgeva il suo sguardo verso l’imperatore; ne chiedeva la protezione, ne sollecitava l’intervento, ne criticava l’azione. Quest’ultimo, non poteva restare indifferente all’attività del pontefice, alle sue nomine, alle sue preferenze, al suo atteggiamento nella politica diplomatica europea e mediterranea. Ora, la crisi dell’impero carolingio fece perdere valore a tale scambio reciproco di facoltà; la corona imperiale divenne una preda che feudatari e pretendenti erano disposti ad assicurarsi con azioni di forza e prepotenze, e, quasi di conseguenza, anche sulla cattedra di Pietro salirono personaggi discussi e violenti. Finché, alla metà del secolo X, le cose cambiarono. L’indebolimento dell’impero e delle monarchie guidate dai successori di Carlo Magno non fu causato soltanto dai conflitti interni. Vi furono aggressioni provocate da popoli che si stavano affacciando per la prima volta sulla scena europea (vedi box alla p. 35). Tra questi vi erano i Normanni, gli antichi Vichinghi scandinavi, che erano riusciti a creare un potere autonomo nel Nord della Francia (la Normandia); nell’area danubiana, si erano invece insediati gli Ungari (o Magiari), popola-

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni

Gli imperatori ottoniani e salici Enrico I di Sassonia

l’Uccellatore (876-936) Re di Germania dal 919

Editta = (1) Ottone I (2) il Grande d’Inghilterra (912-973) Re di Germania dal 936 e imperatore dal 962

= Adelaide di Borgogna

=

Enrico I Duca di Baviera

=

Enrico II Duca di Baviera

Liudolfo Duca di Svevia

Matilde

Giuditta di Baviera

Bruno I Arcivescovo di Colonia († 965)

Gerberga (1) = Gilberto di Lotaringia (2) = Luigi IV

Re di Francia

Gisella di Borgogna

Enrico II

lo Zoppo (o il Santo) (973-1024) Imperatore dal 1002

Ottone II

(955-983) Imperatore e re di Germania e Italia dal 973

=

Liutgarda

Teofano di Bisanzio

Ottone III = Adelaide

Enrico di Spira

Agnese di Poitou Berta di Savoia

=

Corrado II

=

= Corrado il Rosso Duca di Lorena

Bruno (papa Gregorio V dal 996) († 999)

il Salico (990-1039) Re di Germania dal 1024, re d’Italia dal 1026 e imperatore dal 1027

=

=

Ugo il Grande Ugo Capeto († 996) Re di Francia dal 987

Ottone di Worms Duca di Svevia e Carinzia

(980-1002) Re di Germania dal 983 e imperatore dal 996

Gisella di Svevia

Edvige

Enrico III

Corrado

Guglielmo Vescovo di Strasburgo

Nella pagina accanto fibula in oro e pietre preziose con aquila smaltata appartenuta all’imperatrice Gisella di Svevia, moglie di Corrado II il Salico (990-1039), sovrano del Sacro Romano Impero dal 1027 al 1039. XI sec. Magonza, Landesmuseum.

il Nero (1017-1056) Imperatore dal 1039

Enrico IV

(1050-1106) Imperatore dal 1056

Enrico V

(1081-1125) Re di Germania dal 1106 e imperatore dal 1111

A destra Magdeburgo, Cattedrale. Le statue che ritraggono Ottone I e la prima moglie Editta d’Inghilterra (o, secondo una diversa interpretazione, la Chiesa e Cristo). 1245 circa.

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zione di stirpe asiatica che, dopo essersi aperta la strada tra i popoli slavi, minacciava la Germania meridionale e l’Italia settentrionale con scorrerie devastanti. Nel Sud dell’Italia e lungo le coste del Mediterraneo occidentale intanto, incombeva la minaccia araba che, sebbene avesse concluso la sua fase piú espansiva, rappresentava un pericolo soprattutto nelle aree costiere. A fronte di tanti complessi pericoli, il potere centrale si rivelò quasi impotente. La capacità di risposta militare di imperatori e re si mostrò debole e lenta, a causa della vastità dei territori amministrati e del decentramento dei poteri portato avanti con il feudalesimo. Furono invece i feudatari dei territori aggrediti a dimostrarsi in grado di mobilitare rapidamente la cavalleria, di fortificare i borghi e, soprattutto, di armare i «propri» contadini. Fu quanto avvenne a Parigi, dove i Normanni vennero fermati dal conte Eude da cui ebbe origine la dinastia destinata a sostituire i Carolingi sul trono di Francia, quella dei Capetingi. In Italia, Berengario, marchese del Friuli, si trovò a fronteggiare da solo, con le proprie forze, Slavi e Ungari. Di lí a poco ascese al trono d’Italia – e poi a quello imperiale – con il nome di Berengario I. In modo simile, i feudatari del basso Lazio, i conti di Tuscolo (presso Frascati), impedirono agli Arabi – piú noti all’epoca col nome di «Saraceni» – di avanzare, dagli avamposti

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dell’Italia meridionale, verso Roma. Questi nobili non mancarono, poi, di far sentire il proprio peso sulla vita della città e sulle scelte della stessa Curia pontificia. L’autorità imperiale si era dunque trasformata in una scatola vuota. Persino i regni nazionali, in questo secolo di emergenza militare, sembravano macchine troppo lente per reagire agli attacchi provenienti dall’esterno. E proprio in questi decenni, tra i grandi proprietari terrieri (i feudatari) e i contadini che vivevano e lavoravano le loro terre, si stabilí un legame di protezione e fedeltà che si sciolse solo molti secoli dopo, giungendo in alcune regioni sino all’epoca moderna. Allo stesso tempo, questi feudatari finirono per convincersi che fosse inutile e perfino dannoso cedere parte della propria forza militare ed economica al potere centrale, considerato inefficiente e troppo distante per agire risolutamente. Per tale ragione si trasformarono nei peggiori nemici del proprio sovrano.

Un trono senza pretendenti

Tale processo, quindi, complesso ma rapido, da un lato aveva indebolito il prestigio e il potere dell’autorità imperiale, e dall’altro aveva esposto la Chiesa ai capricci e alle azioni di forza della nobiltà laziale, che fu presto in grado di spodestare pontefici e nominarne di propri, trattando la cattedra di Pietro come un annesso del proprio feudo. Dopo la morte – nel 924 – di Berengario I, la stessa corona imperiale era divenuta vacante, e non aveva piú avuto pretendenti. Questo stato di anarchia e disordine andò avanti fino a quando sul trono dei Germani salí un uomo che, per qualità personali e capacità militari, seppe riprendere il percorso tracciato centocinquant’anni prima da Carlo Magno e resuscitare l’impero «dei Romani»: il suo nome era Ottone. Il suo Sacro Romano Impero ebbe una vita travagliata, ma millenaria. Alla dinastia sassone, della quale Ottone fu capostipite, successe quella sveva e non meno prestigiosa degli Hohenstaufen, che tra i suoi esponenti annoverava Federico Barbarossa, e alla quale seguí poi quella austriaca degli Asburgo. Il Sacro Romano Impero creato da Ottone ebbe formalmente termine solo nel 1806, quando fu sconfitto dai cannoni di Napoleone Bonaparte. Ottone divenne duca di Sassonia e re dei Franchi Orientali nel 936, ereditando il regno dal padre Enrico. La Germania corrispondeva allora all’antica Francia orientale: una congerie di popoli, per la maggior parte di lingua ed etnia germanica, frutto della divisione post-carolingia (vedi «Medioevo» n. 184, maggio 2012). Ottone seguí solo in parte le orme del padre: mentre

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni A sinistra Ottone I incoronato dalla Vergine, miniatura di scuola italiana dal Sacramentario di San Varmondo. X sec. Ivrea, Biblioteca Capitolare. In basso papa Giovanni XII (955-964) si vendica di due cardinali avversari, accecandone uno e facendo tagliare la mano a un altro. Miniatura da un codice di scuola francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La miniatura allude a un episodio avvenuto nel

964, nel quadro dei duri contrasti scatenati dal Privilegio Ottoniano. Dopo l’incoronazione (962), Ottone I fece rientro in Germania e Giovanni XII s’intese con i suoi rivali, per cui, a un nuovo intervento di Ottone a Roma, fuggí a Tivoli (963); presente Ottone, un sinodo depose Giovanni XII ed elesse un nuovo papa (Leone VIII). Allontanatosi di nuovo l’imperatore, Giovanni XII tornò a Roma, fu reintegrato e si vendicò degli avversari.

quest’ultimo era rimasto quasi sempre ostaggio della grande nobiltà tedesca, egli mostrò da subito un’attitudine diversa. Sconfisse in battaglia i feudatari ribelli di Baviera e Turingia, e riuní sotto la propria autorità l’intero regno. Si impegnò in prima persona contro i nemici che si trovavano a nord ed est, e che, da tempo, saccheggiavano i villaggi e le città della Germania: i Danesi, di stirpe vichinga, gli Ungari e le popolazioni slave. Ottone sconfisse, uno dopo l’altro, i nemici dell’impero: impose tributi alla Polonia e alla Boemia, ricacciò indietro i Danesi e fermò per sempre le invasioni degli Ungari. Ciò gli permise, infine, di volgere il suo sguardo verso sud. Qui si estendeva il regno d’Italia, che corrispondeva all’intera Italia centro-settentrionale con l’aggiunta di alcune regioni alpine oggi appartenenti alla Svizzera e alla Francia. Un regno segnato, oltre che dalla continua minaccia degli Ungari, da una lotta sfiancante coi Bizantini e con gli Arabi nel sud. Ma, soprattutto, un regno travagliato da crudeli e prolungate guerre interne tra grandi feudatari: la corte della capitale, Pavia, era preda di lotte feroci e continui tradimenti. Minacciata da uno degli usurpatori, Adelaide, giovane vedova del re d’Italia Lotario II, chiamò in suo soccorso Ottone: questi, col suo seguito militare, giunse a Pavia, sconfisse i feudatari locali e sposò Adelaide.

Il «germanico» imperatore d’Italia

Cosí, dopo decenni di anarchia, la corona di Germania e quella d’Italia si riunirono. Per i due paesi l’evento ebbe conseguenze epocali. Ottone, infatti, sulle orme di Carlo Magno, decise – invitato dal papa – di scendere a Roma. Dopo quarant’anni di «latitanza», la corona imperiale fu posta sul capo del re sassone da papa Giovanni XII, il 2 febbraio del 962. Il cronista milanese Arnolfo, nel suo Liber gestorum recentium, scrisse: «egli fu il primo germanico a diventare imperatore d’Italia».

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Il Privilegium Othonis

L’elezione dei pontefici «Nel nome del Signore Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. Io, Ottone, per grazia di Dio imperatore Augusto, e con noi nostro figlio Ottone, re glorioso, garantiamo e confermiamo con questo patto a te, beato Pietro, principe degli apostoli e clavigero del regno dei cieli, e per te al tuo vicario il signore Giovanni XII, pontefice supremo e papa universale». Cosí aveva inizio il Privilegio (o Diploma) Ottoniano, cioè l’accordo sottoscritto, a pochi giorni dall’incoronazione,

da Ottone I con il papa Giovanni XII. Nel documento, il papa otteneva il riconoscimento e la definitiva concessione da parte dell’imperatore, dei territori che costituivano il dominio temporale della Chiesa, già a suo tempo concessi dai Carolingi. In cambio, il pontefice accettava una formula – ambigua e assai discussa – secondo la quale era necessario una sorta di benestare imperiale per l’elezione del pontefice. Tale formula diede presto vita a contrasti tra l’imperatore e Giovanni XII, che si trovò costretto a fuggire da Roma. In tale occasione l’imperatore ne approfittò per procedere direttamente alla nomina imperiale, operando un’ulteriore interpolazione del documento, in base alla quale il benestare diventava – di fatto – una vera e propria nomina. In effetti, soprattutto intorno al Mille, alcuni ecclesiastici di piena fiducia della corte divennero pontefici per diretta volontà dell’imperatore. È il caso del discusso «papa dell’anno Mille», Silvestro II (999-1003), al secolo Gerberto d’Aurillac, precettore del principe Ottone III. Tale formula fu al centro di feroci opposizioni fin dal tempo di Giovanni XII, quando fu redatto il Privilegium originario. Occorre ricordare che lo stesso Giovanni era figlio di un

nobile locale, Alberico di Spoleto, che lo aveva imposto – a soli 18 anni – sul trono pontificio. La nobiltà locale finí quindi per entrare in contrasto con i funzionari imperiali, provocando disordini in città. Ottone dovette intervenire di persona e fece deporre Giovanni, proclamando al suo posto un altro pontefice, riconosciuto però solo da alcuni cardinali. Da quel momento, gli interessi autonomistici della Chiesa e quelli – assai piú particolaristici – della nobiltà romana finirono per coincidere, suscitando sentimenti nazionali cittadini contro l’imperatore. Gli inviati imperiali e i pontefici nominati dal sovrano vissero a Roma decenni assai difficili. La procedura del benestare imperiale – o addirittura la nomina diretta – nella elezione del pontefice fu vissuta come un’insopportabile prevaricazione, finché, alla metà del secolo successivo, Niccolò II riformò l’elezione papale (che a partire da allora sarebbe avvenuta tramite un’assemblea di cardinali) e la questione del beneplacito imperiale si poté considerare superata. Ciononostante la questione rimase teoricamente in vita fino al 1918, cioè fino alla scomparsa dell’Impero austro-ungarico, estremo erede del Sacro Romano Impero.

Era l’inizio del Sacro Romano Impero di stirpe sassone, o di nazione germanica, come i cronisti lo avrebbero definito nei secoli successivi. Con Ottone, l’impero uscí dalla crisi seguita alla morte degli ultimi discendenti diretti di Carlo Magno: il loro regno, appena un secolo dopo la sua proclamazione, era stato lacerato soprattutto dalle lotte tra i grandi feudatari, spesso blandamente imparentati con gli ultimi Carolingi. Ma anche l’architrave centrale, la duplicità di poteri e autorità (civili e religiose) su cui si era basata la costruzione carolingia, si era dimostrato fragile. Ottone di Sassonia cercò di fare tesoro di tali limiti e attorno alla forza militare delle sue armate cercò di costruire un disegno politico assai piú ambizioso, capace di por(segue a p. 36)

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni

Canossa. Nel regno d’Italia si affermò, nel corso dell’XI sec., la dinastia di Canossa, che, con la contessa Matilde, raggiunse un eccezionale ma effimero potere politico e militare nell’area centrosettentrionale della Penisola.

Germania. Al tempo

degli Ottoni, la Germania era divisa tra i ducati di Alta e Bassa Lotaringia a ovest del Reno, di Sassonia a nord, di Franconia al centro, di Svevia a sud e di Baviera a sud-est.

Francia. Sotto la dinastia dei Capetingi, il regno di Francia era diviso in grandi feudi semi-autonomi e indipendenti dal sovrano che dominava direttamente solo la regione centrale dell’Île-de-France, con capitale Parigi. Il sud-est della Francia, l’antico regno di Borgogna, passò all’impero germanico nei primi decenni dell’XI sec. 34

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I nuovi popoli La creazione del Sacro Romano Impero fu motivata anche dalla necessità, per le popolazioni germaniche e italiane, di respingere le minacce portate da Ungari, Arabi e genti scandinave, che comparvero in modo quasi contemporaneo sulla scena dell’Europa continentale nei difficili decenni tra IX e X secolo. ungari Detti anche Magiari, erano un popolo di ceppo asiatico, proveniente dalle steppe della Russia centrale. La loro prima incursione in territorio germanico risale all’862, ma la minaccia si fece piú forte da quando si stabilirono nella Pannonia, l’attuale Ungheria. Da qui, all’arrivo della buona stagione, il temibile esercito ungaro muoveva verso Occidente, dandosi a scorrerie e saccheggi. La loro prima incursione in Italia ebbe luogo nell’899, e fu disastrosa. Colpirono anche la Baviera, la Sassonia e la Borgogna. Vichinghi Le genti scandinave conobbero in questo difficile secolo una enorme espansione. Gli Svedesi (chiamati «Variaghi» o «Rus») si indirizzarono verso l’Europa orientale, dando vita all’embrione da cui sarebbero nate Ucraina e Russia. Danesi e Norvegesi si espansero invece verso Occidente, con incursioni, saccheggi e occupazione di territori in tutta l’Europa settentrionale. Chiamati dagli Inglesi «Vichinghi», cioè pirati, o «Normanni» (uomini del Nord), oltre che contro l’isola britannica rivolsero le loro armi contro i territori settentrionali di Francia e Germania. I Tedeschi riuscirono a ricacciarli verso l’attuale Danimarca, mentre in Francia i Vichinghi riuscirono a occupare il Nord del Paese dando vita alla Normandia, che poi, agli inizi del X secolo, fu ceduta loro in cambio del riconoscimento dell’autorità feudale del re francese. Arabi Dopo l’espansione dell’VIII secolo, con la conquista della Spagna, nel IX secolo, l’unica occupazione araba significativa fu quella della Sicilia, strappata ai Bizantini. Gli Arabi, tuttavia, crearono, in Provenza e in Italia meridionale, piazzeforti costiere dalle quali facevano incursioni marittime. Nell’846 giunsero a saccheggiare la basilica vaticana, all’epoca fuori dal perimetro murario della città. Diedero inoltre vita a due importanti emirati in Puglia (Taranto e Bari), che durarono una trentina d’anni, fino all’871.

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni cronologia

Da Carlo Magno agli Ottoni 814 840-855 849

855-875 877

881-887 900

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Morto Carlo Magno, gli succede sul trono

imperiale Ludovico il Pio (814-840). Lotario I, filgio di Ludovico il Pio è re d’Italia e imperatore. La vittoria navale della Lega Campana (formata da navi delle repubbliche marinare di Amalfi, Napoli, Sorrento e Gaeta) a Ostia sui Saraceni argina l’avanzata musulmana. Ludovico II, figlio di Lotario I, è imperatore e re d’Italia. Gli succede, dopo un’aspra lotta, Carlo II il Calvo (875-877), già re di Francia. Carlo il Calvo emana il Capitolare di Quierzy, con il quale concede ai vassalli maggiori del regno l’ereditarietà delle terre detenute in beneficio. Carlo il Grosso, ultimo imperatore carolingio, riunifica l’impero franco. Ludovico, re di Provenza, chiamato dai signori italiani contro Berengario, è incoronato re d’Italia, ma è poi vinto da Berengario (905). Fondazione dell’abbazia di Cluny in Francia.

tare all’effettivo ripristino dell’impero: quello che poi, al tempo del suo discendente Ottone III, venne definito come Renovatio Imperii (rinnovamento dell’impero). Si trattava di una vera e propria adesione all’ideologia imperiale concepita da Carlo Magno: non piú intesa, come era avvenuto per altri effimeri imperatori precedenti, come discendenza di sangue dai Carolingi (né, tanto meno, dagli Augusti dell’antica Roma), ma come espressione della volontà di impersonare – in un uomo e in un’istituzione – la difesa e lo sviluppo dell’intera cristianità; una vocazione universale, dunque.

Il (complesso) rapporto con la Chiesa

Ottone si trovava a governare su un territorio vasto, ma piú piccolo rispetto a quello controllato da Carlo Magno, perché non comprendeva piú la Francia occidentale, cioè l’attuale Francia, ormai divenuta autonoma. La Germania e l’Italia (l’area centro-settentrionale) costituivano il nucleo principale del suo impero, che piú avanti si ampliò con l’annessione dei regni di Borgogna e di Boemia. Tuttavia, rispetto a quella dominata dai Carolingi, si trattava di un’area con maggiore coesione territoriale. Al contrario di Carlo, legato all’arcaica tradizione che contemplava la divisione del patrimonio paterno tra tutti i figli maschi, egli avrebbe lasciato l’impero a un unico erede, garantendone l’unità e cercando di limitare, di conseguenza, le guerre di successione che avevano funestato l’Europa per oltre un secolo.

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Incoronazione imperiale di Berengario a

Roma. Battaglia del Garigliano: una lega di forze bizantine, papali e longobarde condotte dal papa Giovanni X sconfigge i Saraceni e distrugge la loro base. Ottone di Sassonia è incoronato a Roma 962 imperatore del Sacro Romano Impero. Con il Privilegio Ottoniano l’elezione del papa è sottomessa all’approvazione dell’imperatore. Giovanni XII viene deposto e viene eletto 963 Leone VIII. Berengario II, re d’Italia, viene deposto da 964 Ottone. Dopo aver fatto associare al trono il figlio 967 Ottone II, incoronato a Roma da Giovanni XIII, Ottone I cerca di annettere l’Italia meridionale. 983-1002 Regno di Ottone III, figlio di Ottone II. 987-996 Con l’appoggio dell’arcivescovo di Reims, Adalberone, e di Gerberto d’Aurillac (il futuro papa Silvestro II), sale al trono di Francia Ugo Capeto, primo dei Capetingi. Rispetto al passato recente, dunque, Ottone fece sí che l’impero, alla sua morte, restasse unito nelle mani di un unico, e designato, erede. E, nonostante gli innumerevoli problemi, tale proposito si realizzò. Meno efficace si rivelò invece la gestione del rapporto – assai complesso – con la Chiesa. Lo scambio di protezione e autorità tra i due poteri era vantaggioso per entrambi, ma ambiguo e foriero di incomprensioni e contrasti (vedi box a p. 33). I discendenti di Ottone, Enrico IV e Federico Barbarossa su tutti, ne pagarono le amare conseguenze nel corso della lotta «per le investiture». Il rapporto tra Chiesa e impero rimase una questione aperta nella storia medievale europea, e accompagnò per secoli la politica italiana, segnata dalle divisioni tra guelfi e ghibellini, seguaci, rispettivamente, del potere pontificio e di quello imperiale. Quanto alla Germania, l’interesse per la vita dei Comuni italiani e il tentativo di influire sull’elezione papale – da cui dipendeva l’incoronazione dell’imperatore – si tramutò in una sorta di maledizione che finí per impedirle di svilupparsi come Stato-nazione. Generazioni di nobili e di guerrieri tedeschi morirono – di guerre e malattie – nel tentativo di pacificare le rissose città italiane, e l’indomabile e anarcoide Roma su tutte. La volontà di mantenere in piedi a tutti i costi l’impero sottrasse alla Germania energie e forze vitali, costringendo a sua volta l’Italia a convivere con un vicino fin troppo interessato alle sue vicende. Un vicino poco arrendevole, e capace talvolta di grande ferocia. giugno

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Sebbene ispirata alla rinascenza carolingia, la Renovatio Imperii ottoniana non poté accompagnarsi a significative riforme sociali, economiche e culturali, come invece era avvenuto al tempo di Carlo Magno. Si assistette, tuttavia, grazie alla pacificazione dei territori di confine, a una generale ripresa dei commerci, all’insediamento di nuovi monasteri – con annesse attività produttive – e alla conversione religiosa di intere popolazioni. Rimase però difficile, al di là dei progetti personali, promuovere riforme in grado di avere un impatto sui fondamenti dello stato e della società, poiché il sistema feudale aveva provocato la frammentazione totale delle forme del potere.

La figura del vescovo-conte

L’imperatore non amministrava direttamente i suoi territori, ma era costretto ad agire quasi esclusivamente attraverso feudatari di sua fiducia, laici o ecclesiastici che fossero. Privo di una sua burocrazia intermedia, l’imperatore – quando gli era possibile – governava scegliendo gli uomini da porre nei luoghi di effettivo comando, cioè le contee e i marchesati. Le principali città – alla cui guida vi era il vescovo – cadevano sotto la giurisdizione delle contee; era quindi fondamentale, per l’imperatore, insediare anche alla guida delle Chiese locali un uomo di sua fiducia. Fu cosí che in quegli anni, soprattutto nell’area tedesca, Ottone promosse l’elezione di vescovi-conti, figure nelle quali l’autorità religiosa coincideva con quella civile, garantendo alla città una rappresentanza unitaria, una guida esperta e preparata dal punto di vista giuridico, ma capace di prendere decisioni anche in campo laico e militare. La figura del vescovo-conte, conobbe – anche successivamente – una grande diffusione nell’Europa settentrionale. L’interesse dell’imperatore nella promozione di tale figura aveva anche un altro obiettivo: impedire che il feudo divenisse ereditario, come invece accadeva quando veniva consegnato

in gestione a famiglie laiche. Alla morte del vescovoconte, infatti, la carica tornava all’imperatore. Non a caso, in quegli anni si ebbe la formalizzazione definitiva del celibato del clero. È evidente che l’imperatore aveva quindi l’assoluta necessità di scegliere – e nominare – il vescovo. Se questo gli fu possibile, malgrado qualche contrasto, in Germania, in Italia la nomina imperiale dei vescovi sollevò un’assoluta opposizione: per i pontefici – anche quelli piú proni alla volontà imperiale – si trattava di una formula inaccettabile. Per ovviare a tale resistenza, gli imperatori ottoniani cercarono di promuovere nuove famiglie di nobili, che non fossero legate alla precedente epopea feudale: tra queste va ricordata la famiglia dei Canossa, di cui si troverà ampia traccia nella storia a seguire, a cominciare da uno dei suoi protagonisti principali, Matilde.

Placca in avorio raffigurante Cristo che pone due corone gemelle sul capo di Ottone II e della consorte, Teofano. 983 circa. Cluny, Musée national du Moyen Age. Ottone II regnò sul Sacro Romano Impero dal 973 al 983.

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni Residenze reali

Senza fissa dimora Il regno teutonico non aveva una «capitale». Gli Ottoni erano re itineranti e si spostavano continuamente in palazzi regi o in abbazie che preservavano la loro memoria familiare. I loro spostamenti, però, erano limitati perlopiú a territori saldamente sotto il loro controllo, come la Sassonia e la

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regione del Reno. Tra le loro residenze piú importanti, e maggiormente visitate, possiamo ricordare quelle di Quedlinburg, Magdeburgo, Francoforte, Ingelheim e Aquisgrana. In genere gli spostamenti erano legati alla convocazione delle assemblee generali dei grandi del regno, alla celebrazione

di particolari festività religiose o all’incontro dei vari esponenti della «famiglia reale». I palazzi regi si trovavano in prossimità di importanti vie di comunicazione e di proprietà fondiarie regie, che dovevano garantire l’approvvigionamento della «corte» durante la sua permanenza. (red.)

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A sinistra la cripta dell’abbazia di Quedlinburg, in Sassonia. All’interno del complesso di Quedlinburg – composto da due monasteri e da un castello, tra le principali residenze dei sovrani sassoni –, Ottone I convocò, nel 973, una Dieta in cui fu presentata la principessa Teofano, che l’anno prima era stata data in sposa al figlio, Ottone II. In basso reliquiario di Ottone I o «di S. Servazio», in avorio intagliato, oro e smalti, dal Tesoro di Quedlinburg. 870 circa, con aggiunte del XIII sec.

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Ottone e i suoi successori continuarono a credere che il potere civile dovesse avere la supremazia su quello religioso. E cosí come poteva esprimersi la loro scelta dei feudatari, doveva pesare il loro parere sulla nomina del pontefice, il vescovo di Roma. Dal canto suo, la Chiesa fece di tutto per depotenziare questa pretesa fino a renderla priva di ogni effetto. Fu una battaglia difficile, perché Ottone aveva formalizzato tale prerogativa nel «concordato» firmato, a pochi giorni dall’incoronazione imperiale, da papa Giovanni XII: il cosiddetto Privilegium Othonis (vedi box a p. 33).

I primi passi verso i comuni

Il rafforzamento della figura del vescovo (conte o non) a discapito del potere feudale laico ebbe un effetto significativo: quello di favorire la formazione di élite cittadine, e quindi, in futuro, di costruire la base da cui presero forza i primi comuni. Per le città si rivelava infatti piú auspicabile subire l’ingerenza di un vescovo legato all’imperatore, piuttosto che dover riconoscere diritti e privilegi a nobili famiglie laiche, che si sarebbero trasmesse tali concessioni per generazioni. Per i comuni, infatti, l’imperatore rappresentava un potere accentratore ma distante. Da tale lontananza, le città italiane e il papato cercarono di trarre il massimo beneficio, in termini di autonomia e di indipendenza (salvo poi chiamare l’imperatore in soccorso quando le minacce esterne si facevano pressanti). In realtà, anche i feudatari traevano vantaggio dal fatto che l’imperatore fosse spesso «distratto», e dovesse accorrere in Italia o, viceversa, restare in Germania. Per la nobiltà tedesca, l’incoronazione imperiale rappresentava il segno dell’egemonia germanica nel campo della difesa della cristianità e non era percepi-

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni Il tesoro degli imperatori

Oro, pietre preziose e perle per i simboli del potere Oltre alla corona, le insegne regali del Sacro Romano Impero sono oggi conservate a Vienna, nella Hofburg, il complesso in cui gli Asburgo, nel tempo, riunirono accessori liturgici d’oro e d’argento, monete, pietre preziose e ornamenti, ma anche documenti e insegne necessari per consolidare il proprio potere terreno, nonché numerose reliquie, come pegno spirituale di questa potenza. In particolare, gli oggetti riferibili al Sacro Romano Impero giunsero nella città austriaca nel 1796, da Norimberga, dove erano conservati dal 1424. La corona Seconda metà del X sec. (la croce è stata aggiunta agli inizi dell’XI sec.) La corona imperiale si compone di otto piastre fra loro incernierate. Quattro di esse, le piú piccole, in smalto cloisonné, raffigurano episodi del Vecchio Testamento. Le quattro piú grandi hanno dimensioni diverse e sono decorate unicamente con pietre preziose e perle, disposte in ordine di grandezza; osservandole, si può «leggere» il programma teologico dell’oggetto: le gemme della piastra centrale sono dodici, come gli Apostoli; altrettante pietre sono incastonate nell’elemento posteriore e recano incisi i nomi delle dodici tribú d’Israele. In origine, al posto dello zaffiro cuoriforme che si trova al culmine dell’arco della piastra frontale, vi era una pietra detta «Waise» (letteralmente, «l’Orfano»): la sua presenza è menzionata per l’ultima volta in un inventario del 1550, dopo di che se ne sono perse le tracce. Sulle placche in smalto vi sono figure di profeti che reggono stendardi con citazioni delle proprie parole, mentre i passi biblici che si leggono nelle iscrizioni sono tratti dalla liturgia dell’incoronazione. Fa eccezione la placca con la Maestà

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di Cristo, che reca una citazione dei Proverbi sulla rivelazione di Cristo, signore dell’universo. Per quanto riguarda i personaggi, David, re d’Israele e profeta, simboleggia la giustizia; Salomone è l’immagine della saggezza e del timore di Dio; Isaia preconizza altri quindici anni di vita per il re Ezechia, che giace sul letto di morte, grazie alle pie preghiere che ha rivolto al Signore. E Dio mostra pietà per il sovrano, prolungando la sua esistenza terrena e sbaragliando i suoi nemici. La corona è considerata un simbolo del potere imperiale della dinastia degli Ottoni, che ritenevano di sedere sul trono per diritto divino.

di feste e celebrazioni, la spada imperiale veniva portata davanti al sovrano con la punta rivolta verso l’alto. A partire dal XIV secolo, l’arma fu ritenuta propria del patrono imperiale, San Maurizio, considerato il guerriero per antonomasia. Il globo 1200 circa Il globo è formato da un nucleo resinoso rivestito con foglia d’oro. Le quattro fasce che si intersecano e il polo superiore, nonché la croce con le estremità gigliate, sono decorate con gemme e filigrana. Le file di perle che in origine ornavano la fascia

La spada (spada di San Maurizio) Spada, 1198-1218; fodero: seconda metà dell’XI sec. Il pomolo della spada reca un’insegna con l’aquila imperiale e lo stemma dell’imperatore Ottone IV (1198-1218): la forma dell’arma e i dettagli dell’iscrizione suggeriscono che sia stata fabbricata quando il sovrano era conte di Poitou e duca di Aquitania, anche se non si può escludere che la spada fosse già stata stata usata quando venne incoronato re dei Romani ad Aachen, nel 1198. Con ogni probabilità, lo splendido fodero, fu invece prodotto in Italia, intorno al 1084, per l’incoronazione di Enrico IV. Su entrambi i lati vi sono sette figure, che creano una serie di quattordici re e imperatori: si può immaginare che si volesse cosí rappresentare la sequenza ininterrotta di sovrani che si era avuta da Carlo Magno a Enrico III. Tuttavia, il numero quattordici, è anche il risultato del raddoppio del sette, numero sacro, e potrebbe perciò avere un significato simbolico. In ogni caso, la disposizione e l’orientamento di questi regnanti, raffigurati in lamina aurea, indicano che, in occasione

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equatoriale del globo sono andate perdute. In età antica la sfera aveva un triplice significato: era un’immagine del cosmo, della terra, ma anche un simbolo del concetto di potere universale. Con l’aggiunta della croce il simbolo del potere venne reinterpretato in senso cristiano. Il globo imperiale – come la corona e la croce – esprime l’idea centrale del Cristo come signore del mondo e dell’imperatore che ne è il suo rappresentante terreno. Per ragioni stilistiche questo globo può essere datato alla fine del 1100 e, con ogni probabilità, fu il prodotto di un’officina di Colonia. la croce 1024-25 circa La croce imperiale fu realizzata durante il regno di Corrado II (1024-1039) ed è

un capolavoro dell’oreficeria medievale. La faccia anteriore è decorata con pietre preziose e perle, mentre quella posteriore, lavorata a niello, presenta le figure dei dodici Apostoli, dell’agnello dell’Apocalisse e i simboli dei quattro Evangelisti. Al pari della corona, la croce imperiale ha un profondo significato: essa è simbolo del trionfo della cristianità, della vittoria (l’imperatore Costantino era uscito vittorioso dalla battaglia di Ponte Milvio combattendo sotto la sua protezione) e del potere imperiale. Questo prezioso oggetto era anche un reliquiario: parti della sua faccia anteriore, infatti, sono amovibili e chiudono spazi interni che un tempo custodivano alcune sacre reliquie: la lancia sacra e una particola della Croce. (red.)

ta come viatico per il reale esercizio di governo; essa divenne una sorta di strumento di politica interna. Le cose però cambiarono con i discendenti di Ottone, i quali verso l’Italia mostrarono un interesse che andava al di là dell’assunzione della corona di Pavia. Il primo, Ottone II, salí al trono nel 973, dopo aver sposato, appena l’anno prima, una principessa bizantina, Teofano. Il matrimonio era avvenuto nell’ambito di complesse trattative che Ottone aveva intavolato per venire a capo della confusa situazione nell’Italia meridionale, all’epoca divisa tra Bizantini, Arabi e principi longobardi.

Mediterraneo, attrazione fatale

Il nuovo imperatore, e ancor di piú il di lui figlio Ottone III, nato dall’unione con la principessa bizantina finirono per interessarsi sempre di piú all’Italia e sempre meno alla Germania, affascinati dall’irresistibile richiamo – intellettuale e culturale – del mondo mediterraneo. L’attrazione per Roma e per l’antica idea imperiale – secondo gli storiografi tedeschi – si rivelò fatale per Ottone III ed ebbe conseguenze tragiche per l’intera Germania. Intorno all’anno Mille, l’agiografo tedesco Bruno di Querfurt (nella Vita quinque fratrum eremitarum) scrisse di Ottone III: «Solo Roma gli stava a cuore; al popolo romano, piú che a tutti gli altri, aveva riservato onori e ricchezze, e con puerile fantasia aveva pensato – pensiero vano! – di rimanere a Roma per sempre e di riportare Roma all’altezza della sua antica dignità (…) Non aveva voluto piú vedere la terra che gli aveva dato i natali, quella Germania che avrebbe dovuto amare, tanto grande era la sua smania di abitare in Italia, dove la morte crudele colpisce con mille malattie, con mille uccisioni».

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sacro romano impero/2 l’età degli ottoni

Hildesheim, chiesa di S. Michele. Particolare dei rilievi del battente destro della grande porta bronzea commissionata, nel 1015, dal vescovo Bernoardo. Sono raffigurate l’Adorazione dei Magi (in alto) e la Natività (in basso).

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Hildesheim. La chiesa abbaziale di S. Michele, fondata nel 996 dal vescovo Bernoardo, consigliere dell’imperatrice Teofano e precettore di Ottone III.

Da leggere U Keller Hagen, Gli Ottoni. Una dinastia

imperiale tra Europa e Italia (secc. X e XI). Lo stesso fatale destino fu dell’Europa medievale e moderLa politica imperiale tra Europa e Italia, condiviso da molti altri impena e conobbe un successo forCarocci 2012 ratori tedeschi. Scesero in Itamidabile. Portò a compimento U Réginald Grégoire, Theofano. Una bizantina lia – attratti dalla prospettiva il sogno del ritorno dell’impero, sul trono del Sacro Romano Impero, Jaca dell’incoronazione sulla tomun sogno coltivato dai popoli Book 2000 ba di Pietro, oppure richiamaeuropei sino dalla fine del monti in soccorso dai pontefici (in do antico. Un impero cristiano, genere minacciati dagli stessi Romani), o costretti a capace di difendersi dai propri nemici – Vichinghi, intervenire per riappacificare le riottose e litigiose cit- Greci, Arabi, Mongoli, Slavi – ma anche di integrarli. tà padane – e rimasero invece impigliati in spedizioni Un impero continentale in grado di rivitalizzare città pericolose e sedizioni perniciose. e campagne, favorendo i commerci e la rinascita delle scuole, delle chiese, dei monasteri. Tra attrazioni e pregiudizi Tale impero si basava sull’autorità del suo sovrano e Si potrebbe osservare che proprio allora, nel corso del sul prestigio del pontefice romano. L’imperatore, però, X secolo, ha origine il complesso legame di amore-odio correva il rischio di rimanere prigioniero della volontà tra Italia e Germania. In tale fase si vennero a formare e dell’infedeltà dei grandi feudatari tedeschi. Mentre le vicendevoli attrazioni e i robusti pregiudizi che fu- il pontefice era alla mercé di ignoranti famiglie nobili rono poi consolidati nei secoli successivi. Gli Italiani li- laziali, i veri padroni della piccola città di Roma, pretigiosi, ingovernabili, sleali. I Tedeschi disumani, cru- stigiosa quanto si vuole, ma povera e disarmata. Presto deli, soggiogatori. Eppure, spesso, come nel caso del queste due debolezze, in luogo di sorreggersi l’un l’algiovane Ottone III, l’interesse per Roma e per l’Italia tra, entrarono in conflitto, proprio quando al loro reggiera motivato da un amore puro e disinteressato per la mento arrivarono due personaggi dotati di grande forza sua storia, dal sogno di rianimare l’eredità dell’antico e personalità: papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico impero romano. IV. Essi si dissanguarono nel corso della lunga lotta per La fondazione del Sacro Romano Impero, a parti- le investiture, infliggendo un colpo mortale all’antica re dalle sue origini, attraversò quindi l’intera storia alleanza tra trono e altare voluta da Carlo Magno. F

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protagonisti marsilio da padova Avido di un sapere «grande come il mare», Marsilio da Padova fu una delle menti piú acute del Trecento europeo. Il suo pensiero, ricco di implicazioni legate ai rapporti tra potere temporale ed ecclesiastico, è condensato nel Defensor Pacis, opera che fu causa della sua condanna da parte della Chiesa

Un filosofo in odore d’eresia di Alessandro Bedini

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onsiderata come una delle piú importanti opere di filosofia politica del Medioevo, il Defensor Pacis di Marsilio da Padova, terminato, secondo la tradizione, nel giorno della festa di San Giovanni Battista, il 24 giugno del 1324, suscitò fin da subito la violenta reazione della Chiesa, che culminò, nel 1327, con la condanna dello stesso Marsilio e del magister artium Giovanni di Jandun, suo collaboratore, da parte di papa Giovanni XXII. Ma perché la condanna? E per quale ragione Marsilio aveva attirato su di sé i fulmini della Chiesa, o almeno della parte ufficiale di essa? Ma, soprattutto, chi era Marsilio? La sua data di nascita rimane incerta, gli storici la collocano tra

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Padova, Palazzo della Ragione. Rappresentazioni allegoriche della Prudenza (a sinistra) e della Giustizia (a destra), Particolare degli affreschi attribuiti a Nicolò Miretto e Stefano da Ferrara. Metà del XV sec. circa.

il 1284 e il 1287. La sua famiglia d’origine, i Mainardini, che erano per la maggior parte giudici e notai, era assai facoltosa e abitava nella contrada Sant’Andrea, nei pressi del Duomo di Padova. Suo padre, Bonmatteo dei Mainardini, insegnava nell’ateneo patavino. Avido di un sapere «grande come il mare», come scrive l’amico Albertino Mussato (1261-1329; uomo politico, storico e letterato) nella lettera al «Magistrum Marsilium physicum paduanum», Marsilio aveva lasciato la città natale dopo gli studi inferiori, dedicati alla medicina, per perfezionarsi alla Sorbona di Parigi, presso la facoltà delle arti.

Rettore a Parigi

Nel 1312 venne insignito dell’autorità rettorale nella prestigiosa Università parigina, e la cosa non deve stupire: non era infrequente, infatti, che uno studente, brillante e già avanti negli studi, potesse accedere alla carica di rettore dopo aver compiuto i venticinque anni, ovvero la maggiore età secondo il diritto romano. Dopo aver sostenuto l’esame di dottorato Marsilio, come molti suoi colleghi, decise di iscriversi ai corsi piú progrediti di medicina e teologia, tanto che si rese famoso anche come medico. Entrato in contatto con il concittadino Pietro d’Abano, al quale aveva fatto da testimone nel 1315 – quando il filosofo patavino aveva redatto la sua professione pubblica di fede cattolica –, Marsilio condivideva con il già celebre pensatore gli interessi per la cosmogonia e la fisica, oltre all’approfondimento dei commentatori arabi. Primo tra questi Ibn Rushd, conosciuto in Occidente come Averroè, il piú importante traduttore e commentatore di Aristotele, il quale sosteneva che alla verità era possibile accedere sia

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protagonisti marsilio da padova

Il re di Francia Filippo IV il Bello con i rappresentanti del clero, in consiglio a Parigi, miniatura dalla Grandes Chroniques de France. Seconda metà del XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

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Il Defensor Pacis

Un trattato rivoluzionario Il Defensor Pacis è diviso in tre tomi, all’epoca denominati dictiones. È stato terminato nel 1324, ma non si hanno notizie certe su quando Marsilio abbia iniziato a scriverlo. Il primo tomo è formato da diciannove

capitoli e tratta di argomenti relativi alla ragione; in esso l’autore si richiama ai principi della politica e della fisica. Il secondo consta di trenta capitoli, è la parte piú lunga dell’opera e affronta argomenti legati alla fede, in

particolare su come le tesi della Scrittura convalidino quanto dimostrato, tramite la ragione, nella dictio precedente. Nel terzo tomo si riepilogano le tesi dei primi due volumi. Si tratta di una vera e propria summa, il cui metodo si rifà alla scolastica, aggiungendovi una forte vis polemica e un valore pratico e istituzionale. È uno degli esempi piú significativi della storia del pensiero politico medievale.

metà del Trecento, e ai luoghi in cui trascorse la maggior parte della sua vita: Padova e Parigi. L’idea che spesso ricorre nell’opera marsiliana secondo cui la maior pars del popolo sarebbe superiore a ogni altra autorità, non deve trarre in inganno. Niente a che vedere con le moderne democrazie, come alcuni esegeti di Marsilio hanno ritenuto, operando una trasposizione del tutto impropria; tale convinzione proviene, invece, dall’organizzazione costituzionale che Marsilio aveva conosciuto durante i venticinque anni in cui era vissuto nella natia Padova. In alto pagina manoscritta, da una copia del Defensor Pacis di Marsilio da Padova (1324). Ultimo decennio del XIV sec. Friburgo, Monastero di Cordeliers.

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attraverso la fede religiosa che attraverso la speculazione filosofica, mentre nella sfera politica egli si proclamava convinto della superiorità dei filosofi nelle azioni pratiche. Marsilio rimase influenzato da quello che va sotto il nome di averroismo politico, sebbene con significativi distinguo e adattamenti al contesto culturale del suo tempo. Egli fu dunque un’intelligenza eclettica e originale, ma la sua speculazione politico-filosofica è profondamente legata all’ambito sociale, politico e intellettuale nel quale visse: l’Europa della prima

Pace e giustizia

Lí il podestà era soggetto al controllo del concilium maius, formato dalla maggior parte dei cittadini e al quale erano sottoposte le sue decisioni. Quest’impianto costituzionale ruotava intorno a un potente ceto mercantile e manifatturiero e aveva come scopo di mantenere la pace, ossia le condizioni favorevoli allo sviluppo della ricchezza, allontanando possibili conflitti sociali che ne avrebbero compromesso il progresso. Pace e giustizia, quindi, erano concepite come presupposti essen-

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protagonisti marsilio da padova gli studi universitari

Dalla retorica all’astronomia Nel corso del XIV secolo, nelle università europee, si studiavano le arti del Trivio (Artes sermonicales) e del Quadrivio (Artes reales). Del Trivio facevano parte: dialettica, retorica e grammatica; nel Quadrivio si apprendevano la geometria, l’aritmetica, l’astronomia e la musica. Il metodo d’insegnamento si basava sulla filosofia scolastica. Cosí lo riassume Jacques Le Goff : «La lectio fornisce delle “autorità” che sono messe in quaestio, la questione è discussa “razionalmente”, è la disputatio da cui il maestro trae la sua conclusio personale. Le magistralia, le opinioni dei professori, che aprono la porta alle conclusioni individuali di ciascuno, prendono posto a fianco delle authentica, delle autorità tradizionali». Le lezioni si svolgevano in latino e potevano essere ascoltate da chiunque fosse interessato. Marsilio da Padova, dopo aver studiato le Artes all’Università di Parigi, divenne maestro e poi rettore dell’ateneo parigino. A sinistra miniatura raffigurante un professore in cattedra all’Univerisità di Parigi, dalla Grandes Chroniques de France. Seconda metà del XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale.

ziali per la crescita civile ed economica della città. L’ambito storico entro il quale andò incentrandosi la speculazione di Marsilio è dunque quello sopra descritto, ma, da ingegno acuto quale era, egli non poteva fare a meno di rilevare i limiti e le contraddizioni che il sistema politico comunale produceva: prima tra tutte, l’infinita controversia tra il potere civile e quello ecclesiastico. Trasferitosi a Parigi, Marsilio respirò un’aria nuova. Nella capitale

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francese poté sperimentare come la monarchia, che già aveva rigettato le pretese teocratiche di Bonifacio VIII, infliggendo al potere ecclesiastico un duro colpo, si stesse trasformando in uno Stato accentrato e assoluto, che combatteva i privilegi della Chiesa e ridisegnava il potere al di fuori dei vecchi schemi feudali. Una contraddizione? Per alcuni studiosi, sí: Marsilio sarebbe passato dal principio secondo cui è la maggioranza dei cittadini a dover detenere il potere politico, a quello in cui lo stato assoluto e monarchico, nelle mani del rex francorum Filippo il Bello per lo specifico caso francese, rappresenta una soluzione auspicabile.

Entità equivalenti

In realtà il soggiorno oltralpe giocò molto sulla riflessione politico-filosofica di Marsilio. Egli considerava la città e lo Stato come due entità equivalenti, e per questo dedicò la parte piú cospicua del Defensor Pacis al loro studio, fondato sul concetto di «autonomia mondana delle istituzioni politiche», come suggerisce Cesare Vasoli nel suo brillante commento al capolavoro di Marsilio. È dunque lo Stato che persegue responsabilmente l’ordi-

A destra sigillo di Ludovico IV il Bavaro, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1328 al 1347. Dopo la condanna pontificia per aver scritto il Defensor Pacis, Marsilio si pose sotto la protezione dell’imperatore Ludovico, presso la cui corte era stato accolto dal 1324. giugno

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Magonza, cattedrale. Particolare del monumento funerario di Peter Von Aspelt (1245-1320), arcivescovo e principe elettore di Magonza, raffigurato con Giovanni I di Boemia, Enrico VII di Lussemburgo e Ludovico IV il Bavaro. 1320 circa. L’arcivescovo faceva parte del collegio elettorale a cui spettava l’elezione del sovrano. L’organismo era composto da sette principi, tre dei quali ecclesiastici, attraverso il cui voto il papato influenzava la scelta dell’imperatore.

ne e la pace nella sfera temporale, ossia sociale e politica. Marsilio condanna severamente le pretese mondane dei pontefici e della curia: il desiderio della Chiesa di dominare il secolo conduce, infatti, alla distrazione dalle finalità spirituali a essa connaturate. La povertà, intesa come preciso e inderogabile rifiuto di possedere beni materiali, già teorizzata dai Francescani piú radicali, come Ubertino da Casale – il cui pensiero ebbe un peso non indifferente nell’opera di Marsilio, ma anche di Michele da Cesena e Guglielmo di Ockham –, deve essere la bussola che indirizza il «governante fedele della chiesa».

Separare Stato e Chiesa

Il tema pauperistico suscita qualche sorpresa. Se nel primo discorso del Defensor Pacis si legge, infatti, un vero e proprio elogio della ricchezza «come elemento necessario all’esistenza e all’incremento della civitas – è ancora Vasoli a parlare – il suo ripiegamento verso gli ideali tradizionali del cristianesimo medievale può apparire come una contraddizione». Ma non è cosí. Il tema pauperistico permette invece a Marsilio di insistere sulla netta separazione tra la sfera mondana e quella spirituale, diremmo oggi tra lo Stato e la Chiesa. Se la legge umana e l’organizzazione socio-politica di uno Stato devono perseguire il bene comune inteso anche come benessere economico, la gerarchia ecclesiastica è chiamata, al contrario, a seguire il dettato evangelico, che impone l’osservanza della povertà. A riprova di ciò Marsilio cita il Sermone della

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protagonisti marsilio da padova Montagna. Non solo, nell’elencare le qualità del perfetto governante, siamo al primo libro del Defensor, egli non indica affatto le virtú teologali, come era uso fare all’epoca, ma insiste su quelle politiche e civili: giustizia, prudenza, rettitudine. Vengono, insomma, messe in discussione, in una simile prospettiva, le fondamenta stesse della potenza terrena della Chiesa, proprio quello che intendeva affermare Marsilio. C’è quindi un’intima coeren-

za nei diversi, complessi passaggi dell’opera principale del filosofo patavino. Marsilio intende ribadire il carattere autonomo dello Stato sulla scia di Aristotele, certo, ma anche sulla base dell’esperienza storica che vive: la cattività avignonese, le lotte interne alla Chiesa per accaparrarsi i beni mondani, quelle contro l’impero, causa prima di tutte le discordie e le contese che portano l’Italia alla rovina. L’altro tratto di originalità del

Particolare di un capolettera raffigurante papa Giovanni XXII, dall’Officium beatae Mariae Virginis. XIV sec. Forlí, Biblioteca Comunale.

Giovanni XXII

L’accusatore Giovanni XXII (al secolo Jacques Duèze), nacque a Cahors, in Francia, nel 1245. Di ricca famiglia borghese, laureato in diritto civile e canonico, vescovo di Fréjus (1300) e di Avignone (1310), fu poi nominato da Clemente V cardinale e vescovo di Porto (1312). Venne eletto papa il 7 agosto 1316, a Lione, col nome di Giovanni XXII, sotto la pressione dei re di Francia e di Sicilia. Dopo l’elezione si stabilí ad Avignone. Uomo di alta cultura, favorí le università e gli studi e fondò nella stessa Avignone una ricca biblioteca. Riorganizzò la Cancelleria e la Camera apostolica e accentrò nella Curia poteri e rendite ecclesiastiche, ma non si oppose alla progressiva e sempre piú invadente influenza della monarchia francese (23 cardinali su 28 erano francesi). Promosse l’attività missionaria e progettò una crociata contro i Turchi. Nella disputa tra conventuali e spirituali, appoggiò i primi perseguitando i secondi; venne poi a contesa con lo stesso Ordine francescano, avendo condannato la dottrina della povertà assoluta (1323). Contemporaneamente entrò in conflitto con l’imperatore Ludovico IV il Bavaro e lo scomunicò (1324); questo conflitto si protrasse per tutto il suo pontificato. Per predisporre il ritorno del papato a Roma, nel 1320 inviò in Italia il cardinale Bertrando del Poggetto, con mansioni militari e politiche piú che ecclesiastiche; in Italia, infatti, e in particolare nei domini della Chiesa, il potere del papa era profondamente decaduto e i ghibellini erano piú forti dei guelfi. Il cardinale riuscí a sottomettere alcune città dell’Emilia e della Romagna (1322-27), ma la sua azione trovò un limite insuperabile nella potenza dei Visconti (ghibellini) in Lombardia. Ludovico IV il Bavaro, giunto a Roma nel 1328, venne incoronato imperatore con un rito laico, in Campidoglio, da Sciarra Colonna in nome del popolo e fece eleggere antipapa, col nome di Niccolò V, il frate spirituale Pietro da Corvara. Ma, partito l’imperatore, i Romani riaffermarono la loro obbedienza a Giovanni XXII e anche l’antipapa gli si sottomise (1330). Morí ad Avignone nel 1334. (red.)

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capolavoro di Marsilio, consiste nel metodo: egli afferma apertamente di non volere affatto insegnare massime nuove, semplicemente non intende insegnare alcuna massima. A suo parere nessuno dovrebbe insegnare agli altri come comportarsi, ognuno deve trovare gli strumenti necessari per darsi da solo le leggi morali. Cosí come per Aristotele, il filosofo è colui che «osserva e scopre», non chi insegna o pretende di dispensare verità assolute.

La condanna

Il 23 ottobre del 1327 Marsilio da Padova e Giovanni di Jandun furono scomunicati dal papa, Giovanni XXII. La condanna fu motivata dal fatto che i due avevano scritto un libro, il Defensor Pacis, in cui erano contenute ben cinque eresie: 1. Gesú Cristo non avrebbe lasciato alcun capo della Chiesa e Pietro aveva la medesima autorità di tutti gli altri apostoli; 2. tutti coloro che hanno ricevuto la dignità sacerdotale hanno pari autorità; 3. anche Gesú era obbligato a pagare il tributo a Cesare; 4. il papa può essere eletto ed eventualmente destituito solo dall’imperatore; 5. la Chiesa può stabilire sanzioni verso qualcuno soltanto su delega imperiale, ma non autonomamente. La polemica marsiliana scuoteva dalle fondamenta le pretese ecclesiastiche di agire direttamente e politicamente all’interno della respublica christianorum e la dura reazione della Chiesa non si fece attendere. A confutare le tesi contenute nel Defensor, su incarico del papa, furono l’agostiniano Guglielmo da Cremona e il carmelitano Sybert di Beck. Se da una parte risultava evidente dalle pagine del filosofo padovano, l’intento di rafforzare l’imperatore Ludovico il Bavaro, presso la cui corte Marsilio era stato accolto nel 1324, dall’altra la riflessione del grande pensatore era guidata dal quadro teologico imperniato sulla rigorosa separazione tra religione e politica, tra fede e ragione. Nel secondo discorso del Defensor, Marsilio intende dimostrare, con argomenti di fede, che né il Papa, né un vescovo o un sacerdogiugno

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giovanni di jandun

Amico e collega Giovanni di Jandun è da alcuni considerato il coautore, assieme a Marsilio, del Defensor Pacis. In realtà, avrebbe collaborato solo alla prima parte dell’opera, sebbene gli studi piú recenti escludano ogni sua partecipazione alla stesura del celebre libro. Nato tra il 1280 e il 1285, fu maestro delle arti a Parigi e uno dei massimi esponenti del cosiddetto averroismo politico. Compose opere di filosofia naturale e di metafisica, tra cui il De laudibus Parisius, oltre ai commentari alle opere di Aristotele e di Averroè. Fu amico di Marsilio da Padova, con il quale condivise la scomunica del 1327, oltre che di te, hanno il potere di giudicare e condannare qualsivoglia persona. L’assoluta originalità della filosofia politica marsiliana consiste proprio nel fatto che «per la prima volta la legge umana è sganciata dalla relazione gerarchica con la legge divina – osserva Carlo Dolcini – che, secondo Marsilio, avrà un giudice solo dopo la nostra vita». Dopo la scomunica, il papa ingiunse ai due condannati, Giovanni e Marsilio, di consegnarsi a lui entro quattro mesi, e, nel frattempo, li privò dei rispettivi canonicati.

Il mancato arresto

Quando Ludovico, nel 1328, scese in Italia per ricevere l’incoronazione popolare a Roma, Marsilio era al suo fianco. L’anno prima Ludovico era entrato a Milano, accolto trionfalmente e alloggiato in Sant’Ambrogio, e insieme a lui era il fido consigliere Marsilio da Padova. Il papa ordinò allora al legato pontificio cardinale Giovanni Colonna, di farlo arrestare, ma l’ordine non poté essere eseguito perché egli era sotto la protezione del sovrano. Ludovico passò dunque al contrattacco e con una sentenza imperiale dichiarò deposto Giovanni XXII: le argomentazioni contenute nel documento della cancelleria imperiale furono riprese dalle tesi di Marsilio, cosí come quelle che giustificavano l’elezione imperiale dell’antipapa Niccolò V, al secolo

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Guglielmo di Ockham e di Michele da Cesena, insieme ai quali si rifugiò alla corte imperiale di Ludovico il Bavaro a Monaco di Baviera. Morí a Todi nel 1328.

Sigillo in cera della Sorbona di Parigi. XIII sec. Marsilio perfezionò i suoi studi presso la facoltà delle Arti dell’ateneo parigino, dove, nel 1312, fu nominato rettore.

Pietro Rainalducci, avvenuta il 12 maggio del 1328. Nello stesso anno Michele da Cesena, rimosso dal papa dall’incarico di ministro generale dei Minoriti e divenuto il punto di riferimento dei Francescani piú radicali, pubblicò a Pisa una nuova sentenza di deposizione del papa Giovanni XXII. Il filosofo era inviso alla curia pontificia piú dell’imperatore stesso, e quando la chiesa decise di avviare un’azione diplomatica per trovare finalmente una soluzione al conflitto che la contrapponeva all’impero, il cardinale Napoleone Orsini, siamo nel 1334, nel chiedere all’imperatore il permesso di convocare un concilio generale a Bologna per dirimere la controversia e proporre la pace, pose come pregiudiziale l’allontanamento di Marsilio da Padova. La Chiesa, dunque, non l’aveva mai perdonato, non poteva sopportare che egli avesse messo

Da leggere U Gregorio Piaia, Marsilio e dintorni:

contributi alla storia delle idee, Antenore, Padova, 1999 U Carlo Dolcini, Introduzione a Marsilio da Padova, Laterza, Roma-Bari, 1995 U Marsilio da Padova, Il difensore della pace, a cura di Cesare Vasoli, UTET, Torino, 1960

in discussione uno dei pilastri su cui si reggeva l’intera cristianità medievale dell’Occidente, né poteva accettare che la sua autorità venisse minata dalle fondamenta. Per questo, il 10 aprile del 1343, quando papa Clemente VI, durante il concistoro, annunciò la morte di Marsilio, avvenuta forse qualche messe prima a Monaco di Baviera, molti dei presenti tirarono un sospiro di sollievo. F

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Culti,

di Chiara Mercuri

martiri e misteri


costume e società pellegrini a roma Meta principale del «turismo religioso» della Roma altomedievale furono le reliquie dei santi martiri, intorno alle quali la Chiesa creò un vero e proprio programma di promozione politica. Un’operazione di recupero del passato paleocristiano della Città Eterna capace di alimentare una continuità storicosimbolica che perdura fino ai giorni nostri

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ei primi secoli della Roma cristiana, la devozione si raccolse attorno alle reliquie dei martiri, ai corpi sepolti nei cimiteri suburbani; e, in età medievale, il mito della Città Eterna, costruito sulle rovine dell’impero, fu alimentato e accresciuto dal sangue di quanti avevano pagato con la vita la propria professione di fede. L’aggregazione delle comunità attorno ai propri martiri costituí il vero sistema di organizzazione dei primi cristiani, in tutto il Mediterraneo, ma a Roma, ovviamente, acquisí particolare importanza. Presso la catacomba in cui essi erano sepolti si cercava di far seppellire i propri congiunti, e nella chiesa annessa si andava ad ascoltare la messa domenicale. Il papa dovette dare licenza di consacrare il fermentum (l’ostia) ai sacerdoti che vi officiavano, a differenza di quanto erano tenute a fare le chiese entro le mura della città, che lo ricevevano solo dal pontefice. In queste chiese extraurbane si celebrava il dies natalis del martire e si compivano i riti funebri, compresi i banchetti organizzati in onore del defunto, fortemente osteggiati dalle gerarchie ecclesiastiche, agli occhi delle quali rappresentavano la sopravvivenza dei refrigeria in uso presso i pagani.

Mai dentro le mura

Secondo la legge romana, i cimiteri dovevano sorgere fuori dall’area abitata ed è per questo che le catacombe cristiane si trovano fuori dalle mura. Per sostenere l’afflusso dei pellegrini in queste zone suburbane, presso i santuari fu necessario creare alberghi e locande, nonché Roma, basilica di S. Prassede. Mosaico del catino absidale con la raffigurazione di Cristo tra San Pietro, Santa Pudenziana e un diacono, alla sua sinistra, e San Paolo, Santa Prassede e papa Pasquale I, alla sua destra. Il rifacimento ex novo della chiesa (817) sul luogo di un precedente titulus cristiano (edificio privato messo a disposizione dal proprietario per le comunità cristiane dei primi secoli), si deve a Pasquale I (817-824). Il pontefice intraprese un vero e proprio piano programmatico di rilancio del culto per i martiri cristiani, compiuto attraverso lo spostamento delle reliquie dalle catacombe all’interno delle mura cittadine.

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costume e società pellegrini a roma strutture caritative, i famosi «habitacula pauperibus» promossi a partire da papa Simmaco (498-514), e botteghe per l’acquisto di souvenir: ampolle, chiavi, eulogie (reliquie). S. Pietro era la basilica piú specializzata, con le sue cinque diaconie al servizio dei poveri e dei pellegrini, e, non a caso, l’affluenza a questo santuario rimase costante per tutto il Medioevo. Il richiamo principale della Roma altomedievale fu dunque costituito dai martiri. Gli archeologi hanno rilevato che su 184 luoghi di culto a Roma nel primo Medioevo, 136 erano loro consacrati. Il culto dei martiri fu mantenuto vivo anche grazie alla strategia politica adottata dai pontefici, che, a partire da papa Damaso (366-384), tennero alto l’interesse dei fedeli e dei visitatori con l’apposizione di epigrafi che servivano alla localizzazione delle tombe e al racconto del martirio. I pontefici si impegnarono anche a contrastare la dispersione e il saccheggio dei resti ossei sacri con grandi traslazioni all’interno delle mura cittadine. Infatti, la pressione dei Longobardi alla metà dell’VIII secolo e le incursioni arabe del IX avevano ormai reso malsicuri i luoghi di culto extraurbani e perciò, nel volgere di pochi decenni, si procedette alla traslazione di tutti i corpi dei martiri all’interno della città. Artefice della piú imponente di queste operazioni fu papa Pasquale I (817-824). Sotto il suo pontificato migliaia di reliquie furono accumulate in quello che divenne il grande deposito pontificio di pignora sacra (oggetti sacri): la chiesa di S. Prassede all’Esquilino, edificata a tale scopo dallo stesso Pasquale. La martire Prassede, insieme alla sorella Pudenziana (vedi a p. 57), era stata la prima a recuperare i corpi dei martiri e dare loro sepoltura e, proprio per questa ragione, aveva lei stessa subito il martirio. A livello simbolico, quindi, la sua vicenda personale poteva essere facilmente collegata alle traslazioni di Pasquale. Il pontefice le intitolò una nuova chiesa, che avrebbe accolto tutte le reliquie che non potevano essere sistemate in uno spazio specifico, tutti i corpi che non avrebbero potuto avere un proprio luogo di culto dentro la città.

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Il sepolcro scomparso

La vicenda di Pasquale è strettamente legata anche alla martire Cecilia (vedi a p. 57). Il suo culto fu mantenuto grazie alla costruzione di una basilica a lei dedicata all’interno della sua abitazione in Trastevere, dove Cecilia aveva subito il martirio. Quando si cercò di traslarvi il corpo si scoprí, però, che la sua tomba non era piú identificabile e, nonostante le ricerche di archivio, non si riuscí a risalire alla sua ubicazione originaria. Pasquale aveva ormai abbandonato la speranza di trovarla, quando, secondo una leggenda tarda, molto cara al popolo romano, si sarebbe addormentato durante la celebrazione di una messa e gli sarebbe apparsa in sogno Cecilia, che lo avrebbe invitato a proseguire le ricerche, e a non abbandonare la sua tomba, ormai in rovina. A seguito di questa rivelazione, il papa proce-

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Le sette chiese

Le sette Chiese di Roma, incisione in rame di Antonio Lafrery da Speculum Romanae Magnificentiae. 1575. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. La tradizione di percorrere l’itinerario devozionale ed

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espiatorio che comprendeva la visita alle sette chiese maggiori di Roma si diffuse dalla metà del XIV sec., consolidando un uso, quello del pellegrinaggio ai luoghi santi, che risaliva agli albori

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dell’era cristiana. All’inizio del Trecento compaiono i primi itinerari che menzionano le indulgenze che potevano ottenersi compiendo il percorso che, partendo dalla basilica di S. Pietro (1), conduceva verso

S. Paolo fuori le Mura (2), S. Sebastiano sull’Appia (3), S. Giovanni in Laterano (4), S. Croce in Gerusalemme (5), S. Lorenzo fuori le Mura (6), per concludersi alla basilica di S. Maria Maggiore (7).

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costume e società pellegrini a roma le martiri di pasquale i ▼

Santa cecilia Il martirio di Santa Cecilia nel bagno di acqua bollente, particolare della pala d’altare con le Storie di Santa Cecilia. Tempera su tavola del Maestro di Santa Cecilia. 1304 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Cecilia era una nobile romana, che, divenuta cristiana, fece voto di castità e convinse anche il marito Valeriano alla conversione. Dopo una serie di eventi drammatici e dopo aver subito numerose torture da cui uscí indenne, morí per decapitazione, con tre colpi di spada, al tempo di papa Urbano I (222-230), nella sua abitazione di Trastevere. Fu sepolta nelle catacombe di S. Callisto, accanto alla cosiddetta «Cripta dei Papi».

Santa agnese Mosaico raffigurante Santa Pudenziana (a sinistra) e Sant’Agnese (a destra), particolare. Inizi del IX sec. Roma, S. Prassede, Cappella di S. Zenone. Agnese nasce a Roma, nel III sec., da una ricca e influente famiglia cristiana. Il martirio avvenne, secondo la tradizione, durante una violenta persecuzione – collocata tra il 249 e il 251, sotto l’imperatore Decio, o nel 304, sotto Diocleziano – quando Agnese, ancora dodicenne, colpevole di aver rifiutato il figlio del prefetto di Roma, fu da lui denunciata come cristiana. Agnese fu esposta nuda in un lupanare (postribolo), gettata nel fuoco che però si spense e, infine, trafitta da un colpo di spada alla gola. ▼

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dette con nuove indagini e riuscí alla fine a individuare il luogo della sepoltura (il cimitero di Callisto), che non era riportato con precisione negli atti. La martire, però, sarebbe stata trovata nell’esatta posizione indicata dai documenti piú antichi. Posizione che si volle mantenere anche nella nuova tomba apprestata per lei nella chiesa in Trastevere (vedi foto alle pp. 58/59). L’attaccamento di Pasquale verso le fanciulle martiri, Prassede, Cecilia, ma anche Agnese, in onore delle quali fece realizzare il piú splendido ciclo musivo della Roma medievale, ha indotto alcuni storici dell’arte a parlare di «lolite di Pasquale I». In realtà, l’azione del papa mirava a rilanciare il culto dei martiri attraverso «icone» che, per la loro fragile condizione femminile e per la loro giovanissima età, si prestavano piú di altre a fare breccia nell’immaginario collettivo.

Bisogno di rifondazione

La Roma del tempo di Pasquale I, ridotta ai minimi termini, sia demografici che politici, aveva bisogno di ritrovare le sue fondamenta, materiali e spirituali. La città doveva recuperare un valore universale, un nuovo status, senza il quale sarebbe divenuta una piccola città ai confini dell’impero carolingio, senza alcun ruolo particolare. I pontefici tentarono (e vi riuscirono) di affermarsi come colonna religiosa del nuovo ordine carolingio. Venne cosí ribadito il legame tra la Città e la simbologia paleocristiana, che seppe recuperare anche il suo passato imperiale, conferendo a Roma una dimensione mitica, la sola che riesce a spiegare, anche nei momenti di maggiore decadenza, la sua continuità storico-simbolica. Dopo il IX secolo, la gran parte delle chiese cimiteriali, a causa della traslazione delle reliquie, fu completamente abbandonata. Solo alcuni santuari, muniti di mura difensive, rimasero ancora vitali. In alcuni casi, infatti, il prestigio della chiesa, la presenza di grandi monasteri annessi, o la stessa sacralità della memoria, impedí la traslazione del corpo del martire. Uno dei casi piú importanti è quello di S. Pietro in Vaticano. Colpita da una incursione araba nell’846, essa fu inserita nell’area urbana grazie alla realizzazione di un nuovo circuito murario. S. Lorenzo e S. Paolo ▼

Santa Prassede e santa Pudenziana. Santa Prassede tra San Paolo e Pasquale I, particolare del mosaico della basilica di S. Prassede a Roma (vedi foto alle pp. 52-53). Secondo la tradizione cristiana, Prassede e Pudenziana, vissute all’epoca di papa Pio I (140-155), erano figlie del senatore cristiano Pudente. L’uomo aveva trasformato la sua abitazione in una domus ecclesiae, al cui interno le due sorelle costruirono un battistero, iniziando a convertire numerosi pagani. Pudenziana, morta a soli a 16 anni, fu sepolta nel cimitero di Priscilla, sulla via Salaria. Prassede subí il martirio nel corso delle persecuzioni di Antonino Pio (138-161), dopo avere nascosto molti cristiani e avere provveduto a dare loro sepoltura.

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costume e società pellegrini a roma La «figlia di Cicerone»

Un ritrovamento sensazionale In margine ai culti contesi o caduti in declino, vale la pena di menzionare anche un culto eterodosso, subito soffocato. In molti casi, infatti, l’accendersi dell’interesse e della devozione popolare veniva contrastato dalle autorità cittadine. Eccone un esempio, non molto noto. Nel 1485 scavando lungo l’Appia antica, presso la tomba di Cecilia Metella, alcuni contadini trovarono un’antica tomba dentro la quale – a detta dei diaristi Stefano Infessura e Gaspare Pontani – fu trovato,

perfettamente conservato, il corpo di una fanciulla di quindici anni che venne poi identificata (con una certa fantasia) come la figlia di Cicerone. La giovane, sostengono i cronisti, sembrava solo addormentata, per via della perfetta conservazione del corpo e delle vesti. Migliaia di persone accorsero in Campidoglio, dove le spoglie furono portate, per ammirare l’eccezionale miracolo. Pontani sottolinea che si creò presto una tale folla che «pareva

furono invece fortificate, e tra il IX e il X secolo divennero vere e proprie città-satelliti, prendendo il nome, rispettivamente dal martire ivi sepolto (Laurenziopoli) e dal pontefice che promosse la sua fortificazione (Giovannipoli, da Giovanni VIII). Quest’ultima fu una delle chiese piú importanti della città fin dai primi secoli del cristianesimo. Sorgeva su un cimitero della via Ostiense, nel luogo in cui era stato sepolto l’apostolo Paolo nell’anno 67 d.C. Una piccola basilica ad corpus vi era sorta subito dopo la pace costantiniana, quando cessarono le persecuzioni. Il numero crescente di fedeli rese insufficiente la primitiva basilicula costantiniana e un’altra, molto piú vasta, sorse nella seconda metà del IV secolo.

Le sette tappe della penitenza

Itinerari, guide per pellegrini, indulgenziari, ci parlano dell’importanza di S. Paolo all’interno del pellegrinaggio alle Sette Chiese. Sappiamo che tale pellegrinaggio, attestato con certezza dalla prima metà del VII secolo, inseriva la basilica di S. Paolo in un iter penitenziale molto battuto: esso prevedeva la visita, frammentabile in piú giorni, alle basiliche di S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, S. Lorenzo, S. Croce in Gerusalemme e S. Sebastiano. In una delle basiliche a scelta, una volta al giorno si era tenuti a seguire la messa e a prendere la comunione. Tale pellegrinaggio conobbe un successo straordinario durante i secoli del Medioevo e perdurò fino all’età contemporanea, praticato da devoti provenienti da tutte le parti del mondo e di ogni condizione sociale. Anche la basilica di S. Lorenzo, come si è appena ricordato, mantenne la sua funzionalità nel periodo delle traslazioni. Lorenzo era stato martirizzato nel 258 e il suo corpo era stato

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ce fusse la perdonanza» (cioè l’indulgenza plenaria). Papa Innocenzo VIII, contrariato dal fatto che una fanciulla pagana suscitasse tanto interesse e ammirazione, fece trafugare nottetempo la salma e la fece seppellire nei campi limitrofi al Muro Torto (nel cimitero sconsacrato destinato agli attori, alle prostitute, e a chi era stato giustiziato prima di ricevere la confessione), provocando la rabbia e l’indignazione del popolo romano.

deposto lungo la via Tiburtina in un terreno appartenente alla nobile Ciriaca. In età altomedievale la visita a S. Lorenzo fuori le Mura era una pratica molto sentita: per renderla piú agevole, fu realizzato un portico che conduceva dalla Porta Tiburtina alla chiesa, che fu inserita in tutti gli itinerari e guide per pellegrini. Nel IX secolo fu fortificata, e il corpo di Lorenzo (come quello di Pietro, di Paolo e di pochi altri) non fu mai traslato. S. Sebastiano rimase la chiesa piú importante tra quelle catacombali, sempre visitabile e mai abbandonata. La chiesa fu inoltre protagonista della piú celebre traslazione mai avvenuta: nei suoi sotterranei sarebbero state temporaneamente sistemate – durante una delle persecuzioni piú feroci, quella promossa dall’imperatore Valeriano nel 258 – le reliquie di Pietro


e Paolo. La comunità romana si ritrovò fisicamente e ideologicamente attorno alle reliquie dei due apostoli, dando origine – a partire da allora – al culto della Memoria Apostolorum. La sola permanenza nella catacomba di S. Sebastiano delle reliquie dei principi degli Apostoli (seppure per un arco di tempo limitato), fu sufficiente ad accrescere la sacralità del luogo e mantenervi una virtus speciale, di cui avrebbero beneficiato i visitatori.

Nel nome di Maria

La Roma medievale quindi fu sempre protesa alla promozione e alla difesa del culto dei martiri, ma non mancò di accogliere anche culti non martiriali. Uno dei principali fu quello di Maria, che si concretizzò con l’edificazione della chiesa di S. Maria Maggiore, inaugurata da Sisto III (432-440). Tale fondazione intendeva celebrare le decisioni del concilio di Efeso, che aveva sancito il dogma della concezione virginale di Maria, contro l’eresia di Nestorio. La definizione della maternità virginale di Maria ribadiva quindi la presenza in Cristo di una doppia natura, umana e divina. In questa chiesa fu portata e si conserva tuttora l’icona mariana piú importante della città, la Salus populi romani, che nella festa dell’Assunzione, il 15 di agosto, si portava in processione insieme all’icona del Salvatore custodita al Laterano. L’esplosione del culto mariano a Roma ebbe anche un altro grande fattore trainante: l’iconoclastia, cioè la lotta contro le immagini sacre promossa nell’Alto Medioevo da alcuni imperatori bizantini, che vedevano nella loro proliferazione una forma di neopaganesimo. L’Occidente, ma Roma soprattutto, fu invasa da icone che, sebbene non provenissero tutte dall’Oriente, vennero comunque realizzate da monaci orientali in fuga dall’iconoclastia, ma anche dalle invasioni arabe. Occorre considerare che, nel VII secolo, a Roma, 6

monasteri su 24 erano retti da monaci orientali. Questo clero ebbe una grande influenza sulla città altomedievale e i monasteri greci divennero veri e propri centri di cultura e di studio. Essi diffusero anche la venerazione di nuovi santi, quali Anastasio, Ciro e Giorgio, ma, soprattutto, incrementarono la diffusione del culto mariano. Nel VII secolo quasi ogni chiesa cittadina si dotò di una icona mariana. Ancora oggi sono conservate quelle celebri di S. Maria in Portico, S. Maria in Trastevere, S. Maria ad Martyres (il Pantheon), S. Maria Antiqua al Foro Romano e S. Maria Maggiore. L’influsso greco nella Roma di quegli anni si può leggere anche nelle leggende fiorite attorno alla figura di Sant’Alessio, un personaggio oggi semisconosciuto, ma veneratissimo nella Roma medievale, come anche attesta la Vita di Santa Francesca Romana, sua grande devota. Nel secolo IX iniziò a circolare a Roma una leggenda greca che trasformava significativamente la figura del santo delle origini: ne situava la nascita a Roma e qui ne fissava la morte, avvenuta al tempo degli imperatori Arcadio e Onorio (395-408). La stessa leggenda narrava che l’icona della Vergine venerata a S. Bonifacio (oggi SS. Alessio e Bonifacio) sull’Aventino avrebbe parlato al sacrestano e gli avrebbe rivelato che il mendicante che sostava fuori le porte della chiesa fosse un santo. La voce si sarebbe diffusa rapidamente fra il popolo romano che iniziò a venerarlo. Dopo intricate vicende, che portarono Alessio lontano da Roma, egli vi fece ritorno sotto anonimato e chiese ospitalità nella casa paterna. Il padre, senza riconoscerlo, lo accolse in casa, dove Alessio rimase per diciassette anni, dormendo sotto una scala fino al giorno della morte, quando tutte le campane di Roma avrebbero iniziato spontaneamente a suonare a festa. La leggenda rielaborata e tradotta in latino da un gruppo di monaci orientali stabilitisi sull’Aventino, divenne talmente noSanta Cecilia, statua in marmo pario di Stefano Maderno (1570– 1636). 1600. Roma, basilica di S. Cecilia in Trastevere. L’artista diede alla scultura, collocata sotto l’altare maggiore, le fattezze del corpo della martire, cosí come si dice che fosse stato trovato in occasione della ricognizione del sepolcro della santa, effettuata nel 1599.


costume e società pellegrini a roma ta da trovare posto in questa forma nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. A partire dal Basso Medioevo, però, la reliquia piú importante della città fu la Veronica. I pellegrini che si recavano a Roma in occasione degli anni santi, ne applicavano una piccola riproduzione sul proprio cappello, cosicché essa divenne l’emblema della città, proprio come stava avvenendo per la conchiglia a San Giacomo di Compostela e la palma a Gerusalemme. Nel 1289 papa Niccolò IV giunse ad affermare che questa reliquia era piú importante della stessa tomba di Pietro e di ogni altra reliquia. L’enorme popolarità del suo culto è attestata anche da Dante, che ne parla sia nella Vita Nuova che nella Divina Commedia, e da Giovanni Villani, dal quale veniamo a sapere che, durante il giubileo, essa veniva mostrata ai fedeli ogni giorno festivo e ogni venerdí, in omaggio alla Passione. Ai personaggi illustri poteva essere mostrata anche eccezionalmente, come accadde durante il pontificato di Clemente VI (13421352), che autorizzò ben 12 ostensioni straordinarie.

La leggenda della «Vera icona»

La sua presenza nella basilica vaticana viene segnalata per la prima volta a partire dal X secolo. Tuttavia, il nucleo primitivo del racconto della sua origine, stratificatosi nel tempo secondo diverse varianti, era costituito da una leggenda risalente al III secolo. Secondo questa tradizione Abgar di Edessa, afflitto da una malattia incurabile e venuto a conoscenza delle facoltà taumaturgiche di un certo Gesú di Nazaret, gli avrebbe inviato un suo messo di fiducia, Hannan, per chiedergli di guarirlo. Hannan avrebbe voluto dipingere un ritratto di Gesú, confidando sul potere guaritore che da quell’immagine sarebbe scaturito, ma ecco che, per virtú divina, la tela, posta al cospetto del Salvatore, sarebbe rimasta impressa della sua effigie. Successivamente la leggenda conobbe diverse varianti, la piú significativa riguardò l’introduzione della figura dell’emorroissa, la donna guarita da Cristo sulla via del Calvario. Nel vangelo apocrifo Vindicta Salvatoris, anteriore all’VIII secolo, ad ammalarsi di lebbra è l’imperatore Tiberio, il quale, quando è ormai troppo tardi, avrebbe mandato un messo a cercare Gesú in Palestina. Appresa la notizia della sua morte, il messo si sarebbe a tal punto disperato da suscitare la compassione dell’emorroissa, che gli avrebbe offerto di portare a Tiberio il panno con il quale lei stessa aveva asciugato il sudore e il sangue di Cristo sulla via del Calvario e sul quale erano rimasti impressi i tratti del suo volto. Probabilmente si generò una confusione tra il termine di «Vera icona» che dovette meritare il panno e il nome dell’emorroissa, che nella leggenda viene chiamata Veronica. Nella versione medievale romana riportata dal teologo gesuita Ottavio Panciroli nel 1600, la stessa emorroissa avrebbe portato il panno a Roma «per smentire le menzogne dei giudei»: «i giudei ricantavano la favola del corpo rubato dai suoi discepoli e della finta risurre-

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La basilica di S. Sebastiano fuori le Mura, la piú importante

chiesa catacombale di Roma, in un’incisione del XVII sec.

tione [di Gesú] (…) il che non potendo soffrire Santa Veronica mostrò a gl’ambasciatori di Tiberio quella sacra immagine e s’offerse di venir con essi a Roma».

Quasi una damnatio memoriae

Questa versione, connotata da forti accenti antigiudaici, comuni nella cultura religiosa bassomedievale, venne in seguito respinta dalla Chiesa. Il cardinale Baronio, incaricato nel 1582 della revisione del Martirologio romano, soppresse il nome di Santa Veronica e Carlo Borromeo lo espunse dal rito ambrosiano, dal messale e dai calendari. Si accettava la venerabilità del sudario, ma la figura di Veronica venne cancellata, in quanto, come scrisse lo storico e paleografo francese Jean Mabillon «Veronica vocabulum esse imaginis, non mulieris», («Veronica è il nome dell’immagine e non della donna»). La lotta ingaggiata dalla Chiesa controriformistica contro il culto reso a Santa Veronica non sembra tuttavia sufficiente a giustificare l’alone di mistero che avvolse l’improvvisa scomparsa della reliquia dalla città. (segue a p. 64) giugno

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Pellegrini sulla tomba di S. Sebastiano a Roma. Olio su tavola di Josse Lieferinxe, pittore francese attivo tra il 1493 e il 1508. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

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sulle tracce degli apostoli

«Domine, quo vadis?»

In alto San Paolo visita San Pietro in carcere, particolare. Affresco di Filippino Lippi (1457-1504). 1482-1485. Firenze, basilica di S. Maria del Carmine, Cappella Brancacci. Nella pagina accanto veduta dell’interno del carcere Tulliano a Roma, dove, secondo la tradizione, furono imprigionati San Pietro e San Paolo.

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Durante il Medioevo andare a Roma significò sempre arrivare «ad limina apostolorum», alla tomba dei principi degli apostoli Pietro e Paolo. I pellegrini che arrivavano in città volevano visitare le tombe degli apostoli, condurre i propri passi là dove essi erano stati catturati, incarcerati e infine uccisi per non aver voluto rinnegare la propria fede. Nei confronti di Pietro la devozione popolare fu particolarmente accesa, e fece nascere numerosi luoghi di culto, a ognuno dei quali corrispondeva una tappa dell’apostolo nell’Urbe. Nacque cosí il santuario del «Tullianum» o Carcere Mamertino, alle pendici del Campidoglio. Qui sorgeva il carcere della città e qui, durante la persecuzione di Nerone, vennero imprigionati Pietro e Paolo. Secondo gli Atti dei martiri Processo e Martiniano, scritti tra il V e il VI secolo su una base documentaria molto piú antica, Pietro avrebbe convertito i propri carcerieri, Processo e Martiniano appunto, che avrebbero poi fatto fuggire dal carcere lui e Paolo. Durante la sua permanenza nella prigione, però, Pietro sarebbe stato duramente maltrattato dai suoi carcerieri, i quali l’avrebbero spinto, facendogli battere la testa su una parete del Tullianum, dove sarebbe rimasta miracolosamente impressa l’impronta giugno

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del suo capo, tuttora visibile. Il luogo fu oggetto di una intensa devozione, testimoniata nell’VIII secolo dal redattore dell’itinerario di Einsiedeln. Dopo l’evasione, Pietro sarebbe giunto nel luogo dove oggi sorge la chiesa dei SS. Nereo e Achilleo. Qui avrebbe perduto una fascia che gli bendava le ferite procurategli dalle catene. Questo luogo fu da allora denominato S. Pietro in fasciola, e vi nacque un santuario che solo piú tardi cambiò il suo nome in quello attuale. Anche sulle catene dell’apostolo nacque un luogo di culto, S. Pietro in Vincoli, dove si conservavano a partire dal V secolo anche quelle provenienti dalla Palestina che la tradizione sosteneva fossero state portate da Gesú. Pietro, continuando la fuga, prese la via Appia, probabilmente per raggiungere il mare e da lí imbarcarsi per l’Oriente. Giunto al bivio con l’Ardeatina, incontrò un uomo che in fretta camminava nella direzione opposta, alla volta di Roma. Con stupore Pietro riconobbe in questo sconosciuto Gesú e gli domandò: «Domine, quo vadis?» («Signore, dove vai?»). L’uomo gli rispose: «Venio Romam iterum crucifigi» («Vado a Roma per essere crocifisso una seconda volta») e subito dopo scomparve. Spinto da quelle parole, Pietro decise di tornare sui suoi passi e fece rientro in città, pronto al martirio. Sempre secondo gli Atti dei martiri Processo e Martiniano nel luogo in cui Cristo era scomparso rimase l’impronta miracolosa dei suoi piedi. Impronta che si volle riconoscere, già in età antica, in una pietra tuttora conservata nella chiesa di S. Sebastiano, lungo l’Appia. Si tratta, in realtà, di un ex voto lasciato da un anonimo viaggiatore di età romana che intendeva rendere grazie agli dèi per essere giunto sano e salvo alla fine del suo lungo viaggio. Rinvenuto con grande probabilità nei dintorni del santuario dovette dare adito alla leggenda. Il luogo, in ogni caso, conobbe, sin dai tempi piú antichi, una sentita devozione e, intorno al IX secolo, vi sorse un piccolo santuario, chiamato ubi Dominus apparuit o Domine quo vadis. Nel XIV secolo la chiesa ottenne l’attuale nome di S. Maria delle Palme e, sotto il pontificato di Clemente VIII, nel 1620, fu completamente ristrutturata, assumendo l’aspetto attuale e mantenendo il facsimile delle impronte di Gesú, tuttora venerato dai numerosi pellegrini che affluiscono nelle contigue catacombe. Un’altra pietra, anch’essa legata alla presenza di Pietro a Roma, che riscosse un grande successo nel Medioevo è quella dei Silices Apostolici. Secondo un vangelo apocrifo, Gli atti di Pietro, Simon Mago, proveniente dalla Terra Santa, avrebbe sfidato Pietro con

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l’intenzione di mostrare al popolo romano la superiorità dei propri poteri soprannaturali rispetto a quelli dell’apostolo di Cristo. A tale scopo avrebbe spiccato il volo dalla Velia, il colle tra Foro e valle del Colosseo (oggi non piú esistente, n.d.r.), alla presenza di Nerone. Pietro, inginocchiandosi sulla pietra (un basolo stradale in selce, da cui il nome), sarebbe riuscito con la preghiera a dissolvere la demoniaca magia di Simone, che qui precipitò e morí. Secondo la leggenda, sul luogo in cui Pietro si sarebbe inginocchiato rimase impressa la forma delle sue ginocchia. Nel Medioevo si era soliti mostrare ai pellegrini anche i quattro basoli dove sarebbero rimaste visibili le quattro parti in cui Simon Mago si sarebbe diviso sfracellandosi al suolo. Gli atti di Pietro furono presto espunti dai Vangeli, ma il ricordo dell’episodio del volo di Simon Mago sopravvisse nella memoria dei pellegrini, al punto che papa Paolo I, intorno al 760, fu costretto a costruire un piccolo oratorio per permettere la devozione ai «silices apostolici». L’oratorio fu successivamente inglobato dalla chiesa di S. Maria Nuova, poi intitolata a Francesca Romana, dove ancora oggi sono visibili. Il luogo della sepoltura di Pietro, dette origine al piú grande santuario cristiano, S. Pietro in Vaticano. Egli vi fu inumato dopo la crocifissione avvenuta nel vicino circo di Caligola. Esistono testimonianze che indicano che la sua tomba, come quella di Paolo, fosse nota e riconoscibile già alla fine del II secolo. Le reliquie dei due santi furono poi messe al sicuro, durante la persecuzione di Valeriano del 258, portandole nel cimitero di Sebastiano sull’Appia; successivamente furono rimesse al loro posto. Con la conclusione delle persecuzioni e l’editto sulla libertà religiosa di Costantino, sulla tomba di Pietro sorse una grande basilica che, nonostante gli imponenti rifacimenti rinascimentali, conserva tuttora l’altare perfettamente perpendicolare al sepolcro dell’apostolo. I suoi resti ossei sarebbero stati ritrovati e riconosciuti grazie a scavi promossi alla metà del XX secolo, anche se la materia, com’era inevitabile, ha dato luogo a grandi discussioni tra gli studiosi. La presenza di Pietro in città dette origine ad altri due luoghi di culto, basati su notizie deformate o leggendarie. Sul Gianicolo fu eretta, là dove una tradizione molto tarda ed erronea poneva il luogo della crocifissione dell’apostolo, S. Pietro in Montorio. Invece, la presenza presso il Vaticano di un mausoleo dedicato a Petronilla, una tra le seguaci piú devote di Pietro al tempo della sua predicazione romana, fece nascere secoli dopo la voce che la donna fosse figlia carnale dell’apostolo («filia sancti Petri», «figlia di san Pietro» era definita nel Medioevo).

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costume e società pellegrini a roma

Ancora secondo Panciroli (che scrive settant’anni dopo i fatti) essa sarebbe stata rubata durante il sacco di Roma del 1527, ma in seguito «miracolosamente» recuperata dal pontefice. È assai piú probabile, invece, che non sia mai piú stata ritrovata. Come del resto sembra indicare il diradarsi delle sue ostensioni in età moderna, e il fatto che quando si decise di mostrarla ai pellegrini, lo si fece sempre dall’alto e da una certa distanza. L’ultima segnalazione di una sua esposizione risale al 1854, quando la reliquia sarebbe stata posta sull’altare del Santissimo Sacramento in occasione della definizione del dogma dell’Immacolata Concezione. Dopo questa data le sue tracce sembrano perdersi definitivamente.

L’imperatrice archeologa

Un altro importante polo di attrazione per i pellegrini romani era la chiesa di S. Croce in Gerusalemme, che raccoglieva un gran numero di reliquie ed era stata fondata dalla prima grande cercatrice di sacri resti, l’imperatrice Elena, madre di Costantino. Sin dal IV secolo si era diffuso il racconto, riportato da Sant’Ambrogio, secondo il quale l’imperatrice avrebbe fatto condurre un vero e proprio scavo archeologico sul Golgota, alla ricerca della Croce. Avendone rinvenute tre (due erano quelle appartenute ai «ladroni» crocifissi con Gesú), Elena avrebbe provato l’autenticità di quella di Cristo, facendovi adagiare il corpo di un uomo morto da poco.

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In alto Roma, chiesa dei SS. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro. Affresco raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che scopre la Croce di Cristo a Gerusalemme. 1246. Nella pagina accanto

ostensione della Veronica, da un’edizione del 1475 dei Mirabilia Romae, Historia et Descriptio Urbis Romae, una guida ai luoghi di pellegrinaggio di Roma, con le descrizioni di chiese e reliquie in esse contenute.

A contatto con il sacro «instrumentum», che da allora si chiamò la «Vera» Croce, l’uomo sarebbe resuscitato. Lo scrittore bizantino Sozomeno, per giustificare la presenza di parte della Vera Croce a Costantinopoli, aveva apportato un’aggiunta al racconto di Ambrogio: dopo il ritrovamento, Elena avrebbe diviso la preziosa reliquia in due parti e ne avrebbe inviata una nella capitale dell’impero d’Oriente. Nella versione romana della leggenda, Elena avrebbe invece diviso la reliquia in tre parti portandone una con sé a Roma insieme al titulus crucis, che avrebbe poi deposto all’interno della Basilica Sessoriana (S. Croce appunto). La basilica, inoltre, sarebbe stata edificata sulla «terra di Gerusalemme», ovvero su una manciata di terra prelevata dal Santo Sepolcro dalla stessa imperatrice. Tra il V e il VI secolo, molti personaggi di rilievo, di ritorno da Gerusalemme, portavano con sé reliquie di questo genere. Gregorio di Tours, nel VI secolo, parla dell’usanza dei pellegrini cristiani di riportare dalla Terra giugno

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Santa pani di terra prelevati nell’area del Santo Sepolcro, colonna della Flagellazione, ancora oggi venerata a S. convinti che avrebbero avuto virtú taumaturgiche. Volen- Prassede nell’oratorio di S. Zenone, le cui prime attedo quindi attribuire alla tradizione leggendaria e alla de- stazioni risalgono, però, alla metà del Quattrocento. Il nominazione della basilica un valore indiziale, potremmo cardinale Giovanni Colonna, a cui è attribuito l’arrivo verosimilmente immaginare che l’imperatrice, di ritorno della reliquia nella basilica, fu legato d’Oriente e cardal suo viaggio in Oriente, storicamente attestato, avesse dinale titolare della basilica, ed è quindi probabile che, riportato alcune delle reliquie ancora conservate all’inter- secondo la consuetudine, di ritorno da un suo viaggio no della basilica, come la croce e il Titulus crucis (ovvero in Terra Santa, avesse portato con sé una reliquia gerol’iscrizione INRI, Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, apposta solimitana. La Colonna (mutila) di diaspro sanguigno, sopra la Croce di Gesú, n.d.r.). Quest’ultimo fu rinvenuto alla quale, secondo la tradizione, sarebbe stato leganella basilica nel 1492, in occasione di una campagna di to Cristo durante la flagellazione è oggi esposta nella restauri ben documentata dalle fonti coeve. chiesa e riceve ancora un’enorme venerazione. Il successo bassomedievale della leggenda dello scaA Elena fu attribuito anche l’arrivo a Roma della Scavo di Elena ci è testimoniato a Roma da uno splendi- la santa, oggi nella piazza del Laterano e che Cristo avrebdo ciclo di affreschi realizzato intorno al be percorso per recarsi in giudizio 1250, nella cappella di S. Silvestro, presda Pilato. Con l’emanazione della Da leggere so la chiesa dei SS. Quattro Coronati. La bolla Cum singularum rerum del ripresa del mito del viaggio di Elena deve 1590, la reliquia fu dichiarata auU Richard Krautheimer, Roma. Profilo spiegarsi anche in relazione al movimententica ed è attualmente una delle di una città 312-1308, Edizioni to crociato, che fece affluire in Occidenpiú venerate della città. dell’Elefante, Roma 1981 te un numero impressionante di reliquie U Arsenio Frugoni, Pellegrini a Roma Devozione gerosolimitane. In questo periodo, alla nel 1300. Cronache del primo e propaganda lista delle reliquie menzionate da Amgiubileo, Piemme, Milano 1999 In conclusione si può dire che, brogio – la croce, i chiodi e il titolo –, se U Andrea Giardina, André Vauchez, nell’Alto Medioevo, la venerazione ne aggiunsero molte altre. Il mito di Roma, Laterza, Roma-Bari dei martiri fu preponderante a RoProprio a seguito delle crociate ar2000 ma e rispose a un preciso programrivarono a Roma, sotto il pontificato di U André Vauchez (a cura di) Roma ma di promozione politica della Onorio III, anche la terza parte della medievale, Laterza, Roma-Bari città da parte dei papi. Nel Basso 2001 Medioevo, invece, si affermarono culti legati a Cristo e alla Terra Santa. Ciò avvenne soprattutto a seguito delle crociate, che favorirono l’arrivo di numerose reliquie gerosolimitane, particolarmente efficaci nel veicolare messaggi palesemente antigiudaici e antimusulmani, all’epoca molto diffusi grazie alla predicazione degli Ordini mendicanti. Nei testi liturgici, cosí come negli itinerari per i pellegrini dell’epoca, ci si riferisce a tali reliquie in termini di «santa spina» con la quale i Giudei «trafissero il capo di nostro Signore» o «la croce cui fu appeso Cristo dai perfidi Giudei». Anche la meditazione sulla Passione, a Roma come altrove, si trasformava in una riflessione sulla «colpa degli Ebrei», enfatizzata dalla devozione verso gli instrumenta Passionis. Il motivo antimusulmano, invece, si collegava alla propaganda crociata. Le reliquie della Passione dovevano ricordare che il Santo Sepolcro era in mani nemiche e che quindi l’impegno per la sua liberazione doveva restare sempre vivo. Questi due aspetti possono essere ben rappresentati dalle parole con cui un diarista dell’epoca, Stefano Infessura, celebra e associa il ritrovamento del Titulus crucis a S. Croce in Gerusalemme alla notizia (giunta nello stesso giorno del 1492) della riconquista di Granada, ultima roccaforte musulmana in Spagna, e a quella della condanna da parte della Curia romana di un medico ebreo, accusato dell’omicidio di tre giovani fanciulli. F

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di Flavio Russo

Otranto 1480

Li Turchi a la

marina

All’indomani della presa di Costantinopoli del 1453, l’impero ottomano visse uno dei suoi momenti di massima espansione. Le truppe che combattevano sotto le insegne di Maometto II, non a caso ribattezzato il Conquistatore, seminarono il panico per molti anni, mostrandosi pressoché imbattibili. E, nell’estate del 1480, una flotta guidata dal visir Gedik Ahmed Pascià si affacciò sulle coste pugliesi. Nonostante l’eroica resistenza dei suoi abitanti, Otranto cadde nelle mani degli assalitori. I quali, però, non sfruttarono fino in fondo il successo ottenuto... Miniatura di scuola turca raffigurante l’esecuzione di un uomo tramite impalamento, un metodo utilizzato dalle truppe ottomane per punire i ribelli. XV-XVI sec. Anche in occasione della presa di Otranto, secondo le cronache del tempo, i conquistatori musulmani commisero violenze ed efferatezze ai danni dei vinti.


Dossier

I I

l 29 maggio del 1453 Costan‑ tinopoli fu espugnata da Ma‑ ometto II, e l’evento scatenò il panico in Occidente. Pochi mesi do‑ po, Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, scriveva questa tragica relazione: «Ha deciso di assalire l’anno prossimo l’Italia, sta preparando una flotta immensa, procura anche ciò che è necessario alla guerra. Ha scelto come punto di transito il tratto da Durazzo a Brindisi... [da] Graz di Stiria, 25 settembre 1453». La notizia, preoccupante ovun‑ que, lo fu maggiormente per il re‑ gno di Napoli, poiché coincideva con i piú foschi timori di invasione del re Alfonso d’Aragona, avallati dalla brevissima distanza dalla costa dalmata. La vastità della sua fron‑ tiera marittima e la cronica penuria di denaro obbligarono a privilegiare le riqualificazioni difensive lungo la costa adriatica, in particolare in al‑ cune città portuali, trasformandole in antesignane piazzeforti maritti‑ me, a partire proprio da Brindisi. Ma dopo un iniziale fervore, l’avanza‑ mento dei lavori dapprima rallentò, poi si arrestò quasi del tutto! Tra‑ scorsero cosí quasi vent’anni, finché l’aggravarsi della situazione stimolò un piú serio intervento.

Una reazione inadeguata

Per ordine del re, Brindisi fu chiusa dalla parte del mare da solide mu‑ ra, intervallate da massicce torri. Onde assicurarsi del perfetto anda‑ mento dei lavori il nuovo re, Ferdi‑ nando I, inviò nel 1474 il figlio Al‑ fonso II, duca di Calabria. In breve, conclusa la tornata edificatoria e affissa al di sopra della porta, detta Reale, l’iscrizione commemorativa, la città fu di nuovo abbandonata a se stessa di fronte alla crescente minaccia turca. In ultima analisi quei modesti lavori erano stati una effimera reazione al terrore, che, attenuandosi, portò a trascurare il programma. I Turchi, dal canto loro, persegui‑ vano i preparativi militari, dei quali non mancavano molte allarmate segnalazioni. Come se non bastas‑ se, già da alcuni anni, era stato in‑

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sediato a Valona un pascià di origi‑ ne slava, ex giannizzero e pertanto rinnegato, di nome Gedik Ahmed Pascià. Stando alle fonti turche, in‑ nalzato nel 1472 al rango di Gran visir, caduto in disgrazia e riabilitato dopo una breve detenzione in una fortezza dell’Anatolia, fu posto a ca‑ po della flotta ottomana, ottenendo il governatorato di Valona per i suc‑ cessi nel frattempo conseguiti. Da alcuni documenti venezia‑ ni, infatti, risulta che nel 1479, lo stesso Ahmed Pascià, con centocin‑ quanta vele, assalí ed espugnò San‑ ta Maura, già Leucade, abbandona‑ ta dai suoi difensori, e poi l’intero arcipelago delle Ionie. Di fatto, la conquista sistematica delle isole eli‑ minava tutti gli avamposti cristiani a ridosso della costa balcanica, la‑ sciando ai corsari islamici comode basi per assalire il traffico mercan‑ tile in Adriatico.

La città dei pirati

Non a caso, quasi un secolo dopo, proprio Santa Maura venne inse‑ rita, nonostante la sua ubicazione geografica, tra le principali basi corsare barbaresche, da padre Pier‑ re Dan nella sua opera Histoire de Barbarie et de ses corsaires (pubblicata a Parigi nel 1637), con queste pa‑ role: «Santa Maura, città molto nota per essere stata una delle maggiori basi di pirati del Levante, e particolarmente turchi, i quali con gran numero di brigantini, di galere, e di altri vascelli, perpetrarono delle gravissime violenze ai mercanti cristiani. Questa città è sul mare Adriatico, in una isola prossima alla terra ferma, dove si apre un ottimo porto: dipende dal Regno di Albania, e apparteneva una volta alla Repubblica di Venezia, alla quale i Turchi l’hanno strappata ormai da molto tempo (...) ma gli sforzi sostenuti per riattivarla e svilupparla nuovamente come base corsara non sono serviti a nulla». «La ragione va ricercata nella vicinanza di Venezia (...) ogni volta infatti che le sue navi sorprendono tali corsari turchi o barbareschi, di qualsiasi nazione siano, li uccidono; e troncatagli la testa, la gettano nel mare, senza servirsi di un (segue a p. 72) giugno

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A sinistra l’assedio di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453. Miniatura di scuola francese da un’edizione del Directorium ad faciendum passagium transmarinum. XV sec. La città di Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino, fu conquistata dagli Ottomani, guidati

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dal sultano Maometto II dopo un assedio durato quasi tre mesi, il 29 maggio del 1453. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso particolare del ritratto del sultano Maometto II. Olio su tela di Gentile Bellini (1429-1507). 1480. Londra, National Gallery.

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Dossier

L’impero che fece tremare l’Europa Per «impero ottomano» si intende lo Stato turco, formatosi nel tardo Medioevo in territorio bizantino, che si estese rapidamente in tutti i sensi sino a comprendere vaste regioni d’Asia, d’Africa e d’Europa. Durò oltre sei secoli (dal 1300 circa al 1922) e rappresentò nella storia europea e mediterranea un elemento d’importanza capitale. Originari, come tutti i Turchi, dell’Asia centrale, gli Ottomani (cioè i «discendenti di ‘Osman [od ‘Othman]»: prima il nome designava la dinastia, piú tardi il popolo) vennero probabilmente nell’Anatolia con l’invasione selgiuchide (XI secolo) e da quei sultani furono investiti della signoria di un territorio corrispondente in parte all’antica Bitinia. Le loro conquiste nei Paesi cristiani furono rapide e durature: Brussa (1326), Nicomedia (1337), Gallipoli

Caffa Mar Nero Costantinopoli

Bucarest

M

Belgrado

(1354), Adrianopoli (1361-62), Sofia (1386). Nel 1391 ebbe inizio l’attacco a Costantinopoli. Il dominio ottomano si era intanto allargato a quasi tutta l’Anatolia: i principi spodestati si allearono allora con Tamerlano, che stava creando un immenso impero mongolo, e lo spinsero contro il sultano ottomano Bayazid I, che nel 1402 fu battuto e catturato ad Ankara. Dalla grave crisi, che salvò momentaneamente Costantinopoli, gli Ottomani si risollevarono con Maometto I, che ridiede unità allo Stato (1413), e con suo figlio Murad II, che tornò ad assediare Costantinopoli ed estese i suoi domini verso la Grecia, l’Albania e l’Ungheria, sbaragliando una coalizione cristiana a Varna (1444). Nel 1453 il giovane sultano Maometto II s’impadroní dell’isolata Costantinopoli.

ar Ca sp

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Salonicco Atene Tunisi

L’IMPERO OTTOMANO E LA SUA ESPANSIONE TRA IL XIV E IL XVII SEC.

Mar Mediterraneo

Tripoli

Baghdad

Gerusalemme

Il Cairo

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La Mecca

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Principati ottomani nel 1300 Acquisizioni dal 1300 al 1359 Acquisizioni dal 1359 al 1451 Acquisizioni dal 1451 al 1481 (Maometto II) Acquisizioni dal 1512 al 1520 (Selim I) Acquisizioni dal 1520 al 1566 (Solimano il Magnifico) Acquisizioni dal 1566 al 1683

Damasco Alessandria

Con Maometto II Fatih («il Conquistatore»), tra il 1456 e il 1480, l’impero ottomano si annetté la Grecia, l’Albania, la porzione d’Anatolia non ancora sottomessa, le colonie genovesi del Mar Nero, e cercò di allungare i suoi tentacoli sino alla Penisola italiana (come dimostrano i fatti di Otranto, nel 1480). Con Bayazid II (1481-1512), l’impero ottomano arrotondò i suoi confini meridionali a danno dei sultani mamelucchi di Siria e d’Egitto; con Selim I (1512-20) si allargò addirittura sino a comprendere Siria, Egitto e Arabia. Scudo rotondo turco con l’umbone centrale in forma di punta di lancia. XVI sec. Venezia, Palazzo Ducale.

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L’assetto politico dell’Italia all’indomani della Pace di Lodi del 1454.

Le conquiste proseguirono con Solimano I (detto il Magnifico; 1520-66), che s’impossessò di Belgrado, Rodi, Buda, Baghdad, Tunisi e Algeria, delle Cicladi, dello Yemen e di Tripoli; per mare la potenza turca teneva testa a Venezia, mentre per terra conteneva ogni tentativo di riscossa di Spagna e d’Austria. Al tempo di Selim II (1566-74), lo slancio espansionistico sembrò esaurito; gli Ottomani, battuti a Lepanto (1571), ripresero faticosamente il sopravvento. Ma negli anni successivi la decadenza parve accentuarsi. Si alternarono per circa un secolo vittorie e sconfitte. Tuttavia, il declino, fino ad allora ben mascherato, divenne piú visibile dalla fine del XVIII secolo in poi. (red.)

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In alto, a destra sciabola in ferro con impugnatura in osso e smalti di manifattura turca. Cracovia, Czartoryski Museum. Qui accanto elmo di manifattura turca. XVI sec. Leeds, Royal Armouries.

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Dossier solo uomo per le ciurme delle loro galere, come gli altri principi cristiani sono soliti fare (...) il che compiono per annientare ogni illusione di salvezza nei corsari». Non deve perciò meravigliare che Gedik Ahmed Pascià, divenu‑ to governatore della poverissima e miserabile Valona, pensasse di incrementare i suoi scarsi proven‑ ti con azioni belliche importanti, avvalendosi della sua esperienza marittima, nonché dell’apporto dei corsari che popolavano le isole ap‑ pena conquistate. Anche queste sue smodate ambizioni non costituiva‑ no, sul finire degli anni Settanta del XV secolo, un segreto per nessuno, per cui a Napoli si voleva delibera‑ tamente ignorare il pericolo ormai prossimo. Forse la sola Venezia mostrava una migliore percezione e una piú coerente linea politico‑militare nei confronti del mutato conte‑ sto mediterraneo. Ma Venezia conduceva pur sempre la sua politica, ben conscia dell’im‑ portanza strategica dei porti pugliesi, che, qualora in suo possesso, le avrebbero ga‑ rantito la sovranità assoluta sull’Adriatico, ma, caduti in mano turca, sarebbero stati una catastrofe nazio‑ nale. Ambizioni e timori che finirono per spingere in un’unica direzione la strategia della Serenissi‑ ma. La guerra che per ben diciassette anni aveva con‑

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dotto contro i Turchi si era conclusa proprio nel 1479, con la definizione alquanto incerta dei nuovi confini e con l’ostentata reciproca volontà di non scontrarsi di nuovo nei preci‑ pui interessi.

Un obiettivo ideale

La concomitanza dei fattori fin qui esposti suggeriva ancora maggior‑ mente l’esposizione della penisola salentina, per la sua vicinanza alle basi turche (55 km) e per la lonta‑ nanza dalle pertinenze adriatiche veneziane, delle quali l’allineamen‑ to Otranto‑Valona segnava il limite. Ciò premesso, non desta eccessi‑ vo stupore credere che gli Ottomani

sollecitassero Venezia a una sorta di assistenza nel caso di un attac‑ co alla Puglia meridionale o forse la informassero circa le loro effettive intenzioni, dati gli ormai innegabili preparativi militari. Né si può esclu‑ dere del tutto che tali richieste non fossero state esaudite: di certo Ve‑ nezia non informò Napoli, che, seb‑ bene non alleata, apparteneva pur sempre allo stesso schieramento cristiano. Appare piú probabile, pe‑ rò, che, per la sua indubbia compe‑ tenza in materia di operazioni an‑ fibie, Venezia escludesse una con‑ quista turca irreversibile, ritenendo il Regno di Napoli sufficientemente forte per rintuzzarla. In definitiva, se attuata, quell’operazione sarebbe stata un’occasione straordinaria per un simmetrico dissanguamento di due suoi nemici, dal quale ne avreb‑ be potuto ricavare soltanto cospicui vantaggi. Senza entrare nella dibattu‑ ta questione circa l’esatta fina‑ lità della spedizione, per molti aspetti di tipo corsaro, all’inizio del 1480 dell’imminente spedi‑ zione ottomana si sapeva abba‑ stanza chiaramente sia a Venezia che a Napoli. Qui però, a diffe‑ renza di Venezia, in stretto contatto diplomatico con i Turchi dopo la recente pace, proprio per la modestia del‑ le imprese navali del pascià non destava eccessive pre‑ occupazioni. Con l’inoltrarsi della primavera le voci dell’at‑

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tacco turco si fecero piú insistenti e dettagliate: nel marzo anche a Napoli le informazioni assunsero un’inedita concretezza, mentre i dispacci informavano che il sulta‑ no a Valona aveva ormai pronti 20 000 uomini destinati ad attaccare la Puglia. Sul finire del Quattrocento gli sbarchi in forze richiedevano un ampio litorale sabbioso per l’atterraggio, una limitrofa abbondanza d’acqua dolce, e non lontano una piccola cittadella marittima. Que‑ sta andava presa d’assal‑ to per utilizzarne il porto, garantendosi cosí le co‑ municazioni navali con la base da cui dovevano giungere rinforzi, muni‑ zioni e viveri, e alla quale inviare il bottino.

Ducato in oro di Ferdinando I d’Aragona, emesso dalla zecca di Napoli durante il suo regno, dal 1458 al 1494. Padova, Museo d’Arte Medievale e Moderna.

Un appello disperato

«Atta alle industrie del mare»

Connotazioni pienamente soddi‑ sfatte in un arenile adiacente ai laghi Alimini, a poche miglia da Otranto, cittadina modestamente fortificata intorno a un mediocre porticciolo. Cosí la descrivevano le fonti coeve: «La città è d’abitazioni molto stretta, non essendo il circuito piú di 500 passi, perché 300 passi sta posta in terra e 200 viene bagnata dal mare; e li giardini sono vicinissimi e molti dentro il borgo (...) d’intorno molti casali, ville e terre vicine che la tengono grassa e abbondante d’ogni cosa necessaria al vitto, e dal mare le vengono continuamente molti sussidi, essendo la città atta alle industrie del mare, alle quali si esercitano molto gli abitatori» (Gio‑ vanni Michele Laggetto, Historia della guerra di Otranto del 1480). Stando alla maggioranza dei testimoni sopravvissuti, la flotta turca comparve dinanzi alla costa otrantina il 28 del mese di luglio del 1480. La formavano, e sul det‑ taglio le fonti sono sostanzialmen‑ te concordi, circa 40 galere sottili, 30 fuste (piccole galere, rispetto

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alle quali erano piú sottili e veloci, n.d.r.) di varie dimensioni nonché una ventina di unità minori e ol‑ tre 30 imbarcazioni da trasporto, dette «mahone» o «pallantarie». Su queste ultime erano imbarcati i cavalli, le artiglierie d’assedio e le munizioni. Lo sbarco non trovò alcuna opposizione, essendo il luo‑ go – allora come oggi – pressoché disabitato e poiché, nonostante gli allarmi, non era stata attivata al‑ cuna sorveglianza.

Nella pagina accanto busto in bronzo di Ferdinando I d’Aragona. XV sec. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

I Turchi – che forse non era‑ no piú di 15 000, con alme‑ no 400 cavalieri e 5 grosse bombarde – in 5000 assali‑ rono subito la città, mentre i restanti avviarono incursioni tra Vieste e Manfredonia. Per gli abitanti fu un risveglio orribile, a cui seguí l’affannoso prodigarsi per accogliere tra le mura i contadini col loro bestiame. Le porte vennero sprangate, ma nessuno si illuse circa la possibili‑ tà di una resistenza prolungata, da molti ritenuta, anzi, persino con‑ troproducente, a meno di non rice‑ vere soccorsi immediati da Napo‑ li, dove venne subito inviato un veloce messaggero con questo laconico e disperato dispaccio: «Serenissima e cattolica Maestà, L’istante necessità et evidente pericolo non pate che facciamo con Vostra M. tanti lunghi proemi, poiché l’armata Turchesca che tanti giorni è stata alla Vallona a quest’ora è comparsa ai danni nostri, la provvisione che è alla città è poca l’inimico è potente con 150 vele e piú e ci è venuto ad assaltare, che se la M.V. non fa subito quella provvisione che s’usi in breve tempo et è possibile a farsi, portamo gran pericolo di perderci et essere pigliati. Noi dal canto nostro non mancheremo di pensarci a quanto che sarà possibile e fare il debito nostro; ma il manco sarebbe a perder noi la vita e dei nostri figli: ma quel che piú importa sarà il diservitio di Dio e di V.M. che ne potrà nascere. La supplichiamo pertanto per amor di Dio che ne voglia soccorrere presto

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Dossier contro questo cane nostro Nemico e cosí potente, né diremo altro se non raccomandarci umilmente a vostra M. qual N.S. conservi in lunga vita con ogni felicità e noi liberi dalli nostri Nemici e dalla presente invasione. Data in Otranto il 29 Luglio 1480» (da G.M. Laggetto, op, cit.).

Resistenza eroica

La sera stessa i Turchi occupavano le adiacenze di Otranto, inizian‑ do i preparativi per l’investimento delle vetuste mura, inadeguate a resistere alle bombarde, per quan‑ to arcaiche, con poche bocche da fuoco, ammesso pure che vi fosse‑ ro, altrettanto vetuste. I circa 6000 abitanti si batterono con disperato eroismo, mentre i Turchi: «assestate le bombarde per far la battaglia incominciarono a battere la città da piú bande, cioè da levante da un alto dove erano certe calcare antiche distante dalle mura 540 passi, et un altro monte chiamato il monte di S. Francesco per

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ponente distante passi 80 dalla banda di scirocco, d’un largo dove si diceva il monastero della Candelora distante dalle mura 60 passi et anco tenevano dalla parte di ponente da un luogo detto la Roccamatura distante dalla città 200 passi. Però primo colpo fu tirato, fu da questa banda di Roccamatura e diede la palla a una finestra d’una casa che stà alla strada di mezzo che era della famiglia delli Garbotti et andrà scorrendo per detta strada fino a un largo che si dice la piazzella quasi in mezzo alla città». «(...) Or questa batteria facevano con certe bombarde grosse di gran meraviglia che parevano essere botti e vi erano alcune di ferro et altre dell’uno e dell’altro metallo e tiravano palle di pietra viva di smisurata grandezza mettendole dentro coll’ingegno [paranco] perché alcune erano di circuito di dieci palmi, altre d’otto et altre di sei che ancora se ne vede per la città una quantità che tutte le strade ne sono piene [molte però erano quelle tirate nel contrassedio aragonese] cosí di dentro come di fuora e le rive del mare; benché li

aprile

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In alto veduta a volo d’uccello della città di Brindisi, in un’incisione del XVII sec. Foggia, Biblioteca Provinciale. A sinistra i resti delle fortificazioni veneziane di Santa Maura, sull’isola di Leucade, in Grecia.

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Signori Veneziani, quando ebbero questa città in pegno di Ferdinando II ne portorno in Venezia una quantità grande le piú belle, piú grosse, e piú meravigliose, quali posero nel loro arsenale per un trofeo e memoria et erano di peso dette palle alcune di sei cantare [circa 5 q], alcune piú et alcune meno, secondo la grandezza e volume loro; che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e che le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero». «Tutti gli animali cosí agresti che domestici se n’erano per la gran paura fuggiti dal territorio e per l’aria non si vedeva un uccello. Di piú usavano certi strumenti chiamati mortari, quali tiravano palle di pietra grossissime in alto verso l’aria, spinte dalla violenza della polvere e doppo cadevano dette palle in

mezzo della città sopra delle case, talché non si poteva camminare per le strade, né meno stare in casa, laonde si pigliò espediente d’abbandonare le case e ridurre tutte le donne e figlioli nella Chiesa Maggiore sotto la confessione di quella con alcuni altri vecchi decrepiti» (da G.M. Laggetto, op. cit.).

Cadaveri nelle strade

I Turchi entrarono in Otranto il 12 agosto, dopo tre giorni di furiosi cannoneggiamenti e impetuosi as‑ salti, e per la città fu la fine, nono‑ stante gli estremi atti di eroismo: «I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti cosí di Turchi come di Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la cit-

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Dossier

Pianta della città di Valona nel XVI sec. Gedik Ahmed Pascià era il governatore della provincia che faceva capo al porto albanese, da dove mosse la flotta ottomana che nell’estate del 1480 lanciò l’attacco contro le coste pugliesi.

tà persequitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti. Era però cosa di grandissima considerazione a veder la virtú dei cittadini e dei Capitani la magnanimità, perché in quel medesimo luogo che s’erano posti a difendere, si vedevano star distesi morti e giacenti con le spade nude in mano sfoderate e tutte insanguinate». «(...) Or entrati i Turchi tutti dentro incominciarono a scorrere per tutto, rompendo porte, scalando case, uccidendo uomini d’ogni età e non si perdonava né a vecchi, né a giovani, né a religiosi, né a secolari; cosí toccava a ognuno sentire la calamità della guer-

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ra, perché cosí erano uccisi quelli che si rendevano e combattevano, e mettevano il tutto a sacco e rovina, non si sentiva per la Città altro che spaventevoli gridi, et urli di quella canaglia, pianti e stridi dei figlioli, lamenti e sospiri di languidi vecchi che erano riservati in quell’età per vedere tanta strage e si notabile infortunio e tanto miserabil caso. Mentre la Città era assediata e si batteva, le donne tutte erano ridotte alla Chiesa Maggiore e nel piano che v’è si ridussero molti cittadini ritirandosi e quivi facendo testa proibendo, alli Turchi d’entrare, fu fatto un gran macello cosí di Cristiani come de Turchi, che dell’una e dell’altra parte ve ne morirono assai: alla fine vincendo la moltitudine con tanta velenosa battaglia, entrando dentro detta Chiesa, batterono le porte a terra» (da G.M. Laggetto, op. cit.).

L’avvio del massacro

L’irrompere dei Turchi nella catte‑ drale fu l’avvio del massacro: «Ave-

va detto Arcivescovo comunicato molte donne, animando tutte a essere costanti in quel spavento e il grave rumore alla Fede di Cristo e volendosi salvare al palazzo, sopra giunto alla porta della Sacrestia da un turco moro negro il povero Monsignore fu ucciso; qual Turco doppo si pigliò la Mitra di quello et avendosela posta in testa andava camminando per la Città per derisione. L’altri che si trovorno presenti furono tutti legati e fatti schiavi, senza essere ucciso nessun altro. Quel che seguí da quelli crudelissimi cani, ognuno se lo può considerare. La Città tutta saccheggiata, fatte schiave le donne e le vergini e le sacre trattate tutte ugualmente e molte di esse uccise per non voler acconsentire nei loro desideri, le vedove le quali cacciarono a forza dalla Confessione e portarono sopra il palazzo Arcivescovile et ivi fatte schiave e con grandissimi pianti e stracci di capelli e di volti, lacrime e spavento per vedersi in mano di quei crudelissimi cani, talché le figliole dalla loro madre le giugno

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La Torre di Sant’Emiliano, sul litorale di Otranto. La struttura era adibita al controllo di possibili minacce provenienti dal mare, rappresentate dai Turchi, ma anche dai corsari, che avevano scelto le coste albanesi come base per le loro scorrerie. Fu innalzata, con ogni probabilità, all’indomani della caduta di Otranto in mano ottomana, nei primi anni del Cinquecento.

tolsero, li figlioli dalla protezione dei loro padri e tutti tirannicamente distrutti e divisi in diverse parti» (da G.M. Lag‑ getto, op. cit.). Piú tragicamente dettagliata è la descrizione delle prime ore del massacro, redatta da un benedet‑ tino, appena pochi giorni dopo l’eccidio, in base ai racconti dei pochi scampati, e alla personale visione dei moltissimi cadaveri: «I Turchi sono entrati nella città (...) L’arcivescovo, quando si è accorto che la città era stata presa, è rimasto a tal punto istupidito dal terrore – gli si drizzarono le chiome e la voce gli rimase in gola – che neppure dopo, quando è stato colpito, è riuscito a esprimere una sola parola. Preso dall’orda dei barbari, è stato fatto morire in modo crudelissimo: non si sa bene come, ma i piú dicono che sia stato squartato. I lattanti, strappati dal seno delle madri, sono stati in parte sgozzati, in parte trafitti. Le donne incinte, con il

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ventre strettamente legato, sono state costrette a partorire i feti immaturi, ancora palpitanti nel loro sangue. Le altre e soprattutto le vergini, con le vesti sollevate al di sopra delle natiche e del pube e legate alle reni fino all’orlo, dopo essere rimaste cosi, vergognosamente esposte alla libidine scatenata dei Turchi – lo dico per pietà, non per compiacimento osceno – alla fine sono state quasi tutte uccise. Alcune piú belle sono state risparmiate, per essere riservate alla lussuria dei principi. Quelli che sono caduti vivi nelle mani del nemico, condotti alla presenza del principe, sono stati tutti decapitati, tanto che quel barbaro crudelissimo ha detto di aver sacrificato ai suoi morti con mille teste di Cristiani» (Ilarione da Verona, Lettera). Da altre fonti, però, si apprende che il pascià di Valona, pochi gior‑ ni dopo la conquista, pose ai capi‑ famiglia l’alternativa tra l’abiura e la decapitazione: la totalità dei di‑ sgraziati prigionieri scelse pertanto

la morte. Stando alla tradizione, un carnefice nella circostanza si con‑ vertí e fu immediatamente impa‑ lato. Le condanne, secondo le testi‑ monianze fornite durante il proces‑ so di canonizzazione avviatosi oltre mezzo secolo dopo, il 17 giugno del 1539, dagli sparuti sopravvissuti ancora in vita, venivano eseguite immediatamente, uno dopo l’altro sul colle della Minerva, che d’allora divenne dei «Martiri». I teschi degli 800 Otrantini si trovano attualmente nella Catte‑ drale in apposite teche di cristallo, all’interno di una cappella a essi intitolata. I restanti abitanti, oltre 4000, nei giorni immediatamente successivi vennero imbarcati sulle navi, finendo venduti come schiavi nei mercati ottomani.

La reazione

La notizia dello sbarco in pochi giorni raggiunse le varie città italia‑

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Dossier ne, ma ritenendolo una lezione per l’aggressivo re di Napoli, fu accolta addirittura con allegria a Firenze e a Siena, mentre a Venezia, scriveva l’ambasciatore Alberto Cortese al duca d’Este in data 8 agosto: «qui se ne ride et se fusse licito ala brigata io credo ne fariano fogi e campane». A Napoli, invece, sollevò un’on‑ data isterica di panico, quanto mai motivato. Voci assurde davano i Turchi prossimi alla città e si affer‑ mava che la loro cavalleria riusciva a percorrere persino 300 miglia al giorno! Affannosamente si cercava di radunare le scarsissime forze ar‑ mate del regno disponibili, facendo affluire le altre nel minor tempo possibile, per imbastire un contrat‑ tacco. Ma si riuscí a stento a inviare solo 300 uomini, con la speranza di raccoglierne altri 400 strada facen‑ do! A capo fu posto il luogotenente generale del regno, il conte Anton‑ giulio Acquaviva, esperto tra l’altro in architettura militare. Cosí un memorialista locale ri‑ corda l’impresa: «A dí 30 Augusti venio lo exercito dello Signore Re Ferrante, et era dè sedici compagnie de boni sodati, et se unio quilli che avea portati lo Conti Julio Antonio de Acquaviva, lo quali ordinao, che se fortificassero Gal-

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A destra veduta a volo d’uccello della città di Otranto, in un’incisione del XVII sec. Foggia, Biblioteca Provinciale. In basso grande bombarda turca, della medesima tipologia di quelle usate a Otranto.


li, Brindisi, Taranto, Oggento, Lezze, Nerito, et andri lochi, come foe facto.» (Lucio Cardani, Diario in dialetto patrio, anno 1480). L’iniziativa si dimostrò efficace, poiché, privando i Turchi dei loro porti e consentendo di lí a breve alla flotta regnicola di adunarvisi, fu av‑ viato un rigido blocco navale intor‑ no a Otranto, troncando i continui rifornimenti da Valona. Brindisi, già discretamente difesa, ricevette 700

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uomini con numerose artiglierie e 300 furono inviati a Gallipoli. Le pessime condizioni delle fortifica‑ zioni di Taranto frustrarono l’ana‑ logo provvedimento e si optò allora per il taglio dell’istmo sotto le mura della vecchia cittadella.

Il «fosso» di Taranto

Un’impresa immane per le sue ec‑ cezionali dimensioni: 300 m di lun‑ ghezza, 10 m di altezza e almeno

50 di larghezza, scavato in un tufo compatto e duro. Il «fosso», nome con cui fu in seguito conosciuto, subí nel 1882 un ulteriore appro‑ fondimento e allargamento, dive‑ nendo l’attuale canale navigabile. Nel novembre vennero riqualificate anche le fortificazioni di Reggio Ca‑ labria, Crotone, Cariati, Corigliano, Belvedere e Pizzo, mentre a Man‑ fredonia si avviarono piú cospicui aggiornamenti difensivi.

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Battaglia tra Turchi e cristiani. Dipinto di Jacopo Robusti detto «Tintoretto» (15181594). 1588. Madrid, Museo del Prado.

Nonostante l’apparente rilevan‑ za della reazione, la realtà era ben lontana dalla necessità, come si confermò nei mesi successivi. Oltre alla perdurante carenza di armati, la flotta non riusciva a interrom‑ pere del tutto gli andirivieni tra Valona e Otranto delle navi turche, cariche di munizioni all’andata e di prigionieri al ritorno, razziati dalle incessanti scorrerie della cavalleria. Ben poco potevano le poco attrez‑ zate forze napoletane per liberarsi dei Turchi, che ormai avevano tra‑ sformato la disgraziata città in una coriacea base navale. Il tempo, tuttavia, giocava a fa‑ vore degli Aragonesi e permise lo‑ ro di cogliere qualche successo. Il 5 settembre, per esempio, alcuni squadroni di cavalleria intercettaro‑ no 400 razziatori, che caracollavano alla ricerca di nuove prede. Dando prova di indubbia destrezza e abili‑ tà, gli uomini del regno si avventa‑ rono sugli Ottomani, costringendoli rapidamente alla fuga, non prima di lasciare sul terreno numerosi ca‑ daveri e numerosi prigionieri nelle loro mani. Dopo averne decapitato la maggior parte, i cavalieri rien‑ trarono al loro acquartieramento di Lecce, portando come macabro trofeo della recente vittoria: «le teste ciascuno in cima de la lanza, e ionti a Leze, hanno [attaccato] li vivi ad code de cavallo, e factoli ammazare da le femene» (da Cesare Foucard, Otranto 1480-1481, in Arch. stor. per le prov. napol. VI, 1881, pp. 116-117). In quella sorta di guerriglia effe‑ rata, però, le perdite non mancava‑ no neppure tra i regnicoli e, il 7 feb‑ braio del 1481, fu ucciso anche An‑ tongiulio Acquaviva, in una ennesi‑ ma scaramuccia tra opposte caval‑ lerie. Ma se le forze napoletane non riuscivano a ricacciare in mare gli aggressori, questi, a loro volta, non erano piú in grado neppure di allon‑ tanarsi da Otranto. Per cui, riesami‑ nata la situazione, considerato che non 500 vele, ma poco meno di 100

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Dossier I giannizzeri

L’arma d’élite dell’esercito ottomano Nel presentare i protagonisti delle vicende ripercorse in questo dossier si legge che Gedik Ahmed Pascià era un ex giannizzero, appartenenza che faceva di lui un nemico particolarmente temibile. Ma perché simili credenziali avrebbero dovuto indurre a considerare doppiamente pericoloso il comandante della flotta ottomana che nel 1480 attaccò Otranto? La risposta è semplice: i giannizzeri (la cui denominazione italiana è un adattamento del turco yeniceri, cioè nuovo soldato, nuova milizia) erano quello che

oggi definiremmo un’arma d’élite, che, per alcuni secoli, costituí il nerbo dell’esercito ottomano. Reclutato tra le popolazioni cristiane dei domini ottomani in Europa, a volte sottraendo gli uomini ai loro villaggi, a volte scegliendoli in forme piú pacifiche, il corpo dei giannizzeri risale alla fine del XIV secolo e (pare) al sultano Orkhan. Educati nella fede islamica, nella lingua turca e nelle discipline militari, i giannizzeri erano musulmani fanatici e dipendevano interamente dal sultano che largheggiava in privilegi; essi vivevano in parte a Istanbul e in parte nelle province. Il loro numero variò nel tempo fino a raggiungere le 200 000 unità, organizzate in orta, un termine che letteralmente significa «cuore» e che è equivalente ad un reggimento. Solimano I aveva a propria disposizione 165 orta, ma il numero aumentò fino a 196. Il sultano era il comandante supremo dei giannizzeri, ma questi venivano organizzati e controllati da un aga, «generale». Il corpo si divideva in tre divisioni, Miniatura di scuola turca raffigurante i giannizzeri e una parata di musicisti che li precede, dal Surname (Libro delle celebrazioni) composto durante il regno di Murad III (1546-1595).

Musulmani fanatici e costretti al celibato, i giannizzeri dipendevano direttamente dal sultano

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di consistenza numerica diversa: i jemaat, truppe di frontiera, con 101 orta; i beuluk, guardie della sicurezza del sultano, con 61 orta; i sekban (o seimen), con 34 orta. Col passare degli anni le pretese e l’indisciplina dei giannizzeri crebbero ed essi parteciparono a rivoluzioni di palazzo e giunsero a trucidare due sultani. Dapprima costretti al celibato, furono poi autorizzati a sposarsi: i loro figli divennero anch’essi giannizzeri, contribuendo a mutare in casta un corpo militare. Le riforme militari degli inizi del XIX secolo spinsero i giannizzeri, contrari alla creazione di truppe impostate con criteri di tipo occidentale, a nuove ribellioni. A quel punto, nel 1826, il sultano Mahmud II, forte dell’appoggio della maggioranza della popolazione, dichiarò loro guerra e, poiché rifiutarono la resa, fece cannoneggiare i loro acquartieramenti. La maggior parte dei giannizzeri trovarono la morte durante il bombardamento e i sopravvissuti furono catturati e poi condotti al patibolo. (red.)

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In basso miniatura di scuola veneziana raffigurante una galea turca, dal Memorie Turchesche. XVII sec. Venezia, Museo Correr.

erano atterrate in Puglia, dalle quali non 100 000, ma non piú di 15 000 uomini erano sbarcati e che l’unica loro impresa era stata la conquista della debole cittadina di Otranto, si ridimensionò la minaccia. Nel frattempo, il principe eredita‑ rio, duca di Calabria, al comando sul campo, giustamente faceva presente al padre: «non sono si de pocho animo, che se io fossi certo ch’el non dovesse venire altro soccorso ad Otranto de Turchi o munizione, ch ‘el non mi bastasse el cuore de rehavere 0., et non domanderei alturio [aiuto] da alcuno; che per 3000 persone o circha che le siano bone, harei el modo a caciarle...mi bisogna alturio adesso» (da Piero Egidi, La politica del Regno di Napoli negli ultimi mesi del 1480, in Arc. Stor. Nap. XXXV). I Turchi, nel frattempo, senten‑ dosi progressivamente piú deboli, non erano rimasti inerti, circon‑ dando la città con opere campali di sapiente quanto valida concezione e fattura, che cosí vennero descritte

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Dossier da Costanzo Sforza in data 25 set‑ tembre 1480: «Prima li Turchi hanno tagliato dui miglia atorno, giardini de pomaranza, divi, e spianato ogni cosa; hanno facto de quelle frasche uno reparo cum terra grosso assai cum uno gran fosso difora la terra, tanto che hanno messo l’acqua dolce dentro da lo reparo, nel quale ha facto bombarde et un passo longo una da l’altra, et hanno glie messo circha boche de bombarde et spingarde numero mille secento et piú, quelle erano a la via di terra ferma due palmi supra la terra. De drento hanno fichati palli circha a dui millia grossi et hanno incatenati cum catene de ferro grosse assai, a ciochè, essendo sforzati li repari, li cavalli non possino entrare se non per una via, la quale hanno molto fortificata, et hanno tirate certe fuste in terra, le quale sono difese dal riparo de fora; hanno afondato certi legni, a cio chè l’armata non li possa offendere; grandissima quantità di polvere, sartame, et monitione assaissime, et persone circa XV millia Turchi da facti, et di fora, a miglia V hanno guastate tutte l’acque, aciochè al campo del Re venendo non vi possa stare comandante» (da C. Foucard, op. cit.).

squadra di galere cristiane si sareb‑ be defilata dietro l’isolotto, pronta ad abbordare le ignare imbarcazioni turche non appena l’avessero dop‑ piato per ormeggiarsi. A coordina‑ re la delicata manovra avrebbero provveduto alcuni osservatori ap‑ positamente fatti installare sulla sommità di Saseno, a quota 330 m, per allertare con segnali convenuti le navi al profilarsi del nemico. Già la formulazione di tale piano lascia dedurre un sostanziale con‑ trollo della cittadina: non si com‑ prenderebbe altrimenti, lo schierar‑

Intanto, a Valona...

Il protrarsi della riconquista con lo stringersi del blocco navale nella buona stagione, iniziò a rendere problematica la resistenza turca, poiché co‑ minciavano a scarseggiare sia i viveri che le munizioni. L’organico della guarnigione fu pertanto ridot‑ to a soli 2000 uomini, fra i quali an‑ che molti giannizzeri, il cui numero estorto sotto tortura a un prigionie‑ ro nel luglio del 1481 ammontava a 7-800, perlopiú albanesi. Che tali informazioni fossero attendibili lo conferma un episodio accaduto nel febbraio precedente: entro pochi giorni Ahmed Pascià si sarebbe recato a Valona per dirigersi da lí a Costantinopoli, al fine di sol‑ lecitare direttamente al sultano l’in‑ vio di rinforzi. Si deliberò subito di tendergli un agguato sul mare, die‑ tro l’isolotto di Saseno, all’imbocco della rada di Valona. In pratica una

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si indisturbato della squadra arago‑ nese a poche centinaia di metri dal molo turco. Questo il rapporto al sovrano da parte del comandante della flotta: «Brindisi 1 marzo 1481 Sacra Regia Maestà et Ill.mo Sig.re mio, Regratiando la Maestà Vostra al potentente Idio la victoria ha data in questa vostra armata contra quelli deli infedeli. Et perchè dal principio al fine Vostra Maestà intenda ogni cosa,commentiaro de dire che fu il partirmi da Brindesi Domenica de XXV de Febraio a 3 hore de dj cum XVIIII gallee, 3 fuste et octo nave.

Et essendo a posta de sole da XX a XXV miglia da Brindese si mutò il vento da tramontana, che era sirrocho, et vedendo questo considerai che era da fare sforzo et essere ala isola de Suaxino [Saseno] stimando el pascià partirsi quella nocte per tenire el vento prospero per venire alla Vallona. Et cussi per questa vostra armata, lasciando le navi me misi a fare sforzo a prueggiare il vento cum le gallee. Onde cum non pocha fatica, vogando per spacio de hore 6, torno el vento a scirocco el mezo di, donte fecimo vela et cum assai obscuro giunsi alla isola de Suaxio. (...) Et venendo il di a due hore de giorno fu discoperta per la guardia el Bascia cum XXXII velle, le quale venivano cum vento assai furioso. Et cussi mettendomi in ordine cum questa vostra armata, salimo alo scontro de dicto Bascia il quale andando prima cum 8 gallee et le altre pallandree et 3 fuste. Le quale Turchi combattevano per tal modo che stimano de cinque parte haverne tagliato a peci le quatro, perchè secundo li corpi morti et multi anegati,et informatione de loro medesimi, de octocento in mille, deli quali ne havemo vivi circa ducento. Vedendo il Bascia essere rotto non hebbe tempo se non de mettersi sotto una timpa de una montagna cum le octo galle et il restante de le pallandree, et noi tirando ala volta sua per combatere dove stava dicto Bascia che era lontano da noi pocho piú o meno de un tracto de bombarda, se messe cossi un gruppo fortunale de vento che quanti remi sonno al mundo non basterino a fare andare vanti le gallee, se non cum assai faticha,cum li trichetti ne havemo a tornare ala volta dela Suaxina, lassando il Bascia;et in questo, Sacra Maiesta, non ne fu cussi prospera la fortuna perche non era da dubitare, per multa gente che el teneva che non havessemo preso dicte gallee, et tale volta se dicto Bascia non fusse stato bene in gambe haverlo preso o morto. Da poi dicto Bascia 3 o 4 hore fece vella et se ne ando alla Vallona, che per esserne a vento et non poterne adiutare noi de remi dicto Bascia se ne andò senza poterli andare a presso. Sono liberati de persone de cento in 150 fra donne et fanti presi in Ottranto giugno

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Otranto. La facciata della cattedrale dell’Annunziata, fondata sul finire dell’XI sec. Nella pagina accanto una delle teche di cristallo con i resti degli scheletri dei Martiri, collocata dietro la statua della Madonna, nella cattedrale dell’Annunziata.

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Dossier otranto oggi

Una città da scoprire Cattedrale della Santissima Annunziata Fu eretta nel 1080 e consacrata nel 1088 per volontà di Roberto il Guiscardo. L’interno, diviso in tre navate, ospita (nella navata di destra) la Cappella dei Martiri con le reliquie degli ottocento Otrantini trucidati dai Turchi nel 1480; sul pavimento della navata centrale e in quelle laterali si trova il famoso mosaico realizzato da Pantaleone nel 1163-1165, con raffigurazioni dell’Albero della Vita, dell’Albero del Giudizio Universale e di quello della Redenzione. Degna di nota la cripta con gli affreschi dell’XI sec., scampati allo scempio turco, con Cristo tra i Dottori e una Madonna col Bambino di età bizantina. Chiesa di S. Maria dei Martiri (ex S. Francesco di Paola) Sorge sul colle omonimo, accanto all’ex convento dei Paolotti e Minimi, riedificata in epoca barocca sui resti di un tempio dedicato a Minerva. Sull’altare centrale sono incastonate due urne con i resti dei martiri di Otranto; all’entrata un’epigrafe posta nel 1880 ricorda il martirio degli Otrantini e quattro tabelle in marmo ne tramandano i nomi. Edicola bizantina di S. Pietro Sorge nel centro storico della città, è stata innalzata nei sec. VIII-IX e ricostruita nel XII sec. La fondazione è legata, tradizionalmente, al

passaggio di San Pietro a Otranto mentre si recava a Roma. All’interno si possono ammirare i resti del ciclo di affreschi bizantini incentrato sulla figura dell’apostolo. Nel catino dell’abside centrale si conserva sopra una trifora la raffigurazione della Teotokos (madre di Dio) tra l’alfa e l’omega, sormontata da un arco centrale con scena di Annunciazione. Cinta muraria La cerchia muraria della città è stata ricostruita dopo il sacco dei Turchi tra la fine del XV sec. e l’inizio del XVI sec. Percorrendo le mura si possono ammirare esempi dell’architettura militare rinascimentale come la Torre Alfonsina, dedicata ad Alfonso duca di Calabria e liberatore di Otranto nel 1481. Castello Aragonese Il castello, come lo vediamo oggi, è in gran parte opera dei vicerè spagnoli della fine del XVI sec. Scarsi sono i resti aragonesi. A pianta pentagonale, è circondato dal fossato che costeggia anche le mura della città. Al suo interno si può visitare la Cappella di S. Antonio, un ambiente rettangolare coperto da volte a botte che contiene il settecentesco monumento sepolcrale in pietra leccese di Doña Teresa de Azevedo, moglie del prefetto Francisco de la Serna e Molina. (red.)

A sinistra Otranto, cattedrale dell’Annunziata. Il mosaico pavimentale dell’Albero della Vita. Realizzato dal prete Pantaleone tra il 1163 e il 1165, occupa una superficie di 600 mq circa. Nella pagina accanto il castello aragonese di Otranto. Dopo i rifacimenti posteriori al 1481, quando la città fu liberata dall’occupazione turca e il castello fu ricostruito a opera di Alfonso d’Aragona, la fortezza fu ulteriormente rimaneggiata e l’aspetto attuale è in gran parte frutto degli interventi dei vicerè spagnoli.

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che loro portavano incatenati (...) Signore quello ho sentito e che in Vallona sta Iagupie capitaneo de larmata el quale tiene presto tuta larmata expetctando de hora in hora tuta le gente dei sei contadi, che e stato ordinato per armamento di dicte gallee. Questo Bascia non debbe tornare piú ad Otranto expectando laltra armata da Costantinopoli, et dice che dicto capitaneo, cum tuta quella gente che e ala vallona debbe venire o Ottranto. Cum il Bascia se sono tornati 500 Ianiceri et 600 Asapi che erano prima in Ottranto et 300 homini da cavallo, quali hanno

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lassiati li cavalli in Ottranto et questi tali erano deli Turchi» (da Vittorio Zacchi‑ no, La guerra d’Otranto). La notizia dell’agguato e delle gravi perdite giunse presto a Co‑ stantinopoli: il sultano l’intese nella sua valenza strategica e ne trasse le debite conseguenze, tanto piú che le sue condizioni di salute stavano rapidamente peggiorando. L’impresa di Otranto, al di là delle millanterie di Ahmed Pascià, era compromessa, poiché era venuto a mancare il controllo del canale. Come se non bastasse, un dispaccio

ben piú grave, che verosimilmente annunciava la caduta di Valona in mano ai ribelli, lo convinse a porre rapidamente fine all’impresa. Il 3 maggio moriva Maometto II, gettando nello sconforto e nell’in‑ credulità i Turchi di Otranto e aiz‑ zando ulteriormente gli insorti a Valona. La situazione a quel punto vedeva i Turchi assediati in Otranto battersi a oltranza, e i ribelli albane‑ si, comandati dal figlio dello Scan‑ deberg e finanziati dal re di Napoli, battersi a loro volta con successo a Valona. Pertanto, si può verosimil‑

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Dossier mente individuare nell’esplodere della ribellione, certamente vio‑ lentissima, piú che nell’agguato navale di Saseno, l’origine del re‑ pentino mutamento di decisione di Maometto II; una valutazione che, trovando concorde anche il suo successore, non può essere imputa‑ ta alla malferma salute del vecchio sultano. Poco dopo i ribelli cattura‑ rono Suleiman Alibego, inviato mi‑ litare in Grecia di Bayazid II, suc‑ cessore di Maometto II, e incaricato di sovrintendere al rifornimento della guarnigione di Otranto. Appresa la notizia della cattura, il duca di Calabria, non perse tempo per «acquistare» l’illustre prigionie‑ ro e, pagando 1000 ducati agli Alba‑ nesi, ne ricavò un duplice successo, economico e strategico. Per riaverlo, infatti, pretese e ottenne un riscatto di 20 000 ducati, una cifra immensa all’epoca – pari al valore sul mercato degli schiavi di 2000 Otrantini – e, al contempo, notificò al nuovo sul‑ tano la perdita di Valona, prodromo di analoghe rivolte locali contro il dominio turco, con un ampio ap‑ poggio militare occidentale. A Brindisi, infatti, fervevano i preparativi per l’imminente attacco a Valona, come scriveva Nicolò Sa‑

In alto e a destra miniature raffiguranti alcuni dei metodi di esecuzione adottati al tempo dell’impero ottomano. Scuola turca, XV-XVI sec. All’indomani della conquista da parte della truppe guidate da Gedik Ahmed Pascià, ai capifamiglia di Otranto fu chiesto di scegliere tra l’abiura e la decapitazione: la totalità dei disgraziati prigionieri, pertanto, scelse la morte. Nella pagina accanto stampa seicentesca che raffigura il riscatto di alcuni uomini fatti prigionieri dagli Ottomani, altrimenti destinati a essere venduti come schiavi.

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doleto a Venezia: «Bari 19 settembre 1481. Hieri sira a Brindeci se dovevano imbarchare el Signor Duca de Calabria et el cardinale cum 4000 fanti et 500 cavagli per andare ala Valona ad fare quelli abrusamenti, et cossi credo serano andati» (da C. Foucard, op. cit.). Agli inizi dell’autunno, i Turchi in Otranto si sentono abbandonati, e, avendo compreso dai festeggia‑ menti nel campo cristiano la morte del sultano, ottengono dal re di Na‑ poli, con apparente generosità, ma con fin troppo esplicito intento, di inviare a Valona su due sue navi, ap‑ positamente messe a disposizione, alcuni ufficiali per accertarsi della notizia. In realtà, la magnanimità del sovrano consentiva agli incarica‑ ti di accertare non tanto la morte del gran sultano, sicuramente già nota, perché sopraggiunta quattro mesi prima, ma la recente perdita del‑

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la città. Inutile, perciò, sperare che da essa potessero giungere ulteriori aiuti, o, meno che mai, di farvi ri‑ torno, non avendo gli insorti alcuna tolleranza nei loro confronti.

Le condizioni della resa

Quattro giorni dopo la guarnigio‑ ne di Otranto si arrendeva: tra le condizioni per aver salva la vita fu posta l’assoluta liberazione degli Otrantini ancora vivi. A scanso di equivoci fu lo stesso sovrano a con‑ trollarne la fuoriuscita, e, avendo visto che c’era chi cercava di portare con sé alcune prigioniere camuffate in vesti turche, dichiarò infranti gli accordi. I colpevoli furono portati su di uno scoglio deserto a morirvi di sete, mentre ai restanti consen‑ tito l’arruolamento coatto sotto le insegne reali, per le quali, ancora negli anni successivi, risultano im‑

pegnati in vari teatri bellici, sino al loro totale annientamento. Gedik Ahmed Pascià, ritenuto infido da Bayazid II fu da lui fatto uccidere presso Adrianopoli nel 1482. I preparativi per lo sbarco a Valo‑ na non cessarono con la liberazione della città, ma non ebbero seguito, mentre Otranto fu sostanzialmente ricostruita, dotandola di mura piú robuste e di un castello piú moder‑ no. Nelle successive trattative di pace, il re di Napoli chiese al sul‑ tano la restituzione dei prigionieri otrantini, ricevendone l’amara ri‑ sposta che lo avrebbe potuto fare solo per 17, in quanto ancora a Va‑ lona, essendo gli oltre 5000 dispersi nel suo impero. Alla sua simmetrica richiesta, il re di Napoli sembra aver risposto che quando fossero tornati in patria i primi sarebbero tornati anche i secondi! V

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scienza e tecnica il tornio

Gira la ruota... di Flavio Russo


Quella che fu senza dubbio una delle acquisizioni tecnologiche piú importanti nella storia dell’umanità non ebbe riflessi immediati solo nel sistema dei trasporti: permise, infatti, l’elaborazione di macchinari capaci di far compiere un salto di qualità formidabile anche alle attività artigianali e industriali

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nche a una riflessione sommaria, non sfugge che l’evoluzione tecnologica, e con essa la civiltà derivante, iniziò ad avanzare quando venne scoperta l’utilità fornita dalla rotazione di un corpo. Il fenomeno, che nella sua manifestazione piú plateale è noto come «invenzione della ruota», ebbe nella realtà ben altri e non meno importanti sviluppi, dando origine a un ampio ventaglio di oggetti. Dal punto di vista formale, questi si possono immaginare ottenuti dalla rotazione del loro profilo intorno a un asse, da cui la definizione di «solidi di rotazione»: un rullo, per esempio, si ottiene facendo ruotare di 360° un rettangolo, una sfera da un semicerchio, un cono da un triangolo rettangolo, ecc. Il vantaggio che garantivano fu subito evidente, poiché risultavano equilibrati in movimento o da fermi: un giavellotto, o una freccia, seguono una precisa traiettoria solo se ottenuti con aste tonde e diritte; una macina gira regolarmente se perfettamente cilindrica; una colonna o un’anfora stanno salde in piedi se prive di asimmetrie. Eccezion fatta per l’argilla plastica, i solidi di rotazione si ottengono per asportazione delle parti superflue da un blocco maggiore, che, implicitamente, già contiene quanto si desidera realizzare. La procedura è identica a quella della scultura, sebbene non si proceda per rimozione di schegge a discrezione dell’artista, ma di trucioli, con la meticolosa precisione della macchina.

L’importanza della simmetria

La simmetria di un oggetto in molti casi risponde soprattutto a un bisogno estetico, ma in molti altri è indispensabile per il funzionamento del congegno d’appartenenza. Un’anfora sbilenca è pur sempre un contenitore, ma uno stantuffo irregolare, fatto muovere in un cilindro altrettanto irregolare, sfiata senza produrre alcun effetto! Nelle sue innumerevoli applicazioni, la macchina inventata da Ctesibio – che si riduce appunto a uno stantuffo che scorre a perfetta tenuta in un cilindro – funziona solo a condizione di disporre di quei due componenti geometricamente precisi, con una strettissima corrispondenza tra il diametro interno del cilindro e quello esterno dello stantuffo. Tanto minore è lo scarto fra i due, tanto maggiore il rendimento della macchina. Non essendo, però, mecUn laboratorio per la tornitura del legno, litografia a colori realizzata per la Revue de l’Education Nouvelle. XIX sec. Parigi, Bibliotheque des Arts Decoratifs.

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scienza e tecnica il tornio A destra illustrazione tratta dal compendio noto col nome di Hausbuch von Schloss Wolfegg, databile al 1480. Sulla sinistra compare la raffigurazione, rarissima, di un tornio a mano. Gli altri disegni rappresentano macchinari vari e una scena di assedio a una torre. In basso stampa tedesca del 1601 raffigurante un tornitore al lavoro. Il tornio non differisce sensibilmente da quello di due secoli prima, essendo con ogni probabilità del medesimo tipo di quello in uso già da molte generazioni, e dunque paragonabile all’esemplare illustrato nel disegno dell’Hausbuch von Schloss Wolfegg (a destra).

Il tornio può essere considerato come un trapano alla rovescia, perché, invece di fori, produce pezzi cilindrici

canicamente possibile, ora come allora, realizzare pezzi del genere privi di interstizio fra loro, o «tolleranza», la si eliminava con guarnizioni, dette «fasce elastiche». Nella pompa alternativa bicilindrica di Huelva Valverde, risalente al IV secolo, tra cilindri e stantuffi vi è una tolleranza di appena 0,1 mm, un risultato straordinario ottenuto, stando alla testimonianza di Filone, utilizzando un trapano per i primi e un tornio per i secondi. Sappiamo come fosse fatto all’epoca un trapano, non altrettanto possiamo dire di un tornio, che di tutte le macchine utensili è, ancora oggi, la piú complessa. Certamente doveva avere una affinità con la ruota del

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vasaio, non a caso definita impropriamente «tornio», e, in particolare, ancora l’asse verticale, come si può vedere in alcune raffigurazioni egiziane.

In Mesopotamia i primi tentativi

Poiché la suddetta ruota viene fatta risalire al IV millennio a.C. in Mesopotamia, gli archetipi dei torni dovrebbero essere di poco posteriori, in origine limitati alla sola lavorazione del legno. In essi, tuttavia, la rotazione non si otteneva agendo con i piedi, essendo d’infima potenza, ma attraverso l’alternativa trazione di una fune avvolta sul loro albero, per cui questo tornio richiedeva

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– e in alcune regioni arretrate lo richiede ancora –, due persone, una per tirare la corda e l’altra per manovrare il tagliente. In pratica un «motore» identico a quello del trapano, in cui però la rotazione non fa girare una punta, bensí un massello di legno, che un ferro affilato modella asportando trucioli: del resto il tornio è un trapano alla rovescia che invece di praticare fori cilindrici, realizza pezzi altrettanto cilindrici. In età classica l’asse del tornio divenne orizzontale, una mutazione che ne perfezionò le prestazioni e consentí di usarlo anche per i metalli, poggiando il tagliante sopra un supporto stabile, e permettendo anche di lavorarvi pezzi relativamente lunghi, con precisione ragguardevole. Zampe di sedie e di tavoli di raffinata fattura, rinvenuti a Pompei, ne confermano l’esistenza che trova proprio nella città vesuviana un singolare riscontro, poiché nel 1878, tra i ruderi di un locale che fu subito identificato come l’officina di un tornitore – faber tornator –, vennero alla luce: «quindici scalpelli di ferro per lavorare al tornio; e due ordigni che hanno da un lato un ferro, acuminati, i quali, piazzati uno dirimpetto all’altro, venivano armati sul tornio per lavorare il legno» (Bollettino dell’Istituto di Corr. archeol. di Roma, 1878). La rotazione, tuttavia, era sempre ottenuta dalla trazione alternativa di una corda, poiché il tagliente collocato appena al di sotto del diametro orizzontale del pezzo in lavorazione, incideva solo nel verso antiorario. Il tornio propriamente detto, consisteva in un albero rotante orizzontale, cui si fissava per incastro il blocco di legno da lavorare: la corsa di un metro della cinghia lo avrebbe trascinato appena per una decina di giri. Ciononostante, quei rozzi torni consentirono la realizzazione di elementi metallici, in genere di bronzo, di utilizzo corrente, quali cardini di porte, maschi delle chiavi d’arresto, modioli delle macchine da lancio, ecc. Lavorazioni certificate dalle inconfondibili rigature lasciate dal tagliente. E questo tipo di tornio fu quello che, dopo una lunga pausa, ricomparve nel Medioevo, con modifiche trascurabili. Dopo la dissoluzione dell’impero romano d’Occidente, infatti, per lunghi secoli, del tornio si perdono sia la menzione che le tracce, come del resto dei lavori piú precisi e rifiniti, incompatibili con la terribile precarietà esistenziale. Soltanto dopo il Mille, quando ebbe ini-

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scienza e tecnica il tornio zio la ripresa demografico-culturale, l’antica macchina utensile ricomparve, rievocando le ultime connotazioni maturate in età classica, ma subendo rapidamente una vistosa evoluzione.

Cavalletti a quattro zampe

Le prime raffigurazioni pervenuteci, contenute perlopiú in codici miniati, la mostrano infatti installata su una sorta di cavalletto, a quattro zampe leggermente divaricate, sorreggenti due traverse parallele orizzontali, molto vicine fra loro, definite attualmente «bancale», con la funzione di sostegno e guida. Tre supporti verticali vi scorrono dentro, bloccati con cunei nella posizione prescelta: quello all’estremità di sinistra sostiene l’albero col rudimentale mandrino, detto «trascinatore», che trattiene il pezzo in lavorazione; quello centrale, detto «porta-utensile», sorregge il tagliente; quello di destra porta la contropunta, che allineata all’albero, garantisce la perfetta centratura del pezzo. Pur essendo ancora ottenuta tramite una cinghia arrotolata intorno l’albero, la rotazione si avvale dell’ausilio di un pedale. La cinghia, infatti, ha un capo fissato all’asta flessibile e l’altro allo stesso pedale: spingendolo con il piede si tirava la cinghia, facendo cosí girare l’albero e flettere l’asta; esaurita la corsa del pedale, l’asta, raddrizzandosi, recuperava la cinghia, facendo nuovamente girare l’albero, ma al contrario col solito moto alternativo. Rarissimi e di scarsissima potenza sono i torni a manovella, impiegati forse per la costruzione dei primi orologi meccanici. L’asta, in genere, era di dimensioni considerevoli ed era perciò collocata a distanza dal tornio, o fissata al soffitto del locale, sovrastandolo. In seguito, con l’adozione dell’elemento elastico ad arco, il suo stativo si vincolò al cavalletto, rendendo la macchina piú compatta e di minor ingombro. Per incrementare la potenza, esigenza sentita soprattutto per la lavorazione dei metalli, intorno al XIV secolo comparve il tornio a balestra, nel quale l’elemento elastico necessario per il Il pedale, per consentire il maggior numero possibile di giri per ogni discesa, era posto all’estremità di una leva di discreta lunghezza, imperniata alla base del bancale. Si deve perciò immaginare che il piede destro fosse, di volta in volta, sollevato fin quasi all’altezza del ginocchio sinistro.

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Qui sotto un tornio a ruota, privo della stessa. Fabbricato in Svizzera con legno di pino e di noce, è databile al XVIII sec., ma la sua tipologia è assimilabile a quella dei modelli in uso già in epoca tardo-medievale. In basso ricostruzione grafica di un tornio a balestra del XV sec.

La molla di rinvio, necessaria per riavvolgere la fune tirata dalla corsa del pedale, fu da un certo momento in poi, per garantire una maggiore potenza, costituita da una balestra a foglie d’acciaio, fissata saldamente a uno stativo a sua volta vincolato al tornio.

La contropunta, oltre a garantire il centraggio del pezzo in lavorazione, ne rendeva piú stabile la presa da parte del trascinatore, definendone con assoluta precisione l’asse di rotazione. Essendo variabile la lunghezza dei pezzi, il supporto della contropunta fu realizzato scorrevole sul bancale. giugno

MEDIOEVO


Ricostruzione grafica di un tornio a ruota della fine del XV sec.

La cinghia che trasmetteva la rotazione della grande ruota-volano, azionata dalla pedaliera, alla piccola ruota dell’albero del tornio, era realizzata con strisce di cuoio cucite tra loro, sistema di trasmissione che fu adottato sino al secolo scorso in tutte le macchine utensili.

Il moto alternativo della pedaliera era trasformato in rotatorio continuo da una biella, in genere di ferro, fissata a un perno della stessa e a un eccentrico del disco solidale alla grande ruota-volano, che fungeva perciò da manovella. Dispositivo adottato immutato sulle macchine da cucire delle nostre nonne. Per consentire la necessaria forza motrice, la pedaliera venne allargata in modo da poter essere azionata con entrambi i piedi, richiedendo perciò al tornitore di stare seduto su di un apposito scanno, simile a quello dell’organista. Spesso poi, per garantirgli una maggiore concentrazione, la pedaliera era affidata a un assistente, che fungeva perciò da «motore».

recupero della cinghia era ancora un arco, ma del tipo di quello delle balestre a due foglie d’acciaio, che adottava un pedale molto piú largo. Quest’ultimo, che garantiva la forza motrice, era perciò idoneo all’azionamento con ambedue i piedi da parte di un tornitore seduto, o tramite l’aiuto di un assistente, restando comunque la rotazione sempre alternata, con una decina di giri utili nel verso antiorario e un numero identico di recupero, passivi, nel verso opposto.

Un’evoluzione continua

È probabile che intorno alla metà del XV secolo, nei torni piú evoluti, per evitare la continua inversione di rotazione si montasse, dietro al trascinatore, un arpionismo d’arresto, costituito da una ruota dentata fissata all’albero posta in un tamburo, munito all’interno di un nottolino o arpione, solidale al trascinatore. In fase di ritorno della cinghia, l’arpione, saltando sul dorso dei denti della ruota, non faceva girare il tamburo, lasciandolo fermo insieme al trascinatore; nella fase di trazione, invece, impegnandosi nella cavità di un dente, lo metteva in rotazione col trascinatore. La rotazione diveniva cosí intermittente, migliorando vistosamente la qualità dei pezzi torniti. Sul finire dello stesso secolo, stando alle incerte fon-

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ti disponibili, iniziò a farsi strada il tornio a rotazione continua, ma sempre azionato dal moto di un pedale. In larga massima si avvaleva di una biella, di legno o di ferro, posta tra un risalto del pedale e l’eccentrico di un disco che fungeva da manovella. Questo, a sua volta, era solidale a una spessa ruota a raggi, simile a quella dei carri, sul cui cerchione insisteva una cinghia di cuoio, che ne trasmetteva la rotazione a una seconda ruota, piú piccola, solidale all’albero del tornio. La ruota maggiore, posta in rotazione dal pedale, oltre a trasmettere la rotazione all’albero del tornio agiva da volano, stabilizzandone la rotazione e dando perciò alla macchina la necessaria inerzia. Una caratteristica che, oltre a permettere una tornitura piú agevole, ne garantiva la precisione, specialmente sui metalli, perlopiú bronzo e ottone, compromessa dalle variazioni di velocità. Il tagliente, infatti, asporta dei trucioli mentre viene fatto spostare orizzontalmente sul porta-utensile, per cui variando il numero di giri dell’albero se ne altera la regolarità. Il tornio tardo-medievale, che per quanto rievocato somigliava a una vecchia macchina da cucire familiare e di cui fu senza dubbio l’ispiratore, costituí il salto di qualità che rese possibile il decollo della meccanica di precisione, dalla produzione di orologi a quella delle armi. F

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luoghi san gimignano

Le verticali del

potere

di Francesco Colotta

Il suo inconfondibile profilo è noto in tutto il mondo, eppure non tutti conoscono le ragioni per le quali la cittadina toscana, in età medievale, si trasformò quasi in una foresta di torri. Ecco, dunque, la vera storia di San Gimignano, oggi rievocata da una suggestiva riproduzione che, come una macchina del tempo, ci riporta agli inizi del XIV secolo…


L L

a leggenda evoca narrazioni suggestive, ambientate in epoca antica, ma la storia a San Gimignano ha un solo, indiscusso protagonista: il Medioevo. Lo si percepisce oltrepassando il varco principale di ingresso alla città, la Porta San Giovanni, nell’Età di Mezzo crocevia di un itinerario strategico. Attraverso quell’accesso, i viaggiatori provenienti da Siena potevano un tempo imboccare una variante della via Francigena. Oggi all’interno del borgo, chiuso al traffico automobilistico, tutto appare ancora incorrotto dal tempo, soprattutto le altissime torri duecentesche che hanno spesso indotto a paragonare San Gimignano a una sorta di «Manhattan medievale». Quelle imponenti

costruzioni testimoniano gli anni di maggior splendore, il periodo in cui l’intraprendente borghesia capitalistica locale accumulava incredibili fortune grazie alle risorse agricole e concedendo prestiti a tassi elevati. La ricchezza, tuttavia, non garantí mai una pace sociale alla popolazione, divisa, fin dal XII secolo, tra sostenitori delle due famiglie dominanti, gli Ardinghelli e i Salvucci, la cui feroce rivalità riecheggiava le faide tra i Capuleti e i Montecchi veronesi.

I fantasmi della leggenda

La tradizione attribuí a San Gimignano un’origine antichissima e un profilo sovrannaturale: secondo la leggenda l’avrebbero fondata due patrizi, Silvio e Mu-

zio, in fuga da Roma nel periodo della congiura di Catilina (63 a.C.). All’alba del Medioevo, poi, il borgo si era salvato dall’assedio di Totila grazie all’apparizione del vescovo e martire modenese Geminiano. La fantasia popolare, in questo caso, prevalse sulla cronaca, lasciando la sua impronta sul nome che la città finí con l’assumere. La scelta, infatti, cadde proprio sul santo emiliano in omaggio a quel prodigio. La vera storia, invece, ha inizio il 30 agosto del 929. È la data che figura in un atto di donazione al vescovo Abelardo di Volterra del territorio chiamato Monte della Torre, «prope Sancto Geminiano adiacente», sul quale sorgeva un castello. L’atto di liberalità porta(segue a p. 100)

Veduta di San Gimignano, borgo medievale in provincia di Siena, caratterizzato dal profilo delle sue alte torri. Delle 72 un tempo esistenti, ne rimangono in piedi 14.

Prato Monsummano Empoli

Bientina

A1

Impruneta

FI-PI-LI

Palaia Ponsacco Montaione LIVORNO

FIRENZE

SR 429

S. Gimignano

RA3

San Giovanni Valdarno Castellina in Chianti

Volterra Riparbella

Siena

Pomarance Larderello Monticiano Suvereto

Massa Marittima Roccastrada SS1-E80

SS 2


luoghi san gimignano in visita alle torri

Torri dei Salvucci

Torre rognosa Fu la prima

Appartennero alla famiglia ghibellina piú importante della città e si trovano oggi in piazza del Duomo. A differenza delle torri della famiglia rivale sono molto simili tra loro, entrambe dotate di strette aperture.

ad essere eretta e risale al 1200. La sua altezza sfiora i 51 m e svetta tuttora sopra il Palazzo del Podestà, nella piazza del Duomo. Secondo la tradizione, l’appellativo «Rognosa» si riferisce al periodo in cui l’edificio, adibito a carcere, era abitato da persone gravate da diverse «rogne».

Piazza della CIsterna Piazza Duomo Palazzo Comunale Duomo

Torri degli Ardinghelli Situate nella celebre piazza della Cisterna, all’angolo della piazza del Duomo, le torri degli Ardinghelli furono costruite nel XIII secolo e si differenziano tra loro per dimensioni e per la grandezza delle finestre.

Pianta di San Gimignano, con l’indicazione delle piú importanti tra le torri superstiti e dei principali monumenti della città.

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Torre Grossa Piú tarda rispetto alle storiche torri del potere politico e finanziario, la Torre Grossa è la piú alta di San Gimignano (54 m) e l’unica aperta alle visite del pubblico. Venne ultimata nel 1311 e si trova anch’essa nell’ampia piazza del Duomo, accanto al Palazzo del Popolo.

Torre dei Cugnanesi Apparteneva alla ricca famiglia dei Cugnanesi ed è una delle torri piú alte della città. Costruita nel Duecento è situata tra via San Giovanni e via del Quercecchio.

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Torre del diavolo Posta in piazza della Cisterna, la Torre, secondo una leggenda medievale, deve la sua imponente altezza a un incantesimo del demonio.

Torre dei Becci Si affaccia su piazza della Cisterna e su via San Giovanni ed evoca il nome di un’altra facoltosa famiglia di mercanti sangimignanesi. Museo San Gimignano 1300

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In alto San Geminiano, vescovo di Modena, tiene il modellino della città di cui è patrono, particolare della pala d’altare di San Geminiano. Tempera su tavola di Taddeo di Bartolo (1362-1422). 1401-1403 circa. San Gimignano, Pinacoteca Civica.

Il simbolo di una città

Fredde e poco confortevoli In epoca medievale le torri di San Gimignano erano 72, tante quante erano, piú o meno, le famiglie facoltose della città. In età moderna si ridussero a 25 e oggi ne restano ancora 14. Le torri furono costruite a pianta quadrata e dotate di pochissime aperture, cosí da poter resistere a eventuali assalti. Nella parte inferiore erano di solito poste le botteghe, mentre ai piani superiori si trovavano le camere e la cucina, anche se, solitamente, gli edifici non erano utilizzati come luogo di residenza fissa. All’interno, infatti, le torri erano fredde e arredate in maniera piuttosto spartana. Per questo motivo accanto a esse sorgevano palazzetti sontuosi, piú confortevoli e illuminati. Gli statuti del XIII secolo stabilirono che l’altezza non dovesse superare il limite dei circa 51 m della Torre del Podestà, detta anche «Rognosa». Ma nel Trecento la norma venne di fatto abrogata con l’elevazione della Torre Grossa fino a 54 m.

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luoghi san gimignano la vernaccia

Delizia irresistibile Al vino bianco di San Gimignano dedicò alcuni versi Dante Alighieri nel Canto XXIV del Purgatorio. L’occasione gli venne fornita dall’incontro con papa Martino IV, confinato nel girone dei Golosi per non aver resistito alle delizie della Vernaccia. Il pontefice sarebbe morto per un’indigestione provocata da un piatto di anguille insaporite proprio dal vino bianco di San Gimignano. Anche Lucrezia Borgia ne era ghiotta, come testimonia una lettera accompagnata da un regalo speciale che inviò a Isabella d’Este: «Ti mando la Vernaccia di San Gimignano perché tu la usi nel preparare le anguille come ti dissi l’ultima volta. Hanno un sapore squisito e un sicuro effetto afrodisiaco». Il pozzo ottagonale al centro di piazza della Cisterna, costruito nel 1287 nel corso dei lavori per la riqualificazione urbana del borgo di San Gimignano, e ampliato nel 1346 dal podestà senese Guccio Malavolti, di cui rimane lo stemma sul basamento.

va la firma del re d’Italia Ugo di Provenza, interessato a controllare quell’avamposto sulla via Francigena attraverso alleati affidabili. Accanto alla rocca sorse un villaggio destinato a popolarsi rapidamente in virtú del continuo transito di viaggiatori lungo la celebre strada Romea. Nel 949 San Gimignano è indicata in alcuni documenti come «borgo», mentre alle soglie dell’anno Mille risulta citata come castrum. Qualche anno piú tardi lo sviluppo della città si estese intorno a un altro maniero, nella zona di Montestaffoli, posto di fronte a quello vescovile. Entrambi gli agglomerati avevano proprie mura ed erano divisi da un fossato. Solo tra il XII e il XIII secolo San Gimi-

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gnano si dotò di una lunga e unica cinta muraria che circondava tutte le porzioni di territorio abitate.

Un nuovo potere laico

Nei primi secoli dopo la fondazione il vero padrone della città era il vescovo volterrano. Ma nel XII secolo l’aspirazione a staccarsi dal dominio ecclesiastico si fece pressante e favorí l’ascesa di una nuova classe dirigente laica. I cosiddetti boni homines, che in precedenza avevano solo coadiuvato il vescovo nel governo, si impadronirono di un crescente potere politico. All’interno delle loro fila verranno da lí a breve scelti i quattro consoli, quando diventeranno i principali amministratori della città. Intorno alla metà del XII seco-

A destra uno scorcio di Torre Grossa, in piazza del Duomo, accanto al Palazzo del Popolo. Con i suoi 54 m, la torre, completata nel 1311, è la piú alta di San Gimignano.


lo nell’intera Toscana stava emergendo in modo prepotente il movimento comunale che alimentò gli scontri tra espansionismi locali. Gli interessi di San Gimignano entrarono spesso in conflitto con quelli dei vicini borghi di Colle, Poggibonsi e Volterra, per questioni di confine. Mentre tutti i comuni della Valdelsa, a loro volta, si armarono contro l’aggressività militare di Firenze, che nel 1148 aveva attaccato il castello di Monte Croce, suscitando le ire di papa Eugenio III. Il quasi immediato atto di pacificazione tra il pontefice e i Fiorentini fu celebrato in modo ufficiale proprio a San Gimignano, a conferma della crescente importanza politica assunta dalla città.

L’inizio della guerra civile Nonostante l’ascesa dei consoli, il vescovo conservava sempre una certa influenza sull’azione del governo locale. Ma questa presenza forte dell’episcopato, in fondo, si rivelava conveniente, poiché garantiva una protezione contro le mire espansionistiche di Firenze. Con l’infuriare della lotta per le investiture e l’avvento in Italia della dinastia degli Hohenstaufen il potere ecclesiastico subí un attacco frontale. Alcune città cacciarono i vescovi dalle proprie amministrazioni, come per esempio fece Siena nel 1167, proclamando la propria autonomia. San Gimignano non si accodò al diffuso sentimento filoimperiale e divenne libero Comune piú di trent’anni dopo, con a capo un podestà. La città, nel Duecento, subí le conseguenze dell’acuirsi della faida tra guelfi e ghibellini rappresentati rispettivamente dalle storiche famiglie degli Ardinghelli e dei Salvucci. Il 1242 segnò l’inizio del vero e proprio conflitto armato tra le due fazioni, che fino a quel momento avevano convissuto in un clima da guerra fredda. In quell’anno incendi e saccheggi, di cui si erano resi responsabili entrambe le parti, culminarono con la messa al bando dei guelfi.

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luoghi san gimignano La veloce ascesa di San Gimignano nel XIII secolo fu soprattutto economica e fu merito dell’intraprendente borghesia capitalistica cresciuta all’ombra del potere vescovile.

Alleanze commerciali

I mercanti locali avevano sfruttato a proprio vantaggio la posizione favorevole sulla via Francigena, traendo però grande profitto anche dalla vicinanza della strada interna che da Siena conduceva a Pisa. Si trattava di un itinerario che i Senesi e i Pisani percorrevano spesso per evitare il transito in territori controllati dalla rivale Firenze. San Gimignano strinse rapporti commerciali molto proficui con Pisa e poté, pertanto, disporre di un facile accesso al mare per l’esportazione del suo prodotto agricolo di punta: una varietà pregiata di zafferano molto richiesta in Europa e nel Vicino Oriente. «L’aver attribuito alla via Francigena – osserva il geostorico Renato Stopani – il merito di aver fatto sorgere la “Manhattan” del XIII secolo, da una parte è stata conseguenza di una lettura approssimata della storia economica sangimignanese, dall’altra frutto dell’indubbia suggestione esercitata dal fenomeno “Francigena”». Lo sviluppo della città e la costruzione delle sue celebrate bellezze architettoniche furono possibili soprattutto grazie «alle cospicue accumulazioni di capitali attuate dai mercanti sangimignanesi attraverso i loro commerci svoltisi a Pisa e per il tramite di Pisa». Ma il segreto del boom economico non risiedeva solo nella favorevole posizione lungo due importan-

ti arterie stradali. I Sangimignanesi si distinsero, infatti, anche come abili prestatori di danaro, spesso a usura, attività dalla quale potevano ricavare interessi che sfioravano il 30%. A incrementare in modo ulteriore la loro ricchezza contribuí la commercializzazione di altri prodotti tipici pregiati che si aggiungevano al già citato zafferano: il vino bianco Vernaccia e la lana lavorata secondo gli insegnamenti dei maestri senesi.

Non piú di 51 metri

I grandi ricchi della città non provenivano, quindi, da famiglie nobili, ma di fatto erano diventati «aristocratici» grazie alle loro redditizie attività finanziarie. Tutti i nuovi ricchi avevano accumulato capitali con le operazioni di prestito, soprattutto gli Ardinghelli e i Salvucci, anche se su questi ultimi circolava una leggenda secondo la quale la loro fortuna era arrivata per caso, con l’acquisto di un «ferraccio» rivelatosi un prezioso oggetto d’oro. Spesso i crediti erano concessi ad alti ecclesiastici perché, in caso di insolvenza, disponevano di vaste proprietà confiscabili. La ricchezza favorí un repentino incremento demografico, che fece impennare il numero degli abitanti a oltre 12 000 unità con conseguenti problemi di spazio. Fu necessaria, allora, una legge per regolare l’affollamento, stabilendo che ogni cittadino potesse possedere soltanto un’abitazione dalle misure limitate quanto a estensione in larghezza e in profondità. Anche per questo motivo la città si sviluppò dal pun-

Lo zafferano

Piú prezioso dei gioielli Lo zafferano di San Gimignano era considerata una delle spezie piú pregiate non solo in Europa, ma anche nel Vicino Oriente. Intorno al 1200, secondo alcuni documenti, gli usurai, al momento di concedere un prestito, lo accettavano come garanzia, preferendolo alle proprietà e ai gioielli. Nel 1228 fu proprio lo zafferano

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a garantire al comune le risorse necessarie per alcune imprese militari e a far decollare l’economia. Secondo la tradizione, i governanti di San Gimignano inviarono 100 libbre di zafferano al re di Sicilia Carlo d’Angiò per l’aiuto che il sovrano aveva fornito alla città nella lotta contro la rivale Volterra.

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santa fina

Il miracolo delle viole Due sono i patroni della città: San Geminiano, il vescovo di Modena che secondo la leggenda fermò l’invasione di Totila, e Santa Fina, una giovane vissuta tra il 1238 e il 1253. La festa di Fina si celebra il 12 marzo, nel periodo in cui a San Gimignano crescono alcune rarissime viole gialle. Le stesse che spuntarono all’improvviso sulle mura cittadine il giorno in cui la santa morí, il 12 marzo 1253, facendo gridare la popolazione al miracolo.

Gregorio Magno appare a Santa Fina e le annuncia la sua morte. Affresco di Domenico Ghirlandaio (1449-1494). 1475. San Gimignano, Collegiata di S. Maria Assunta, Cappella di S. Fina.

to di vista urbanistico in altezza, con la proliferazione di torri che, secondo gli statuti del 1255, non dovevano superare una misura massima: 50,92 m, quanto cioè raggiungeva la «Rognosa», posta accanto al Palazzo del Podestà. Le famiglie piú potenti si trovarono costrette a rispettare queste limitazioni, pena la mutilazione forzata dei loro edifici. Alcuni scrittori locali del Trecento celebrarono le torri come creazioni

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artistiche ispirate da ideali estetici e cavallereschi. In realtà, l’esagerata altezza delle costruzioni rivestiva un significato puramente materiale, caratterizzandosi come uno sfoggio di potenza da parte dei governanti e dei facoltosi mercanti che le abitavano.

La città diventa guelfa

San Gimignano era guelfa o ghibellina? Le relazioni con la Firenze filopapista furono in un primo

momento turbolente e in seguito di rassegnata subalternità. Già nel 1198 la città entrò in guerra contro i Fiorentini che intendevano distruggere Semifonte, una sorta di baluardo per i centri della Valdelsa contro le minacce provenienti dall’esterno. I compromessi successivi, tuttavia, spinsero progressivamente i Sangimignanesi nell’orbita politica fiorentina, malgrado la scelta di campo ghibellina che la

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luoghi san gimignano città aveva compiuto nel Duecento. Dopo la morte di Federico II, infatti, il locale partito guelfo riprese vigore e nel 1251 ebbe il sopravvento sui rivali dopo violentissimi scontri per le strade. San Gimignano aderí, poi, alla Lega guelfa, proprio nell’imminenza della decisiva battaglia di Montaperti che, nel 1260, vide trionfare i ghibellini senesi contro Firenze. Un reparto di Sangimignanesi partecipò alla disfatta subendo perdite notevoli. La città tornò di nuovo ghibellina, come del resto tutta la Toscana, tranne Lucca, l’ultimo avamposto della resistenza papista. Dopo soli sei anni, però, gli equilibri politici della regione vennero rivoluzionati di nuovo, all’indomani dell’affermazione del guelfo Carlo d’Angiò su Manfredi di Sicilia nella battaglia di Benevento. A San Gimignano i ghibellini resistettero all’inevitabile contrattacco guelfo anche dopo il nuovo trionfo fiorentino a Colle, nel 1269, ma nel 1274 furono costretti all’esilio.

La missione di Dante

Intanto si profilava la fine di un’epoca. Uno degli assi portanti dello sviluppo economico cittadino, l’alleanza mercantile con la ghibellina Pisa, venne meno anche per motivi politici, in particolare dopo la capitolazione di questa nello scontro navale con Genova del 1284. La Lega guelfa era sempre piú forte e nel 1289 inferse il colpo di grazia al ghibellinismo toscano nella battaglia di Campaldino. I Fiorentini, che avevano fatto la parte del leone in quella memorabile vittoria, estesero i loro domini sulla Valdelsa, minacciando indirettamente l’amica San Gimignano. Firenze, a ogni modo, non intendeva scatenare una guerra contro i suoi ricchi alleati. Provava una certa gratitudine nei riguardi dei Sangimignanesi che spesso erano accorsi in suo aiuto nelle grandi battaglie contro i ghibellini. E per rinsaldare i rapporti con la città delle torri, inviò addirit-

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Nella macchina del tempo Qual era l’aspetto di San Gimignano nel periodo del suo massimo splendore? Quale impatto visivo poteva produrre un piccolo borgo nel quale svettavano piú di 70 torri? Tuttora la città, come poche altre al mondo, presenta un profilo tipicamente medievale, ma, nel corso del tempo, ha subito qualche inevitabile «contaminazione» moderna, oltre alla drastica riduzione dei suoi monumenti simbolo. Niente dei fasti urbanistici del Duecento e del Trecento, però, è caduto in oblio, grazie agli sforzi del Museo «San Gimignano 1300», che ha realizzato la riproduzione, in scala 1:100, dell’intera città (vedi foto sulle due pagine), così come appariva all’inizio del XIV secolo, con tutte le torri, i palazzi del potere e il tratto della via Francigena che


l’attraversava. Gli edifici risultano ricostruiti in modo fedele agli originali trecenteschi e sfoggiano spesso colori molto più vivaci di quelli riscontrabili nell’odierno abitato. Autorevoli docenti universitari, coinvolti nel progetto, garantiscono sull’attendibilità storica di ogni particolare architettonico rimodellato nel plastico dai fratelli Michelangelo e Raffaello Rubino con l’utilizzo di materiali estratti dalla natura circostante: una tonnellata di argilla di Montelupo Fiorentino per realizzare circa 800 edifici; e frammenti di vegetazione toscana per riprodurre prati, alberi e terreni. Nel plastico, che occupa un’area di ben 27 m², si possono rintracciare i segni degli antichi rapporti di «buon vicinato» tra le famiglie più in vista. (segue a pag. 107)


luoghi san gimignano

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(segue da p. 105) Due case costruite l’una attaccata all’altra erano, infatti, un segno di amicizia tra i rispettivi proprietari, mentre la presenza di uno spazio tra le abitazioni provava il contrario. Nel museo, patrocinato dalla commissione nazionale italiana per l’UNESCO, sono esposte sezioni della città in scala più grande che pongono su una lente d’ingrandimento virtuale alcuni aspetti architettonici e commerciali della San Gimignano medievale, come la struttura interna delle torri e l’evoluzione dei mestieri.

tura Dante Alighieri in missione diplomatica. Alla metà del XIV secolo una crisi finanziaria colpí molte zone della Toscana e mise in ginocchio la stessa San Gimignano, che continuava a essere funestata dalle lotte tra gli Ardinghelli e i Salvucci. Il declino economico comportò una dipendenza politica da Firenze ancora piú accentuata, mentre la peste provocava un crollo demografico. Nel 1348 il numero degli abitanti non superava le 1800 unità, una cifra irrisoria considerando gli oltre 12 000 residenti di appena qualche decennio prima.

Vittima dei banchieri

Subendo poi una sorta di legge del contrappasso, San Gimignano divenne vittima degli interessi usurari dei prestatori di danaro: i piú attivi in quel frangente risultarono i banchieri fiorentini Peruzzi. La crisi si aggravava e a poco serví la «tassa patrimoniale» imposta dal comune a carico delle famiglie piú ricche. L’improvviso calo demografico impediva un ricambio generazionale della vecchia classe mercantile. Troppo pochi erano i giovani uomini d’affari per poter ingenerare un circolo virtuoso di selezione dei migliori talenti commerciali, come avveniva in passato. Spesso, dai rari matrimoni celebrati, non nascevano figli maschi e le residue risorse delle famiglie finivano nelle mani degli enti ecclesiastici a titolo di donazione o in quelle degli scaltri banchieri fiorentini. Anche dal punto di vista politico il XIV secolo segnò l’inizio del declino per la città. L’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, sceso in Italia, assunse un atteggiamenUno dei vicoli del borgo, nella riproduzione realizzata in scala 1:100, esposta al Museo «San Gimignano 1300». Nella pagina accanto particolare del plastico con piazza della Cisterna e piazza del Duomo, le principali di San Gimignano.

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gimignano luoghi sanclontarf battaglie le chiese

Il Duomo e le altre

I principali luoghi religiosi di San Gimignano risalgono al XII e al XIII secolo. Il Duomo, noto anche come Collegiata di S. Maria Assunta, costruito nell’XI sec., è in stile romanico e contiene affreschi di Benozzo Gozzoli, Domenico Ghirlandaio e Jacopo della Quercia. La chiesa di S. Agostino, di stile romanicogotico, fu ultimata verso la fine del Duecento e ospita anch’essa numerosi affreschi di grande valore artistico. Tra gli altri santuari si segnala la chiesa di S. Pietro in Forliano, una delle piú antiche della città, fondata nell’XI secolo.

Il Battesimo di Sant’Agostino, particolare dalle Storie di Sant’Agostino. Affresco di Benozzo Gozzoli (1420-1497). 1465. San Gimignano, chiesa di S. Agostino.

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Un magnifico compendio della pittura toscana Sede storica dei Musei Civici di San Gimignano è il Palazzo Comunale. Con tale denominazione viene oggi indicato l’ex Palazzo del Popolo, detto anche Nuovo Palazzo del Podestà, la cui facciata reca gli stemmi dei podestà di San Gimignano e conserva il ballatoio da cui questi ultimi comunicavano con la cittadinanza. Nel cortile del palazzo si trova una cisterna tardo-trecentesca e nel loggiato è presente un affresco del Sodoma raffigurante Sant’Ivo. All’interno del palazzo, al piano nobile, si possono ammirare famosi cicli di affreschi: la Sala di Dante (l’antica Sala del Consiglio), con le scene di caccia e di torneo dedicate a Carlo d’Angiò, realizzate da Azzo di Masetto (1290 circa); la grandiosa Maestà del senese Lippo Memmi (1317), esemplata sul capolavoro del cognato Simone Martini e tuttora in Palazzo Pubblico a Siena; e, infine, le divertentissime scene d’amore profano dipinte da Memmo di Filippuccio nella camera del Podestà (1310 circa). Nella Pinacoteca, tra i dipinti piú importanti, vi sono una Madonna col Bambino di Benozzo Gozzoli, allievo del Beato Angelico, e due tondi di Filippino Lippi raffiguranti l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata. Tra gli altri nomi dei pittori toscani medievali compaiono quelli di Coppo di Marcovaldo (autore di un magnifico crocifisso; vedi foto), Rinaldo da Siena, Taddeo di Bartolo e Lorenzo di Niccolò. Da segnalare, inoltre, la grande pala realizzata dal Pinturicchio nel 1511. Dove e quando Palazzo Comunale, Pinacoteca e Torre Grossa – piazza Duomo, 2 – San Gimignano; orario tutti i giorni, 9,30-19,00 (estivo); 11,00-17,30 (invernale); info tel. 057 7990312; musei@comune.sangimignano.si.it (red.)

In basso il Crocifisso di Coppo di Marcovaldo (XIII sec.; a sinistra) e il Crocifisso di Rinaldo da Siena (XIII sec.; a destra) esposti in una sala della Pinacoteca di San Gimignano.

to ostile nei riguardi della Lega guelfa e nel 1312 attaccò Firenze. L’ostilità del monarca si riversò anche contro gli alleati dei Fiorentini, con la minaccia di invasioni e saccheggi. Delle campagne di Enrico approfittò la ghibellina Pisa, appoggiata in seguito dal valoroso capitano di Ventura Uguccione della Faggiola. La sua vittoria nella battaglia di Montecatini del 1315 provocò un’emorragia di adesioni al guelfismo: alcune città stracciarono i loro accordi con Firenze, temendo la ricostituita potenza militare pisana. San Gimignano subí la controffensiva ghibellina, in particolare quella guidata, qualche anno dopo, da Castruccio Castracani, ma il borgo restava ancora saldamente in mano ai guelfi. Non ci furono vincitori, invece, nell’eterna faida tra Salvucci e Ardinghelli. Nel 1352 i Salvucci accusarono Rossellino e Primerano Ardinghelli di aver ordito un complotto ai danni del capitano del popolo, Benedetto Strozzi. Fecero, poi, pressioni su quest’ultimo, che si vide quasi costretto a condannare a morte i sospettati. I Salvucci avevano assestato un colpo durissimo agli avversari, ma subirono l’immediata reazione della fazione rivale che distrusse tutte le loro abitazioni, tranne le immortali torri. F

Da leggere U Giovanni Cecchini, Enzo Carli, San Gimignano, Electa, Milano

1962 U Renato Stopani, San Gimignano nei secoli X-XIII da «luogo detto» a città, Centro Studi Romei, Firenze, 2005 U Enrico Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1993 U Luigi Pecori, Storia della terra di San Gimignano, Arti Grafiche Nencini, Certaldo 2006 U Valerio Bartolini, Gabriele Borghini, Antonella Mennucci, San

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Gimignano. Contributi per una nuova storia, Comune di San Gimignano, 2003 U Gianna Coppini, San Gimignano. Sogno del Medioevo, Edizioni Il Furetto, San Gimignano 2003 U Duccio Balestracci, Breve storia di San Gimignano, Pacini Editore, Pisa 2007 U Giovanna Casali, San Gimignano. L’evoluzione della città tra il XIV e il XVI secolo, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1998

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caleido scopio

Blasoni all’ombra della torre libri • Che si possa fare storia a partire da

stemmi e insegne è una realtà ormai ampiamente comprovata. E di cui si ha l’ennesima riprova da questo stemmario pisano di recente pubblicazione

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o stemmario seicentesco riprodotto in questo volume, corredato da tre ampi saggi introduttivi, si propone di costituire, come ben evidenzia l’editore in sede di premessa, un ausilio per la storia di Pisa e dei suoi ceti dirigenti. Infatti l’araldica – è ancora l’editore a sottolinearlo – al di là dell’interesse che può avere per il genealogista, rappresenta (soprattutto per l’epoca medievale), un valido strumento per la comprensione delle dinamiche sociali e politiche che sottendono all’evoluzione di una piú o meno vasta entità statuale. I simboli presenti sugli stemmi, infatti, possono facilmente indicare lo schieramento politico di una determinata famiglia, la sua appartenenza alla parte guelfa o a quella ghibellina, eventuali cambiamenti di fazione di una consorteria o di un suo ramo. L’araldica pisana è la meno ricca tra quelle delle città toscane, a causa delle traversie subite dalla città e del gran numero di distruzioni per motivi bellici e politici, per cui ci sono stati tramandati gli stemmi di circa 5-600 famiglie (e non tra le piú antiche), rispetto a quelli molto piú numerosi, per esempio, di Firenze. La città, infatti, subí in modo particolare dapprima gli effetti delle carestie e delle epidemie trecentesche – che la portarono a un tracollo demografico, riducendo la popolazione dai 50 000 abitanti

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dell’inizio del XIV secolo ai 15 000 della fine del Trecento –, poi, agli inizi del Quattrocento, gli effetti dell’espansionismo fiorentino, che la costrinsero ad arrendersi, stremata, alla città di Dante nel 1406. Tra questa data e il 1427 il numero degli abitanti di Pisa si ridusse ancora, arrivando a 7500: quasi la metà della popolazione era morta o emigrata.

La crisi non risparmia l’araldica Tutto questo comportò, da un lato il venir meno di molte dinastie pisane, dall’altro la distruzione di buona parte dell’araldica trecentesca e quattrocentesca. In epoca medicea persino il palazzo comunale fu destinato ad altra funzione, con la conseguente dispersione del

patrimonio di insegne e stemmi ivi contenuto. Le compilazioni tarde, come questo stemmario seicentesco, riuscirono a recuperare soltanto una parte degli stemmi pisani medievali, ovvero quelli delle famiglie piú cospicue, probabilmente attestati da numerose testimonianze artistiche, architettoniche e documentarie, oltre a quelli dei gruppi familiari sopravvissuti all’estinzione e non emigrati. Nonostante il crollo demografico, le interpretazioni storiografiche degli ultimi anni tendono ad attenuare le ipotesi catastrofiste a proposito dell’economia pisana trecentesca, mettendo in evidenza invece come, proprio il periodo compreso tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del XIV secolo sia stato caratterizzato da una grande fioritura della banca pisana, che raggiunse un livello tecnico tra i piú avanzati d’Italia e d’Europa, stimolato dallo sviluppo industriale (tessile e del cuoio). E proprio in quest’epoca migliorò sensibilmente le proprie fortune la famiglia Galletti, alla quale si deve la giugno

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conservazione dello stemmario. La datazione del codice, in mancanza di un riscontro certo, e sulla base di elementi contenuti nel manoscritto, è stata fatta risalire alla seconda metà del secolo XVII (anche se, a giudizio di chi scrive, la scrittura e l’iconografia farebbero a prima vista pensare piuttosto al secondo Cinquecento).

L’aquila e la spada Lo stemmario, appartenente alla famiglia Galletti e recentemente acquistato dalla Familienstiftung Haus Orsini Dea Paravicini, contiene 517 splendidi stemmi acquerellati (il primo dei quali, a tutta pagina, è quello dei primi proprietari), accanto ad alcuni dei quali viene segnalato il luogo di sepoltura della famiglia. I simboli adottati negli stemmi sono tra i piú vari: castelli turriti, animali di ogni genere (leoni rampanti, tori, orsi, gatti, colombe, cicogne, gamberi, cani, capretti, galli, lupi, pesci, ghepardi, gufi,

Laura Cirri e Alessandro Savorelli (a cura di) Stemmario Pisano Orsini De Marzo con un saggio di Alma Poloni; blasonatura dello stemmario di Carlo Maspoli, Orsini De Marzo, Sankt Moritz, 352 pp., ill. 180,00 CHF 150,00 euro ISBN 978-88-7531-066-0

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grifoni), motivi vegetali (foglie di edera, rami di ulivo, fiorellini a sei petali, pini marittimi, ortaggi – cavoli e rape –, pere), strumenti di lavoro (martelli, carri per il fieno), ma, fra tutti, sembrerebbero prevalere l’aquila imperiale, simbolo della fede ghibellina della città, e la spada, collegata anch’essa all’impero. Appaiono anche qua e là, in modo del tutto casuale, molti nomi di mestieri accompagnati da uno stemma (molendinari, mugnai, calafati, marinai, setaioli, fornaciari, fornari, granaioli, aurifici), ma non è affatto chiaro se si trattasse di emblemi di

famiglie che esercitavano o avevano esercitato l’attività, o piuttosto di stemmi corporativi. La seconda parte del volume comprende la blasonatura, con tavole di confronto tra questo e altri codici; l’elenco delle famiglie corredato da notizie che le riguardano; un utilissimo repertorio delle figure araldiche, che, partendo dall’iconografia conduce alla famiglia o alle famiglie di cui una determinata immagine era emblema; e, infine, la bibliografia divisa in sezioni tematiche. Maria Paola Zanoboni

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La vocazione di una dinastia musica • Il contributo di Jordi Savall e

della sua famiglia alla conoscenza della musica si arricchisce di nuove registrazioni, confermando il talento e l’ispirazione dell’artista spagnolo

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on una media di oltre 130 concerti all’anno, piú di 170 registrazioni discografiche, la creazione di tre ensemble musicali – l’Hespèrion XXI, La Capella Reial de Catalunya e Le Concert des Nations –, nonché una serie di prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, il catalano Jordi Savall è uno dei personaggi tra i piú attivi nel panorama musicale spagnolo. Una carriera musicale iniziata da piccolissimo, con lo studio della viola da gamba, al cui repertorio ha dedicato memorabili incisioni e che, col tempo, si è tramutata in un progressivo approfondimento e studio delle fonti musicali, a partire dal Medioevo spagnolo sino al Settecento europeo.

L’originalità dell’approccio La creazione delle tre formazioni vocali/strumentali, di una propria casa discografica, l’Alia Vox, infine la preziosa collaborazione della moglie, il soprano Montserrat Figueras, e dei figli Arianna e Ferran Savall, sono alcune delle componenti che contraddistinguono le emozionanti avventure musicali proposte da Savall, la cui arte si caratterizza per

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offrono alcuni aspetti dell’universo sonoro a cui i Savall hanno dedicato una particolare attenzione negli ultimi decenni.

Sulla via di Santiago

l’originale approccio filologico, nel rispetto delle prassi antiche, ma anche innovativo nel contribuire con il proprio bagaglio culturale all’arricchimento di un repertorio in cui, spesso, il «non scritto» ha una valenza altrettanto importante della partitura scritta. Senza tralasciare il ricorso, non raro, a originali momenti compositivi, a cui Savall si lascia andare, nel segno della tradizione andaluso-catalana, o seicentesca, secondo i contesti musicali affrontati. Tre recenti proposte discografiche ci

Iniziando dalla piú giovane della famiglia, la proposta dell’etichetta Ricercar ha per protagonista Arianna Savall, nella duplice veste di arpista e voce, con l’antologia Un camino de Santiago. La musique au XVIIe siècle sur le chemin de Saint-Jacques de Compostelle (RIC 312, 1 CD, distr. Jupiter), in cui, nel vero senso della parola, viene ripercorsa la lunga via che attraversando la Francia e la Spagna giungeva sino al celeberrimo santuario dedicato a San Giacomo Maggiore nell’omonima città galiziana di Santiago de Compostela. Le musiche qui proposte, di generi, stili e atmosfere spesso distanti tra loro, sono le stesse che dovettero risuonare lungo il tragitto percorso ogni anno da migliaia e migliaia giugno

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caleido scopio di fedeli. Partendo dalla tradizione monodico-liturgica dell’XI secolo, con un’antifona dedicata al Vespro di S. Giacomo, l’antologia si sofferma geograficamente sulle principali tappe del camino de Santiago; a ognuna di esse è legato un brano che ci rimanda in qualche modo alla venerazione del santo. Delicatissima la voce di Arianna Savall, che memore degli insegnamenti materni, si presta ottimamente a queste musiche in cui il tono popolare si alterna a quello colto in un fruttuoso rapporto di influenza reciproca. Ad accompagnarla è il ricco Ensemble La Fenice, diretto da Jean Tubéry, che fa ampio sfoggio di strumenti della tradizione cinque-seicentesca esibendo un campionario di ricche sonorità.

Figueras e dalla figlia Arianna Savall, che intessono il raffinato dialogo di una giovane che chiede in dono una bambola alla madre, la quale, in cambio, la accontenta con una canzone. L’antologia non poteva non concludersi con un inno alla Catalunya, Els segadors, anch’essa melodia di origine popolare che rammenta la rivolta contadina contro i Castigliani di Filippo IV. A far da contraltare al talento del soprano Montserrat Figueras e delle altre voci che intervengono sporadicamente nei vari brani,

Echi di Catalogna Il secondo disco vede in primo piano Montserrat Figueras, musa ispiratrice nonché consorte di Jordi Savall e protagonista di tantissime sue registrazioni discografiche. Una voce che, fortemente legata alla tradizione locale, a tratti sinuosamente arabeggiante, è divenuta una pietra miliare nel repertorio catalano medievale, di cui l’antologia Cançons de la Catalunya mil•lenària (AVSA 9881, 1 CD, distr. Jupiter) ci offre un affascinante assaggio. Dedicata al vasto canzoniere catalano che spazia dalle monodie dei primi trovatori dell’XI-XII secolo a brani dei secoli successivi, l’antologia si sofferma sull’aspetto piú lirico dei lamenti, delle ninne nanne, ma anche della narrazione leggendaria che celebra personaggi mitici della storia locale. Notevoli le suggestioni evocate da brani come la tradizionale ninnananna El cant dels ocell o la leggenda di El comte Arnau tra le piú antiche della tradizione catalana, sino a toccare punte estreme di lirismo nel duetto tra madre e figlia della Cançó de bressol, qui interpretate da Montserrat

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vi sono gli altrettanto bravi strumentisti de La Capella Reial de Catalunya diretti da Jordi Savall, qui particolarmente ispirato in quello che risulta essere, insieme alla letteratura per viola da gamba, il repertorio a lui piú congeniale.

Al tempo dei Borgia Il panorama musicale offerto dai Savall si allarga ulteriormente con il cofanetto Dinastia Borgia. Chiesa e potere nel Rinascimento (Alia Vox, AVSA 9875 A/C, 3 CD+1 DVD, distr. Jupiter), dedicato a tre secoli di storia musicale europea che hanno

fatto da sfondo alle gesta dei Borgia, famiglia di origine catalana, celebre per aver dato alla storia, nel XV secolo, due papi, Callisto III e il nipote Alessandro VI, nonché una serie di personaggi tanto illustri quanto discussi, come Cesare Borgia detto il Valentino, Lucrezia, duchessa di Ferrara e Francesco, santificato nel XVII secolo. Ultima delle grandi imprese discografiche concepite da Jordi Savall, l’antologia offre un’ampia scelta musicale, che si contraddistingue per la varietà di generi e stili, tanto da offrire uno spaccato piuttosto rappresentativo della realtà musicale tra XIV e XVI secolo. Benché l’attinenza tra le musiche presentate e i Borgia sia spesso legata a concomitanze cronologiche piú che personali – fatta eccezione per pochi brani –, l’antologia rende pienamente l’idea di come la musica fosse una presenza costante in tutti gli aspetti della vita di corte. Dai momenti piú solenni celebrati con l’intervento di fanfare, alla polifonia sacra che accompagnava le messe solenni, sino ad arrivare a generi piú popolari, adottati dai musicisti «colti», il panorama offerto è altrettanto vasto quanto le personalità dei singoli rappresentanti della famiglia Borgia, qui evocati anche attraverso una serie di letture da cronache d’epoca intercalate alle musiche. L’oculata regia musicale di Savall centra ancora una volta il segno con la creazione di una grande macchina narrativa ben congeniata, in cui l’alternanza stilistica di generi vocali e strumentali dà luogo a un variopinto paesaggio sonoro di grande efficacia. Un plauso particolare all’esuberanza dei due gruppi vocali/strumentali dell’Hespèrion XXI e de La Capella Reial de Catalunya, diretti da Jordi Savall con appassionato entusiasmo. Franco Bruni giugno

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