Medioevo n. 182, Marzo 2012

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santa chiara la notte nell’arte bartolomeo d’alviano samarcanda dossier l’impero dei serbi

Mens. Anno 16 n. 3 (182) Marzo 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 3 (182) marzo 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

samarcanda

nella città di tamerlano

chiara

d’Assisi’

una santa all ombra di francesco

bartolomeo d’alviano

vita e morte di un capitano di ventura

dossier

l’impero dei serbi

€ 5,90



sommario

Marzo 2012 ANTEPRIMA appuntamenti R come restauro Medioevo Oggi Patrizio, che cacciò i serpenti La processione dei penitenti blu L’Agenda del Mese

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mostre Immagini per il Verbo Il fuoco dell’Est

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l’arte della guerra

musei La sentinella del golfo

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di Chiara Mercuri

Sparando s’impara di Flavio Russo

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COSTUME E SOCIETÀ

STORIE grandi santi Indagine su Chiara

Artiglierie individuali/2

samarcanda

La necropoli di Shah i-Zinda

Nel regno della luna

di Franco Bruni

Per le donne di Tamerlano

di Lorenzo Lorenzi

CALEIDOSCOPIO

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l’impero dei serbi

di Francesco Colotta

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libri Lo scaffale

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musica Sia gloria alla regina Nel segno dell’eclettismo

113 114

La cartapesta

Bartolomeo d’Alviano

Dossier

cartoline Storie di una città scomparsa

costume e societÀ

protagonisti di Luca Pesante

92

42

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Uomo d’arme e di compasso

luoghi

iconografia La notte 24

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Il riscatto della carta straccia di Maria Paola Zanoboni

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Ante prima

come restauro appuntamenti •

Come operano, oggi, i restauratori? E quali le prospettive che i loro interventi possono aprire? Le risposte a Ferrara, con il Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali

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errara si appresta ad accogliere il XIX Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, un appuntamento ormai consolidato, ma che, in questa edizione 2012, intende proporsi come qualcosa di piú del semplice rinnovo di una pur lusinghiera consuetudine. E lo fa a cominciare dal logo (che abbiamo scelto di inserire nel titolo di questa notizia), la cui grafica vuole evocare l’essenza dei materiali dell’architettura da conservare e trasmettere, attraverso la modernità delle sue linee, il desiderio di porsi in relazione con l’attualità contemporanea. Il restauro, insomma, visto non soltanto come conservazione dell’antico, ma anche, e soprattutto – vista la difficile congiuntura in cui il nostro Paese si trova –, come possibile innesco di una strategia di tutela e valorizzazione dei beni culturali che possa avere ricadute importanti anche sul piano economico e occupazionale.

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A sinistra un esempio di applicazione delle nuove tecnologie allo studio dei monumenti (in questo caso il complesso della basilica di S. Maria Assunta e della Torre di Pisa), anche in funzione degli interventi di restauro. In basso una fase dell’intervento sulla pala di San Zeno di Andrea Mantegna. Nella pagina accanto, in alto il restauro della Madonna del cardellino, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze: si è trattato di un intervento assai complesso, concluso nel 2008. L’opera, dipinta dal giovane Raffaello per le nozze di Lorenzo Nasi intorno al 1506, è conservata presso la Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto, in basso restauratori al lavoro su pitture murali conservate presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. L’idea, dunque, è quella di proporre non solo una sintesi dello stato dell’arte nei vari campi del restauro, ma anche occasioni di incontro e di dibattito che possano stimolare nuove iniziative e nuovi progetti. A questo proposito, per esempio, sono in programma appuntamenti dedicati a luoghi della cultura che, grazie agli interventi di recupero, sono divenuti mete turistiche di grande richiamo, introducendo un nuovo concetto di arte e territorialità: se ne parlerà con riferimento a progetti sviluppati non soltanto in Italia, ma anche in Paesi come l’India, il Brasile, Malta e varie nazioni dell’Africa del Nord.

Casi emblematici Fra gli appuntamenti d’impronta piú «tradizionale», segnaliamo una tavola rotonda dedicata all’analisi di alcuni grandi restauri effettuati nel corso degli ultimi decenni (come, per esempio, quelli che hanno interessato la Cappella Sistina o

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il Cenacolo di Leonardo). L’idea è quella di riesaminare i lavori svolti e il dibattito scientifico che essi hanno sollevato, per domandarsi se, oggi, si adotterebbero le medesime strategie di intervento. Nell’ambito delle tecnologie applicate alla conservazione, possiamo invece segnalare gli appuntamenti a cura del TekneHub dell’Università di Ferrara, che propone una rassegna sulle innovazioni tecnologiche nel campo del rilievo 3D laser scanner e non solo e su come si è sviluppato il rapporto con il mondo dei beni culturali. Sarà possibile vedere, tra le altre, le prime ricerche sul Colosseo, sulla piazza dei Miracoli di Pisa, su Leon Battista Alberti, sulle fortezze maltesi di Gozo, fino alla presentazione del nuovo Michelangelo’s Box (un

Dove e quando

XIX Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali Ferrara, Quartiere Fieristico, via della Fiera, 11 dal 28 al 31 marzo Orario 09,30-18,30 Info tel. 051 6646832; www.salonedelrestauro.com progetto di esportazione della sapienza italiana e di inclusività culturale che racconta le architetture di Michelangelo a Firenze nel complesso laurenziano, realizzate con tecnologie digitali in collaborazione con l’Università di Firenze). Stefano Mammini

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Ante prima

Immagini per il Verbo mostre • Selezionati fra le opere della

sua raccolta privata, il museo spezzino che porta il nome del collezionista e mecenate Amedeo Lia presenta preziosi dipinti d’ispirazione sacra mai prima d’ora esposti al pubblico

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el dicembre del 1996 apriva alla Spezia un museo tutto nuovo, nato dall’incontro tra un collezionista illuminato e innamorato della sua fenomenale raccolta d’arte, Amedeo Lia, e la città ligure. In alcuni decenni, Lia era riuscito ad acquisire centinaia di dipinti, sculture, oggetti preziosi, formando un’eccellente antologia dell’arte occidentale. Al suo interno, la pittura era ed è quasi esclusivamente rappresentata dagli artisti italiani, con le raffinate tavole a fondo oro due- e trecentesche, mentre i bronzi, le miniature, gli avori, gli smalti, le oreficerie traducono le esperienze dell’Europa del Medioevo, del Rinascimento e infine dell’età barocca.

A destra Benozzo Gozzoli, Madonna dell’umiltà. Tempera su tavola, 1450 circa. In basso Andrea Meldolla, detto lo Schiavone, Giuda impiccato. tempera su tavola, secondo quarto del XVI sec.

Il Figlio sceso in Terra

fino a oggi inaccessibili al pubblico. L’esposizione si compone di due nuclei, tra loro integrati, composti da dipinti e da miniature: immagini divine, che narrano la vicenda umana del Figlio di Dio, e che di quel doloroso e salvifico passaggio terreno illustrano i capitoli salienti. Come

A quindici anni dall’apertura del museo, felice sintesi tra pubblico e privato, la mostra Divine Pitture propone alcune importanti opere provenienti dalla collezione privata di Amedeo Lia, che, non essendo tra i materiali allora donati, erano rimaste

Le opere illustrate appartengono alla collezione privata di Amedeo Lia, La Spezia. dal Quattrocento le Humanae Litterae avevano assunto una centralità nella speculazione intellettuale, attraverso la filologia e lo studio dei classici, cosí l’immagine rendeva giusta lode al Signore attraverso la propria consistenza figurativa, al fine di rendere concreta l’ineffabile Dove e quando

«Divine pitture. Opere private della Collezione Lia» La Spezia, Museo Civico «Amedeo Lia» fino al 3 giugno Orario ma-do, 10,00-18,00; lu chiuso Info tel. 0187 731100; fax 0187 731408; http://mal.spezianet.it

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presenza del divino. Già dal Medioevo, infatti, oltre a un valore puramente decorativo o estetico in senso lato, le arti visive assolvevano a una funzione mediatica, utile tanto alla diffusione del Verbo quanto alla meditazione o alla catechesi. Con piú efficacia di qualsiasi parola pronunciata, e come tale volatile e immanente, e di qualsiasi parola scritta, troppo spesso indecifrabile, il segno figurato assolveva cosí alla diffusione del precetto di Dio, che doveva essere trasmesso senza equivoco né ambiguità. I dipinti e le miniature presentate in mostra, non a caso derivate dalle stanze private di Amedeo Lia, assolvono pienamente a questa funzione. Si tratta di opere comprese tra lo scadere del Trecento e il pieno Cinquecento, cioè dalla tarda età gotica, figurata dalla preziosa tavoletta di Mariotto di Nardo, di astratta e assoluta bellezza, fino ai dipinti preveggenti i precetti controriformati, di area veneziana, come l’impietosa quanto insolita rappresentazione dell’impiccagione di Giuda, del dalmata Andrea Meldolla, detto lo Schiavone. Qui, in un paesaggio d’opale liquido, una piccola folla di soldati e sacerdoti osserva l’ultimo respiro del traditore Giuda, già predato dalla bestia demoniaca, offuscata tra le fronde dell’albero dal quale pende, quasi impercettibile: un’invenzione superba, estranea a qualsiasi fonte, che oscura di condanna immediata e perdizione ineluttabile la luce d’aurora della quieta campagna.

Un abbraccio irrequieto Emerge poi solitaria l’immobile e silenziosa Madonna dell’umiltà di Benozzo Gozzoli, con la sua monumentale malinconia: Madre e Figlio, uniti in un abbraccio articolato e irrequieto, si stringono a comporre una solida alleanza, resa compatta dal manto scuro della Vergine, squarciato dalla sottostante veste

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lasciarla fuggire, il Bambino esibisce un’anatomia dalla grande energia e di morbida giovinezza.

Capolavoro in miniatura

In alto Benvenuto di Giovanni, Madonna col Bambino. Tempera su tavola, ultimo quarto del XV sec. In basso Zanobi Strozzi e collaboratori, Libro d’Ore, 1442.

rossa e solo interrotto dal gesto complice e affettuoso del Bambino, che alla Madre si accosta e quasi si appiglia, nel chiederle conforto. E, ancora, la nobile Vergine del senese Benvenuto di Giovanni: pensosa nello sguardo, rivolto altrove, mostra il Bambino, commosso da una afflizione austera, da lei sorretto su un cuscino tessuto d’oro e di ogni veste, spogliato di ogni ornamento, se non di quel drappo rosato a nasconderne la nudità piú intima. Trattenendo la mite colomba bianca tra le dita, per non

Tra le miniature, spicca il minuscolo e prezioso Libro d’Ore datato alla metà del XV secolo, ornato di esuberanti apparati decorativi e illustrativi dovuti ad artisti gravitanti intorno al Beato Angelico, Zanobi Strozzi in particolare, al quale si deve la cura della maggior parte delle illustrazioni miniate. È un librino di preghiere, di formato confidenziale, con uno specchio di scrittura di pochi centimetri (40 x 36 mm), per un totale di 228 carte. Oltre alle immagini e alle figurazioni vere e proprie, numerosissime sono le iniziali filigranate rosse e azzurre, in foglia d’oro o su campo esterno d’oro, ampliate poi da ornati semplici o piú complessi, disposti a incastro nelle stesse iniziali. Girali, code e borchie cigliate creano effetti di ricercata eleganza, amplificando la già armonica narrazione dei testi sacri. Strumenti di fede di incontrovertibile efficacia, da tenersi tra le mani o da osservarsi nella penombra della camera da letto, a sottolinearne proprio la colloquiale familiarità e il sostanzioso dialogo che il contesto affatto privato induceva a vivere, il dipinto, la raffigurazione miniata, la scultura restano gli strumenti di piú potente e leale presa, ad maiorem Dei gloriam. E tali sono le Divine Pitture della collezione Lia, apparenze sublimi di corretta scrittura e di superba qualità esecutiva, nelle quali la santità figurata si mostra come un vivido segno dell’immanenza del divino, reso chiaro in quei gesti di sensitiva grandezza: per tutti, l’abbraccio sincero e protettivo offerto al suo Bambino dalla Madre dipinta da Benozzo Gozzoli, che in quel gesto malfermo e cosí umano incarna, per sempre, ogni abbraccio materno. Andrea Marmori

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La sentinella del golfo musei • Dopo essere

stato, nel Medioevo, una struttura nevralgica per il controllo del mare e del territorio, il castello di San Giorgio, a La Spezia, ospita un museo dedicato alla storia piú antica della città

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l castello di San Giorgio, il monumento storicamente piú rappresentativo di La Spezia, domina la città e il Golfo dei Poeti dalla cima della collina del Poggio. Già nell’Alto Medioevo, sulla sommità del modesto rilievo che sovrasta la piana alluvionale in cui si è sviluppato il capoluogo spezzino, esisteva una struttura difensiva. Poi, nel XIII secolo, con il dominio dei Fieschi sulla Riviera di Levante, essa venne rafforzata, secondo un chiaro disegno politico di controllo del territorio e del golfo.

La fortezza, nel corso dei secoli, andò incontro alle alterne vicende storicopolitiche della città ligure. In parte distrutto da Oberto d’Oria nel 1273, e dalle milizie di Ambrogio Visconti, che nel 1365 assalirono La Spezia, il complesso difensivo fu riedificato sul finire del Trecento. Infatti, l’estremo bisogno di protezione avvertito dalla popolazione che portò, nel 1371, all’unione delle podesterie di Spezia e della vicina Carpena in una sola entità demografica e territoriale, favorí non solo la ricostruzione del forte, posto lungo il percorso d’ingresso all’abitato, ma anche il potenziamento della cinta muraria, ingrandita con andamento trapezoidale per contenere l’afflusso dei nuovi residenti giunti dalle località interne. Il castello molto probabilmente conservò l’aspetto trecentesco fino alla metà del Quattrocento, quando il sistema fortificatorio si rivelò un’altra volta inadeguato. Le murature dotate di profilo a scarpa, le feritoie e un A sinistra La Spezia, castello di San Giorgio. Una delle sale del Museo archeologico allestito nella fortezza. In alto veduta della Spezia e del Golfo dei Poeti dalla terrazza del secondo livello del castello di San Giorgio. Attestata già nei primi secoli dell’Alto Medioevo, la struttura venne rinforzata nel XIII sec., per aumentarne le capacità di controllo sul territorio e le acque della città ligure.

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bastione quadrangolare fornito di archibugiere, furono alcune delle principali modifiche apportate per far fronte alla crescente diffusione delle armi da fuoco e agli orientamenti della tecnica ossidionale dell’epoca. Tra il Cinquecento e il Seicento la vecchia rocca, ormai priva di ogni valenza strategica, fu attrezzata per la difesa della zona retrostante la baia, insieme ai castelli di Porto Venere e Lerici, situati all’imbocco della rada.

Il restauro e la rinascita Oggi l’accesso al forte di San Giorgio, inglobato nel moderno tessuto cittadino, si trova in via XXVII Marzo, seminascosto tra i palazzi e le scalinate che collegano le strade e i carruggi del centro storico. L’architettura militare, restaurata fra il 1985 e il 1998, da alcuni anni è stata riaperta al pubblico ed è sede di un interessante esposizione, dedicata a Ubaldo Formentini, direttore del Museo e della Biblioteca Civica di La Spezia negli anni 1923-1958 e acuto indagatore della storia e dei costumi di Lunigiana. La raccolta è stata allestita su due livelli e segue un ordine cronologico: attraversando le dodici sale, si passa dunque dai resti fossili della preistoria ligure agli imponenti ritrovamenti archeologici provenienti dalla limitrofa colonia romana di Luni, e dalle grandiose ville d’età imperiale disseminate attorno marzo

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alla foce del Magra, al Golfo e nell’entroterra. Il percorso restituisce l’immagine dell’antica omogeneità politica e amministrativa dell’area tra l’estrema Liguria di Levante e la Toscana. Un comprensorio, che, attualmente diviso nelle due Province di La Spezia e Massa Carrara, in passato riuniva i territori della Lunigiana storica – estesa dall’insenatura della Spezia all’intera provincia spezzina –, e i corsi dei fiumi Magra e Vara.

Antenati di pietra Nell’età del Rame questa terra fu abitata da gruppi portatori di una cultura affascinante, quella delle statue-stele, arcaiche quanto misteriose lastre di pietra, divenute il pezzo forte della collezione. Resi antropomorfi tramite segni incisi o scolpiti sul lato anteriore e strettamente connessi al culto degli antenati, i grandi monoliti in arenaria erano infissi a terra, forse allineati per delimitare il territorio, tutelandolo e rendendolo sacro.

Primavera con l’archeologia Al Museo del castello di San Giorgio nella primavera del 2012 (marzo-aprile) si terrà l’XI edizione di «Archeologica». Un festival dell’archeologia in cui professori universitari, ricercatori e direttori di musei archeologici illustreranno i risultati di recenti studi su temi e popoli dell’antichità. Al termine del ciclo di incontri è prevista l’iniziativa «Archeologia e Agricoltura», con la finalità di far conoscere le tradizioni del mondo rurale e il patrimonio ambientale e naturalistico locale. A maggio, invece, il forte si trasformerà in una sorta di parco archeologico urbano per ospitare il settimo anno del Paleofestival. La manifestazione, rivolta in particolare a bambini e ragazzi, prevede la creazione di diverse postazioni interattive, dislocate soprattutto nello spazio erboso e nelle terrazze. I giovani, affiancati da antropologi, archeologi sperimentalismi e archeotecnici, potranno partecipare a dimostrazioni, lezioni interattive e laboratori programmati. Collocati su crinali, passi, pascoli e guadi in modo da favorirne la visibilità, gli oggetti devozionali, sono stati rinvenuti quasi per caso a partire dall’Ottocento in contesti insoliti e non originari, utilizzati come elementi di reimpiego in pievi, stipiti o architravi di porte, parapetti di terrazzi, vere di pozzi, oppure a fastigio di ponti e crocicchi di strade. Chiara Parente

Dove e quando

Museo del Castello di San Giorgio La Spezia, via XXVII Marzo Orario me-do, 9,30-12,30 e 14,00-17,00; lu, 9,30-12,30; chiuso lu pomeriggio, ma (escluse festività) Info tel. e fax 0187 751142; e-mail: sangiorgio@laspeziacultura.it


Ante prima

EDIO VO M E L L

oggi

’amore perfetto, l’amore ostacolato, ecco che prende forma nelle sue sembianze medievali. È quello di Romeo e Giulietta raccontato da William Shakespeare che, a partire dal 22 marzo, rivive nella cornice della rocca medievale di Caserta Vecchia. Lo spettacolo racconta le vicende veronesi e lo scontro tra gruppi locali, in questo caso le famiglie dei Montecchi e dei Capuleti, e le vicissitudini dei due amanti che finiranno con il soccombere. Troppo forti sono la violenza e gli usi che essi, con la forza dell’amore, non riescono a sradicare: insomma, è il dramma che, forse piú di ogni altro, racconta la società medievale. In questo caso, poi, l’ambientazione è di per sé scenografia e l’allestimento ricorda la scena elisabettiana, quando gli spettatori potevano partecipare alla messinscena seduti sul palco, a diretto contatto con gli attori. Questa volta, però, il pubblico sarà in piedi, per seguire uno spettacolo

itinerante: gli attori, infatti, non recitano davanti agli spettatori, ma in mezzo a loro, che diventano parte integrante della rappresentazione, una rappresentazione che si trasforma quasi in un happening, e, per questo motivo, fa dell’evento una sorta di mostra, o, meglio, di mostra-spettacolo. Chi a Shakespeare preferisce Dante, potrà assistere alla rappresentazione del Paradiso in una cornice altrettanto affascinante: il castello degli Arechi a Salerno, dal 14 marzo. La fortezza, che si erge sul colle Bonadies, dominando la città e tutto il golfo di Salerno, in una cornice panoramica mozzafiato, si presta come location ideale per l’ambientazione della III cantica della Divina Commedia. Anche qui si tratta di un lavoro la cui fruibilità rappresenta anche un valido supporto didattico per

Patrizio, che cacciò i serpenti S

an Patrizio è patrono dell’Irlanda, ma nacque in realtà in Britannia, forse nel 385. Nell’isola verde fu costretto a soggiornare per sei anni, come schiavo, al termine dei quali riuscí a fare ritorno in patria, dove fu assunto nel clero e poi consacrato vescovo. Papa Celestino I gli affidò l’evangelizzazione delle terre irlandesi, dove fece ritorno, come missionario, forse nel 432. Per conservarne le antiche tradizioni, e per un suo personale attaccamento alla religione celtica, Patrizio favorí la combinazione fra elementi cristiani e pagani, per esempio trasformando la croce celtica nel simbolo del cristianesimo irlandese. Fra le leggende a lui legate, si dice che in Irlanda non ci sarebbero piú serpenti da quando li cacciò in mare. È celebre anche la saga del pozzo di San Patrizio, dal quale si sarebbero aperte le porte del Purgatorio. La sua figura è presente poi nell’emblema nazionale irlandese, il trifoglio, col quale avrebbe spiegato il concetto cristiano della Trinità. Oggi san Patrizio viene festeggiato nella ricorrenza della morte, avvenuta il 17 marzo, intorno al 461. Le celebrazioni si svolgono in tutta l’Irlanda, da Cork a Waterford. Anche nell’Irlanda del Nord, nel lembo di territorio chiamato St Patrick Country, custode della tomba e di altri cimeli del santo, si svolge un festival in suo omaggio. Le celebrazioni piú fastose si celebrano tuttavia a Dublino, che, dal 15 al 19 marzo, si trasforma in un enorme palcoscenico per gruppi musicali e artisti di strada, che improvvisano concerti ed esibizioni. Momento clou delle feste è la grande parata del 17 marzo, che parte a mezzogiorno da Parnell Square e si sviluppa lungo Patrick Street, Dame Street, Westmoreland Street e O’Connell Street. Fra un folla di cittadini e turisti, sfilano migliaia di personaggi in costume, accompagnati da carrozze d’epoca, carri fantasiosi, grandi macchine surreali e marionette giganti. Nelle celebrazioni domina il verde, colore simbolo dell’Irlanda. Il Saint Patrick’s Day si festeggia in tutte le comunità irlandesi sparse nel mondo, soprattutto nel Nord America. Grandi parate si tengono annualmente negli USA, in particolare a New York e Boston (San Patrizio è anche il patrono della capitale del Massachusetts). T. Z.

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tutti gli studenti che studiano o si avvicinano al poema dantesco. Il pubblico, diviso in gruppi di 40 unità (come già avveniva nel precedente L’Inferno di Dante nelle grotte a Pertosa), sarà guidato da Dante in persona lungo i camminamenti del castello, attraverso i nove cieli in un’atmosfera celestiale creata dagli impianti scenografici. Al Castello Svevo di Rocca Imperiale debutta invece L’Orlando Furioso. L’evento sarà in scena da marzo a ottobre (con rappresentazioni anche al mattino per le scolaresche). Qui il pubblico è accolto da Ludovico Ariosto che narra le gesta, gli amori e le vicende piú famose e significative di Orlando, mentre il suo racconto si arricchisce dei personaggi che animano i saloni, i corridoi, i bastioni, le segrete e il fossato di questa maestosa cornice. Dieci momenti diversi della vita del protagonista raccontati attraverso dieci forme artistiche diverse: dalla rievocazione storica alla video arte, dalla performance circense all’«animazione» di dipinti e statue in un edificio. Gli spettacoli sono realizzati da Tappeto Volante, il cui sito internet, www.tappetovolante.org, fornisce ulteriori informazioni sulla programmazione.

Studiare da buffone di corte Chi, invece, voglia passare dall’altra parte e cimentarsi con la scena, dovrà recarsi a Colbordolo, in provincia di Pesaro, presso l’azienda agrituristica Locanda Montelippo, dove Stefano Corrina conduce il laboratorio ciarlatanesco di drammaturgia medievale che, dal 23 al 25 marzo (ma le iscrizioni sono aperte fino al 10 marzo), affronta l’arte di joculares o joculatores, mimi, histriones, saltatores e balatrones (acrobati e ballerini), scurrae (dicitori di facezie), bufones (comici), grallatores (trampolisti), divini (indovini), funamboli, circulatores (roteanti), fabulatori, menestrelli, trovatori e di molti altri protagonisti delle tante forme di spettacolo elaborate nel tempo. Scopo del laboratorio è la ricerca delle nostre radici giullaresche attraverso un percorso di gioco, d’improvvisazione teatrale, di conoscenza drammaturgica, di uso della voce, di acrobatica teatrale, ma anche uso del corpo come espressione e comunicazione di livelli emozionali. Pochi giorni, ma intensivi, immersi in un’arte che vede il suo sviluppo proprio nel Medioevo. Per informazioni: www.montelippo.it Laura Landolfi


Ante prima

La processione dei penitenti blu APPUNTAMENTi • Nel segno di una tradizione antica,

San Marco d’Alunzo, nel Messinese, si appresta a celebrare la Festa dei Babbaluti, di cui sono protagonisti trentatré misteriosi personaggi, che, camuffati in un abito del colore del mare, onorano un prezioso Crocifisso

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gni anno, nell’ultimo venerdí di marzo (in questo caso il 30 del mese), San Marco d’Alunzio, cittadina in provincia di Messina adagiata su un alto colle nei monti Nebrodi, è teatro di una processione in onore del Santissimo Crocifisso di Aracoeli, realizzato nel 1652 dallo scultore siciliano Scipione Li Volsi (1588-1667). Intriso di elementi

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legati alla Settimana Santa, il rito è noto anche come Festa dei Babbaluti, dal nome dei trentatré – quanti gli anni di Cristo – penitenti incappucciati, che per voto portano in processione il Crocifisso. Non si hanno notizie certe sulle origini della processione, ma l’esistenza di un culto dei venerdí di marzo nella chiesa dell’Aracoeli risalirebbe

al Quattrocento e i Babbaluti sarebbero il residuo di una sacra rappresentazione celebrata da una setta religiosa nel Medioevo.

Con tunica e cappuccio Oggi la festa inizia intorno alle undici del mattino, quando gli Aluntini devoti si recano nella chiesa dell’Aracoeli, edificata nel XII secolo dai Normanni e poi piú volte ampliata, per assistere alla Santa Messa. Chi per voto, o per grazia ricevuta, ha deciso di indossare gli abiti del Babbaluto, si dirige nella vicina S. Maria dei Poveri, dove, al riparo dalla curiosità dei fedeli, indossa un caratteristico costume di colore indaco, costituito da una tunica e un cappuccio conico. Dopo la Messa, il Santissimo Sacramento esce dalla porta laterale della chiesa dell’Aracoeli, attraversa un breve tratto della via Aluntina e rientra dall’ingresso principale. A questo punto il Crocifisso viene prelevato dalla sua cappella, condotto sul sagrato della chiesa tra la folla che cerca di toccarlo e baciarlo, infine sistemato su una portantina insieme a un quadro del XVIII secolo raffigurante l’Addolorata trafitta da sette spade. Nel frattempo i Babbaluti entrano nella Chiesa dell’Aracoeli dalla porta laterale ed escono dall’ingresso principale, sistemandosi sotto alla portantina. Parte quindi la processione, aperta marzo

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dalla Confraternita dei SS. Quaranta Martiri, seguita dal clero, dai trentatré Babbaluti con il Crocifisso, dalla banda musicale e dalla folla dei fedeli. Lungo il percorso, i penitenti in costumi indaco cadenzano la propria andatura ripetendo un’invocazione lamentosa sul suono lugubre della banda musicale.

L’ultimo atto La processione scende verso il Piano Gebbia, poi risale e raggiunge piazza Sant’Agostino, quindi transita sulla via Aluntina e rientra intorno alle 13,30 nella chiesa dell’Aracoeli, dove in serata, durante un’altra cerimonia, il Crocifisso viene posto in un imponente sepolcro allestito sull’altare maggiore. All’indomani, dopo una messa, il Crocifisso viene prelevato dal sepolcro e riposto nella cappella laterale fino all’anno successivo. Negli anni in cui la Settimana di Pasqua cade nel mese di marzo, i festeggiamenti in onore del Crocifisso di Aracoeli vengono anticipati al venerdí precedente la Domenica delle Palme. Tiziano Zaccaria

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Nelle due pagine San Marco d’Alunzo (Messina). Immagini della Festa dei Babbaluti, che si celebra ogni anno nella cittadina siciliana per rendere grazie a un grande Crocifisso scolpito di epoca seicentesca. Legata ai riti della Settimana Santa, la festa, con ogni probabilità, affonda le sue radici in una rievocazione sacra di epoca medievale.


Ante prima

Soldati per un giorno I

l 24 e 25 marzo torna a Piacenza l’appuntamento con «Armi & Bagagli-Mercato Internazionale della Rievocazione Storica». La manifestazione, giunta alla sua ottava edizione, è la piú grande fiera/mercato del settore in Italia ed è un evento imperdibile per operatori e appassionati della rievocazione storica. Come per le edizioni precedenti, «Armi & Bagagli» si svolge all’interno del padiglione principale del centro fieristico di Piacenza Expo e si articola in piú momenti paralleli.

Dai legionari romani ai fanti della Grande Guerra Nel settore dedicato all’artigianato storico per la rievocazione saranno presenti oltre 150 artigiani e fornitori, provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria. Gli appassionati di rievocazione e i curiosi che visitano la fiera potranno trovare repliche di armi antiche e moderne, armature da legionario romano e da homo d’arme medievale, calzature storiche, dalle calighe calzate dai senatori e dai pretoriani fino allo stivale seicentesco o alla calzatura raffinata del Settecento veneziano, uniformi ed equipaggiamenti identici alle originali dell’epoca napoleonica, del Risorgimento italiano o delle due Guerre Mondiali. E ancora abiti, copricapi, cinture, scarselle, pelli, stoffe, fibbie, panche e tavoli in legno, coppe in vetro, vasi in ceramica graffita, lanterne, fino a complementi di arredo e tende con le quali allestire accampamenti storici dal I al XX secolo!

informazione pubblicitaria

Giochi per tutti, anche per i piú piccoli E non mancheranno gruppi storici e di spettacolo, che animeranno i padiglioni dei due giorni di fiera con duelli ed esibizioni di falconeria per far rivivere la cosiddetta «storia viva». Giullari, giocolieri, musicisti e danzatori faranno assaporare la magia della storia esibendosi su un palco in legno tipico della tradizione dove sarà possibile assistere anche alle tradizionali commedie. Anche per l’edizione 2012, inoltre, sarà presente una sezione a cura della Federazione Italiana Giochi Storici, che riunisce città in cui si svolgono annualmente palii, feste e giochi legati alle piú antiche tradizioni del nostro Paese. E, per avvicinare anche i piú giovani alle vecchie tradizioni e far vivere loro la storia e la sua rievocazione saranno allestite due aree: una con laboratori manuali e l’altra con giochi della tradizione medievale. La Sala convegni, nel pomeriggio di domenica, ospiterà

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Nelle foto alcuni esempi delle repliche e ricostruzioni presentate dagli espositori che partecipano ad «Armi & Bagagli», la fiera mercato di Piacenza, giunta quest’anno alla sua VIII edizione.

l’assemblea nazionale della sezione italiana del CERS (Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche), organizzatore dell’evento insieme alla Estrela srl. Inoltre nell’arco del week end vi saranno altri momenti di incontro e di studio. «Armi & Bagagli» è aperta al pubblico con i seguenti orari: sabato, 10,00-19,00, e domenica, 10,00-18,00. Info: info@armiebagagli.org; tel. 345 7583298 opppure 333 5856448; www. armiebagagli.org marzo

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Il fuoco dell’Est mostre • Vie della Seta, la Biennale Internazionale di

Cultura in corso a Roma, accende i riflettori sulla storia e la cultura dell’Azerbaigian

F

ino al prossimo 15 aprile, il Museo della Civiltà Romana, nel quartiere dell’EUR, a Roma, ospita una importante selezione di oggetti rappresentativi della storia dell’Azerbaigian. Una collezione composita, che fotografa la varietà dei legami culturali, storici ed economici di un territorio che, fin dall’antichità, è stato crocevia di culture e flussi migratori. La mostra è inserita nella Biennale Internazionale di Cultura dedicata alla Via della Seta, perché, anche per il popolo azerbaigiano, l’antico itinerario fu il riflesso e il motore dei progressi

registrati nel campo della cultura, del commercio e della scienza. Nel padiglione realizzato all’interno del museo romano si possono ammirare tessuti, manufatti in rame, gioielli, strumenti musicali e i celebri kyalagai, eleganti foulard di seta. Tra gli oggetti esposti ricordiamo anche una pietra dipinta con figure umane risalente al 3000 a.C. e alcuni preziosissimi tappeti artigianali risalenti al XIX secolo. Le città dell’Azerbaigian, del resto, erano note per essere importanti centri culturali, scientifici e formativi. Qui nacquero e si svilupparono tutti i

mestieri a noi conosciuti: la tessitura dei tappeti e della seta, il ricamo artistico, la lavorazione dei metalli e l’arte dei gioielli, l’estrazione del sale e la coltivazione del cotone, la preparazione delle tinture naturali e la fabbricazione delle armi, la selleria e l’edilizia. Dall’Azerbaigian uscivano petrolio e tappeti, seta grezza e tessuta, cotone e armi, frutta secca e sale, pietre preziose e gioielli, allume, zafferano, tinture naturali, ceramica policroma e utensili di legno. (red)


agenda del del mese mese

Mostre Roma

a cura di Stefano Mammini

recentemente attribuito a Caravaggio e oggetto di un vivace dibattito.

Roma al tempo di Caravaggio. 1600-1630 U Palazzo Venezia fino al 18 marzo (prorogata)

info e prenotazioni tel. 06 32810; www. romaaltempodicaravaggio.it

L’esposizione ricostruisce un momento cruciale della pittura italiana, segnato dal confronto tra due giganti della pittura italiana: il bolognese Annibale Carracci, capo indiscusso della corrente classicista, e il lombardo Caravaggio, creatore di una rivoluzionaria forma di rappresentazione

New York

della realtà. Il rapporto tra i due artisti è reso evidente all’inizio del percorso dall’accostamento fra le rispettive versioni della Madonna di Loreto realizzate negli stessi anni. Le sezioni successive presentano sia opere di destinazione pubblica (pale d’altare o dipinti legati ai luoghi di culto), sia dipinti di destinazione privata realizzati su commissione dei maggiori mecenati dell’epoca. Per l’occasione, è eccezionalmente in mostra, per la prima volta in Italia, il Sant’Agostino,

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Il ritratto rinascimentale da Donatello a Bellini U The Metropolitan Museum of Art fino al 18 marzo

È stato detto che il Rinascimento è l’epoca che segna la riscoperta dell’individuo, un fenomeno che, in Italia, è sottolineato dalla prima fioritura dell’arte del ritratto. Questo genere di rappresentazione acquisisce una nuova importanza, sia che debba trasmettere le memorie di famiglia alle generazioni future, sia che celebri principi o condottieri, esalti la bellezza femminile o divenga

strumento con cui rinsaldare un’amicizia. Tutti questi aspetti vengono documentati dall’esposizione al Metropolitan Museum, che riunisce 160 opere – tra cui dipinti di Donatello, Sandro Botticelli, Ghirlandaio, Andrea Mantegna –, manoscritti miniati, sculture e medaglie, che testimoniano la nuova moda del ritratto nell’Italia del XV secolo. info www.metmuseum.org Firenze In Christo/Bo Xructe U Battistero di Firenze fino al 19 marzo

Il Battistero di Firenze è sede dell’ostensione di preziose icone della storia russa, normalmente custodite nella galleria Tretyakov di Mosca, mai tornate in una chiesa dopo la loro musealizzazione. Tre saranno le opere visibili: l’Odighitria di

Pskov (1290-1310), l’Ascensione della Cattedrale di Vladimir attribuita a Rublev (1408), la Crocifissione del Signore della chiesa della Trinità del Monastero di Pavel di Obnora (1500 circa). In contemporanea la Galleria Tretyakov riceve, esponendole per la prima volta in Russia, due grandi opere di Giotto da Bondone e della sua bottega, provenienti dall’Opera del Duomo di Firenze: la Maestà di San Giorgio alla Costa e il polittico di S. Reparata. info tel. 346 0927230; eventi@fscire.it londra Hajj: viaggio nel cuore dell’Islam U The British Museum fino al 15 aprile

L’hajj, termine che indica il pellegrinaggio alla Mecca, è uno dei cinque pilastri dell’Islam: la mostra ne esplora il significato e l’importanza per i musulmani e documenta il modo in cui questo viaggio di fede si è evoluto nel corso dei secoli. Per farlo, è stata riunita una selezione ricchissima, che comprende oggetti e opere d’arte realizzati tra l’età antica e

quella contemporanea, a testimonianza di come l’hajj abbia conservato nel tempo un valore fondamentale per l’intero mondo islamico. Il percorso espositivo si articola secondo tre filoni principali: il viaggio dei pellegrini, con un accento particolare sui piú importanti itinerari utilizzati (dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa e

dal Medio Oriente); la realtà odierna dell’hajj, con la descrizione delle cerimonie che a esso sono associate e del significato che riveste per i pellegrini; infine, La Mecca, meta finale del viaggio, di cui viene ripercorsa la storia, documentandone l’importanza nell’universo dei valori e dei luoghi dell’Islam. info www. britishmuseum.org New York Il gioco dei re. Gli scacchi medievali in avorio dall’Isola di Lewis U The Metropolitan Museum of Art fino al 22 aprile

Trenta pezzi appartenenti agli Scacchi Lewis, un set ritrovato nel 1831 sull’omonima isola marzo

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delle Ebridi (Scozia), lasciano per la prima volta il British Museum e sono a New York. Si tratta di un insieme eccezionale, composto da pezzi ricavati da zanne di tricheco e fanoni di balena, la cui realizzazione viene attribuita a una bottega norvegese. Ogni pezzo del set è una vera e propria scultura in miniatura, con caratteri

specifici e ben definiti: i re siedono con la spada poggiata sulle gambe, ma alcuni hanno lunghi capelli e barbe, mentre altri sono glabri. Ciascun cavaliere indossa un copricapo di tipo diverso, cosí come differenti sono gli scudi imbracciati e i cavalli montati. E, fra le torri, raffigurate come soldati a piedi, alcuni studiosi hanno perfino identificato il possibile ritratto dei berserkir, i leggendari guerrieri di Odino della mitologia nordica. info www.metmuseum.org roma Guercino, 1591-1666. Capolavori da Cento e da Roma U Palazzo Barberini fino al 29 aprile 2012

Francesco Barbieri, detto il Guercino, è stato scelto per inaugurare i nuovi spazi

espositivi dedicati alle mostre temporanee situati al piano terra di Palazzo Barberini. Dell’artista, uno dei maggiori protagonisti del Seicento italiano, nato e vissuto nella città di Cento e attivo a Roma tra il 1621 e il 1623, sono state riunite opere conservate nei musei e nelle collezioni di Roma e di Cento, che offrono la possibilità di gettare uno sguardo d’insieme sull’opera del maestro emiliano: trentasei capolavori che coprono

tutto l’arco cronologico del suo lungo percorso artistico facendone emergere l’esuberante talento. info tel. 06 32810; www.mostraguercino.it New York

dei primi emakimono (letteralmente «rotolo di pitture»), nel corso del periodo Heian (794-1185). È questo il tema dell’esposizione allestita al Metropolitan Museum, che riunisce una sessantina di opere realizzate tra il XII e il XIX secolo. Particolare attenzione è stata dedicata alle attestazioni riferibili ai periodi Nanbokucho e Muromachi (1336– 1573), nel corso dei quali si registra la massima fioritura di questa arte. info www.metmuseum.org

L’arte giapponese della narrazione U The Metropolitan Museum of Art fino al 6 maggio

Il Giappone vanta una lunga tradizione nel campo della letteratura illustrata, che affonda le sue radici nella produzione

mostre • Lux in Arcana. L’Archivio Segreto Vaticano si rivela U Roma – Musei Capitolini

fino al 9 settembre info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.luxinarcana.org, www.museicapitolini.org, www.060608.it

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anno lasciato le sale, inaccessibili ai piú, dell’Archivio Segreto Vaticano e ora si offrono all’ammirazione del pubblico: sono 100 originali e preziosissimi documenti, tra i quali figurano, solo per citarne alcuni, la bolla di deposizione di Federico II; gli atti del processo a Galileo Galilei; la bolla di scomunica di Martin Lutero; il Privilegium Ottonianum; la bolla Inter cetera di Alessandro VI sulla scoperta del Nuovo Mondo; la lettera dei cardinali a Pietro del Morrone, eletto papa con il nome di Celestino V; nonché due famosi documenti sui Templari: il processo contro l’Ordine in Francia del 1309-11 e la pergamena di Chinon del 1308. I documenti sono accompagnati da approfondimenti multimediali – proiezioni, grafica dinamica e touch screen – per aiutare il visitatore a individuare il periodo storico corrispondente, approfondire le storie dei personaggi e creare collegamenti tra diversi piani di lettura. Inoltre, attraverso i piú conosciuti social network è possibile seguire le attività collaterali alla mostra e sul sito www.luxinarcana.org, settimana dopo settimana, si possono scoprire curiosità e approfondimenti sui singoli documenti. Un evento di portata davvero storica che, per la prima volta, porta fuori dai confini della Città del Vaticano codici e pergamene, filze, registri e manoscritti, che coprono un arco temporale compreso tra l’VIII e il XX secolo, scelti fra i tesori che l’Archivio Segreto da secoli conserva e protegge.

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agenda del del mese mese Treviso

Pau

Manciú. L’ultimo imperatore U Casa dei Carraresi fino al 13 maggio

Gaston Fébus (1331-1391) Prince Soleil. Armas, amors e cassa U Musée national du

Manciú, l’ultima dinastia che ha governato sul Celeste Impero dal 1644 al 1911, è la protagonista della quarta e ultima mostra del progetto La Via della Seta e la Civiltà Cinese: le armi e le uniformi degli imperatori Kangxi e Qianlong, le preziose suppellettili delle regge dei Manciú, le collezioni dell’imperatrice Cixi sono esposte insieme ai reperti che testimoniano il crollo dell’impero e l’avvento della repubblica. Per la prima volta al mondo gli oggetti personali dell’ultimo imperatore

della Cina, Pu Yi, protagonista del film di Bernardo Bertolucci, escono dal palazzo di Changchun, già capitale dell’impero fantoccio del Manchukuò, per essere esposti alla Casa dei Carraresi. Una parte della mostra è dedicata all’epopea umana dell’Ultimo Imperatore con documenti storici, fotografie. info tel. 0422 424390; www.laviadellaseta.info

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château de Pau

fino al 17 giugno

dal Livre de chasse, un manuale sull’arte venatoria e sui cani, sul quale è imperniato il nuovo percorso espositivo di Pau. info www. musee-chateau-pau.fr

(dal 17 marzo)

La mostra di Pau è la seconda parte del progetto realizzato d’intesa con il Museo di Cluny e la Biblioteca nazionale di Francia

per celebrare una delle figure di maggior spicco del Medioevo francese ed europeo: Gastone III, conte di Foix e signore di Béarn, vissuto dal 1331 al 1391 (vedi «Medioevo» n. 180, gennaio 2012). L’esposizione presenta una ricca selezione di manoscritti, oggetti d’arte, sculture, stoffe e documenti d’archivio che ben testimoniano il lusso e la raffinatezza della corte principesca di Gastone, che giunse ad autoproclamarsi Febus, cioè dio del Sole. Personaggio dai multiformi interessi, il nobile francese fu grande conoscitore d’armi, d’amori e di caccia (come scrisse il suo fedele trovatore Peyre de Rius, «Armas, amors e cassa», da cui il titolo della mostra) e il suo nome è stato consegnato alla posterità proprio

venezia Avere una bella cera. Le figure in cera a Venezia e in Italia U Palazzo Fortuny fino al 26 giugno (dal 10 marzo)

L’esposizione, la prima mai realizzata al mondo sul tema della ceroplastica, analizza un campo poco indagato della storia dell’arte: quello delle figure in cera a grandezza naturale. Il progetto della mostra nasce da due felici coincidenze: l’esistenza nelle collezioni pubbliche e negli edifici di culto veneziani di una serie di ritratti in cera a grandezza naturale e il centenario di Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs (Storia del Ritratto in cera) il primo saggio dedicato alla storia del ritratto in cera del celebre storico dell’arte viennese Julius von

Schlosser, del quale è stata pubblicata di recente un’ineguagliata edizione italiana curata da Andrea Daninos, corredata da un ricchissimo apparato di note critiche (vedi «Medioevo» n. 178, novembre 2011). Frutto di un lavoro di ricerca durato piú di tre anni, la mostra riunisce per la prima volta la quasi totalità delle sculture esistenti in Italia, opere per la maggior parte inedite o mai esposte. info tel. 041.5200995; e-mail: info@fmcvenezia.it Mantova Vincenzo Gonzaga. Il fasto del potere U Museo Diocesano fino al 10 giugno

Un’ottantina di opere, tra gioielli, dipinti, armature, incisioni, tessuti, perlopiú inediti, delineano la figura di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato dal 1587 al 1612, la cui corte si misurava per magnificenza e raffinatezza con le maggiori d’Europa. L’esposizione, che ha una preziosa appendice nella reggia di Palazzo Ducale – di cui, per l’occasione, vengono aperti tutti gli ambienti dell’appartamento ducale di Vincenzo –, offre la percezione di un’età incomparabile, riassunta in un uomo che segnò per l’Europa intera l’apice della magnificenza. I suoi fasti sono evocati da capolavori di grande qualità, come i ritratti, ma anche da tele che ricordano l’apporto di Vincenzo al museo di

famiglia, la celebre «celeste Galeria». Molto ricca è anche la sezione documentaria, con libri, disegni, manoscritti e stampe dell’epoca che riportano alla memoria le feste, le musiche e i testi teatrali composti per lui, le mappe e i volumi sulle glorie del casato, le figure degli illustri personaggi che frequentavano la corte. Nulla, però, dà la percezione del fasto di cui si circondò il duca Vincenzo meglio dei capolavori di oreficeria da lui acquisiti. E in mostra sono raccolti tutti quelli superstiti, salvatisi da dispersioni e saccheggi. info tel. 0376.320602; www.vincenzogonzaga.it Montefiore Conca (RN) SOTTO LE TAVOLE DEI MALATESTA. Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca U Rocca Malatestiana fino al 24 giugno

Pezzi rari o comuni, oggetti destinati a occasioni speciali o alla vita di tutti i giorni, richiami alla cultura antica o imitazioni di temi orientali. C’è tutto, armonia, equilibrio e colore, nelle decine di ceramiche in mostra a Montefiore Conca, piatti, vasellame e boccali forgiati dai maestri dell’arte del fuoco nel periodo che va dalla metà del Trecento al Cinquecento. Ma la mostra alla Rocca Malatestiana non è solo questo: gli scavi archeologici condotti marzo

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dal 2006 al 2008 hanno restituito anche utensili, spille, bicchieri in vetro e molte ossa di animali, probabilmente resti dei pasti. E poi monete, oggetti per il cucito o la cura del corpo e un magnifico sigillo in bronzo del Trecento perfettamente conservato. I materiali recuperati raccontano tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta prima, e dei Montefeltro poi (dagli inizi del XIV alla metà del XVI secolo), consentendo di ricostruire uno spaccato di vita fatto di attività artigiane e scambi culturali, abitudini alimentari e credenze religiose, prassi mediche e canoni estetici, fede e bellezza. info tel. 0541 980035 oppure 980179; www.archeobologna. beniculturali.it strasburgo Nikolaus de Leyde, scultore del XV secolo. Uno sguardo moderno U Musée de l’Œuvre Notre-Dame fino all’8 luglio (dal 30 marzo)

Considerato fra i maggiori artisti della

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fine del Quattrocento, lo scultore Nikolaus Gerhaert, detto da Leida, si fece portatore di innovazioni decisive sia sul piano formale che iconografico. La modernità delle sue opere emerge soprattutto grazie alla capacità di cogliere le diverse fisionomie dei soggetti, che, quand’era ancora vivente, gli valsero un successo straordinario. Fu attivo soprattutto nell’area germanica esercitando una forte influenza su molti scultori celebri, tra cui Veit Stoss, Michel Erhart e Tilman Riemenschneider. Quella di Strasburgo, è la prima esposizione monografica a lui dedicata e presenta una parte dell’opera in legno e in pietra di Nikolaus, fra cui la serie dei quattro busti maschili in gres che comprende una celebre versione, in chiave malinconica, dell’Uomo appoggiato sul gomito. Quest’ultimo, fu uno

dei soggetti prediletti dall’artista, che lo caricò di tutta la sua capacità innovativa, attribuendogli una dimensione psicologica raramente raggiunta dai suoi numerosi imitatori. info www.musees. strasbourg.eu Parigi Cima da Conegliano. Maestro del Rinascimento italiano U Musée du Luxembourg fino al 15 luglio

Cima da Conegliano (al secolo Giambattista Cima) è stato uno dei principali esponenti della pittura veneta tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, la cui carriera viene ora ripercorsa, con una selezione composta da oltre una trentina dei suoi dipinti, grazie ai quali è possibile apprezzare l’evoluzione del suo stile. Il successo di Cima derivò, innanzitutto, dalla perfezione della sua arte, che si basava sull’accuratezza del disegno, sulla padronanza della pittura a olio (che, all’epoca, era una tecnica

relativamente nuova) e sull’intensità cromatica della sua tavolozza. Il virtuosismo di cui era capace gli permise di realizzare composizioni caratterizzate da una precisione eccezionale nella rappresentazione dei dettagli, come la sfaccettatura di una pietra preziosa o gli intrecci di colori di un arazzo. Ma, soprattutto, l’artista seppe imporsi per la resa dei volti dei suoi personaggi, sempre caratterizzati da sguardi intensissimi, spesso malinconici, che conferí alle sue tele una profonda umanità. info www. museeduluxembourg.fr

parigi Bellezza animale U Grand Palais fino al 16 luglio

Avvalendosi di opere di grande pregio, l’esposizione allestita al Grand Palais esplora i rapporti intrattenuti dagli artisti, tra i quali vi sono molti dei maestri della pittura e della scultura di ogni tempo, con gli animali: vengono documentati il legame fra arte e scienza, la sete di conoscenza del mondo animale e il fascino che quest’ultimo continua ancora oggi a esercitare. Sfilano dipinti, disegni, statue, fotografie… in una selezione di oltre un centinaio di capolavori dell’arte occidentale, dall’età rinascimentale a quella moderna, accomunate dal rappresentare unicamente gli animali, senza alcuna presenza umana. info www.rmngp.fr

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grandi santi chiara d’assisi

Indagine su Chiara di Chiara Mercuri

Quale fu il ruolo svolto dalla Santa nel contesto sociale e religioso della Assisi del Duecento? Perché la sua memoria sembra, in qualche misura, «tradita» dalla storiografia tradizionale? E quale fu la reale entità del rapporto con San Francesco e la sua comunità?

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hiara nacque ad Assisi nel 1194. Era piú giovane di Francesco di una dozzina di anni e le loro famiglie appartenevano a campi avversi. Quella di Chiara era schierata con il partito dei nobili della città, i maiores, a capo dei quali vi era suo zio Monaldo. Francesco, invece, militava tra i populares o minores, la fazione che rappresentava il ceto mercantile emergente. I maiores detennero il potere ad Assisi tra la fine del XII secolo e il 1203, anno in cui furono esiliati a Perugia. Chiara dovette seguire la famiglia in esilio e tale esperienza segnò la sua fanciullezza proprio come la detenzione in una prigione perugina segnò quella di Francesco. Almeno fino al XII secolo, le fanciulle, appena uscite dalla pubertà, si trovavano di fronte a un bivio: divenire mogli, oppure abbracciare la vita di clausura, secondo la regola benedettina. La vita monastica era perlopiú riservata alle nubili o alle vedove dei ceti elevati. Entrare in monastero significava, infatti, portare una dote cospicua, che solo le famiglie agiate potevano permettersi. Dalla consistenza della dote dipendeva la posizione che si sarebbe assunta all’interno del monastero stesso. Se Chiara d’Assisi, che come ab-

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biamo visto apparteneva ai maiores della città, avesse abbracciato la vita monastica, la famiglia avrebbe vissuto questa scelta come uno dei modi per aumentare il proprio prestigio sociale. All’età di diciotto anni, invece, Chiara fece una scelta assai diversa, per certi versi rivoluzionaria. Distribuí i propri beni ai poveri e si uní ai frati di Francesco, ai quali Innocenzo III aveva appena riconosciuto la «forma di vita». I frati di Francesco non erano quindi ancora divenuti un vero ordine, ma avevano avuto il permesso da parte della Curia di vivere in comunità seguendo il proposito di povertà assoluta. Una formula che aveva permesso loro una scelta radicale, senza che si potesse accusarli di essere eterodossi, o peggio, eretici.

Fuga nella notte

Nella notte della Domenica delle Palme del 1211, secondo quanto riportato dalla piú antica biografia della Santa scritta da Tommaso da Celano, Chiara fuggí di casa, d’accordo con Francesco, e raggiunse i frati alla Porziuncola. Il biografo scrive che Francesco stesso le diede la tonsura (il rito di consacrazione

Il saluto di Chiara e delle sue compagne a Francesco, particolare di un affresco di Giotto dal ciclo delle Storie di San Francesco. 1297-1300. Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore.

che precedeva il conferimento degli ordini sacri, n.d.r.) e la condusse poi nel monastero benedettino di S. Paolo delle Abbadesse a Bastia Umbra. Non appare verosimile , però, che nel buio delle notti medievali, Chiara fosse scortata per oltre quattro chilometri fino a Bastia dai frati che non avevano mezzi per spostarsi. È piú plausibile immaginare, invece, che abbia trascorso alcuni giorni presso la piccola comunità della Porziuncola e che solo in un secondo tempo, cedendo alle pressioni dello zio Monaldo e dei concittadini, sia stata condotta presso le Benedettine di Bastia. Il fatto che in un primo momento Francesco abbia accolto Chiara nella sua comunità, fianco a fianco con i compagni, sembra contrastare con l’idea suggerita piú volte nelle fonti, e seguita anche da parte della storiografia piú recente, secondo la quale Francesco avrebbe subíto la decisione di Chiara piú che condividerla. L’aver dato albergo alla marzo

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grandi santi chiara d’assisi 1206 Conversione di Francesco. Preghiera davanti al crocifisso di S. Damiano. Egli ripara la chiesa e profetizza la venuta delle «Povere Dame»

Cronologia

1204 Francesco combatte contro Perugia e viene fatto prigioniero

notizie su Santa chiara e san francesco

1182 circa Nascita di Francesco d’Assisi

Fatti politici

1174 Federico Barbarossa conquista Assisi

1183 Pace di Costanza tra i Comuni e Federico Barbarossa

1194 Nascita di Chiara

1190 Morte di Federico Barbarossa 1189 III Crociata 1187 Saladino conquista Gerusalemme

1203-1205 La famiglia di Chiara con le altre famiglie nobili di Assisi va in esilio a Perugia 1199 Morte di Riccardo Cuor di Leone 1198 Nascita del Comune di Assisi 1194 Discesa in Italia di Enrico VI, figlio di Barbarossa 1202 IV Crociata

Fu lo stesso Francesco a condurre Chiara a S. Damiano, la piccola chiesa fuori di Assisi che aveva riparato con le sue nude mani Santa Chiara con la croce in mano, attorniata da otto scene della sua vita. Tavola attribuita a un artista tuttora ignoto e denominato Maestro di Santa Chiara. 1283. Assisi, basilica di S. Chiara. I riquadri ai lati della santa raffigurano dal basso a sinistra: il vescovo Guido che porge a Chiara un ramoscello di ulivo; Chiara accolta alla Porziuncola dai frati; la vestizione; il padre che vuole costringere la figlia ad abbandonare l’intenzione di prendere i voti; la sorella Agnese viene trattenuta dal seguire Chiara; il miracolo del segno della Croce comparso sul pane davanti al papa; Chiara sul letto di morte; i funerali della Santa in presenza del papa, Innocenzo IV.

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1212 Chiara fugge da casa verso la Porziuncola. Francesco l’accoglie e le taglia i capelli. Breve periodo presso le Benedettine e, in seguito, a S. Angelo in Panzo. Successiva sistemazione definitiva a S. Damiano 1210 Francesco predica in Assisi. Chiara assiste alle prediche di Francesco 1209 Francesco riceve i primi compagni. Il Papa approva la sua Regola

1223 Papa Onorio III approva la Regola di Francesco (Regola Bollata) 1221 Il Capitolo dei Frati approva la Regola non Bollata (di Francesco) 1219-1220 Francesco in Terra Santa 1217 Grande raduno di 5000 frati intorno a Francesco: è il «Capitolo delle Stuoie» (continua alla pagina successiva)

1212 Federico II incoronato re di Germania 1209 Crociata contro gli Albigesi

1217 V Crociata 1216 Morte di Innocenzo III 1215 Concilio Lateranense IV. Nascita dei tribunali d’inquisizione 1220 Federico II incoronato imperatore da Onorio III

ragazza in quelle prime notti dalla sua fuga, consapevole di suscitare la reazione allarmata dei parenti e i timori dello stesso vescovo, mostra una volontà precisa di Francesco, che non può certo essere attribuita a superficialità. A conferma di ciò, quando in un momento successivo Francesco ebbe constatato la difficoltà di mantenere Chiara sotto lo stesso tetto con i frati della nascente comunità, si risolse di condurla in monastero. Tuttavia, la vicenda non si concluse con tale spostamento.

Un luogo simbolico

Poco tempo dopo, Chiara chiese di essere trasferita nel monastero di S. Angelo in Panzo, dove risiedeva una comunità di penitenti. Qui Chiara venne raggiunta dalla sorella Caterina che assunse – nell’Ordine – il nome di Agnese. A nulla valsero le suppliche e le minacce dei parenti, in primo luogo dello zio Monaldo. Insoddisfatta anche di questa seconda sistemazione, Chiara si spostò nuovamente, ottenendo questa volta un trasferimento definitivo. Francesco la condusse a S. Damiano, la piccola chiesa fuori le mura di

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Assisi che egli stesso aveva iniziato a riparare con le sue nude mani all’inizio della sua conversione spirituale. Un luogo emblematico del francescanesimo delle origini, la cui cessione a Chiara non può essere considerata casuale. Il passaggio di S. Damiano nelle mani di Chiara accrebbe ulteriormente la sua fama di luogo-simbolo del francescanesimo della prima ora, e di roccaforte della difesa della povertà raccomandata dal fondatore nel Testamento. Quando l’unità dell’Ordine si incrinerà, i compagni umbri si stringeranno attorno a Chiara in difesa del lascito spirituale del Maestro. Ubertino da Casale, uno dei capi dello spiritualismo francescano, testimonia che a S. Damiano vennero custoditi anche gli scritti clandestini dei compagni di Francesco al tempo della grande censura (vedi «Medioevo» n. 177, ottobre 2011). L’insediamento di Chiara a S. Damiano evidenzia anche la volontà della Santa di rimanere parte integrante del movimento francescano, rifiutando l’esperienza monastica tradizionale che avrebbe potuto vivere a S. Paolo delle Abbadesse. Il

Santa Chiara ascolta la voce di Cristo; alle sue spalle è raffigurato San Francesco che mostra le stimmate. Pala d’altare di scuola tedesca. 1360-1370 circa. Norimberga, Museo Nazionale Germanico.

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grandi santi chiara d’assisi notizie su Santa chiara e san francesco

1224 Francesco riceve le Stimmate sul Monte della Verna 1225 Francesco, malato, compone il Cantico delle Creature 1226 Il 3 ottobre muore Francesco 1227 Il papa conferma alle Sorelle di S. Damiano l’assistenza dei Frati 1228 Francesco è proclamato santo da papa Gregorio IX, che, nello stesso anno, concede a Chiara il «privilegio di povertà»

Fatti politici

1227 Morte di papa Onorio III

1240 I Saraceni assalgono S. Damiano: Chiara intercede per la sua comunità

1233 Inizio delle ostilità tra Lega lombarda e Federico II

Il crocifisso parlante Nel 1206, secondo la tradizione, nel santuario di S. Damiano (in alto, il chiostro), alle porte di Assisi, San Francesco sentí il crocifisso della chiesa parlare e chiedergli di riparare l’edificio che versava in cattive condizioni. È al Santo che si fa risalire, infatti, la prima ristrutturazione del monastero (nella pagina accanto, l’esterno), che, nel 1212, accolse Santa Chiara e le sue prime compagne, che vi avrebbero fondato l’Ordine delle Clarisse. Francesco vi soggiornò piú volte, e

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qui compose, negli ultimi anni della sua vita, il Cantico delle Creature. Chiara visse in questo luogo fino alla sua morte, avvenuta nel dormitorio, l’11 agosto del 1253. Sopra l’attuale altare è appesa una copia del crocifisso che parlò a Francesco, mentre l’originale è conservato nella basilica di S. Chiara. Il monastero è visitabile tutti i giorni, con orario 10,00-12,00 e 14,00-16,30; info tel. 075 812273; www.santuariosandamiano.org

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1241 Il 22 giugno, per la preghiera delle Sorelle, la città di Assisi è liberata dall’assedio delle armate imperiali

1247 Papa Innocenzo IV scrive una Regola per le Damianite associandole all’Ordine Francescano

1253 Chiara scrive una Forma di vita che Papa Innocenzo IV approva il 9 agosto. Due giorni dopo, l’11 agosto, Chiara muore, rendendo grazie a Dio con queste parole: «Tu, Signore che mi hai creato, sii benedetto» 1255 Chiara è proclamata santa da papa Alessandro IV

1250 Morte di Federico II

stessa formula di vita per le donne che entravano nei loro Ordini. E, del resto, lo stesso biografo Tommaso da Celano, nei capitoli XII e XIII della sua Leggenda, afferma che nei primi anni, Chiara e le sorores mendicavano per la città e nei dintorni di Assisi.

Al servizio dei derelitti

fatto che Francesco non si opponga a tale decisione, ma, anzi, la agevoli con la cessione di un luogo per lui simbolico, mostra che egli non pensava affatto, come in seguito verrà sostenuto, di liberarsi del problema di Chiara e delle consorelle.

«Povere sorelle recluse»

Con il trascorrere degli anni, la piccola comunità femminile si accrebbe, anche grazie alla propaganda dei frati. Entrarono a S. Damiano anche un’altra sorella e la madre di Chiara. Il successo dell’Ordine femminile – il secondo Ordine – anticipò addirittura quello dell’Ordine maschile, tanto che, mentre Francesco stava ancora sperimentando la forma di vita da dare ai compagni, il secondo Ordine si formalizzava già nel 1219 con le «costituzioni

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ugoliniane», che ufficializzarono la nascita dell’Ordine di Chiara, assoggettandolo però alla clausura. Da allora, infatti, le «dame di San Damiano» iniziano a essere chiamate nelle fonti e nei documenti «Povere sorelle recluse». L’approvazione però di una vera e propria regola, che Chiara stessa scriverà di suo pugno negli ultimi anni di vita, si ebbe solo il 9 agosto del 1253, a soli due giorni dalla morte della Santa, la quale lottò sempre contro i vari tentativi di stravolgimento del suo proposito di vita. È stato notato che San Domenico e San Francesco, entrambi fautori di una visione dell’ideale monastico che alla permanenza stabile in uno stesso luogo preferiva l’itineranza continua al servizio dei bisognosi, dovettero ipotizzare una

A differenza delle monache benedettine, egli ci mostra le Clarisse impegnate a lavorare con le proprie mani, assistere i lebbrosi, predicare alle consorelle il Vangelo. Questo modello di vita religiosa si avvicinava a quello delle beghine, donne che all’epoca faticavano a ottenere il permesso a una vita comune al servizio dei derelitti (vedi «Medioevo» n. 153, ottobre 2009). Al di fuori della clausura monastica, infatti, non si prevedeva ancora alcuno spazio per le donne, le quali, nell’itineranza, incontravano spesso pericoli reali, oltre ad alimentare paure e pregiudizi che da sempre pesavano sulla condizione femminile. Si potrebbe concludere che, con l’imposizione della clausura alle «povere dame di S. Damiano», il movimento clariano abbia finito per rientrare nel filone del monachesimo tradizionale, ma non è cosí. Infatti, quando,nel 1228, Gregorio IX fece pressioni su Chiara affinché addivenisse a un’interpretazione piú attenuata della povertà, accettando beni e rendite per il sostentamento delle suore, l’opposizione di Chiara fu netta e risoluta. Ciò non solo sarebbe stato contrario a quanto prescritto

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Ipotesi su una coppia

Tra pregiudizio e malinteso La coppia «Francesco-Chiara» ha da sempre creato grandi problemi di interpretazione, in quanto ripropone il problema mai risolto del rapporto tra comunità religiose femminili e maschili. Dopo la morte di Chiara, la sua figura e, soprattutto, il ruolo di primo piano che ella rivestí nella fase iniziale del movimento francescano furono volutamente offuscati nelle pagine della storiografia francescana, che si trovò a gestire con imbarazzo e fastidio il peso delle comunità femminili da rimettere nelle mani delle autorità diocesane. Nel corso del Novecento la coppia «Chiara–Francesco» fu recuperata

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dalla letteratura di edificazione, che ne fece un’icona stucchevole e melensa. Forse per reagire a tale immagine, la storiografia recente ha mostrato attenzione per gli aspetti piú critici del loro rapporto. Dopo lunghe ricerche compiute sugli scritti dei due santi, il medievista francese Jacques Dalarun è arrivato alla conclusione che, mentre Francesco rappresenta il riferimento spirituale ed esistenziale di Chiara, quest’ultima, al contrario, non ebbe alcuna rilevanza per Francesco. Una circostanza dimostrata, a suo avviso, dalla mancanza di riferimenti diretti a Chiara

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da Francesco nel Testamento, ma avrebbe significato la rinuncia al lavoro manuale e alla carità.

L’intervento di Gregorio

Tali elementi costituivano l’unico punto di contatto con lo stile di vita dei frati. Per Francesco la mendicità rappresentava il solo modo per mantenere un legame effettivo con i poveri e per rimanere fedeli al messaggio evangelico. Chiara, che aveva dovuto cedere sulla clausura, non intendeva abdicare a tale lascito spirituale. Papa Gregorio si vide allora costretto a emanare il famoso «Privilegio di povertà» con il quale S. Damiano, unico monastero tra le comunità francescane femminili, poté mantenere il divieto assoluto al possesso dei beni. In tal modo si veniva a creare una situazione paradossale: con la riforma di Gregorio, il monastero di S. Damiano era posto a capo del movimento francescano femminile e, tuttavia, differiva sensibilmente nello statuto dagli altri monasteri da esso dipendenti. Il papa, sconfitto nel braccio di Nella pagina accanto Madonna con Bambino in trono tra San Francesco d’Assisi, Santa Chiara e angeli. Affresco attribuito al Maestro di Figline (forse Giovanni di Bonino). 1300-1349 circa. Assisi, basilica di S. Francesco,

le clarisse

La divisione dell’Ordine La rigorosa Regola delle Clarisse, scritta dalla stessa Chiara negli ultimi anni di vita, fu approvata da papa Innocenzo IV il 9 agosto del 1253 per il monastero di S. Damiano, due giorni prima che la Santa morisse. Tuttavia, essa non vene accettata da tutti i cenobi dell’Ordine, e, con l’intento di ristabilire l’uniformità nei conventi, il cardinale Gaetano Orsini, protettore delle Clarisse, compose una nuova Regola, approvata da Urbano IV il 18 ottobre 1263 (la cosiddetta Regola urbaniana). Questa permetteva alle religiose di possedere beni in comune, infrangendo, in tal modo, la bolla di papa Gregorio IX del 1228, poi promulgata da papa Innocenzo IV nel 1253, che prevedeva l’estensione a tutti i monasteri delle Clarisse del «Privilegio di povertà», proibendo a chiunque di costringere le religiose ad accettare donazioni. L’Ordine si divise, dunque, in due congregazioni: le Clarisse Damianite, fedeli alla Regola di Chiara, e le Urbaniste, che accettarono la Regola del 1263. Nel corso dei secoli successivi nacquero due ulteriori congregazioni: le Colettine, sorte agli inizi del XV secolo dalla riforma introdotta nel monastero di Besançon, in Francia, da Santa Coletta di Corbie (1381-1447), allo scopo di riportare la Regola di Santa Chiara alla primitiva austerità; e le Cappuccine, che sorsero a Napoli nel 1535, per volontà della nobildonna catalana Maria Lorenza Longo, ispiratasi alla riforma dell’Ordine dei Frati Minori operata da Matteo Da Bascio. Nel complesso, l’Ordine si diffuse capillarmente in tutti i Paesi europei: nel XIV secolo si contavano 400 monasteri, che divennero 950 nel 1686. (red.)

chiesa inferiore, sagrestia. A destra Santa Chiara riceve da papa Innocenzo IV la Regola delle Clarisse. Tavola di scuola tedesca da Norimberga o da Bamberga (Baviera). XIV sec. Norimberga, Museo Nazionale Germanico.

negli scritti di Francesco. Lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli concorda con le posizioni di Dalarun per ciò che attiene a una coppia che fu solo immaginata, ma che non ebbe alcun fondamento storico, e della quale, a suo avviso, bene ha fatto a denunciare l’infondatezza: «Evaporano nel nulla le tante caramellose pagine su una coppia mistica che non ci fu (…) perché se è evidente che Francesco fu fondamentale per la vita e la scelta religiosa di Chiara, nulla di nulla si può dire, se ci si attiene agli opuscula, per ciò che riguarda lo specifico atteggiamento di Francesco verso di lei».

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grandi santi chiara d’assisi A destra Chiara guida le sorelle in preghiera, particolare degli affreschi dell’oratorio del monastero di S. Damiano. XIV sec. In basso Santa Chiara con l’abito delle Clarisse, il libro e il giglio della purezza. Particolare del Polittico di Sant’Antonio, Tempera su tavola di Piero della Francesca. 1465-1468. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

ferro sulla povertà, cercò allora di spezzare la resistenza di Chiara, allentando i suoi legami con i compagni di Francesco. Questi ultimi avevano sempre visto nella comunità di S. Damiano una propaggine del proprio Ordine; il pontefice, invece, voleva farne la testa del movimento femminile, spingendo Chiara ad assumere quel ruolo di «badessa» che essa rifiutava.

Sciopero contro il papa

Nel 1230, con la bolla Quo elongati, Gregorio vietò l’accesso dei frati in tutti i monasteri femminili, eccezion fatta per i pochi questuanti, incaricati di mendicare il cibo per le suore di S. Damiano. A partire da quel momento, la cura spirituale delle suore non sarebbe piú stata di competenza dei Frati Minori. A tale disposizione Chiara rispose caccian-

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ri problemi di gestione. Nella battaglia a difesa del divieto di possesso Francesco fu sempre affiancato dai compagni umbri e da Chiara, la quale, come abbiamo visto, combatté per difendere tale linea anche dopo la morte del Santo. Per alcuni, si trattò di una pura impuntatura formale. In realtà, Chiara, che, infine, aveva dovuto accettare la clausura anche per volere dello stesso Francesco, non intendeva retrocedere di un passo su una questione che rappresentava l’essenza stessa della sua identità francescana. Nell’entrare a S. Paolo delle Abbadesse, all’inizio della sua conversione, Chiara fu accolta come inserviente in quanto priva di quella dote che, come abbiamo detto all’inizio, aveva voluto devolvere ai bisognosi: anche all’interno dei monasteri, di fatto, si perpetuava una netta divisione tra ceti. Nel monastero di S. Damiano ciò divenne impossibile, proprio perché il disfarsi di tutti i beni materiali prima dell’ingresso in religione era stato fissato come obbligo.

Ritorno all’Ordine

do da S. Damiano i frati questuanti ed entrando, di fatto, in sciopero della fame. Il papa, minacciato dallo scandalo che un tale gesto avrebbe arrecato all’immagine della Chiesa, fu costretto a una clamorosa marcia indietro. Il divieto assoluto al possesso di beni, fossero stati essi personali o della comunità, era il punto critico attorno al quale nacque la spaccatura all’interno dell’Ordine. Francesco lo aveva posto come argine contro l’omologazione del proprio Ordine a quelli esistenti o in via di definizione. Già quando il Santo era ancora in vita, molti frati si erano strenuamente battuti per superare tale vincolo, cercando di arrivare a un’interpretazione piú attenuata della povertà, adducendo come scusante la crescita esponenziale dell’Ordine, che iniziava a porre se-

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Nelle speranze di Francesco, la condizione di assoluta povertà avrebbe dovuto impedire all’Ordine di divenire potente e compromesso. Sebbene Francesco non abbia mai mosso alcuna critica nei confronti delle gerarchie, era evidente che all’interno della Chiesa molti avevano smarrito le finalità del loro mandato e della loro vocazione. Francesco, quindi, decise di dedicarsi a ciò che le gerarchie avevano maggiormente trascurato, la cura delle anime. Nei villaggi, nelle campagne, nelle «favelas» cittadine, vivevano anime derelitte alle quali i parroci e i vescovi mancavano di portare conforto spirituale ancor prima che materiale. Francesco, che intendeva garantire in primo luogo tale presenza, non poteva permettere che i suoi seguaci rimanessero invischiati in meccanismi di potere e interesse analoghi a quelli che da secoli sviavano l’attenzione dei

prelati dai bisogni dei fedeli. Chi entrava nell’Ordine doveva tenersi fuori dai problemi di gestione dei beni, dalle controversie giuridiche che giocoforza essi comportavano, dalla tentazione di comode prebende: tutto ciò avrebbe assorbito energie che, invece, andavano spese nel conforto agli emarginati. Chiara, che a causa della clausura aveva dovuto rinunciare a tale servizio, volle però testimoniare l’adesione a questo programma, nonostante fossero in molti, in quel momento, a sostenere che si trattava di una strada impercorribile. Nel difendere la povertà, Chiara difendeva la sua francescanità e in ciò vi fu una simmetria perfetta tra i due: essi rimasero uniti al di là di tutte le difficoltà in quella comune battaglia, che rappresentava l’unicum di un movimento che insieme avevano contribuito a plasmare e a far crescere. Alla morte di Francesco l’Ordine si divise in due correnti, quella cosiddetta dei conventuali – considerati «rilassati» nei confronti della povertà – e quella dei rigoristi, rappresentati in buona parte dai compagni umbri di Francesco. Chiara appartiene a questa seconda corrente. Non stupisce che nella storiografia francescana (espressione dell’ala conventuale) la sua figura venga in qualche modo ridimensionata, se non, in alcuni casi, screditata. Lo stesso Tommaso da Celano, che nella Vita Prima di San Francesco, scritta intorno al 1228, le aveva dedicato parole di grande elogio, quando nel 1244 viene incaricato di scrivere la nuova biografia del Santo, espunge ogni riferimento a Chiara. Gli anni dei contrasti con Gregorio IX e le polemiche sull’interpretazione del Testamento avevano fatto di Chiara una figura scomoda, alla quale si preferiva ormai non fare piú riferimento. Negli anni Sessanta del Duecento si arrivò addirittura a imporre una lettura in termini negativi del rapporto del Fondatore con le «dame di S. Damiano». Erano gli anni in cui Francescani e Dome-

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grandi santi chiara d’assisi nicani, cercano e ottengono di liberarsi della cura spirituale delle sorelle, affidandone la tutela direttamente a un cardinale protettore. I monasteri femminili e la gestione dei contatti con i frati per le questioni pratiche e per quelle spirituali, davano spesso luogo a malumori e incomprensioni. Troppe volte le suore mancavano all’obbligo di stretta clausura e venivano accusate di recarsi presso i lebbrosi e gli ammalati o di riceverli all’interno delle mura dei conventi. Come ha scritto Chiara Frugoni, le testimonianze rese al processo di canonizzazione di Chiara mostrarono che «la porta del monastero si aprisse troppo di frequente». Se ciò fu tollerato durante il generalato di

frate Elia (1232-1239), in seguito suscitò aspre punizioni. In tale contesto nacque lo stereotipo di Francesco avverso alle «sorores».

Uno strano rapporto

Esiste uno scritto che attribuiva a Francesco stesso il proposito di disfarsi del ramo femminile dell’Ordine. L’allora ministro provinciale della Toscana, fra Tommaso da Pavia (morto nel 1278), nei Verba ipsissima, fece dire a Francesco: «Dominus a nobis uxores abstulit, dyabolus autem nobis procurat sorores» («Il Signore ci ha tolto le mogli, ma il diavolo ci opprime con le sorelle»). Tale affermazione sarebbe stata suffragata – secondo frate Tommaso – dalla testimonianza di

uno dei compagni ancora viventi di Francesco, il quale avrebbe sostenuto che Francesco rifuggiva dalla familiarità con le donne – e in particolare temeva quella con Chiara – al punto di non volerla piú chiamare per nome, ma semplicemente «cristiana», per evitare qualsiasi vicinanza emotiva. Al contrario, Tommaso da Celano sembra voler giustificare la sollecitudine di Francesco verso Chiara a partire dal desiderio di vederla entrare nella sua fraternitas: «Né quello (Francesco), colpito dalla fama di una giovane tanto graziosa e celebre, desiderò di meno vederla e parlarle, se, lui che era tutto proteso a simili prede ed era venuto per devastare il regno


La morte di Santa Chiara, particolare dello sportello centrale del Trittico di Santa Chiara. Tempera su tavola attribuita a Paolo Veneziano. 1328-1330 circa. Trieste, Museo Civico Sartorio. Chiara morí nel convento di S. Damiano, l’11 agosto del 1253, e due anni dopo, nel 1255, fu proclamata santa da papa Alessandro IV.

del mondo, in qualche modo potesse strappare al mondo perverso questa nobile preda per offrirla al suo Signore». Piú avanti, Tommaso si trova quasi nell’imbarazzo di dover giustificare un’assiduità di frequentazione che dovette apparire inopportuna ai contemporanei: «Rende visita lui a lei e piú spesso lei a lui, moderando la durata dei loro incontri, perché tale loro interesse divino non potesse essere capito da essere umano e divenire di pubblica fama. Infatti soltanto con una compagna a lei familiare la giovane, uscendo dalla casa paterna in segreto, si recava dall’uomo di Dio, le cui parole a lei rivolte la infiammavano e le cui opere apparivano essere piú che umane». Se il rapporto tra Chiara e Francesco fosse stato A sinistra la basilica di S. Chiara ad Assisi, costruita, dopo la morte della Santa, tra il 1255 e il 1265, sotto la direzione dall’architetto Filippo di Campello. All’interno si trova la tomba, realizzata nel 1260, dove sono custodite le spoglie di Chiara.

davvero unilaterale, come è stato sostenuto da alcuni storici (vedi box a p. 30-31), il biografo non si sarebbe trovato nella necessità di giustificarlo.

Timori e maldicenze

Potremmo certo pensare che si tratti di luoghi comuni tipici della letteratura agiografica, ma, poiché Tommaso scriveva quando erano ancora vivi molti dei testimoni di quelle vicende, è plausibile immaginare che egli intendesse piuttosto alludere alle maldicenze e ai timori suscitati dalla vicinanza tra Chiara e Francesco e, piú in generale, tra quella tra i frati e le suore. Forse anche per tale ragione Francesco preferí non nominare Chiara nei suoi scritti e, dopo la sistemazione delle suore a S. Damiano, cercò di ridurre all’estremo la frequenza delle sue visite. Del resto, parole analoghe a

quelle registrate da Tommaso da Celano furono pronunciate al processo di canonizzazione, che si svolse come un vero e proprio processo, con la comparizione di testimoni invitati a fornire deposizioni, secondo quanto in prima persona visto e ascoltato circa la vita e i miracoli del santo candidato alla gloria degli altari. Cosí la sorella di Chiara, Beatrice, testimoniò che: «Havendo sancto Francesco audita la fama de la sua sanctità (della santità di Chiara), piú volte andò a lei predicandoli, in tanto che epsa virgine Chiara aconsentí alla sua predicatione et renunciò al mondo et ad tucte le cose terrene et andò a servire ad Dio quanto piú presto podde». Le compagne della prima ora di Chiara, interrogate, rispondono concordemente, confermando le parole di Beatrice: «per admonitione de sancto Francesco incominciò l’ordine che hora è in Sancto Damiano». (segue a p. 40)

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grandi santi chiara d’assisi «A proposito di Chiara...». Un incontro con Chiara Frugoni

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Chiara Frugoni, storica del Medioevo, si devono opere fondamentali su San Francesco e un titolo, non meno importante, su Santa Chiara. Recentissima è la pubblicazione di un saggio dedicato a entrambi i personaggi (vedi box p. 40). L’abbiamo incontrata, per conoscere le ragioni di un interesse cosí sentito.

rofessoressa Frugoni, perché ha sentito il bisogno di scrivere un libro ◆ P che mettesse insieme Chiara e Francesco? Mi sono accorta che avevo privilegiato le biografie scritte su di loro e invece avevo lasciato in ombra gli scritti dei due santi. Mi è sembrato importante, invece di continuare ad ascoltare le cose dette su Chiara e Francesco, riuscire a capire cosa essi stessi dicessero, ripartire dalle loro parole. Inoltre, mi premeva comprendere quale fosse stato il loro atteggiamento verso la società. Mi interessava capire in che modo si fossero fatti o non si fossero fatti carico della situazione davvero molto pesante nella quale si viveva nell’Assisi del Duecento. torici come Jacques Dalarun e Giovanni Miccoli ci avevano spiegato ◆ S che la «coppia», Chiara e Francesco, non ha fondamento storico, è solo frutto di immaginazione, poiché nell’esperienza di Francesco le donne non ebbero alcuna importanza, compresa Chiara. Il titolo che lei ha scelto, Storia di Chiara e Francesco, li presenta invece insieme, sullo stesso piano, e ciò ci appare come una presa di posizione, come una sorta di «manifesto» teso a ribadire la verità storica... Sí, è proprio cosí. Mi pareva un problema mal posto quello di Dalarun, il quale ha contato il numero di volte in cui Chiara, nei suoi scritti, cita Francesco e poi quello in cui lui cita lei. Chiara, nei suoi scritti, cita Francesco ben 32 volte, Francesco non cita mai Chiara. Da ciò lo storico francese ha concluso che Chiara per Francesco non esiste, come non esistono le donne. Se davvero dobbiamo ripartire dalle fonti, si deve considerare che una notevole quantità di lettere scambiate tra i due andarono perdute. Lettere che Chiara cita in testi ufficiali nei quali non avrebbe avuto senso mentire, perché sarebbe stato controproducente: i compagni di Francesco ancora viventi avrebbero potuto contraddirla. In secondo luogo, fino al giorno prima di morire, Chiara si trova senza una regola, sempre animata dal terrore che tutto quanto lei ha costruito venga cancellato con un colpo di spugna. È normale, dunque, che Chiara si aggrappi spasmodicamente a Francesco, che all’epoca era già un santo canonizzato e quindi un’autorità sicura da far valere di fronte alla Curia romana. Il fatto che Chiara utilizzi Francesco proprio come pilastro per vedere riconosciuta la sua regola e le sue posizioni intransigenti in materia di povertà è ben testimoniato dalle fonti. Quando era ancora in vita Francesco, il quale vegliò sempre sulle sorti delle sorores, Chiara non sentí il bisogno di citarlo nei suoi scritti, come appare nelle lettere ad Agnese di Boemia. Dopo la morte del Santo, invece, la situazione cambia: Chiara rimane sola a lottare contro la Curia romana che avrebbe voluto ricondurre il suo innovativo proposito di vita nel solco del monachesimo femminile tradizionale. In tale contesto è perfettamente normale che Chiara sentisse il bisogno di fare di Francesco il suo «scudo». ella biografia di Chiara scritta da Tommaso da Celano si vede che ◆ N Francesco attira Chiara all’interno della Fraternità. Non fu quindi un’idea di Chiara quella di seguire Francesco? 36

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Sappiamo che Chiara aveva una vera vocazione, mostrata fin da giovanissima, e che ricevette una profonda educazione religiosa da parte della madre. Vi sono affreschi in cui la madre, Ortolana, fu rappresentata come santa: c’era quindi fra le consorelle di Chiara il desiderio di vedere riconosciuta la santità di Chiara e della madre. Possiamo dunque immaginare che l’ingresso in religione non fosse estraneo alla mentalità di Chiara e della sua famiglia. Nondimeno, per Francesco, che era figlio di un mercante, probabilmente anche usuraio, riuscire ad attirare una rappresentante di spicco della nobiltà cittadina quale era Chiara, rappresenta un modo efficace di sottolineare il successo e la bontà del proprio progetto di vita. Progetto che, ricordiamo, all’inizio era aperto a uomini e donne. Attirare una nobile significava dimostrare alla società di Assisi, che solo superficialmente poteva dirsi cristiana, come il modo di vivere il Vangelo proposto da Francesco funzionasse non solo per le persone del popolo, ma anche per i ceti piú elevati.

in dall’inizio, quindi, il progetto di Francesco previde un ramo ◆ F femminile? Sí, e ne abbiamo la conferma da un testimone contemporaneo di Francesco e Chiara, Giacomo di Vitry, che parla di «fratres et sorores minores». Termine, quello di «minores», attribuito alle «sorores», che verrà poi cancellato dalle fonti. Francesco dovette a un certo punto pensare, se non constatare, che le sorelle costituivano una tentazione per i frati. È anche plausibile che la cura alle sorelle dovette via via essere avvertita come un ostacolo dai frati, che volevano sentirsi liberi di partire per predicare ovunque e non rimanere vincolati ad Assisi dove le monache avevano bisogno di protezione e di guida spirituale. In ogni caso egli non volle mai abbandonarle e lo stesso biografo, Tommaso da Celano, mette in bocca al suo Francesco: «Non crediate, carissimi, che io non ami le ancelle di Cristo! Se infatti fosse una colpa prendersi cura di loro in Cristo, non sarebbe ancora piú grave averle sposate a Cristo? Non averle chiamate certo, non sarebbe stata colpa, ma non averne cura dopo averle chiamate sarebbe enorme crudeltà». ◆ I l suo libro appare centrato sulla difficoltà del rapporto tra comunità femminili e comunità maschili. Tuttavia, vi si può leggere anche un giudizio molto duro su Francesco: «Difficile oggi assolvere pienamente Francesco che di fronte alla prospettiva di vedere franare tutto quanto aveva fino ad allora costruito … pensò in realtà soltanto a sé e ai frati. Chiara, inutilmente sacrificata, dovette accettare un ruolo defilato». Da che cosa nasce una presa di posizione cosí severa? Io ho una grandissima ammirazione per Francesco, come si vede dal tanto tempo che gli ho dedicato. Nel momento della scelta delle sorti del ramo femminile del suo Ordine, però, non si è affidato alla Divina Provvidenza, ha agito da un punto di vista umano, con grande intelligenza politica. Consapevole di non poter riuscire a portare avanti entrambi i progetti, ha sacrificato Chiara. Lí, trovo, ci sia stato un tratto molto umano e poco «santo» di Francesco e devo dire che ho ammirato Chiara, che ha saputo capire questa sua debolezza, continuando a essergli fedele.

e cedessimo alla tentazione di una storia contro-fattuale, quale ◆ S avrebbe potuto essere il futuro della comunità mista delle origini? Era davvero possibile mantenere il ramo femminile dell’Ordine sotto la stessa Regola di quello maschile, e quindi con lo stesso stile di vita? Questo non possiamo saperlo… Ci furono comunità miste quali quella di San Francesco e Santa Chiara, particolare di un affresco attribuito a Giotto e collaboratori. 1290 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, chiesa superiore.

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grandi santi chiara d’assisi Roberto d’Arbrissel. Certamente, il prezzo da pagare sarebbe stato altissimo e, infatti, l’abilità politica di Francesco consistette proprio nel «recidere» il ramo femminile. In caso contrario, l’Ordine non avrebbe avuto il successo che ebbe. Successo, beninteso, che conobbe il solo ramo maschile, perché per quello femminile fu assai inferiore.

e da parte di Francesco ci fu tradimento, che però, come ◆ S lei sostiene, fu quasi nelle cose, non vi fu forse un tradimento maggiore nella tradizione della memoria di Chiara? È difficile ritrovare «Chiara» nella storiografia francescana, anzi possiamo dire che essa tenda a scomparire nelle fonti francescane o a essere presentata come una figura priva del carisma e dell’importanza che invece ebbe. In realtà, considero il tradimento della storiografia come una conseguenza della scelta storica compiuta da Francesco. Voglio dire che Chiara fu lasciata da sola a partire dallo stesso Francesco e di ciò si ha un riflesso nelle fonti che, come lei dice, la presentano come una figura marginale. Inoltre, vi fu un altro fatto, e di ciò Francesco è del tutto innocente. Chiara si appoggiò molto a frate Elia, che fu ministro generale dell’ordine dal 1232 al 1239. Elia si schierò con Federico II e ciò gli valse una vera e propria «damnatio memoriae», che finí con il coinvolgere anche Chiara. Si aggiunse infine che l’Ordine, seppure Francesco inizialmente l’avesse voluto «laico», cominciò sempre piú a clericalizzarsi e a guardare in maniera molto negativa ai laici e quindi anche alle donne. Tutto sommato, direi, quindi, che ciò che appare straordinario è che, nonostante tutte le avversità, Chiara sia riuscita a far approvare la sua regola, anche se poi, purtroppo, essa venne riscritta da Urbano IV. A causa di ciò ho potuto notare la straordinaria differenza che esiste oggi nell’interpretazione della regola di Chiara nei vari monasteri di Clarisse e possiamo anche dire che il vero messaggio di Chiara sia andato un po’ perduto. roprio a proposito dei monasteri femminili di varia ispi◆ P razione francescana e clariana, essi sono oggi sottoposti alla clausura. Nel suo libro Chiara, una solitudine abitata lei mostra invece come il progetto iniziale di Chiara apparisse molto distante da tale forma di vita. Quando la nobile assissana aderí alla fraternitas francescana pensò di condurre una vita simile a quella dei frati, in mezzo alla gente, tra i poveri e gli ammalati… Sí, certamente, e ciò è ben testimoniato dalla creazione del tutto originale da parte di Chiara della figura delle «Sorores extra monasterium servientes». Si tratta di monache che uscivano dal monastero e che potevano dedicarsi alle attività assistenziali. Se si legge attentamente la Regola si nota, infatti, che esse sono esonerate da alcune prescrizioni che si giustificano solo se finalizzate alla cura dei poveri e degli ammalati. Esse, infatti, possono portare le scarpe, mangiare di piú, hanno il permesso di parlare anche durante la notte, sono autorizzate anche a dare esortazioni di tipo morale, proprio come i frati. Con la creazione di queste sorelle che vivono a fianco di quelle dedite alla meditazione in stretta clausura, Chiara ebbe un’idea geniale, precorritrice dei tempi, perché solo nell’Ottocento la Chiesa comincerà a mandare le suore negli ospedali e nelle scuole. Chiara previde già da allora una sorta di respiro alterno, tra monache che si consacravano alla meditazione e mo38

In alto San Francesco riceve le stimmate, particolare dello sportello centrale del Trittico di Santa Chiara di Paolo Veneziano. 1328-1330 circa. Trieste, Museo Civico Sartorio. A sinistra statuetta in legno raffigurante Santa Chiara, dalla regione francese della Borgogna. XV sec. Parigi, Musée National du Moyen Age.

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nache che si dedicavano ad attività pratiche e caritative e ciò, e si tratta dell’aspetto piú importante, senza impedire che i ruoli venissero a scambiarsi tra le une e le altre, ma trattando le une e le altre alla pari.

a, allora, possiamo dire che in questo modo Chiara aggirò l’imposizione ◆ M della clausura? Sí, lei fu molto abile nel non spiegare chi dovesse stare dentro e dedicarsi alla preghiera e chi potesse invece uscire dal monastero. Di fatto, però, grazie a questa doppia velocità, le sorores potevano alternare periodi di preghiera a periodi di servizio caritativo. La vera novità consiste nel fatto che le sorores che uscivano non venivano distinte in nulla da quelle che rimanevano all’interno delle mura del monastero. Finché Chiara fu viva, esse non erano riconoscibili neppure dall’abito, che rimase il medesimo per entrambe. In seguito, quando la Regola fu riscritta da Urbano IV, invece, tali sorelle vennero assimilate (si legga declassate) a una figura già presente nel monachesimo benedettino, le servitiales. Esse furono allora costrette a distinguersi dalle altre attraverso l’uso del velo bianco che le equiparò alle novizie e fece di loro delle monache di secondo rango. ra i film su Francesco realizzati da registi come Rossellini, Pasolini, Zeffirelli, ◆ T Cavani, quale, a suo parere, ci restituisce meglio la figura storica del Santo? Direi che sono film con inquadrature molto diverse. Sinceramente quello che non mi è piaciuto e che invece maggiormente sembra aver colpito l’immaginario collettivo è quello di Zeffirelli. Il film presenta un Francesco che non si pone alcun problema e dà anche della coppia «Chiara-Francesco» un’idea banale, di un amore sublimato, senza indagare invece la complessità e la profondità di tale relazione. Nel film di Rossellini lo sguardo è centrato sul gruppo dei compagni, considerati tutti come persone eccezionali, che insieme danno vita a un progetto di vita nuovo. Pasolini parte da una scelta molto raffinata, quella di raccontare la predica agli uccelli, un episodio spesso banalizzato, presentato in una chiave un po’ ingenua e comunque marginale. Invece, come io ho spesso sostenuto, questi uccelli rappresentano le varie classi sociali e il passo ha un significato sociale preciso. Pasolini ne coglie pienamente il senso e l’importanza, mostrando che il problema non è né quello di parlare agli uccellini, né quello di parlare agli «uccellacci», ma piuttosto di far parlare gli uni con gli altri. Il Francesco della Cavani, il secondo, mi è piaciuto soprattutto per la scelta intelligente del protagonista. L’unica critica che si può muovere al film è che abbia dato, in alcune scene, penso alle prigioni di Perugia o ai sobborghi degradati di Assisi, un’interpretazione un po’ troppo fosca del Medioevo.

In alto San Francesco, interpretato dall’attore Graham Faulkner, in una scena tratta dal film Fratello Sole, sorella Luna, diretto da Franco Zeffirelli nel 1972. In basso una scena tratta dal film Francesco, interpretato da Mickey Rourke e diretto da Liliana Cavani nel 1989.

ll’uscita del film le polemiche si concentrarono sulla scelta del protagonista, ◆ A Mickey Rourke, la cui immagine, all’epoca, era fortemente condizionata dal fatto di aver interpretato il film Nove settimane e mezzo. A lei invece è piaciuta proprio tale scelta? Sí, l’ho pienamente condivisa perché restituisce appieno l’immagine di un Francesco che, per quanto non propriamente bello, fu un uomo di grande fascino, ritenuto un giovane molto seducente e prestante anche per via del fatto che, volendo diventare cavaliere, si era esercitato a lungo nel mestiere delle armi. Dopo la conversione, quello stesso carisma continuò a valergli l’ammirazione e la devozione di folle di uomini e di donne. Trovo che aver voluto dare un’idea concreta del fascino straordinario di Francesco sia stata un’operazione di grande intelligenza. ◆ È quale tra questi film rende meglio la figura di Chiara? Quello della Cavani, sicuramente. Lei ha voluto recuperare Chiara, anche se tale recupero non appare sempre verosimile, in quanto è difficile pensare che Chiara fosse libera di muoversi e di andare dove volesse, cosí come il film ci mostra. Tuttavia, Liliana Cavani ha saputo dare a Chiara il giusto risalto, quello che senza dubbio ebbe nella comunità francescana.

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grandi santi chiara d’assisi il libro

Due giovani decisi a cambiare il mondo Francesco d’Assisi è uno dei personaggi di cui abbiamo sempre il desiderio di sentirci raccontare la storia. Chiara Frugoni è la studiosa italiana che, negli ultimi vent’anni, ha saputo ripercorrere le vicende di Chiara e Francesco nel modo piú efficace. È lei la studiosa che, con maggiore capacità innovatrice, ha affrontato l’incredibile vicenda umana e spirituale di uno dei personaggi fondamentali della storia europea. Il suo Francesco e l’invenzione delle stimmate (Einaudi, 1993) è stato un libro per molti aspetti rivoluzionario, perché riuscí a far arrivare, al di là della cerchia degli specialisti, la complessità e il fascino della questione francescana, rendendo giustizia di tanti stereotipi germogliati non solo nel sottobosco della cultura ecclesiastico-devozionale, ma anche nell’ambiente accademico. La studiosa riuscí soprattutto a dimostrare l’esito funesto avuto dalla biografia ufficiale di Francesco scritta da San Bonaventura, il quale ne cristallizzò per secoli l’immagine nello stereotipo del santo irraggiungibile e inimitabile, che solo le scoperte dello storico francese Paul Sabatier (1858-1928) riuscirono a demolire. In seguito, Chiara Frugoni ha continuato a raccontare Francesco con nuovi lavori, rigorosi ma sempre leggibili. Qualche anno fa, infine, ha voluto confrontarsi con la figura di Chiara d’Assisi (Una solitudine abitata: Chiara d’Assisi, Laterza 2006). Il risultato è stato la piú fine e convincente biografia scritta sulla Santa. Oggi, con Storia di Chiara e Francesco (Einaudi, 2011), Chiara Frugoni torna a parlarci di questi due incredibili personaggi. II libro si apre all’insegna di un’assoluta novità: per la prima volta i due santi sono posti sullo stesso piano, e la loro storia ci è presentata come una vicenda unitaria. Per anni vi sono state polemiche circa il ruolo che la nobile fanciulla d’Assisi avrebbe avuto all’interno del movimento francescano; Chiara Frugoni, rimontando pezzo per pezzo i percorsi di Chiara e Francesco, rende finalmente verosimile e comprensibile il loro rapporto. Dopo che varie «mode» si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni, portando in auge ora i sostenitori ora i detrattori della coppia «Chiara-Francesco», la storica pisana ci prende per mano e ci porta ad ascoltare le voci pure di questi due personaggi, attraverso l’analisi, la contestualizzazione e l’interpretazione dei loro scritti. Un’operazione che ristabilisce una verità storica sopra una vicenda umana e spirituale dalla quale nessuno può dire di non essere stato toccato. Al di là di ciò che dicono le fonti, restano, inoltre, alcuni dati eloquenti circa l’atteggiamento di Francesco verso Chiara. Il primo riguarda la fase piú acuta della malattia, che lo avrebbe di lí a poco portato alla morte: quando ormai aveva quasi del tutto interrotto i rapporti con il mondo e il destino dell’Ordine gli appariva confuso e

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sfuggente, Francesco decise di ritirarsi proprio a S. Damiano. Qui, in una semplice capanna fatta di frasche, a ridosso del monastero di Chiara, egli compose il suo scritto piú solare, il Cantico delle Creature. In questi stessi giorni redasse anche un breve scritto noto con il nome di Ultime volontà inviate a Santa Chiara, nel quale le chiede di

vigilare sulla scelta della povertà: «Prego voi, mie signore, e do a voi consiglio, affinché viviate sempre in questa forma santissima di vita e povertà. E vigiliate molto affinché per la dottrina o per il consiglio di alcuno, mai in nessun modo non vi allontaniate da essa».

Le ultime volontà

In tale scritto si coglie l’amara consapevolezza di Francesco circa le difficoltà a cui la comunità femminile andrà incontro con la sua morte, quando alle sorelle verrà meno la sua vigile protezione. Emerge al tempo stesso la fiducia che egli nutre in Chiara, ritenuta capace di farsi baluardo contro lo stravolgimento che sta investendo l’Ordine. Egli appare certo che la propria interlocutrice comprenderà quel monito oscuro a diffidare «della dottrina e del consiglio di alcuno». Francesco comprende che sull’Ordine pende una minaccia e contro di essa chiama Chiara e le sorelle a lottare senza possibilità di resa: «mai in nessun modo vi allontaniate da essa». Si tratta di un’ultima volontà pesante, che Francesco affida a Chiara, certo che saprà restarle fedele fino alla consegna. L’11 agosto del 1253, Chiara morí a S. Damiano dopo aver lottato tutta la vita per il mantenimento del «Privilegio di povertà». A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la iscrisse nel catalogo dei santi, salvando la sua memoria dall’oblio. F

Da leggere U Chiara Frugoni, Una solitudine

abitata. Chiara d’Assisi, Laterza, Roma-Bari 2006 U Jacques Dalarun, Francesco: un passaggio. Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi. Postfazione di Giovanni Miccoli, Viella, Roma 1994 U Chiara di Assisi, Atti del XX Convegno internazionale di studi Francescani, Assisi 15-17 ottobre 1992, CISAM, Spoleto 1993

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iconografia la notte

Nel regno della

luna

di Lorenzo Lorenzi

È il luogo del peccato, dove sostano coloro che non intendono «elevarsi alla luminosità divina». Ma, per affrontare la minaccia dell’oscurità notturna, l’arte del Medioevo ricorre a espedienti iconografici singolari e inconsueti…

L’

estetica medievale gioca su dissonanze e paradossi di forme e simmetrie, in un continuo interagire di enciclopedismo simbolico dai plurimi significati, di diacronie cromatiche e trapassi monotonali, di assenze di prospettiva opposte a profondità casuali e sghembe. Rare sono le omissioni dei vizi umani, tradotti in immagini o in allegorie strutturate, giacché il rigorismo mistico e il valore della salvezza e del peccato non potevano non distinguere il male e il bene delle cose del mondo; e anche il sesso – vero e proprio tabú – ha avuto, nelle età del romanico e del gotico, pur con accezioni negative, rappresentazioni efficaci nel tessuto decorativo di edifici sacri. Diversa sorte è toccata alla notte (all’altra parte del giorno), che per molti secoli è stata vittima di una sorta di ostracismo permanente ed esclusa da ogni rappresentazione. Non esistono immagini in seno al fatto sacro in cui essa faccia da cardine a una narrazione del «qui e ora» . L’assenza di luce è assenza del Bene e nella Genesi (1,11-19) la separazione della luce dalle tenebre assurge a significato primo della potenza divina, cosí come, nella mitologia greca, in principio era il caos e da Caos nacquero Erebo e la nera Notte (Esiodo, Teogonia, 123; vedi box a p. 47). In età tardo-antica la tematica della luce viene associata alla capacità dell’anima di scorgere la via della salvezza: tale cammino, che trae spunto dalla teoria platonica del mito della Caverna (Repubblica, VII), relativa alla contemplazione del sole luminoso simbolo del Bene, riceve, dal III secolo d.C. in poi, una

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Ascesa all’Empireo. Olio su tavola di Hieronymus Bosch (1453-1516). 1493 circa. Venezia, Palazzo Ducale.

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Da sinistra: ancora due dettagli degli affreschi (1491) di Giovanni Canavesio in cui sono raffigurati, sullo sfondo del pentimento di Giuda e di Gesú davanti a Caifa, ebrei in abiti orientali. La Brigue (Provenza), Notre-Dame des Fontaines.

chiara esposizione con Plotino, secondo il quale l’idea dell’Uno-Bene, da cui tutto si forma, è fonte dell’essere inteso alla stregua di una luce potentissima che si irradia all’infinito.

Per illuminare la mente dell’uomo

Nel secolo successivo, Sant’Agostino intensifica l’equazione Luce=Verità, ragionando sul significato di conoscenza, che non può essere nell’uomo, ma ricercata dall’uomo nella sua interiorità: è Dio a illuminargli la mente con una piccola stilla d’immensità lucente, responsabile della capacità di apprendere. Il motto agostiniano «il pensiero è la mia luce ma non sono io l’origine del mio lume» è traducibile nel rapporto di dipendenza intellettiva uomo-Dio, il cui fondamento visibile non può che essere la luce, elemento visibile/invisibile del dio invisibile. Lo stesso San Bonaventura nell’Itinerario dell’anima

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a Dio (1259 circa) afferma che coloro che non vogliono riconoscere le perfezioni invisibili di Dio, che non intendono volgere la mente alle cose da lui create non cercano di elevarsi dalle tenebre alla luminosa divinità; ogni grado dell’ascesa dell’anima all’Uno costituisce un’illuminazione sempre piú intensa, fino ad arrivare al massimo grado; all’uomo spetta, pertanto, la contemplazione del creatore nelle sue tre potenze – memoria, intelletto, volontà –, da cui riluce l’immagine della Trinità, forma unica ed esemplare. La luce è elemento indispensabile per sostare sulla strada del Bene, essendo le forme, i colori e le materie dell’essere opera di Dio, create per essere visibili all’occhio umano. Per contrasto, tutto ciò che è mancanza di luce e di forma è privazione del Bene, negazione di Dio. Il male, pertanto, è tenebra, luogo del disagio e dell’incertezza, dello smarrimento e dell’assenza dei punti cardinali, morali e spirituali dell’uomo nel mondo: per questo marzo

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il buio

Nella terra «opaca» Il cristianesimo medievale, sulla scia di Aristotele, ha costruito una vera e propria metafisica del buio. Lo PseudoDionigi l’Areopagita (V o VI secolo), nella sua teologia negativa, che consiste nel definire Dio per ciò che non è, ovvero nulla rispetto alle cose finite, afferma come la conoscenza vera sia una non-conoscenza, una visione soprarazionale delle tenebre per la quale la tenebra divina è luce inaccessibile e dimensione di Dio in totale assenza di pensieri, parole e cose. San Tommaso (1225-1274) identifica il male con il buio e questo trova espressione nel colore nero, che priva le cose in potenza di ogni realtà in atto. Nel XIII secolo, la tematica della luce assurge a carattere strutturale del divino: informa la totalità della realtà, sebbene il mondo degli uomini abbia luce minore rispetto all’Empireo, al Cielo cristallino e al Firmamento; pertanto a una minore intensità di luce corrisponde una certa quantità di buio ed è per questo che nella terra degli uomini non vi è luminosità e trasparenza, bensí malinconica opacità. Sant’Agostino (354-430) sosteneva che le cose scure del mondo hanno una consistente percentuale di buio e rarefatte stille di luce. La Natività con i profeti Isaia ed Ezechiele, pannelli della predella della Maestà del Duomo di Siena. Tempera e oro su tavola di Duccio di Buoninsegna. 1308-1311. Washington, National Gallery of Art.

l’inferno è oscuro, illuminato solo dalle fiamme di un fuoco distruttore e torturatore. Dante non esita a definire il buio nella Prima Cantica con espressioni del tipo: «selva oscura», «aere senza stelle», «aura senza tempo tinta», luoghi nei quali il dannato è immerso nell’oscurità e, non a caso, la parte in cui sosta Lucifero è costituita da un lago ghiacciato. Poiché il peccato è la notte della virtú, cioè della luce/calore divina, il re dell’Inferno genera con le sue ali in movimento ghiaccio sempiterno (Inferno XXXIV, vv. 49-52).

Senza spazio, né tempo

La scena della Fuga in Egitto e quella della Natività (foto in alto) dipinte da Duccio di Buoninsegna sul fronte della predella della Maestà (la monumentale composizione realizzata per l’altare maggiore del Duomo di Siena e qui collocata nel 1311) rappresentano questa esigenza di esorcizzazione dell’oscurità: entrambe sono senza

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cielo atmosferico, mentre le montagne e i personaggi si stagliano contro un fondale dorato (leit motiv della pittura del Due e Trecento), che annulla spazio e tempo. Il pellegrino conosce il tempo dell’evento, la mezzanotte, quando è massima l’intensità del buio, ma ne ricava la sensazione di una trasfigurazione totale, perché quella nascita è destino dell’Umanità, che si compie per volere supremo. Alla medesima volontà risponde la fuga nel deserto, attuata per sfuggire alla morte prima del compimento del sacrificio sulla croce, in questo destino il cui simbolo è l’oro: regalità divina e presenza vegliante. All’oro di Dio l’uomo risponde con l’oro, tale è il dono dei Magi d’Oriente (Matteo, 2,11) che riconoscono nella nascita di un bambino il re dell’Universo. Giotto, iniziatore della pittura moderna, astrae anch’egli il momento notturno della nascita e della fuga, sostituendo all’oro – espressione dello spazio intelligibile – il cielo metafisico del mondo sopralunare,

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Notte

La dea nera Figlia di Caos e Caligine, è una divinità ancestrale, che dominava l’essere indistinto prima che il sole e la luna fossero creati. Il mito greco la ritrae nelle sembianze di una giovane dalle membra soavi, avvolta da una lunga veste scura con stelle lucenti apposte; siede su un cocchio trainato da due o quattro cavalli neri: al suo seguito il corteo delle Furie e delle Parche. Il fratello Erebo rappresenta l’oscurità del mondo infernale; dall’unione di Notte e Erebo nacquero Emera (personificazione del giorno), Etere (la luce pura), Caronte (la ferocia e la notte peccaminosa oltremondana). Quest’ultimo, come eroe psicopompo, traghetta le anime dei morti da una riva all’altra del fiume Acheronte (Inferno, III, 94-96), a patto che abbiano ricevuto onori funebri. Nel simbolismo cristiano, la notte è il tempo dell’ignoranza e del peccato, tanto che, nel Nuovo Testamento, la sua presenza annuncia l’approssimarsi della morte e l’assenza della salvezza concretizzata dalla presenza del Figlio di Dio sulla terra. Nel Vangelo di Giovanni (9,4) Gesú pronuncia le testuali parole: «Se uno cammina di notte inciampa, perché gli manca la luce». Ancor piú chiara la connotazione negativa contenuta nell’Apocalisse «nella nuova Gerusalemme non vi sarà piú notte» (21.25; 22.5).

A sinistra Natività, particolare dal ciclo di affreschi di Giotto di Bondone (12671337) raffigurante episodi della vita e morte di Cristo. 1303-1305. Padova, Cappella degli Scrovegni. A destra Il cielo stellato affrescato da Giotto nella volta della Cappella degli Scrovegni di Padova. 1303-1305.

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senza nuvole e senza luna: un azzurro indistinto, nel quale buio e luce sono assenti. Le scene del ciclo della Cappella degli Scrovegni (1303-05; foto a sinistra) sono contrassegnate quasi tutte dal color lapislazzulo, indifferente ai trapassi chiaroscurali; è una voluta messinscena della a-temporalità dell’evento e dell’eternità concreta, la significazione che il momento dell’età nuova e del nuovo mondo che si apre all’uomo è una reale possibilità di riscattare la sua integrità dal peccato. L’azzurro è simbolo dello Spirito Santo, presenza viva «del» e «nel» Figlio, che, a sua volta, informa il mondo naturale, lo fissa e lo aggancia alla volontà divina, presente appunto nell’indaco di ogni scena.

le stelle fisse

Anime trionfanti Nella conoscenza antica e geocentrica – di impianto greco e babilonese – le stelle erano corpi celesti situati a distanza sovrumana dalla terra, considerate prive di movimento ed eterne. Legate alla mitologia arcaica, a loro si contrapponevano i pianeti, corpi puri e perfetti, ruotanti nei loro cieli di appartenenza, perché inseriti in sfere concentriche contrassegnate da moto rettilineo uniforme infuso dall’etere. Tolomeo, nel II secolo d.C., enumerò 1022 stelle formanti 48 costellazioni. Il Cielo delle stelle Fisse, sino alla rivoluzione compiuta dall’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601; De stella nova, 1573), costituiva l’ottava sfera racchiudente i cieli dei pianeti.

Nel Paradiso Dante struttura, sulla scia di Aristotele, nove cieli concentrici: il primo, il Cielo della Luna, ospita le anime che mancarono ai voti, il secondo, di Mercurio, è il cielo dell’amore per la gloria e la fama terrena, il terzo è il Cielo di Venere dominato dall’amore spirituale; il quarto, del Sole, rappresenta la sapienza, il quinto, di Marte, i combattenti della fede; il sesto è il Cielo di Giove, espressione della giustizia e della saggezza, nel settimo, di Saturno, stanno le anime dedite alla vita contemplativa; l’ottavo, quello delle Stelle Fisse, è la dimensione delle anime trionfanti, mentre il nono è il Cielo cristallino o Primo Mobile, che ruota ricevendo il movimento dall’amore di Dio. Al di sopra si trova l’Empireo, la sede di Dio assiso tra gli angeli e la Rosa dei Beati.

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In alto La fuga in Egitto, pannello dell’Armadio degli Argenti, un contenitore di ex voto della basilica della Santissima Annunziata di Firenze. Tempera su tavola di Beato Angelico (1395-1455).

1451-1453. Firenze, Museo Nazionale di San Marco. Nella pagina accanto Natività. Olio su tavola del pittore tedesco Stephan Lochner (1410-1451). 1445. Monaco, Alte Pinakothek.

Questo cielo metafisico, sintesi di giorno e notte al contempo, trova la sua variante nella fitta presenza di stelle stilizzate a ricordo della cosmologia aristotelica, che vede nel «Cielo delle Stelle Fisse» (vedi box a p. 47) il luogo ultimo della perfezione. La volta della chiesa padovana (foto a p. 47) presenta questa specifica accezione, divenuta caratteristica distintiva dell’apparato decorativo dell’arte gotica anche in ambito europeo, in relazione ai luoghi abitati dalle anime sante. Con la fine del Trecento e l’inizio del secolo successivo al cielo metafisico subentra il cielo atmosferico, che, però, non è ancora un cielo notturno e lunare. Quest’ultimo, invece, sembra fare la sua comparsa nel Cinquecento, ma solo come attributo infernale. Il tedesco Stephan Lochner, nella prima metà del Quattrocento, contestualizza la Natività in un chiarore sorprendente (foto alla pagina precedente), una sorta di fresca mattina in cui l’atmosfera rarefatta e celestina si armonizza perfettamente sia con il contesto agreste, sia con la delicatezza dei protagonisti, cioè la Vergine dai tratti adolescenziali e lo sparuto Bambino dall’incarnato perlaceo. L’artista

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sceglie l’atmosfera mattutina, che vede Gesú protagonista, perchè soleva richiamare la ri-nascita dell’umanità dopo il buio del peccato. Similmente Beato Angelico, nella scena della Fuga in Egitto (foto in questa pagina), realizzata per l’Armadio degli Argenti della SS. Annunziata di Firenze, ritualizza l’evento nella fissità delle figure poste di profilo contro monti rocciosi oltre i quali si diffonde un chiarore crepuscolare, un tramonto senza sole, un’atmosfera idilliaca e rasserenante che incornicia la gioia del Salvatore fra gli uomini. Diverso, invece, è il cielo nella Pala dell’Adorazione di Giovanni d’Antonio e quello della tavola della Resurrezione del Maestro dell’Osservanza (opere senesi, databili intorno al 1450; per la seconda, vedi foto a p. 51), in cui il tramonto scompare all’orizzonte, illuminando sottili nuvole, mentre un azzurro intenso crea un effetto di notturno lucente, rischiarato solo dalla figura di Cristo «lumen gentium», entro una mandorla fiammeggiante.

Metafora dell’irrazionale

Sulla sfortuna della notte in pittura occorre per contrasto menzionare la presenza del fondo nero, indistinto e nullificante, utilizzato nei ritratti sacri e profani. Il primo Quattrocento presenta questa interpretazione della notte, non ancora codificata alla stregua di evento naturale, bensí scelta come metafora di ciò che è indistinguibile, irrazionale. Siamo ancora nel campo dell’allegoria e della metafisica, ma certo l’oscurità sembra non fare piú paura: è

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iconografia la notte A sinistra Vergine Annunciata. Tempera e olio su tavola di Antonello da Messina (1429/1430– 1479). 1476 circa. Palermo, Palazzo Abatellis. Nella pagina accanto Resurrezione, tempera e oro su tavola del Maestro dell’Osservanza. 1445 circa. Detroit, Detroit Institute of Arts. In basso Fuga in Egitto di Joachim Patinir (1485-1524). Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

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senza giorno né notte

Gerusalemme Varie fonti testamentarie parlano di questa città santa senza sole e senza luna, senza giorno e senza notte, illuminata solo dalla gloria divina e perenne. In essa si trova il vero seme di Abramo e il suo costruttore è Dio stesso, che ne ha fatto una città santa dalle fondamenta stabili (Ebrei, 11.10). Esprime la dimensione immortale in quanto casa delle anime infiammate dalla luce divina, in contrapposizione alla prostituta Babilonia, luogo del peccato e della dannazione. L’Apocalisse, fra i sacri testi, è quello piú esplicito: qui la città è descritta adorna di pietre preziose sfolgoranti e percorsa dal fiume d’acqua viva. L’immaginario medievale ci presenta quattro visioni della Gerusalemme Celeste, nominata anche «città del Paradiso» (22.1): come città di Sion, col suo tempio di infinita sacralità; come città di Roma, costruita sulle pietre vive dei cristiani martirizzati; come dimora vivente e pulsante di Dio (la civitas Dei), infine, come città celeste che irradia la sostanza del Bene. quanto si avverte nell’immagine della giovane donna (1435 circa) di Rogier van der Weyden, il quale, pennellando l’incarnato rosato e l’adamantino biancore della cuffia, realizza un contrasto solenne con il fondale corvino; il tutto a suffragare la forza energetica rappresentata dalla luce presente nei colori della figura.

L’umanità ancora avvolta dal peccato

Allo stesso modo la Vergine Annunciata di Antonello da Messina (1476 circa; foto alla pagina precedente, in alto) esprime con piú forza il contrasto buio-luce metafisici, giacché la luce dello Spirito Santo costituisce l’immagine della Madre di Dio annunciata dall’arcangelo e presente solo nella sua anima; la Grazia sarà luce di una umanità ancora avvolta dal peccato simbolicamente rappresentato nel fondo nerastro. Per ammirare una vera e propria notte terrestre occorre aspettare il Rinascimento maturo (e artisti come Hieronymus Bosch o Cornelius Metsys): pittore della notte è certamente Joachim Patinir (1485-1524), che

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Da leggere U Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Bompiani,

Milano 2000 U Bonaventura, Itinerario dell’Anima a Dio, a cura di Letterio

Mauro, Bompiani, Milano 2002 U Carlo Cremona, Agostino d’Ippona: la ragione e la fede,

Rusconi, Milano 1986 U Umberto Eco, Il problema estetico in San Tommaso

D’Aquino, Bompiani, Milano 1970 U Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Francis

Wormald, Il secolo dell’Anno Mille, Rizzoli, Milano 1974 U AA.VV., Il Basso Medioevo. Il Romanico. Il Gotico, Istituto

Geografico De Agostini, Novara 1990

raffigura cieli plumbei e intensamente crepuscolari (foto alla pagina precedente, in basso), notturni inquietanti e tristemente espressivi, caratterizzati da nuvole colme di pioggia e sprazzi lucenti di un giorno che muore. F

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protagonisti bartolomeo d’alviano

Uomo d’arme di Luca Pesante

Valente ingegnere militare, amante delle lettere e della poesia, Bartolomeo d’Alviano fu il piú celebre dei capitani di ventura umbri. Combattè al soldo degli Orsini, dei Medici, del re di Spagna e della Serenissima, fino alla vittoria riportata a Melegnano, l’ultima delle sue imprese

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veva probabilmente ragione lo storico dell’arte Giovanni Morelli (1816-1891) quando scriveva che nei volti della gente c’è sempre da leggere un tratto di storia del loro tempo, ammesso che si sappia leggervi. Tuttavia, a guardare bene gli occhi e il volto del ritratto di Bartolomeo d’Alviano che fece Giovanni Bellini (lo stesso, forse, citato da Vasari come «ritratto di Bartolommeo da Liviano capitano de’ Viniziani»; vedi foto alla pagina accanto), scostante e ombroso nella sua elegantissima camicia, mai potremmo pensare a un uomo che, da solo, compendia in sé violenza guerresca, genio militare e passione per le lettere, in uno dei passaggi piú insanguinati della nostra storia.

Contro Venezia

È un’Italia, quella della fine del XV secolo, ultimo lembo dell’autunno del Medioevo, davvero unita in uno scontro continuo nella miriade di piccoli e grandi poteri, ciascuno con il suo esercito, il suo territorio, le sue mura da difendere. Ma, soprattutto, siamo alla vigilia di una delle piú grandi guerre del nostro Rinascimento, che vide la coalizione – almeno al momento della sigla

Il leone alato di San Marco, simbolo di Venezia, scolpito sulla facciata della basilica di S. Marco.

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e di compasso Ritratto di condottiero, identificato, secondo la testimonianza di Vasari, con Bartolomeo d’Alviano, capitano di ventura che combatté al servizio di Venezia. Olio su tavola di Giovanni Bellini (1433 circa-1516). 1495-1500 circa. Washington, National Gallery of Art.

Grandissimo animo e fine ingegno L’umanista Girolamo Borgia (1475-forse 1550), nelle sue «Historiae de bellis italicis» (ancora inedite), cosí descrive Bartolomeo d’Alviano: «Era di corporatura davvero minuta ma di grandissimo animo, nonostante ciò possedeva un corpo abbastanza temprato da essere adatto a qualsiasi attività […], aveva un temperamento collerico e un carattere infuocato, teneva una condotta morigerata ed era nemico di ogni vizio, aveva modi generosi e fieri, si accontentava di poco e semplice cibo, incline alla libidine

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ma moderato con le donne; magnanimo, schietto e aperto sia nelle parole che nei fatti, facilmente irascibile ma subito disposto a placarsi, propenso al perdono e al pentimento, non troppo religioso, grandissimo estimatore di tutti coloro che eccellono in una qualsiasi arte, di fine ingegno e portato per ogni arte della mente o tecnica, amava soprattutto l’architettura e lo studio degli strumenti bellici […] Sopra ogni altra cosa aveva a cuore le lettere e le armi.

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protagonisti bartolomeo d’alviano del trattato che diede vita alla cosiddetta Lega di Cambrai – di mezza Europa contro la straordinaria espansione sulla terraferma della piú potente città italiana: Venezia. Il papa, l’imperatore, il re di Francia, il re di Napoli e di Sicilia – per citarne alcuni – si erano dunque uniti a «chiamar tutti a una giusta vendetta per ispegnere, come un incendio comune, la insaziabile cupidigia dei Veneziani e la loro sete di dominio», come si legge nel trattato firmato il 10 dicembre 1508. E, dopo cinque mesi, avevano già mosso i loro eserciti (soprattutto i militi al comando del re Luigi XII, di stanza a Milano) oltre il confine veneziano, segnato dal fiume Adda, contro 15 000 uomini della Serenissima guidati da Niccolò Orsini conte di Pitigliano e dal cugino Bartolomeo d’Alviano. Nello scontro morirono circa 4000 Veneziani, e lo stesso Bartolomeo, disarcionato, ferito al volto – e alcuni dicono anche menomato nella parola – venne catturato e condotto prigioniero in Francia per quattro anni (fino al 1513), periodo in cui scrisse, si dice, le proprie memorie andate poi perdute. Bartolomeo era nato a Todi, o

forse nel piccolo borgo di Alviano, nel 1455, imparentato con le principali famiglie umbre dell’epoca, e non conobbe mai la propria madre, perché la donna morí nel darlo alla luce. Studiò da giovane con un bravo umanista, Antonio Pacini da Todi, allievo di Francesco Filelfo, ma, ancor prima di crescere, imparò il mestiere delle armi, sperimentando i rapporti di forza e lo strumento della violenza tra le cittadine umbre di Amelia, Baschi, Todi, Orvieto e Alviano (come un preludio in scala minore della sua vita futura).

Tra rocche e castelli

Come protetto degli Orsini, prima con Napoleone poi con Virginio (vedi «Medioevo» n. 178, novembre 2011), è testimone diretto dei lavori nel castello di Bracciano e di Soriano, alle spalle di Viterbo, ed è probabilmente in questo periodo – gli ultimi decenni del Quattrocento – che Bartolomeo sviluppa l’attenzione per l’architettura dei castelli e delle fortificazioni che affinò progressivamente nel corso della vita e che mise in pratica nella riprogettazione delle rocche umbre e delle mura medievali dello Stato veneto. Sembra che

Bartolomeo fosse personalmente attivo in molti cantieri di costruzione o di ricostruzione di mura e castelli al punto che – narrano alcune fonti contemporanee – «se il mancasse ogni cosa restería confusa et imperfecta» (vedi box a p. 57). Dal 1498 passa al soldo della Repubblica di Venezia, che, tra Quattro e Cinquecento, chiamò a sé – pagando loro stipendi ricchissimi – i piú grandi e celebri condottieri d’Italia come il Carmagnola, il Gattamelata, l’Attendolo, il Malatesta, il Colleoni, e le rimase tutto sommato fedele fino alla morte. Per la Serenissima egli ottenne, dieci anni piú tardi, la clamorosa vittoria contro l’armata di Massimiliano I d’Asburgo con la conquista di Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume, segnando in tal modo il culmine della potenza veneziana e la conseguente reazione della coalizione di Cambrai. Per questo successo Bartolomeo fu nominato duca di Pordenone, città in cui si trasferí con la famiglia e in cui animò un’accademia di Lettere che riuniva – come in un giardino risparmiato al fracasso delle guerre – noti umanisti e poeti, forse per alleviare la durezza della vita

Mercenari

Al soldo di sovrani e feudatari Le «compagnie di ventura», operanti in Europa dal XIV al XVI secolo, erano truppe mercenarie, formate da soldati di mestiere, guidate da condottieri. Il termine ha origine nelle milizie assoldate nel Medioevo in Francia, Inghilterra e Germania da sovrani e grandi feudatari. Dopo le prime fasi della guerra dei Cent’anni, durante le tregue che lasciavano le milizie mercenarie senza soldo, tali compagnie ebbero modo di farsi conoscere anche in Italia. Al loro sviluppo contribuirono anche i magnati delle ricche città italiane del XIV secolo, che preferivano non distrarsi dalle loro attività per assolvere il servizio militare verso il Comune, assoldando mercenari. Ben presto anche i feudatari versarono un contributo in danaro con il quale il sovrano potesse prendere al suo servizio soldati di mestiere. Inizialmente, le compagnie di ventura operanti

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in Italia furono costituite quasi esclusivamente da stranieri. Tra i capi rimasero famosi Werber di Urslingen, Giovanni di Montréal (detto fra’ Moriale), Konrad von Landau (detto il conte Lando), John Hawkwood (Giovanni Acuto). Successivamente si cominciarono a costituire compagnie di ventura anche di Italiani, prima fra tutte, nel 1377, la compagnia di San Giorgio, guidata da Alberico da Barbiano. Illustri uomini di guerra furono capitani di ventura, come Jacopo dal Verme, Facino Cane, Erasmo da Narni detto il Gattamelata, Bartolomeo Colleoni, Braccio da Montone, Muzio Attendolo detto lo Sforza, Francesco Bussone conte di Carmagnola. Le compagnie di ventura scomparvero nel XVI secolo con l’affermarsi degli Stati nazionali, ma anche per il sempre maggior consolidamento di fanterie atte a fronteggiare con successo gli uomini a cavallo. (red.)

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ritratti misteriosi

L’enigma del quadro Questo Ritratto di giovane in armatura, già attribuito al Cavazzola (al secolo Paolo Morando), viene ora assegnato, quasi unanimemente, a Giorgione. Realizzato dal maestro di Castelfranco nei suoi ultimi anni di attività, l’inconsueto dipinto mostra un giovane dai lunghi capelli ricci, in una elegante corazza, che si appoggia con la mano destra alla spada mentre osserva lo spettatore. Dietro di lui un paggio assorto con la bocca semiaperta. Nel giovane armato, a lungo identificato con il ritratto del Gattamelata, si tende oggi a riconoscere proprio Bartolomeo d’Alviano che, nel 1508, aveva sconfitto in Cadore le truppe dell’imperatore Massimiliano. Secondo alcune ipotesi quest’opera potrebbe essere messa in relazione con l’opera piú celebre di Giorgione, La Tempesta, databile all’incirca allo stesso periodo, nella quale c’è chi vedrebbe di nuovo Bartolomeo raffigurato come soldato, ma privo di armi e armatura.

A destra La Tempesta, olio su tela di Giorgione (al secolo Giorgio da Castelfranco). 1505-1510. Venezia, Gallerie dell’Accademia. A sinistra particolare del dipinto con il personaggio da alcuni identificato con Bartolomeo d’Alviano.

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In alto Ritratto di giovane in armatura, olio su tela attribuito a Giorgione. 1502-1508. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nel cavaliere, tradizionalmente identificato con il capitano di ventura Erasmo da Narni detto il Gattamelata, si potrebbe forse riconoscere Bartolomeo d’Alviano.

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protagonisti bartolomeo d’alviano nub

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(1205-1358)

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(dal 1206)

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(dal 1489)

Sidone Tiro

Damasco Acri

La Repubblica di Venezia nel 1200 circa

Itinerari commerciali

Acquisizioni veneziane alla fine del XV sec. Territori acquisiti temporaneamente dai Veneziani Colonie commerciali veneziane

Rotte commerciali Rotte percorse dalle galee veneziane

Alessandria

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Vie commerciali terrestri verso le Fiandre Impero latino di Costantinopoli Stati latini di Levante (1230) Impero ottomano alla fine del XIV sec.

Damietta

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Territori sotto forte influenza veneziana

Gerusalemme

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Le aree poste sotto il controllo della Repubblica di Venezia tra il XIII e il XV sec.

L’Accademia Liviana

Nel segno del Noncello Se nella grande storia delle Lettere oggi è possibile parlare anche di un Umanesimo veneto, oltre che fiorentino o partenopeo, lo si deve proprio alla figura di Bartolomeo d’Alviano e al suo interesse per la poesia: negli ultimi anni del primo decennio del Cinquecento si formò attorno a lui un cenacolo di letterati, alcuni dei quali erano militi che combattevano al suo fianco. Non si trattava certo di una accademia regolare, ma, sull’impronta delle accademie fiorentine e romane, sotto l’egida del geniale condottiero, musarum liberalis hospes, si riunivano a Pordenone alcuni poeti meridionali come Girolamo Borgia e altri dottissimi autori veneti, quali il medico-filosofo-poeta Girolamo Fracastoro, Giovanni Cotta, Camillo Delminio, Aldo Manuzio e altri. Uno, in particolare, sembra gli fosse particolarmente caro: Andrea Navagero, colui che a Venezia

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nella basilica di S. Marco, il 10 novembre del 1515, durante la cerimonia funebre recitò un’orazione in memoria di Bartolomeo. L’accademia aveva come emblema il Noncello, il fiume che attraversa Pordenone, e lo stesso Navagero ritraeva nel frontespizio delle sue opere tale simbolo. I poeti celebravano nei loro carmi quel fiume e i felici pascoli vicini, ma dalle vicende del condottiero soprattutto traevano argomento di poesia. Giovanni Cotta, già discepolo e amico di Giovanni Pontano a Napoli, nel 1507 fu assunto da Bartolomeo come segretario e agente diplomatico, e mai piú lo lasciò, accompagnandolo perfino verso la prigionia in Francia. Morí, a soli trent’anni, a Viterbo, dove si trovava in quel momento il pontefice Giulio II, nell’estremo tentativo di ottenere la liberazione del suo signore.

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opere di difesa

A «far bastioni» Dalla lettura di alcune fonti scritte cinquecentesche, i diari di Marin Sanudo per esempio, Bartolomeo figura come vero e proprio protagonista della riorganizzazione difensiva dello Stato veneto. Non si tratta di un’attività di semplice munizione o rinforzo delle difese urbane, ma di una radicale trasformazione architettonica sulla base di un nuovo concetto di difesa, che segna il passaggio da una tradizione medievale a una fase moderna. Nuove armi, da fuoco, esigono un nuovo disegno di angoli e spessori di mura, e Bartolomeo appare in questo ambito innovatore e sperimentatore, spesso al fianco di altri grandi architetti del suo tempo come il frate domenicano («dottissimo» lo definisce Raffaello) di Verona Giovanni Monsignori, piú noto come fra’ Giocondo. Ma seguiamo direttamente l’attività di Bartolomeo: già dalla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, nella sua terra umbra, si occupa della ricostruzione delle mura delle rocche di Porchiano, Todi, Guardea (1488) e inizia la fabbrica del suo castello di Alviano, che terminerà nel 1506. Nel 1497 Il letterato e uomo politico veneziano Andrea Navagero (1483-1529), in un dipinto di Raffaello. 1516. Roma, Galleria Doria Pamphili. Il 10 novembre 1515, durante i funerali celebrati nella basilica di S. Marco, Navagero recitò un’orazione funebre per Bartolomeo d’Alviano.

Bartolomeo è a Bracciano e per difendere il castello dagli assalti di papa Alessandro VI aveva costruito bastioni e scavato terrapieni. Tra il gennaio 1499 e il gennaio 1500 è documentato «a far bastioni» nelle difese di Aversa, Bibbiena e Rimini; nell’agosto dello stesso anno inizia a lavorare a un progetto unitario di difesa dei confini orientali e settentrionali dello Stato veneto: nella «Patria di Friul»; Rovereto (1502); Cremona (1504); Gorizia, Duino, Trieste, dove raccomanda di «far uno porto» (1508); Belluno, Cadore, Vicenza, Legnago «col parer di fra Jocundo» (1509). Il 15 maggio di quell’anno Bartolomeo viene sconfitto ad Agnadello e fatto prigioniero in Francia per quattro anni. Appena rilasciato, rimessosi al lavoro con la medesima cura del passato, è preposto al governo delle nuove fortificazioni di Padova, Treviso e Legnago già intraprese da fra’ Giocondo e Sebastiano Mariani (da Lugano). Dal 1513 all’anno della morte Bartolomeo segnerà con la sua frenetica attività le linee di sviluppo di alcuni tra i principali centri urbani dello Stato veneto: Padova, Treviso, Verona, Brescia e Crema.

militare e ritemprarsi attraverso le dispute letterarie e filosofiche. Ma tutto questo ebbe vita breve, e nel luglio del 1509, come già detto, Bartolomeo è prigioniero in Francia.

Moderato con le donne

Racconta chi lo conosceva bene che il condottiero era «incline alla libidine ma moderato con le donne». In effetti si sposò soltanto due volte, la prima nel 1482 con Bartolomea, cugina del suo protettore Virginio Orsini e sorella della Clarice che andò in sposa a Lorenzo de’ Medici. Il legame con Bartolomea durò fino al 1497, quando, nella strenua difesa del castello Orsini di Bracciano contro gli assalti di papa Alessandro VI Borgia e di suo figlio Cesare, la donna non riuscí a superare l’assedio. Nel febbraio dell’anno successivo Bartolomeo convola a seconde nozze con la sorella del perugino Giampaolo Baglioni, Pantasilea. Narrano le cronache di celebrazioni e banchetti fastosissimi, con celebri personalità, appositamen-

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te giunte per l’occasione, omaggi da parte dei castelli e delle città dell’Umbria. Ma quello che qui piú interessa è un episodio invero tragicomico che vide come protagonista un noto architetto militare, studioso di matematica e meccanica di nome Giovan Battista Danti, soprannominato «Dedalo», fratello di Piervincenzo, anch’egli affermato matematico. Vale la pena di trascrivere qui di seguito la cronaca nella traduzione che ne fece Lorenzo Leoni nel suo libro sulla vita di Bartolomeo edito nel 1858: «Giovanni Battista Danti avea composto un ordigno di ali con la debita proporzione al suo corpo, e acconciatele a volare; parecchie volte ne fece esperimento con felice successo in sul lago Trasimeno. Volle in appresso darne spettacolo quando per le nozze della sorella di Gian Paolo Baglione con Bartolomeo d’Alviano erano a Perugia molti chiarissimi uomini convenuti. E ben lui vide l’affollato popolo volar per l’aria di molte penne recinto, e con un gran

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protagonisti bartolomeo d’alviano la giostra

Per dar «piacere a tutti» Riportiamo di seguito le istruzioni di Bartolomeo d’Alviano per la Giostra di Padova dell’11 febbraio del 1515, a cui parteciparono 60 cavalieri, in tre giorni di gara; ne uscí vincitore Bino da Perugia: Se fa pubblico e noto come lo illustrissimo sig. Bartholomeo Liviano Capetanio general de la illustrissima Signoria da Venetia ha deliberato si per dar solazo et piacere a tutti come per exercitar et a tenere le gente darme: far una jostra adi 11 febraro proximo in questa cità de Padoa: sopra el prato de la valle a ferri moladi, et arme gagliarde da bataglia: et donar al vincitor una borsa cum ducati cento d’oro: Primo che tutti quelli vorano giostrare debano otto zorni avanti la giostra, zoe per tutto el quarto zorno del predicto mexe de febraro, venir o mandar a farsi scrivere altramente passato el ditto termene non potrano correr. Che tutti quelli sarano scripti debano jurar de correr sinceramente, et senza odio et passione, et che dapoi la giostra non porterano odio ad alcuno per qualunque causa che giostrando fosse occorsa. Che tutti debbano venir armati de bone forte e rinforzate arme et bene a cavallo, et correr possi cadauno sei volte con lanze a ferri moladi vinto il segnal gli sarano date per il dito illustr. Sig. Capetanio et colui che hara piú botte haver debia el premio. Che tutti debano portar le loro lanze bone et far bono incontro, et chi ferira la fibia de la coraza zoe dal mezo el peto in suso, guadagni una botta rompendo la lanza, et non rompendo meza botta. Chi dara in la bracciera et rompera la lanza guadagni due botte, et non rompendo una botta. Chi romperà la testa vinto tre botte, non rompendo due.

Chi romperà nel spalaro o spalarolo et lo disarmerà guadagni due botte non rompendo e disarmando una botta, non rompendo ne disarmando mezza botta. Chi butterà l’homo e lo cavallo per terra et rompi la lanza guadagni cinque botte, et tutte le botte del buttato, non rompendo guadagni quattro botte e quelle del buttato. Chi butterà l’homo netto de la sella et rompi la lanza sua, guadagni sei botte et tutte le botte del vinto non rompendo cinque botte e quelle del vinto. Chi correndo apogerà la lanza a lorlo de nla sella, o veramente romperà la lanza nela sella e signera da la fibia de la coraza in zoso perderà le botte, e usiran da la giostra. Chi darà al cavalo del compagno perdano le botte sue et esca da giostra et guastando el cavalo lo pagi. Che cadauno possi senza esser cazato de giostra mutar ogni pezo de arma excepto el corpo de la coraza, et lo elmo, et possi etiam mutar cavalo per stracchezza o per altro caso, et sella quando se rompesse e guastasse. Che cazando de giostra uno el suo compagno, possi expectare uno altro scontro, trarsi l’elmo et refrescharsi et occorrendo chel non havesse scontro possi correr cum colui che havera i fate piú botte. Dechiarando che li primi che verano a farsi scriver primi correrano atobrini secondo parera a lo illustriss. Sig. Capetanio general [...]. Et acciò chel vincitor reposi da la vittoria sua compiutamente honor et guadagno lo illustrissimo signor Capetanio general promete sel sara de la sua compagnia ultra el dono de li ducaticento accresserli ducati 50 de stipendio, et exhortara tutti li magnifici conduttieri a far el medesmo verso li soi. (da Padova, 27 gennaio 1515). Scena di combattimento tra cavalieri durante una giostra, particolare di una miniatura tratta da Le Livre des Tournois du roi René d’Anjou. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


dimenare di due grandi ali. Ma il ferro che la sinistra ala sosteneva si ruppe e non potendo un’ala sola sostenere il peso del corpo venne a cadere in sul tetto di S. Maria, e si ruppe una gamba, mercè dei cerusici poi risanò».

Con il re di Francia

Il 1515, ultimo anno della vita di Bartolomeo d’Alviano, si apre con una grande giostra da lui stesso organizzata a Padova, «per dar solazo et piacere a tutti come per exercitar et a tenere le gente darme», in onore del nuovo re di Francia, Francesco I (il gioco delle alleanze vede ora Venezia al fianco dei Francesi contro il ducato di Milano), nella quale 60 cavalieri si contesero una posta del valore di 100 ducati d’oro. Piú tardi, nel mese di giugno, Bartolomeo ha ai suoi ordini 730 lance, 2500 fanti e 1200 cavalli leggeri. Riduce di una paga lo stipendio dei suoi uomini e impone a tutti il taglio della barba. A causa dell’avanzata degli Spagnoli, rientra in Padova. Ordina l’impiccagione di due fanti della compagnia di Renzo di Ceri, perché, trovandosi senza denaro, hanno rubato del pane. In agosto i Francesi entrano nel ducato di Milano controllato dagli Svizzeri, provocando la ritirata delle truppe spagnole. Dopo aver ottenuto la resa di Cremona, Bartolomeo si dirige verso Lodi per cercare di ri-

Il museo

La rocca di famiglia Il sito del castello di Alviano fu scelto per edificarvi una fortezza già sul finire del X secolo. Situato in posizione dominante, sulla sponda sinistra del Tevere, viene ricostruito a partire dal 1495, in forme che ancora oggi conserva senza grandi variazioni. La sua importanza strategica ne fa l’oggetto di ripetute dispute fra Guelfi (tra i quali è schierata la famiglia di Bartolomeo) e Ghibellini. In particolare, subisce pesanti devastazioni per mano dei Chiaravalle di Todi, nemici storici dei signori d’Alviano. Il 28 giugno il fratello di Bartolomeo, Bernardino, firma ad Amelia una «pace», in cui si stabilisce, tra le altre cose, che «la rocca di Alviano si acconci solummodo per poterse abitare non ampliando né alzando altrimenti, non facendo torri, né merli, né piombatori, né alcuna altra generazione de difesa, ma solum copiosa per abitazione». In seguito, ancora grazie a Bernardino, nel castello fu impiantata una delle piú importanti fonderie di cannoni dell’Umbria. A Pantasilea, vedova di Bartolomeo, si deve invece la

presenza di un grande pittore ad Alviano, Giovanni Antonio da Pordenone, autore di affreschi nella chiesa del borgo e nel castello. Nel 1543 il castello passa alla Camera Apostolica, per poi entrare a far parte dei beni controllati da Pierluigi Farnese, figlio di Paolo III. La rocca è oggi sede del Comune di Alviano al piano superiore e di un centro convegni al pianterreno. Il seminterrato, invece, ospita il Museo della civiltà contadina «La terra e lo strumento» e il Museo multimediale di Bartolomeo d’Alviano e i Capitani di Ventura umbri. Info tel. 0744 905028; www.sistemamuseo.it A sinistra il castello di Alviano (Terni) nelle sue forme attuali. In alto lettera autografa di Bartolomeo scritta nel 1499 dal castello di Alviano e indirizzata ai Priori della città di Todi contenente la richiesta di pagamento di un debito di 205 ducati d’oro. Todi, Archivio Comunale.

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protagonisti bartolomeo d’alviano Dalla campagna alle armi La battaglia di Marignano, miniatura su pergamena attribuita al Maestro de la Ratière. Inizi del XVI sec. Chantilly, Musée Condé. Combattuto nel settembre del 1515, lo scontro fu vinto dalle truppe franco-venete guidate da Bartolomeo d’Alviano e Gian Giacomo Trivuzio contro le milizie svizzere al servizio di Massimiliano Sforza. Nel XIV sec. in Svizzera, a causa di trasformazioni economiche che allontanarono i contadini dalla terra, gli uomini si specializzarono nell’esercizio

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delle armi, favorendo la formazione del mercenariato. Nel XV sec. gli Svizzeri divennero i mercenari per eccellenza, talmente consapevoli della loro superiorità tecnica da pretendere una paga piú alta degli altri soldati. A essi, in seguito, si unirono uomini provenienti dalla Germania meridionale, dando vita ai reparti noti con il nome di Landsknecht (Lanzichenecchi, letteralmente «servi di campagna», per sottolinearne l’origine), famosi e temuti nel XVI e nel XVII sec.

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congiungersi con le armate di Francesco I, giunte a Marignano (oggi Melegnano), cittadina sul fiume Lambro che aveva un importante ruolo strategico e logistico.

L’ultima vittoria

Qui si svolge la battaglia decisiva per il controllo di Milano contro gli Svizzeri, usciti il pomeriggio del 13 settembre da Porta Romana e diretti verso i Francesi. Bartolomeo, alla guida dei Veneziani, prende alle spalle gli armati svizzeri e, in uno scontro di straordinaria violenza,

ne lascia sul campo quasi 14 000 senza vita. Ai primi di ottobre il condottiero umbro è nel castello di Ghedi, alle porte di Brescia, gravemente malato, forse a causa delle complicazioni di un’ernia o di un’occlusione intestinale. Alcuni medici cercano di prestare le loro cure, ma invano: Bartolomeo, munito dei sacramenti cristiani, muore poche ore piú tardi, senza fare testamento. È il 7 ottobre del 1515. Come ultima forma di rispetto che i soldati tributarono al loro Capitano Generale, la salma fu

portata a Venezia in una marcia che durò venticinque giorni, passando per Verona, senza chiedere alcun salvacondotto a Marcantonio Colonna che controllava la città. Il sabato 10 novembre – narra il letterato veneziano Marin Sanudo il Giovane (1466-1536) – «pocho avanti vesporo» si celebrarono le solenni esequie nella basilica di S. Marco, «per tutta la terra fo fato serar le botege». La compagnia di San Marco «havia la cassa coperta d’oro con uno cussin d’oro sopra et il stoco di dito capitaneo, et sopra loro messeno la coperta di la scuola di veluto cremesin bellissima; la qual cassa portava li soi zentilomeni vestiti di negro, e drieto assà di so’ soldati. Et sonando le campane a San Marco et a San Stefano veneno per la via di San Moisé, San Fantin, San Anzolo, San Stefano». Il Patriarca «fece l’oficio» mentre l’orazione funebre «la qual duroe hore e fo laudata assai» fu affidata ad Andrea Navagero, poeta e amico di Bartolomeo. «Et il corpo poi posto in una cassa coperta di pano d’oro, fo messo in dita chiesia [di Santo Stefano] in deposito sopra una porta, dove è al presente. Dito signor Bartolomio havia anni [60] quando el morite. É stato homo d’assai, et fedelissimo a la Signoria et solicito, ma un poco sbarajoso». F

Da leggere U Lorenzo Leoni, Vita di Bartolomeo

d’Alviano, Natali, Todi 1858 (anche on line: www.books.google.it) U Piero Pieri, Bartolomeo d’Alviano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. II, 1960 (anche on line: www. treccani.it) U Lionello Puppi, Bartolomeo d’Alviano e la riforma delle mura medievali nello Stato Veneto, in Cesare De Seta, Jacques Le Goff (a cura di), La città e le mura, Laterza, Roma-Bari 1989 U Renata Fabbri, Bartolomeo d’Alviano, condottiero e mecenate, e l’«Accademia Liviana», in La Serenissima e il Regno, a cura di Davide Canfora, Angela Caracciolo Aricò, Cacucci, Bari 2006

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costume e società la cartapesta

Il riscatto della di Maria Paola Zanoboni

straccia

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Fin dall’antichità, materie prime degli scultori furono soprattutto la pietra, il legno e la terracotta. Tuttavia, forse a seguito di un’invenzione maturata nella Cina dei primi imperatori, vi fu anche una copiosa produzione di opere realizzate attraverso uno dei primi esempi di «riciclaggio» della storia...

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carta

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e origini dei manufatti in cartapesta vanno fatte risalire, con ogni probabilità, alla Cina del II secolo d.C., come diretta conseguenza dell’invenzione della carta: in Manciuria, infatti, sono stati rinvenuti alcuni oggetti di uso quotidiano ed elmi da parata realizzati con questo materiale. Successivamente quest’arte basata sulla lavorazione della carta si diffuse in Persia e in India, mentre non sappiamo quando sia giunta in Europa. La piú antica testimonianza in proposito viene fornita da Giorgio Vasari, il quale, riferendosi a Jacopo della Quercia (Siena, 1374-1478) gli attribuisce l’ideazione di un materiale molto simile alla cartapesta e di un procedimento ancora utilizzato dagli artisti cinquecenteschi per realizzare i modelli delle opere importanti. I pregi di un simile prodotto erano rappresentati, sempre secondo Vasari, dalla leggerezza e dalla capacità di imitare materiali piú pregiati come il marmo. Jacopo della Quercia aveva sperimentato la nuova tecnica per una commessa importante: si trattava, del monumento equestre del condottiero Giovanni Ubaldini, da collocare nel Duomo di Siena. L’opera, infatti, era stata concepita nel segno di uno sperimentalismo del tutto nuovo, prevedendo un supporto in legno «fasciato di fieno e stoppa», assicurando il tutto con corda, e ricoprendolo con «terra mescolata con cimatura di panno lano, pasta e colla»: praticamente una serie di materiali riciclati e un procedimento molto simile a quello in seguito utilizzato per le sculture in cartapesta. Ancora a Giorgio Vasari si deve attribuire una delle rare menzioni dei contemporanei sull’impiego della cartapesta in epoca rinascimentale: nella Vita di Michelangelo,

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si legge che un modesto pittore del Valdarno avrebbe fatto realizzare dall’artista già celebre il modello di un Crocifisso da cui trarre calchi in cartapesta e stucco che avevano un ampio mercato all’epoca tra le persone di ceto medio.

Opere «povere e in serie»

La vicenda si inserisce, dunque, in quel recente filone di ricerche che ha saputo individuare, accanto alle produzioni di lusso del Rinascimento, un universo di produzioni minori, realizzate per cosí dire «in serie», con materiali poveri, ma che al lusso cercavano in qualche modo

In alto Madonna col Bambino (detta Madonna delle candelabre), rilievo in cartapesta dipinta. Bottega fiorentina di Antonio Rossellino. Ultimo quarto del XV sec. Tolentino (Macerata), Museo del Santuario di S. Nicola. Nella pagina accanto Ecce Homo, scultura in cartapesta dipinta. Bottega fiorentina, 1500-1525 circa. Bibbiena (Arezzo), chiesa di S. Lorenzo.

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costume e società la cartapesta di avvicinarsi. E proprio su questo tipo di produzione, che andava dalla bigiotteria realizzata con gioielli in vetro montati sull’ottone, alle piccole Madonne in gesso, agli arazzi «millefiori» fatti in serie con figure «prefabbricate», piú che sulle opere di grande impegno o sui capolavori, basarono la loro fortuna economica molte importanti botteghe rinascimentali. E anche la riscoperta della cartapesta si può imputare con tutta probabilità a questa esigenza di realizzare con materie prime povere oggetti il piú possibile raffinati. Un secondo motivo che può aver indotto all’utilizzazione di questo materiale va individuato nell’esigenza incessante di sperimentare tecniche nuove, che caratterizzava la maggior parte degli artisti dell’epoca, primo fra tutti lo stesso Leonardo, il quale non disdegnava affatto gli aspetti economicamente positivi ottenibili dalla sperimentazione di nuovi materiali. Il genio vinciano,

per esempio, aveva dato un contributo notevole alla creazione delle perle artificiali, e aveva in piú occasioni calcolato con precisione i benefici economici che si potevano trarre dal ricorso alle nuove tecnologie.

Leggera, ma resistente

Nella scultura, questa esigenza di sperimentazione si esplicò soprattutto nelle opere polimateriche, come la Madonna dei Cordai di Donatello, realizzata con materiali di vario tipo, tra cui cuoio e tessere di vetro, ottenendo un effetto plastico e un impatto cromatico e luminoso particolarissimi. Donatello stesso utilizzò poi abbondantemente le potenzialità espressive dell’impasto di cartapesta nella realizzazione di numerose figure sacre: la malleabilità e la leggerezza di questa materia, infatti, si prestavano assai bene all’accentuazione dei caratteri realistici e a una modulazione piú morbida e soffusa delle forme. Proprio grazie all’esem-

pio di Donatello la cartapesta si diffuse in seguito nelle maggiori botteghe toscane. All’affermazione della cartapesta, tra Quattro e Cinquecento, contribuí anche il proliferare degli allestimenti effimeri in occasione di feste, cortei e celebrazioni particolari: questo materiale leggero, resistente ed economico si rivelò, infatti, indispensabile per la realizzazione della maggior parte degli apparati decorativi. Una delle prime attestazioni di tale pratica risale al 1461 ed è contenuta nelle Ricordanze del pittore fiorentino Neri di Bicci, la cui bottega riceveva spesso commissioni dai migliori scultori residenti in città, che gli facevano rifinire, colorare e ornare tabernacoli e piccole immagini. Nel 1461, appunto, il pittore annotò nel suo libro di conti di aver ricevuto da Giuliano da Maiano l’incarico di colorare le figure dei Quattro Evangelisti fatte di «charta impastata» e destinate agli allestimenti per la fe-

ex voto

Con volti e mani di cera Anche se oggi ci sfugge quasi completamente, la produzione di manufatti polimaterici dovette essere vastissima, e straordinaria la loro presenza e il loro impatto visivo soprattutto nelle chiese. Cartapesta promiscuamente combinata con stucco, stoffa, cuoio e metallo compone le statue del Santuario della Madonna delle Grazie a Mantova, unico esempio superstite di luogo di culto addobbato ancora in questo modo. Un aspetto simile doveva presentare la chiesa della Santissima Annunziata a Firenze, ancor oggi ricchissima di ex voto in argento, e tavolette dipinte, ma un tempo affollatissima di sculture e manichini votivi a grandezza naturale. Erano soprattutto figure con volti e mani di cera, capelli veri, abiti in tessuto, armature contraffatte, cavalli. La consuetudine di «porre immagini» alla Santissima Annunziata durava almeno dalla metà del Trecento e la richiesta di ex voto era tale che numerose botteghe si erano specializzate in questo genere di

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articoli. Nonostante i tentativi delle autorità pubbliche di limitarne la proliferazione, la produzione di manichini aveva assunto aspetti inquietanti: un viaggiatore olandese racconta che in una zona del santuario fiorentino si potevano vedere «i feriti, gli impiccati, i torturati, i naufraghi, gli imprigionati, i malati, le donne incinte stese sul letto, tutti rappresentati da statue». Sempre secondo le testimonianze coeve, nella via dei Servi, che porta alla chiesa, pullulavano botteghe stracolme di teste, braccia, gambe, e delle piú varie parti del corpo umano in cartapesta. Dunque manichini e membra sparse in cera, stucco e cartapesta, o di tutti questi materiali contemporaneamente, erano affastellati ovunque nella chiesa, conferendole un aspetto grottesco. La consuetudine durò fino al Cinquecento, quando iniziò lo sfoltimento della selva di statue, progressivamente sostituite da ex voto in argento e tavolette dipinte. Negli stessi anni in cui molti artisti si cimentavano con la cartapesta, si sperimentavano anche altri

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sta patronale di San Giovanni. Altre decorazioni effimere in cartapesta vengono attribuite da Vasari a Filippo Brunelleschi che, per la festa dell’Annunziata, sempre a Firenze, realizzò sulla piazza antistante la chiesa gli «ingegni del paradiso di San Felice».

Un cavallo «di terra e cimatura»

Ancora Vasari narra che Jacopo Sansovino e Baccio da Montelupo allestirono una ricchissima coreografia in cartapesta per la visita di Leone X a Firenze, nel 1514. Ritroviamo poi Sansovino a plasmare in materiali poveri «un cavallo di tondo rilievo, tutto di terra e cimatura» per la piazza di S. Maria Novella. Un monumento simile «a rilievo tondo e dorato» era stato realizzato nello stesso periodo, sempre a Firenze, in memoria di Pietro Farnese, e rimase nella chiesa di S. Maria del Fiore fino al 1842.

prodotti piú complessi, costituiti dall’aggregazione nella stessa scultura di molteplici materiali abilmente plasmati e modellati, con cui si ottenevano risultati di notevole complessità tecnica. Tali opere si definiscono appunto «polimateriche», e, sebbene fossero ampiamente diffuse nel Rinascimento, la loro facile deperibilità ne ha lasciate scarse tracce. Vi si specializzò nella prima metà del Cinquecento una bottega di Sansepolcro, quella di Romano Alberti detto il Nero (morto nel 1568), capace di realizzare oggetti particolarissimi attraverso uno straordinario dosaggio di materiali poveri sapientemente modellati e assemblati tra loro, fino a ottenere un effetto di estrema esuberanza decorativa. La bottega dell’Alberti era orientata a una produzione seriale di alto livello, ne uscivano numerosi esemplari di «statue

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In basso scultura polimaterica raffigurante San Rocco, opera di Romano Alberti, detto il Nero. 1528. Umbertide (Perugia), Museo Civico di Santa Croce. Nella pagina accanto scultura polimaterica raffigurante Carubina di Mence, opera di Romano Alberti, detto il Nero. 1559. Torino, Museo Civico d’Arte Antica.

In alto Madonna dei Cordai, opera polimaterica attribuita a Donatello. 1433-1435. Firenze, Museo Stefano Bardini.

da vestire» a soggetto religioso (San Rocco, Madonne con Bambino, statue da processione). Per le imbottiture interne si utilizzavano stoffa rinforzata con colle animali e gesso; stoppa per i capelli; legno per la struttura di sostegno della figura, mentre chiodi, fili di ferro, ed eventualmente anche oro, argento e ornamenti preziosi venivano utilizzati per rifinire le figure. Se i materiali impiegati erano in genere particolarmente poveri, la capacità di un artista di assemblarli e modellarli creando effetti plastici, cromatici e luminosi del tutto nuovi poteva nobilitarli facendone creazioni uniche. Tali erano, per esempio, il già ricordato monumento equestre del condottiero Giovanni Ubaldini, di Jacopo della Quercia, costituito da un supporto in legno «fasciato di fieno e stoppa», e ricoperto con «terra mescolata con cimatura di panno lano, pasta e colla», e la Madonna dei Cordai di Donatello (conservata a Firenze, al Museo Bardini), ottenuta da un miscuglio di cuoio, stoffa, colla e tessere di vetro.

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costume e societĂ la cartapesta

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Madonna col Bambino e tre cherubini, rilievo in cartapesta dipinta. Opera di uno scultore fiorentino attivo nel XIX sec., da Benedetto da Maiano (1442-1497). Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

le ed economica, soprattutto dopo che il boom dell’arte della stampa aveva enormemente aumentato la produzione cartaria. Come già accennato, lo sperimentalismo tecnico di Donatello contribuí in modo determinante alla diffusione del nuovo materiale: dopo di lui, quasi tutte le botteghe dei grandi scultori fiorentini dedicarono alla cartapesta una parte della loro attività, replicando opere importanti e di grande successo (soprattutto le Madonne con Bambino). La tipologia produttiva riguardava talvolta anche immagini come gli «Ecce homo», che interpretavano con toni cruenti, vicini alla devozione popolare, i modelli degli artisti maggiori. La cartapesta trovava poi spazio negli impieghi piú vari: tabernacoli, cornici, decorazioni di ogni tipo. Spesso venne sostituita allo stucco

dorato su fondo azzurro; le pareti sono scandite da 12 lesene in legno e cartapesta dipinte in oro e azzurro. Altri soffitti con fregi perimetrali di questo materiale si trovano in un importante palazzo cittadino. La diffusione della cartapesta fuori dalla Toscana poteva contare già nel XV secolo su numerosi centri di produzione in tutta la Penisola: dal Veneto all’Italia Centrale, da Bologna a Mantova, da Napoli a Lecce.

Furono poi numerosi gli allestimenti effimeri ideati a Firenze in ogni occasione durante tutto il Cinquecento, quando non era raro che il cortile di Palazzo Vecchio venisse addobbato con «putti, capricorni e teste in terra e di cartapesta». Con La fortuna del genere lo stesso metodo Domenico BeccaNel Veneto, in particolare, la tradifumi elaborò la statua equestre di zione della cartapesta (che con l’arCarlo V per la sua entrata a Siena, tigianato delle maschere è giunta nel 1536, che viene descritta, anfino a noi) dovette costituire già nel cora da Vasari, come «un cavallo Quattrocento una parte importante di tondo rilievo (…) tutto di cardelle attività di molte botteghe. La tapesta e voto dentro (…) retto da pratica della scultura «a pesto», o a un’armatura di ferro». Si trattava calco, è testimoniata, per esempio, di un’opera di «smisurata grandezdalla produzione in serie di Crociza», come affermavano le cronache fissi realizzati nell’atelier senesi, «con tutte le sue parti di Giovanni Teutonico, ben proporzionate», col caLeggerezza e malleabilità si uno specialista nella sculvallo «tutto bianco, con fornimenti dorati, fermo tutto prestavano all’accentuazione dei tura lignea di grande successo. Il flusso di opere e ne’ piedi dietro, et li davanti caratteri realistici di artisti dalla Toscana in aria palleggianti, con l’Imal Veneto è rappresentaperatore armato in sella, (…) to ai massimi livelli nel XVI secolo con ghirlanda e lauro in testa». Il e alla pastiglia nelle decorazioni pada Jacopo Sansovino, trasferitosi a cavallo calpestava tre principi sot- rietali, al punto che il Pinturicchio Venezia dopo il sacco di Roma del tomessi dall’imperatore e il mo- realizzò proprio in cartapesta la ma1527. Anche alla corte papale quenumento era montato su una base gnifica chiave di volta della Cappella sto materiale riscosse un notevole imponente, recante versi elogiativi Baglioni a Spello. successo. All’inizio del Cinquecento delle imprese militari di Carlo V. Durante il Quattrocento l’opera Clemente VII, per la sua residenza dei cartapestai è documentata a FiCome «pitture a rilievo» di Orvieto, commissionò ad Antorenze, ma anche a Siena e nel suo L’uso di ricavare calchi da rilievi di territorio, impegnati nella produnio da Sangallo un pozzo il cui movario formato per ottenerne scultu- zione sia di immagini devozionali ex dello venne realizzato dall’artista in re in serie poco costose, di gesso o voto, sia di cornici dello stesso matelegno e cartapesta. di cartapesta, rappresentò dunque riale, che potevano ornare i dipinti Piú tardi, nella Roma berniniana, un’attività redditizia non disdegna- dei maggiori maestri. Soprattutto il genere ebbe la sua massima esplota dalle maggiori botteghe fiorenti- a Siena le decorazioni in cartapesta sione con gli apparati decorativi resi ne. La gestione della produzione, divennero una vera e propria moda: preziosi dalle finzioni degli argenti, anche nelle sue implicazioni com- dovette farne largo uso la bottega dei marmi e dei bronzi. Molti sculmerciali, era probabilmente affida- di Neroccio di Bartolomeo de’ Lantori, tra cui lo stesso Gianlorenzo ta ai pittori, in quanto la policromia di (1447-1500), pittore e scultore Bernini, ricorsero alla cartapesta per costituiva l’aspetto piú complesso, dotato di grande versatilità e socio la creazione di prototipi di opere da oneroso e qualificante di simili ma- dell’architetto militare Francesco realizzare in altri materiali: in questo nufatti: piú che di «sculture dipin- di Giorgio Martini. Sempre a Siena, modo furono eseguiti, per esempio, te», si trattava di vere e proprie «pit- nell’Oratorio di San Bernardino, la modelli di angeli per il Baldacchino ture a rilievo». di San Pietro. Anche nella Roma cappella di Santa Maria degli Angeli Rispetto alle altre materie plasti- è costituita da un’unica aula rettanbarocca, comunque, accanto a queche (argilla, gesso, cera, cuoio), la golare decorata da un soffitto a cassta produzione artistica si sviluppò cartapesta godeva poi di molti note- settoni lignei «con un cherubino per quella seriale di opere di basso costo voli vantaggi: era piú leggera, dutti- ciascun riquadro in chartapesta», a grande diffusione. Nacque anzi

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costume e società la cartapesta Da leggere U Paolo Torriti, Neroccio di Bartolomeo

de’ Landi e la cartapesta a Siena nella seconda metà del Quattrocento, in Quaderni storico artistici. Arte archeologia architettura storia, Miscellanea I, a cura di Paolo Torriti, Città di Castello, Dipartimento di Teoria e Documentazione delle Tradizioni Culturali dell’Università di Siena (Arezzo), Edimond, Città di Castello 2004, pp.89-108 U La scultura in cartapesta. Sansovino, Bernini e i maestri leccesi tra tecnica e artificio, Catalogo della Mostra, Museo Diocesano, Milano, 15 gennaio-30 marzo 2008, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008

In alto Cristo morto, cartapesta dipinta. Bottega napoletana, XVIII sec. Frasso Telesino (Benevento), chiesa di S. Maria di Campanile. Maddalena in estasi, cartapesta dipinta. Opera di Alessandro Algardi, realizzata da un originale in bronzo, probabilmente dopo il 1635. Perugia, Museo Civico di Palazzo Della Penna.

proprio in quest’epoca la figura del cartapestaio, che divenne una specializzazione distinta dalle altre attività artistiche, sebbene continuasse a rientrare tra le tecniche accessorie delle botteghe degli scultori. Con la definizione di «cartapesta» vengono designate due diverse tecniche artistiche: quella della cartapesta macerata e quella della cartapesta in fogli.

Macerati, pestati e bolliti

Il documento piú antico che descrive il primo metodo (un Libro d’arte conservato a Norimberga) risale soltanto al 1470; prevedeva la macerazione nell’acqua di brandelli di carta, successivamente pestati e fatti bollire per circa due ore. L’impasto cosí ottenuto sarebbe stato poi pressato nei calchi, stagnato con un panno caldo, e lasciato asciugare. Quindi coperto di gesso e dipinto o dorato come fosse legno od altro materiale. Lo stesso sistema, con qualche accorgimento ed evoluzione fu esposto nel 1681 da Filippo Baldinucci nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno: «Cartapesta. Ogni sorte di rottami di carta tenuti per piú giorni in

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origini di questi procedimenti, o la prevalenza dell’uno sull’altro, anche perché la fragilità del materiale non ha permesso che si conservassero esemplari antecedenti il XV secolo, epoca che, del resto, come accennato, dovette rappresentare il culmine di questo tipo di produzione, grazie al massiccio aumento della diffusione della carta seguito all’invenzione della stampa. La carta, a sua volta, già utilizzata nel Trecento, subí un’ulteriore evoluzione e miglioramento quali-

tativo per poter sopperire alle nuove esigenze. Tra le tipologie vendute o presenti negli inventari di bottega si incontra frequentemente anche la carta straccia, che doveva servire per gli imballaggi, oppure per essere impiegata proprio nel procedimento della cartapesta macerata. Entrambe le tecniche furono utilizzate indifferentemente dai grandi artisti: Sansovino, per esempio, preferiva la cartapesta macerata, mentre Bernini utilizzò soprattutto il procedimento della cartapesta in fogli. F

macero in acqua chiara; poi benissimo pesti in mortaio tanto che la macera carta sia ridotta quasi come un unguento. Con questa si fanno le maschere che s’adoperano il Carnevale, e ogni sorta di figure, d’intero o non intero rilievo, di che si abbia la forma di gesso, coprendo con essa cartapesta ben tenera e molle, la superficie incavata della forma …». Un altro documento, sempre del XV secolo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna, riferisce il secondo metodo, quello «per fogli sovrapposti» (definito anche con l’espressione di «papier maché»), consistente nella sovrapposizione di larghi strati di carta, precedentemente immersi nella colla, che potevano essere sagomati liberamente oppure distesi all’interno di forme cave, oppure applicati a calco su di una controforma rigida, o su altra intelaiatura. Una volta asciugata e staccata dallo stampo, la cartapesta veniva rinforzata sul retro con l’applicazione di una tela; si passava quindi alla decorazione della superficie esterna.

L’uso del fuoco

In entrambi i casi, per compattare ulteriormente la superficie, si poteva ricorrere alla «fuocheggiatura», consistente nel passare direttamente sul manufatto ferri arroventati. Seguivano quindi la gessatura, la pittura e l’eventuale rifinitura con foglia d’oro o d’argento. Essendo testimoniate solo a partire dal Quattrocento, risulta difficile stabilire le

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• per info: info@popolanidicividale.it; www.popolanidicividale.it 69



di Francesco Colotta

«Il regno dei cieli come destino nazionale»: cosí è stato definito, non senza una buona dose di enfasi, il sontuoso quanto poco conosciuto passato medievale di questo popolo votato al misticismo. Che, nel XIV secolo, costruì il piú potente regno dei Balcani, con l’ambizione di farne il centro guida della cristianità orientale

L’impero dei Serbi L’albero genealogico dei Nemanjic, dinastia serba, dipinto sulla parete orientale del portico della chiesa dedicata al Cristo Pantocratore e all’Ascensione di Cristo, a Decani, in Kosovo, fondata da re Stefano Uroš III Decanski. 1347 circa. Al centro è raffigurato il principe Stefano Nemanja (1117-1199), fondatore della dinastia.


Dossier

L L

a storia dei Serbi nel Medioevo è un racconto di ascese e cadute, ma, soprattutto, di un mito religioso che sacralizzò il loro martirio. Tormentati da un destino turbolento, i Serbi venerarono i propri sovrani come santi e si votarono all’interpretazione dei segni divini, nella attesa fiduciosa di un prodigio che sarebbe giunto dall’alto. Nei secoli maturarono forme radicali di misticismo, che produssero nella coscienza popolare sentimenti estremi, come l’esaltazione della disfatta in guerra. Su questo humus spirituale, l’epica patriottica costruí il fondamento dell’identità nazionale moderna: la capitolazione rinnovava il senso del sacrificio di Cristo e conduceva alla conquista del «regno celeste». Fu cosí che la cocente sconfitta patita nella battaglia della Piana dei Merli nel giugno 1389 (vedi «Medioevo» n. 161, giugno 2010) assunse i caratteri di un trionfo, ancora oggi celebrato nella piú importante ricorrenza dell’anno, il Vidovdan. Scegliendo di perdere contro gli Ottomani, il condottiero Lazar aveva rifiutato gli onori transitori della vita per regalare la beatitudine eterna alla propria gente, come suggeritogli da una misteriosa apparizione.

San Sava (a destra), vescovo fondatore della Chiesa Ortodossa Serba autonoma e il Gran Principe di Rascia Stefano Nemanja (nella pagina accanto), particolare di un’icona. 1450 circa. Belgrado, Museo Nazionale. Terzogenito del principe Stefano, Sava, al secolo Rastko Nemanjic, cambiò il suo nome nel 1192, scegliendo di ritirarsi nel monastero di S. Panteleimon del Monte Athos. Nella pagina accanto l’albero genealogico della dinastia dei Nemanjic.

L’arrivo nei Balcani

Per ricostruire l’origine dei Serbi occorre risalire alla fine del V secolo, quando gli Slavi giunsero nella penisola balcanica con l’intento di saccheggiare i territori dell’impero romano d’Oriente. Bisanzio cercò di reagire, ma non poté opporre una pronta resistenza. In meno di due secoli le genti slave dilagarono, arrivando a minacciare, insieme ad Avari e Persiani, la stessa capitale Costantinopoli: era il 626 e l’attacco fallí. Gli Slavi, allora, ripiegarono verso nord, ma decisero di non tornare nelle loro antiche regioni, individuate da alcuni storici nel versante settentrionale dei monti Carpazi o nella regione del Dnepr (nell’odierno territorio polacco e

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All’apice della sua potenza, il principe Stefano decise di abbracciare la vita religiosa, ritirandosi nel monastero di Studenica, seguendo le orme di uno dei suoi figli, Sava marzo

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la stirpe dei «santi sovrani» Stefano Nemanja (1166-1196)

Stefano «Primo Coronato»

Vukan

Rastko (San Sava)

Efimia

(1217-1228)

Radoslav

Vladislav

(1228-1234)

(1234-1243)

Stefano Uroš I

Predislav

(1243-1276)

Dragutin

Stefano Uroš II Milutin (1282-1321)

(1276-1282)

Stefano Uroš III Decanski

Anna

Brnjaca

Zorica

Stefano Konstantin

Stefano

Teodora

(1321-1331)

Stefano Uroš IV Dušan

Dusica

Simeone Uroš

Elena

(1331-1355)

Stefano Uroš V «Il Debole» (1355-1371)

Giovanni Uroš

Stefano Dukan

Maria

(1370-1373)

(le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno)

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Dossier ucraino). Si fermarono, invece, nei Balcani, dividendosi in gruppi piú piccoli, privi di una compiuta organizzazione politica. A partire dal VII secolo, nella zona che si estendeva dalla Carinzia, oggi austriaca, al Peloponneso greco si formarono numerosissime comunità. Due tra i molti gruppi presenti mostrarono maggiori capacità di adattamento in quelle zone impervie, trasformandosi presto nelle compagini dominanti: i Serbi e i Croati. Quando Bisanzio riprese il controllo dei Balcani, non applicò un modello di governo centralista sulle

popolazioni slave e vista la crescente forza di quelle comunità, decise di lasciar loro la libertà di nominare un proprio principe (o župan).

In armi contro i Bulgari

Presto, però, Costantinopoli dovette fronteggiare un nuovo nemico nella penisola, i Bulgari, che provenivano da est. Lo scontro coinvolse anche i Serbi, chiamati per la prima volta a rivestire un ruolo di primo piano negli equilibri politici della storia: all’inizio del IX secolo i nomi di principi come Višeslav, Radoslav, Prosigoj e Vlastimir conquistarono

La chiesa di S. Pietro, situata nella periferia di Novi Pazar (nell’attuale distretto di Raška), città sviluppatasi nei pressi del centro medievale di Ras, capitale della regione della Rascia, il principato serbo piú importante durante il Medioevo. L’edificio, uno dei piú antichi monumenti cristiani dei Balcani, costruito tra il IX e il X sec., fu sede vescovile.

una certa notorietà presso la corte imperiale, in particolare Vlastimir, che si era distinto per le sue vittoriose campagne militari contro i Bulgari. I Serbi non avevano ancora un regno, ma occupavano sei distretti importanti: Rascia (l’odierna zona centro meridionale del Paese con in piú il Kosovo), Zeta (il Montenegro), Zahumlje (l’Erzegovina), Travunia (la Dalmazia meridionale con una piccola parte del Montenegro), Pagania (alcune isolette dalmate) e Bosnia (vedi cartina a p. 76). La cristianizzazione sopraggiunse nel IX secolo, grazie all’attività


dei missionari Cirillo e Metodio, a cui l’imperatore d’Oriente aveva affidato il compito di evangelizzare la Grande Moravia, uno Stato che comprendeva le attuali Repubbliche Ceca e Slovacca con l’aggiunta di altri territori circostanti. Il loro apostolato si estese nella penisola balcanica, riportando grandi successi grazie alla scelta di predicare in lingua slava e non in latino. Per l’occorrenza, i due fratelli originari di Salonicco inventarono un alfabeto nuovo, il glagolitico (da glago, verbo) piú tardi sostituito dal cirillico. Con la morte di Cirillo e Metodio la sede delle attività missionarie venne fissata in Bulgaria e lí accorsero i loro discepoli, perseguitati in Moravia e Pannonia dal clero latino. Grazie al nascente impero bulgaro, quindi, lo slavo poté sopravvivere nei riti cristiani, assumendo in seguito un ruolo centrale nella storia della cultura religiosa nei Balcani. I Serbi volevano a tutti i costi

Migrazioni

Il mistero della Serbia bianca Scarse sono le notizie certe sui primi secoli di insediamento degli Slavi nella pianura balcanica e c’è chi ha voluto colmare questa lacuna ricorrendo a una tradizione riportata nel X secolo dal sovrano bizantino Costantino VII Porfirogenito nel De Administrando Imperio. Secondo il monarca, i Serbi, come del resto i Croati, sarebbero approdati nei Balcani solo dopo l’arrivo degli Slavi e degli Avari: vi sarebbero giunti perché chiamati dall’imperatore di Bisanzio, Eraclio I, da tempo alla ricerca di alleati per contrastare gli Avari, i nemici che temeva di piú. Costantino riferisce, inoltre, che i due gruppi ingaggiati dai Bizantini provenivano dalla Serbia bianca e dalla Croazia bianca, regioni poste «in prossimità della Franconia», in un’ampia area geografica oggi occupata da Germania, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Secondo questa versione, quindi, un gruppo consistente di Serbi avrebbe lasciato la propria terra d’origine. Guidati da uno dei due eredi del re, sarebbero stati accolti a Bisanzio e, come ricompensa per i loro servigi, avrebbero ottenuto l’autorizzazione a stanziarsi in Tessaglia, in una zona in seguito chiamata Servija. La versione di Costantino VII, tuttavia, non convinse gli storici della lingua. Esistevano popolazioni serbe nel nord Europa, in Germania, Polonia e anche in Boemia, ma quali rapporti di parentela avevano con i loro omologhi insediatisi nella penisola balcanica? Le differenze linguistiche tra i due ceppi risultavano troppo evidenti per ipotizzare un’affinità etnica.

La cristianizzazione sopraggiunse nel IX secolo, grazie all’attività dei missionari Cirillo e Metodio

servirsi della propria lingua nella liturgia e rifiutarono il cosiddetto approccio «teologico» che privilegiava il latino, il greco e l’ebraico in quanto idiomi di riferimento nel racconto della storia di Cristo. Già dalla fine dell’Alto Medioevo, pertanto, si profilava la tendenza a considerare il linguaggio come un fattore costitutivo dell’identità comunitaria. Si deve dunque ritenere che sia un caso il fatto che i Serbi anticamente usassero la parola jezik (cioè «lingua») come sinonimo del termine «popolo»?

Tempi violenti

Fin dai primi secoli di permanenza nella penisola balcanica, i Serbi furono dilaniati dagli scontri fratricidi, che, nel tempo, favorirono il formarsi di numerosi gruppi clanici. E proprio una disputa «interna» scatenò la guerra contro la Bulgaria dello zar Simeone I, nel X secolo, inaugurando un periodo di violenze indicibili. Lo zar pose la

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Dossier CROAZIA PANNONICA

C CROAZIA

SSERBIA I PAGAN ANIA PAGANIA

RASCIA

ZAH H UML U JE ZAHUMLJE

TRAVUNIA POSSEDIMENTII BIZANTINI

MAR ADRIATICO

ZE TA ZETA A

O IMPERO BULGAR RO BULGARO

A sinistra cartina della regione balcanica con i sei distretti occupati dai Serbi nel IX sec.: Rascia, Zeta, Zahumlje, Travunia, Pagania e Bosnia. Nella pagina accanto resti di fortificazioni, databili al XII-XIII sec., identificati con quelli della città di Ras, presso Novi Pazar, in località Gradina. La città, fondata tra il IX e il X sec., fu abbandonata nel corso del XIII sec.

POSSEDIMENTI POSSED EDIMENTI BIZANTINI BIZANT NTINI

Rascia, il piú forte principato serbo, sotto il suo controllo, attraverso due governanti di sua fiducia, Paolo Branovic e poi Caslav Klonirimovic. La dominazione bulgara favorí ulteriormente la diffusione della liturgia in lingua slava, rafforzando l’inclinazione verso il cristianesimo orientale delle popolazioni serbe che vivevano nell’entroterra. Caslav, in seguito, ritenne piú conveniente sul piano politico legarsi a Bisanzio, tradendo gli impegni con i Bulgari. E, alla lunga, ebbe ragione: Costantinopoli, infatti, prevalse su Simeone I nei Balcani, sventando anche la controffensiva di uno dei suoi successori, Samuele.

La lettera di Gregorio VII

Per la penisola aveva inizio un lungo periodo di assoggettamento a Bisanzio, che decise di sottoporre le province slave al proprio efficiente sistema amministrativo, istituendo vaste regioni o temi, con a capo i governatori, detti duchi. In territorio serbo, intanto, il signore di Zeta, Mihajlo Vojisavljevic, stava accre-

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VOI VODATO VOIVODATO VOIVOD ATO DI GLAD

BOSNIA

POSS POSSEDIMENTI OSSEDIMENTI NT BIZANTINI BIZANTIN TINI

POSSEDIMENTI POSSEDIM POSS EDIMENTI ENTI BIZANTINI

VOIVODATO DI SAL SALAN L AN

scendo in modo considerevole il suo potere. Impresse una svolta politica al suo principato, instaurando uno stretto rapporto con il papa nel periodo successivo al Grande Scisma tra Roma e Costantinopoli. Era il 1077 e l’allora pontefice Gregorio VII in una lettera definí Mihajlo «re degli Slavi»: per la prima volta veniva riconosciuto a un serbo il titolo di sovrano. Alcuni storici moderni hanno ipotizzato che, nella circostanza, il papa abbia spedito, insieme alla missiva, anche la corona e le insegne regie. La corrispondenza di Mihajlo con Gregorio VII segnò il distacco di un’importante comunità slava dalla Chiesa d’Oriente. Lo strappo non appariva sorprendente, considerando che in quel periodo nei territori serbi risiedevano ancora molti cattolici. Un ulteriore distacco da Costantinopoli e dalla cristianità greca si consumò qualche anno piú tardi, quando il figlio di Mihajlo, Costantino Bodin, strinse un sodalizio con alcune potenze cattoliche europee: l’Ungheria della dinastia degli Arpadi e il Sacro

Romano Impero. E per un certo tempo le scelte politico-religiose di Serbia e Croazia sembrarono convergere: nel vicino e rivale regno, infatti, il monarca Dmitar Zvonimir aveva appena ricevuto la corona da Gregorio VII.

I sovrani di Rascia

La Rascia si legò in modo particolare alla corona di Ungheria e le tracce di questo sodalizio divennero evidenti nel XII secolo, con i nomi assunti dai nuovi principi di quella regione: Uroš, dalle chiare assonanze ungheresi. Con Costantinopoli, invece, i rapporti si incrinarono ulteriormente, tanto da far crescere nei Bizantini un diffuso sentimento antiserbo di cui si trova traccia in alcuni scritti dell’epoca. Nel XII secolo il patto con gli Ungheresi e la politica antibizantina accompagnarono l’ascesa di un ramo laterale della dinastia dei sovrani di Rascia, i Nemanjic, che riuscirono nell’impresa di conquistare gran parte degli altri principati. Il capostipite, Stefano Nemanja, pemarzo

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Dossier monasteri

Tra Roma e Bisanzio I monasteri medievali serbi di stile romanicobizantino sono una delle maggiori attrazioni turistiche dell’intera area ex-jugoslava e testimoniano una virtuosa contaminazione di stili. Nell’arte e nell’architettura impero d’Occidente e d’Oriente convissero in Serbia sotto l’influenza di tre diverse scuole. La scuola di Rascia, risalente al XIII secolo, presenta stili in prevalenza romanici che riflettono l’era antibizantina della monarchia dei Nemanjic. Le piante dei monasteri sono in gran parte allungate, rettangolari con un’abside semicircolare e le decorazioni delle facciate marmoree sono di aspetto tipicamente romanico. L’impronta di questa scuola è ben visibile nei monasteri di Studenica (dove è seppellito Stefano Nemanja), Sopocani, Žica, Mileševa, Moraca (oggi in Montenegro) e Decani (in Kosovo).

Il monastero di Studenica, nella Serbia centrale, dedicato alla Presentazione della Vergine, e fondato nel 1190 da Stefano Nemanja, che qui si ritirò a vita monastica, cambiando il proprio nome in Simeone, dopo aver abdicato in favore del secondogenito Stefano.

rò, decise di riportare il suo popolo sotto l’ala protettiva di Bisanzio e, con una mossa clamorosa, scrisse l’atto costitutivo dell’identità culturale della Serbia. All’improvviso, all’apice della sua potenza, il principe decise di abbracciare la vita religiosa, seguendo le orme di uno dei suoi figli, Sava (battezzato Rastko). Da quel momento la storia serba avrebbe

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Dopo il periodo rasciano seguí quello serbobizantino (XIII-XIV secolo) della cosiddetta «scuola meridionale» che attesta un riavvicinamento politico con Costantinopoli. Il numero delle cupole aumenta, di norma a cinque, e si notano facciate policrome con la presenza di materiali (mattoni e pietra) usati nell’architettura religiosa a Bisanzio. Tra i monasteri appartenenti al periodo della scuola meridionale si menzionano quelli di Gracanica, degli Arcangeli, entrambi in Kosovo e quello di San Giorgio a Staro Nagoricino, in Macedonia. L’ultima scuola, in ordine cronologico, fu quella morava che riprese in gran parte gli stili «serbobizantini». Si sviluppò a partire dalla metà del XIV secolo, caratterizzandosi per l’abbondanza di decorazioni e bassorilievi: tra i piú noti si ricordano i complessi monastici di Manasija e Krušedol.

assunto una dimensione trascendente, procedendo, attraverso i secoli, lungo un percorso disseminato di misteri, segni divini e liturgie. Il grande župan, nel 1196, si ritirò nel monastero di Studenica – oggi Patrimonio dell’Umanità – dopo aver nominato erede il suo omonimo secondogenito. All’altro discendente diretto, Vukan, affidò invece alcuni territori sulla costa dalmata.

Reliquie che stillano olio

La politica stava sfociando nella mistica. Prova ne fu la disputa tra i figli del principe-monaco, Stefano e Vukan, miracolosamente composta dopo la morte del padre. I due si rappacificarono per rispetto nei

riguardi della memoria del capostipite che il sentimento popolare già venerava come un santo. Le sue reliquie, infatti, avevano cominciato a stillare un olio profumato e molti interpretarono l’evento come un segno divino di beatificazione. I Serbi potevano contare da quel momento su un protettore celeste e presto avrebbero avuto anche un grande regno. L’atto di consacrazione si materializzò nel 1217, quando il giovane Stefano II Nemanjic ricevette la corona da papa Onorio III. Nel frattempo Costantinopoli era caduta, dopo il successo della quarta crociata, rientrando nella sfera del cristianesimo latino. (segue a p. 82) marzo

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Re Stefano Uroť II Milutin Nemanjic con in mano il modello della chiesa dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, conosciuta con il nome di Chiesa Reale, da lui fondata nel 1314, all’interno del complesso monastico di Studenica. Affresco, particolare. 1315 circa. Studenica, Monastero, Chiesa Reale.

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Dossier

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Presentazione di Maria al Tempio. 1315 circa. Affresco, particolare. 1315 circa. Studenica, Monastero, Chiesa Reale.

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Dossier A sinistra Cristo e San Pietro, particolare di un affresco del monastero ortodosso di Gracanica, nei pressi della città di Pristina, in Kosovo, fondato dal re serbo Stefano Uroš II Milutin, nel 1321. Sulle due pagine il monastero di Gracanica.

Il monarca, che assunse anche l’appellativo di «primo coronato» (prvovencani) e di «re di tutte le terre serbe e costiere», pretese un’investitura ufficiale anche per la sua Chiesa. L’idea era quella di dotare i suoi domini di un arcivescovado unico, staccandoli dalla giurisdizione di Ragusa, Antivari, Ocrida e Bari. Della questione fu investito direttamente il monaco Sava che, su indicazione del re, si rivolse all’appena costituito impero di Nicea, il piú esteso Stato bizantino sorto dopo la caduta di Costantinopoli. Stefano II aveva deciso di legare il destino

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religioso del suo popolo alla massima autorità di rito greco in segno di omaggio al padre. Preferí rispettare la tradizione familiare, mentre i vicini croati, sotto l’influenza tedesco-ungherese, si stavano ancorando ancor di piú al cattolicesimo. Con l’Occidente latino il primo coronato si limitò a intrattenere contatti solo politici. A Nicea, Sava ottenne subito l’avallo per la costituzione di una Chiesa serba indipendente e ne fissò la sede dapprima a Zica, nella Rascia, e in seguito a Pec, nella regione del Kosovo (oggi marzo

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Stato proclamatosi indipendente), da poco interamente annessa al regno. Con la morte di Sava, un altro santo si aggiunse al patrimonio religioso del regno. E proprio il culto per i Nemanjic favorí il primo processo di unificazione di un territorio divenuto sempre piú vasto ed eterogeneo. L’arcivescovado si impegnò nell’arduo compito di infondere valori comuni nelle diverse comunità, non risparmiando, nel contempo, dure prese di posizione contro le eresie e gli infedeli. Cominciò a manifestarsi una certa ostilità nei riguardi di chi non aderiva al credo della Chiesa serba. Ormai la religione, e non la rivalità politica, creava un solco profondo tra popoli. In alcuni testi serbi gli abitanti della Bosnia venivano dileggiati e definiti «dannati bogomili», «eretici tre volte maledetti». Si trattava, comunque, di fenomeni di fanatismo non ispirati dall’alto, visto che i Neman-

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jic avevano dato ripetute prove di tolleranza sul piano religioso, elargendo contributi per la costruzione di chiese appartenenti anche ad altre confessioni cristiane.

L’ora del grande impero

Il XIII secolo fu anche un’epoca di grande fioritura economica per il regno serbo. La svolta fu determinata dall’immigrazione di un gruppo di minatori sassoni in fuga dall’Ungheria, in quel periodo assediata dai Mongoli. In breve tempo i Tedeschi si resero conto che il luogo in cui avevano trovato accoglienza disponeva di grandi risorse minerarie e decisero di sfruttarle. Aprirono attività estrattive a Brskovo e poi a Rudnik, Trepca, Janjevci e nella piú

celebre Novo Brdo, oggi in Kosovo. Particolarmente redditizio era lo sfruttamento dei giacimenti d’argento, che, in breve tempo, divenne il prodotto di punta della nuova industria del regno. Con l’ascesa al trono di Dušan Nemanjic, nel 1331, la politica espansionista serba nei Balcani subí una rapida accelerazione. Il nuovo sovrano, che assunse il nome di Stefano Uroš IV Dušan, mirava alla costruzione di un grande impero, capace di spodestare Bisanzio dal ruolo di guida della cristianità orientale. Sfruttando le divisioni interne che laceravano Costantinopoli, il re conquistò la Macedonia e parte dell’Albania. Dopo i primi successi, ritenne piú produttivo deporre le armi e scendere a patti con il nemico. Secondo i suoi calcoli, con astuti mezzi diplomatici, si sarebbe potuto impossessare di quel che restava dei grandi possedimenti di Bisanzio. A tal fine progettò un matrimonio dinastico

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Dossier d i

U n g h e r i a

Semlin Semlin

B o s n i a

Scutari Scutari

Durazzo Durazzo

Kroia Kroia Ocrida Ocrida

Priliep Priliep

Castoria Castoria

Corfú

A D D II SS EE RR BB II A

Cattara Cattara

Niš Niš

Impero bizantino Tessalonica Tessalonica

Larissa Larissa

Morea Mistra

Thasos Lemnos Lesbo Chio

Atene Atene

Samsun Samsun Costantinopoli Costantinopoli

Gallipoli Gallipoli

Nicea Nicea

Turchi Ottomani Karasi

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Saruhan Smirne Smirne

Philadelphia Philadelphia

Efeso Efeso

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Mileto Mileto

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Alicarnasso Alicarnasso

Ducato dell’Arcipelago Cavalieri di San Giovanni Creta

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Iconio Iconio

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Regno d’Armenia

Antiochia Antiochia

Regno di Cipro Tripoli Tripoli

Impero bizantino Impero di Trebisonda

Massima estensione del regno di Serbia (al tempo di Stefano Uroš IV Dušan, 1331-1355)

Regno d’Armenia Turchi ottomani Emirati turchi musulmani (beilikati) Regno di Bulgaria

Stati sotto il controllo latino Possedimenti della Repubblica di Venezia Possedimenti della Repubblica di Genova

tra il figlio, di soli cinque anni, e la sorella di Giovanni V, giovanissimo imperatore bizantino. Quindi si proclamò «membro dell’impero greco» (Cesnik Grkom), vale a dire partecipe del governo di Costantinopoli.

Il piú potente dei Balcani

Fu solo il primo passo. Dopo due anni si auto-investí imperatore di una vastissima entità statale, che

E re t n a

Akaray Akaray

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Patrasso Patrasso

Il regno di Serbia nel contesto geopolitico della regione balcanica ed egeo-anatolica.

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Amastris Amastris

Adrianopoli Adrianopoli

Lamia Lamia Lepanto Lepanto

Modon Modon

Sinope Sinope

Filippopoli Filippopoli

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Domini dei Mamelucchi

si estendeva dal Danubio fino al Golfo di Corinto e divenne, in sostanza, il piú potente re dei Balcani. Dušan si definí «imperatore dei Serbi e dei Greci» e, continuando la tradizione della dinastia dei Nemanjic, dichiarò di appartenere alla stirpe dei santi sovrani ortodossi. Riteneva di essere stato investito dal regno celeste, come Costantino il Grande, ma si preoccu-

pò di assicurare, nel contempo, un fondamento istituzionale al proprio potere, ricordando il suo ruolo solo di «compartecipe greco» sui territori ex bizantini, e non di monarca assoluto. Evitò anche di imporre loro i costumi serbi, lasciando un’ampia autonomia ai nobili locali. Con l’arrivo della peste nei Balcani Dušan si impadroní anche dell’Epiro e della Tessaglia. Ormai marzo

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I m p e ro d i Tre b i s o n d a Trebisonda Karahissar

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Aleppo

Mamelucchi

Re Stefano Uroš IV Dušan. Particolare di un affresco del monastero di Lesnovo, nel nord-est della Macedonia, costruito nel 1341 e dedicato a San Michele Arcangelo. 1347-1349. Dopo aver conquistato vasti territori dell’impero bizantino, nel 1346, re Stefano si autoproclamò «imperatore dei Serbi e dei Greci».

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Dossier

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Miloš Obilic

L’incursore nutrito da una cavalla Secondo la tradizione l’audace infiltrato nell’accampamento ottomano che, nella battaglia del Kosovo del 1389, riuscí a uccidere Murad I si chiamava Miloš Obilic. Era serbo? L’attendibilità storica della sua figura è ancora oggetto di discussione. Fino al XV secolo il suo nome non risultò mai citato. Tutti i cronisti, anche quelli di parte ottomana, ammettevano che Murad fosse stato ucciso con l’inganno da un soldato cristiano, ma non fornivano altri particolari. Nel 1402, grazie a un cronista catalano, venne svelata l’identità del misterioso incursore: un cavaliere ungherese. Qualche anno piú tardi una fonte bulgara svelò per la prima volta il suo nome di battesimo, Miloš. Le fonti serbe, a partire dalla fine del XV secolo gli assegnarono, poi, il cognome Kobilic o Kobilovic, affermando che l’eroe apparteneva alla loro stirpe. L’appellativo Kobilic, secondo una tesi «epica», derivava dal termine kobila, ossia cavalla. Una leggenda, infatti, narrava che il soldato Miloš era stato nutrito da piccolo proprio da una cavalla. Dal XVIII secolo il cognome fu trasformato in Obilic, forse perché somigliante alla parola serba obilje che esprimeva il concetto di «ricchezza». Nella pagina accanto Ritratto di Murad I, sultano dell’impero ottomano dal 1359, assassinato nel 1389 durante la battaglia della Piana dei Merli, in Kosovo, da Miloš Obilic. Acquarello del XIX sec. Istanbul, Museo di Arte turca e islamica.

restavano fuori dal suo controllo solo Costantinopoli e la Tracia. Creato l’impero, occorreva unificarlo e procedere alla costruzione di una solida struttura politica.

La legge di Dušan

A questa esigenza rispose solo in parte una raccolta di leggi promulgata nel 1349, il cosiddetto Codice di Dušan, che rappresentò un documento innovativo per l’epoca. Conteneva norme di diritto pubblico, privato, penale ed ecclesiastico e tentò di armonizzare alcune disposizioni tratte dal diritto bizantino con le consuetudini della tradizione serba. Il valore del codice, secondo la maggior parte degli storici, fu piú di carattere tecnico-giuridico piú politico. Secondo il medievista serbo Sima Cirkovic, il codice non poteva essere considerato una «costituzione», né l’espressione di uno «spirito democratico e collettivistico» ante litteram. Nell’ultimo periodo della sua vita

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Dušan intuí che i principali pericoli sarebbero arrivati dai Turchi Ottomani, ma non fece in tempo ad affrontare la battaglia piú difficile contro un nemico che, appena un secolo piú tardi, avrebbe ridotto il suo glorioso regno in una condizione di totale vassallaggio.

Un erede «debole»

Dušan lasciò un impero ancora giovane e troppo frammentato. La concessione di molte autonomie ai territori strappati a Bisanzio si rivelò alla lunga controproducente: con quell’atto magnanimo, credeva di aver comprato la fedeltà dei nobili e dei feudatari che, invece, si ribellarono subito contro il suo successore, Stefano Uroš V, l’ultimo monarca importante della dinastia dei Nemanjic. La rivolta scoppiò nelle regioni greche e costrinse il sovrano a spostarsi a nord. Il debole erede di Dušan assistette impotente alla frammentazione del suo enorme Stato in piccoli principati: nel giro di pochi

l’aquila

Simbolo della dinastia L’aquila bicefala è lo stemma della Repubblica di Serbia dal 2004, ma apparve sulla bandiera nazionale già nel 1882. L’aquila venne adottata dai Nemanjic nel Medioevo come simbolo della loro famiglia, a imitazione di quello della dinastia bizantina dei Paleologi. Nella sagoma dell’aquila è situato uno scudo, anch’esso risalente al Medioevo, con all’interno una croce in campo rosso. Ai quattro angoli compaiono altrettante lettere C rovesciate in cirillico, che indicano il motto, in serbo, Samo sloga Srbina spasava («Solo nell’unità è la salvezza dei Serbi»).

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Dossier l’eredità sassone

Parole da miniera Ancora oggi i segni del contributo sassone allo sfruttamento del sottosuolo si rintracciano in alcune espressioni serbe relative alla terminologia dell’industria mineraria: la parola «pozzo», per esempio, ceh, deriva dal tedesco zeche, come del resto il termine «galleria» (surf, da schurf), «corridoio orizzontale» (stolna da stollen) e «trasportatore» (furnik da fuhre). L’esperienza dei minatori sassoni e il fiuto dei finanziatori di Ragusa (l’attuale croata Dubrovnik) fecero decollare la produzione, dotandola di un’articolata struttura organizzativa, all’avanguardia per quei tempi, che permetteva agli operai di partecipare anche agli utili dell’impresa. L’exploit dell’industria mineraria riempí anche le casse del regno serbo che si concesse alcuni lussi, come la coniazione di monete d’argento sulle quali imprimere l’effigie del sovrano. Uno dei discendenti del primo coronato, Milutin, diventato Stefano Uroš II, imitò il modello di valuta veneziano e per questo subí l’accusa infamante di essere un falsario. L’imputazione fu formulata anche da Dante Alighieri che collocò «quel di Rascia» (cioè il re serbo) tra i «contraffattori». anni la Serbia tornava, in sostanza, alle origini. Quando i Turchi indirizzarono le proprie mire espansionistiche sui Balcani si trovarono di fronte tanti piccoli eserciti, non coordinati tra loro. I potenti fratelli serbi Mrnjavcevic, che controllavano la Macedonia, allestirono una poderosa armata con il patrocinio del re d’Ungheria per respingere il pericolo ottomano. Si spinsero fino ai confini del territorio nemico, ma vennero poi annientati nei pressi del fiume Marizza in Bulgaria.

principi, Lazar Hrebeljanovic e il suo omologo Vuk Brankovic che, consci del pericolo, avevano già stretto un accordo con il re Tvrtko. Nel suo piccolo dominio, Lazar aveva almeno in parte rinnovato i fasti di Dušan, potendo contare sulle grandi risorse finanziarie derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti di argento. Molti profughi provenienti dalle zone sotto controllo ottomano erano accorsi nei suoi territori e a loro si erano uniti artisti, scrittori, architetti e monaci. Il glorioso impero sembrava sul punto di rinascere in Kosovo, nella regione in cui la Chiesa serba aveva stabilito la propria sede ufficiale. C’era un profondo significato religioso in quella restaurazione e ancora una volta si sperava che i santi protettori potessero inter-

La fortezza di Golubac, sul Danubio, nella Serbia centrale. Il complesso, importante nodo strategico di difesa del regno serbo in epoca medievale, fu conquistato dagli Ottomani nel XV sec.

Il ciclone ottomano

Da quel momento i Turchi penetrarono nella parte meridionale dell’ex grande impero serbo. Nel 1385 conquistarono il Montenegro e poi l’Albania, assediando anche Niš. Non trovarono grande resistenza e si dovettero fermare solo in Bosnia, diventata intanto autonoma e potente in seguito all’ascesa del re Tvrtko I. Il monarca, vantando una parentela dai Nemanjic, acquisí anche il diritto di sovranità sui Serbi. Gli islamici, allora, cambiarono strategia puntando verso la regione del Kosovo, dove erano concentrati i piú importanti bacini minerari. In quella ricca area governavano due

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venire con un prodigio. Il Kosovo sembrava un’isola felice. Oltre i suoi confini, infatti, quasi tutti gli altri principati avevano piegato la testa di fronte ai Turchi, diventando vassalli del sultano Murad I le cui mire si stavano estendendo sull’intera penisola balcanica.

La disfatta «mistica»

Lazar e i suoi alleati si prepararono allo scontro. Il 28 giugno (il 15 nel calendario giuliano medievale)

nella piana dei Merli (Kosovo polje), vicino Pristina, il sultano attaccò. A fronteggiarlo trovò un esercito cosmopolita composto da Serbi, Bosniaci, Albanesi, Bulgari, Ungheresi e anche Croati. Lo scontro si risolse in un sostanziale stallo, tanto che, alla fine, non fu possibile stabilire con certezza chi avesse prevalso. C’erano state, comunque, perdite ingenti su entrambi i fronti, che non avevano risparmiato i due principali condottieri. Il sulta-

no Murad era stato ucciso nel suo accampamento da un’audace incursione di un soldato serbo o ungherese che la tradizione identificò in Miloš Obilic. Lazar, invece, era stato decapitato. Una piú attenta analisi dello status quo seguente alla battaglia portò alla conclusione che gli Ottomani avevano vinto. I Serbi riconobbero la sconfitta, ma, nel corso dei secoli successivi, diffusero resoconti dai contorni sovrannatu-


Dossier 28 giugno

Il giorno del destino Il 28 giugno, la festa di san Vito, ricorre in molti momenti chiave della storia serba. La battaglia della Piana dei Merli fu combattuta il 15 giugno secondo il calendario giuliano del Medioevo, ma, in base a quello gregoriano, lo scontro avvenne proprio il 28. Molti secoli dopo, nel 1914, nello stesso giorno, l’arciduca Francesco Ferdinando venne assassinato dal nazionalista serbo Gavrilo Princip. La morte dell’erede al trono d’Austria rappresentò la causa scatenante della prima guerra mondiale. Il 28 giugno del 1948 si consumò il grande strappo tra l’Unione Sovietica e la

Jugoslavia (nella quale la Serbia era inglobata) del maresciallo Josip Broz Tito. Il 28 giugno 1989, ancora, nella Piana dei Merli, il leader della Repubblica di Serbia Slobodan Miloševic tenne il celebre discorso commemorativo della sconfitta subita nel 1389: «Sei secoli dopo, siamo ancora in battaglia», urlò alla folla. Quelle parole rappresentarono uno dei prodromi del conflitto che insanguinò la ex Jugoslavia dal 1991 al 1999. Il 28 giugno del 2001, infine, lo stesso Miloševic comparve davanti alla corte internazionale di giustizia dell’Aja.

In alto il comandante Miloš Obilic guida le truppe durante la battaglia di Piana dei Merli. Stampa a colori novecentesca. In basso la fortezza di Smederevo sul Danubio. Ultimo baluardo della difesa serba, che accoglieva la corte del despota Ðurad Brankovic, fu conquistata degli Ottomani guidati dal sultano Murad II nel 1459.

rali sull’andamento dei fatti. La storia, ancora una volta, veniva letta in una chiave trascendente, in accordo con la tesi mistica del popolo protetto da Dio e dai santi: Lazar non era stato sconfitto, ma aveva scelto egli stesso di condurre le proprie truppe alla disfatta perché consigliato da una visione.

Un popolo eletto

Alcuni racconti popolari narrarono che, nel corso della battaglia, al principe era apparso un falco,

identificato nel profeta Elia. Il volatile aveva recapitato a Lazar un messaggio da parte della madre di Dio, che gli chiedeva quale regno intendesse scegliere tra quello degli uomini e quello divino. Capitolando, avrebbe garantito ai Serbi un destino celeste per l’eternità, il ruolo di «popolo eletto». Il mito del 1389 si sviluppò in Serbia soprattutto nel XIX secolo e prese il nome di «intesa del Kosovo», in riferimento all’accordo che Lazar aveva stretto direttamente


con Dio. A diffonderlo furono, in particolare, due scrittori nazionalisti: il filologo Vuk Karadžic (17871804) nella raccolta di racconti La caduta dell’impero serbo e il principe montenegrino Petar Petrovic Njegoš (1813-1851) nel poema Il serto della montagna. Secondo lo storico statunitense Thomas Emmert, il giugno 1389 rappresentò un vero e proprio «Golgota serbo», un martirio in virtú del quale Dio avrebbe liberato il popolo dall’oppressione.

Il principe divino

La serenità per la beatificazione ottenuta, comunque, convisse sempre con un bruciante desiderio di rivalsa che si trasmise lungo molte generazioni. Il giornalista e scrittore statunitense John Reed in un reportage sulla prima guerra mondiale scrisse dai Balcani: «Ogni contadino serbo sa per cosa combatte; quando era bambino la madre lo salutava dicendogli: ”salve piccolo vendicatore di Kosovo”». Il culto del principe divino Lazar aveva cominciato a diffondersi anche all’indomani della battaglia. Su di lui erano stati scritti testi religiosi che lo descrivevano come un entità sovrannaturale. In una delle biografie si riportava il discorso che aveva tenuto davanti ai soldati prima dello scontro con gli Ottomani. Le sue parole anticipavano già da allora i temi dell’«intesa del Kosovo»: «Abbiamo vissuto a lungo nel mondo; alla fine cerchiamo

di accettare la lotta del martire e di vivere sempre in cielo». L’epopea della sconfitta permise a quel che restava del regno serbo di sopravvivere alla dominazione ottomana. La fede nel destino celeste spingeva i principi a resistere e la popolazione a sperare. Il successore di Lazar, il figlio Stefano Lazarevic riuscí a unificare alcune terre del vecchio impero di Dušan. Pur con gli obblighi feudali nei riguardi dei Turchi, si trovò ad amministrare una parte del Kosovo e la regione di Zeta. Offrendosi, poi, come vassallo anche al re d’Ungheria, ottenne Belgrado e la zona di Srebrenica in Bosnia. I Turchi, sconfitti ad Ankara nel 1402 dalle truppe di Tamerlano, attenuarono il controllo sui Balcani e la Serbia si rianimò non solo politicamente, ma anche sul piano commerciale, artistico e culturale. L’area del Danubio, divenuta il nuovo centro del potere, si popolò di monasteri all’interno dei quali ferveva una ricca produzione di manoscritti religiosi, soprattutto di materia agiografica. Gli Ottomani, però, tornarono presto a farsi minacciosi. Nel 1428 il sultano Murad II guidò una nuova campagna militare e riprese il controllo di gran parte dei territori serbi. Nel 1459 cadde l’ultimo baluardo, la fortezza di Smederevo sul Danubio, dove il successore di Stefan Lazarevic, Ðurad Brankovic, aveva trasferito la propria corte.

Tra Islam e Ungheria

Quattro anni piú tardi anche la Bosnia si arrese e l’asservimento ai Turchi produsse al suo interno una palingenesi religiosa. I signori bosniaci, nel timore di perdere potere, si convertirono dal cristianesimo all’Islam per ingraziarsi i loro nuovi padroni. Eppure gli Ottomani avevano mostrato una grande tolleranza per gli altri culti presenti nel territorio. Si erano preoccupati di dotare i Balcani di un’unità politica di fondo, ma senza imporre le proprie credenze. Accanto ai musulmani potevano

convivere gli zimmi, cioè i cristiani e gli Ebrei, dotati di una parziale autonomia nel professare la loro fede. Rispetto ai fedeli dell’Islam, gli zimmi dovevano versare alcune tasse speciali e destinare i ragazzi puberi alla leva militare obbligatoria. Non fu raro che nell’esercito ottomano facessero carriera ufficiali serbi, come nel caso di Mehmed Pascià Sokolovic, uno dei principali strateghi di Solimano il Magnifico. Molti piú Serbi si trovarono inquadrati, invece, nelle milizie ungheresi e combatterono contro i Turchi. Erano parte di quella massa di emigranti che, dopo la definitiva conquista ottomana, si trasferirono a nord, nell’odierna regione della Vojvodina, allora in mano all’Ungheria. Poi, per alcuni secoli, sulla Serbia cadde l’oblio. V

Da leggere U Sima Cirkovic, I Serbi nel Medioevo,

Jaca Book, Milano 1992 U Stevan K. Pavlowitch, Serbia. La

storia al di là del nome, Beit, Trieste 2010 U Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni. Il Mulino, Bologna 2002 U Luciano Vaccaro (a cura di), Storia religiosa di Serbia e Bulgaria, Centro Ambrosiano, Milano 2008 U Daniel Rogic, Santi della Chiesa ortodossa serba, Servitum, Milano 1997 U Rebecca West, La vecchia Serbia. Viaggio in Jugoslavia, EDT, Torino 2008 U Noel Malcolm, Storia del Kosovo, Bompiani, Milano 1998 U Edgard Hösch, Storia dei paesi balcanici, Einaudi, Milano 2005 U Georges Prévélakis, I Balcani, Il Mulino, Bologna 1997 U Francis Conte, Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi, Milano 2006 U Francis Dvornik, Gli Slavi nella storia e nella civiltà europea, Dedalo, Bari 1993

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luoghi samarcanda

Per le

donne di

Samarcanda, Uzbekistan. La cupola interna, affrescata con arabeschi su fondo bianco, del mausoleo di Shirin Bika Agha, sorella minore di Tamerlano, fondatore della dinastia timuride. Il mausoleo fu costruito nel 1385, nella necropoli di Shah-i-Zinda, che accoglie, tra le altre, molte sepolture femminili della famiglia di Tamerlano. Nella pagina accanto carta dell’Asia Centrale, con la localizzazione di Samarcanda, capitale dell’impero timuride, in Uzbekistan.

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Tamerlano

di Franco Bruni

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A Samarcanda, antica capitale del regno timuride lungo la Via della Seta, sorge il complesso funerario di Shah-i-Zinda, legato alle figure femminili della famiglia del grande condottiero. Mogli, sorelle e personaggi di spicco della dinastia riposano negli splendidi mausolei rivestiti di ceramiche smaltate turchesi, veri capolavori dell’arte e dell’architettura islamica del XIV secolo KAZAKISTAN

Lago d’Aral

SyrDa

Tbilisi

ARMENIA

Mar Caspio

UZBEKISTAN Taskent

Bukhara

Baku

Samarcanda A

Erevan

TURKMENISTAN

Asgabat Teheran

A

IRAN

Mashhad

rteria principale per lo scambio di merci, uomini e conoscenze, tra le terre asiatiche e l’Europa, la Via della Seta si snodava per migliaia di chilometri e le città da essa attraversate hanno rappresentato, per secoli, il luogo privilegiato per i traffici commerciali e culturali, costituendo al tempo stesso una tappa obbligata per artisti, architetti, scienziati che, a vario titolo, hanno lasciato testimonianze della loro presenza. Visitare le leggendarie città di Khiva, Bukhara, Samarcanda, Shakhrisyabz restando circoscritti al territorio dell’attuale Uzbekistan, è un po’ come ripercorrere secoli e secoli di storia, segnati dalle dominazioni persiane, arabe, mongole, nonché dal passaggio millenario di curiosi viaggiatori e com-

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marzo

Alma-Ata

KIRGHIZISTAN

Nukus

AZERBAIGIAN

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Biskek

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GEORGIA

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Dusanbe

CINA TAGIKISTAN

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PAKISTAN AFGHANISTAN

mercianti... una immersione totale in un passato di cui oggi le antiche madrase (scuole coraniche), le moschee con i loro minareti e i mausolei e le infinite decorazioni geometriche che ne ricoprono le facciate rivelano superbamente, anche se in parte, l’antica grandezza.

La «perla dell’Est»

Di queste città, Samarcanda è probabilmente quella che piú di ogni altra riesce, ancora oggi, a stimolare il nostro immaginario collettivo; il solo nome evoca il «gioiello dell’Islam», la «perla dell’Est» tanto decantata dai viaggiatori. Una città che dalla mitica fondazione da parte del re Afrosiab, conobbe uno sviluppo senza pari a partire dal VI secolo, trasformandosi in uno dei centri nevralgici di tutta l’Asia centrale.

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luoghi samarcanda L’antica Marakanda – come la chiamarono i Greci –, con i suoi oltre 2700 anni di storia, è una delle piú longeve città esistenti. Divenuta capitale della regione della Sogdiana durante la dominazione persiana degli Achemenidi, venne conquistata, durante le campagne espansionistiche verso l’Oriente, da Alessandro Magno nel 329 a.C. Piú tardi, in seguito all’islamizzazione dell’Asia centrale, Samarcanda risorse, sotto la dominazione persiana dei Samanidi, durante il IX secolo, divenendo un centro culturale di primo piano, e mantenendo un ruolo centrale – insieme a Bukhara – nel campo delle conoscenze scientifiche; un ruolo mantenuto anche sotto le successive dinastie dei Karakhanidi e dei Selgiuchidi, fino all’arrivo, nel 1220, delle orde mongole di Gengis Khan che tutto, o quasi, distrussero dell’antica città e della sua popolazione. Nonostante le devastazioni subite, un destino migliore le sarebbe stato riservato, di lí a poco piú di un secolo, grazie a Tamerlano (Timur bin Taraghay Barlas,1336-1405),

Tamerlano

Il sogno di un impero universale Tamerlano (in lingua persiana Timur Lang o Lenk, propriamente, Timur lo Zoppo) nacque a Kesh, nella Transoxiana, nel 1336. Figlio del locale governatore turco, si vantava, senza molte prove, discendente da Gengis Khan. Con l’aiuto di un khan mongolo, conquistò la Transoxiana, dichiarandosi khan ed erede di Gengis Khan. Guerriero astuto e implacabile, penetrò in Persia (1380), devastandone alcune province; invase l’Azerbaigian, sottomise la Georgia (1387), guerreggiò a lungo contro Toqtamish, il khan dell’Orda d’Oro, che alfine fu volto in fuga (1394). Tamerlano assalí allora Mosca, poi l’Ucraina, e saccheggiò le colonie genovesi del Mar d’Azov. Quasi negli stessi anni massacrò gli abitanti

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di Isfahan (1388), che gli si erano ribellati, e occupò Baghdad (1393). Poco piú tardi assalí l’India (1395) e prese Delhi (1398): si volse poi alla Siria, entrando in Aleppo e in Damasco (1399-1400). Baghdad, che si era sollevata, fu punita con un’altra memorabile strage (1401). Lo Stato ottomano gli sbarrava tuttavia il passo verso l’Egeo, ma anche il sultano Bayazid fu sconfitto e preso prigioniero presso Ankara (1402). Tamerlano devastò allora l’Anatolia, poi tornò a Samarcanda per preparare la guerra contro la Cina. A spedizione appena iniziata, Tamerlano morí, quasi settantenne, nel 1405. Musulmano fervente, aveva sognato un impero islamico universale.

Aveva perseguitato gli sciiti e i credenti d’altre fedi. Feroce contro i nemici e i ribelli, aveva incoraggiato scienze e arti, abbellendo la sua capitale Samarcanda. Il suo immenso impero era stato un modello di organizzazione e d’efficienza politica: ciononostante, non gli sopravvisse. Le gesta del grande conquistatore, diffuse in Europa, ispirarono a Christopher Marlowe il dramma Tamburlaine the Great (Tamerlano il Grande) e fornirono materia all’omonimo poemetto di Edgar Allan Poe (1827) e a numerose opere liriche, tra cui quelle di Georg Friedrich Händel (1724), Nicola Antonio Porpora (1730) e Antonio Vivaldi (1735). (red.)

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nativo della vicina Shakhrisyabz, che la scelse come capitale di un vasto regno, che arrivò a estendersi dal Caucaso sino all’India.

Capitale dell’impero

Con Tamerlano al potere, una nuova e florida stagione si inaugura per Samarcanda, che torna a imporsi come polo culturale di punta di tutto il centro dell’Asia. Trasformatasi in breve tempo in un immenso cantiere a cielo aperto, la città subí una profonda ristrutturazione urbanistico-architettonica, e venne dotata di tutte quelle infrastrutture richieste dallo status di una capitale. Al tempo stesso, divenne un terreno ideale per la sperimentazione di nuove soluzioni architettoniche, grazie anche all’apporto delle migliori maestranze che Tamerlano fece reclutare in ogni angolo del suo impero. Celeberrimi i monumenti risalenti a questa fase storica – siamo tra il XIV e il XV secolo – che ancora oggi la moderna Samarcanda orgogliosamente ostenta, nonostante terremoti e profonde modifiche su-

bite nel corso dei secoli, e in particolar modo tra l’epoca zarista e quella sovietica, abbiano profondamente alterato, se non addirittura cancellato, gran parte delle preesistenze piú antiche della città. Sebbene accuratamente restaurati e/o ricostruiti fedelmente, alcuni di questi monumenti esprimono eloquentemente quel senso di «grandeur» perseguito da colui che volle fare della città una metropoli degna del suo nome. Basta soffermarsi sulla purezza formale delle tre grandiose madrase che circondano la famosa piazza del Registan o sui delicati equilibri del mausoleo di Tamerlano per comprendere tutta la raffinatezza delle linee architettoniche e delle decorazioni che qui raggiungono le vette dell’espressione timuride. A poco meno di un chilometro dalla piazza del Registan, non lontano dall’imponente moschea di Bibi Khanym – moglie di Tamerlano –, sopravvive, in tutto il suo splendore, un complesso monumentale davvero singolare, avvolto da leggende e, soprattutto, legato alle figure femminili che hanno popolato la vita del

sovrano turco. Un luogo che, per la sua peculiarità, rappresenta anche una delle mete sacre piú significative e frequentate della Samarcanda medievale, e che, al tempo stesso, è una autentica antologia a cielo aperto degli stili architettonici della rinascenza timuride tra il XIV e il XVI secolo.

Il cugino del Profeta

Stiamo parlando della necropoli di Shah-i-Zinda, sorta sulle pendici dell’antica città, che comprende oggi circa venti monumenti funebri, realizzati in un periodo compreso tra l’XI e il XIX secolo, con una preponderante presenza di mausolei del XIV e XV secolo. Singolare è il nome dato al sito, che significa letteralmente «il re vivente», e contribuisce ad accrescerne la sacralità, avvolgendolo di mistero. Il toponimo, infatti, si riferisce al cugino del profeta Maometto, Kussam ibn-Abbas, che, in seguito alla sua uccisione, avvenuta nel VII secolo durante l’opera di evangelizzazione nei confronti dei seguaci dello zoroastrismo, si ritirò in una

Nella pagina accanto uno scorcio della via principale della necropoli di Shah-i-Zinda. In basso il versante ovest della necropoli di Shah-i-Zinda, costruita sulle pendici meridionali della collina di Afrosiab, la parte piú antica dell’odierna Samarcanda.

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luoghi samarcanda ▲

Il pishtaq, alto portale d’ingresso, tipico dell’architettura islamica, del complesso di Shah-i-Zinda, realizzato da Ulug Beg, nipote e successore di Tamerlano, nel 1434-1435.

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L’interno del mausoleo ottagonale, costruito nel 1430, sotto il regno di Ulug Beg. Il monumento, che riprende le forme di un padiglione, aperto verso l’esterno da archi ogivali, si discosta dallo stile tradizionale timuride.

Un ingresso solenne

Il complesso di Shah-i-Zinda, costruito sulle pendici meridionali della collina di Afrosiab (l’antica Samarcanda), un’area argillosa su cui tuttora sono in corso scavi archeologici, è accessibile attraverso un’ampia entrata scenografica. L’ingresso, infatti, è costituito da un imponente pishtaq – l’alto portale tipico di molte architetture islamiche, e soprattutto persiane – fatto costruire negli anni Trenta del XV secolo da Ulug Beg, nipote di Tamerlano e suo successore al trono dal 1407 al 1449. La solennità del portale, la sua astratta geometria decorativa, ma, soprattutto, l’utilizzo del motivo delle stelle che ornano lo spazio sovrastante l’arco a sesto acuto, ci

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sorta di veglia mortale in una grotta sita nel luogo dove oggi sorge il mausoleo a lui dedicato. Una leggenda che, alimentata nei secoli, gli valse il titolo di santo, nonché patrono di Samarcanda a partire dal X secolo. Nel XIII secolo – ci racconta il viaggiatore Ibn Battuta – sulla sua tomba vegliava un emiro, Ghiyas adDin Mukhammad, discendente della dinasta abbaside, e nell’area erano presenti alcuni edifici di ospitalità (kanako) per i viaggiatori e i meno abbienti che si recavano in pellegrinaggio al sepolcro del re vivente. La storia di questo sito è dunque legata alla figura di Kussam ibnAbbas, il cui mausoleo fu costruito a nord del complesso tra l’XI e il XII secolo – allo stesso periodo risalgono anche le fondamenta superstiti della moschea e della annessa madrasa di Tamgach Bogra-Khan –, ma il suo originale sviluppo «urbanistico» in una vera e propria città dei morti si colloca all’epoca di Tamerlano, che qui fece seppellire alcune tra le figure femminili piú importanti del suo entourage. Una necropoli quasi al «femminile» quella di Shah-i-Zinda, in cui mogli, nipoti e la stessa balia di Tamerlano, hanno avuto il privilegio di essere tumulate in alcuni dei piú bei gioielli architettonici dell’intero Islam.

rimandano alla grande madrasa che Ulug Beg fece costruire sul lato sinistro della piazza del Registan e in cui ricorre lo stesso motivo, a confermare, ancora una volta, la sua grande passione per l’astronomia. Non si dimentichi, infatti, che lo stesso Ulug Beg fece costruire nel 1428, a Samarcanda, un osservatorio astronomico di cui oggi sopravvive un sestante di oltre 36 m, che permise all’epoca eccezionali misurazioni sulla posizione degli astri. Il portale di Ulug Beg introduce al primo chortak, vestibolo quadrato e voltato a crociera, dai cui lati si ha accesso a differenti ambienti: a destra la madrasa di Mukhammad

Davlet Kushbeghi (edificio del 1812, costruito probabilmente sui resti di un precedente khanegah, un ricovero per religiosi), a sinistra una moschea invernale, coeva al portale d’entrata. Accanto a essa, sorge invece la moschea estiva (XIX secolo), caratterizzata da un porticato esterno con colonne lignee e soffitto a cassettoni riccamente decorato.

L’astronomo e la balia

Sempre a Ulug Beg è riconducibile la costruzione del primo mausoleo che si incontra sulla sinistra, lungo la scala che sale verso il pianoro superiore del complesso. Si tratta del mausoleo di Qadi-zadé Rumi, marzo

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La necropoli del «re vivente» Planimetria del complesso di Shah-i-Zinda, letteralmente «il re vivente», eretto in memoria di Kussam ibn-Abbas, cugino del profeta Maometto e patrono della città, a cui si riferisce il toponimo. Lo sviluppo della necropoli, che comprende circa venti mausolei costruiti tra l’XI e il XIX sec., risale all’epoca timuride, tra il XIV e il XVI sec.

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L’hammam, inizi del XVI sec. Il portale d’entrata. XV sec. Il chortak 1. 1434-1435. La moschea inferiore nel complesso della costruzione d’entrata. 1434-1435. 5 La moschea estiva. Metà del XIX sec. 6 La madrasa di Mukhammad Davlet Kushbeghi. 1812 7 I resti delle costruzioni del XVI-XVIII sec. 8 La terrazza media. XV sec. 9 Il mausoleo a due cupole. Primo quarto del XV sec. 10 Il contromuro. Prima metà del XV sec. 11 La scala e il secondo chortak. XVIII-XIX sec. 12 Il mausoleo dell’emiro Khyusein, figlio di Tuglu-Tekin. 1376. 13 Il mausoleo di Amir-zadé. 1386. 14 Il mausoleo di Shad-i Mulk (Turkan Agha). 1371. 15 Il mausoleo di Shirin Bika Agha. 1385. 16 Il mausoleo ottagonale. 1430 17 Il mausoleo «Sconosciuto». 18 Il mausoleo degli anni Ottanta del XIV sec. 19-22 I mausolei sconosciuti. 23 Il mausoleo di Ustadh Alim Nesefi. 1380.

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Il mausoleo «sconosciuto 2».

1380. La moschea commemorativa. Fine del X-inizi dell’XI sec. 26 Il mausoleo dell’emiro Burunduq. 1380. 27 La moschea di Tuman-Agha. 1405-1406. 28 Il terzo chortak. Anni Trenta del XIV sec. 29 Il minareto nel complesso del mausoleo di Kussam-ibn-Abbas. XI-XV sec. 30 I locali di passaggio a nord-est presso la moschea grande. XV-XIX sec. 31 La moschea del complesso di Kussam-ibn-Abbas. Anni Sessanta del XV sec. 32 Chillakhana (la moschea sotterranea). XI sec. 33 Ziaratkhana presso il mausoleo di Kussam-ibn-Abbas. XI-XV sec. 34 Il mausoleo (Gurkhana) di Kussam-ibn-Abbas. XI sec. 35 Il mausoleo del 1361. 36 Il mausoleo di Tuman-Agha. 1405. 37 Il mausoleo di Khodja Akhmad. Metà del XIV sec. 38-42 I resti dei mausolei del «corridoio occidentale». 43 La madrasa di Tamgach Bogra-khan. XI sec. 25

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▲ Particolare del portale del mausoleo di Tuman-Agha, una delle mogli di Tamerlano, realizzato nel 1405, e decorato, nella parte superiore, con i tipici muqarnas (nicchie a stalattiti), un motivo decorativo assai diffuso nell’architettura islamica.

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luoghi samarcanda scienziato e astronomo, che si distingue soprattutto per la presenza di due cupole rivestite di ceramiche turchesi sui cui alti tamburi appaiono invocazioni ad Allah e a Maometto in caratteri cufici. In realtà, piuttosto che all’astronomo, la presenza di una sepoltura di una donna nella cripta inferiore confermerebbe l’originale destinazione di questo mausoleo alla balia di Tamerlano, Uldja-Inaga, come attesterebbero, tra l’altro, alcune fonti ottocentesche.

Come in un villaggio

Mentre il portale di Ulug Beg, le moschee ottocentesche annesse e il mausoleo di Qadi-zadé Rumi costituiscono le fasi intermedie e piú recenti della storia di Shah-i-Zinda, occorre salire l’ampia scala esterna per accedere al pianoro superiore, nel quale si concentra la maggior parte dei mausolei d’epoca timuride. Costruita lungo il costone della collina, la lunga scalinata di accesso ci ricorda l’entrata a un borgo medievale, qui rappresentato dalle numerose cupole e dalle strutture architet-

toniche dei mausolei che, dal basso, danno l’idea di una fortificazione piuttosto che di un sepolcreto. E nel passeggiare lungo il corso principale di questa necropoli si prova l’impressione di addentrarsi all’interno di un villaggio, con i suoi palazzi e le sue piazzette. Lontana, infatti, dai rigidi schematismi del Registan e di tante altre piazze con edifici collocati secondo schemi geometrici speculari, la necropoli delle donne presenta uno sviluppo urbanistico «casuale», nato, evidentemente, dal successivo bisogno di spazi piuttosto che da un premeditato piano urbanistico. Superata la rampa di 42 scalini che divide il livello inferiore da quello superiore, si accede al secondo chortak, attraverso il quale ci si immette nella via principale del complesso. Impressionante è l’impatto con la visione dei primi quattro mausolei – due per lato –, che ci introducono in piena epoca timuride. A sinistra, il primo mausoleo, datato al 1386, è dedicato a Amir-zadé, forse un fratello di Tamerlano o un personaggio di spicco del suo entourage. Lo caratterizza una cupola scanalata

Da sinistra: ancora due dettagli degli affreschi (1491) di Giovanni Canavesio in cui sono raffigurati, sullo sfondo del pentimento di Giuda e di Gesú davanti a Caifa, ebrei in abiti orientali. La Brigue (Provenza), Notre-Dame des Fontaines.

A sinistra la cupola del mausoleo di Shad-i Mulk (Turkan Agha), nipote di Tamerlano. Il monumento funebre, costruito nel 1371, fu utilizzato, in seguito, per accogliere anche le spoglie della madre e di una sorella di Tamerlano.

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Scorci delle cupole del piccolo mausoleo ottagonale, in primo piano, e del mausoleo di Shirin Bika Agha, alle spalle, decorato con mosaici blu e turchesi a motivi geometrici.

e con spuntoni, priva di decorazioni che, al contrario, ritroviamo sulla facciata ricoperta di terracotte smaltate. Speculare a questo mausoleo è quello di Tuglu-Tekin (1376), madre di Khyusein, alto dignitario di corte di Tamerlano, che presenta una cupola a forma allungata non dissimile da quella già vista nel mausoleo di Amir-zadé. Entrambi i mausolei sono costruiti sul modello del semiquadrato, una figura geometrica che si distingue dal quadrato – avendo un lato leggermente piú lungo – e su cui si innesta, secondo complessi rapporti matematici, la sovrastante struttura architettonica.

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A fare il paio con questi due mausolei, ve ne sono altri due, dedicati rispettivamente a Turkan Agha o Shad-i Mulk del 1371 e a Shirin Bika Agha del 1385.

Per la nipote e la sorella

Sono i primi due mausolei dedicati a familiari di sesso femminile di Tamerlano. Il primo è dedicato alla nipote di Tamerlano, Shad-i Mulk, e fu utilizzato, successivamente, anche per la sepoltura della madre e di una sorella del condottiero. Primo monumento espressamente fatto costruire da Tamerlano, riporta sulla facciata, incisi nelle decorazioni, i nomi degli architetti Zayn ad-Din

e Shams ad-Din. Di grande bellezza e raffinatezza è l’intero apparato decorativo interno ed esterno, con alternanza di maioliche dipinte e bassorilievo ceramico, probabilmente uno dei migliori esempi di arte timuride. Gli fa da contraltare il mausoleo di Shirin Bika Agha, sorella minore di Timur, le cui componenti architettoniche e decorative si discostano in parte dagli esempi precedenti. La facciata è interamente decorata con la tecnica a mosaico di maiolica incisa su fondo a predominanza blu. La presenza della doppia cupola, su ampio tamburo a dodici facce, rende piú slanciata quella esterna, che

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luoghi samarcanda In primo piano, il mausoleo di Ustadh Alim Nesefi, che prende il nome dall’architetto che lo costruí, nel 1380. Sullo sfondo, il mausoleo «sconosciuto 2», realizzato nello stesso anno, è tra quelli di cui non rimane testimonianza del dedicatario, forse una nipote di Tamerlano.

risulta strutturalmente separata dalla cupola interna. Mentre la prima è interamente piastrellata con eleganti motivi geometrici, la cupola ribassata interna è affrescata con raffinati arabeschi su fondo bianco. Di particolare rilievo è anche la presenza di affreschi lungo le pareti interne, che raffigurano paesaggi e animali – piuttosto insoliti nell’arte islamica – e rivelano un gusto pittorico d’influenza cinese. A questi primi quattro monumenti, in cui si affermano le costanti di un modello architettonico ben preciso, segue il mausoleo ottagonale costruito sotto il regno di Ulug Beg, che rompe completamente con la tradizione timuride, riprendendo, semmai, le forme di un padiglione. E di un padiglione si tratta, conside-

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Particolare delle decorazioni in ceramica smaltata a motivi stellari, che ornano la facciata del mausoleo di Ustadh Alim Nesefi.

rando le sue aperture verso l’esterno ad archi ogivali, mentre l’interno, di modeste dimensioni, è arricchito da un mosaico ceramico nella parte bassa e da decorazioni dorate nella cupola sovrastante. L’originalità della composizione architettonica, paragonata a quella degli altri mausolei, ne rende in parte dubbia la sua esatta destinazione. Proseguendo lungo la via principale, costeggiata a destra da tombe isolate sparse e fondamenta di edifici di età piú antica, sul lato sinistro si stagliano altri sette mausolei.

Gli «sconosciuti»

Dei primi quattro, definiti «sconosciuti», non è rimasta testimonianza del dedicatario; il quinto è chiamato «di Ustadh Alim Nesefi» dal nomarzo

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è situato il mausoleo dell’emiro Burunduq (1380), contraddistinto da un alto tamburo a sedici facce, su cui si poggia una struttura conica. La facciata è totalmente spoglia, ma lascia spazio alle ricche decorazioni interne, tra le quali spicca, nella volta, un prezioso motivo geometrico sviluppantesi da una stella a otto punte che riprende in parte lo stesso elemento ricorrente nella facciata del mausoleo precedente.

Il luogo piú sacro

me dell’architetto che lo costruí nel 1380. Imponente è la doppia cupola che sovrasta una facciata turchese in ceramica smaltata, nelle cui decorazioni ritornano motivi a fasce che, intersecandosi, creano elementi stellari a otto punte riempiti con scritte in cufico. In alcune di queste stelle ricorrono i nomi dei dodici imam sciiti, mentre in altre vengono riportati versi coranici. Allo stesso anno risale il mausoleo che segue, «Sconosciuto 2», che la tradizione vuole sia dedicato a una nipote di Tamerlano. Questo secondo mausoleo fu costruito in parte sfruttando le mura e le fondamenta dell’antica madrasa di Tamgach Bogra-Khan dell’XI secolo, edificata durante la dinastia dei Karakhanidi. Prima di oltrepassare il terzo chortak, sempre sulla sinistra,

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Proseguendo ancora, giungiamo al luogo piú sacro di tutto il complesso; da qui, infatti, si ha accesso all’articolato monumento dedicato a Kussam ibn-Abbas, situato sul lato destro del terzo chortak. Vari sono gli edifici che lo compongono, tra cui, nei pressi dell’entrata, sul lato destro, un antico minareto dell’XI secolo inglobato negli edifici piú tardi: una delle rarissime testimonianze architettoniche pre-mongole. Da un lungo corridoio si accede alla moschea risalente agli anni Sessanta del XV secolo, pesantemente restaurata nel XX secolo, di cui restano avanzi di stucchi e di nicchie a stalattiti, i cosiddetti muqarnas, elementi decorativi molto diffusi nell’architettura islamica. Un altro ambiente di preghiera, il ziaratkhana (XI secolo), immette, infine, al mausoleo vero e proprio, che ospita una singolare lapide a forma piramidale composta da cinque gradini decrescenti, in maiolica dipinta, sulle cui pareti ricorrono alcuni versi coranici. La leggenda vuole che proprio in corrispondenza di questa lapide si trovi la grotta in cui giace il corpo di Kussam ibn-Abbas, nell’attesa di risvegliarsi nel momento in cui l’Islam tornerà a trionfare. Tornati al chortak, la cui funzione è anche quella di separare le differenti aree della necropoli, giungiamo all’ultima sezione dell’imponente scenografia creata dagli architetti timuridi, e forse la piú affascinante di tutto il complesso. Attraversando il vestibolo, infatti, ci si ritrova in una piccola piazza in cui emergono in tutto il loro splendore i tre alti portali

di altrettanti mausolei, in una disposizione che ricorda da vicino, anche se in scala decisamente piú ridotta, quella delle tre madrase della piazza del Registan. Alla sinistra si eleva il mausoleo di Tuman Agha (1405), una delle mogli di Tamerlano nonché discendente di Gengis Khan, preceduto da una moschea a esso collegata, il cui accesso è situato nel chortak. Il mausoleo, su pianta semiquadrata, è arricchito dalla doppia cupola, mentre lungo la facciata scorrono verticalmente citazioni coraniche. In questo come negli altri portali dei vari mausolei ricorre, nella parte superiore, il motivo decorativo della nicchia a stalattiti. Speculare al mausoleo di Tuman Agha è il mausoleo che la tradizione ricondurrebbe, ancora una volta, a una delle mogli di Tamerlano, benché le fonti siano piuttosto incerte in merito. Anche qui ritornano gli elementi ricorrenti negli altri mausolei e che i recenti restauri hanno riportato al loro antico splendore. A completare simmetricamente la piazzetta, sul fronte nord, è il mausoleo di Khodja Akhmad (anni Quaranta del XIV secolo), un noto uomo di fede la cui dedica, sul portale, recita «che Allah prolunghi la loro eternità perché la tomba diventi un giardino pieno di luce di felicità per Khodja Akhmad». E al senso di eternità ci riconducono, d’altro canto, la ricchezza creativa e le eleganti architetture di questo e degli altri mausolei innalzati alla memoria di donne e uomini, che ebbero il privilegio di essere sepolti in un contesto tanto particolare. Ripercorrendo a ritroso il corso principale, con lo sguardo rivolto alla fuga prospettica degli ampi pishtaq e delle cupole che si succedono nella loro caleidoscopica fantasia di colori e geometrie, giungiamo nuovamente alla scalinata iniziale, dove un’altra leggenda contribuisce all’aura di mistero che avvolge questo luogo: si narra, infatti, che solo al «vero» musulmano sia concesso di scendere, contandoli, l’identico numero di gradini fatti durante la salita… F

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l’arte della guerra artiglierie individuali

Sparando

di Flavio Russo

s’impara

Ingegneri e progettisti addetti alla messa a punto delle armi da fuoco dovettero misurarsi con un problema di non secondaria importanza: l’accensione della polvere da sparo in tempi rapidi e, soprattutto, con tecniche tali da evitare che l’artigliere fosse la prima vittima dei suoi colpi...

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a costruzione di armi da fuoco manesche, in pratica delle bombarde di piccola dimensione o bombardelle a mano, come precisato nella scorsa puntata (vedi «Medioevo» n. 181, febbraio 2012), richiese, innanzitutto, la soluzione del problema dell’accensione della polvere pirica, il principale ostacolo che si frapponeva alla loro concreta realizzazione. Per le armi coeve e similari, ma di dimensioni maggiori, l’esigenza fu soddisfatta solo trapanando la culatta fino all’anima, mettendo in comunicazione tramite quel foro, detto focone, la polvere compressa all’interno, detta carica di lancio, con quella d’innesco all’esterno, detta anche polverino, deposta in piccola quantità dentro e sopra il focone stesso. Per incendiarla, provocando lo sparo dell’arma, bastava poggiarvi sopra un tizzone o, piú di frequente, un attizzatoio rovente. La procedura accennata, che si dimostrò idonea alla disposizione sostanzialmente orizzontale delle volate delle grosse bombarde, si confermò ancora praticabile nelle prime armi manesche, tali, del resto, solo perché trasportabili a mano. Infisso nel terreno il loro lungo manico, si posizionavano inclinate con un angolo mai eccedente i 45°, corrispondente alla gittata massima, e, al contempo, insufficiente per la scabrosità della loro canna, a provocare la fuoriuscita e la caduta della polvere d’innesco. Tale soluzione, sia pure a scapito della punteria, garantiva un minimo di sicurezza all’artigliere, evitandogli di porsi troppo vicino alla culatta all’istante dello sparo. Ma quando l’arma divenne realmente manesca e a imitazione della ba-

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lestra si iniziò a richiederle una discreta punteria, la situazione mutò drasticamente. Per tirare verso un particolare bersaglio, infatti, bisognava traguardarlo lungo la canna, per cui la stessa avrebbe dovuto inevitabilmente trovarsi con la culatta all’altezza dell’occhio e con la volata ben levigata. Tuttavia, la combustione del polverino e la sfiammata dal focone, confermando i rischi dell’operazione, obbligarono a mutare la geometria dell’arma e il suo sistema di accensione. Il manico aguzzo, già trasformatosi in un teniere da imbracciarsi con la mano sinistra, fu sagomato in modo tale da insistere contro la spalla, e non piú contro il petto, offrendo perciò una maggiore resistenza all’accresciuto rinculo. Inoltre, in seguito al notevole allungamento della parte posteriore, il focone si ritrovò quasi al centro dell’arma, quindi a discreta distanza dal volto, e, per evitare che compromettesse la mira, lo si posizionò sul fianco destro della culatta, alla quale venne saldato una sorta di scodellino per contenervi il polverino, dando cosí avvio alla meccanizzazione dell’accensione.

Operazioni necessarie

Per avere un’idea di quanto esasperante fosse stata fino allora la procedura di sparo, basti pensare che, prima di caricare l’arma, occorreva nettarne l’anima con lo scovolo, inserirvi la polvere e poi la palla, pressarle con una bacchetta e bloccarle con la stoppa, per evitarne la fuoriuscita accidentale. Quindi, mantenendo la canna orizzontale, si riempiva lo scodellino e, accesa la miccia, la marzo

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Al servizio di Sua Maestà

La canna dell’archibugio rimase a lungo perlopiú a sezione poligonale, in genere ottagonale, per la maggiore facilità di forgiatura e per la intrinseca superiore resistenza, dal momento che l’anima si otteneva per trapanazione longitudinale, quindi senza alcuna saldatura.

Il moschettiere stringe nella destra un tubetto di rame contenente la miccia accesa, necessaria per attizzare quella del serpentino dell’archibugio, per far sparare l’arma.

Moschettiere con archibugio dell’epoca di Enrico III di Francia (1574-1589), incisione su rame acquerellata a mano da un originale del 1586. XVIII sec. A destra, in alto una pistola in legno con intarsi in avorio. XVI sec. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

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Arma molto imprecisa, tanto che il suo tiro utile non eccedeva la cinquantina di metri, l’archibugio era anche molto pesante, obbligando perciò a poggiarne la volata, in fase di punteria, sopra un supporto di ferro a forcella, infisso nel terreno.

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l’arte della guerra artiglierie individuali si infilava nel serpentino. Esauriti i preliminari, poggiata la volata sopra la forcella e presa la mira, finalmente si abbassava con la destra il serpentino, provocando lo sparo. Sempre, ovviamente, che... non piovesse! Quanto appena rievocato può considerarsi il primo dispositivo di accensione e risulta adottato di sicuro già nel 1411, con la definizione di piastra a serpentino. Pochi decenni dopo evolverà nel serpentino a scatto, quindi nella piastra a ruota e poi di nuovo nel serpentino a pressione. Poi, dalla seconda metà del XVI secolo, si diffuse l’acciarino a percussione, che rimase in uso per altri due secoli (e si trova dunque al di là dei confini cronologici entro i quali si sviluppa la nostra indagine). A incentivare tale evolu-

Dalla favilla allo sparo Qui sotto un rozzo serpentino semplice, successivamente munito di molla e adattato a una pietra focaia. Il focone, tuttavia, è ancora sul dorso della canna al centro, evidente conferma dell’antichità dell’arma, datata al 1430.

A sinistra particolare di una canna con accensione a serpentino a scatto e scodellino con coperchietto la cui apertura è azionata a mano.

In basso ricostruzione grafica di serpentino a pressione comandato da una lunga manetta.

zione fu la constatazione che l’accensione con l’attizzatoio, quand’anche efficace, impiegando braccio e mano destra, impediva sia di impugnare saldamente l’arma, sia di prendere la mira. Si escogitò perciò un surrogato meccanico dell’arto, una levetta a forma di S, da cui il nome di serpentino, che serrava tra le ganasce della sua estremità superiore uno spezzone di miccia. Questa, all’epoca, consisteva in una sottile corda di canapa o di cotone impermeabilizzata con grasso, di circa 5-6 mm, avvolta intorno a un filo di polvere pirica. Poiché la combustione avveniva con discreta lentezza, poco meno di 1 m al minuto, garantiva una persistenza della fiamma congrua al tempo necessario per prendere la mira. I miglioramenti del maneggio e della punteria che quel modesto congegno permise contribuirono all’accennato spostamento del focone, che lasciò il suo posto a una rudimentale tacca di mira. Il foro, pertanto, fu posizionato lateralmente, munendolo di uno scodellino per il polverino, una sorta di cucchiaino saldato sul fianco della canna. Agendo sulla estremità inferiore del serpentino, collocato sempre sul lato destro

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La miccia era costituita da una corda contenente al suo interno un filo di polvere pirica e, una volta accesa, continuava a bruciare, anche se bagnata o immersa nell’acqua, con una velocità di circa 1 m al minuto.

La lunghezza della miccia era sempre rilevante, perché doveva garantire tempi di punteria non sempre brevi e servire per numerosi colpi, con l’ovvia precauzione di spegnerla, tagliandola, dopo ogni sparo.

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Essendo l’anima delle bombardelle manesche ottenuta per trapanazione, la culatta era spessa e completamente chiusa, per cui l’accensione della polvere interna poteva avvenire soltanto attraverso un foro, focone, posizionato inizialmente sul suo dorso. La leva per accendere la polvere dello scodellino fu a forma di S: la parte superiore portava la miccia, mentre l’inferiore, bloccata da un piccolo perno, era spinta da una molla. Facendo rientrare il perno tramite un bottone, la molla liberata faceva ruotare il serpentino.

A sinistra esempio di accensione a serpentino libero, con scodellino munito di coperchio.

Ricostruzione grafica di serpentino a scatto comandato da un bottone.

La molla che provocava lo scatto del serpentino aveva una estremità fissata alla piastra e l’altra libera, insistente contro la parte inferiore del serpentino. Per agevolarne il movimento, era sagomata curviforme.

dell’arma, lo si faceva ruotare di circa 60°, portando cosí la miccia fiammeggiante nello scodellino ripieno e facendo sparare l’arma. Tuttavia, ben presto, si palesarono le deficienze: gli urti facevano cadere il polverino e le scintille accidentali lo incendiavano, senza contare l’acqua piovana che, scorrendo sulla canna, si raccoglieva proprio nello scodellino, rendendo inservibile l’arma, finché non fosse tornata del tutto asciutta. Il rimedio fu altrettanto rapidamente escogitato e consistette in un coperchietto mobile azionato a mano: chiudendo lo scodellino, vi conservava e isolava la polvere d’innesco preservandola dalla pioggia, consentendo perciò di tenere l’arma carica per ore, pronta a sparare non appena accesa la miccia.

Praticità ed economia La lunga leva di sparo, o manetta, per poter ruotare, doveva vincere la resistenza di una robusta molla, collocata in prossimità del suo fulcro. La sua opposta estremità era impegnata nell’asola del serpentino, che veniva perciò trascinato dalla sua rotazione fino allo scodellino.

Una sorta di piastrina ad asola, solidale al serpentino, quando era fatta ruotare dalla leva di sparo, faceva a sua volta ruotare il serpentino stesso, portandolo a entrare nello scodellino, incendiandovi la povere.

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La leva di sparo, a differenza del successivo grilletto, non era azionata dal movimento di un dito, l’indice, ma dell’intera mano destra, necessaria per vincere l’antagonismo della molla fissata sulla piastra.

L’accensione a serpentino, senza dubbio pratica ed economica, presentava il grave rischio di non avere una grande inerzia a riposo, potendo ruotare da sola, specialmente dopo un impiego prolungato, al mutare dell’inclinazione dell’arma. Fu studiato e adottato, pochi decenni piú tardi, un congegno per l’azionamento a scatto: consisteva in una molla che, liberata da un apposito comando, inizialmente a forma di bottone, provocava la rotazione del serpentino. In seguito il bottone, forse per la sua eccessiva resistenza, fu sostituito da una lunga manetta, una leva sagomata collocata al di sotto del calcio, che spinta verso l’alto da una leggera pressione, faceva scendere il serpentino nello scodellino. Una molla antagonista manteneva la manetta sempre nella medesima posizione, e ve la riportava dopo ogni tiro. Nei modelli migliori si fece in modo che il coperchietto venisse aperto dalla stessa manetta, pochi istanti prima che il serpentino si abbassasse di scatto. Nel frattempo, le canne furono ulteriormente allungate, per cui, sfruttandosi meglio la pressione dei gas di sparo, si impresse al proiettile una velocità iniziale

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l’arte della guerra artiglierie individuali Qui sotto raffigurazione assonometrica autografa di Martin Löffelholz dell’acciarino a ruota, conservata nel suo manoscritto del 1505, e, in basso, ricostruzione grafica del dispositivo.

Nel disegno di Löffelholz, la leva che fa strofinare la pietra focaia sulla ruota è azionata da una robusta molla indipendente di notevole dimensione, dalla cui spinta dipendevano le scintille emesse. La seconda molla, molto piú grande e a U, era fissata alla piastra tramite una staffa con una estremità bloccata e l’altra libera in modo tale che, rimosso il ritegno, recuperando la sua forma originale, trascinava la catena facendo girare la ruota.

Il caricamento della molla a U si effettuava utilizzando una apposita chiavetta ad anello, forma che forse fu dettata dalla necessità di inserirvi una sbarretta per manovrarla, essendo la rigidità della grande molla rilevante.

L’antenato dell’accendigas La scheggia di pirite, o di pietra focaia, era serrata in un morsetto a vite, che ricordava la bocca di un cane – e che in seguito venne appunto chiamato «cane» –, lasciandone sporgere quasi una metà in modo di poter strofinare sulla ruota zigrinata.

Un coperchietto mobile copriva lo scodellino: l’azionamento della ruota liberava la sua molla, facendolo indietreggiare, lasciando perciò esposta la polvere e il bordo della ruota. Questa, subito percossa dalla pirite, emetteva le scintille che accendevano la polvere.

La piastra a ruota contava mediamente quattro molle, la piú grande delle quali era destinata a far girare la ruota, mentre le restanti tre determinavano i diversi movimenti per produrre le scintille e per favorire l’accensione della polvere.

La messa in moto della piastra a ruota avveniva agendo sulla molla, che faceva rientrare il ritegno che bloccava la ruota. A provocare questo primo movimento provvedeva un lungo grilletto, che, dei moderni, già anticipava la posizione perpendicolare verso il basso.

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L’acciarino a ruota in un disegno dal Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. 1514 circa.

piú rilevante, con conseguente maggiore precisione di traiettoria e una piú profonda penetrazione. Fra le due tipologie di accensione a serpentino si colloca l’avvento e l’adozione dell’accensione con la piastra a ruota.

Una paternità discussa

Enigmatica e singolare è l’invenzione dell’acciarino a ruota, la cui paternità è alquanto controversa. Alcuni studiosi, infatti, ne collocano l’avvento nell’ultimo quarto del XV secolo, a opera di Martin Löffelholz, un ingegnere di Norimberga. Il tecnico, infatti, ne lasciò esplicita testimonianza in una dettagliata descrizione e in alcuni accurati disegni, in un suo manoscritto del 1505, disgraziatamente distrutto nell’ultimo conflitto. Le varie copie disponibili, certificandone le caratteristiche, inducono pure a retrodatarne l’avvento all’ultimo decennio del secolo precedente. Altri studiosi, invece, sostengono che fu Leonardo da Vinci a inventarlo, intorno al 1514, come sembrano avallare alcuni suoi disegni del Codice Atlantico. Da ulteriori riscontri, tuttavia, è sensato propendere per la prima attribuzione, forse piú attendibile. Il congegno, però, non godette di lunga, né di vasta adozione sulle armi individuali: fu, infatti, montato per pochi decenni solo su quelle civili di lusso, e sulle pistole, nonostante l’indubbio vantaggio offerto dalla cosiddetta accensione a fuoco spento. Di notte, infatti, un acciarino a ruota era invisibile fino al momento dello sparo, a differenza di quelli a serpentina, rivelati dalla sfavillio della miccia alcuni istanti, a volte persino lunghi minuti, prima che sparassero. A quel risultato contribuí il cosiddetto «cane»,

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che continuò a essere impiegato anche nell’acciarino a percussione, per i successivi due secoli. Si trattava in pratica di un morsetto tra le cui ganasce, simili appunto alle bocca di un cane, una vite azionata da una chiave quadrata, stringeva una scheggia di pirite. Poiché funzionava a molla l’acciarino andava caricato in precedenza con una apposita chiave. Elementare è il suo criterio informatore: produrre scintille per attrito. Allo scopo la ruota d’acciaio su cui si portava a sfregare la pirite, aveva il bordo zigrinato, come quello delle monete, e a farla girare provvedeva la trazione di un grossa molla a V, non appena se ne rimuoveva il perno di bloccaggio, costretto in un foro da una seconda molla. Una apposita camma apriva lo scodellino, fino a quel momento chiuso dal coperchietto, grazie a una terza molla: il cane che vi premeva sopra, spinto da una quarta molla, penetrandovi, batteva la pirite sulla ruota che, per le scintille, faceva sparare l’arma. Il rilevante numero di molle testimonia esplicitamente la complessità dell’acciarino a ruota, un vero capolavoro dell’orologeria, e implicitamente il suo costo proibitivo e la intrinseca preziosità. Sul finire della seconda metà del XV secolo, l’arma individuale, ormai archibugio, presenta tutte le caratteristiche che mantenne nei cinque secoli successivi, dapprima detta moschetto e poi fucile. L’acciarino a ruota fu presto abbandonato, ma non scomparve, tanto che viene ancora largamente usato: il suo epigono miniaturizzato e semplificato è prodotto in milioni di pezzi al giorno, per l’accensione del gas nei nostri accendini usa e getta! F (2 – fine)

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Storia di una città scomparsa

cartoline • Il castello

eletto dagli Sforza a residenza dei duchi di Milano è oggi sede di varie raccolte museali, tra cui una ricca collezione di oggetti e opere d’arte che testimoniano le vicende della città nei secoli dell’Età di Mezzo 108

A

entrare nel Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco si è investiti dalla sensazione di quanto grande dovesse essere la bellezza della Milano medievale, purtroppo andata in gran parte perduta. Il percorso ha inizio con il portale trecentesco detto Pusterla Urbica, uno degli antichi accessi attraverso le mura della città. L’antica porta introduce alla storia di Milano dall’età paleocristiana ai secoli centrali del Medioevo, attraverso sculture, frammenti e affreschi, in gran parte provenienti da chiese oggi non piú esistenti.

Dalla cattedrale dedicata al Salvatore (poi S. Tecla), sede dell’attività pastorale di Ambrogio (347-397), situata in corrispondenza dell’attuale sagrato del Duomo, provengono due basi di colonna del IV secolo, che attestano l’assimilazione da parte degli scultori locali della tradizione classico-romana. Altre sculture, come il frammento con la mano di Dio Padre e due musi di animale, testimoniano invece l’arte «barbarica» altomedievale; altre ancora quella longobarda e quella bizantina, come la bella testa detta «di Teodora», datata al VI secolo. marzo

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Sulle due pagine Milano, il Castello Sforzesco, che divenne residenza dei signori di Milano nel 1466. A destra particolare della volta della cappella ducale del Castello Sforzesco, costruita nel 1473 per volere del duca Galeazzo Maria e affrescata nel corso dello stesso anno da sei pittori, tra i quali Bonifacio Bembo, Giacomino Vismara e Stefano de Fedeli.

Dall’arte antica agli strumenti musicali

Sono testimonianze di un periodo difficile per la città, che vide il trasferimento della residenza imperiale a Ravenna, l’incursione di Attila nel 452, la conquista ostrogota e la guerra greco-gotica (535553), la vittoria bizantina e infine la conquista longobarda. Milano riguadagnò prestigio in età carolingia e ottoniana e poi nei secoli X e XI, ai quali sono dedicate le sale successive.

Gli sviluppi dell’arte romanica Un interessante telamone in travertino, datato all’VIII secolo, accoglie il visitatore nella seconda

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Oltre a ospitare la collezione descritta, il Castello Sforzesco è un interessante «contenitore» museale e merita esso stesso una visita. Fu Galeazzo Maria, succeduto a Francesco Sforza nel 1466, a fissare la dimora dei signori di Milano presso il castello di Porta Giovia, oggi appunto Sforzesco, trasformando l’antica fortezza viscontea in residenza ducale, ampliandola e decorandola alla maniera rinascimentale. Poco rimane, oggi, degli splendori della dimora che subí varie traversíe e trasformazioni dopo la cacciata da Milano di Ludovico il Moro nel 1499. Solo alla fine dell’Ottocento, grazie al restauro diretto da Luca Beltrami, il castello – molto degradato – recuperò in parte il suo antico aspetto e il 10 maggio 1900 aprí al pubblico ospitando le opere del Museo Artistico Municipale, di recente fondazione, nato con lo scopo di dotare la città di un museo che ne documentasse la storia attraverso le testimonianze artistiche. Oggi il Castello Sforzesco ospita, oltre al Museo d’Arte Antica, anche la Pinacoteca, Le Civiche Raccolte d’Arte Applicata (Museo delle Arti Decorative-Museo dei Mobili), il Museo degli Strumenti Musicali e una sezione dedicata alla Preistoria, alla Protostoria e all’Arte Egizia, il Gabinetto Numismatico, oltre alle Raccolte Grafiche e Fotografiche, alla Biblioteca Trivulziana e all’Archivio Storico Civico, la Biblioteca Archeologica e la Biblioteca d’Arte e il Centro di Alti Studi sulle Arti Visive.

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caleido scopio Dove e quando

Museo d’Arte Antica Musei del Castello, Castello Sforzesco Milano, piazza Castello 1 Orario ma-do, 9,00-17,30 Info tel. 02 88463703; www.milanocastello.it

Michelangelo, Pietà Rondanini, cosí chiamata dal nome di uno dei suoi proprietari. Milano, Castello Sforzesco. Il maestro vi lavorò fino alla vigilia della morte, che lo colse nel 1564, lasciandoci un’opera che viene considerata tra gli esiti piú alti della sua arte. sala, dedicata agli sviluppi dell’arte romanica, attestata da varie sculture e capitelli, realizzati tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo. A uno stretto collaboratore dell’Antelami è attribuita la lastra con i Re Magi rappresentati nell’atto di offrire i loro doni. Scoperto nel 1943 durante l’intervento alle fondamenta del Duomo di Milano, è probabile che il rilievo, datato tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, fosse stato eseguito per la cattedrale di S. Maria Maggiore (Milano ebbe due cattedrali paleocristiane, quella estiva, S. Tecla, e quella invernale, appunto S. Maria Maggiore).

I maestri campionesi Il percorso procede con l’affermazione del linguaggio scultoreo del romanico lombardo per opera dei maestri campionesi, tra i quali spicca Bonino da Campione, autore del monumento sepolcrale di Bernabò Visconti (realizzato

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in due fasi distinte: il cavallo e il cavaliere vennero terminati intorno al 1363; la cassa fu intagliata tra il 1380 e il 1385, anno della morte del signore di Milano) un tempo collocato nell’abside della chiesa di S. Giovanni in Conca e oggi al centro della sala. Figura fondamentale tra gli artisti di questo periodo operanti a Milano fu anche Giovanni di Balduccio, chiamato a Milano da Azzone Visconti nel 1334; a lui si deve l’introduzione nei territori viscontei dei canoni dell’arte gotica, già diffusa in Toscana. È opera sua il sepolcro di Beatrice d’Este (di cui si possono ammirare alcuni frammenti) e, come ricorda l’iscrizione con la firma del maestro toscano, nel ruolo di architetto, la facciata della chiesa di S. Maria di Brera, appartenente all’Ordine degli Umiliati. Della facciata rimangono soltanto frammenti architettonici e scultorei; e una bella riproduzione di un’incisione settecentesca

raffigurante la chiesa permette di immaginarne la collocazione. Nel museo si trovano anche pregevoli testimonianze pittoriche di epoca medievale, come quelle che decoravano la già ricordata chiesa di S. Giovanni in Conca che, insieme alle testimonianze scultoree, ben attestano la ricchezza artistica della città comunale, cosí elogiata dall’opera del poeta e letterato Bonvesin de la Riva nel Duecento.

Leonardo e Michelangelo Nell’impossibilità di citare tutte le opere che scandiscono questo viaggio nella storia e nell’arte cittadine (che prosegue nelle sezioni dedicate all’età signorile, passando per la magnifica Sala delle Asse, affrescata da Leonardo da Vinci, fino alla Pietà Rondanini di Michelangelo), occorre almeno ricordare le due sale dedicate alle testimonianze piú significative della Milano bassomedievale. Tra queste, hanno particolare importanza i fregi figurati di Porta Romana, montati su due strutture murarie che ricreano l’effetto della collocazione originaria. I rilievi, eretti nel 1171 per volontà dei consoli di Milano, celebrano i lavori di rifortificazione della città all’indomani della sua distruzione, nel 1160, dopo il lungo assedio delle truppe di Federico Barbarossa. Gli abitanti erano stati costretti all’esilio, ma già nel 1167 avevano potuto fare rientro in città e dare inizio alla ricostruzione. L’itinerario «medievale» può concludersi, salendo le scale del vecchio maniero, nella Pinacoteca, dove è conservata, tra molti capolavori, la Resurrezione di Lorenzo Veneziano, e nel Museo delle Arti Decorative, che espone tavolette d’avorio di età tardo-antica e altomedievale di notevole finezza artistica, le oreficerie e le ceramiche graffite, ingobbiate e invetriate, di uso comune nel Basso Medioevo. Infine, nella sezione del castello dedicata alla Raccolta dei Mobili, il cui allestimento è stato rinnovato pochi anni fa, sono conservati rari esempi di cassoni dipinti bassomedievali. Sandra Baragli marzo

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Lo scaffale Arturo Carlo Quintavalle (a cura di) Medioevo: i committenti Atti del XIII Convegno internazionale di studi (Parma, 21-26 settembre 2010) Electa, Milano, 744 pp.,

90,00 euro ISBN 978-88-370887-5

Si rinnova l’appuntamento con gli Atti dei convegni di Parma, giunti alla loro XIII edizione. Il tema dell’incontro, I committenti, ha offerto l’opportunità di riscoprire alcune figure di particolare lungimiranza, come quelle di donne meno famose rispetto alle «grandi» dell’Età di Mezzo o di seguire episodi legati alla Sicilia normanna, alle famiglie nella Sardegna del XII secolo e all’aristocrazia nella Napoli angioina. Segnaliamo dunque, a titolo di esempio, alcuni dei contributi pubblicati. Zuleika Murat e Giovanna Valenzano, in Donne dimenticate: esempi di committenza femminile nel Veneto medievale, fanno luce su figure non solo relegate al ruolo di mogli e madri, ma che gestiscono patrimoni, esercitando l’autorità politica sul territorio. Accanto ai casi illustri, come quello di Matilde di Canossa, o di Berta di Toscana e della

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figlia Ermengarda, che ottengono totius italiae principatum dopo la scomparsa del capofamiglia, il saggio ricorda il ruolo delle imperatrici ottoniane nell’esercizio congiunto del potere, restituito secondo un’iconografia testimoniata, per esempio, nella cattedrale di Padova, in cui campeggia il doppio ritratto di Enrico IV e della consorte Berta.

Il modello di rappresentazione della coppia imperiale viene esteso nel tempo a quella dei dogi, come nel caso dei veneziani Francesco Dandolo ed Elisabetta Contarini, e poi a podestà e dignitari, scendendo fino a mercanti e amministratori. E se Lorenzo Veneziano, nella Vergine con il Bambino e donatori, dipinge Cangrande II della Scala, signore di Verona, e la moglie Elisabetta di Baviera, il Guariento ritrae ai piedi di una crocifissione solo la donatrice, Maria de’ Bovolini.

Un altro spaccato interessante affiora dallo studio di Roberto Coroneo, Famiglie committenti dell’aristocrazia giudicale in Sardegna nel XII secolo. Gli esponenti del potere locale sono investiti della loro autorità in virtú del legame imperiale con Costantinopoli, esibito attraverso la donazione di arredi marmorei a chiese di un certo livello. Una sorta di processo di emancipazione dall’impero romano si consuma con lo scisma d’Oriente, che induce la classe dirigente sarda a scegliere fra il patriarcato di Bisanzio e il papato: re e giudici opteranno per questa seconda possibilità, gravitando quindi nell’orbita romana. Il saggio di Francesco Aceto, La committenza aristocratica nella Napoli angioina: il caso di Bartolomeo di Capua (1248-1328), tratteggia invece il profilo di un nobile che si muove in maniera assolutamente originale nel contesto napoletano del Trecento. Il mecenatismo di Bartolomeo si distingue da quello dei contemporanei, sia per il numero di opere che ha fatto realizzare, sia per gli orientamenti. Attraverso una

politica di alleanze matrimoniali, Bartolomeo, partendo da una posizione di solida autorevolezza a corte, fa una rapida ascesa nei ranghi della feudalità, legandosi anche agli ordini mendicanti. Il nobile lascia testimonianze del suo status fra Capua e Napoli. E non si limita agli edifici di culto, ma commissiona opere di uso pubblico, come ospedali, bagni termali, ponti, sulla falsariga della tradizione romana. Stefania Romani Matteo Bandello Novelle

a cura di Elisabetta Menetti, Bur Rizzoli Classici, Milano, 703 pp.

13,90 euro ISBN 978-88-17-04626-8

Tragiche storie d’amore come quella celeberrima di Romeo e Giulietta, fosche tragedie come il dramma di Ugo e la Parisina, ma anche feroci beffe indirizzate a ecclesiastici, signori e popolani: questi e molti altri sono gli argomenti della selezione di Novelle, a cura di Elisabetta Menetti. Il volume è corredato da un’approfondita introduzione, che indaga sull’impaginazione del narrare bandelliano, da subito premiato con un enorme successo in tutta

Europa e fonte d’ispirazione nei secoli per scrittori e drammaturghi quali Shakespeare, Cervantes, Stendhal, Balzac e D’Annunzio. Completa l’opera un’appendice biografica con la vita dello scrittore (Castelnuovo Scrivia 1484-Basenz 1561) e alcune note su narratori e dedicatari dei racconti. Chiara Parente Martino Sacchi Terra in vista! Le grandi esplorazioni oceaniche del XV secolo

Effemme Edizioni, Milano, 382 pp., ill. b/n

16,50 euro ISBN 978-88-87321-41-8

Con penna felice, Martino Sacchi guida il lettore attraverso un secolo straordinario che vede i confini del mondo trasformarsi e dilatarsi oltre ogni immaginazione, rievocando le avventure di capitani e di equipaggi che si lanciarono alla scoperta dell’ignoto. Una narrazione a ritmo serrato dipana e riepiloga con

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Lo scaffale puntualità le vicende storiche e ne presenta i personaggi chiave, servendosi delle fonti della storiografia del XV secolo, ma senza tralasciarne il profilo umano, ricorrendo anche al confronto con testimonianze personali tratte dai diari di bordo di velisti del XX secolo. Uomini che sono alle prese con l’ignoto,

protagonisti e retroscena. Si parte con la scoperta delle coste dell’Africa occidentale attraverso la spedizione del veneziano Alvise Cadamosto, le successive iniziative concorrenti di Portogallo e Castiglia sulle coste occidentali africane, Cristoforo Colombo e la navigazione atlantica, l’esplorazione della costa meridionale dell’Africa occidentale e la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, Giovanni Caboto e la scoperta della penisola di Terranova e, infine, il viaggio verso l’India di Vasco da Gama. Paolo Leonini

che si spingono all’esplorazione per motivi diversi – chi per il piacere di scoperta, chi per mera obbedienza al proprio sovrano – e che accompagniamo, pagina dopo pagina, ora di fronte al successo, ora alla disillusione, a un passo dalla rovina del naufragio o nel trionfo del ritorno in patria, arricchiti di tesori e nuove conoscenze. Ciascuno degli otto capitoli che compongono il volume affronta un’area geografica di esplorazione, o un viaggio specifico, presentandone

Donata Battilotti, Gianluca Belli, Amedeo Belluzzi Nati sotto Mercurio Le architetture del mercante nel Rinascimento fiorentino

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Edizioni Polistampa, Firenze, 205 pp., ill. b/n

26,00 euro ISBN 978-88-596-0948-3

Il volume presenta e analizza, in tre saggi, gli spazi dei

mercanti nella Firenze del Quattrocento e Cinquecento. I primi due contributi affrontano l’argomento spartendosi la materia cronologicamente – un secolo ciascuno –, mentre il terzo offre un’analisi trasversale, occupandosi degli sviluppi riguardanti le Arti della Lana e della Seta. Il primo saggio (Belli), parte dalla dimensione, piú individuale, della bottega, per allargarsi verso quella, piú collettiva, dei raggruppamenti o conventi fino a quella, pubblica, dei mercati cittadini. Il secondo contributo (Belluzzi), tratta dello sviluppo urbano fiorentino cinquecentesco e dell’evoluzione delle caratteristiche architettoniche degli ambienti mercantili, in cui, tra le altre, risulta sempre piú marcata la distinzione – già presente nel secolo precedente – tra gli ambienti destinati alla vita professionale e quelli della vita privata. Vengono esaminate in dettaglio le aree della città dedicate ai mercati e la consistenza degli spazi pubblici per il commercio. In entrambi, un capitolo è dedicato alla trattazione dei palazzi dei mercanti, offrendo la possibilità di utili confronti diretti tra i

due secoli. Infine, il terzo saggio (Battilotti), sulle strutture delle Arti della Lana e della Seta, sviluppa il tema ampliandolo alle tecniche di lavorazione dei prodotti e alle pratiche commerciali che seguivano alla produzione. Il volume è corredato da un ricco repertorio iconografico: dalle incisioni quattrocentesche della Serie dei Pianeti attribuite a Baccio Baldini – da cui il titolo e la copertina –, ai dipinti, alle fotografie, alle mappe d’epoca e agli schemi, gli spazi dei mercanti vengono illuminati sotto ogni profilo e inseriti nel contesto dello sviluppo urbanistico cittadino, di cui rappresentano una delle ossature portanti. Molto ricca è anche la bibliografia, che riporta i titoli piú recenti, nonché numerosi testi redatti e pubblicati nell’epoca a cui l’opera fa riferimento. P. L. Paola Gallerani Animali reali Lo zoo di Luigi XIV nei dipinti di Pieter Boel Officina Libraria, Milano, 88 pp., ill. col.

24,95 euro ISBN 978-88-89854-76-1

Il volume offre un’ampia selezione di disegni e schizzi di animali dell’artista fiammingo Pieter Boel (1622-1674).

Seppure poco conosciuto, Boel fu un pittore di indubbie capacità, in servizio presso la manifattura dei Gobelin e già apprezzato dai suoi contemporanei, come Charles Le Brun, prémier peintre di Luigi XIV, che lo ingaggiò tra i disegnatori dello splendido ciclo di arazzi dei Mesi. Il libro è un vero e proprio viaggio tra gli animali custoditi nella ménagerie allestita dal Re Sole presso Versailles (una sorta di giardino zoologico ante litteram). Ordinato seguendo i versi del maestro fontaniere di corte, Claude Denis – manoscritti nei primi anni del 1670 (e qui tradotti dalla curatrice del volume) – che illustrano una a una le meraviglie della visita alla reggia, il volume ci illustra il percorso attraverso i raffinati dipinti di Boel, proposti in grandi tavole con le rime di Denis a fronte. Oltre a costituire un piacere per gli occhi, l’opera si propone come documentazione dell’opera di Boel, finora portata avanti in rare occasioni e solo di recente. P. L. marzo

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Sia gloria alla regina musica • Raccolgono brani del repertorio

transalpino due recenti registrazioni, dedicate a una delle piú celebri regine di Francia e al mondo degli Ordini monastici femminili

L

a registrazione Antoine de Févin. Requiem d’Anne de Bretagne (ZZT 110501, 1 CD, distr. Jupiter Classics) celebra Anna di Bretagna, moglie di Carlo VIII e di Luigi XII. Una figura amatissima, per la cui morte prematura, il 9 gennaio 1514, il secondo marito dispose ben quaranta giorni di celebrazioni funebri. Eventi di tale importanza erano anche occasione per il dispiego di liturgie in cui la presenza musicale aveva un ruolo primario. E ancor piú nel caso specifico, dove a intervenire furono ben due cappelle musicali, poiché sia Anna che Luigi XII avevano un proprio ensemble, ciascuno dei quali riuniva alcuni dei piú famosi musicisti dell’epoca. Tra le Messe da requiem che, cronologicamente parlando, coincidono con la morte della sovrana e con i musicisti presenti nelle due cappelle, Denis Raisin Dadre, alla guida dello splendido gruppo tutto al maschile Doulce Mémoire, ha scelto la Missa pro defunctis di Antoine de Févin, un’opera di grandissimo pathos, caratterizzata dall’insolito utilizzo di cinque voci, anziché delle canoniche quattro parti. La scelta del direttore è oltretutto avvalorata dal forte attaccamento, storicamente testimoniato, di Luigi XII verso l’arte di questo musicista. Creatore di linee melodiche raffinate e fortemente ancorate al repertorio monodico liturgico, Antoine de Févin adotta spesso un linguaggio accordale che in questa esecuzione è affidato alternativamente alle 5 voci soliste

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e agli strumenti della tradizione rinascimentale (tromboni, flauti a becco, cornetti, ecc.) a rinforzo e/o in sostituzione delle voci. L’apparente esiguità numerica del complesso vocale non pregiudica in alcun modo il maestoso risultato finale, grazie all’unione con gli strumenti a fiato, le cui sonorità potenti contribuiscono a creare un clima musicale di particolare solennità.

Musiche per pie donne A una dimensione decisamente piú intima e contenuta ci riportano le atmosfere musicali del disco Henry Du Mont. Pour les dames religieuses (RIC 305, 1 CD, distr. Jupiter Classics), una raccolta di brani tratti dai Cantica Sacra di Henry Du Mont, stampati a Parigi nel 1652, selezionati sulla base dell’organico e della peculiare natura compositiva che li rese particolarmente adatti a un

repertorio eseguito presso gli Ordini femminili, vale a dire per quelle dames religieuses qui ayment les motets à peu de voix... Oltre ad alcuni brani vespertini e una serie di mottetti per varie feste dell’anno liturgico, la scelta include anche una Messe pour les couvents, tratta da un’altra raccolta del 1669, le Cinq Messes en Plain-chant. Sia nei mottetti che nei movimenti della Messa emerge una fattura contrappuntistica piuttosto semplice, spesso affidata al dialogo di due voci, a pacati passaggi solistici, e piú raramente all’intervento a tre/quattro voci. Se da un punto di vista vocale si tratta di musiche non particolarmente impegnative per l’esecutore, le cinque soliste e le voci di ripieno del gruppo belga Chœur de Chambre de Namur, accompagnate dall’organo, dalla viola da gamba e dal violino, diretti da Bruno Boterf, che si conferma ottimo direttore e interprete appassionato del Seicento barocco, eseguono questo repertorio con elegante grazia e un raffinato approccio interpretativo permettendo alla semplicità della scrittura dei brani di brillare di nuova luce. Franco Bruni

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Nel segno dell’eclettismo musica • Non ancora quarantenne,

il lettone Eriks Ešenvalds si è imposto da tempo all’attenzione del pubblico e della critica, grazie a composizioni che rileggono, con grande originalità, anche modelli e schemi della tradizione musicale del Medioevo

È

davvero difficile trovare un aggettivo capace di definire l’universo sonoro del compositore lettone contemporaneo Eriks Ešenvalds. Vicino, stilisticamente parlando, alla coeva produzione baltica, Ešenvalds non è insensibile ai richiami dell’antica polifonia – citata nelle musiche qui presentate –, ma, al tempo stesso, si cimenta con il semplice fluire del canto monodico della tradizione liturgica altomedievale. Nel suo linguaggio, lontano da ogni possibile categorizzazione, emerge un deciso eclettismo, in seno al quale spicca l’interesse per la vocalità, prediletta in tanta sua produzione.

Echi di una lunga tradizione La Passion and Resurrection (CDA67796, 1 CD, distr. www.soundandmusic. it) presentata dall’etichetta Hyperíon, ben testimonia tanta versatilità. Ricollegandosi a una lunga tradizione compositiva, l’opera si caratterizza per l’ampio uso di stili compositivi diversi, nel tentativo di narrare, secondo una trama slegata da una consequenzialità cronologica, gli eventi pasquali con testi tradotti in inglese tratti dal Vecchio Testamento e dai Vangeli, seguendo indifferentemente la liturgia bizantina quanto quella romana. La frammentarietà della narrazione si riscatta attraverso momenti musicalmente molto pregnanti, nei quali la magnifica voce del soprano Carolyn Sampson, che incarna la Maddalena, il coro Polyphony e la Britten Sinfonia, diretti da Stephen Layton, assecondano

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brillantemente il variegato mondo sonoro del compositore. Accanto alla Passion, che potremmo affiliare alle antiche forme dell’oratorio musicale, l’antologia si sofferma su altre cinque composizioni per coro e orchestra, su testi, in questo caso profani, in cui si ha modo di conoscere meglio il particolare interesse di Ešenvalds per l’espressione vocale abbinata agli strumenti.

Varietà di linguaggi Anche qui non mancano le sorprese di un linguaggio sempre «nuovo», passando dai toni crepuscolari di Evening, alla ricca mutevolezza timbrica di Night Prayer, alle tecniche avanguardistiche di A drop in the Ocean, dedicato alla figura di Maria Teresa di Calcutta, all’insolito scenario folklorico albanese della Legend of the walled-in woman, con i ricorsi a espressioni vocali tipiche del Paese balcanico, per concludersi, infine, con Long Road, in cui, lasciata da parte la sperimentazione musicale, si ritorna alla semplicità di un linguaggio piú scarno, ma altrettanto convincente. F. B. marzo

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