Medioevo n. 180, Gennaio 2012

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PRETE GIANNI OGAM PIGELLO PORTINARI FOLLIA ACQUAPENDENTE MISTRà dossier ORDINI RELIGIOSI

Mens. Anno 16 n. 1 (180) Gennaio 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 1 (180) gennaio 2012

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

protagonisti

pigello portinari, un banchiere a milano

ora et labora

i primi monasteri la regola di benedetto cluny e la guerra delle abbazie I FRATI MENDICANTI

misteri

la leggenda del prete gianni

ogam

il segreto dei druidi

€ 5,90



sommario

Gennaio 2012

ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

archeologia Mercante e sindaco Muggia ritrova l’antico Duomo La signora dei Longobardi

6 9 11

mostre Uno spirito inquieto Trent’anni irripetibili Il principe... radioso

8 10 14

appuntamenti Medioevo Oggi Nel paese dei buoi L’Agenda del Mese

12 12 16

immaginario Follia

Menti in bilico

di Paolo Galloni

58

iconografia L’amor profano

Un catino pieno d’amore di Luca Pesante

66

66

94 luoghi

STORIE

grecia bizantina

leggende Il Prete Gianni La leggenda del re sacerdote

La capitale perduta di Marco Di Branco

24

di Francesco Colotta

misteri Scrittura Ogam Il segreto dei druidi di Elena Percivaldi

Mistrà

CALEIDOSCOPIO

34

44

Dossier

libri Il fascino del vapore Lo scaffale

112 112

musica Poker vincente

112

ora et labora

storia degli ordini religiosi di Chiara Mercuri

protagonisti Pigello Portinari

Il banchiere che amava l’arte di Maria Paola Zanoboni

44

scienza e tecnica Orologio a molle

Le ruote del tempo di Flavio Russo

106

94

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Ante prima

Mercante e sindaco

archeologia • I resti di un camino monumentale, suppellettili di pregio e,

soprattutto, le testimonianze delle fonti scritte provano la quasi certa scoperta della dimora di un protagonista del commercio della lana del tardo Medioevo

A

Cestres, un borgo non lontano da Digione, in Borgogna, sono tornati alla luce i resti di un abitato medievale, con tracce di frequentazione risalenti alla seconda metà del XIV secolo e i segni di un repentino e completo abbandono

agli inizi del Quattrocento. Gli scavi, condotti dall’INRAP in una località nota come la «via dei Sindaci», hanno individuato un grande edificio con murature in pietra, coperto da un tetto di lastre di ardesia, secondo un uso tipico della regione borgognona. Il complesso sembra essersi sviluppato in funzione di una struttura a pianta rettangolare, che si estende su una superficie di almeno 19 x 8 m. Quest’ultima, a sua volta, ruota intorno a una ampia sala, che con termine moderno potremmo definire come una Cestres (Borgogna, Francia). Lo scavo delle strutture che si pensa componessero la ricca dimora del mercante di lana Huguenin Jacquin. Al centro si riconosce il grande focolare, sul quale era sospesa un’ampia cappa. La montatura di un anello recuperata nel corso degli scavi della casa di Huguenin Jacquin.

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sorta di grande «soggiorno», al centro della quale era stato apprestato un focolare imponente, di circa 7,5 mq. Rivestito da una corona di grandi lastre, questo focolare, che diffondeva il suo calore in tutto l’ambiente, ricorda i camini dotati di una cappa sospesa alle travi del soffitto, che vengono detti «saraceni».

Un indizio decisivo La monumentalità del camino distingue la struttura dalle modeste abitazioni solitamente attestate nella Borgogna medievale e i materiali archeologici recuperati corroborano l’ipotesi che si tratti di una struttura riconducibile a un personaggio di spicco. Sono stati infatti rinvenuti numerosi ornamenti per abiti, una cintura in bronzo dorato, uno sperone, un manico di cucchiaio antropomorfo e molte monete, alcune delle quali recano l’effigie di gennaio

MEDIOEVO


Oddone IV, che fu duca di Borgogna dal 1315 al 1349. Inoltre, la presenza di una matrice per sigilli e di alcuni pesi monetari provano che la casa doveva essere sede di transazioni commerciali, nonché dell’esercizio di un qualche potere. E, grazie a una fortunata coincidenza, da studi su documenti d’archivio, gli archeologi hanno forse individuato il nome del proprietario della dimora, permettendo altresí di ricostruire il profilo socioeconomico dei suoi occupanti, nonché le loro biografie. Le ricerche hanno ricostruito la vicenda di Huguenin Jacquin, discendente di una famiglia di sindaci del borgo di Cestres, che fu un mercante di lana attivo su scala internazionale grazie all’intermediazione del milanese Antonio dei Grassi. E, in effetti, a partire dalla metà del XIV secolo, è documentata la massiccia presenza di mercanti lombardi nelle fiere, in occasione delle quali si concentravano principalmente proprio sul commercio della lana, dei cavalli, senza peraltro disdegnare la pratica dell’usura.

In alto uno dei settori dello scavo di Cestres. Oltre alla sala dotata del focolare, sono stati individuati la cucina e altri ambienti di servizio. A sinistra una moneta recuperata con altre suppellettili negli ambienti della casa del mercante. una fine repentina e con ogni probabilità tragica.

Vittime della peste?

Ascesa e ricchezza Dal 1360, Huguenin Jacquin si fa garante di Antonio dei Grassi e alcuni anni piú tardi, nel 1376, ne diviene il creditore e arriva a far confiscare le lane del Milanese. Dal 1383 al 1384, Jacquin è signore del castello di Talant e agisce da intermediario fra la duchessa Margherita e i suoi allevatori di bestiame. In seguito, sua figlia Églantine sposa un certo Perrenot Poinsot de Saint-Seine. La ragazza rileva l’attività paterna tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, in compagnia del figlio Guillaume, che, piú tardi, divenne sindaco di Cestres. Il nome di Huguenin Jacquin e della sua famiglia, dimenticato dalla memoria collettiva, torna alla luce grazie all’archeologia, e la via dei Sindaci avrebbe conservato la traccia di una delle prerogative della dinastia a cui apparteneva il mercante.

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gennaio

Le indagini hanno consentito di gettare luce su una figura solitamente poco studiata, cioè quella di un mercante rurale, detentore di un discreto potere e attivo su piú fronti: come commerciante, castellano e rappresentante della comunità. Saldamente radicato nel suo territorio, Jacquin operò anche in ambito internazionale grazie alla lana, materia prima che fece la ricchezza degli altopiani della regione di Châtillon nel Medioevo. E, non a caso, nei pressi della residenza di Jacquin, sono stati individuati edifici adibiti all’allevamento degli ovini. L’abitazione del mercante sembra essere stata abbandonata agli inizi del XV secolo e si sta ora cercando di accertare la causa di

Nel 1337 era scoppiata la guerra dei Cent’anni, ma tra il 1380 e il 1417 il territorio di Châtillon aveva anche patito una terribile depressione demografica. Patrice Beck, docente all’Università di Lille III, ha stimato che allora scomparvero 322 unità abitative, cioè oltre il 50% di quelle attestate nella zona. Jacquin e la sua famiglia abbandonarono numerosi beni personali, molti dei quali di valore: per quale motivo potrebbero averlo fatto? Forse per l’esplosione di una delle numerose pestilenze che flagellarono anche questa regione o forse per sfuggire alle razzie delle bande di predoni, particolarmente feroci, che batterono la zona. L’unica certezza è che la casa non fu mai piú rioccupata e, dopo essere stata parzialmente demolita, per recuperarne materiale da costruzione fu progressivamente obliterata da una coltre di terreno colluviale. (red.)

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Ante prima

Uno spirito inquieto mostre • Venezia celebra Lorenzo Lotto, pittore di

straordinario talento, di cui diede prova con grandi composizioni a soggetto sacro e penetranti ritratti

V

enezia rende omaggio a uno dei suoi figli piú celebri, Lorenzo Lotto, con una mostra che, grazie al prestito dell’Ermitage di San Pietroburgo porta alle Gallerie dell’Accademia due dipinti raramente – o mai – prima visti in Italia: il Ritratto di coniugi e la Madonna delle Grazie. Nato intorno al 1480, Lotto si formò tra Venezia e Treviso, e, fin dal 1506, iniziò quella vita errabonda, in centri piú o meno provinciali, che condusse fino alla fine. Nel 1508 è nelle Marche e l’anno successivo a Roma, impegnato in decorazioni degli appartamenti vaticani di cui non resta però alcuna testimonianza. Dopo il 1513 iniziò il periodo bergamasco dell’artista, in un ambiente piú adatto al suo linguaggio sempre piú antiaccademico e anticlassico. Sono anni in cui vedono la luce numerosi capolavori d’ispirazione religiosa,

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A destra Madonna delle Grazie, olio su tavola di Lorenzo Lotto. 1542. San Pietroburgo, Museo di Stato dell’Ermitage. In basso Lapidazione di santo Stefano, olio su tavola di Lorenzo Lotto, particolare della predella della pala Martinengo Colleoni, dalla chiesa di S. Bartolomeo. 1513-1516. Bergamo, Accademia Carrara. ma particolarmente intensa in questo periodo è anche l’attività di ritrattista. In seguito, nonostante le importanti commissioni veneziane, il pittore continua a viaggiare tra Venezia, Treviso e le Marche.

Gli ultimi anni nelle Marche Abbandonata definitivamente Venezia (1549) e tornato nelle Marche, il Lotto, la cui religiosità si era sempre piú interiorizzata, fissa la sua dimora a Loreto, diventando nel 1554 oblato della Santa Casa. Vive ancora due anni attivi e forse

Dove e quando

«Omaggio a Lorenzo Lotto. I dipinti dell’Ermitage alle Gallerie dell’Accademia» Venezia, Gallerie dell’Accademia fino al 26 febbraio Orario lu, 8,15-14,00, ma-do, 8,15 - 19,15 Info tel. 041 5200345; www.gallerieaccademia.org

gennaio

MEDIOEVO


piú sereni, per poi spegnersi alla fine dell’autunno del 1556. La mostra pone in dialogo le opere provenienti dall’Ermitage, rispettivamente degli anni Venti e degli anni Quaranta del Cinquecento, con altri dipinti lotteschi provenienti da musei europei e dalla collezione delle Gallerie dell’Accademia. Il Ritratto di coniugi, eseguito verso la fine del soggiorno bergamasco del pittore, rappresenta una coppia di patrizi locali della cerchia dei committenti dell’artista; intorno a questo capolavoro sono raccolte due opere della prima attività lottesca, la Giuditta Aldobrandini e la predella della pala Martinengo Colleoni, già nella chiesa di S. Bartolomeo a Bergamo.

Confronti incrociati La piccola Madonna delle Grazie è invece un’opera piú tarda, il cui stile – un parlare piú sommesso e domestico che segna l’ultima fase artistica del Lotto – è posto accanto a quello potentemente arcaistico della straordinaria Pietà della Pinacoteca di Brera. Dell’ultimo soggiorno veneziano è testimonianza il Cristo in Gloria del Kunsthistorisches Museum di Vienna, qui presentato assieme a una versione precedente proveniente dalla Collezione d’Arco di Mantova e messo per la prima volta a diretto

Ritratto di giovane (Alvise Rovero?), olio su tela di Lorenzo Lotto. 1530-1532. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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gennaio

C

Muggia ritrova l’antico Duomo

orreva l’anno 1263 e Arlongo dei Visgoni era vescovo di Trieste quando una vecchia chiesa, denominata in seguito la «chiesa antiqua», fu distrutta e sui suoi resti, inglobati, ne nacque una nuova, quella che sarebbe stata il Duomo di Muggia (cittadina in provincia di Trieste, situata sulla sponda meridionale del vallone omonimo), dal 1256 libero Comune. Lo documenta il verbale, su pergamena, della sua consacrazione. Scoperta una prima volta negli anni Trenta del Novecento, quando lavori di sterro ne danneggiarono i resti, la chiesa antiqua torna oggi alla luce (vedi foto qui sotto), sotto le fondamenta del Duomo, in ristrutturazione. La riscoperta, avvenuta nell’ambito delle indagini archeologiche preventive effettuate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia, consentirà di ricostruire, attraverso lo scavo stratigrafico e il rilievo, la storia dell’edificio religioso: un’antica chiesa, appunto, con tre absidi, precedente il 1263, anno in cui, come riportano le fonti storiche, fu deciso di cancellare il vecchio edificio di culto, sovrapponendone uno nuovo, con un’abside singola quadrangolare, affiancata da due cappelle laterali. Della chiesa costruita nel 1263 oggi non rimangono pavimentazioni, ma i suoi muri perimetrali sono ancora ben visibili in corrispondenza della fascia bassa dell’abside centrale del Duomo attuale. Della chiesa antiqua, invece, sono stati individuati, grazie allo scavo, alcuni residui di piani pavimentali in lastre di arenaria. L’importanza delle indagini in corso sta nel fatto che, oltre a definire, in parte, la storia e la cronologia della chiesa antiqua, si tratta delle prime ricerche di un certo rilievo che abbiano mai interessato il sottosuolo del centro storico di Muggia. Qui nacque il primo insediamento costiero – burgus Lauri –, dando vita a una seconda Muggia, corrispondente all’attuale, e che, lungamente, ha convissuto con la Muggia piú antica, il Castrum Muglae, l’insediamento di altura sulla collina. La speranza è di restituire alla storia quella mole di testimonianze materiali che, affiancate alle fonti scritte, sono indispensabili alla conoscenza profonda delle radici culturali di una comunità. (red.) confronto con le tre versioni bronzee che ne ricavò il Sansovino, giunte dalla basilica di S. Marco, dal Museo del Bargello di Firenze e dai Musei Statali di Berlino. Tra i ritratti, è presente il celebre Ritratto di giovane (probabilmente identificabile con Alvise Rovero), accompagnato dal ritratto eseguito negli stessi anni del Domenicano dei SS. Giovanni e Paolo, dei

Musei Civici di Treviso, e da quello proveniente dal Castello Sforzesco di Milano, simile dal punto di vista compositivo ed emotivo. Altro punto forte dell’esposizione è il Ritratto di gentiluomo (in cui si ritiene di poter riconoscere Fioravante degli Azzoni Avogadro), restaurato con esiti insperati e mai presentato al pubblico dopo la mostra veneziana del 1953. (red.)

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Ante prima

Trent’anni irripetibili mostre • Prima di finire i suoi giorni da

pittore «maledetto», Caravaggio ebbe il tempo di rivoluzionare la scena artistica e, soprattutto negli anni romani, fu uno dei maestri piú richiesti da grandi mecenati e dalla committenza ecclesiastica

L

ombardo d’origine, il soprannome di Caravaggio con il quale è piú noto deriva dal nome della cittadina in provincia di Bergamo di cui era originaria la sua famiglia, Michelangelo Merisi viene da sempre associato a Roma, perché è nella Città Eterna che il suo genio esplose in tutta la sua rivoluzionaria potenza. Dopo essersi formato a Milano, intorno al 1592, Caravaggio si trasferí appunto a Roma, frequentando per alcuni mesi la bottega del Cavalier d’Arpino. Tre anni piú tardi conobbe il colto cardinale Francesco Maria Del Monte, suo primo mecenate, grazie al quale completò la sua educazione e ottenne importanti commissioni.

A destra Susanna e i Vecchioni, olio su tela di Artemisia Gentileschi. 1610. Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn. In basso Santa Maria Maddalena penitente, olio su tela di Giovanni Francesco Guerrieri. 1611. Fano, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano. Coinvolto nel 1606 in una rissa mortale, fu colpito da bando capitale e riparò a Napoli. Passò quindi a Malta e da qui in Sicilia (1608), sostando a Siracusa, Messina e Palermo. Risalito sino a Port’Ercole, ai confini dello Stato Pontificio, si spense per un attacco di febbre nel 1610, quando ormai il bando stava per essergli revocato.

I compagni di strada Ma prima di fuggirne, chi furono, a Roma, i compagni di strada dell’artista? Alla domanda risponde la mostra in Palazzo Venezia, che Dove e quando

Roma al tempo di Caravaggio. 1600-1630 Roma, Palazzo Venezia fino al 5 febbraio Orario martedí-domenica, 10,00-19,00; lunedí chiuso Info e prenotazioni tel. 06 32810 www.romaaltempodicaravaggio.it Catalogo Skira

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ricostruisce un momento cruciale della pittura italiana, che nasce negli ultimi anni del XVI secolo in una Roma ancora in crisi per il traumatico scisma luterano e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro importanti pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni, Urbano VIII Barberini. Questo irripetibile momento durò circa trent’anni, dal 1600 al 1630 e dagli avvenimenti accaduti in tale arco di tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse sino alla fine del Seicento. I primi anni del XVII secolo sono segnati dal confronto serrato e diretto tra due giganti della pittura italiana: il bolognese Annibale Carracci, capo indiscusso della corrente classicista, e il lombardo Caravaggio, creatore di una rivoluzionaria forma di rappresentazione della realtà. Il rapporto tra i due artisti è reso evidente all’inizio del percorso dall’accostamento fra le rispettive gennaio

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Sant’Agostino, olio su tela attribuito a Michelangelo Merisi da Caravaggio. Ante 1600. Londra, collezione privata.

versioni della Madonna di Loreto realizzate negli stessi anni. La comparazione dei due quadri, mai messi a confronto prima d’ora, è di fondamentale importanza ai fini scientifici della mostra.

I continuatori della lezione caravaggesca Le sezioni sucessive presentano sia opere di destinazione pubblica (pale d’altare o dipinti legati ai luoghi di culto), sia dipinti di destinazione privata realizzati su commissione dei maggiori mecenati dell’epoca. Negli anni successivi le stimolanti basi gettate dai due maestri furono raccolte e sviluppate sia dai pittori classicisti bolognesi – rappresentati in mostra da artisti quali Domenichino,

Lanfranco, Guido Reni, Albani – che avevano seguito Annibale nella città papale, sia da quanti fecero proprio il drammatico naturalismo di Caravaggio, come testimoniano i dipinti di Orazio e Artemisia Gentileschi, Carlo Saraceni, Orazio Borgianni e Bartolomeo Manfredi. Le opere scelte per l’esposizione

sono state selezionate in modo da dare il panorama piú ampio possibile delle complesse vicende che caratterizzarono l’ambiente artistico romano all’inizio del Seicento. Insieme a opere provenienti da musei e collezioni private. Per l’occasione è presente eccezionalmente in mostra per la prima volta in Italia il Sant’Agostino, recentemente attribuito a Caravaggio e oggetto di un vivace dibattito. A questo dipinto sarà dedicata una giornata di studi, che vedrà riuniti a confronto i protagonisti della querelle attributiva. (red.)

La signora dei Longobardi R

ecenti indagini archeologiche condotte a Lucca hanno portato alla scoperta, eccezionale, di una tomba femminile, databile fra il 600 e il 650, che arricchisce le conoscenze sulla città toscana in età longobarda (vedi foto). La tomba – la prima del genere a Lucca – raccoglieva le spoglie di una donna appartenente all’aristocrazia della città, deposta in cassa lignea con i suoi oggetti di ornamento personale: un paio di orecchini a cestello in argento finemente cesellato, rinvenuti ancora «in posto» ai lati della mandibola; un pettine in osso decorato a incisione adagiato sul ventre. Ma, dallo sviluppo dello scavo, è apparso che la tomba della «Dama con gli Orecchini» si inseriva in un gruppo di almeno sette sepolture, collocate dentro un edificio costruito con possenti muri in ciottoli e malta. Si tratta di una chiesa cimiteriale e le caratteristiche architettoniche ancora leggibili, che tradiscono l’acquisizione dei modelli del V e VI secolo d’area milanese e ravennate, avallano l’interpretazione. Le tombe sono disposte per «righe», orientate in senso sud-ovest/nord-est, secondo un uso peculiare di questo momento storico, che vede anche a Lucca e in Toscana la progressiva «contaminazione» delle tradizioni romane e di quelle germaniche. I dati stratigrafici confermano che la chiesa fu eretta tra il V e il VI secolo. È stata subito valutata la possibilità di identificarla con la chiesa suburbana di S. Gervasio, di cui i documenti lucchesi

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gennaio

attestano l’esistenza già nel 739, e la collocazione presso l’attuale chiesa di Santa Maria Foris portam (S. Maria «bianca»); tuttavia, potrebbe trattarsi di altra fondazione di cui non ci è giunta notizia dalle fonti. Essa costituisce un ritrovamento eccezionale, essendo la prima di cosí antica fondazione che affiora dall’attività di scavo a Lucca – dopo i resti di S. Bartolomeo in silice scoperti nel vicino complesso del S. Ponziano, nel 2005 – e, soprattutto, getta una luce particolare sulla storia del vivace sobborgo detto «di Cipriano», sorto fuori della porta orientale della Lucca altomedievale lungo l’antica via che portava a Firenze, luogo di residenza di eminenti famiglie dell’aristocrazia longobarda, da cui provengono vescovi e personaggi di spicco dell’alta società lucchese dell’VIII secolo. L’affioramento del margine sud dell’antica via inghiaiata (ricalcata dalla via Elisa), che correva a pochi metri dall’edificio ecclesiastico, completa la ricostruzione della topografia di questo settore della contrada, la cui vita si è protratta fino ai secoli centrali del Medioevo, tra il X e l’XI secolo. In questo momento la chiesa e l’area cimiteriale risultano dismesse, incise da fosse e scassi di ogni genere, finalizzati al recupero di materiali da costruzione, che preludono a una nuova urbanizzazione, di cui sono sopravvissuti solo esigui lembi di strutture messe in opera con materiale di spoglio. (red.)

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Ante prima

EDIO VO M E S S

oggi

ono passati 42 anni da quando debuttò a Milano il Mistero Buffo di Dario Fo e Franca Rame, spettacolo che fece epoca. I due recitavano nel capannone di una piccola fabbrica dismessa, trasformato in una sala teatrale. Mistero Buffo cercava di dimostrare che esiste un teatro popolare di grande valore, nient’affatto succube o derivato da testi della tradizione erudita, espressione della cultura dominante. Da quel momento in poi lo spettacolo è stato replicato in tutta Italia e all’estero e
la critica iniziò a studiare il «metodo» Fo, come, per esempio, l’uso del grammelot, una lingua che non esiste. Oggi, dopo quasi mezzo secolo, quel lavoro è tornato in scena con il titolo Mistero Buffo, le origini, in un tour iniziato a fine novembre che approderà il 20 gennaio all’Auditorium della Conciliazione di Roma, il 23 gennaio al Teatro Obihall di Firenze e il 18 febbraio al Teatro di Varese. Infatti i monologhi presentati sono un grande

estratto di brani provenienti dalla tradizione popolare di epoche e paesi diversi, ma mantenendo sempre un occhio alla realtà e alla cronaca contemporanea. Una selezione di testi dunque, sí perché negli anni la drammaturgia si è arricchita anche di storie provenienti da altre culture. Un vero e proprio work in progress che è arrivato nel tempo a contare ben sei Misteri Buffi differenti. Lo spettacolo di Fo è anche un film in 3D: è stato infatti ridotto per lo schermo da Felice Cappa, regista di riduzioni per la tv di opere teatrali. «L’idea di riprendere Mistero Buffo in 3D è un’ ulteriore tentativo di far dialogare la narrazione orale, che può essere considerata la piú antica forma di rappresentazione, con l’immagine in 3D, che sta creando nuove modalità di fruizione del cinema e della televisione», racconta il regista. Una ricerca che tenta di trovare una strada nuova nella contraddizione tra lo spettacolo dal vivo e la sua riproduzione.

Nel paese dei buoi

U

na corsa cavalleresca «fuori stagione» si corre ogni anno a Buti, piccolo borgo in provincia di Pisa, di origine romana, il cui toponimo deriva dal latino Buiti, cioè «pascolo di buoi». Il locale Palio delle Contrade si svolge, infatti, nella domenica che segue il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, giorno in cui, nel passato, in paese si teneva una grande fiera. A sfidarsi sono le sette contrade di Pievania, San Francesco, San Nicolao, San Rocco, Ascensione, La Croce e San Michele. Nella domenica del Palio, quest’anno il 22 gennaio, di primo mattino nel Duomo cittadino si celebra la Santa Messa dei Cavallai, dopodiché nelle contrade e nelle osterie del borgo è usanza ritrovarsi per far colazione con la tradizionale trippata. A metà mattina i cortei storici delle contrade sfilano fino a raggiungere il sagrato del Duomo, dove avviene la consegna

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ai fantini di giubba e berretta e la benedizione dei cavalli. Nel primo pomeriggio iniziano le corse su un tracciato interrato, adeguatamente protetto, lungo circa 750 m, con due leggere curve sul primo tratto e un’ultima curva prima dell’arrivo in leggera salita. Seguendo un rituale simile al Palio di Siena, un mossiere chiama i cavalli ai canapi sulla base di un elenco che gli viene consegnato in una busta. Dopo tre batterie, i tre vincitori si contendono la finale. Al termine della corsa, le sette contrade si ritrovano nella loro sede per la cena finale. Le manifestazioni si aprono la domenica precedente al Palio, quando il corteo storico della contrada vincitrice dell’ultima edizione si muove dalla propria sede e arriva al Duomo, dove riconsegna

il Drappo al Pievano, che assieme al Presidente del Seggio procede al sorteggio delle tre batterie. Nella settimana che precede il Palio, nella chiesa di ogni contrada viene celebrata una Santa Messa, alla quale segue un banchetto serale. Tiziano Zaccaria gennaio

MEDIOEVO


I «secoli bui» sul grande schermo Il cinema che reinventa il Medioevo, è il tema di Immagini di medioevo nel cinema-I classici. Volume I, a cura di Raffaele Licinio. Si tratta di un libro virtuale – è pubblicato on line sul sito di Cinema e Medioevo (www.cinemedioevo.net) – che vuole essere un excursus sul cinema storico e, in particolare, su quello dedicato all’Età di Mezzo, affrontato non solo come materiale didattico, ma come arte che riesce a ispirarsi alla sua «potenza immaginifica». Gli articoli si soffermano su vari aspetti del rapporto tra cinema, Medioevo e didattica e sono accompagnati da schede di film scritte da studenti e collaboratori di storia medievale della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi «Aldo Moro» di Bari, con particolare attenzione alle immagini del Medioevo presenti nelle varie pellicole. Di «Medioevi» al plurale parla l’autore, poiché ogni arte crea il suo «personale» Medioevo, «superando confini cronologici e, in molti casi, ignorando, volutamente o meno, la cosiddetta fedeltà storica». Il saggio di Franco Cardini parte dal 1958, anno in cui lo storico vide per la prima volta Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, e fu toccato dallo «scabro bianco-nero del quale

Bergman è maestro, lo stesso de Il posto delle fragole. Poi mi colpí, allora, l’aspetto “veritiero” se non addirittura “veridico” di quel Medioevo, che intuii e giudicai subito come profondamente “mio”». Come egli stesso ammette, Cardini commette un errore, ovvero quello di giudicare con occhi di storico una pellicola che «conteneva un messaggio rigorosamente esistenzialista, non avevo compreso che quel film là non andava assolutamente visto con i medesimi occhi con i quali si poteva guardare non dico La disfida di Barletta, ma neppure l’Aleksander Nevskji o La passione di Giovanna d’Arco». Francesco Violante si sofferma sulle molte riduzioni cinematografiche dedicate ai Templari e al Sacro Graal mentre Gaetano Pellecchia, tra l’altro, analizza l’avvento del sonoro e del colore nei film di ambientazione medievale per passare al mito del cult-trash con Attila; e ancora interventi di Nicoletta Magrino, Riccardo F. Esposito, quest’ultimo sulle commedie boccaccesche e Anna Maria Colonna sul rapporto tra Medioevo e fantascienza. Un percorso articolato e aperto anche alle produzioni piú commerciali con un occhio critico sia dal punto di vista storico che cinematografico. Laura Landolfi


Ante prima

Il principe... radioso mostre • Ricordato

soprattutto per il suo manuale sulla caccia e l’allevamento dei cani, Gastone di Foix fu un personaggio di spicco nella Francia del Trecento

N

el 1343, quando succede al padre, Gastone III di Foix-Béarn ha solo dodici anni. Eredita un titolo di conte (Foix) e piú titoli di visconte (tra cui quello di Béarn). Seppur soggetto all’influenza di Francia, Aragona e Inghilterra, i tre regni dominanti dell’epoca – impegnati nella guerra dei Cent’anni – il suo principato ne fa uno dei signori piú potenti del Midi francese. E, nel 1349, sposa Agnese di Navarra, nipote del re di Francia, Luigi X, detto l’Attaccabrighe. Artefice della propria immagine, il nobiluomo si fa chiamare «Febus», cioè Apollo o Sole. I suoi successi, anche in campo militare, fanno il resto. In breve, diventa l’uomo piú ricco del regno, colui che concede prestiti ai principi e che mantiene una corte fastosa e raffinata. Ma, piú di ogni altra cosa, di lui si ricorda l’opera di una vita: il Livre de la chasse,

In alto e a destra miniature tratte dal Livre de la chasse di Gaston Fébus, redatto nel 1387 e miniato intorno al 1407 sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford. Parigi, Bibliothèque Nationale de France. In basso l’avvelenamento di un levriero, miniatura dal III Libro delle Cronache di Jean Froissart. 1410 circa. Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique. un trattato ricco di informazioni e sistematico, testimone di un amore per gli animali e la natura, la cui edizione piú preziosa è ora esposta nella mostra al Museo di Cluny.

Una personalità ambivalente L’esposizione parigina accende i riflettori su questo singolare protagonista dell’Età di Mezzo: una personalità complessa e ambivalente,

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che seppe trarre profitto dalla sua posizione intermedia fra i regni che si battevano nella Guerra dei Cent’anni. Per tutta la vita si batté contro il suo principale nemico, il conte d’Armagnac, assicurandosi, nel frattempo, di conservare rapporti strategici con i re di Francia, Inghilterra, Castiglia, Aragona e Navarra. La mostra ricostruisce lo scenario in cui Febus si muove: gennaio

MEDIOEVO


trattati, lettere, monete e sigilli, nonché la Promessa di pace redatta da Gaston Febus e indirizzata al conte d’Armagnac, che reca la firma del principe, con quell’epiteto, Febus, scritto secondo la grafia occitana, cioè con la F, e la sua titolatura: «Gastone conte di Foix per grazia di Dio, signore di Béarn».

Sfarzo e amore del denaro Gastone Febus ha plasmato di sé l’immagine di un principe sontuoso e generoso. Accoglieva nello sfarzo le piú grandi personalità del suo tempo nella sua corte di Orthez. E la mostra mette a confronto questa arte di vivere con il gusto per l’ostentazione. In questo quadro l’accento è stato posto in particolare sul lusso della tavola, esponendo rari esemplari di stoviglie in argento, come quelle del Tesoro dell’Ariège. Il principe era divorato dalla passione per il denaro e per il suo accumulo, una caratteristica risaputa fra tutti i suoi contemporanei, mentre meno nota era la sua diffidenza, ossessiva, perfino nei confronti delle persone a lui piú vicine. Quest’uomo brillante nascondeva un volto piú cupo: dopo aver brutalmente ripuditato la moglie, Agnese di Navarra, causò la morte del suo unico figlio, sospettato di avere attentato alla sua vita. E la sua improvvisa scomparsa, nel 1391, al rientro da una battuta di caccia all’orso, fu da molti considerata come una sorta di vendetta divina. S. M.

Calice in argento lavorato a martellatura, dorato e smaltato, dal tesoro di Gaillon. Prima metà del XIV sec. Parigi, Musée national du Moyen-Âge, Musée de Cluny. Il medaglione al centro del manufatto reca l’immagine di un pellicano.

Dove e quando

Gaston Fébus (13311391). Prince Soleil Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 5 marzo Orario tutti i giorni, 9,1517,45; martedí chiuso Info tel. +33 1 53737816; www.museemoyenage.fr

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agenda del del mese mese

Mostre Mantova Virgilio. Volti e immagini del poeta U Palazzo Te, Ala napoleonica fino all’8 gennaio

Come recita il titolo, la mostra documenta i diversi volti assunti nei secoli dallo scrittore e l’impatto esercitato dalle sue opere letterarie sulle arti figurative. Ne è derivato un percorso millenario, sintetizzato nell’esposizione con opere di particolare suggestione, che consentono di risalire a ritroso nel tempo, in un viaggio compiuto idealmente in compagnia di Virgilio: dal monumento che la città di Mantova dedicò nel 1927 al poeta, a prestigiose opere virgiliane dell’età barocca, rinascimentale e medievale, per culminare di fronte a testimonianze antiche capaci di evocare il volto dello scrittore e la fama delle sue opere nel mondo classico. info tel. 0376 323266; tel. 199 199 111; www.centropalazzote.it Parigi La città proibita al louvre. Imperatori della Cina e re di francia U Museo del Louvre, fino al 9 gennaio

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a cura di Stefano Mammini

L’esposizione vuole essere un invito a scoprire gli oggetti e le raccolte degli imperatori del Celeste Impero attraverso una selezione di oltre 100 opere, concesse in prestito per la prima volta dal Museo della Città Proibita di Pechino. Gli oggetti abbracciano un orizzonte cronologico di oltre ottocento anni, dalla dinastia Yuan all’età moderna. Il percorso si snoda in tre grandi sezioni: la prima, nelle sale del museo dedicate alla storia, ripercorre la

cronologia degli eventi e documenta i frequenti scambi tra la Francia e la Cina; la seconda, allestita nel fossato medievale del Louvre, illustra l’architettura fortificata della Città Proibita; mentre nella galleria Richelieu viene presentata la collezione imperiale di Qianlong. info www.louvre.fr Roma Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ’400 U Scuderie del Quirinale fino al 15 gennaio

La vicenda artistica e umana di Filippino Lippi (1457 circa1504) è avvincente, si svolge tra Prato,

(1494-1497).

info e prenotazioni tel. 031 272463

Firenze Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità U Palazzo Strozzi fino al 22 gennaio

Firenze e altre città nella seconda metà del XV secolo: figlio di fra’ Filippo Lippi, celebre pittore e frate carmelitano, e della monaca Lucrezia Buti, cresce a Prato e, artisticamente, a Firenze, nella bottega di Sandro Botticelli (1445-1510). Chiamato Filippino per distinguerlo dal padre, pittore tra i piú famosi e apprezzati del suo tempo, diviene a sua volta un artista di primissimo livello. L’esposizione, oltre a illustrare i circa trent’anni di attività di Lippi – proficui come pochi altri, per quantità e qualità di opere –, mette a fuoco il profilo di Filippino restituendogli la giusta caratura accanto al maestro Botticelli, in crisi nella sua ultima attività a differenza di lui, attivissimo fino all’ultimo, tanto da trasformare l’iniziale rapporto di allievo in quello di vero e proprio emulo e rivale. info www. scuderiequirinale.it

Campione d’Italia

Capolavori di artisti quali Botticelli, Beato Angelico, Piero del Pollaiolo, i Della Robbia, Lorenzo di Credi, illustrano come il fiorire del moderno sistema bancario sia stato

Perugino inedito U Galleria civica San Zenone fino al 15 gennaio

L’esposizione è incentrata sulla presentazione di sei opere del Perugino conservate in una collezione privata del Canton Ticino. Quattro delle sei opere,

appartenenti alla fase finale dell’attività del Vannucci, sono già state esposte presso la Galleria Nazionale dell’Umbria; le altre due, mostrate per la prima volta in questa circostanza, sono invece cronologicamente situabili a immediato ridosso della documentata presenza di Perugino a Venezia

parallelo alla maggiore stagione artistica del mondo occidentale: il Rinascimento. Viene ripercorsa la vita delle famiglie che ebbero il controllo di quel sistema, cogliendo anche il persistente conflitto tra valori spirituali ed economici. Il mito del mecenate è strettamente legato a quello dei banchieri che finanziarono le imprese delle case regnanti, ed è proprio quella convergenza che favorí l’operare di alcuni dei piú importanti artisti di tutti i tempi. Un viaggio alla radice del potere fiorentino in Europa, ma anche un’analisi di quei meccanismi economici che – mezzo millennio prima dei mezzi di comunicazione attuali – permisero ai Fiorentini di dominare il mondo degli gennaio

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scambi commerciali e, di conseguenza, di finanziare il Rinascimento. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org venezia Venezia e l’egitto U Palazzo Ducale fino al 22 gennaio

La mostra illustra i rapporti tra Venezia e l’Egitto nel corso di quasi due millenni: dai ritrovamenti archeologici che documentano relazioni in età classica, fino all’apertura del Canale di Suez, un’iniziativa proposta dal governo marciano già nel primo Cinquecento e realizzata solo nel 1869 su progetto dell’ingegnere trentino Negrelli, all’epoca capo delle ferrovie del Lombardo- Veneto. Nel mezzo stanno figure ed eventi spesso eccezionali: dalla traslazione del corpo di San Marco da Alessandria nell’828, alle avventure ottocentesche di esploratori come Giambattista Belzoni, uno dei padri dell’archeologia italiana; dalle peripezie di mercanti e diplomatici all’inseguimento di merci, tesori e terre, alle curiosità di umanisti e scienziati alle prese con i misteri dei geroglifici, delle piramidi e dell’antica scienza dei faraoni. Il

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tutto accompagnato da reperti preziosi, testi inediti e da opere d’arte che mostrano come i grandi maestri veneziani – da Giorgione a Tiziano, da Tintoretto a Tiepolo, da Amigoni a Strozzi, da Piranesi a Caffi – immaginarono l’Egitto.

Gentileschi viene ricordata piú per il processo per deflorazione intentato al collega del padre Agostino Tassi – che segnò dolorosamente la sua vita e carriera – che per i suoi evidenti meriti pittorici. info tel. 02 860165

848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it; www.visitmuve.it

Milano

info call center

ORO dai Visconti agli Sforza. Smalti e oreficeria nel Ducato di Milano U Museo Diocesano fino al 29 gennaio

Roma Raffaello incontra Raffaello U Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini fino al 29 gennaio

La mostra nasce dallo scambio tra la Galleria Nazionale d’Arte Antica e il Museo Thyssen Bornemisza. L’istituzione romana ha infatti concesso in prestito al museo spagnolo il Cristo e l’Adultera di Tintoretto, ottenendo in cambio il Ritratto di giovane, di Raffaello e collaboratore. L’opera viene messa a confronto, per la prima volta, con la Fornarina. Molte ragioni legano i due dipinti, che, risalenti entrambi all’ultima attività di Raffaello, sono uniti da uno stesso filo di mistero. Prima di tutto quello relativo al soggetto ritratto. Con la Fornarina siamo infatti di fronte alla donna amata da Raffaello secondo una leggenda consolidata, ma di cui conosciamo solo in parte l’origine; con il Ritratto di giovane, al rampollo, appena adolescente, di una nobile famiglia che

non riusciamo a individuare. A oggi, l’ipotesi, piú verosimile vede nella tavola il ritratto di Pier Luigi Farnese (1503-1547). info tel. 06 4824184 oppure 4814591; e-mail: sspsae-rm.gnaa@ beniculturali.it Milano Artemisia Gentileschi. Storia di una passione U Palazzo Reale fino al 29 gennaio

Forte di oltre 40 opere e documenti inediti, la mostra vuole equilibrare i favori a ragione tributati all’eccellente genitore Orazio Gentileschi, e presenta ogni nodo essenziale e specifico della pittura di Artemisia. L’ampia rassegna dà spazio all’intera produzione di questa eccelsa protagonista del Seicento europeo, seguendola nelle sue non comuni esperienze di vita e riscoprendo un’artefice completa, di indubbio talento, che si è espressa in una variegata gamma di temi e generi pittorici.

Roberto Longhi scrisse di lei nel 1916: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità»; tuttavia l’artista ha dovuto aspettare oltre tre secoli per vedere riconosciuto dai posteri il suo status di grande pittrice. Fino al secondo dopoguerra, infatti, la

La mostra esplora, per la prima volta in Italia, l’evoluzione dell’arte orafa a Milano tra il XIV e il XV secolo, attraverso 60 capolavori, tra smalti, oggetti d’oreficeria sacra e profana, codici miniati provenienti dai piú prestigiosi musei e istituzioni italiani e internazionali. Fra le opere piú importanti, si possono ricordare il Codice Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, con la raffigurazione dell’incoronazione a duca di Gian Galeazzo Visconti, firmato dal pittore e miniatore

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agenda del del mese mese Michelino da Besozzo; i gioielli realizzati per Valentina, figlia di Gian Galeazzo Visconti e sposa di Luigi d’Orléans, fratello del re di Francia; o, ancora, i manufatti che ricordano il passaggio a Milano di Leonardo da Vinci, come l’anconetta del Museo Correr di Venezia, esposta per la prima volta, che cita la Vergine delle rocce, o la Pace, con il Cristo in smalto azzurrato proveniente da Lodi. Chiudono idealmente il percorso i tarocchi della Pinacoteca di Brera, carte da gioco, con fondo d’oro puntinato sul quale campeggiano personaggi abbigliati alla moda in uso nella corte del ducato di Milano. info tel. 02 89420019; info.biglietteria@ museodiocesano.it; www.museodiocesano.it Torino Leonardo. Il genio, il mito U Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria fino al 29 gennaio

La rassegna propone una trentina di disegni

del maestro, ai quali fanno da corollario opere d’arte moderna e contemporanea. Ma, soprattutto, la mostra offre l’opportunità di vedere il celebre autoritratto a sanguigna di Leonardo, normalmente conservato nella sala caveau della Biblioteca Reale di Torino. L’opera, nel tempo, ha alimentato un dibattito piuttosto vivace fra gli studiosi, perché piú d’uno ne ha messo in discussione l’effettiva paternità. A oggi, comunque, si tende a considerarla come autentica, attribuendola agli ultimi anni di vita del maestro, da lui trascorsi in Francia, dove era stato invitato da Francesco I. Gli altri disegni esposti offrono un campione significativo della produzione leonardesca, in quanto comprendono ritratti e bozzetti, nonché studi di carattere tecnicoscientifico. info tel. 011 4992333 www.leonardoalla venariareale.it Assisi e altre sedi Il sacrificio di Gesú Cristo. Forma e funzione. Temi sacri nell’arte antica e contemporanea U Assisi, Museo Diocesano e Cripta di S. Rufino, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco e Collezione Perkins, Muma-Museo Missionario Indios Frati Cappuccini dell’Umbria in Amazzonia, Galleria d’Arte Contemporanea della Pro Civitate Christiana, Museo della Porziuncola in S. Maria

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degli Angeli U Città di Castello, Museo Diocesano del Duomo U Foligno, Museo Capitolare Diocesano e Cripta di S. Feliciano U Gubbio, Museo Diocesano U Orvieto, Libreria Alberi del Duomo U Perugia, Museo del Capitolo della Cattedrale di S. Lorenzo U Preci, Museo dell’Abbazia di S. Eutizio in Valcastoriana U Spoleto, Museo Diocesano e Basilica di S. Eufemia U Terni, Museo Diocesano e Capitolare fino al 31 gennaio

La mostra, che è anche l’occasione per visitare un territorio di grande interesse paesaggistico e storico-artistico, propone opere di livello artistico assai elevato. Tra le piú importanti, ricordiamo: il tesoro di Canoscio risalente al VI secolo; il calice di Guccio di Mannaia realizzato al tempo di Niccolò IV (1288-92) e ritenuto una pietra miliare nell’oreficeria medievale; la lunetta affrescata da Puccio Capanna; un Cristo Eucaristico in marmo da riferire a Nino Pisano; o, ancora, un Crocefisso della fine del Quattrocento che rinvia alla cerchia di Giuliano da Sangallo. E poi i dipinti su tela seicenteschi, tra cui un Cristo coronato di spine attribuito a Pomarancio; il velo omerale di Abeto di Preci datato 1763; o la Cena degli Apostoli di Ferruccio Terrazzi e il mosaico dedicato all’Eucarestia di William Congdon.

londra Leonardo da Vinci: pittore alla corte di Milano U The National Gallery, Sainsbury Wing fino al 5 febbraio

L’esposizione londinese, si concentra sul periodo in cui, tra gli anni Ottanta e Novanta del Quattrocento, Leonardo lavorò per il duca Ludovico il Moro. Una fase che coincide con la sua piena realizzazione, come artista e come figura pubblica. Sono stati riuniti oltre sessanta dipinti e disegni del maestro, ai quali si aggiungono opere realizzate da alcuni dei suoi piú stretti collaboratori. E, grazie agli importanti prestiti concessi da istituzioni pubbliche e private, è stato possibile riunire quasi tutti i dipinti ancora esistenti prodotti da Leonardo durante il suo periodo milanese. Tra i quali

ricordiamo: la Dama con l’ermellino (dalla Fondazione Czartoryski, Cracovia), La Belle Ferronnière (dal Museo del Louvre, Parigi) e la Vergine delle rocce, recentemente restaurata e di proprietà della stessa National Gallery. info www. nationalgallery.org.uk new york Perin del Vaga nelle collezioni newyorchesi U The Metropolitan Museum of Art fino al 5 febbraio

Alla vicenda artistica e umana di Perin Del Vaga (al secolo Pietro Bonaccorsi), uno dei maggiori artisti italiani del Cinquecento, rende omaggio il Metropolitan Museum, con una esposizione che riunisce i disegni del maestro già appartenenti alle proprie raccolte e due nuove importanti

info www.museiecclesiastici.it

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acquisizioni. La prima è un dipinto, La Sacra Famiglia con Giovanni Battista bambino, che è una delle poche tele certamente attribuibili alla mano dell’artista, mentre la seconda è uno dei suoi disegni, recentemente riscoperto, raffigurante Giove e Giunone su un talamo nuziale. info www.metmuseum.org Ecouen Maiolica. La ceramica italiana al tempo degli Umanisti

creative investendo in particolare il settore della ceramica. La faenza, che in Italia è conosciuta anche con il nome di «maiolica», si presta soprattutto alla decorazione ornamentale o istoriata che trae ispirazione dal repertorio dell’Antichità aggiungendovi la luminosità del lustro e la brillantezza dei colori. Per la mostra sono state riunite ceramiche provenienti da musei francesi, britannici e italiani, suddividendole in sezioni che documentano l’influsso esercitato sulla maiolica e sulla sua decorazione dalle pratiche artistiche, storiche e letterarie tipiche dell’ambiente umanista italiano tra il 1480 e il 1530. Il tema della mostra è inoltre ribadito da alcune edizioni contemporanee illustrate (Virgilio, Tito Livio, Ovidio…), i cui testi e le cui immagini hanno fortemente ispirato la maiolica del primo terzo del XVI secolo. info www.museerenaissance.fr Milano

U Musée national de la Renaissance fino al 6 febbraio

Nutrita dalla riscoperta dei testi dell’Antichità portata avanti con notevole impegno dagli Umanisti, l’arte rinascimentale fiorisce in Italia nell’ambito delle discipline

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Gian Giacomo Poldi Pezzoli. L’uomo e il collezionista del Risorgimento U Museo Poldi Pezzoli fino al 13 febbraio

L’esposizione racconta le vicende dell’Indipendenza e dell’Unità d’Italia attraverso gli occhi, le esperienze e la collezione di

opere d’arte di un protagonista milanese d’eccezione. Le opere esposte fanno luce sulla cultura artistica italiana nel «decennio di preparazione» all’Unità quando letteratura, teatro e arte concorrono a promuovere

un’opposizione silenziosa agli stranieri, eleggendo il Medioevo e l’Italia comunale trecentesca a metafora di un’Italia libera. info tel. 02 794889 o 02 796334; www.museopoldipezzoli.it Roma Leonardo e Michelangelo. Capolavori e fogli romani U Musei Capitolini fino al 19 febbraio

Ottanta disegni provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano e da Casa Buonarroti a Firenze raccontano la versatilità e la poliedricità grafica dei due sommi artisti, non solo nel campo della pittura, scultura

e architettura in cui eccelse Michelangelo, ma anche in quello delle invenzioni meccaniche, dell’idraulica, della geometria e del volo che fu peculiare di Leonardo. La presenza di un consistente nucleo di disegni eseguiti durante i soggiorni romani o comunque legati alla città, oltre al prezioso manoscritto con le Antichità di Roma proveniente anch’esso dall’Ambrosiana e ricco di ricordi dell’attività di Leonardo a Roma, si pone come un importante momento di verifica del ruolo esercitato sui due artisti dal loro confrontarsi con le antichità, le occasioni romane e con le esigenze di una nuova classe di committenti, tra i quali spiccano Alessandro Borgia e Giuliano de’ Medici per Leonardo, e i pontefici Leone X, Sisto IV e Paolo III per Michelangelo. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org roma a Oriente. Città,

uomini e dei sulle Vie della Seta U Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano fino al 26 febbraio

Sulla traccia della Carta dell’impero mongolo, una mappa degli inizi del XVI secolo – esposta in prima mondiale

assoluta –, la mostra intende rappresentare la ricchezza dei luoghi, delle genti e delle credenze religiose lungo le Vie della Seta. «a Oriente» è un viaggio visivo, sonoro ed emotivo, grazie alle installazioni interattive del progetto artistico di Studio Azzurro, che si è tradotto in un percorso multimediale che dialoga e si avvale di una selezionata raccolta di importanti manufatti di varia tipologia, un centinaio di opere, che raccontano le

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agenda del del mese mese civiltà del buddismo, del cristianesimo e dell’Islam lungo le Vie della Seta, tra il II secolo a.C. e il XIV secolo. Da segnalare, inoltre, il prestito eccezionale, dopo un lungo e accurato restauro, della bibbia tascabile nota come Bibbia di Marco Polo, perché databile al XIII secolo, cioè all’epoca del grande viaggio dell’esploratore veneziano, che viene esposta per la prima volta in questa occasione. info tel. 06 06 08 oppure tel. 06.39967700 (anche per visite guidate); www.viedellasetaroma.it, www.pierreci.it

visibili: l’Odighitria di Pskov (1290-1310), l’Ascensione della Cattedrale di Vladimir attribuita a Rublev (1408), la Crocifissione del Signore della chiesa della Trinità del Monastero di Pavel di Obnora (1500 circa). In contemporanea la Galleria Tretyakov riceve, esponendole per la prima volta in Russia, due grandi opere di Giotto da Bondone e della sua bottega, provenienti dall’Opera del Duomo di Firenze: la Maestà di San Giorgio alla Costa e il polittico di S. Reparata. info tel. 346 0927230; eventi@fscire.it New York Il gioco dei re. Gli scacchi medievali in avorio dall’Isola di Lewis

U The Metropolitan Museum of Art fino al 22 aprile

Trenta pezzi appartenenti agli Scacchi Lewis, un set ritrovato nel 1831 sull’omonima isola delle Ebridi (Scozia), lasciano per la prima volta il British Museum per essere esposti a New York. Si tratta di un insieme eccezionale, composto da pezzi ricavati da zanne di tricheco e fanoni di balena, la cui realizzazione viene attribuita a una bottega norvegese. Ogni pezzo del set è una vera e propria scultura in miniatura, con caratteri specifici e ben definiti: i re siedono con la spada poggiata sulle gambe, ma alcuni hanno lunghi capelli e barbe, mentre altri sono

glabri. Ciascun cavaliere indossa un copricapo di tipo diverso, cosí come differenti sono gli scudi imbracciati e i cavalli montati. E, fra le torri, raffigurate come soldati a piedi, alcuni studiosi hanno perfino identificato il possibile ritratto dei berserkir, i leggendari guerrieri di Odino della mitologia nordica. Treviso

Firenze In Christo/Bo Xructe U Battistero di Firenze fino al 19 marzo

Il Battistero di Firenze è sede dell’ostensione di preziose icone della storia russa, normalmente custodite nella galleria Tretyakov di Mosca, mai tornate in una chiesa dopo la loro musealizzazione. Tre saranno le opere

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Manciú. L’ultimo imperatore U Casa dei Carraresi fino al 13 maggio

Manciú, l’ultima dinastia che ha governato sul Celeste Impero dal 1644 al 1911, è la protagonista della quarta e ultima mostra del progetto La Via della Seta e la Civiltà Cinese:

le armi e le uniformi degli imperatori Kangxi e Qianlong, le preziose suppellettili delle regge dei Manciú, le collezioni dell’imperatrice Cixi sono esposte insieme ai reperti che testimoniano il crollo dell’impero e l’avvento della repubblica. Per la prima volta al mondo gli oggetti personali dell’ultimo imperatore della Cina, Pu Yi, protagonista del film di Bernardo Bertolucci, escono dal palazzo di Changchun, già capitale dell’impero fantoccio del Manchukuò, per essere esposti a Casa dei Carraresi. Una parte della mostra è dedicata all’epopea umana dell’Ultimo Imperatore con documenti storici, fotografie. info tel. 0422 424390; www.laviadellaseta.info gennaio

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leggende il prete gianni

La leggenda del re sacerdote

di Francesco Colotta

A partire dal XII secolo, una voce prende a circolare nelle corti papali e imperiali d’Europa: parla di misteriose lettere, inviate da un personaggio potente, sovrano di un regno ricchissimo. Ma chi si nasconde dietro la firma di questo Presbyter Johannes, o Prete Gianni, che osa umiliare l’imperatore di Bisanzio, criticare il papa e dare consigli al sovrano del Sacro Romano Impero? E, soprattutto, il personaggio è mai veramente esistito?

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S «S

e tu sei in grado di contare le stelle del cielo e i granelli di sabbia del mare, allora sarai in grado anche di valutare la grandezza del nostro regno e del nostro potere». Con queste parole, contenute in una lettera scritta in latino, un fantomatico monarca cristiano di nome Prete Gianni si rivolse all’imperatore bizantino Manuele I Comneno nel 1165. Il misterioso mittente affermava di essere a capo di un reame fiabesco, posto a Oriente, entro i cui confini si poteva realizzare qualsiasi desiderio, anche vivere fino a cinquecento anni: «Se ti manca qualcosa di ciò che ti procura piacere faccelo sapere e otterrai ciò che chiedi». Manuele non si lasciò sedurre da tante mirabolanti offerte e archiviò il messaggio senza attribuirgli particolare importanza.

Cinque anni piú tardi fece altrettanto Federico I Barbarossa ricevendo una missiva analoga, firmata anch’essa dal Prete Gianni: in questo caso, si parlava di un regno ricchissimo, alla cui autorità erano soggetti ben 72 sovrani e nel quale circolavano stranissime creature, come i «cinocefali», gli «uccelli grifoni che portano un bue», gli «uomini cornuti con occhi davanti e dietro», gli «yllerioni», oltre alle amazzoni e alle terribili genti di «Gog e Magog» (le truppe dell’Anticristo della tradizione biblica), reclutate, però, solo a fin di bene per distruggere i nemici. Ad assicurare stabilità politica e pace sociale, comunque, provvedeva soprattutto un enorme specchio, posto di fronte al palazzo reale, attraverso cui il sovrano era in grado di captare eventuali complotti in atto a una distanza di moltissimi chilometri (corrispondenti a circa 15 giorni di viaggio).

Lo stupore del papa

Prete Gianni, leggendario monarca cristiano di un favoloso regno posto a Oriente, particolare della carta dell’Oceano Indiano da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558 circa. Londra, British Library.

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Tra i destinatari di un’altra lettera di questo tenore figurava, oltre al re di Francia Luigi VII, anche papa Alessandro III, che non poté rimanere insensibile di fronte alla raffigurazione di un regno cristiano perfetto, senza povertà, malattie, menzogne e ingiustizie, nel quale erano inoltre bandite l’avarizia e l’adulterio. Per la Chiesa, del resto, il Prete Gianni non era uno sconosciuto: ne aveva già sentito parlare il pontefice Eugenio III, nel 1145, durante un incontro a Viterbo con il vescovo siriano Ugo di Jabala. In quell’occasione il presule aveva riferito al papa un fatto straordinario: nell’«Oriente piú lontano» c’era un prete-sovrano, discendente dei re Magi che, dopo aver sconfitto le truppe musulmane a Ecbàtana (l’odierna Hamadan in Iran), voleva dare man forte alle armate cristiane a Gerusalemme. L’enigmatico re si dichiarava eretico, nestoriano (condividendo la tesi secondo la quale in Gesú erano presenti due persone), ma non poteva per questo essere discriminato dalla Chiesa di Roma, da tempo alla ricerca di proficue sinergie militari. Il problema, semmai, era la sua lontananza, visto che si definiva il «signore delle tre Indie», ovvero di un territorio sconfinato, compreso tra Babilonia e l’Estremo Oriente, tra l’Equatore e il Polo Nord. In breve tempo i dettagli sul leggendario monarca si diffusero in Occidente anche tra le truppe crociate, in difficoltà in Terra Santa: un potente regno cristiano a Oriente avrebbe potuto rappresentare l’alleato ideale per avere la meglio sugli eserciti islamici. Si sperava nell’avvento anche in Spagna, dove ancora infuriava la disperata guerra di riconquista contro gli Omayyadi. Purtroppo, le aspettative vennero presto deluse, perché il fantomatico re-sacerdote non giunse mai a Gerusalemme e nelle regioni cristiane minacciate dagli «infedeli». Si diceva che il sovrano, in marcia verso Gerusalemme, non fosse riuscito ad attraversare il fiume Tigri con i suoi soldati. Cosí, con il passare degli anni, il Prete Gianni assunse sempre piú le sembianze

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leggende il prete gianni di una figura impalpabile, che abitava in una terra ai confini del nulla. Ma quelle notizie su un fortissimo regno cristiano situato a Est erano soltanto invenzioni? Fin dal tardo Rinascimento la storiografia liquidò la questione del Prete Gianni come una suggestiva leggenda medievale e le sue lettere come un clamoroso falso. In seguito, insieme alle fantasie, emersero alcuni riscontri concreti, che contribuirono a chiarire almeno in parte uno dei grandi misteri dell’Età di Mezzo.

Il cinese che umiliò i musulmani

Nel resoconto del vescovo Ugo al pontefice Eugenio III, per esempio, si faceva riferimento a una grande vittoria riportata, in quel periodo, da un sovrano orientale su un esercito islamico. Nel 1141, in effetti, il principe cinese Yelü Dashi (a capo del vasto khanato del Kara Khitay in Asia Centrale) aveva annientato le truppe dei Turchi nella battaglia di Qatwan, nei pressi di Samarcanda. Il condottiero si professava buddista, ma i suoi sudditi erano in gran parte cristiani nestoriani. Secondo studiosi tedeschi del XIX secolo, proprio con il principe Yelü Dashi si doveva identificare la figura storica ispiratrice dei racconti sul mitico re. Altri studiosi optarono per ipotesi diverse, contribuendo alla moltiplicazione dei possibili preti Gianni realmente esistiti. Ne emersero altri, infatti, in territorio asiatico, a Edessa (oggi Urfa, in Turchia), e sulla costa del Malabar, situata nell’odierna India. Nel 1177 un medico amico di papa Alessandro III, Filippo, incontrò un gruppo di personalità politiche provenienti dall’Etiopia che si presentarono come sudditi del cattolico «re degli Indiani», chiamato proprio Prete Gianni. A Filippo inoltrarono il desiderio del loro sovrano di avere una chiesa a Roma e un altare nella basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il pontefice collegò la stravagante lettera ricevuta in precedenza a questa richiesta specifica, che sembrava clamorosamente riportare la leggenda sul percorso della storia. E per questo si decise a rispondere, ma a chi? Il papa affidò la propria missiva al medico Filippo, che era già stato piú volte in Africa. Della sua missione, però, non si ebbero mai notizie. Alcuni storici moderni ritennero credibile l’ipotesi dell’esistenza reale di un Prete Gianni di origine africana. Se ne convinsero dopo avere esaminato il profilo biogra-

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In basso Prete Gianni, particolare di un’incisione ottocentesca tratta da un’illustrazione del 1598, del pittore Cesare Vecellio. Nella seconda metà del XII sec. il sovrano avrebbe inviato in Occidente alcune lettere indirizzate ai potenti dell’epoca, che descrivevano una terra perfetta, senza povertà, malattie e ingiustizie.


Mappa del nord-est dell’Africa, dell’Arabia, e di parte dell’India, raffigurante, sulla destra, un personaggio seduto in trono, individuato come Prete Gianni, re di Abissinia. Dall’Atlante Vallard, portolano manoscritto e acquarellato da Nicolas Vallard. 1547 circa. San Marino, California, Henry E. Huntington Library and Art Gallery. Il mitico sacerdote-sovrano è stato identificato con diversi personaggi storici: tra questi, Yemrehana-Krestòs, sovrano d’Etiopia, e il principe cinese Yelü Dashi, che aveva sconfitto le armate turche nel 1141.

fico del sovrano che in quegli anni regnava in territorio etiopico: si trattava di Yemrehana-Krestòs, discendente di una dinastia usurpatrice che, tuttavia, annoverava vari santi riconosciuti dalla Chiesa locale. Il monarca si era molto adoperato per mantenere la pace nel suo Paese e, solitamente, distribuiva di propria iniziativa risorse ai piú bisognosi, non pretendendo tributi dai suoi vassalli. Era, insomma, un buon governante cristiano, come difficilmente se ne potevano trovare all’epoca e sembrava ricalcare alcuni comportamenti pii che nelle

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lettere il re leggendario d’Oriente vantava di osservare. Nel XIII secolo, in Terra Santa, si credette davvero che il Prete Gianni fosse africano, come in fondo risulta in una comunicazione scritta del vescovo di San Giovanni d’Acri, Jacques de Vitry, sulla situazione religiosa in Etiopia: «Sono appena stato informato da un mercante – scrisse nel 1217 – che gli abitanti del paese del Prete Gianni hanno abbandonato il nestorianesimo per diventare Giacobiti». Lo stesso Jacques de Vitry, qualche anno dopo, rice-

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leggende il prete gianni

Miniatura raffigurante Gengis Khan che, insieme alla sua sposa, accoglie alcuni dignitari. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de

France. Tra le varie proposte di identificazione, la figura del Prete Gianni è stata associata anche a quella del grande condottiero mongolo.

vette informazioni su un altro ipotetico Prete Gianni, che mostrava di possedere qualità piú utili alla causa cristiana in Terra Santa rispetto al mansueto regnante etiopico. Si chiamava David e, secondo quanto affermava una Relatio giunta a Damietta nel 1221, aveva sconfitto i musulmani, conquistando diverse città, tra cui Samarcanda. Il vincitore, dopo le trion-

storia di un’eresia: il nestorianesimo

L’uomo e il Cristo, due nature distinte Diffusosi in Siria, a partire dal V secolo, il nestorianesimo è una delle principali eresie del Medioevo. A promuoverlo fu il patriarca di Costantinopoli, Nestorio (381-451), che sosteneva la presenza in Gesú Cristo di due nature e di due persone, unite solo da una scelta volontaristica del verbo divino, non per emanazione «ipostatica», cioè attraverso un processo che congiungeva entità appartenenti alla stessa sostanza. Ne conseguiva l’impossibilità di chiamare Maria di Nazareth «madre di Dio», poiché la Vergine aveva generato solo la parte umana del Messia. La Chiesa di Roma condannò subito le tesi di Nestorio come eretiche: con il Concilio di Efeso nel 431 e, in seguito, con quelli di Calcedonia del 451 e di Costantinopoli del 553. I provvedimenti obbligarono i seguaci della nuova dottrina a emigrare in territori non controllati dal Sacro Romano Impero. Alcuni trovarono ospitalità in Persia, presso la dinastia dei Sasanidi, che professavano il zoroastrismo. Altri, invece, si stabilirono nei regni arabi, convertendosi all’Islam. Il nestorianesimo prese piede, poi, soprattutto in Asia, grazie alla protezione dei khan mongoli e poté anche contare su un vescovo ufficialmente consacrato a Pechino. Con la conversione della Persia all’Islam, nel XIV secolo, cominciò il lento declino della dottrina eretica di Nestorio. In seguito, gran parte dei nestoriani decisero di rientrare nell’alveo del cattolicesimo fondando la Chiesa caldea.

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fali campagne, non si era fermato e procedeva verso Baghdad. «È sorto un nuovo e possente protettore della cristianità – affermò entusiasta de Vitry –, si tratta di re David dell’India che è sceso in battaglia contro gli infedeli alla testa di un’armata di dimensioni senza precedenti. Un monarca che, comunemente, “era chiamato Prete Gianni”».

L’equivoco «Gengis Khan»

Proprio in quegli anni un grande esercito nel cuore dell’Asia stava muovendo verso Occidente con a capo un condottiero che avrebbe segnato la storia del Medioevo: Gengis Khan. Facile fu, allora, identificarlo con l’atteso Gianni, ma solo per un breve periodo. Fino a quando, cioè, le orde mongole non manifestarono la propria aggressività nei riguardi di chiunque incontrassero sul loro cammino, cristiani compresi. Uno dei piú celebri orientalisti del Settecento, Giuseppe Simone Assemani, ritenne comunque credibile un legame, almeno indiretto, tra il sovranosacerdote e Gengis Khan. Il vero Prete Gianni sarebbe stato Wang Khan, all’inizio del XIII secolo, un re della tribú mongola dei Keraiti nestoriani (gruppo etnico mongolo, antenato dei Calmucchi), prima grande amico di Gengis Khan e in seguito annientato dall’esercito di quest’ultimo. La caccia al re fantasma continuò senza sosta. Nel 1248 Luigi IX di Francia decise di inviare uno dei suoi ambasciatori piú fidati, Guglielmo di Joinville, al cospetto del nipote di Gengis Khan, Munke. Uno degli obiettivi della missione era carpire informazioni sull’esistenza di un Prete Gianni nei territori controllati dai Mongoli. Guglielmo tornò indietro deluso, senza le notizie attese da Luigi IX e con la convinzione che

sull’introvabile monarca cristiano erano state dette cose «dieci volte maggiori di come stavano in realtà». Anche Marco Polo parlò del Prete Gianni ne Il Milione (1299), descrivendolo come un grande mito ormai solo da ricordare, dopo la capitolazione subita a opera delle armate di Gengis Khan. Il fantasma del Prete Gianni riapparve all’improvviso nel XIV secolo, per iniziativa di un viaggiatore inglese, John Mandeville, che, nei suoi resoconti (Travels) assicurò di avere visto il fantomatico sovrano in un regno abitato da ciclopi, satiri e formiche giganti. La sensazionale testimonianza, però, venne sconfessata dallo stesso autore che rivelò, anch’egli, di aver confezionato un falso colossale. Ma le apparizioni a sorpresa non finirono qui. Nel 1514 in Portogallo si presentò un messaggero armeno, che affermava di essere in missione diplomatica per conto del Prete Gianni. Il re iberico Manuel I, coltivando il vecchio sogno medievale di alleanza tra Occidente e Oriente cristiano, inviò un’ambasceria in Etiopia per stabilire un contatto con il sovrano. Gli emissari del monarca portoghese, giunti a destinazione, non trovarono il regno delle meraviglie e l’esercito invincibile che si aspettavano, bensí un paese in ginocchio, funestato dalle incursioni dei musulmani. Alla fine fu Manuel I a dover accorrere in aiuto di un re che non si chiamava Gianni, ma Claudio.

Un semplice titolo onorifico?

Nessuna delle tante ipotesi su una possibile incarnazione del leggendario re cristiano nella storia appare davvero credibile. Si è fatta strada, allora, la tesi che il Prete Gianni fosse una sorta di titolo onorifico assegnato, nell’area nestoriana delle Indie medievali, a moLa fortificazione di Tash Rabat, nel distretto di At Bashy, in Kirghizistan, in origine monastero nestoriano, utilizzato come caravanserraglio intorno al XV sec.


leggende il prete gianni narchi di indubbio spessore morale e politico. Un brano della versione in ebraico della lettera indirizzata a papa Alessandro III appare in questo senso esplicativa: «Se desiderate venire nella nostra regione dopo la nostra morte, sarà convenuto che essi vi faranno Prete Gianni». L’attribuzione del nome avrebbe rappresentato, quindi, l’investitura di una funzione spirituale attraverso il rinnovamento di un mito la cui origine si perdeva in suggestive astrattezze. Lo storico Vsevolod Slessarev ritiene che l’epopea del re-sacerdote deriverebbe dal racconto apocrifo degli Atti di San Tommaso datato tra la metà del III e la fine del IV secolo. Nel testo è contenuta la biografia di uno degli apostoli di Gesú Cristo, Tommaso, con i particolari sulla sua missione in India presso il sovrano Gondofare. L’apostolo, ucciso nel vicino regno del ricchissimo e brutale Mazdai, era riuscito comunque a convertire il figlio di quest’ultimo, Vizan. La tradizione nestoriana identifica Gondofare con uno dei tre re Magi e Vizan con il Prete Gianni.

Discendente dai re Magi?

Afferma in modo piú esplicito la possibile discendenza da Gaspare, Melchiorre e Baldassare, lo scrittore medievale Giovanni di Hildesheim, nella Historia trium Regum. I re Magi, dopo essere stati convertiti da Tommaso, designarono un loro erede. Non avevano figli e pertanto scelsero un uomo di particolare valore: «E tale governatore nel temporale non doveva essere chiamato re o imperatore,

A destra La pace di Venezia tra papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa, nel 1177, miniatura dal Codice Correr I. XIV sec. Venezia, Museo Correr. In basso Iperpero, moneta d’oro raffigurante l’imperatore bizantino Manuele I Comneno (11431180), coniata a Costantinopoli nel XII sec. Londra, British Museum. Le prime menzioni del nome «Prete Gianni» compaiono nelle missive indirizzate al sovrano bizantino, nel 1165, all’imperatore svevo cinque anni dopo, a papa Alessandro III e al re di Francia Luigi VII.

ma Prete Gianni». Una lettura suggestiva dell’enigma insinua il sospetto che la leggenda sul regno fiabesco sia stata invece concepita ad hoc, per fini politici. Le lettere false inviate al pontefice e ai sovrani potrebbero essere state confezionate con l’intento di stimolare un cambiamento di rotta nella gestione del potere in Occidente. Non a caso, ogni singola missiva denunciava ingiustizie e mancanze addebitabili ai singoli destinatari, soprattutto nel caso di quella diretta a Manuele I Comneno. Il sovrano di Costantinopoli era chiamato «governatore» in senso diminutivo, veniva accusato di non essere sufficientemente religioso e, infine, deriso agli occhi del suo popolo: «I tuoi piccoli Greci ti credono Dio mentre noi sappiamo che sei mortale e soggetto alle debolezze umane». Al papa, invece, si rimproveravano i massacri in nome della Fede, le persecuzioni nei riguardi degli Ebrei e l’eccessiva brama di potere. Mentre a

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Federico Barbarossa veniva sottoposto un perfetto modello di gestione del «Sacro Romano Impero», rispettoso dei nemici, caritatevole con i poveri e che non oberava di tributi i vassalli.

«Un’utopia politica primitiva»

L’intera corrispondenza del Prete Gianni, in base a questa diffusa interpretazione, può essere definita un vero e proprio «pamphlet politico-morale». Secondo l’orientalista Leonardo Olschki (1885-1961), si trattava, invece, di «un’utopia politica primitiva, popolare, e messa sotto una forma che potesse improntare la fantasia dei suoi contemporanei». Le lettere cominciarono a circolare nel periodo di grande diffusione delle eresie contro la Chiesa e rifletterebbero, per la storica francese Jacqueline Pirenne, un profondo desiderio di cambiamento nel seno della cristianità: «Le lettere del Prete Gianni ai grandi dell’Europa del suo tempo costituivano una vera e propria campagna di propaganda dettata dall’aspirazione a uscire da questo cristianesimo pieno di rivalità, ambizioni, tradimenti, lotte

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fratricide, guerre, massacri e miseria popolare; erano implicitamente sovversive, poiché evocavano un vero impero cristiano». Manca, però, il nome del regista di questa campagna ordita per denunciare la decadenza della Chiesa occidentale. C’è chi, in modo un po’ forzato, l’ha individuato in alcuni influenti personaggi dell’entourage di Federico Barbarossa. L’obiettivo sarebbe stato quello di dimostrare al pontefice che esisteva nel mondo, a Oriente, un monarca in grado di incarnare contemporaneamente l’autorità temporale e il potere spirituale, come era nelle aspirazioni dell’imperatore tedesco. Anche a Federico, comunque, il Prete Gianni aveva rivolto varie critiche nell’epistola a lui destinata. Come spiegare questa incongruenza? La tesi, tuttavia, segue una logica stringente in molte sue argomentazioni. I principali sospettati come autori delle lettere sono il vescovo Ugo di Jabala, che riferí al papa le informazioni in suo possesso sul Prete Gianni, e un altro presule, Ottone di Frisinga, zio materno di Federico.Uno degli indizi chiave sembra coinvolgere soprattutto quest’ultimo, e

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clontarf prete gianni leggende il battaglie

L’isola della Manna

...e vissero cinquecento anni Alcune lettere del Prete Gianni descrivono con dovizia di particolari i prodigi che si verificavano nell’isola della Manna, abitabile solo grazie all’intervento divino: «Nelle regioni estreme della terra, verso Mezzogiorno, possediamo un’isola grande e inabitabile, nella quale per tutto l’anno, due volte la settimana, Dio fa piovere in grande abbondanza la manna che le popolazioni circostanti raccolgono e

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mangiano, né vivono di cibo diverso da questo. Infatti non arano, non seminano, non mietono, né in nessun modo smuovono la terra per trarne fuori il suo frutto piú ricco (…) In verità costoro non conoscono altra donna che la loro sposa. Non provano invidia né odio, vivono in pace, non si muovono liti l’un l’altro per i loro averi: non hanno un capo sopra di sé (…)gli uomini di quella terra possiedono pietre preziose e

oro rossiccio in grande quantità. Tutti costoro, che si nutrono solo di cibo celeste, vivono cinquecento anni. Tuttavia giunti all’età di cento anni, ringiovaniscono e riprendono forza bevendo per tre volte l’acqua di una fonte che sgorga alla radice di un albero che si trova in quel luogo, vale a dire l’isola di cui abbiamo detto (…) Cosí sempre, ogni cento anni ringiovaniscono e si trasformano completamente».

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Da leggere U Jacqueline Pirenne, La leggenda del Prete Gianni, Marietti,

Genova 2000 U Robert Silverberg, La leggenda del Prete Gianni. Il mito del

re d’Oriente che i popoli d’Europa sognarono per secoli, Piemme, Milano 1998 U Gioia Zaganelli, La lettera del Prete Gianni, Carocci, Roma 2000 U Lyon Sprague De Camp, Willy Ley, Le terre leggendarie, Bompiani, Milano 1962 U Errico Buonanno, Sarà vero? La menzogna al potere. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia, Einaudi, Torino 2009 U Duccio Balestracci, Terre ignote strana gente. Storie di viaggiatori medievali, Laterza, Bari 2008 U René Guénon, Il re del mondo, Adelphi, Milano 1995 U Umberto Eco, Baudolino, Bompiani, Milano 2002 La fontana della giovinezza. Olio su tavola di Luca Cranach

cioè colui che trascrisse le rivelazioni di Ugo di Jabala circa lo sconosciuto re cristiano.

Il falsario alla corte di Federico

Il resoconto di Ottone di Frisinga (Chronica) risulta, infatti, inframmezzato da elementi tratti dal noto Romanzo di Alessandro Magno e da una sconosciuta Epistola ad Aristotelem, con la quale il condottiero macedone svelava le meraviglie e le strane creature da lui viste a Oriente nel corso delle campagne militari: in questo inedito documento si trovano descrizioni di mostri e creature molto simili a quelle rintracciabili nella missiva del Prete Gianni. Ottone, insomma, avrebbe avuto il sufficiente «retroterra culturale» per comporre una lettera di quel tipo. La portata rivoluzionaria del Prete Gianni come modello perfetto di unione tra le funzioni regali e

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il Vecchio (1472-1553). 1546. Berlino, Gemäldegalerie.

quelle sacerdotali risultava evidente anche solo in senso simbolico. Era la forza della tradizione orientale e delle sue grandi sintesi che irrompeva in un Occidente ormai lacerato da innumerevoli divisioni. Per lo scrittore e metafisico francese René Guénon (1886-1951) «l’idea di un personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso» non risultava «molto comune in Occidente» anche nel Basso Medioevo, segnato dai conflitti tra papato e impero: «In Oriente, al contrario, il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia» appariva «abbastanza eccezionale». Non è azzardato supporre che il Prete Gianni rappresentasse una delle tante varianti o imitazioni sbiadite del mito del «re del mondo»: ossia del sovrano che, secondo la tradizione asiatica, abitava nella città sotterranea di Agarthi per preservare la propria identità di capo supremo semidivino, in grado di assicurare il collegamento tra il trascendente e il mondo terreno. Durante il Medioevo la figura del Prete Gianni ispirò il recupero di alcuni miti della tradizione occidentale, primo fra tutti quello del Graal. Il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach, nel suo Parzifal, composto intorno al 1210, fece assumere al re delle Tre Indie la veste di un membro della razza eletta del Graal. Alcuni storici identificarono la figura del Prete Gianni di Eschenbach come una sorta di Parsifal d’Oriente, rilevando la prevalenza nell’opera di significati esoterici rispetto a quelli cristiani. Con la condanna dei Cavalieri templari, si avvertí l’esigenza, almeno sul piano letterario, di trovare un’altra sede al Graal, che si riteneva fosse custodito nel castello di Montsalvat. Nel 1270 un altro poeta tedesco, Albrecht von Scharfenberg, nel suo Jüngere Titurel collocò la coppa proprio nel regno del Prete Gianni in un vago, indefinito, Oriente. F

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misteri scrittura ogam

Il segreto dei di Elena Percivaldi

druidi

Un sistema alfabetico, composto da venti segni incisi sullo spigolo di pietre scolpite o a ridosso di una linea verticale, rappresenta ancora oggi uno dei piú affascinanti «misteri» delle popolazioni celtiche delle Isole Britanniche. Utilizzata dal III-IV secolo d.C. fino alle soglie dell’età moderna, la scrittura Ogam – per certi versi simile alla piú nota scrittura runica delle genti scandinave – riporta perlopiú iscrizioni a carattere sacrale e commemorativo. Eppure, rileggendo alcune fonti antiche (nonché lo stesso De Bello Gallico di Cesare), emerge una sua funzione diversa, legata all’ideologia iniziatica di un mondo al crepuscolo…

V V

enti segni diversi, incisi su legno, osso o pietra. Non lettere, ma tacche, scolpite in senso orizzontale, verticale o obliquo rispetto a uno spigolo: ecco l’alfabeto Ogam. Questo curioso sistema di scrittura fu utilizzato nelle Isole Britanniche a partire dal III secolo d.C. In tutto, le iscrizioni conosciute sono circa 370: per la maggior parte furono prodotte tra il IV

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e il VII secolo in Irlanda, Scozia, Cornovaglia e Isola di Man. La piú «orientale» è stata ritrovata a Silchester, nell’Hampshire inglese, ed è contemporanea alla ritirata romana sotto la spinta sassone. Tutte sono scritte in antico irlandese, tranne una ventina, molto tarde, in antico norvegese. E tutte riportano testi brevissimi: semplici iscrizioni tombali o indicazioni di proprietà

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su cippi di confine. Ma dalle fonti letterarie irlandesi sappiamo anche di un’altra funzione dell’Ogam: quella magico-sacrale e divinatoria.

Custodi della memoria

Ma chi inventò, e per quali ragioni, un sistema di scrittura cosí poco pratico? E a che cosa serviva esattamente? Per comprenderlo, occorre fare un passo indietro e ricordare che, sin dall’antichità, nei Paesi di cultura celtica – l’Irlanda era fra questi –, la scrittura non costituiva la base della memoria storica e della comunicazione. A padroneggiarla, innanzitutto, erano solo i rappresentanti della classe sacerdotale e detentori della sapienza, i druidi. La tradizionale avversione da parte del mondo celtico, tramandata già da Cesare, nei confronti della scrittura era giustificata da due ordini di motivi: «primo, [i druidi] non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione vengano a conoscenza del volgo; secondo, perché i loro discepoli, facendo conto sugli scritti, non le studino con minore diligenza. Succede spesso infatti che, confidando nell’aiuto della scrittura, non si tenga adeguatamente in esercizio la memoria». Mettere per iscritto un precetto religioso, una regola giuridica, una nozione qualsiasi era dunque altamente sconsigliabile: si correva il rischio che formule magiche, rituali o altre nozioni considerate segrete cadessero nelle mani sbagliate con esiti funesti. All’inizio del Medioevo, l’Irlanda era an-

cora intrisa di cultura celtica. Tribú sparse sul territorio a macchia di leopardo, e in perenne lotta, costituivano l’unica forma di aggregazione sociale per circa mezzo milione di abitanti. La religione era pagana, con miti e leggende che affondavano le radici nella notte dei tempi. Un patrimonio composto e tramandato per via orale dai bardi, che, insieme ai druidi, completavano le categoria dei sapienti della società. Già menzionati da autori antichi quali Diodoro e Strabone, questi poeti e cantori avevano il compito di comporre e raccontare le gesta eroiche di sovrani e guerrieri e godevano di grande considerazione. Erano suddivisi in due gruppi: i baird, dediti a canti e orazioni, e i filid, che, in

In alto disegno ottocentesco di un rilievo trovato ad Autun (Francia), raffigurante «due druidi». Sulle due pagine pietra ogamica a Dunmore Head, promontorio nella penisola di Dingle, nella contea irlandese del Kerry. L’alfabeto Ogam, un sistema di scrittura verticale, che procede dal basso verso l’alto, fu utilizzato nelle Isole Britanniche a partire dal III sec. d.C.

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misteri scrittura ogam qualità di vati e sapienti, subentrarono gradualmente ai druidi nelle loro funzioni, fino a superarne lo status. Accanto al fili e al bard, l’airfideach si distingueva, invece, per le sue abilità nell’uso del flauto e dell’arpa, strumenti coi quali accompagnava le recite. Baird e filid accedevano al sapere gradualmente. Nelle scuole in cui venivano educati, si praticava un insegnamento orale attraverso il quale si imparavano a memoria i calendari, le regole di composizione delle poesie, le genealogie. I baird erano i depositari della tradizione orale e della memoria storica, i filid apprendevano invece i segreti della vita e della morte, a predire il futuro, a comunicare con i defunti e a curare gli ammalati, utilizzando le proprietà terapeutiche delle piante. I druidi assommavano in sé le competenze sia dei baird, sia dei filid, ottenute dopo un apprendistato di vent’anni. Tra le loro conoscenze, in Irlanda, figurava anche la padronanza dell’alfabeto ogamico. Questo, dunque, è formato da venti lettere, ripartite in quattro gruppi di cinque segni, i primi tre costituiti da consonanti e l’ultimo da vocali. Le lettere sono notate per mezzo di linee, incise in numero da uno a cinque, sullo spigolo di una pietra o a ridosso di una linea verticale: a destra, a sinistra, perpendicolarmen-

te o obliquamente rispetto allo spigolo se consonanti, sotto forma di punto se vocali (vedi schema a p. 38). Un segno posto sotto l’iscrizione indicava la direzione di lettura, di solito dal basso verso l’alto. Il testo, scritto senza interruzioni fra una parola e l’altra, poteva anche proseguire sullo spigolo inferiore e ridiscendere dall’altra parte. All’inizio e alla fine di ogni frase, infine, si incideva un segno.

Una pianta per ogni segno

Ogni gruppo di lettere incise sulla linea di scrittura era chiamato aicme, ovvero «famiglia» o «specie» e ciascun segno – detto feda, «legno» – traeva la sua denominazione da una pianta, il cui nome iniziava con la lettera – o meglio, il suono – relativa. La linea di scrittura, che collegava tra loro le lettere, rappresentava in senso simbolico il tronco dell’albero, mentre le singole lettere ne erano i rami. Dal nome delle prime tre lettere l’alfabeto, nel suo insieme, è definito di bethe - luis - nin (probabilmente su imitazione del modello «alfabeto» e abecedarium) e ogni gruppo di cinque lettere prende il nome della prima: gruppo B, gruppo H, gruppo M, gruppo A. Sebbene fosse il piú diffuso, l’Ogam «arboreo» non era l’unico uti-

La linea di scrittura che collegava le lettere rappresentava il tronco dell’albero, mentre le singole lettere ne erano i rami


lizzato. Vari trattati tecnici testimoniano l’esistenza di Ogam con nomi di liquidi, colori e uccelli. L’Auraicept na N-Éces («Manuale del Letterato») ne elenca addirittura 24, con nomi di scrofe, fiumi, fortezze, uccelli, colori, chiese, uomini, donne, utensili agricoli, re, corsi d’acqua, cani, bovini, vacche, uomini ciechi, uomini zoppi, bambini, piedi, nasi, santi, arti, cibi, erbe. Nella tradizione manoscritta, tuttavia, le vocali sono notate come piccole croci, che intersecano la linea di scrittura. Quando, nel V secolo, giunsero sull’isola i predicatori Palladio e Patrizio, improntarono l’evangelizzazione a una forma di monachesimo che, tenendo conto della situazione culturale, religiosa e politica, assunse connotati molto diversi da quello benedettino che si stava imponendo sul Continente. Anziché la vita in comune, fu privilegiato l’ascetismo di marca orientale, che individuò nelle asperità del clima e dell’ambiente il mezzo per consentire l’elevazione spirituale (il deserto della Tebaide si trasformò nelle verdi praterie e nell’oceano). Grande significato fu inoltre attribuito allo zelo missionario, che spingeva i monaci a fondare cenobi ai confini del mondo conosciuto. L’importanza dei monasteri era decisiva. Non solo costituivano il punto di riferimento e di aggregazione per le comunità locali sotto il controllo dell’abate, ma diventarono centri di produzione e diffusione di una vasta letteratura a supporto dell’attività missionaria: dagli inni sacri alle liriche, dalle preghiere alle vite di santi, fino alla storiografia e all’annalistica.

Evangelizzazione e tradizione

La lingua dell’Irlanda antica, che non aveva mai conosciuto la dominazione romana, ma aveva intrattenuto con l’impero solo rapporti commerciali, era il gaelico. Con l’evangelizzazione e la conseguente introduzione delle Sacre Scritture, i monaci dovettero dunque apprendere il latino come lingua straniera. Grazie al grande interesse nei confronti della grammatica e della scrittura in genere, dagli scriptoria irlandesi uscirono, dal VII secolo, alcuni dei piú splendidi manoscritti vergati in caratteri insulari. Ma i codici non contenevano solo Bibbia e Vangeli: il Book of Armagh (IX secolo) affianca al Nuovo Testamento e alle vite di santi testi di prosa in antico irlandese. Ai margini dei codici, i monaci inserivano note esplicative – le A destra Kilmalkedar, penisola di Dingle. Pietra ogamica su cui si legge ANM MAILE INBIR MACI BROCANN («nome di Mael Inbir figlio di Brocán»). Le iscrizioni in Ogam, databili tra il IV e il VII sec. d.C., sono state perlopiú rinvenute, su lastre tombali, in Scozia, Irlanda e Galles. A sinistra Il bosco sacro dei Druidi. Incisione ottocentesca da un’edizione della Norma di Vincenzo Bellini, opera ambientata nella Gallia dominata dai Romani, che narra appunto la vicenda di Norma, sacerdotessa dei druidi. Parigi, Bibliothèque de l’Opera Garnier.

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Segni e «famiglie»

B L F S N

1° AICME beith betulla luis sorbo selvatico fern ontano sail salice nion frassino 2° AICME

H hUath biancospino D T C Q

dair quercia tinne agrifoglio coll nocciolo ceirt cespuglio/melo

3° AICME M muin vigna G gort edera

NG nGéatal giunco Z straif susino selvatico R ruis sambuco A O U E I

4° AICME

a ilm abete o nn ginestrone úr erica eadha pioppo iodhadh tasso

5° AICME EA éabhadh OL ór UI uilleann IA ifín AE eamhancholl

Al centro l’alfabeto ogamico, formato da venti lettere, ripartite in quattro gruppi di cinque segni. Le lettere sono notate per mezzo di linee, incise in numero da uno a cinque. Con le stesse lettere, si componevano gli aicmi (plurale di aicme, «famiglia»). A sinistra pietra ogamica con caratteri in latino iscritti a fianco, presso una chiesa romanica del XII sec., nella penisola di Dingle.


glosse – di particolarità grammaticali o termini ostici, preziosissime per Anglesey ricostruire le varie fasi storiche del gaelico. Alcune riguardano anche gli Scozia Ogam. Si fa infatti risalire all’ambito monastico l’aggiunta di un quinto gruppo di altri cinque segni, detti forfeda, per i dittonghi, originariamente Irlanda non presenti come suono in gaelico, Inghilterra ma utili in caso di traslitterazione in Galles Ogam di parole latine (vedi lo schema Cardiff nella pagina accanto). Il rapporto tra culture autoctona e monastica fu improntato al reciproco rispetto, anche se i filid – ancora paDiffusione delle pietre iscritte gani – guardavano con sospetto i missionari e il loro nel Galles messaggio e non mancarono momenti di attrito. EloPietre con iscrizioni ogamiche quente fu l’atteggiamento di San Patrizio, che tentò Pietre senza iscrizioni ogamiche di distinguere le funzioni religiose dei filid da quelle culturali, accettando le seconde e negando con forza le prime. Sembra che anche il grande evangelizzatore San Columba avesse appreso i primi rudimenti del sapere da un fili di nome Gemmnán, e che si riferisse a Cristo con l’epiteto «il mio druido», ma ciò – come testimonia Adomnano di Iona – non gli impedí di fronteggiare i druidi, arrivando ad avere la meglio su uno di loro. Comunque sia, in questo contesto, cultura monastica e tradizioni autoctone riuscirono a convivere e confrontarsi, fino a fondersi per dare vita a una nuova identità, talmente ricca e peculiare da costituire 0 km 50 un unicum nell’intera storia europea.

Per salvare le tradizioni

L’uso della scrittura non era ben visto dai filid. Col procedere dell’evangelizzazione e la progressiva diffusione del cristianesimo, anch’essi furono però costretti a utilizzarla, per evitare l’estinzione della loro tradizione. Sembra anzi assodato che i filid si siano serviti degli insegnamenti appresi proprio in ambito monastico per trascrivere il patrimonio di miti e leggende fino ad allora tramandato solo per via orale. Dalla metà del VII secolo il fili Cenn Faeladh (morto nel 679) avrebbe utilizzato la scrittura per fissare in forma poetica quanto imparato nelle scuole monastiche, fondendo i caratteri del fili con quelli del sapiens, il monaco dotto. Nello stesso periodo un altro fili mise per iscritto la Razzia del bestiame di Cooley (Táin Bó Cúalinge), la cui elaborazione in forma orale si fa risalire forse già al IV secolo. Questa inedita situazione fece sorgere un nuovo problema: quale atteggiamento tenere nei confronti del sapere autoctono tradizionale. Se, cioè, respingere miti e genealogie in quanto mera espressione di leggende e superstizioni, oppure accettarle come storia reale da salvaguardare e tramandare. I dotti dell’epoca scelsero la seconda strada, cercando inoltre, dove possibile, di far interloquire gli antichi eroi delle saghe con personaggi storici realmente esistiti.

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Cardiff

Comunque sia, tra il X e il XVI secolo furono messe per iscritto gran parte delle opere capitali della letteratura irlandese, dal ciclo di leggende epico-mitologiche dei Tuatha Dé Danann (popolazione leggendaria nelle tradizioni celtiche d’Irlanda, n.d.r.) e dell’Ulster a quello poetico di Finn Mac Cumhaill (cacciatoreguerriero della mitologia irlandese, n.d.r.). Questi e altri capolavori ci sono pervenuti in numerose miscellanee, alcune delle quali – il Libro di Ballymote, il Libro giallo di Lecan e il Libro di Leinster – contengono informazioni preziose sull’Ogam e sul suo utilizzo da parte dei filid. Fu in questo contesto, presumibilmente, che esso ebbe origine. Dire con certezza quando è impossibile. La leggenda trasmessa dal Manuale del Letterato suggerisce «al tempo di Bres figlio di re Elatha sovrano d’Irlanda»: l’artefice sarebbe stato un certo Ogma «figlio di Elatha figlio di Delbaeth, fratello di Bres», uomo molto dotato per il linguaggio e la poesia, che lo inventò con l’idea che «dovesse appartenere all’uomo colto ed escludere gli zotici e i mandriani». Il nome «Ogam» va però ricollegato anche a quell’Ogme o Ogma tradizionalmente identificato con Ercole, che già secondo il greco Luciano «dai Celti è chiamato Ogmios nella loro lingua» ed è per loro il

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misteri scrittura ogam

Due pagine manoscritte dal Libro di Ballymote, una raccolta di diversi testi, compilata intorno al 1391, per Tonnaltagh McDonagh. Uno dei manoscritti, la Contesa dei Poeti, contiene il trattato sulla scrittura ogamica. Irlanda, Royal Irish Academy.

dio della sapienza. Ma nella tradizione del Lebor Gábala (Libro delle invasioni), Ogma è un guerriero appartenente alle tribú della dea Danu, costituite dagli antichi dei dell’Irlanda pagana. Con ogni probabilità – cosa del resto frequente nel mondo antico – è stata dunque operata una sovrapposizione tra la figura del dio e quella del guerriero, attribuendo a quest’ultimo l’invenzione dell’alfabeto. La maggioranza delle epigrafi, comunque, risale ai secoli IV-VII, il che ha fatto a lungo porre l’invenzione dell’Ogam intorno al IV secolo. Lo scavo di un crannóg (sito abitativo lacustre) nei pressi di Ballinderry, datato al 200 d.C., ha però restituito un dado da gioco osseo con inciso, sulla faccia del cinque, il segno ogamico che corrisponde alla lettera V. Questo ritrovamento dimostrerebbe che l’Ogam era in uso già nel III secolo e quindi la sua invenzione andrebbe retrodatata di almeno cent’anni. Comunque sia, al di là delle leggende, l’elaborazione dell’Ogam avvenne con ogni probabilità in ambiente dotto, poiché tutti i dati in nostro possesso sembrano

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suggerire che il suo anonimo ideatore abbia tratto spunto dalle opere dei grammatici latini Elio Donato, Prisciano e Mario Vittorino. Un indizio è costituito dal raggruppamento delle vocali, che sebbene nell’Ogam differiscano leggermente nell’ordine rispetto al latino, sono però sempre cinque e possiedono la stessa natura. Anche per le consonanti la somiglianza è notevole. Il fatto che l’Ogam non presenti i segni introdotti in latino per traslitterare suoni greci o per lettere greche che mancavano, proverebbe che l’alfabeto latino servito da modello sia quello della prima classicità. Quasi tutte le iscrizioni superstiti sono state realizzate su pietra, secondo una prassi che risale alla cultura megalitica irlandese. Il tipo di supporto usato, e soprattutto la posizione a ridosso degli angoli, ne ha determinato in molti casi una conservazione lacunosa. Se le iscrizioni incise su materiali deperibili sono andate perdute, gli spigoli delle pietre hanno subito l’azione erosiva delle intemperie: molte, abbandonate in terreni adibiti a pascoli, sono state addirittura utilizzate come sfregatoio da parte dei bovini.

I nomi dei defunti

La funzione principale delle iscrizioni era sacrale e commemorativa. L’uso di porre sulle tombe o sui tumuli sepolcrali i nomi dei defunti non è originario dell’Irlanda, ma importato dal mondo classico. Dato il loro carattere, i testi sono molto brevi e le frasi contengono solo il nome proprio del defunto e le sue generalità. A volte presentano un solo nome proprio, al genitivo; piú spesso i nomi sono due, entrambi al genitivo e separati dal termine MAQI, «figlio». Per la maggior parte, quindi, le iscrizioni sono del tipo: «di X figlio di Y», sottintendendo quindi la parola «cippo», «tomba» o simili. In alcune epigrafi tarde il nome proprio, sempre in genitivo, è preceduto da ANM (ainm, «nome»). In altri casi appare il termine MUCOI, che introduce i nomi di tribú (tuatha), originati dai nomi di dèi e dèe che popolavano il pantheon dell’Irlanda pagana, dai quali le tribú vantavano discendenza. Se i reperti archeologici mostrano la funzione pragennaio

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tica dell’Ogam, la letteratura irlandese ne suggerisce questo campo. La raccolta di leggi nota come Senchus invece un utilizzo anche magico e rituale. Nel già citato Mor contiene la descrizione della procedura – detta cranTáin Bó Cúailnge, l’eroe Cú Chúlainn incide a piú riprese nchur, cioè «gettare i rami» – da seguire per stabilire la messaggi di sfida nei confronti dei nemici. Eccone uno: colpa o l’innocenza di un sospetto. Dapprima si pone«Non andate oltre, a meno che tra voi non si trovi un vano in un sacco tre rametti di legno intagliati a rapuomo, escluso il mio amico Fergus, che sia capace di presentare la colpa, l’innocenza e la Trinità; in seguito costruire una pastoia come questa con una sola mano e si procedeva all’estrazione di uno di essi, per stabilire il di un sol pezzo». Fergus chiede ai druidi di interpretare verdetto. Il testo non specifica con quali caratteri fosil significato del messaggio, che egli definisce «segreto», sero intagliati i rametti, ma con molta probabilità – si poi decide di ignorarlo. Cú Chúlainn allora, imbattutoricordi il dado di Balinderry – si trattava di Ogam. si in un attacco dell’esercito, uccide quattro guerrieri, La testimonianza di Tacito taglia loro le teste e le infila su un grosso ramo forcuto. Questo episodio, e un altro citato nel Corteggiamento di Quando i nemici si recano sul luogo, trovano sul ramo Etain, fanno riflettere sull’evidente scopo divinatorio insieme alle teste un messaggio inciso a caratteri ogadell’Ogam e riportano all’utilizzo mici: «Esso diceva che un uomo solo delle rune da parte dei Germani. aveva infisso quel ramo nel guado Nel Corteggiamento, il druido Dae che essi non dovevano proseguilan fa ricorso all’Ogam per sapere finché uno di loro, non Fergus, re dove il dio Midir ha nascosto avesse fatto altrettanto, e anch’egli Etain: taglia quattro rametti di con una sola mano». tasso e vi incide tre segni Ogam, Fergus e i suoi cercano l’eroe per utilizzandoli per trovare gli eochra affrontarlo, ma egli sul loro cammiecsi, probabilmente le chiavi della no abbatte una quercia e vi incide divinazione. Ed ecco cosa scrive in alfabeto ogamico che «nessuno Tacito a proposito dei Germani: doveva oltrepassare quella quercia «Tagliano un rametto di albero finché un guerriero l’avesse superada frutta in piccoli pezzi, li incita con il carro al primo tentativo». I dono con certi segni e li buttano guerrieri accettano la sfida e inizia il a caso su una veste bianca. Dopo massacro, che culmina con la vittodi che il sacerdote della tribú, se ria finale di Cú Chúlainn. il consulto è per la comunità, o il L’Ogam porta un messaggio di capofamiglia, se è per questioni sfida anche in un episodio del Libro private, invocati gli dèi con gli ocdi Leinster: «Il prato del castello era chi rivolti al cielo, ne raccoglie tre cosí costituito: in mezzo vi era una pezzi, uno per volta, e li interprecolonna e intorno a essa un anello Miniatura raffigurante un copista, ta secondo il simbolo espresso». di ferro, l’anello della Confraternita da un’edizione della Storia di Roma Le analogie sono evidenti. Si è degli eroi, e su di esso un’iscrizione di Tito Livio. Maestro di Boqueteaux, cercato, per questo e altri motivi in Ogam che diceva: “A chi dovesse 1350-1380. Parigi, Bibliothèque strutturali (suddivisione dell’alfagiungere sul prato portando con sé Sainte-Genenvieve. Ai monaci attivi beto in gruppi di lettere, eccetera) delle armi sarà proibito lasciare il negli scriptoria irlandesi viene fatta di mettere in relazione l’Ogam alle campo senza essere stato provocato risalire l’aggiunta all’alfabeto Ogam rune, ma in realtà essi conobbero a singolar tenzone”. Il ragazzo lesse di un quinto gruppo di cinque segni, sviluppi paralleli e indipendenti, e l’iscrizione e abbracciò la colonna». detti forfeda, per i dittonghi, utili per la se mai vi fu un condizionamento Entrambi gli episodi mostrano traslitterazione di parole latine. dell’uno sull’altro, è l’Ogam che come tutti fossero in grado di legpuò aver influenzato le rune e non gere il messaggio Ogam senza difviceversa. ficoltà. Ciò che era ostico o di diffiTanti valori – criptico, divinatorio, magico e memocile comprensione, almeno nel Tain, era dunque il vero rialistico – sono presenti nell’Ogam anche in altri episignificato del messaggio, che richiedeva, per la sua sodi, e nessuno esclude l’altro. Quanto raccontato nel interpretazione, l’intervento dei druidi. Emerge anche Viaggio di Bran Mac Febal, inoltre, suggerisce anche uno che i druidi non solo conoscevano bene la scrittura, scopo narrativo: «alle persone del conciliabolo – si legge ma sapevano interpretarla in quanto «intermediari del – Bran raccontò tutti i suoi viaggi errabondi dall’inisoprannaturale». La presenza della quercia si ricollega zio fino a quel momento. E scrisse queste quartine in ancora una volta all’ambito magico. Ogam, e poi disse loro addio. E da quell’ora, sui suoi Ai druidi, che amministravano anche la giustizia, vagabondaggi non si sa piú nulla». Naturalmente, di sembra del resto fare riferimento una delle prime tetutto ciò – per il materiale deperibile utilizzato – si sono stimonianze di «divinazione» applicata, in Irlanda, in

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misteri scrittura ogam Maumanorig

La pietra del pellegrino I rapporti tra Ogam e cristianesimo non furono però sempre tesi. Un’iscrizione ritrovata a Maumanorig (vedi foto a destra), nella contea irlandese del Kerry, è un curioso esempio di scrittura ogamica utilizzata in ambito cristiano. Considerata una prova tarda di utilizzo dell’Ogam in ambiente dotto e non una testimonianza commemorativa in senso tradizionale, l’iscrizione presenta un andamento curviforme lungo due lati della pietra. Caso strano, le lettere non sono notate – come al solito – lungo il margine, ma sono incise a ridosso di una linea anch’essa tracciata dal lapicida, proprio come nei manoscritti. La scritta corre a ridosso di

due croci patenti di diverse dimensioni, la piú grande inserita in un cerchio supportato da un elemento triangolare, con ogni probabilità precedenti l’iscrizione stessa. Va letta ANM COLMAN AILITHIR, ovvero «Monumento del pellegrino Colmán», ma il testo è stato a lungo di difficile

perse le tracce. A reclamare per l’Ogam un ruolo che vada oltre la mera memorialistica funebre resta però il dado di Balinderry, testimone muto (e finora unico) di una ricchezza culturale irrimediabilmente perduta. Il momento di massima espansione dell’Ogam fu il V secolo, dopo di che si ebbe un arresto dovuto alla contemporanea diffusione della lingua latina e del suo alfabeto. Sia la nomenclatura sia il vocabolario cristiano – la parola QRIMITIR dal latino presbyter e il nome Colman (Colombanus) – sono presenti solo in una decina di iscrizioni. In epoca altomedievale alcuni cippi funerari furono deliberatamente mutilati del nome della tribú e del termine MUCOI, probabilmente a opera degli evangelizzatori per privare la tribú del proprio ancestrale legame «genealogico» con una divinità pagana, distruggendone l’idolo.

Il sapore erudito di un antico mistero

E proprio i codici conservano altri esempi di Ogam, a testimonianza che l’antica tradizione, sebbene associata al paganesimo, era ben conosciuta e apprezzata dai monaci per il suo sapore erudito. Lo dimostra il testo latino scritto in alfabeto ogamico e conservato nel manoscritto degli Annales di Inisfallen (1160 circa): NUMUS HONORATUR SINE / NUMO NULLUS AMATUR. E lo provano gli schemi di alfabeto presenti in numerosi codici vergati tra il IX e il XII secolo. Qualche esempio. Il ms. Reg. Lat. 1308 della Biblioteca Apostolica Vaticana (XII secolo) contiene l’intero schema alfabetico (ma senza forfeda) e risulta prezioso perché presenta un segno del tutto diverso per indicare la lettera «P». Il ms. 207 della Burgerbibliothek

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interpretazione per via della presenza di alcuni segni apparentemente superflui, oggi dimostrati essere una glossa simile a quelle comuni nei manoscritti coevi.

di Berna (IX secolo) fornisce un’interessante variante dei forfeda. Il ms. 904 della Stiftsbibliothek di San Gallo (IX secolo), contenente le opere grammaticali di Prisciano, presenta ai margini di alcuni fogli correzioni e glosse in Ogam. Citiamo anche il codice noto come Stowe Missal (trascritto tra il 792 e l’803 circa), firmato dal copista col suo nome, SONID, in Ogam. E poi la pietra tombale rinvenuta presso il monastero irlandese di Clonmacnois col nome COLMAN in lettere mezze onciali e la scritta BOCHT («povero») in Ogam, e la nota obituaria degli Annali di Loch Cé (compilati tra il 1014 e il 1590) e degli Annála Connacht (compilati tra il XV e il XVI secolo), in cui un certo Muiris O’ Gibillain è definito «gran maestro di Erinn, eminente professore di poesia e di scrittura Ogam». Tutti esempi che mostrano chiaramente come l’Ogam non solo sopravvisse alla cristianizzazione, ma continuò a prosperare fuori e dentro i monasteri. Il fascino dell’Ogam risiede ancora, e probabilmente per sempre, nel mistero insoluto della sua origine e della sua funzione: antichissimo alfabeto per iniziati, nel quale i druidi hanno depositato pillole della loro sapienza ancestrale, o estrema forma di difesa di una cultura che, accerchiata dal testo scritto, intravede l’oblio delle proprie radici e, con un colpo di reni (e di ingegno), usa quel latino «invasore» per costruirsi un codice che perpetui, criptandole, le «sacre parole» di una civiltà al crepuscolo? Chiunque fossero i padri dell’Ogam, oggi possiamo dire che sono riusciti nel loro intento: quei segni remoti incisi sulla roccia perpetuano l’essenza culturale irlandese, in cui il mistero – anche quello dell’Ogam – continua a giocare la parte del leone. F gennaio

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protagonisti pigello portinari

Il banchiere

amava Quella di Pigello Portinari è la vicenda di un personaggio vissuto, come amministratore del potente Banco Mediceo, all’insegna dei denari. Ma è anche una storia di sottili giochi politici e diplomatici, di alleanze e rivalità tra Firenze e Milano. Il tutto nella cornice raffinata di case e palazzi arricchiti dal gusto di un vero mecenate

I I

l banchiere mediceo Pigello Portinari viene molto citato, soprattutto per la cappella che da lui prende il nome, affrescata da Vincenzo Foppa (1427 circa-1516 circa) nella chiesa milanese di S. Eustorgio, ma, in realtà, le conoscenze sulla sua vita e sul ruolo effettivo da lui rivestito nella Milano quattrocentesca sono scarse. Nato a Firenze nel 1421, da un’importante famiglia di mercanti che annoverava tra i suoi capostipiti piú illustri Folco (il padre della Beatrice di Dante, nonché priore a Firenze e fondatore dell’ospedale di Santa Maria Nuova negli anni Ottanta del Duecento), Pigello Portinari iniziò la sua carriera nel 1434, a Firenze, come garzone di bottega dei Medici, nel cui banco avevano già lavorato in compartecipazione societaria il padre Folco di Adoardo (nella filiale fiorentina, dal 1420 al 1431) e lo zio Giovanni (direttore nel 1416 e poi socio della filiale veneziana dal 1419 al 1435). Nel 1435 venne mandato a Venezia, e nel 1452 a Milano per aprire la nuova

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filiale voluta da Francesco Sforza in accordo con Cosimo de’ Medici. Nel capoluogo lombardo lo seguí il fratello Accerito, mentre il fratello Tommaso fu inviato a Bruges.

Esteta e abile in finanza

La vendita di tessuti serici, il cui migliore acquirente era la corte sforzesca, rappresentava l’oggetto principale delle operazioni mercantili della filiale di Milano, che importava le seterie da Venezia, pur cercando di introdurre nel capoluogo lombardo anche la seta fiorentina. I panni di lana e i berretti provenienti dalle sedi di Londra e di Bruges, i gioielli, e gli arazzi (molto apprezzati alla corte sforzesca e provenienti quasi esclusivamente dalla Borgogna e dalle Fiandre), costituivano poi le altre, importanti, merci trattate. Nel 1459 Pigello sposò Costanza Serristori (che aveva soltanto 15 anni), appartenente a un’importante famiglia imprenditoriale e mercantile fiorentina, dalla quale ebbe quattro figli: Ludovico, Folco, Antonio e Benedetto. Esperto di bilanci e

A destra Milano, Cappella Portinari, basilica di S. Eustorgio. Pigello Portinari inginocchiato davanti a San Pietro Martire. Dipinto attribuito a un maestro della cerchia di Benedetto Bembo, metà del XV sec. Il progetto per la costruzione della cappella, intitolata a Pietro Martire, fu avviato dal banchiere fiorentino Pigello Portinari intorno al 1462. In alto dritto di un fiorino d’oro con il giglio, simbolo araldico del Comune di Firenze. 1252-1303. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

transazioni finanziarie, ma anche di opere d’arte, tessuti, gioielli e persino di manoscritti, Portinari fu a piú riprese consultato, sia dai Medici che dagli Sforza, per la valutazione di oggetti o per reclutare gli artisti a suo giudizio migliori. Le qualifiche con cui viene designato nei documenti offrono pochi ma significativi indizi sulle sue vicende biografiche durante il periodo milanese. In primo luogo quella di «civis Florentiae et mercator Mediolani»: Pigello aveva cioè mantenuto la cittadinanza fiorentina per i vangennaio

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che l’arte

di Maria Paola Zanoboni

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protagonisti pigello portinari

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Nella pagina accanto miniatura di Francesco Sforza a cavallo, dai Commentarii Rerum Gestorum Franciscii Sphortiae. XV sec. Firenze, Biblioteca Riccardiana. Nel 1452, Francesco, duca di Milano, approvò, in accordo con la famiglia Medici, l’apertura della filiale lombarda del Banco fiorentino, la cui direzione venne affidata a Pigello Portinari.

taggi che ne potevano derivare, come la possibilità di acquistare e gestire piú facilmente le sue proprietà nel rione di San Giovanni a Firenze; di partecipare all’amministrazione dell’ospedale di Santa Maria Nuova, fondato, come detto, dalla sua famiglia due secoli prima; nonché di essere eletto priore nel medesimo rione di San Giovanni (il rione dei Medici), come avvenne nel 1459. La cittadinanza fiorentina non era venuta mai meno, fino a prevalere definitivamente, poco prima della morte, nonostante l’acquisizione, nel 1456, di quella milanese.

Un legame mai sopito

Dagli scarsi indizi che emergono sulle vicende biografiche del banchiere mediceo, gli interessi e i legami con la città natale sembrerebbero dunque decisamente prevalenti. Talvolta, del resto, Pigello soggiornava a Firenze anche per molti mesi: nel 1459, avendo ottenuto il priorato nel rione di San Giovanni, e in seguito agli incarichi affidatigli dai Medici, vi rimase dall’inizio di maggio all’inizio di ottobre. Ed è probabile che anche il suo matrimonio, avvenuto appunto in quell’anno, sia stato celebrato durante tale permanenza. Pigello Portinari morí l’11 ottobre del 1468, dopo una lunga malattia (si trattava probabilmente delle febbri malariche che lo avevano perseguitato per tutta la vita), e dei suoi ultimi giorni forniscono un resoconto accorato numerose lettere del carteggio sforzesco. Sebbene fosse consigliere e amico di Francesco Sforza, e rivestisse un ruolo di primo piano nel mondo economico, politico e artistico milanese, Pigello non sembra avere mai

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rivestito cariche pubbliche. A farne uno dei personaggi piú insigni e piú potenti di Milano erano esclusivamente la sua posizione di direttore del Banco, e quindi di finanziatore dei duchi e della corte per le principali e piú diverse esigenze (dalle armature agli arazzi, ai gioielli e ai tessuti preziosi), nonché i suoi svariati contatti e rapporti di patronage. Il suo unico incarico ufficiale presso la corte sforzesca fu quello di «riformatore delle entrate ducali», con cui venne deputato, il 30 agosto 1466, insieme ad alcuni esponenti dell’entourage sforzesco, a effettuare la vendita di buona parte dei dazi, delle gabelle e dei principali cespiti di entrata dello Stato. Oltre che banchiere e mecenate, Portinari fu anche, di fatto, uomo politico di primaria importanza, in quanto rappresentò il trait d’union tra Milano e Firenze nel delicato settore finanziario, nell’attività diplomatica, e come punto di riferimento per gli artisti fiorentini residenti nella capitale del ducato sforzesco (Filarete in primo luogo). Come banchiere, Portinari si trovò a dover affrontare le difficoltà della filiale milanese del Banco Mediceo, le cui risorse si basavano per la maggior parte sui prestiti di terzi: un capitale di appena 43 000 lire, rispetto a una disponibilità finanziaria complessiva di 589 000. A questo si deve aggiungere il fatto che, nel 1460, la filiale di Milano vantava crediti con la corte sforzesca per 218 000 lire, cioè quasi per la metà del capitale: i prestiti ai duchi si avvicinavano dunque pericolosamente al limite di sicurezza fissato da Cosimo de’ Medici, fatto che spinse Pigello a suggerire di tagliare ulteriori anticipi alla signoria milanese. Non venne però ascoltato, sicché, dopo la sua morte (1468), il banco si trovò in condizioni tali da avere difficoltà nel rimborso dei fondi quando i depositanti volevano ritirarli.

Tale situazione è collegata alla condizione generale del ducato di Milano, dove il distacco tra la corte e la dinastia sforzesca si poteva cogliere proprio nella fisionomia del sistema fiscale rispetto a quello, per esempio, di Firenze o Venezia.

Il peso dei debiti

Nel capoluogo lombardo, infatti, l’assenza di un «debito pubblico», capace di determinare una certa solidarietà dei contribuenti nel conseguimento di obiettivi comuni, l’impossibilità per i ceti dirigenti di esercitare un controllo sulle finanze statali, e le garanzie troppo scarse offerte dal regime principesco sulla sicurezza dell’investimento, facevano sí che i Milanesi sostenessero scarsamente le finanze pubbliche. In basso ritratto di Cosimo il Vecchio. Olio su stagno di Agnolo di Cosimo Tori detto il «Bronzino» (1503-1572) e bottega. 1551-1553 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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protagonisti pigello portinari I prestiti del Banco Mediceo ai duchi, inoltre, non erano finalizzati a investimenti produttivi, ma si rivolgevano prevalentemente alle spese per l’esercito e per i generi di lusso (abiti, argenterie, gioielli), che Pigello procurava alla corte, ottenendo in garanzia assegnazioni sulle entrate future del dominio (soprattutto su proventi di dazi e gabelle). Dal momento che la maggior parte del capitale non apparteneva, come accennato, ai proprietari della filiale, ma proveniva da prestiti di terzi, il peso dei debiti dei duchi di Milano veniva dunque a ricadere sulle famiglie mercantili milanesi, che affidavano il loro denaro al banco mediceo, attratte dagli elevati interessi offerti. La figura e l’attività di Pigello Portinari nella duplice direzione dei contatti con i duchi, da un lato, e con i ceti dirigenti milanesi – nobiliari o mercantili che fossero – dall’altro, sono quindi strettamente collegate alla crisi politica del ducato negli ultimi tre decenni del XV secolo. Una crisi che fu affiancata da quel-

la economica, attraverso una serie di fallimenti, alcuni dei quali di proporzioni enormi, provocati dai debiti contratti dai duchi di Milano per generi voluttuari (vesti preziose, gioielli) e per le spese di guerra; fallimenti che coinvolsero a catena, da un lato i mercanti che avevano stipulato i contratti di fornitura, ma anche tutte le famiglie nobiliari e mercantili che avevano concesso prestiti o fideiussioni agli appalta-

tori; dall’altro tutte le botteghe di piccoli o piccolissimi produttori ai quali la merce era stata commissionata. La filiale del Banco Mediceo, in quanto collettrice di ricchezze di varia origine, destinate al finanziamento delle attività manifatturiere, coinvolse nella passività dei suoi bilanci, in una sorta di globalizzazione dei mercati ante litteram, oltre ai prestatori milanesi, anche tutti i finanziatori fiorentini o stranieri in qualche modo a essa collegati (il Banco aveva infatti filiali a Londra, Bruges e nel regno di Napoli), fino alla sua liquidazione da parte dei Medici, nel 1478.

Autorevole mediatore

Il ruolo di Pigello Portinari non si esauriva in ogni caso in quello di prestatore, ma la sua figura appare molto piú complessa e articolata. Esperto di tecniche finanziarie, ma anche di tessuti, gioielli, manoscritti e opere d’arte, personaggio autorevole in ogni campo e sicuramente dotato di non comuni capacità di dialogo e di mediazione, rappresentò, di fatto, il fulcro dei rapporti diploma-

In alto tondo con rilievo in terracotta, dal Palazzo del Banco Mediceo di Milano. XV sec. Milano, Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. A sinistra attività di un banco, xilografia di scuola fiorentina da un’edizione del Libro di Mercatantie et usanze de paesi. 1490 circa. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Nella pagina accanto particolare del ritratto del banchiere fiorentino Giovanni Bicci de’ Medici (1360-1429), padre di Cosimo il Vecchio e fondatore del Banco Medici. Firenze, Galleria degli Uffizi gennaio

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Filiali del Banco Mediceo in Italia Roma

(Fine del Trecento-1494)

F ondata da Giovanni de’ Medici figlio di Averardo detto Bicci (padre di Cosimo il Vecchio), che, a lla fine del XIV secolo, con altre compagnie fiorentine, seppe sostituirsi agli Alberti, la famiglia che fino a quel momento aveva mantenuto la supremazia nelle forniture e nei prestiti alla corte papale da poco tornata dall’«esilio avignonese». La presenza a Roma dei Medici e degli altri banchieri fiorentini era di fondamentale importanza, perché su di loro si basava l’intero sistema amministrativo della Curia pontificia, ponendoli in una posizione di predominio sia nella gestione del mercato dei capitali, sia in quella delle merci di lusso. Tra i compiti della filiale medicea c’era la riscossione delle imposte dovute al papa in Italia e all’estero, e il pagamento dei sussidi ai principi stranieri in lotta contro i Turchi e contro gli eretici. Per questo motivo era in grado di fornire capitale circolante alle altre compagnie medicee.

Firenze (1397-1494)

venezia (1398-1481)

napoli (1400-1497)

F ondata da Giovanni de’ Medici, già banchiere a Roma, che nel 1420 si ritirò lasciando la d irezione del Banco al figlio Cosimo il Vecchio, che tenne il governo di Firenze dal 1434 al

1464, e accolse e allevò Pigello, Acerrito e Tommaso, i tre orfani di Folco Portinari, direttore a sua volta della filiale fiorentina dal 1420 al 1431. Nel 1494 il Banco, già virtualmente fallito, non sopravvisse all’invasione francese: il 17 novembre 1494 infatti, il re di Francia Carlo VIII entrò in Firenze e confiscò tutti i beni dei Medici. Fondata anch’essa da Giovanni de’ Medici, col socio Benedetto de’ Bardi. Fu diretta tra il 1413 e il 1419 da Giovanni di Adovardo Portinari (zio di Pigello) che rimase poi come socio dei Medici fino al 1435. Dal 1435 vi lavorarono il figlio di Giovanni, Bernardo Portinari, che poco dopo fondò la filiale di Bruges (1439), lo stesso Pigello, prima di essere inviato a Milano (1452), e Angelo Tani, che poi diresse la filiale di Bruges dopo Bernardo Portinari e prima di Tommaso Portinari. La filiale veneziana fu liquidata una prima volta nel 1469, poi ristabilita nel 1471 e liquidata definitivamente nel 1481. Fondata anch’essa da Giovanni de’ Medici col socio Benedetto

de’ Bardi. Nei primi anni del XV secolo fu probabilmente diretta

da un Portinari, Acerrito di Adovardo che aveva già lavorato nella sede di Firenze. Napoli rappresentava un punto strategico di primaria importanza e un grande centro di consumo, in quanto capitale del regno omonimo e sede di una corte fastosa, presso la quale le prospettive di guadagno per gli uomini d’affari fiorentini aumentarono in particolare nella seconda metà del Quattrocento. La filiale medicea, liquidata una prima volta nel 1483, fu ristabilita nel 1486 perché le perdite non erano eccessivamente gravi, e chiusa definitivamente verso il 1497.

ancona (1436-1443)

milano (1452-1478)

Diretta da Pigello Portinari, e dopo la sua morte (1468) dal fratello Acerrito che la rilevò nel 1478 quando i Medici la liquidarono. Gli scopi della presenza del Banco Mediceo a Milano sembrerebbero fondamentalmente due: in primo luogo quello politico, volto a influenzare, con la forza della diplomazia e col potere del denaro, le strategie di Francesco Sforza, in modo che fossero costantemente allineate a quelle dell’alleato Cosimo de’ Medici; in secondo luogo, quello economico, costituito dal tentativo da parte dei produttori fiorentini di accaparrarsi almeno una parte dell’ingente domanda di drappi auroserici della corte milanese, aprendo un nuovo, importante mercato alle manifatture della città di Dante in anni in cui la produzione ambrosiana non era ancora sufficiente a soddisfare le richieste.

pisa

(1442-1494)

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protagonisti pigello portinari Filiali del Banco Mediceo in europa costanza (1414-1418)

e basilea

Si trattava piú che altro di due banchi, aperti in occasione dei rispettivi concili, senza che le due città mantenessero poi importanza come centri bancari.

(1431-1443)

Ginevra

(1420 circa-1466)

ede di fiere importanti e quindi di intensa attività bancaria, Ginevra cominciò a declinare S q uando il re di Francia Luigi XI fece concessioni allettanti ai mercanti forestieri per indurli a

spostare i loro affari a Lione. I Fiorentini risposero immediatamente decretando, con la loro migrazione, il successo della nuova sede fieristica e del nuovo polo finanziario e commerciale lionese (dove i Medici nel 1466 aprirono una nuova filiale) a scapito di quello ginevrino.

Lione

ittà sede di importanti fiere, istituite dal re Luigi XI con ordinanza dell’8 marzo 1463 C e importante polo finanziario e commerciale [vedere sopra quanto detto per Ginevra].

Avignone

ebbene Avignone nel Quattrocento non fosse piú la residenza papale, rimase a lungo S l a metropoli commerciale e il centro bancario della Provenza e della Linguadoca, per cui i

(25 marzo 1466-1494)

(1°giugno 1446-1480)

Medici vi aprirono una filiale. Perse la sua posizione di centro bancario nell’ultimo quarto del Quattrocento dopo la morte di Renato d’Angiò, re di Napoli e conte di Provenza. In una lettera del 1476 un funzionario della filiale lamentava ormai la difficoltà di ottenere guadagni in modo onesto: da qui la necessità di liquidarla, come avvenne poco dopo.

Bruges (1439-1480)

Londra (1446-1477)

F ondata da Bernardo di Giovanni Portinari (cugino di Pigello) nel 1439, fu diretta da Tommaso P ortinari, fratello di Pigello, dal 1465 al 1480, anno della sua liquidazione, causata soprattutto

dal forte passivo che la filiale fiamminga si era accollata nel tentativo di salvare quella londinese. La figura di Tommaso, vista in modo completamente negativo dal principale storico del Banco Mediceo, Robert De Roover, viene attualmente rivalutata dalla storiografia, che le attribuisce il merito di aver adottato misure importantissime per l’espansione economica di Firenze, anche se in parte ridimensionate da casi fortuiti ed eventi bellici. Tra questi provvedimenti: 1) l’aver ottenuto per la sua filiale dal duca di Borgogna Carlo il Temerario il monopolio dell’allume di Tolfa (1468): dopo la caduta di Costantinopoli, infatti, rimaneva un’unica importante miniera di questa preziosa materia prima, indispensabile nella tintura dei tessuti, nello Stato Pontificio, nei pressi di Civitavecchia, a Tolfa appunto (miniera che il papa aveva dato in concessione ai Medici). Il Portinari si garantiva cosí una gestione in esclusiva delle compravendite di allume in terra fiamminga, forte utilizzatrice di questo prodotto nelle sue grandi manifatture laniere. Con l’accordo tra Tommaso Portinari e Carlo il Temerario veniva cioè proibito di utilizzare nel dominio del duca di Borgogna altro allume se non quello «dei Papi»; 2) l’essersi garantito, sottraendolo al mercante lucchese Giovanni Arnolfini, l’appalto del dazio del porto di Gravelines (tra i Paesi Bassi e il caposaldo inglese di Calais) attraverso il quale transitava la lana inglese indispensabile ai produttori fiamminghi e italiani (1465); 3) l’aver sottratto il monopolio dell’esportazione dei drappi auroserici ai lucchesi Arnolfini (1465) rendendo Bruges e la corte borgognona di Carlo il Temerario uno dei principali sbocchi per i tessuti auroserici fiorentini (lo stesso aveva fatto Pigello a Milano); 4) la sua funzione politica e diplomatica (come per Pigello a Milano) L ’economia inglese e quella dei Paesi Bassi erano legate dal comune interesse nel commercio d ella lana, di cui l’Inghilterra era produttrice e le manifatture dei Paesi Bassi (e italiane)

consumatrici: da qui gli stretti rapporti tra la piazza di Londra e quella di Bruges, con la conseguenza che ogni perturbazione nell’una si ripercuoteva nell’altra. La filiale si lasciò sempre piú coinvolgere dai prestiti alla corona inglese, in cambio dei quali re Edoardo IV concedeva le licenze di esportazione della lana, ma riavere il capitale era difficilissimo. Già nel 1468 Tommaso Portinari si era adoperato per evitare il fallimento della filiale londinese. Ma in un’Inghilterra dilaniata dalla guerra delle «due rose» tra gli York e i Lancaster, la situazione precipitò e i Medici, nel 1472, decisero di ritirarsi, chiudendo definitivamente la filiale londinese nel 1477.

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gli anni cruciali

Nel segno di Francesco e di Cosimo 1450. 26 febbraio Francesco Sforza entra in Milano, dopo averla conquistata con l’appoggio dei Medici. Si ferma in città solo un’ora affidando il governo provvisorio a Carlo Gonzaga. 1450. 25 marzo Francesco Sforza entra in Milano e e raccoglie con l’acclamazione popolare la successione dei Visconti. 1450. 1° novembre Ludovico Gonzaga, duca di Mantova, è nominato comandante nell’esercito sforzesco. Le truppe verranno pagate dal Banco Mediceo. 1451. In quest’anno raggiunge il suo acme l’«epidemia magna», la peste iniziata poco prima del 1450. 1451. 30 luglio Viene stipulata una Lega tra Milano e Firenze per fronteggiare le minacce congiunte di Venezia e Napoli. 1452. Viene aperta la filiale del Banco Mediceo a Milano. È all’inizio un trasferimento del Banco da Venezia, da dove i mercanti fiorentini erano stati espulsi. Ne è governatore Pigello Portinari che fino ad allora aveva lavorato nella sede veneziana. 1452. 3 aprile Alleanza tra Francesco Sforza, Firenze e Carlo VII re di Francia. 1452. 16 maggio Inizia la guerra con Venezia per i possessi a est dell’Adda. La guerra si protrae fino al 1454. 1454. 9 aprile Pace di Lodi tra Milano e Venezia. 1455. 25 febbraio Il papa sottoscrive la Lega italica, progettata da Francesco Sforza tra Venezia, Firenze, lo Stato Pontificio e quello di Napoli. 1455. 24 marzo Viene proclamata la Lega italica che garantirà per 40 anni la pace in Italia. Viene cosí legittimato il possesso di Milano da parte di Francesco Sforza. 1458. 27 giugno Muore Alfonso V d’Aragona. Inizia la guerra di successione al regno di Napoli che viene risolta con la mediazione di Francesco Sforza. 1460. 20 luglio Le milizie milanesi, mandate in aiuto In alto lo stemma della famiglia Portinari, particolare dalla tomba di Folco Portinari. Firenze, chiesa di S. Egidio. Nella pagina accanto Giovanni Battista, patrono di Firenze, raffigurato sulla coperta di uno «Statuto dei Monetieri» (ufficiali della zecca) contenente le norme per la prevenzione di frodi e contraffazioni. 1314-1461. Firenze, Archivio di Stato.

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di Ferdinando d’Aragona in guerra contro i baroni appoggiati da Giovanni d’Angiò, subiscono una grave sconfitta a S. Flaviano a opera di Jacopo Piccinino. 1461. agosto Francesco Sforza subisce un primo attacco grave di idropisia, che dura poco tempo. 1462. gennaio Francesco Sforza è colpito da un secondo grave attacco di idropisia e gotta. La moglie Bianca Maria tiene le redini dello Stato nel breve periodo della malattia. 1464. 1 agosto Muore Cosimo de’ Medici che era al potere a Firenze in modo «informale» dal 1434. Gli succede il figlio Piero, che morirà il 2 dicembre 1469, lasciando a sua volta il governo della città in mano ai due figli Lorenzo (il Magnifico) e Giuliano. 1466. 8 marzo Francesco Sforza muore per un attacco di idropisia . Gli succede il figlio Galeazzo Maria, assistito dal ministro in carica Cicco Simonetta. In attesa del ritorno dalla Francia del nuovo duca, la madre Bianca Maria Visconti Sforza assume il governo del ducato. 1467. 4 (7?) gennaio Lega tra Milano, Firenze e Napoli contro Venezia. Capitano generale della Lega è Federico da Montefeltro, amico e parente degli Sforza. 1468. 10 maggio Galeazzo Maria Sforza sposa Bona di Savoia. 1468. 11 ottobre Muore Pigello Portinari. 1468. 28 ottobre Muore Bianca Maria Visconti, vedova di Francesco Sforza, con la quale Pigello aveva avuto contatti continui durante il dominio di Galeazzo Maria. Alcuni sospettano che sia stata avvelenata su ordine del figlio con cui aveva avuto una lunga serie di dissapori. Viene sepolta nel coro del Duomo, accanto a Francesco Sforza.

tici non solo tra Firenze e Milano, ma in misura notevole anche con gli altri potentati della Penisola. E proprio questo suo ruolo politico ad altissimo livello, sorretto dal potere economico del Banco Mediceo, rappresentò, probabilmente, lo scopo principale della sua presenza a Milano, nonostante le passività della filiale, che Portinari cercò comunque, di limitare costantemente e con ogni mezzo. Pigello rappresentò a tutti gli effetti l’estendersi

dell’influenza di Cosimo de’ Medici sul ducato di Milano, un’influenza improntata ad attenuare le scelte troppo nette e drastiche dell’alleato Francesco Sforza, anticipando quella politica dell’«ago della bilancia» che avrebbe visto il suo piú noto esponente in Lorenzo il Magnifico. In numerose occasioni alquanto delicate (come nella fase, cruciale, del delinearsi degli schieramenti per la guerra nel regno di Napoli), Portinari venne infatti chiamato sia

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protagonisti pigello portinari Arte e politica

Nell’opera il nome Il mecenatismo mediceo è stato recentemente reinterpretato in modo molto diverso da quanto ipotizzato dalla leggenda. Secondo gli studi piú recenti (quelli di Dale Kent e di Melissa Bullard in particolare), la committenza rappresentava una componente importante della costruzione dell’identità personale dei Medici, sia nei rapporti familiari, sia nelle relazioni politiche e sociali. Nella Firenze rinascimentale il patronato di opere d’arte fu dunque un’operazione eminentemente politica e perciò fondamentale nella costruzione dell’ascesa medicea e del suo consolidamento. Un’ascesa che si basava sia su manovre prettamente politiche, sia su un raffinato programma di patronato, i cui effetti, sul piano della ricezione civica, erano accuratamente studiati e previsti. I canali della committenza erano gli stessi attraverso i quali si sviluppavano i rapporti politici, di affari, di amicizia, di vicinato e di parentela, mentre il linguaggio delle opere patrocinate accomunava tutti coloro che vi erano coinvolti, in una rete di contatti che costituiva il fondamento stesso della società fiorentina. Le botteghe degli artisti costituivano, a loro volta, un eccellente luogo di comunicazione, contatti sociali e negoziazioni, e, ancor piú delle botteghe, i cantieri e le confraternite devozionali, che fungevano spesso da collettori di ricchezze dalle da Cosimo de’ Medici, sia da Francesco Sforza, a svolgere in modo informale il ruolo di mediatore con altri potentati, o interpellato per un parere autorevole. Nel febbraio 1460, in un momento particolarmente difficile per la situazione politico-militare della Penisola, quando andavano delineandosi gli schieramenti per la guerra nel Regno di Napoli, e si stava concretizzando la scelta filoaragonese degli Sforza, il duca di Milano chiamò Pigello per lamentarsi senza mezzi termini del fatto che i due figli di Cosimo de’ Medici, Piero e Giovanni, fossero eccessivamente partigiani dei Francesi.

Tra Firenze e Milano

Al che, Portinari non mancò di ricordare che al duca i suoi debiti già enormi sarebbero aumentati ancora con una spedizione nel Regno di Napoli, concludendo con la

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provenienze piú diverse, utilizzate per la committenza di cappelle, chiese, tabernacoli lignei, apparati e vesti preziose. I mercanti o gli imprenditori, spesso al vertice di tali confraternite, si trovavano cosí in contatto sia con le élite cittadine che erogavano i finanziamenti per una determinata opera, sia con artisti di ogni settore, anche stranieri, chiamati a realizzarla. Per un mercante o un imprenditore la posizione di abate o di maggiorente di una confraternita poteva quindi rappresentare il trampolino di lancio per moltiplicare in modo esponenziale i propri affari e i propri investimenti, ampliando, attraverso i rapporti di patronage, le potenziali fonti di finanziamento, la possibilità di ottenere commissioni e appalti pubblici, la capacità di valutare personalmente e di reclutare gli artigiani e gli artisti migliori, di arricchire le proprie conoscenze tecniche, di accaparrarsi nuove porzioni di mercato, o di divenire a propria volta un «mecenate». È quanto avvenne a Milano al «ricamatore» ducale degli Sforza, Niccolò da Gerenzano, pressoché contemporaneo di Pigello Portinari, divenuto abate della confraternita per la costruzione della chiesa di S. Satiro, e in contatto con tutti i principali signori della Penisola, dai quali riceveva commissioni, e ai quali concedeva prestiti, ottenendo beni immobili e feudi a garanzia delle somme che gli erano dovute.

raccomandazione di pensare bene a quello che stava per fare, di non impegnarsi in modo da non poter poi piú tornare indietro, e di «non lasciarsi venire la guerra dei Francesi alle spalle». Inutile dire che le parole alquanto esplicite di Portinari esprimevano, con una veemenza che rivela tutta la sua grande familiarità col duca di Milano (ma anche il potere economico e politico che aveva alle spalle), il pensiero di Cosimo stesso, orientato verso un atteggiamento estremamente cauto nei confronti dei Francesi ai quali non voleva in alcun modo contrapporsi. Il livello di confidenza con gli Sforza permetteva a Pigello di non farsi scrupolo a esprimere la propria opinione anche se non troppo lusinghiera, come quando ebbe modo di palesare senza mezzi termini al rappresentante dei Gonzaga il pro(segue a p. 56)

Milano, basilica di S. Eustorgio. La cupola della cappella Portinari, dipinta a fasce concentriche policrome. Sul tamburo, è scolpita ad altorilievo una danza di angeli, composta da venti figure, e, nelle unghie, alternati alle finestre, sono rappresentati busti di santi, identificati con gli Apostoli. I quattro Dottori della Chiesa (Gregorio Magno, Gerolamo, Ambrogio e Agostino) sono dipinti entro tondi nei pennacchi, mentre, al di sotto, si trovano gli scudi a testa di cavallo con lo stemma della famiglia Portinari.

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protagonisti pigello portinari La cappella milanese, una storia sospetta La principale e al tempo stesso la piú nota tra le opere che la tradizione ritiene legate alla committenza del banchiere mediceo (pur mancando la documentazione in proposito), è la cappella Portinari (dedicata al santo domenicano Pietro Martire) in S. Eustorgio a Milano (in basso, la facciata della basilica), costruita tra il 1462 e il 1468 e considerata per importanza il secondo monumento della città dopo il Cenacolo di Leonardo. La cappella, il cui architetto rimane ignoto, riprende nella sua costruzione a pianta centrale lo schema architettonico della Sagrestia Vecchia di S. Lorenzo a Firenze, ma con una forte influenza stilistica del romanicogotico lombardo, evidente soprattutto nella decorazione in terracotta realizzata da Cristoforo Solari, elemento del tutto estraneo alla tradizione toscana. Al tempo stesso, però, la struttura della cappella di S. Pietro Martire parrebbe costituire quasi il modello in scala del tiburio di S. Maria delle Grazie, realizzato circa trent’anni

dopo, per volontà di Ludovico il Moro, distruggendo l’abside solariana appena costruita. A questo punto è d’obbligo aprire una parentesi: la cappella infatti, come è stato sostenuto da importanti studiosi, si inserisce pienamente in quel clima di rivalità fra i Domenicani dell’antica basilica di S. Eustorgio e quelli della nuova chiesa di S. Maria delle Grazie, la cui costruzione era iniziata proprio verso la metà del XV secolo. La dedicazione della cappella al domenicano Pietro Martire, da sempre molto venerato a Milano, costituiva un modo per rilanciare le funzioni dell’antica basilica di fronte al nuovo santuario domenicano. Dal momento che le vicende biografiche di Pigello rimandano in continuazione alla sua città natale, mentre le radici milanesi del banchiere mediceo consistevano soltanto in una dimora (il palazzo del Banco), che non era sua, e in una «residenza di campagna» acquistata per puro investimento e destinata a essere subito rivenduta, appare piuttosto strano che il Portinari

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abbia deliberatamente scelto di essere sepolto nella città lombarda, nella cappella che da lui prende il nome. Per di piú la documentazione a questo proposito è praticamente inesistente o molto tarda e viziata da interessi di parte. Solo un inventario della sacrestia della basilica, risalente al 1478, afferma che Pigello fece costruire la cappella e la dotò di splendidi paramenti, e altri furono donati da Piero de’ Medici, ma non fa menzione alcuna di un suo desiderio di esservi sepolto, né della presenza della sua tomba, sulla quale le prime testimonianze risalgono soltanto alla seconda metà del Cinquecento e al Seicento inoltrato, quando padre Placido Puccinelli, incaricato dall’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova (erede dei Portinari) di accertarsi se vi fossero a Milano altri beni della famiglia, fece redigere un atto notarile avente per oggetto la descrizione della cappella, atto i cui punti salienti (tra i quali l’esistenza della tomba del Portinari sotto una lapide illeggibile), non avevano altre basi se non le dichiarazioni del religioso. D’altra parte, il sepolcro di famiglia, ultima dimora dei Portinari dal XIII alla fine del XVII secolo, si trovava a Firenze nella chiesa di S. Egidio, situata all’interno di quell’ospedale di S. Maria Nuova di cui i Portinari stessi erano fondatori e patroni. In S. Egidio appunto (dove sarebbe stato sepolto), Tommaso, fratello di Pigello, fece trasportare da Bruges nel 1483 il trittico di Hugo Van der Goes destinato a fungere da pala d’altare, e, per abbellire la medesima chiesa, proprio Pigello, negli anni in cui si trovava a Venezia, aveva inviato insigni artisti. L’intensità del vincolo affettivo con la città natale appare ancora evidentissima nel testamento del 1461, in cui Pigello, in caso di estinzione della propria discendenza maschile, nominava erede universale ed erogatore della dote alle sue eventuali figlie, l’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, anziché istituzioni religiose o assistenziali milanesi. A tutto questo si deve aggiungere che, in una lettera scritta quattro anni prima di morire, Pigello si proclamava devoto di San Ludovico, il Santo francescano cioè che, come lui, era stato perseguitato dalle febbri, in seguito alle quali era morto, giovanissimo, nel 1297. E col nome di Ludovico, appunto, Pigello aveva battezzato uno (forse il maggiore) dei suoi quattro figli. Nessun accenno dunque a una sua particolare devozione per il santo domenicano Pietro Martire, né alla cappella in S. Eustorgio, come non ne aveva fatto menzione tre anni prima nel testamento del 7 ottobre 1461, e come non ne parlò Accerito l’11 ottobre 1468, annunciando al duca la morte di Pigello. Un altro testamento invece, quello del milanese Paolino Brivio (funzionario ducale morto nel 1450) chiedeva la costruzione, in S. Eustorgio, di una cappella destinata a ospitare le reliquie di S. Pietro Martire, da affrescare col Santo apparso in sogno al testatore e col miracolo del piede risanato, gli affreschi cioè che si possono vedere tuttora nella «cappella Portinari», e che le ultime volontà di Paolino descrivono minuziosamente e con la piú intensa gennaio

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drammaticità. È possibile dunque, anche se si tratta solo di un’ipotesi, che la cappella di S. Pietro Martire sia stata fatta costruire dai Domenicani di S. Eustorgio, in rivalità con quelli della nuova basilica di S. Maria delle Grazie, inizialmente col lascito e secondo la volontà di Paolino Brivio (soprattutto per quel che concerne il ciclo pittorico), poi, forse, non essendo sufficiente il denaro, chiedendo un prestito al Banco Mediceo, come faceva tutta la società milanese, laica ed ecclesiastica, in quegli anni. Legare poi il nome di Pigello a quello della cappella non poteva costituire occasione migliore per rilanciare il ruolo dell’antica basilica di S. Eustorgio di fronte a quello della nuova chiesa Il miracolo del piede risanato, dal ciclo di affreschi dedicato a San Pietro Martire, di Vincenzo Foppa (1427-1515). 1468. Milano, Cappella Portinari, parete nord.

domenicana rivale (il cui tiburio, come accennato, ricorda straordinariamente la struttura architettonica della Portinari, quasi ne costituisse la copia ingrandita). Gli affreschi raffiguranti la vita di San Pietro Martire, che costituiscono uno dei caposaldi pittorici rinascimentali dell’Italia Settentrionale, furono realizzati da Vincenzo Foppa. Il lavoro era stato preceduto da precisi studi prospettici d’insieme riportati sull’intonaco ancora fresco con una fitta rete di incisioni, e da cartoni preparatori per le figure principali. Dal ciclo narrativo (raffigurante l’Annunciazione, l’Assunzione della Vergine, il Miracolo del piede risanato, il Martirio di San Pietro Martire, il Miracolo della nube e il Miracolo della falsa Madonna) emerge la geniale autonomia del linguaggio del Foppa, in cui si combinano ricordi padovani e fiorentini, esperienze prospettiche padane e una particolare attenzione alle tonalità della luce maturata attraverso un’attenta analisi delle opere fiamminghe.


protagonisti pigello portinari villa mirabello

Per pochi fiorini Alcune delle proprietà immobiliari acquisite da Pigello Portinari a Milano costituivano la garanzia di somme che non gli erano state restituite, o affari particolarmente ghiotti in quanto beni venduti a prezzi piuttosto vantaggiosi da mercanti in difficoltà economiche. Tra queste, la celebre Villa Mirabello, uno dei pochi edifici quattrocenteschi ancora oggi esistenti a Milano, venduta a Portinari, per 5000 fiorini, dal mercante Pietro Vismara il 5 maggio 1467. Si trattava di un grande edificio, ovvero di due edifici contigui, situati alle porte della città (nell’attuale periferia nord), nell’area suburbana di pertinenza della parrocchia di S. Bartolomeo a Porta Nuova. Il complesso, dotato di cortili, aie, cascine, portici, orto e giardino, era circondato da prati e vigneti, facilmente irrigabili grazie ai numerosi fontanili e corsi d’acqua presenti nella zona. A lungo ritenuta l’idilliaca residenza di campagna di Portinari, dovette in realtà essere ceduta a Pigello dal Vismara in difficoltà economiche, per poi essere immediatamente rivenduta con un certo guadagno. Poco dopo l’acquisto, infatti, sorse una controversia, in quanto Portinari aveva immediatamente messo all’asta i beni, provocando la reazione degli eredi di Dionigi da Ello, al quale la proprietà era stata ipotecata da Pietro Vismara (che non ne aveva però fatto parola al momento della vendita). Nel dicembre 1467 a Pigello, che in quel momento non era a Milano, venne intentata causa in contumacia, con l’ordine di presentarsi davanti al Vicario di Provvisione. Subito dopo, la questione dovette essere appianata, tanto che il duca concesse a Portinari l’esenzione da ogni imposta ordinaria e straordinaria per i beni di Mirabello. Il tentativo di vendita comunque non dovette andare in porto, per cui la residenza rimase di proprietà dei Portinari, che, nel 1472, la prio pensiero a proposito del comportamento di Galeazzo Maria, figlio del duca di Milano, definendolo «uno grande tacone» e ribadendo immediatamente il concetto: «Te dico un’altra volta ch’el è stato uno grande tacone, et me ne rincresse». Il ruolo politico fondamentale di Portinari ebbe occasione di manife-

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ristrutturarono, facendola abbellire dal pittore Bartolomeo Bresciano detto da Prato, con numerosi affreschi, tra i quali un’Annunciazione sulla porta d’ingresso dell’edificio. Villa Mirabello rimase in ogni caso per pochi anni di proprietà dei discendenti di Pigello: nel febbraio del 1500, quando vi alloggiò Ludovico il Moro, apparteneva già ai Landriani. Dopo essere passata a Giovanni Marino (fratello del banchiere genovese Tommaso), alla metà del Cinquecento per la villa, relegata alla sola funzione agricola, iniziò una fase di decadenza interrotta, solo all’inizio del Novecento, da una serie di restauri. Il complesso, in mattoni a vista, si struttura secondo una disposizione a «L», con finestre ogivali con cornici in cotto bordate da fasce intonacate e graffite. Sul piccolo cortile si apre un triportico con loggiato al piano nobile con colonne lignee ottagonali. Del nucleo originario, però, rimane il solo corpo a «L» su strada, con il loggiato sulla corte interna, la scala e il balcone sul fronte. All’interno si conservano una fascia con le insegne dei Landriani e dei Brivio, tracce di affreschi a motivi araldici e decorazioni floreali, e (nel sottotetto) un affresco raffigurante un musico intento a suonare la mandola e una dama col tamburello. Dal 1916 è sede della Casa di lavoro e patronato per i ciechi di guerra di Lombardia.

starsi ancora in un altro frangente di particolare tensione tra Firenze e Milano, nel momento in cui Francesco Sforza era appena uscito dalla prima fase di una lunga malattia, che lo aveva messo in pericolo di vita, scatenando al tempo stesso le spinte autonomistiche di alcune zone del ducato (1462).

In alto Milano. La corte interna di Villa Mirabello (a destra), costruita nella seconda metà del XV sec. su progetto dell’architetto Michelozzo; una sala interna dell’edificio (a sinistra), con affreschi a motivi araldici e decorazioni con fiori e melograni. La villa entrò in possesso di Pigello Portinari nel 1467.

D’altra parte, il Banco Mediceo, con la sua rete di filiali dislocate nei punti strategici dell’Europa, svolgeva anche un ruolo diplomatico di prim’ordine, in quanto era il primo a essere aggiornato su avvenimenti politici e militari da cui potevano scaturire congiunture economiche piú o meno favorevoli. Nel 1461 gennaio

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due lettere del fratello Tommaso, direttore della filiale di Bruges, informarono appunto Pigello, probabilmente prima di molti altri, della morte del re di Francia Carlo VII. Nello stesso anno, quando in Inghilterra le alterne vicende delle lotte fra gli York e i Lancaster portarono all’ascesa al trono di Edoardo di York, Pigello, insieme al duca di Milano, fu tra i primi ad apprendere la notizia. Il Portinari rappresentò, in sostanza, uno dei capisaldi non solo economici, ma anche politici, e talvolta persino militari, di Cosimo de’ Medici a Milano, una sorta di ambasciatore il cui influsso veniva amplificato enormemente sia dal potere economico che aveva alle spalle, sia anche dal suo personale rapporto di familiarità e amicizia con Francesco Sforza. Un trait d’union autorevole e indispensabile, dunque, tra il ducato di Milano e la repubblica di Firenze, in grado di condizionare a volte le scelte politiche. E proprio questo rappresenta, forse, uno degli aspetti piú rilevanti del suo operato (o almeno quello che meglio emerge dalla documentazione superstite). Sia come tramite della committenza medicea (nella realizzazione, per esempio, del palazzo del Ban-

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co), sia in prima persona (cappella Portinari, Sacrestia, coro e camera del capitolo di S. Pietro in Gessate), Pigello fu anche uno dei principali promotori del rigoglio artistico senza precedenti che caratterizzò in ogni campo (oltre che nella pittura e nella scultura, anche in tutte le arti minori: gioielleria, arazzi, ricamo, tessuti preziosi) la seconda metà del XV secolo.

Una dimora sontuosa

Il palazzo del Banco, che i Medici acquistarono dalla famiglia Bossi, attribuito da alcuni all’architetto toscano Michelozzo, da altri al Filarete, e affrescato da Vincenzo Foppa, venne fatto ristrutturare, ampliare e decorare dal Portinari in accordo con Cosimo de’ Medici tra il 1455 e i primi anni Sessanta del XV secolo. In questa magnifica dimora, molte camere della quale erano espressamente adibite a studio e ad archivio dei libri contabili, Pigello risiedeva e svolgeva la sua attività (vedi «Medioevo» n. 177, ottobre 2011). Un altro importante impegno del banchiere fiorentino fu il finanziamento per la costruzione della sacrestia di S. Pietro in Gessate e l’ampliamento del coro dalle splendide tarsie lignee.

Tra il 1460 e il 1464, infine, Portinari avrebbe commissionato a un architetto il cui nome è finora sconosciuto, la cappella in S. Eustorgio che da lui prende il nome, affidandone ancora una volta la decorazione al Foppa. Qui, secondo la tradizione (anche se nessun documento lo dimostra, e se le vicende biografiche suggeriscono tutt’altro), il banchiere sarebbe stato sepolto, nell’ottobre del 1468. Scarse sono le notizie sulla cappella della quale risulta incerta persino la datazione, oscillante tra il 1460 e il 1464, e la cui paternità è sconosciuta. Si è pensato, anche in questo caso, a Michelozzo e al Filarete, ma, piú recentemente, gli storici dell’arte hanno sottolineato come gli elementi toscani largamente presenti nell’architettura della Portinari non ne denuncino necessariamente la progettazione da parte di un architetto toscano, dimostrando piuttosto soltanto un particolare interesse del committente per la Sacrestia vecchia del Brunelleschi in S. Lorenzo. F

Da leggere U Raymond De Roover, Il banco

Medici dalle origini al declino (1397/1494), Firenze 1963, pp. 373-394 U Maria Paola Zanoboni, «Et che … el dicto Pigello sia piu prompto a servire»: Pigello Portinari nella vita economica (e politica) milanese quattrocentesca, in Storia Economica, XII (2009), pp. 27-107 U Marc Boone, Apologie d’un banquier médiéval: Tommaso Portinari et l’Etat bourguignon, in Le Moyen Age. Revue d’histoire et de philologie, CV (1999), fasc. I, pp. 31-54 ; U Richard J. Walsh, Charles the Bold and Italy (1467-1477). Politics and personnel, Liverpool University Press, Liverpool 2005, pp. 120153; U Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, a cura di Ludovica Sebregondi e Tim Parks, Giunti, Firenze 2011

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immaginario follia

Menti in bilico di Paolo Galloni

Deviare dalla norma era considerato un fatto riprovevole, indice di uno stato di alterazione mentale non di rado attribuito all’influsso del maligno. La follia, insomma, piú che essere riconosciuta come una patologia, era vista come una trasgressione o, addirittura, una eversione nei confronti del buon ordine della società

Terminale di una marotte, una sorta di scettro, attributo dei buffoni di corte, in forma di maschera grottesca. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre. Il riso sgangherato, come quello del personaggio raffigurato, poteva essere fra i comportamenti ritenuti anomali e perciò assimilabili alla follia.

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M M

eglio cominciare subito con una precisazione: «pazzia» e «follia» sono termini generici, che designano, oggi come nel passato, realtà tra loro molto diverse, che vanno dal ritardo mentale, ai comportamenti bizzarri che superavano il (fluido) limite del tollerabile, includendo tutta una serie di modi di fare e atteggiamenti percepiti come anomali rispetto ai canoni di una determinata cultura. È quindi preferibile evitare di sovrapporre al passato le interpretazioni del presente. Una peculiarità delle interpretazioni medievali della follia, per esempio, è l’idea che essa potesse essere causata tanto da squilibri fisiologici quanto dall’ingresso nel corpo di uno spirito maligno. Come vedremo, i due piani si intrecciavano; non a caso, il comportamento degli indemoniati è simile a quello sconclusionato e fuori controllo di certi personaggi gennaio

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La follia di Lancillotto. Miniatura da Le Roman de Tristan en prose, illustrato dal MaĂŽtre de Charles du Maine. 14401460. Chantilly, MusĂŠe CondĂŠ. Nei poemi, il cavaliere che impazzisce, regredisce, attraverso un cerimoniale codificato, allo stato selvaggio.

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immaginario follia impazziti descritti nella letteratura medievale. La pazzia cavalleresca raccontata nei poemi, dal Lancillotto di Chrétien de Troyes all’Orlando furioso di Ariosto, è in primo luogo una follia d’amore (vedi box a p. 65), che prende le mosse principalmente dalla gelosia o dall’abbandono; le cause scatenanti possono però essere anche altre, per esempio la perdita dei compagni in guerra (come accade a Merlino), un filtro magico, la vana e spossante ricerca di un amico scomparso.

Da uomo a bestia

Nel complesso, la follia romanzesca appare poco realistica e piú vicina a un modello letterario, un modello che però è importante, in quanto ha le caratteristiche di una riflessione su un argomento complesso e difficile da afferrare e da rappresentare. Il cavaliere che impazzisce, nei poemi, segue un cerimoniale: si spoglia, depone le armi, abbandona il cavallo, si lascia alle spalle la città, la corte, i campi coltivati e corre nudo nella foresta, dove si nutre di carne cruda, erbe e radici. Si osserva un’evidente regressione simbolica dal culturale al naturale, dal civilizzato al selvaggio, dall’umano al be-

stiale. Il cavaliere impazzito finisce per assomigliare a un’altra figura del folklore medievale, l’uomo selvaggio. A livello iconografico il folle condivide con l’uomo selvaggio l’attributo della mazza, ma non quello della lunga peluria. Il matto medievale è, invece, spesso rappresentato nudo, il capo rasato, accompagnato dall’immancabile mazza e nell’atto di addentare una forma di formaggio. Se il formaggio, sulla base della teoria degli umori, è un cibo freddo e secco, associato al temperamento malinconico e agli sbalzi d’umore, la tonsura potrebbe essere in parte accostata a quella dei monaci. In effetti, forse paradossalmente, ma non troppo, molti segni esteriori della follia – la principale eccezione è rappresentata dalla gestualità scoordinata ed esagerata – si ritrovano nell’immagine di certi santi eremiti che scelgono di ritirarsi nella selva e di vivere tra e con gli animali. Tuttavia, mentre il santo ammansisce le

fiere, il pazzo si imbestialisce. Non a caso, è proprio dall’incontro con un eremita nella foresta che a volte inizia il percorso di recupero della salute da parte del cavaliere impazzito, che, al cospetto dell’uomo di Dio, sente la sua furia ferina finalmente placarsi.

L’azione del demonio

Come il demonio può essere espulso dal corpo, cosí il raziocinio può ritrovare gli spazi temporaneamente occupati dall’animalità.

Il folle, particolare di una miniatura da Petites Heures de Jean de Berry, di Jacquemart de Hesdin (1350-1410) 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

letteratura

La follia simulata Romanzi e cronache medievali conoscono e valorizzano il tema della follia simulata. A servirsene sono due personaggi destinati a un glorioso avvenire nella cultura europea: Tristano e Amleto. Il primo, dopo essere stato cacciato dalla corte del re Marco, suo zio, si finge pazzo (indossando abiti lerci, radendosi il capo e tingendosi di scuro il volto), per poter tornare e avvicinare Isotta; l’effetto drammatico è notevole, perché, sotto mentite spoglie, Tristano può rivolgersi al re e all’amata proclamando sempre liberamente la verità, che viene però fraintesa e scambiata per un discorso buffonesco. La piú antica versione della storia di Amleto, contenuta nelle Gesta dei Danesi di Sassone Grammatico (fine del XII secolo), presenta alcune significative somiglianze con l’episodio tristaniano; fuggito dalla Danimarca in seguito all’assassinio del padre a opera di cospiratori, egli rientra in patria, con l’intento di riconquistare il regno; a questo scopo si finge pazzo e, come Tristano, confonde l’usurpatore e i suoi scagnozzi semplicemente dicendo la verità. Al contrario dell’Amleto reso immortale da Shakespeare, quello di Sassone è un eroe che raggiunge il suo scopo per mezzo dell’astuzia, ma anche trasformandosi al momento opportuno in uomo d’azione spietato, capace di vendicare il padre e riprendersi il trono.

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Il diavolo, dicevamo, è colui che «perde» le persone di cui si impossessa o che cedono alla sua tentazione: abbandonare la via di Cristo è, innanzitutto, una follia dal punto di vista esistenziale, ma, quando c’era il Maligno di mezzo, si riteneva che fossero possibili anche ricadute di ordine, per cosí dire, fisiologico. La terminologia che definisce la possessione diabolica è simile a quella medica. Per Alberto Magno i posseduti sono obsessi, mentre per Tommaso d’Aquino sono energumeni. Satana rendeva chi gli apparteneva simile a sé anche in senso fisiologico. Va infatti sottolineato che il dibattito insieme teologico e scientifico intorno alla corporeità del diavolo era giunto alla conclusione che nel corpo del Maligno non scorresse sangue; la sua complessione umorale doveva essere quindi posta all’estremo limite del freddo e del secco, vale a dire la combinazione che piú favoriva l’instabilità mentale – il motivo, ne abbiamo accennato, per cui il formaggio è il cibo piú sovente associato alla pazzia.

Sovvertire le regole

Il quadro che ne esce, pertanto, fa convivere con notevole coerenza medicina, teologia e iconografia. Una delle conseguenze di questa coerenza fu la parziale demonizzazione della follia, tra le possibili cause della quale entrarono a buon diritto peccati e comportamenti variamente definibili come ostili alla fede. Per esempio, una ragazza che si era messa a cantare e a danzare per disturbare i fedeli che si recavano ad ascoltare un sermone si ritrovò poco dopo con un diavolo in corpo, posseduta insomma. Un uso scorretto e peccaminoso del corpo apriva la via al Maligno che rendeva folli. Il Medioevo fu, piú di altre, un’epoca in cui gli opposti San Martino esorcizza un indemoniato. Fine del XV sec. Colmar, Musée d’Unterlinden. Compiere peccati contro la religione era ritenuta una tra le cause che conducevano gli uomini alla follia.

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immaginario follia Il beato Jacopone da Todi, affresco dalla cappella dell’Assunta del duomo di Prato, di Paolo Uccello. 1436. Prato, Museo dell’Opera del Duomo. Nel Medioevo, la pazzia era associata, oltre che alla possessione diabolica, anche agli uomini di fede, che per Cristo erano disposti a compiere scelte considerate folli.

volentieri si sfioravano. Ecco allora che la pazzia da intrusione diabolica poteva cambiare di segno e denotare il «povero di spirito», l’ingenuo che rimane bambino e per questo è amico di Dio, addirittura un suo potenziale messaggero.

I «Pazzi di Dio»

Alcune miniature del XIIXIII secolo raffigurano un insipiens, connotato secondo i tipici canoni dell’epoca (tonsura, mazza in una mano, formaggio o sasso nell’altra), ma intento a contemplare rapito il volto di Cristo. Nella tradizione agiografica il motivo del folle di Dio è collegato alla scelta eremitica della fuga dal mondo. San Romualdo (951-1027) era «pazzo in Cristo, tutto preso dal cielo»; gli atteggiamenti deliberatamente provocatori di Roberto d’Arbrissel (1045-1116) gli meritarono una lettera assai critica da parte di Marbodo, vescovo di Reims, in cui il prelato lo rimprovera di offrire uno spettacolo tanto indegno che «gli manca solo una clava per avere l’aspetto di un lunatico». Malgrado Marbodo, il tema del folle di Dio si conquista uno spazio sempre piú ampio nella letteratura e nell’esperienza cristiana dei secoli XII e XIII. Il culmine di tale corrente è rappresentato ovviamente da San Francesco d’Assisi, il giovane ricco che si denuda e si proclama giullare di Dio, che dichiara che Dio lo ha chiamato a essere come un pazzo in questo mondo. Qualche decennio dopo sarà Jacopone da Todi ad affermare che il massimo della saggezza consiste nell’essere giudicato pazzo per amore di Cristo. Per il catalano Raimondo Lullo

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(1235-1315), fine intellettuale, ma anche Terziario francescano, il valore della santa follia era esemplificato dall’ardore missionario di chi partiva per convertire i musulmani e gli ebrei dell’Africa del nord. Il crescente interesse per il tema della follia, in tutti i suoi aspetti e ambivalenze, non mancò di coinvolgere anche l’ambito medicoscientifico, che elaborò e precisò una teoria naturale dei disturbi mentali che, è bene ribadirlo, non si pose mai come alternativa ad altre di carattere psicologico e religioso. Come si ricorderà, l’insorgere della follia era ricondotto al prevalere nell’organismo degli umori secchi su quelli umidi. Se al secco si abbinava un eccesso di umore freddo, si riteneva che il soggetto sarebbe stato predisposto alla malinconia, uno stato di tristezza e prostrazione aggravato da pulsioni ossessive (che, nonostante alcune apparenti similitudini, sarebbe fuorviante sovrapporre al moderno concetto di depressione, che appartiene a un quadro clinico e culturale del tutto diverso); se invece il troppo secco si incontrava con l’umore caldo, il rischio era quello di precipitare nella cosiddetta frenesia, uno stato caratterizzato da aumento delle pulsazioni, sete anomala, dolori al capo, insonnia e angoscia.

Lo sguardo della società

Resta da dire qualcosa su come le società medievali si ponessero concretamente nei confronti della follia. Che essa non fosse sempre rispettata lo suggerisce l’accoglienza ricevuta da Tristano quando giunge alla corte di re Marco fingendosi pazzo (vedi box a p. 60). Il folle attraversa il portone, subito i ragazzini accorrono e ululano come se fosse entrato un lupo: «Ecco il matto! Hu! Hu! Hu! Hu!. I valletti e gli scudieri gli lanciano scorze di legno e un corteo disordinato lo segue fino alla corte. Lui si volge di continuo verso di loro, che gli tirano di tutto e ridono. Se l’attaccano da destra devia a sinistra, finché arriva gennaio

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A sinistra Le Charivari, nozze di Fauvel e Vaine Gloire. Miniatura del Maestro di Fauvel, dal poema satirico francese Roman de Fauvel, attribuito a Gervais du Bus e Geoffroy Engelor de Pesscain. 1316-1320 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Con il rituale dello

charivari, attestato a partire dal XIV sec., si esprimeva, attraverso il frastuono, il disaccordo verso le unioni matrimoniali mal viste, che costituivano una violazione delle norme sociali. In basso Il folle, scultura in bronzo. XIV sec. Parigi, Musée National du Moyen Age.

Tradizioni

Il mondo alla rovescia Le Feste dei Folli, documentate con questo nome a partire dal XIII secolo in diverse città della Francia centrosettentrionale, rappresentano l’evoluzione di tradizioni piú antiche, in particolare le cosiddette Libertà di Dicembre, a loro volta (un fatto di cui gli autori medievali si mostrano consapevoli) discendenti dai pagani Saturnalia, celebrati dal 17 al 23 dicembre, durante i quali si metteva in scena un ordine sociale temporaneamente rovesciato; le Feste dei Folli, tuttavia, si caratterizzavano per il fatto di essere non solo organizzate con il consenso dei vescovi, ma anche celebrate, almeno in parte, all’interno delle chiese. Esse ammettevano una componente parodistica che veniva esasperata una volta fuori dagli edifici sacri. La festa si trasformava allora

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in una piú libera rappresentazione del mondo alla rovescia, con manifestazioni simili a quelle proprie del carnevale: laici che si vestivano da preti, uomini che indossavano abiti femminili, ragazzi che si nascondevano il volto dietro maschere di animali; il tutto mentre si snodavano lungo le vie cortei guidati da un «vescovo dei folli» in groppa a un asino, una scena in cui il ribaltamento dell’ordine costituito si confondeva con la citazione evangelica dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme a dorso d’asino.

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clontarf follia immaginario battaglie


fisiologia

Per colpa dell’amore Nell’interpretazione degli scienziati medievali l’amore troppo intenso poteva condurre alla follia perché si riteneva che dal cuore, sede delle passioni, si muovessero «spiriti vitali» in eccesso, che raggiungevano il ventricolo mediano del cervello e lo rendevano secco, asciugando anche il vicino ventricolo anteriore, determinando una pericolosa alterazione nell’equilibrio degli umori e lo sviluppo di pensieri ossessivi e maniacali, uniti ad altri disturbi, di

ordine sia psicologico che fisico. Secondo alcuni autori, per esempio Ildegarda di Bingen e Bartolomeo Angelico, lo stato di disordine veniva aggravato nelle fasi di luna nuova e luna piena. Ildegarda di Bingen propone anche una curiosa terapia per curare i lunatici: trovare un luogo in cui era morto un asino, invitare il paziente a stendersi e coprirlo con un lenzuolo, come se fosse morto, prenderlo per una mano e recitare tre volte al giorno per tre giorni una formula che richiama alla memoria, riassumendoli, gli episodi evangelici della resurrezione di Lazzaro e dell’entrata di Gesú a Gerusalemme a dorso d’asino. Estrazione della pietra della follia. Olio su pannello di Hieronymus Bosch (1453–1516). 1488-1516. Madrid, Museo del Prado.

all’ingresso del salone principale e vi entra, pungolato dagli inseguitori». Nelle fonti, tuttavia, si incontrano, e non di rado, atteggiamenti compassionevoli e tentativi terapeutici, tanto naturali (erbe con principi attivi calmanti, diuretici, tonici) che religiosi (pellegrinaggi a santuari, appello ai santi). Parallelamente, il diritto – civile e canonico – rifletteva su quali limitazioni fosse lecito imporre a individui affetti da qualche forma di insanità mentale. A partire dal XII secolo l’orientamento piú diffuso fu quello di interdire a stulti, fatui et idiotae il matrimonio e preferibilmente anche la comunione, per timore che l’ostia potesse essere sputata o altrimenti profanata da una persona oggettivamente irresponsabile dei propri atti. I familiari di una persona incapace di controllare le sue pulsioni potevano escluderli dai testamenti, dalla fruizione dei beni e, in casi estremi, essere legittimamente autorizzati a legarli, a rinchiuderli, e perfino ad allontanarli dalla famiglia abbandonandoli a loro stessi e a un tragico destino di ulteriore abbrutimento. F

Da leggere U Muriel Laharie, La folie au Moyen Age, Parigi, Le Léopard

d’Or, 1991 U Jacques Heers, Le feste dei folli, Napoli, Guida, 1990

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iconografia l’amor profano

Un catino pieno d’amore di Luca Pesante

La decorazione di un grande recipiente trecentesco in maiolica, rinvenuto ad Acquapendente (Viterbo), riporta la scena – in apparenza elementare – di un omaggio floreale offerto a una donna. Ma, a un esame attento degli elementi che compongono il quadro – e di cui fa parte anche una scritta che vi figura al centro –, emergono le testimonianze di un universo «sentimentale» e ideale complesso. Insieme a profondi richiami alle tradizioni letterarie dell’Alto Medioevo

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el 1995, durante uno scavo nel convento di S. Agostino di Acquapendente, cittadina sulla via Francigena nell’estremo lembo settentrionale della provincia di Viterbo, viene alla luce un nucleo di ceramiche in una fossa di scarico (un «butto»), riempita di materiali verosimilmente in uso nel convento stesso intorno alla metà del XIV secolo. Le peculiarità di uno degli oggetti rinvenuti, particolarmente insolito, offrono lo spunto per parlare delle rare rappresentazioni di scene d’amore profano sulla ceramica. Si tratta di un catino del diametro di 43 cm circa, la cui forma presenta una stretta tesa, breve parete quasi verticale separata mediante una sottile carenatura dalla vasca troncoconica. Due larghe anse a nastro sono applicate, contrapposte, al di sotto della tesa, alternate a due prese verticali. La superficie esterna è rivestita con una vetrina piombifera di colore marrone chiaro, mentre quella interna è coperta con smalto stannifero e decorata in bruno manganese e verde ramina. Sulla tesa si ripete un motivo a «X», eseguito con entrambi i colori so-

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vrapposti; all’interno, sulla fascia corrispondente alla parete, è tracciato in verde il motivo della treccia, molto ricorrente nei decori della maiolica arcaica.

L’uomo con la cuffia

La superficie interna della vasca, delimitata da due linee parallele in bruno, è decorata con una scena complessa, nella cui parte centrale figurano un uomo e una donna affrontati. L’uomo, dipinto con una veste lunga fino al ginocchio e una cuffia sul capo, è ritratto mentre con la mano sinistra porge alla donna un fascio di erbe e fiori. Alle sue spalle si trova un lungo serpente appoggiato sul tronco di un albero. Sulla destra è raffigurata la donna, con un abito lungo fino ai piedi, decorato in una metà con linee oblique in bruno nell’altra con motivi floreali circolari in bruno e verde. Con la mano destra essa stringe alcune foglie trilobate, che vengono beccate da un grande pavone raffigurato con una coda lunga e arrotondata, secondo la consueta iconografia medievale. Al centro della scena è tracciata in bruno la seguente iscrizione: «Tolle

Catino in maiolica arcaica, dal convento di S. Agostino ad Acquapendente, presso Viterbo. Metà del XIV sec. Acquapendente, Museo Torre Julia di Jacopo. Nella vasca sono raffigurati un uomo e una donna affrontati, un serpente e un pavone, simbolo dei loro sentimenti amorosi. L’oggetto è stato recuperato nel corso di scavi condotti dall’Archeoclub. gennaio

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iconografia l’amor profano Metafore d’amore

L’infido nemico della bellezza Il bestiario d’amore piú noto di tutto il Medioevo è quello composto da Richard de Fournival (1201-1259 circa). L’autore, letterato, nonché cancelliere del capitolo di Amiens, servendosi di similitudini tratte dagli animali reali o fantastici, intesse un fitto dialogo tra un uomo che chiede amore e la dama che lo respinge. La scena raffigurata sul catino da Acquapendente potrebbe appunto essere ispirata al testo allegorico dello scrittore francese, di cui riportiamo i brani relativi al serpente e al pavone.

Il serpente

«Il serpente, la cui natura è tale per cui quando vede un uomo nudo ha paura di lui e lo fugge piú in fretta che può; ma se lo vede vestito lo assale senza farne il minimo conto. Nella stessa maniera vi siete comportata voi con me, carissima amica. Perché‚ quando feci la vostra conoscenza vi trovai di belle maniere, solo con quel poco di riservatezza che è giusto avere, come se mi temeste un pochino non conoscendomi ancora; e quando vi accorgeste che vi amavo, diventaste nei miei confronti crudele quanto vi piacque, e mi assaliste con parole. La nuova conoscenza è paragonabile all’uomo nudo e l’amore confermato all’uomo vestito. Infatti, come l’uomo nasce nudo e poi si veste quando è diventato grande, cosí è nudo d’amore e scoperto appena fa la conoscenza di una donna, tanto che ha il coraggio di svelarle tutti i propri sentimenti. Ma dopo, quando ama, è cosí imbarazzato che non sa come venirne fuori e si dissimula completamente, tanto che non osa rivelare nulla dei suoi pensieri, ma teme continuamente di essere biasimato».

Ecco la trascrizione della frase che compare sul catino: «Tolle questa frasscha p(er) mio amore Voleti direto p(er) testo serpente» («Prendi questi fiori come pegno del mio amore. Volgiti di dietro per codesto serpente»).

Il pavone

«Ma chi non ha prudenza ne resta impoverito nella stessa misura in cui diventa brutto il pavone quando perde la coda. Infatti la coda del pavone simboleggia la prudenza, in quanto la coda, essendo posta di dietro, rappresenta ciò che deve avvenire, mentre il fatto che sia piena d’occhi significa che bisogna stare attenti a ciò che avverrà. Per questo dico che la coda del pavone simboleggia la prudenza, né si chiama prudenza altro se non il fatto di stare attenti a ciò che avverrà».

Il dialogo tra l’innamorato e la dama si svolge con un richiamo ai comportamenti animali 68

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questa frasscha p(er) mio amore Voleti direto p(er) testo serpente» («Prendi questi fiori come pegno del mio amore. Volgiti di dietro per codesto serpente»). Al di sotto delle figure centrali e alle spalle della donna sono dipinti piccoli mazzi di foglie lobate, campite con un sottile graticcio in bruno. La scena si colloca nella tipologia del «contrasto», ovvero del dialogo/ disputa tra l’amante e l’amata, sul modello della poesia Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo. L’uomo, caratterizzato dal serpente (perché è infido), porge fiori (frasscha) alla donna, associata alla figura del pavone (perché è bella), invitandola a prenderli come pegno di amore, con ovvia simbologia erotica. La donna respinge l’offerta, perché sa bene che l’innamorato non è sincero, che è un serpente, e lo invita a rivolgersi al serpente che è alle sue spalle. Sembra non trattarsi, dunque, di un ammonimento (per l’uomo) a guardarsi dall’insidia del serpente, cioè del peccato e del demonio, ma di un rifiuto del suo amore. In effetti la coda del pavone, lunga e arrotondata, è simbolo di prudenza – scrive Richard de Fournival nel suo Bestiario d’amore –, poiché si trova dietro l’animale, come le cose che devono ancora avvenire, «ed è brutto un pavone senza coda come terribile è un uomo privo della prudenza» (vedi box qui accanto). La rappresentazione delle figure dipinte sul catino appare come l’illustrazione di un testo allegorico, per l’appunto come il Bestiario citato, nel quale un serrato dialogo fra un innamorato che chiede amore e la dama che lo respinge si svolge tutto a colpi di richiami dei comportamenti ani-

mali. In scene d’amore profano simili è spesso dipinto un falcone imbeccato dalla donna (o dall’uomo), che riflette, secondo i consueti schemi simbolici, la figura dell’amante compiaciuto e sereno, come nel caso del gesto della donna dipinto nel catino, ma qui di un pavone si tratta, senza possibilità di equivoco.

Messaggi dipinti

In una splendida miniatura del Codice Manesse di Heidelberg (uno dei piú importanti testi di poesie d’amore), l’uomo, mentre è seduto a terra abbracciato e baciato dall’amata, ha un falcone appoggiato sulla mano sinistra (vedi l’immagine a p. 70). E ancora, il gesto del dono di fiori, cosí carico di simboli d’amore, è mol-

to ricorrente nell’arte medievale, in specie nelle illustrazioni che corredano codici di liriche d’amore: è il caso di una miniatura tratta da un’opera di Matteo di Parigi, del celebre affresco di Bassano del Grappa in cui è ritratto Federico II mentre porge una rosa a Isabella (vedi l’immagine a p. 71), o, infine, di un’altra miniatura, ma del Codex Buranus di Monaco, il codice da cui derivano i Carmina Burana.

L’iscrizione va pertanto suddivisa in due parti, la prima da attribuire all’uomo: «Tolle questa frasscha p(er) mio amore», la seconda alla donna: «Vol[l]eti di reto p(er) testo serpente», ovvero «volgiti di dietro per codesto serpente». La parola «Vol[l]eti» ha una iniziale che si direbbe maiuscola (o comunque una lettera marcata come iniziale: all’inizio di parola, ma soprattutto di frase, è frequente la «V» aguzza; nel corpo di parola o di frase è piú frequente la «u» tondeggiante) a introdurre non solo la nuova frase, ma la battuta di un nuovo personaggio. Sia la forma assimilata «vòllere» che il dimostrativo «testo» sono attestati nella Toscana meridionale (Arezzo, Siena) e in parte delle Marche e dell’Umbria (Perugia, Todi); piú in generale, essi rimandano al volgare diffuso nel tardo Medioevo in Italia centro-settentrionale. Nella classe ceramica definita come «maiolica arcaica», alla quale appartiene il catino in esame, è estremamente raro ritrovare iscrizioni complesse di questo tipo, nonostante all’interno delle botteghe ci fosse quasi sempre almeno una persona in grado di leggere e scrivere. Su di un frammento di boccale, proveniente da Orvieto, da riferire al XIV secolo, è tracciata in bruno l’iscrizione «mi fece dinus» (straordinario caso di autografia del vasaio stesso) e ancora, in un altro frammento, questa volta da Acquapendente, si legge il nome dello stesso «dinus», realizzato con ogni probabilità dal medesimo artigiano. Ma uno dei confronti piú interessanti è dato da un frammento di piatto viterbese della fine del XIV secolo, decorato in bruno e verde con i busti di un uomo e di una donna affrontati (vedi a centro pagina); dalla bocca della figura maschile si sviluppa un cartiA sinistra disegno della sezione del catino di Acquapendente. In alto frammento di piatto dipinto con un uomo e una donna affrontati, da Viterbo. Fine del XIV sec. Collezione privata.

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iconografia l’amor profano

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In alto l’imperatore Federico II e Isabella d’Inghilterra in una miniatura da un’edizione di Historia Major, di Matteo di Parigi. XIII sec. A sinistra una scena d’amore in una miniatura tratta dal Codice Manesse, raccolta di componimenti lirici e poetici, compilata a Zurigo all’inizio del XIV sec. e terminata nel 1340 circa. Heidelberg (Germania), Biblioteca dell’Università.

glio contenente il messaggio amoroso: «amor ti par la» rivolto alla donna. Nelle rappresentazioni di figure femminili, perlopiú donne coronate (estremamente rara è la raffigurazione di uomini) o figure di Vergine con Bambino, e abbigliate con lunghe vesti ricche di decorazioni che si ripetono secondo modelli ben definiti, quasi mai si riscontra la qualità della struttura iconografica e la finezza del tratto del catino di Acquapendente: elementi simili, ma realizzati in modo piú corsivo e sommario, ricorrono in specie tra i ritrovamenti orvietani, in cui lo sfondo in bianco sul quale vengono dipinte le diverse scene animate è sempre campito da un sottile graticcio in bruno manganese, mentre nel catino di Acquapendente il graticcio è riservato alla sola campitura di alcune foglie accessorie.

L’Eden perduto

Nella decorazione centrale della ceramica qui esaminata, la presenza dell’uomo e della donna unita a quella del serpente suggerisce un immediato riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva nel biblico paradiso terrestre. Ma, in realtà, esiste una

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tradizione letteraria che ancor piú si avvicina alla nostra scena. Nelle Storie dei profeti, raccolte nel XIII secolo da Muhammad Ibn ‘abd Allah Al-Kisa’I, è narrata la leggenda (presente in forme diverse anche nella cultura ebraica dell’Europa dell’Est) della caduta di Adamo ed Eva, in cui Iblis, il nome che nell’Islam indica Satana, si associa al serpente e al pavone per indurre la coppia a mangiare il frutto proibito. Alla fase in cui l’amore e la sua simbologia trovarono esaltazione nelle maioliche delle botteghe italiane, che, lasciata alle spalle la tradizione medievale, iniziarono a impiegare i nuovi codici rinascimentali, si possono ricondurre ancora due bacini inseriti nella cella campanaria del duomo di Narni. Nel primo, invetriato, torna l’iconografia del paradiso terrestre, con l’uomo e la donna ai lati dell’albero della vita; nell’altro, figura una coppia rappresentata in un intenso «colloquio amoroso» (uno dei molti esempi di oggetti che celebrano l’amore profano impiegati all’interno o su edifici religiosi). Si tratta, in questo caso, di un bacino con ogni probabilità prodotto in una bottega viterbese, come indica la decorazione in «zaffera a rilievo» posta sulla tesa, lungo la parete e attorno agli amanti: è l’amore che vive ormai del contatto fisico, la carezza dell’uomo sul volto dell’amata, un gesto di tenerezza cortese con l’offerta di un racemo floreale che apre le porte a diverse forme di rappresentazione e anticipa ceramiche nuziali con simbologia d’amore il cui uso si andò affermando nei secoli successivi. Ancora una volta, dunque, attraverso la ceramica riscopriamo alcuni caratteri del Medioevo che vanno ben oltre una cultura esclusivamente materiale. Il catino di Acquapendente può essere considerato come testimone di sentimenti o atteggiamenti che non hanno rappresentazioni documentarie, cioè non sempre entrano a far parte di una tradizione letteraria o artistica ma, potremmo dire «per caso», in modo forse accidentale, rimangono impressi sulla superficie di una ceramica, per sempre. F

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di Chiara Mercuri

Ora et labora

Come e quando nacquero le prime comunità monastiche? Quale fu il loro rapporto con il potere politico, vescovile e pontificio? Chi furono i frati mendicanti? Ecco come, sin dalle sue origini, la storia degli ordini religiosi incide profondamente sul tessuto culturale ed economico della società medievale… San Benedetto offre la sua anima a Dio Padre. Capolettera istoriato del miniatore lombardo conosciuto come Maestro delle Vitae Imperatorum. XV sec. Parigi, Musée Marmottan Monet.


Dossier

L’

ascesa al trono imperiale di Costantino coincise, agli inizi del IV secolo, con la libertà di culto e la fine della fase «martiriale» del cristianesimo. In quel periodo, sull’esempio di alcuni eremiti perseguitati nei decenni precedenti, si affermarono le prime comunità di monaci, che si stabilirono soprattutto in Egitto e in Asia Minore, ma, verso la fine del secolo, si diffusero anche in Occidente. I monaci (da mònos, «uno», che vive solo) erano semplici eremiti, i quali si ritiravano in luoghi appar-

tati per condurre vita di compunzione e meditazione, in perfetta continuità con la tradizione penitenziale ebraica. Il cristianesimo, tuttavia, accentuò la componente della mortificazione della carne nel segno del monito di San Paolo alla lotta contro gli istinti del corpo, ritenuto carcere per lo spirito. In un secondo tempo, monaci come Pacomio e Basilio, iniziarono a disciplinare i fenomeni di eremitismo spontaneo attraverso la fondazione di cenobi, strutture preposte alla vita in comune degli asceti. Anche in Occidente, alla fi-

gura dell’anacoreta (eremita, dal greco anachorein, ritirarsi, n.d.r.) itinerante andò sostituendosi quella del cenobita. Il primo a tentare l’esperienza del cenobio fu San Girolamo, il quale, dopo aver sperimentato per alcuni anni il ritiro solitario nel deserto della Calcide (in Siria), maturò la convinzione che la vita cenobitica, ovvero in comune, dovesse preferirsi a quella anacoretica, che comportava il ritiro solitario. In una delle sue epistole (XII, 7), riferendosi alla propria esperienza ascetica, constatava con amarezza: «Proprio io


che per paura dell’Inferno mi ero condannato a un tale carcere abitato solo da scorpioni e belve feroci, spesso mi sentivo circondato da giovani donne danzanti (…) cosí domavo la carne ribelle con settimane di digiuno».

Rinuncia e perfezione

A Roma egli radunò una comunità di penitenti, alla quale aderirono molte donne dell’aristocrazia. Osteggiato dal clero romano, dovette però lasciare la città e dare avvio, nel 387, a una fondazione monastica nella città di Betlemme.

Appare piú controverso, per molti aspetti, l’apporto di Sant’Agostino alla nascita del monachesimo: egli scrisse una Regola (giunta fino a noi in forma spuria) rivolta agli uomini e alle donne che intendessero condurre in comunità una vita di rinuncia e di perfezione. In età tardo antica nacquero cosí monasteri agostiniani maschili e femminili, ma, poiché la Regola agostiniana finí con l’essere inserita e tramandata all’interno di codici contenenti diversi scritti relativi alla tradizione monastica, essa smise di esercitare un’influenza

Monaci raffigurati sulla tomba in alabastro e marmo di Filippo l’Ardito, duca di Borgogna (1342-1404), di Jean de Marville, Claus Sluter e Claus de Werve, commissionata per la Certosa di Champmol, presso Digione. 1385-1410. Digione, Musée des Beaux-Arts.


Dossier diretta e tornò in uso solo a partire dall’XI secolo. Col tempo, gli anacoreti iniziarono quindi a riunirsi in cenobi, in comunità, sperimentando il tempo misto del ritiro solitario e della vita comunitaria. Nacquero cosí anche le prime fondazioni monastiche, poste in luoghi impervi e inaccessibili, nelle quali i monaci potevano continuare l’esperienza eremitica senza allontanarsi dalla comunità. Dal punto di vista sociale, tale fenomeno permise il recupero di interi gruppi o individui che, a diverso titolo, erano stati isolati dalla società. La scelta penitenziale, infatti, poteva essere dettata non soltanto da un semplice desiderio di perfezione, ma anche dalla volontà di riscattare eventuali colpe o misfatti. Di fronte alla diffusione dell’eremitismo e del monachesimo, il potere politico e quello vescovile ebbero una reazione allarmata, soprattutto a motivo del forte spirito d’indipendenza mostrato dai primi anacoreti, poco inclini a sottomettersi a un potere diverso da quello che loro riconoscevano unicamente alla divinità. Stesso discorso valse per le donne, le quali trovarono spesso nelle esperienze ascetiche una via di emancipazione rispetto all’unica strada loro concessa, cioè la vita coniugale. In alcuni momenti dell’età tardo-antica, la legislazione non mancò di segnalare una massiccia e – dal punto di vista sociale – preoccupante adesione di donne alla vita cenobitica.

L’intuizione di papa Gregorio

Frammentati in esperienze diversificate, senza rapporti tra le varie comunità, osteggiati dalle autorità diocesane, i monaci ebbero inizialmente vita difficile, fino a quando non furono reclutati dall’autorità pontificia. Gregorio Magno per primo intuí la grande opportunità offerta dal monachesimo, sia nella difficile opera di evangelizzazione dell’Europa del nord, dove le fondazioni dei monaci andarono a costituire una rete d’inquadramento e di controllo per la religione cristia-

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na, sia come fedeli alleati del potere pontificio a fronte del mancato riconoscimento da parte di molti vescovi della preminenza del primato di Roma. L’alleanza inaugurata da Gregorio Magno tra papato e Ordini

religiosi, costituí il modello su cui si strutturarono i rapporti con il potere pontificio lungo tutto l’arco del Medioevo e oltre. Se vogliamo risalire alle origini certe e compiute del monachesimo gennaio

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occidentale, dobbiamo partire da Benedetto da Norcia, il quale, tra il 530 e il 550, redasse per i suoi seguaci una regola di vita comune basata sulla preghiera e sul lavoro manuale. I pilastri su cui poggiava la Regola di Benedetto erano, oltre al lavoro e alla preghiera, la stretta obbedienza all’abate e l’obbligo per i monaci alla stabilitas loci, cioè la stabilità nel monastero d’ingresso. Il monaco poteva infatti abbandonare la sua primigenia comunità solo per dare vita a una nuova fondazione, nella quale sarebbero stati accolti uomini a loro volta decisi a risolvere la propria esistenza tra le mura di un’abbazia.

L’adesione alla Regola

Come abbiamo visto la nascita del monachesimo femminile, tradizionalmente attribuita a Santa Scolastica, sorella di Benedetto, aveva in

realtà origini piú lontane, anche se essa si uniformò a partire da Benedetto. La monocrazia della Regola benedettina per tutto l’arco del Medioevo si spiega con il fatto che, nel IX secolo, i vescovi francesi ne imposero l’adozione a tutte le congregazioni monastiche, proprio al fine di uniformarle. Da quel momento, in tutta Europa vennero via via abbandonate le altre regole monastiche, quali quella di San Colombano, abate di Bobbio e quella femminile di Cesario di Arles, entrambe influenzate dalla Regola di Sant’Agostino. Tale processo portò all’omologazione dell’esperienza monastica, che si irrigidí ulteriormente per il fatto che, a entrare in monastero, non erano piú uomini adulti che si convertivano a una vita di maggiore perfezione, ma gli oblati, fanciulli donati

In basso San Benedetto predica ai suoi discepoli presso Montecassino, miniatura di Jean Stavelot (1388-1449) dalla raccolta degli scritti di San Benedetto (1432-1437). XV sec. Chantilly, Musée Condé.

In alto Sant’Agostino riceve in sogno la Regola, affresco dalle Storie di Sant’Agostino di Guariento di Arpo (1310-1370). 1361-1365. Padova, chiesa degli Eremitani.

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Dossier dalle famiglie aristocratiche ed educati fin da piccoli alla vita monastica. Lo stesso fenomeno si verificò per le donne, anch’esse provenienti dall’alta aristocrazia e munite di una buona dote al momento del proprio ingresso.

Isole di cultura

Tale processo fece sí che la popolazione monastica divenisse sempre piú consapevole e gelosa della propria superiorità sociale e culturale. Per tutto l’Alto Medioevo i centri monastici, infatti, rappresentarono i soli centri di cultura in un panorama estremamente desolante, nel quale le stesse classi nobiliari non era-

no acculturate. I monasteri, in cui la salvaguardia e la copiatura dei testi antichi rappresentavano attività preminenti, finirono spesso col divenire, in quanto uniche isole di cultura, centri di educazione per i figli e le figlie dell’aristocrazia. Tale attività permetteva ai monaci di esercitare la propria influenza anche fuori della propria struttura. Anche le monache, infatti, sebbene costrette a una totale clausura rispetto ai loro omologhi maschi, mantenevano con le ex allieve (destinate a matrimoni prestigiosi) un rapporto di direzione spirituale che permetteva loro di esercitare un certo influsso sulla società esterna. Non di rado alleanze, matrimoni e spartizioni di beni, venivano decise

Papa Urbano II consacra, nel novembre del 1095, l’altare del monastero di Cluny, in cui fu priore prima di diventare papa. Miniatura di scuola francese dalla Cronaca dell’abbazia di Cluny. XII sec. Parigi, Bibliothéque nationale de France.

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all’interno del chiostro e imposte all’esterno attraverso la larga rete di alleanze riconducibili alla provenienza sociale della popolazione monastica. Tali monasteri, inoltre, a causa dell’accentramento delle doti recate al momento dell’ingresso in religione, costituivano vere e proprie potenze fondiarie, capaci di accrescere il prestigio delle famiglie aristocratiche di provenienza, che continuavano a mantenere con il monastero un legame privilegiato. In una società nella quale gli status symbol (che tanto abbondano nella società contemporanea) erano limitati a pochi beni di lusso e alla ricchezza terriera, potersi fregiare dell’intercessione di un potente monastero garantiva fama e consenso. L’intercessione poteva consumarsi sia attraverso l’intreccio di sodalizi e alleanze operate in favore delle famiglie d’origine, sia attraverso l’invocazione dell’intercessione «celeste», la preghiera pro anima

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«Quinque filiae», i cinque monasteri direttamente dipendenti da Cluny I tre monasteri che hanno adottato la regola di Cluny modificandola Altri monasteri importanti Zone di grande densità monastica cluniacense e cistercense Nel 1109 l’Ordine cluniacense comprende 1184 conventi

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L’ORDINE CLUNIACENSE

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Ely Ramsey Hildesheim Hohorst Malmesbury Abingdon Magdeburgo Canterbury Colonia Glastonbury Corvey Lewes Gand Hersfeld Paulinzell St.-Bertin Arras Stavelot Rouen Brevnov Fulda Echternach Lorsch Le Bec Mt. SaintReims Verdun Gorze St. Martin Michel Ratisbona Hirsau Moyen Parigi Melk Augusta Auxerre Moutier Reichenau Marmoutier Salisburgo Vézelay Fleury Loira San Gallo La Charité Einsiedeln St. Jean Souvigny CLUNY d’Angély Paray Limoges Fruttuaria Milano Danubio Sauxillanges Santiago Pavia de Compostela St. Gilles Moissac Ravenna Carrion St. Pons Ganagobie Sahagún Ona Tolosa Lérins Cardena Grasse S. Juan

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In alto la diffusione dell’Ordine cluniacense nei sec. X-XI.

Farfa Roma Subiaco

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introdotta per riscattare la vita ultraterrena dei defunti. Anche su tale punto può risultare difficile, per il lettore contemporaneo, valutare appieno l’importanza di tale funzione, che era tuttavia fondamentale.

La nascita di Cluny

Una delle piú celebri congregazioni benedettine sorte nel Medioevo, quella dei monaci cluniacensi, fu fondata con lo scopo precipuo di garantire un centro di preghiera in favore del suo potente fondatore e dei suoi congiunti. Il monastero di Cluny nacque, infatti, nel 910, per iniziativa del nobile Guglielmo, duca di Aquitania, il quale intendeva garantire gennaio

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suffragi per la propria anima. Nel documento fondativo dell’abbazia francese, egli stesso esplicita il suo intendimento: «sia costruito un monastero di regolari secondo la regola di San Benedetto (…) affinché in quel luogo un inviolabile rifugio di preghiera sia posto (…) costantemente suffragi, preghiere, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore, tanto per me quanto per tutti coloro di cui sopra si è fatta memoria (con riferimento ai congiunti)». Cluny rappresenta la prima vera trasformazione della vita monastica medievale. Prima di Cluny, le varie abbazie rimanevano autonome tra loro e, al massimo, si fondevano,

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Dossier mentre con Cluny si procedette alla realizzazione di una struttura centralizzata, retta da un’abbazia madre, dalla quale dipendevano tutte le altre. Anche il rapporto tra monaci si gerarchizzò, nel senso di conferire sempre piú potere al vertice formato dall’abate e dai priori. Poiché l’intenzione di Guglielmo era che i monaci non lavorassero, ma pregassero, il precetto della Regola benedettina «labora» venne via via abbandonato. Egli sostenne i monaci con le proprie finanze, dotando il monastero di cappelle, servi, prati, campi, vigne, boschi, corsi d’acqua, mulini e vie d’accesso affinché, liberi da ogni preoccupazione materiale, i monaci potessero dedicarsi alla sola attività oratoria. A Cluny l’importanza che San Benedetto attribuiva al lavoro manuale del monaco finí per essere drasticamente ridimensionata, finché essa non fu posta a carico solo di servi e coloni.

Esenzioni e privilegi

Per rafforzare ulteriormente l’autonomia dei monaci, Cluny venne dotata dell’immunità, un privilegio che le consentí di non essere piú soggetta alle autorità distrettuali, ovvero al potere pubblico. Poco dopo ottenne anche l’esenzione, che la sottrasse anche al controllo del vescovo locale, il quale poteva

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In alto monaci leggono un testo sacro, particolare di una miniatura di Paolo Soldini (1342-1386) dal Salterio di Santa Maria Novella. 1379. Firenze, Museo di San Marco.

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A sinistra scene dalla vita di St. Mayeul (906-994) e San Odilone (962-1049), abati dell’abbazia di Cluny, in seguito santificati dalla Chiesa, particolare di una miniatura da Le Miroir Historial di Vincenzo de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

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A destra un coro di frati, miniatura di scuola francese dal Salterio di Enrico VI. XV sec. Londra, British Library.

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il complesso monastico

Disegno ricostruttivo dell’abbazia benedettina di Cluny, in Borgogna (Francia), come doveva apparire intorno alla metà del XII sec. Il complesso fu fondato per volere di Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania, nel 910.

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•1. Terza chiesa abbaziale detta Cluny III •2. Seconda chiesa abbaziale detta Cluny II •3. Chiesa di S. Maria •4. Cimitero dei monaci •5. Cappella di Notre-dame-du-Cimetière •6. Infermeria di Pietro il Venerabile •7. Chiostro dell’infermeria •8. Chiostro •9. Edificio del priore •10. Chiostro dei professi •11. Refettorio dei monaci •12. Noviziato •13. Ospizio dell’abate Ugo (e scuderie) •14. Ospizio di Pietro il Venerabile •15. Muro di cinta dell’abate Ugo

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Dossier accedere al monastero solo previo invito dell’abate. La conquista di tali privilegi trasformò, da un punto di vista giuridico, l’abbazia di Cluny in un’isola sottoposta alla sola autorità pontificia. A partire da questo momento quasi tutte le fondazioni monastiche lottarono per ottenere simili esenzioni. Ciò pose il monachesimo in evidente attrito con il potere vescovile, che vide il territorio posto sotto la propria giurisdizione assumere un andamento a macchia di leopardo, a causa della presenza al suo interno di monasteri esenti.

«Incivilire la nobiltà»

Dal punto di vista giuridico, Cluny non differiva molto da una chiesa privata posta sotto la giurisdizione di un potente, anche se Guglielmo, al momento della fondazione, l’aveva posta sotto l’autorità del pontefice di Roma, il quale vi intravide uno strumento di affermazione del primato papale. Per tale ragione, in poco meno di mezzo secolo, i papi imposero il modello del monastero francese a tutte le fondazioni monastiche. Per oltre due secoli, i monasteri cluniacensi esercitarono una reale egemonia in tutto l’Occidente: intere

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famiglie dell’aristocrazia europea divennero monaci di Cluny; l’abbazia divenne un centro di elaborazione culturale di prima grandezza e costituí una scuola per politici, funzionari e tecnici dell’amministrazione. Lo storico Karl Bosl scrisse felicemente che «Cluny ebbe il compito di incivilire la rozza nobiltà germanica». La massiccia entrata a Cluny, infatti, portò all’estinzione di gran parte dell’alta aristocrazia germanica da cui era composta la società franca. Ciò fu dovuto solo in parte al richiamo esercitato dall’arte, dalla cultura, dalla riproduzione di codici manoscritti, tipica del monachesimo cluniacense. In molti casi la nuova feudalità fu attratta dai

privilegi accordati all’abbazia e dal fatto di potervi condurre una vita agiata lavorando poco o affatto. Molte nuove congregazioni benedettine nacquero nel corso dell’XI secolo, come segni di un’insofferenza diffusa verso un monachesimo giudicato ormai troppo ricco e potente, e di una Chiesa ritenuta troppo spesso concubinaria e simoniaca. Certosini, Camaldolesi, Vallombrosani, tentarono la riforma della vita monastica, nel segno di un ritorno alla vita eremitica delle origini. Essi auspicarono anche l’uscita dei monaci dal chiuso dei propri monasteri e un loro intervento diretto nel mondo.

Tra «bianchi» e «neri»

In alcune occasioni la reazione fu esplicitamente diretta contro il monachesimo cluniacense. Tale fu il caso dell’abbazia di Cîteaux, fondata nel 1099 da Roberto di Molesmes e portata in auge da Bernardo di Clairvaux (di Chiaravalle). I monaci di Cîteaux (in latino Cistercium), detti «Cistercensi», intendevano vivere in maniera «piú stretta e perfetta» la Regola benedettina. Se i Cluniacensi avevano abbandonato l’esempio dei padri del deserto, dimenticando l’ideale dell’heremum

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In alto il campanile ottagonale dell’Acqua Benedetta, nel braccio sud del transetto dell’abbazia di Cluny. In basso il chiostro dell’abbazia; in secondo piano il campanile visto dall’esterno.

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e del lavoro manuale, i Cistercensi intendevano ritornarvi, facendo del lavoro del monaco la piú alta forma di preghiera. La polemica tra monaci neri (Cluniacensi) e monaci bianchi (Cistercensi), può essere seguita attraverso le lettere di Bernardo di Chiaravalle, il quale espresse critiche feroci nei confronti della vita privilegiata dei monaci cluniacensi, lo sfarzo artistico e architettonico delle loro fondazioni, lo spreco di lamine d’oro usate per la confezione delle miniature dei loro codici. Se Cluny aveva rivendicato la superiorità di Maria su Marta (Luca 10,38-42), cioè del lavoro intellettuale su quello manuale, Cîteaux ora faceva il contrario. L’Ordine cistercense, grazie al suo campione d’eccezione, San Bernardo, finí per trionfare, imponendo il suo modello a scapito degli avversari cluniacensi. Ben presto, però, gli stessi monaci di Citeaux abbandonarono l’ideale di austerità in nome del quale avevano combattuto il lusso e la raffinatezza dei Cluniacensi e finirono per accumulare ricchezze immense e una cospicua

serie di privilegi. Come fu scritto da un chiosatore dell’epoca: «I Cistercensi sono diventati Cluniacensi!». Fortemente contestato a motivo dei falliti tentativi di riforma, del proprio potere e della propria ricchezza, nel Basso Medioevo il monachesimo finí col perdere la forza d’attrazione che aveva avuto nei secoli precedenti quando, seppur caratterizzato da sensibilità diverse, esso rappresentava l’unica via di perfezione cristiana.

I nuovi ordini

Molti furono i movimenti che – sempre sotto l’ombrello della Regola benedettina – dettero vita ad altre congregazioni, ma la principale novità di questa fase storica fu la nascita di nuovi ordini religiosi, dotati di regole e forme di vita originali. Nella seconda metà dell’XI secolo, il primo a svilupparsi fu l’Ordine dei Canonici Regolari. Si trattava di semplici sacerdoti, che conducevano vita in comune, seguendo una Regola (da cui la denominazione di Regolari). Fin dalle origini del cristianesimo, i sacerdoti (o presbiteri), oltre a garan-

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Dossier tonache, mantelli e scapolare

L’abito che faceva il monaco

L’identificazione degli appartenenti a un ordine religioso si rivela spesso difficile negli affreschi medievali a motivo delle differenze, a volte appena marginali, che caratterizzano le loro divise. Bisogna precisare, inoltre, che non è sempre facile operare una classificazione precisa degli abiti religiosi, in quanto questi subirono, in molti casi, variazioni significative nel corso dei secoli. Cercheremo di fornire nelle righe seguenti una semplificazione di massima relativa all’età medievale, fermo restando che il determinarsi di scissioni o riforme all’interno di uno stesso ordine, generò cambiamenti nell’abito non sempre registrati dalle fonti scritte e iconografiche. ●

I Benedettini e le Benedettine indossavano un

abito nero. Cluniacensi e Cistercensi, che, come abbiamo visto, erano costole dell’Ordine benedettino, venivano comunemente definiti rispettivamente monaci neri e monaci bianchi, a motivo del colore delle rispettive vesti. In realtà, sopra la tunica bianca dei Cistercensi, veniva usato uno scapolare nero con cintura di cuoio che, solo in parte, permetteva di dar loro l’epiteto di monaci bianchi. ● Gli Agostiniani indossavano una veste nera, corredata da scapolare e cocolla (ampio mantello con cappuccio) dello stesso colore. ● Per ciò che concerne gli ordini cavallereschi, i Templari indossavano abito e mantello bianchi, entrambi con croce cucita di colore rosso. ●

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Gli Ospedalieri erano invece caratterizzati da una

veste di colore rosso o nero con croce bianca, a cui si aggiungeva un mantello rigorosamente nero con croce in stoffa bianca. ● I Teutonici avevano veste bianca (o armatura) con mantello con croce nera (da cui anche il nome spesso usato di cavalieri dalla croce nera). ● I Domenicani, agli inizi, adottarono lo stesso abito in uso presso i canonici regolari (a cui li accomunava l’adozione della regola di sant’Agostino): abito talare, scapolare e cappa bianchi. Qualche anno piú tardi, quando il pontefice riconobbe la peculiarità dell’Ordine dei Predicatori, Domenico volle adottare un abito proprio: tonaca e scapolare bianchi, cintura di cuoio e mantello nero con cappuccio a punta. I Minori, seguendo l’esempio di Francesco, indossavano invece una tunica di colore bruno, con mantello e cappuccio dello stesso colore, e sandali senza calze. La peculiarità della veste francescana risiedeva tuttavia nella cintura formata da un semplice cordone. ● Per ciò che riguardava le donne, l’abito delle monache agostiniane era costituito da una tunica nera, stretta in vita da cintura dello stesso colore. Tuttavia, per le attività quotidiane, esse facevano uso di una semplice tunica bianca. Le Domenicane adottarono il medesimo abito dei confratelli, veste bianca e mantello nero. Anche le Clarisse si uniformarono al ramo maschile dell’Ordine, indossando tonaca e mantello in lana grezza di color bruno. Anch’esse stringevano la veste con un cordone e non usavano le calze, ma semplici zoccoli. Il velo era doppio, nero quello esterno e bianco quello interno.

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In alto monaci dalle vesti bianche con scapolare nero, particolare di una miniatura dal Libro d’Ore di Etienne Chevalier, illustrato da Jean Fouquet (1420-1477/1481). 1452-1460. Chantilly, Musée Condé. Nella pagina accanto, in senso orario due monaci benedettini piegano una pezza di lino. Lettera «M» istoriata da un’edizione di Moralia in Iob, da Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale. Treviso, Seminario Vescovile, Sala del Capitolo dei Domenicani. Particolare dell’affresco di Tommaso da Modena raffigurante alcuni personaggi dell’Ordine domenicano. 1352. Due monache, particolare dal Dittico della Crocifissione del pittore fiorentino noto come Maestro di San Jacopo a Mucciana. 1399. Roma, Museo di Palazzo Venezia. Di norma, le donne adottarono lo stesso abito dei confratelli.

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tire la celebrazione delle funzioni religiose, avevano il compito di dedicarsi alla cura animarum (cura spirituale dei fedeli) e di coadiuvare le attività del vescovo. Quando, intorno al X secolo, nacquero le parrocchie, essi furono facilitati nell’individuazione del gregge di loro competenza. Per svolgere il proprio mandato di pastori non avevano bisogno di condurre vita comune; tuttavia, sul modello dei monaci, vollero in alcuni casi dare avvio a comunità che si stanziavano nelle «canoniche», le abitazioni adiacenti alle chiese nelle quali i sacerdoti vivevano, appunto, conformandosi a un «canone», a una regola. A differenza dei monaci, le domus canonicae non nacquero quindi in luoghi appartati, ma nelle città, a ridosso delle cattedrali, delle parrocchie, delle chiese poste lungo le vie di comunicazione. Papa Urbano II appoggiò con determinazione questo nuovo movimento religioso, in quanto, rispetto al monachesimo, aveva il vantaggio di non porsi in contrasto con i vescovi. Il movimento canonicale, nell’ambito del quale assunse particolare rilievo quello dei Premon-

stratensi (i canonici di Prémontré), entrò però in crisi nel corso del XII secolo e la sua eredità fu raccolta dalla nascita degli Ordini Mendicanti.

Ai margini della società

Anche i mendicanti intendevano, al contrario dei monaci, rimanere inseriti nella società urbana, la quale molto piú di quella rurale, produceva derelitti e diseredati. Con il rinascere dei centri urbani, alla fine del XII secolo, una massa di contadini si riversò nelle città in cerca di libertà dagli antichi vincoli di vassallaggio e di servitú. Tuttavia, essi non riuscivano sempre a trovare collocazione nella società comunale e finivano coll’essere respinti ai margini delle mura urbane dove si stanziavano, dando origine a vere e proprie «favelas». Il viaggio di ritorno nelle zone rurali di provenienza non si rivelava possibile per le stesse complesse ragioni che, ancora oggi, di fatto impediscono il rientro in zone arretrate di chi abbia tentato la fortuna altrove: perdita del lavoro, allentamento dei legami familiari, estrema indigenza

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Dossier delle famiglie d’origine, non inclini a riaccogliere bocche da sfamare, sentimento di vergogna per la fallita ascesa sociale.

I fratres di Francesco

Fu questo fenomeno, soprattutto, a colpire Francesco d’Assisi, e a questa categoria sociale ignorata dagli stessi sacerdoti, che ne avevano abbandonato la cura spirituale, con il suo movimento intese portare assistenza. In maniera isolata, iniziò a frequentare i loro precari insediamenti abitativi a ridosso delle mura di Assisi, rivolgendosi con particolare assiduità ai lebbrosi. Il gruppo di amici con cui Francesco era cresciuto, tutti provenienti dalla ricca borghesia cittadina, dopo una prima reazione di rifiuto, finí per raggiungerlo presso la faA destra due monaci tagliano la legna, particolare di un capolettera istoriato da un’edizione di Moralia in Iob, commento al libro di Giobbe in 35 libri, di Gregorio I Magno, proveniente dall’abbazia di Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale.

tiscente chiesa di S. Damiano dove, abbandonata la dimora paterna, egli viveva in solitudine all’interno di una grotta. Attorno a un semplice proposito di vita comune in preghiera e povertà, essi ricostituirono la loro iniziale comitiva giovanile, un tempo tenuta insieme da vincoli di amicizia. La primitiva societas francescana era dunque costituita da laici. Francesco cercò, anche dopo l’approvazione

della sua Regola, di privilegiare tale condizione. In generale, seppure prima o dopo l’entrata in religione era sempre possibile assumere lo stato sacerdotale e molti furono i monaci o i frati sacerdoti, gli ordini religiosi tendevano a privilegiare lo stato laicale (non sacerdotale) dei religiosi in quanto ritenuto piú consono a realizzare la perfetta umiltà e la totale obbedienza all’abate (ordini monastici) o al ministro generale dell’ordine (ordini mendicanti). Poiché Francesco era solito chiamare i suoi compagni «fratres», fratelli, e le sue compagne «sorores», sorelle, col tempo, i termini «frati» (fratres, appunto) e «suore» (sorores) designarono coloro i quali erano entrati in un ordine religioso non monastico.

Di città in città

Nel Basso Medioevo gli ordini non monastici conobbero una proliferazione eccezionale, spiegabile, come abbiamo accennato, con l’enorme sviluppo dei centri urbani. L’attività di assistenza e predicazione ai piú poveri necessitava di una regola che permettesse ai frati Minori (anche cosí erano chiamati i frati di Francesco) di potersi spostare, superando il vincolo della stabilitas loci posto dalla Regola di San Benedetto. I frati, a dif-


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L’ORDINE CISTERCENSE PPrincipali i i li monasterii dipendenti di d da: Clairvaux (80 femminili) Cîteaux (28 femminili) Morimond (28 femminili) Pontigny (16 femminili) La Ferté (5 femminili) Zona di grande densità monastica cluniacense e cistercense L’Ordine cistercense comprende 525 abbazie alla fine del XII sec. e 694 abbazie alla fine del XIII sec.

Nella pagina accanto veduta dell’abbazia di Cîteaux, situata a sud di Digione, in Borgogna, fondata nel 1098 dal monaco benedettino Roberto da Molesme. L’ordine cistercense (dal nome dell’abbazia) conobbe un notevole sviluppo sotto la guida di San Bernardo di Chiaravalle e alla fine del XIII sec., le nuove comunità nate dalla casa madre erano circa 700.

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ferenza dei monaci, vivevano nelle città, si spostavano, predicavano alle folle, e, soprattutto, non traevano il proprio sostentamento dai proventi resi dai possessi fondiari, ma dalle sole elemosine, mendicate per le vie cittadine. Per tale ragione i Francescani furono anche chiamati, come i loro colleghi Domenicani dediti alla stessa pratica, Frati Mendicanti. Anche la denominazione delle loro abitazioni mutò rispetto a quelle dei monaci che abitavano nei monasteri. I mendicanti, i frati, abitavano nei conventi, dal termine latino conventum, «adunanza, convegno», al contrario di monastero, che invece derivava dal verbo greco «monàzein», vivere da solo. In seguito ciò provocò

S. Spirito

una certa confusione terminologica, e si parlò di monaci francescani o di frati cistercensi, ma i termini non andrebbero confusi, in quanto rispecchiano, da un punto di vista storico e semantico, due vocazioni e due tipologie di ordine religioso in netta antitesi.

Contro gli eretici

Gli ordini monastici, come abbiamo visto, nacquero per favorire la solitudine e l’ascesi del monaco, mentre gli ordini mendicanti ebbero origine dal bisogno di socializzare una missione rivolta all’esterno e pienamente calata in quel «mondo» che i monaci intendevano fuggire. Dal punto di vista della Chiesa

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Dossier monaci e crociate

Il successo dei Cavalieri di Dio Il XII secolo si aprí con la nascita degli ordini monastico-cavallereschi, che rappresentarono una novità assoluta nel panorama religioso medievale. La loro comparsa va posta in stretta relazione con il fenomeno delle crociate. Sotto una regola probabilmente ispirata dallo stesso Bernardo di Clairvaux, nel 1119 nacque l’ordine dei Templari, i cui adepti avevano licenza all’esercizio delle armi, pur mantenendo il proprio statuto di monaci. Il fondatore dell’ordine, il feudatario Ugo di Payns, ne stabilí la sede a Gerusalemme sulla spianata del Tempio (da cui il nome), dove erano già nate congregazioni di laici in armi preposti alla difesa dei pellegrini cristiani, approvate dalla Chiesa. Nel caso dei Templari, però, non si sarebbe trattato di semplici laici, ma di religiosi a tutti gli effetti, monaci che avevano pronunciato il voto di castità e povertà, autorizzati alla pratica della guerra e dell’omicidio, da sempre dichiarati incompatibili con la vita religiosa. Nonostante le resistenze iniziali da parte della Chiesa, l’Ordine ottenne l’approvazione nel 1128, probabilmente anche grazie all’aiuto e alla mediazione di Bernardo di Clairvaux, il quale, nel 1135, arrivò a mettere nero su bianco le lodi in onore del nuovo ordine («De laude novae militiae templi»). L’Ordine conobbe una straordinaria diffusione, ponendo le sue fondazioni in tutti i principali luoghi di pellegrinaggio della cristianità, lungo gli assi viari, i porti e i rifugi per i pellegrini. Il successo fu dovuto anche all’efficacia del servizio reso dai Templari in campo economico. Essi rivoluzionarono il sistema finanziario medievale, inventando la lettera di cambio, una sorta di assegno circolare che permetteva al pellegrino di depositare il proprio denaro al momento della partenza nella sede templare del proprio distretto, per poi recuperarlo lungo il viaggio o al momento dell’arrivo in Terra Santa presso gli altri istituti di credito dei cavalieri del Tempio. Grazie a tale invenzione, il pellegrino veniva enormemente facilitato, in quanto poteva viaggiare senza essere gravato da somme di denaro che lo rendevano facile preda di briganti e malintenzionati. Le innovative attività finanziarie offerte dai Templari permisero all’Ordine di accumulare un’ingente ricchezza che, come è noto, fu all’origine del loro scioglimento. Il re di Francia Filippo IV il Bello fece loro intentare un pretestuoso processo per eresia, convincendo papa Clemente V a sciogliere l’Ordine, permettendogli d’incamerare i beni templari posti sul suolo francese. Sempre a Gerusalemme, e sempre agli inizi del XII secolo, nacque un altro ordine cavalleresco, quello degli Ospedalieri, cosí chiamati a motivo del loro quartier generale, l’ospedale di San Giovanni di Gerusalemme.

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Anche gli Ospedalieri iniziarono, sul modello dei Templari, a servire da scorta armata per i pellegrini. L’Ordine manteneva però una divisione tra coloro che prestavano assistenza agli ammalati e ai pellegrini e coloro che indossavano le armi. Ciò gli permise di sollevare meno polemiche circa la contraddittorietà del proprio statuto. Dopo la caduta del regno di Gerusalemme, instaurato a seguito della prima crociata, gli Ospedalieri cacciati dai musulmani dalla Terra Santa dovettero ripiegare in Anatolia e Tripolitania, dove si adoperarono con successo alla difesa delle isole di Rodi e di Malta, da cui il nome con il quale furono in seguito designati (Cavalieri di Rodi, o Cavalieri di Malta). A essi furono trasferiti parte dei beni confiscati ai Templari e l’Ordine continuò a essere attivo, con vicende alterne, anche in età moderna e contemporanea. Sempre nel periodo delle crociate, nacque anche l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, i quali si dedicavano all’accoglienza e all’assistenza dei pellegrini tedeschi giunti in Terra Santa al seguito degli imperatori germanici presso la loro sede di San Giovanni d’Acri. Il nuovo Ordine monasticocavalleresco, approvato sotto la Regola di Sant’Agostino nel 1199 da Innocenzo III, fu caratterizzato da una forte connotazione nazionale, che lo portò, quando la situazione in Oriente precipitò, a stanziarsi nei territori del futuro ducato di Prussia. I Teutonici arrivarono seguendo l’invito dei vescovi e dei duchi locali, che intendevano usare la loro potenza militare contro le incursioni delle popolazioni pagane provenienti dall’est Europa. Parteciparono a diverse operazioni belliche, tra cui la conquista di quello che diventerà il loro feudo, la regione prussiana, in parte strappata alle popolazioni lituane, che essi vinsero e sottomisero. Quando erano ormai giunti al culmine della loro potenza, iniziò il loro declino a seguito della cocente sconfitta subita a Tannenberg, nel luglio del 1410, a opera del re polacco Jagellone Stanislao II di Polonia (vedi «Medioevo» n. 174, luglio 2011).

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Un drappello di Templari in battaglia. L’Ordine templare nacque nel 1119 e ottenne il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa in occasione del concilio tenuto a Troyes nel 1128. L’autorizzazione a fregiarsi della croce rossa venne concessa da papa Eugenio III, nel 1147. Il simbolo era cucito su veste bianca per i cavalieri, su veste nera per gli altri.

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cattolica, la vera piaga che affliggeva il mondo cittadino era quella dell’eresia. Il papato aveva intravisto nel movimento francescano la via ortodossa per accogliere quanti sentivano l’esigenza di una riforma della Chiesa. Se il proposito di vita di Francesco fu infine approvato, tale scelta fu compiuta anche per sottrarre adepti ai vari movimenti ereticali che si erano sviluppati un po’ ovunque in Europa, in nome della critica alla ricchezza e alla secolarizzazione della Chiesa. Molti di quelli che furono perseguitati come eretici, si presentavano nelle piazze cittadine vestiti in abiti umili e di-

sadorni. Avvicinavano gli indigenti parlando loro con semplicità e insistendo sul fatto che la vera Chiesa dovesse essere povera come erano stati poveri Cristo e gli Apostoli. Da questo punto di vista, il movimento francescano si presentava con indubbi caratteri di affinità rispetto ai movimenti ereticali. Con essi, però, non condivideva le critiche nei confronti delle gerarchie cattoliche, a motivo della convinzione di Francesco che ognuno dovesse rispondere all’annuncio evangelico in assoluta libertà e secondo il proprio personale discernimento. Se il (segue a p. 92)

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Dossier

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Quand’era ancora in vita Francesco, l’Ordine da lui fondato conobbe una spaccatura interna tra chi intendeva rimanere fedele alla stretta povertà delle origini e chi, invece, intendeva conferire all’Ordine una svolta istituzionale e colta. Tale scissione si radicalizzò nella seconda metà del XIII secolo, quando ormai l’Ordine si presentava di fatto diviso tra Conventuali (ai quali era affidata la direzione) e Spirituali. Questi ultimi, sospettati di eresia a causa del loro rigorismo, si erano appartati in conventi posti in luoghi impervi e inaccessibili. Nel 1294 essi riuscirono a ottenere da Celestino V il permesso alla scissione effettiva dall’Ordine. Tuttavia, nel 1317, il movimento spirituale (detto anche «dei fraticelli») fu scomunicato da Giovanni XXII, che ordinò anche la carcerazione e il rogo per molti dei suoi componenti. Dalle ceneri dello spiritualismo nacque però il movimento osservante, che, pur rimanendo nell’ortodossia, propugnava il ritorno a un’osservanza stretta della Regola di San Francesco (da cui il nome di Osservanti). Anche tale movimento fu inizialmente sospettato di eresia, poiché gli Osservanti occuparono quegli stessi conventi appartati da cui erano stati cacciati gli Spirituali al momento della condanna. In seguito, però, l’Osservanza, da componente minoritaria, si trasformò in ala maggioritaria dell’Ordine. Cosí, nel corso del Quattrocento, essa conquistò de facto la leadership dell’Ordine, sancita de iure nel 1517 da Leone X, il quale riconobbe la divisione in frati Minori Osservanti e frati Minori Conventuali, assegnando però il titolo di Ministro generale e il sigillo dell’Ordine ai primi. Le scissioni non erano tuttavia terminate, poiché, nel 1520, nacque un terzo ramo della famiglia francescana, quello dei Cappuccini (cosí denominati dal loro cappuccio), che propugnavano un nuovo e piú rigoroso ritorno alle origini francescane, tradito dalla svolta istituzionale dell’Osservanza. A motivo della loro precipua vocazione eremitica, adottarono anche la pratica di portare la barba lunga, da sempre attributo dell’eremita. La congregazione dei Cappuccini, denominata dei frati Minori Eremiti, fu approvata nel 1528 da Clemente VII come scissione dei Minori Conventuali.

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Le scissioni dell’Ordine

I principali movimenti eretici e Ordini Mendicanti diffusi in Europa tra l’XI e il XIV sec. In basso frati appartenenti all’Ordine dei Mendicanti presentano una richiesta al Londonderry papa, miniatura diDa scuola sinistra: ancora due dettagli degli italiana dal Decretum affreschi (1491) di Giovanni Canavesio Gratiani. XIV sec.inParigi cui ,sono raffigurati, sullo sfondo del Dublino Limerick Bibliothèque de la pentimento Sorbonne. di Giuda e di Gesú davanti Cork a Caifa, ebrei Wexford in abiti orientali. La Brigue (Provenza), Notre-Dame des Fontaines.

Rennes Nantes

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Francescani

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Santiago de Compostela

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Limonges Bordeaux Santander León

Porto

Valladolid Palencia

Tolosa

Salamanca

Coimbra Lisbona

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Batalha Évora

Saragozza

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Trujillo

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Cuenca SPAGNA 1232

Tavira

Siviglia

Huesca

Córdoba

Jerez de la Frontera

Valencia

Jaén Granada Málaga Almería

Murcia

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LE ERESIE IN EUROPA E I TENTATIVI Zone di origine dei vari dissensi religiosi Aree di diffusione dell’eresia valdese Aree di diffusione dell’eresia catara/albigese III e IV Concilio Lateranense (1179 e 1215) Istituzione del tribunale dell’Inquisizione Crociata contro gli Albigesi (1208-1213)

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Turku

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Lancaster York Tanchelmo (inizi XII sec.)

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Ipswich Oxford Londra Bruges Lollardi Lilla dal 1380 Amiens

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Parigi

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FRANCIA 1235 Digione

Catari/Albigesi (XIII sec.) ClermontFerrand Valdesi (1170) Cahors Allb A bi bi Albi

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Arnaldo Benevento da Brescia Napoli (1150 circa) Matera

DI REPRESSIONE Distribuzione dei monasteri degli Ordini mendicanti

Gioacchino da Fiore (fine XII sec.)

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Bogomili (X-XIV sec.)

Ragusa Scutari

Brindisi Otranto Corfù

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Palermo Agrigento

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Ascoli Piceno ITALIA XIII sec. L’Aquila

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Firenze

Genova

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Zurigo Coira Losanna Patarini Bolzano (XI sec.) Vercelli

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Siracusa

Località con presenza di conventi francescani Località con presenza di conventi domenicani Località con presenza di conventi di entrambi gli ordini

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domenicani

Concessioni alla Regola L’Ordine dei Domenicani conobbe un primo riconoscimento nel 1215, proprio in concomitanza con l’apertura del Concilio Lateranense IV, nel corso del quale Innocenzo III proibí la creazione di nuovi ordini religiosi per porre un freno all’incredibile proliferare di congregazioni, movimenti, scissioni, riforme che, negli ultimi due secoli, avevano caratterizzato il panorama degli ordini religiosi, complicandolo notevolmente. Nel tentativo di dare un assetto affidabile a questi movimenti ed evitare che alcuni di questi sfuggissero al controllo delle autorità centrali, Innocenzo si impegnò a limitare, se non a far cessare, tale proliferazione. Per meglio procedere all’omologazione dei nuovi ordini, pose la Regola di Sant’Agostino come riferimento per le nuove fondazioni. Tuttavia, poiché tale regola si mostrava troppo generica per disciplinare la vita religiosa, a essa furono aggiunte, caso per caso, alcune costituzioni che completavano il quadro normativo di riferimento. Anche a Domenico si negò il riconoscimento di una regola propria e s’impose la Regola di Sant’Agostino. Ciò implicava la rinuncia a due aspetti che stavano particolarmente a cuore a Domenico: la povertà assoluta e il rifiuto della carica di abate. Solo nel 1217 Onorio III accolse tutte le novità proposte dal frate castigliano, concedendogli anche la licenza di denominarsi Ordo Predicatorum, Ordine dei Predicatori, a indicare la missione a cui il fondatore teneva maggiormente. Fino ad allora non era mai nato un movimento che avesse come scopo precipuo quello della predicazione, in quanto essa era tradizionalmente affidata al clero (ai sacerdoti) e ai vescovi. Domenico di Guzman aveva tuttavia constatato che i sacerdoti non avevano una formazione culturale adeguata e che proprio per tale ragione, finivano spesso per trascurare tale compito. Del resto egli stesso giudicava dannoso dedicarsi alla predicazione con una preparazione culturale insufficiente. Cosí Domenico convinse il pontefice non solo ad affidargli il mandato alla predicazione, ma a permettere ai suoi seguaci di trascorrere un congruo periodo di alti studi presso le facoltà di teologia delle maggiori università europee.

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movimento francescano si presentava come una valida alternativa rispetto ai movimenti ereticali, esso non nacque però con la vocazione di combatterli; anche in questo caso, per un vincolo posto ai suoi dallo stesso Francesco, secondo il quale i frati inviati ad annunciare il Vangelo non dovevano «fare né lite, né questione con alcuno».

I predicatori di Domenico

A contrastare gli eretici si dedicò invece con zelo l’ordine fondato in quegli stessi anni dal castigliano Domenico di Guzman. Il suo primo biografo riporta che egli rimproverò ai Cistercensi inviati a combattere l’eresia nel sud della Francia di avere paramenti e cavalcature sfarzose, che avevano come unico effetto di valorizzare agli occhi delle popolazioni locali l’austerità dei predicatori catari. Incaricati da papa Innocenzo III di prendere il posto dei Cistercensi, Domenico e i suoi seguaci tornarono nel sud della Francia, predicando in abiti da penitenti e affidandosi per le proprie necessità alle sole elemosine. Non bisogna sottovalutare l’enorme novità della pratica della mendicità introdotta dagli ordini mendicanti. Una pratica da sempre gennaio

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Treviso, Seminario Vescovile (ex convento di S. Nicolò), Sala del Capitolo dei Domenicani. Particolari dell’affresco di Tommaso da Modena raffigurante personaggi dell’Ordine domenicano. 1352.

ritenuta indegna dai chierici, i quali, per statuto, appartenevano alla classe dei signori e si mostravano estremamente gelosi dei propri privilegi. Si può dire che la credibilità dei Francescani e dei Domenicani si costruí, invece, sul fatto che essi condividevano con i ceti popolari, a cui in prevalenza si rivolgevano le loro prediche, una condizione di assoluta povertà e precarietà. I molti movimenti monastici riformatori (come quello sopradescritto dei Cistercensi) erano falliti proprio a causa dell’accumulo di doti e di donazioni, che finivano col trasformare ogni nuova fondazione in un centro di potere e di privilegio. Il divieto radicale al possesso di beni introdotto da Francescani e Domenicani, e l’obbligo per il sostentamento alla sola mendicità, fu il fattore determinante che permise loro di essere percepiti come uomini puri, meritevoli di gareggiare in perfezione e penitenza con quei Catari e quei Valdesi che da sempre si erano presentati alle folle nella loro disarmante povertà. Anche i rami femminili degli ordini mendicanti nacquero dalla volontà di riformare le esperienze precedenti. Nel caso dei Francescani, la nascita di un

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ordine femminile fu determinata dalla ferma volontà di Chiara d’Assisi, personaggio di primo piano del movimento francescano, di non vedere ricondotta la propria esperienza e quella delle consorelle nel solco del monachesimo benedettino tradizionale.

Obbligo di clausura

Per i Domenicani, invece, l’iniziativa di creare un ordine femminile deve essere attribuita alla volontà del Fondatore di ricondurre le molte comunità femminili aderenti all’eresia catara nel seno della Chiesa cattolica. Catari e Valdesi avevano permesso alle donne, come mai prima di allora era avvenuto, di vivere la scelta religiosa senza il vincolo della clausura, dedicandosi alla predicazione e presenziando all’eucarestia. Per Domenico, quindi, fu particolarmente difficile convertire tali donne a una vita di perfezione, da consumarsi nel chiuso dei conventi. L’imposizione della clausura ai rami femminili degli ordini mendicanti rappresentò un’evidente contraddizione rispetto al proposito di vita dei frati, i quali, superando il vincolo monastico alla stabilità, ambivano a entrare in stretto con-

Da leggere U Alain Demurger, I cavalieri di Cristo,

gli ordini religioso-militari del Medioevo (XI-XV), Garzanti, Milano 2004 U André Vauchez, Santi, profeti e visionari: il soprannaturale nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 2000 U André Vauchez, Ordini mendicanti e società italiana. XIII-XV secolo, Il Saggiatore, Milano 1990 U Marcel Pacaut, Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989 U Herbert Grundmann, I movimenti religiosi nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1984

tatto con la società cittadina. La delusione delle donne che avevano con entusiasmo aderito ai nuovi movimenti, di non poter condividere la via dell’apostolato e della cura dei bisognosi fianco a fianco con i loro colleghi maschi, fu in parte mitigata dall’atteggiamento di molti pontefici e ministri generali, i quali permisero, nei fatti, un certo coinvolgimento delle donne nelle attività caritative e assistenziali rivolte verso il mondo cittadino. V

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luoghi mistrà

La capitale perduta di Marco Di Branco

Un tempo centro tra i piú importanti dell’impero bizantino, ai primi dell’Ottocento Mistrà divenne una «città fantasma», vittima della sua errata identificazione con la vicina Sparta. Risolto l’equivoco, le affascinanti rovine ai piedi del Taigeto hanno recuperato la loro memoria, offrendosi come meta privilegiata del turismo culturale in Grecia

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er molti anni restò deserta la montuosa vallata che si stende al nord di Sparta, col Taigeto alle spalle, dove, come un allegro ruscello scorre l’Eurota e viene in seguito, attraverso i canneti della nostra pianura, a nutrire i vostri cigni. Ma ora laggiú, nella valle fra i monti, ha preso stanza una razza avventuriera, uscita dalla notte cimmeria; sorse colà un borgo fortificato, inaccessibile, da dove quella razza domina a suo piacimento, la terra e gli abitanti (…). Il suo castello! Dovreste vederlo coi vostri occhi! È tutt’altra cosa da quelle pesanti muraglie che i vostri padri accumularono, ciclopiche come i Ciclopi, pietra grezza sopra pietra grezza precipitando. Là, invece, laggiú, tutto è a filo e a livello, regolare. Guardatelo da fuori: si lancia verso il cielo cosí diritto, cosí esatto nei giunti, liscio come l’acciaio. Arrampicarsi lassú… Anche il pensiero ne scivola. E, dentro, spazi ampi di grandi cortili, cinti intorno da costruzioni di ogni genere e uso. Là si vedono colonne, colonnette, archi, archetti, altane, gallerie che guardano dentro e fuori, e stemmi».

La città dei Despoti

Questi versi del secondo Faust di Goethe descrivono con straordinaria precisione il luogo affascinante in cui ancora oggi, 6 km a nord-ovest della moderna Sparta, sorgono le imponenti rovine di quella che fu la capitale del despotato di Morea, una delle città piú importanti dell’impero bizantino: Mistrà. Guidato dal suo infallibile istinto, il poeta attribuí a questo sito, da lui noto solo grazie alle opere storiche

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La cittĂ alta di MistrĂ , antica capitale del despotato di Morea, nel Peloponneso, in Grecia. Tra le rovine del Palazzo dei Despoti, costruito tra il XIII e il XV sec., si erge la chiesa metropolitana di S. Demetrio, realizzata tra il 1304 e il 1312.

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luoghi mistrà i crociati in grecia

Il Principato di Acaia e i Villehardouin Nel 1204 i crociati, guidati dal doge veneziano Enrico Dandolo e dal marchese Bonifacio di Monferrato, invece di attaccare l’Egitto come voleva il progetto originario della IV crociata, si volsero verso Costantinopoli, che in breve tempo fu conquistata e messa al sacco. A tali eventi, seguirono la deposizione dell’imperatore bizantino, che si recò in esilio a Nicea, e la creazione dell’impero latino di Costantinopoli. Come primo imperatore fu incoronato Baldovino IX di Fiandra, e non, come molti si aspettavano, Bonifacio, il quale si impadroní allora di Tessalonica, la seconda città dell’impero bizantino, fondandovi un regno solo formalmente dipendente dal trono costantinopolitano (fine del 1204).

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Nel 1205, il marchese di Monferrato incaricò Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin di occupare il Peloponneso, la cui conquista fu completata in circa un cinquantennio. Guglielmo di Champlitte assunse allora il titolo di «principe d’Acaia». Alla sua morte, nel 1209, gli succedette Goffredo di Villehardouin, rampollo di una nobile famiglia originaria dell’attuale dipartimento dell’Aube e nipote dell’omonimo e celeberrimo cronista delle crociate. Goffredo I morí intorno al 1218 e lasciò in eredità il principato al figlio primogenito, Goffredo II. A quest’ultimo subentrò, nel 1246, il fratello Guglielmo II, al quale si deve appunto la costruzione della fortezza franca di Mistrà.

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medievali e moderne e ai racconti e alle litografie dei viaggiatori dell’inizio del XIX secolo, un preciso significato simbolico: a Mistrà, infatti, la bellezza classica incarnata da Elena si unisce al romantico e cavalleresco Faust per concepire Euforione, personificazione dell’ideale di libertà e dello slancio verso l’infinito. Agli occhi di Goethe, la capitale del Despotato bizantino diviene dunque il punto di incontro ideale fra lo splendore della Grecia antica e il corrusco Medioevo, ribollente di passioni della tradizione romantica. In ogni caso, al poeta di Weimar era già chiaro un elemento fondamentale: Mistrà non andava identificata con Sparta.

L’equivoco «Sparta»

In effetti, a partire dal XV secolo, si era diffusa tra gli eruditi l’idea che la città antica e il centro bizantino fossero la stessa cosa. All’origine di tale confusione v’è probabilmente un epigramma di Ciriaco D’Ancona (che visitò Mistrà verso il 1447 e ne diede un’accurata descrizione), nel quale il celebre viaggiatore e antiquario si duole del fatto che la gloriosa Sparta di Licurgo si fosse trasformata nella squallida e decadente capitale del despota bizantino. Ma il vero responsabile dell’equivoco è un gentiluomo francese del XVII secolo, Georges Guillet de Saint-Georges, che non aveva mai messo piede in Grecia e nondimeno si era improvvisato autore di dotti trattati sulle città e sulle genti elleniche. Guillet, infatti, credette di individuare a Mistrà il palazzo di Menelao e si soffermò a lungo sugli Nella pagina accanto una delegazione di crociati francesi, guidati da Geoffroy de Villehardouin, riceve dal doge Enrico Dandolo, nella basilica di S. Marco a Venezia, 50 galee che sarebbero state utilizzate per la traversata in Terra Santa, nel 1201. Olio su tela di

Charles Renoux (1795-1846). 1839. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon. In basso l’assetto geopolitico della regione egeo-anatolica alla vigilia della proclamazione dell’indipendenza del despotato di Morea, da parte di Demetrio Cantacuzeno.

usi e i costumi degli abitanti del luogo, da lui ritenuti gli eredi diretti degli antichi Spartiati. Il fantasioso francese fu seguito nel suo errore da molti altri viaggiatori e geografi, tra cui il celebre cartografo francescano Vincenzo Maria Coronelli. Per mettere fine alla confusione fra Sparta e Mistrà ci volle l’acume di un grande scrittore: François-René de Chateaubriand. Costui giunse a Mistrà nel corso di un suo itinerario da Parigi a Gerusalemme compiuto nel 1806 e subito comprese, anche sulla base dei resoconti di altri viaggiatori come Jacob Spon, Francis Vernon e l’abate Fourmont, che quelle rovine andavano assolutamente distinte da quelle dell’antica Sparta. Da questo momento Mistrà recuperò definitivamente la sua identità. Le splendide vestigia di Mistrà si innalzano su uno scosceso contrafforte del massiccio del Taigeto. La configurazione naturale del sito e la sua posizione centrale nel cuore della Morea (cosí i Bizantini chiamavano il Peloponneso, a causa dell’importanza della coltura del gelso nella penisola) sono all’origine della sua fortuna. Questa ripida collina, alta 621 m, è infatti praticamente imprendibile e facile da difendere: a Sud e a Sud-Ovest essa è resa inaccessibile da profondi dirupi, mentre altrove le sue pendici sono pietrose e malagevoli e offrono una protezione efficacissima contro gli attacchi.

Ultimo avamposto bizantino

Inoltre, la collina domina l’accesso alla «Gola dei Melingi», il letto di un fiume che conduce nella zona piú interna del Taigeto, abitata un tempo dalla feroce tribú slava dei Melingi, che le ha dato il nome. L’ampio altopiano che si trova sulla cima del colle rese possibile la costruzione di una rocca, mentre la pendice settentrionale offriva, a mezza altezza, uno spazio abbastanza largo per ospitare un palazzo e una grande piazza. Furono i Franchi a fare di Mistrà una fortezza. Piú tardi, i Bizantini la trasformarono nel punto focale della difesa della Morea contro i Turchi ottomani. Per oltre duecento anni essa fu anche uno degli ultimi avamposti della civiltà bizantina. Sinope

VALACCHIA E BULGARIA Durazzo

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REGNO DI CIPRO

Impero latino di Costantinopoli e suoi vassalli Possedimenti della Repubblica di Venezia con l’anno di acquisizione Stati greci successori dell’impero bizantino

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luoghi mistrà Non abbiamo informazioni sulla storia di Mistrà prima della fondazione del castello franco, avvenuta nel 1249. Nei muri degli edifici della città bizantina sono reimpiegate iscrizioni greche e frammenti di marmi antichi, ma, finora, non è stata rinvenuta alcuna traccia di strutture classiche o pre-classiche in loco o nelle immediate vicinanze. È dunque assai probabile che la presenza di elementi di reimpiego vada spiegata con il fatto che i costruttori di Mistrà ricavarono buona parte dei materiali da costruzione dalle rovine di Sparta, la Lacedaemonia medievale, abbandonata in favore della città nuova. Allo stesso modo, in precedenza, gli abitanti di Lacedaemonia avevano edificato le loro case utilizzando i materiali provenienti dall’antica Sparta, e piú tardi, nel 1831, quando re Ottone fondò la città moderna, per la sua costruzione furono reimpiegati molti elementi architettonici prelevati dalle rovine di Mistrà. Questi ripetuti reimpieghi spiegano quindi la presenza, nelle chiese della città bizantina, di numerose decorazioni scultoree databili al X-XII secolo e di resti ancora piú antichi. In ogni caso, alla vigilia della fondazione della roccaforte franca, il sito risultava del tutto privo di emergenze monumentali significative e, verosimilmente, era disabitato. La costruzione della fortezza di Mistrà, fondata nel 1249 da Guglielmo II di Villehardouin, segna il coronamento degli sforzi intrapresi dai Franchi per instaurare il loro dominio nel Peloponneso, che essi avevano ottenuto in dote nel 1204, subito dopo la presa di Costantinopoli da parte dei crociati (vedi box a p. 96). Nel 1248, con l’aiuto dei Veneziani, era stata infatti conquistata la cittadella costiera di Monemvasia, vera e propria «chiave» difensiva di tutto il Sud-Est della Morea, che comprendeva la Laconia, il Mani e i distretti slavi del Monte Taigeto. La presa di Monemvasia garantí al principato di Acaia il controllo di tutto il Peloponneso, con l’eccezione di alcune città che restavano in mano veneziana.

Una città di pietra e colore

Una superba roccaforte

Come scrive l’anonimo autore del testo fondamentale per la storia del Principato, la trecentesca Cronaca di Morea – poema storico di circa 9000 versi pervenutoci in greco, francese, italiano e aragonese – il principe Guglielmo, per rafforzare le sue posizioni, «cercò e trovò una straordinaria collina, un frammento di montagna dove costruí una fortezza che egli chiamò Myzithra, perché cosí veniva designata dal popolo, e fondò un castello superbo e una grandiosa roccaforte» (Cronaca di Morea, vv. 1990-1991). Guglielmo fece edificare un’altra fortezza sulla «Grande Maina», nella penisola del Mani, che gli serví da base contro le popolazioni slave non ancora sottomesse. Ma, a questo punto, scoppiò una guerra fra il principato di Morea e l’impero bizantino in esilio a Nicea. La battaglia decisiva tra Franchi e Greci ebbe luogo nel 1259 presso Prilep, nella Pianura di Pelagonia (territo-

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In alto la chiesa del monastero della Pantanassa, la «Santissima Madre di Dio», fondato nel 1428. L’interno, a tre navate, è decorato con affreschi databili alla prima metà del XV sec. Nella pagina accanto pianta di Mistrà, con l’indicazione dei principali monumenti civili e religiosi. Distante 8 km circa

da Sparta, la città si sviluppò intorno alla fortezza eretta nel 1249 dal principe di Acaia, Guglielmo II di Villehardouin. Ripresa dai Bizantini, fu conquistata dagli Ottomani nel 1460, passò ai Veneziani nel 1687 ed ebbe una breve fioritura, spentasi definitivamente con la riconquista turca (1715). gennaio

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A destra l’interno della cupola della chiesa metropolitana di S. Demetrio, con Cristo benedicente tra i santi. La costruzione della chiesa si inserisce nella fioritura di Mistrà, che, all’indomani della conquista bizantina (1259), da semplice fortezza, prese le forme di una città vera e propria. Mistrà

Brontochion SS. Teodori Porta di Nauplia Palazzo dei Despoti Metropoli di S. Demetrio

Moschea Santa Sofia CITTÀ ALTA

Palazzo piccolo San Nicola

Porta di Monemvasia CITTÀ BASSA

Convento della Pantanassa

Castello

San Giovanni

San Cristoforo

Casa di Frangopoulos

Monastero di Peribleptos

A sinistra le rovine del castello franco dei Villehardouin.

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luoghi mistrà rio oggi appartenente alla Repubblica di Macedonia), ed ebbe un esito catastrofico per le milizie del Principato: lo stesso Guglielmo venne fatto prigioniero e, per pagare il suo riscatto, dovette cedere ai Bizantini tre castelli: «la fortezza di Monemvasia, la Grande Maina e il terzo e piú bello, il castello di Myzithra» (Cronaca di Morea, v. 4351). Cosí, dunque, i Bizantini si impadronirono di Mistrà, acquisendo un solidissimo baluardo nel Peloponneso, che conservarono fino alla conquista turca.

Gli anni del governatorato militare

A partire dal 1262 il distretto bizantino della Morea fu governato da uno stratego nominato ogni anno, il cui quartier generale si trovava proprio nella fortezza di Mistrà appena conquistata. I Franchi tentarono piú volte di riprendersela, ma senza successo. Peraltro, lo stato di conflittualità latente fra i vecchi e i nuovi padroni della città fu alla radice di un evento davvero epocale: A sinistra l’interno di S. Sofia. L’abside conserva un affresco raffigurante il Cristo benedicente, mentre sulla volta il Cristo in Gloria è circondato da angeli. Metà del XIV sec. In basso, nel box figure di

santi militari, particolare di un grande fregio nella chiesa dei SS. Teodori, eretta tra il 1290 e il 1295 come katholikón del monastero del Brontochion, e successivamente sostituita in questa funzione da quella dell’Odighitria.

Il Brontochion

Un grande complesso bizantino Presso l’angolo settentrionale della cinta esterna di Mistrà si innalzano le due chiese piú grandi e imponenti della città, quelle dei Santi Teodori e dell’Odighitria (Colei che indica il cammino). La loro fondazione, avvenuta tra il 1290 e il 1310, è legata a una delle figure piú importanti della storia di Mistrà, quella dell’archimandrita Pacomio, che fu successivamente igumeno del monastero della Santissima Madre di Dio del Brontochion e Grande protosynghelos del Peloponneso. Le chiese sono menzionate in vari decreti imperiali che ne mostrano la crescente prosperità e che, in qualche modo, le connettono al vicino monastero del Brontochion. Il rapporto tra le chiese e il monastero non è chiarissimo: il fatto che i documenti utilizzino il nome di

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Brontochion sia per i Santi Teodori sia per l’Odighitria suggerisce che esse siano state edificate per lo stesso monastero. Probabilmente, al momento della costruzione

dell’Odighitria come katholikón («chiesa principale») del monastero, i Santi Teodori furono adibiti a chiesa funeraria per i monaci. La chiesa dei Santi Teodori è una delle piú antiche di Mistrà, ha pianta cruciforme ed è coperta da una grande cupola sostenuta da otto archi, sul modello del katholikón del monastero di Dafni, presso Atene, e della S. Sofia di Monemvasia. La superficie interna dei muri era ricoperta di splendidi dipinti, oggi solo parzialmente conservati. Dall’alto verso il basso, si succedevano un grande fregio con santi militari, scene della vita della Vergine, le dodici feste del calendario bizantino e scene dai Vangeli. Il katholikón dell’Odighitria è molto diverso dalla chiesa precedente: l’esterno assomiglia a quello di un edificio a pianta

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il trasferimento nella fortezza degli abitanti dell’antica Sparta, che ebbe luogo all’indomani della battaglia di Makryplagi (1264). Questo episodio è una delle cause principali della trasformazione di Mistrà da fortezza in centro urbano in piena regola. L’aumento della popolazione cittadina funse, inoltre, da stimolo alla formazione della vita economica, sociale, culturale e religiosa: non a caso, in questo periodo si assistette all’ampliamento del palazzo; alla fondazione della Metropoli di San Demetrio e dei monasteri e delle chiese piú importanti; alla creazione della prima biblioteca della città e al trasferimento a Mistrà della sede episcopale di Sparta. Fra i personaggi piú eminenti della città spiccavano il protosynghelos Pacomio (cioè il cancelliere ecclesiatico del Peloponneso), che finanziò la costruzione del monastero del Brontochion e ne fece un centro culturale di prima grandezza; il metropolita Eugenio, che, negli anni immediatamente successivi al 1264, prese molto probabilmente la decisione di far edificare la Metropoli, e il vescovo di Creta, Niceforo Moscopulo, che, fra l’altro, arricchí la decorazione di varie chiese della zona. Malgrado la sua precaria situazione socioeconomica, alla metà del XIV secolo il Peloponneso conservava ancora una considerevole importanza politica nell’impero bizantino. Esposto alle incursioni in-

cruciforme, ma, all’interno, il pianterreno è una basilica a tre navate, a cui è stata sovrapposta al piano superiore una chiesa cruciforme quadrata con quattro colonne e cinque cupole. Questa forma composita, che accorda l’impianto basilicale alla croce inscritta è piuttosto rara al di fuori di Mistrà. La decorazione dell’interno, assai sfarzosa, era costituita da marmi policromi alternati a dipinti con rappresentazioni di patriarchi, profeti e santi, e scene della vita di Cristo. Gli artisti sono in alcuni casi di altissimo livello: in particolare, i pannelli pittorici del nartece hanno precisi confronti con opere analoghe di ambito costantinopolitano. Nelle cappelle erano collocate alcune tombe, fra cui quella di Pacomio e del despota Teodoro II Paleologo, morto nel 1407.

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cessanti dei Franchi e degli Ottomani, esso era inoltre dilaniato da catastrofici conflitti intestini. Ciò indusse l’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354) – che si era impossessato del trono bizantino mettendo in secondo piano Giovanni V, rampollo della dinastia paleologa al potere da circa un secolo – a inviarvi il suo secondo figlio, Manuele, per stabilizzare la situazione. Nacque cosí il despotato di Morea (dal greco despótes, «signore»), una struttura autonoma, ma legata direttamente all’imperatore con un rapporto di tipo quasi feudale. La chiesa dei SS. Teodori. A pianta cruciforme, è coperta da una grande cupola sostenuta da otto archi. Al suo interno sono sepolti, fra gli altri, Pacomio e il despota Teodoro II Paleologo.


luoghi mistrà Manuele Cantacuzeno era un uomo capace, e in poco tempo, riuscí a mettere fine alle ribellioni degli aristocratici locali e agli scontri che vedevano contrapposti i partigiani dei Paleologhi e quelli dei Cantacuzeni. Durante il suo lungo governo, Mistrà godette di una notevole prosperità: la città fu arricchita di nuovi edifici, fra cui la bella chiesa di S. Sofia e quella della Peribleptos. A Manuele succedette il fratello Matteo (1380-1383), il cui figlio ed erede, Demetrio (1383-1384), fu l’ultimo esponente della dinastia dei Cantacuzeni di Morea.

I Paleologhi al potere

Demetrio proclamò l’indipendenza del despotato, ma l’imperatore Giovanni V Paleologo, che nel frattempo aveva ripreso il potere, inviò un esercito al comando di suo figlio Teodoro, che in breve tempo sconfisse i ribelli, scacciandoli da Mistrà. Il despotato fu cosí affidato allo stesso Teodoro. Nel periodo in cui Mistrà fu sotto il controllo del-

la fortezza

Il cuore della difesa Dall’accesso meridionale alla città (la cosiddetta «Porta di Nauplia»), una ripida strada pavimentata con ciottoli conduce ancora oggi alla sommità della collina, il punto scelto da Guglielmo di Villehardouin per la sua roccaforte, che conserva ben poco della costruzione originale (i continui lavori di restauro, prima dei Bizantini e poi degli Ottomani, l’hanno infatti ricostruita quasi completamente). La fortezza racchiude una superficie piana, difesa da due cinte murarie. Nella zona delimitata dalla cinta esterna si trovano le rovine di alcune case del periodo turco; all’estremità sud-est, accanto a una grande cisterna, si innalza una grande torre rotonda, da cui era possibile dominare tutta la pianura e le pendici del monte Taigeto. Nell’area circondata dalle mura interne c’è un edificio adibito a residenza dei governatori della fortezza e una cappella oggi in rovina. All’estremità occidentale si erge un’altra torre di guardia, che controllava le pendici ovest del Taigeto, da cui potevano giungere gli attacchi dei Melingi. La fortezza costituiva il nucleo centrale dell’apparato difensivo di Mistrà, e le mura della città ampliavano l’area da essa controllata. Ancora una volta, si tratta di due ordini di mura: il primo, e piú antico, cominciava a occidente della fortezza e continuava verso il basso, con una serie di torri massicce, sia rotonde che quadrate. La seconda cinta, piú recente, fu costruita per proteggere tre importanti monasteri che in origine sorgevano immediatamente al di fuori della città.

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la dinastia paleologa, i rapporti fra il despotato e Costantinopoli divennero sempre piú stretti e il potere dei despoti si estese progressivamente fino a comprendere tutto il Peloponneso. In quest’epoca, la popolazione della Morea era composta soprattutto da Greci, benché esistessero ancora piccole comunità di Slavi e di Ebrei e fosse già presente un certo numero di immigrati albanesi. Lo scontro con i Franchi aveva contribuito a creare nei Greci, e in particolare negli strati piú bassi della popolazione, una forte consapevolezza del proprio ethnos: cosí, nel 1402, quando il despota Tommaso I Paleologo (1384-1407), spinto dalla pressione militare ottomana, vendette Mistrà ai Cavalieri di San Giovanni, la popolazione locale si ribellò e assalí i rappresentanti dei Cavalieri venuti a prendere possesso della città, che ebbero salva la vita solo grazie all’intervento del metropolita ortodosso. Il despota, rifugiatosi a Monemvasia, fu quindi costretto ad annullare la transazione. Teodoro I era fratello dell’imperatore Manuele II Paleologo, che dimostrò grande interesse per le sorti del Despotato, soggiornandovi a lungo e occupandosi della costruzione della fortezza dello Hexamilion, presso l’Istmo di Corinto; ma, nonostante i molteplici sforzi del governo bizantino finalizzati a proteggere Mistrà, nel 1423 il Peloponneso fu attaccato dai Turchi che misero al sacco molte città e presero un gran numero di prigionieri. Nel frattempo, a Teodoro I era subentrato come despota un suo nipote, poco meno che trentenne, Teodoro II (1407-1443): costui, in collaborazione con il fratello, il nuovo imperatore Giovanni VIII Paleologo, lanciò una grande controffensiva che lo portò, intorno al 1429, a ricondurre sotto la sua autorità tutta la Morea, eccetto alcune enclave costiere veneziane. L’imperatore e il despota erano impegnati anche su un altro fronte fondamentale: quello della trattativa con l’Occidente, che vedeva i Bizantini offrire l’unione delle Chiese in cambio dell’appoggio militare contro i Turchi.

Capitale artistica e culturale

Nel quadro di tale trattativa, nel 1421 Giovanni VIII e Teodoro II sposarono due principesse italiane: rispettivamente, Sofia di Monferrato e Cleopa Malatesta. Quest’ultima, giovanissima e notevolmente colta (conosceva il greco, oltreché il latino, ed era appassionata di pittura e architettura), si trasferí dunque a Mistrà: a lei si deve fra l’altro il restauro di uno dei piú bei monumenti della città, il monastero imperiale e patriarcale della Santissima Madre di Dio, piú noto come «monastero della Pantanassa». Durante il governo di Teodoro II e di Cleopa, Mistrà divenne indiscutibilmente il centro culturale piú importante di tutto l’impero bizantino, soprattutto grazie al magistero di Giorgio Gemisto Pletone, una delle piú grandi menti del suo tempo, la cui scuola neoplatonica e neopagana era personalmente finanziata dal giovane despota, raffinato cultore di filogennaio

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In basso l’Odighitria, dedicata alla «Vergine che indica la Via», fu costruita nel XIV sec. da Pacomio, dignitario della chiesa ortodossa, come chiesa principale del Brontochion, al posto della precedente dedicata ai Santi Teodori. L’interno conserva affreschi del XIV sec.

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Gemisto Pletone

Utopia nel Peloponneso Proprio a Mistrà l’«ultimo filosofo greco», Giorgio Gemisto Pletone (1360 circa-1452), propose ai suoi contemporanei, e in primo luogo ai despoti della Morea, un’utopia umanista di concreto rinnovamento dello spirito ellenico, una vera e propria rinascita della Grecia antica che doveva fondarsi sul ritorno al paganesimo e sulla creazione di uno Stato di tipo platonico. E, tuttavia, Mistrà, il luogo in cui avrebbe dovuto riprendere vigore e significato la tradizione greca, era un centro piú simile a una polis o a un castello feudale che a una grande città imperiale. Cosí, il sogno di Pletone di portare la monarchia celeste sulla terra, dando vita

a una società tripartita alla cui guida si sarebbero trovati gli «arconti filosofi», cioè i dotti rappresentanti dell’élite bizantina del tempo, non poté che restare al livello di un tentativo del tutto utopico di conciliare Platone, l’ideologia bizantina e le coeve realtà sociali. Ma spesso le utopie racchiudono in sé un seme fecondo: cosí il pensiero di Pletone, che nel 1438-39 aveva fatto parte della delegazione bizantina al Concilio di Ferrara-Firenze e in quell’occasione aveva avuto modo di diffondere in Italia la sua personale lettura delle dottrine neoplatoniche, costituí un punto di riferimento fondamentale per molti umanisti italiani.

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luoghi mistrà case e palazzi

Sul pendio della collina La forma delle case di Mistrà è determinata dal profilo ripido della collina: infatti, esse avevano tutte almeno un piano superiore, perché, a causa della pendenza del terreno, sul retro il pianterreno era in realtà un semiinterrato. Ogni piano poggiava su un sistema di arcate e il tetto era sempre a due falde. Di conseguenza, gli edifici

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erano sagomati come lunghi rettangoli ed erano contigui l’uno all’altro. Le tipologie principali delle case sono tre: la piú comune, quella a due piani senza torre; la casa perpendicolare al pendio, con terrazza che si apre sulla vallata; la grande dimora patrizia con torre di protezione. La famiglia viveva al piano superiore, consistente in

una grande stanza (triklinon) illuminata da ampie finestre; il piano inferiore serviva da deposito o da stalla e, per ragioni di sicurezza, in esso si aprivano solo piccole feritoie. Ancora oggi si possono visitare alcune di queste dimore, che sono tra i migliori esempi di case bizantine conservate: da non perdere l’Archontikó (Palazzetto), la Casa

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di Frangopoulos e la Casa di Laskaris. Ma il complesso residenziale piú importante di Mistrà sorge sulla piazza della Città alta: si tratta del Palazzo dei Despoti, un notevole insieme di edifici che risale al XIV secolo e ha al suo centro il grande Chrysotriklinon (Sala Aurea del Trono), che misura circa 36 x 10 m, è illuminato da due file di finestre ed era riscaldato da otto camini.

Mistrà, le rovine del Palazzo dei Despoti.

sofia antica, di matematica e di letteratura. Anche l’architettura e la pittura conobbero una fioritura eccezionale, che si espresse non tanto nella grandiosità degli edifici o nella qualità dei materiali impiegati, quanto nell’armonia delle proporzioni e nella raffinatezza delle soluzioni decorative adottate, non di rado influenzate dall’arte occidentale. Nel 1446 i Turchi invasero nuovamente il Peloponneso. I massacri e le razzie non cessarono se non dopo il pagamento di un tributo al sultano Murad. Nel 1453, alla notizia della caduta di Costantinopoli, gli Albanesi della Morea si ribellarono contro i despoti Tommaso e Demetrio, e i Paleologhi domarono a fatica la ribellione. Da questo momento in poi, la loro autorità si indebolí sempre di piú, anche perché Demetrio, trovava preferibile allearsi con gli Ottomani piuttosto che con i Franchi, mentre Tommaso non cessava di sollecitare l’aiuto dell’Occidente e del Papa contro il «pericolo turco».

La caduta e l’abbandono

L’irruzione nel Peloponneso di Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, alla testa di un grande esercito, mise fine alla situazione di anarchia che né i Bizantini, né i Franchi erano riusciti a gestire. Il 30 maggio 1460, Demetrio cedette Mistrà e si uní alla corte del sultano, mentre Tommaso fuggí in Italia. La conquista del Peloponneso ostacolata dalla tenace resistenza dei suoi abitanti, non fu completata prima del 1461, ma il Despotato bizantino di Morea aveva cessato di esistere. Sotto il dominio turco Mistrà perse la posizione dominante che aveva occupato sin dal momento della sua fondazione, ma rimase un fiorente centro commerciale grazie alla sua industria della seta. Nel 1770, tuttavia, la città dovette subire un feroce attacco da parte degli Albanesi, che la misero a ferro e fuoco. La sua rovina definitiva si ebbe comunque solo nel 1831, quando il re Ottone rifondò Sparta e quello che restava della popolazione di Mistrà di trasferí nel centro di nuova fondazione. Il cerchio, tristemente, si chiudeva. Ma il malinconico abbandono della città bizantina per quella moderna è stato in fondo, per gli archeologi e gli studiosi, un’enorme fortuna: grazie all’eccezionale stato di conservazione dovuto all’abbandono, Mistrà rappresenta infatti uno dei piú straordinari esempi di contesto urbano bizantino giunto fino a noi. F

Da leggere U A.A.V.V., The City of Mystras, Athens, Ministry of Culture,

2001 U Ivan Djuric, Il crepuscolo di Bisanzio, Donzelli, Roma 2009 U Silvia Ronchey, L’enigma di Piero, Rizzoli, Milano 2006 U Steven Runciman, Lost Capital of Byzantium. The History

of Mistra and Peloponnese, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2009

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scienza e tecnica l’orologio a molla

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ruote del tempo di Flavio Russo

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Per molto tempo le campane furono quasi l’unico strumento a cui potersi affidare per contare lo scorrere delle ore. Ma, come le meridiane o gli svegliarini, non potevano offrire una particolare «mobilità». Un ostacolo finalmente superato dall’introduzione della... molla

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La Saggezza insegna all’autore i precetti della temperanza, miniatura del Maestro di Jean Rolin, da un’edizione dell’Horologium Sapientiae del mistico tedesco Heinrich Suso (1295?-1366), 1455 circa. Collezione privata. L’opera originale, compilata intorno al 1334, offrí lo spunto ai copisti per illustrarla con varie rappresentazioni di orologi e strumenti simili. In questo caso si riconoscono (da sinistra): un grande orologio a quadrante, con cifre da 1 a 24; un astrolabio, che permetteva di regolare l’orologio; un grande carillon, che veniva certamente azionato dall’orologio con leve che però non sono state disegnate.

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L’

orologio meccanico, fece il suo debutto intorno al XIII secolo e comunicò per la prima volta, in modo collettivo e indipendente dalla visibilità del sole, la quantità di giornata trascorsa (vedi «Medioevo» n. 165, ottobre 2010). L’aggiunta della suoneria, perlopiú ottenuta con rintocchi di campane, ne ampliò la percezione, consentendo di conoscere l’ora anche a chi era intento al lavoro nei campi e nelle officine o semplicemente godeva del riposo notturno. Il raggio di condivisione si estese cosí fin quasi a 5-6 km, ponendo fine all’approssimazione vigente da secoli, che già Seneca aveva stigmatizzato, ironizzando che a Roma era impossibile conoscere l’ora, essendo piú facile mettere d’accordo due filosofi che due orologi privati, quale che ne fosse la concezione. Indubbiamente, l’impiego di un identico sistema meccanico, mosso dalla discesa di un peso (due o piú dopo l’adozione della suone-

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scienza e tecnica l’orologio a molla ria), ridusse l’escursione fra i tanti strumenti e rese l’orario, se non sincrono dovunque, di tollerabile scarto. La precisione, comunque, era talmente bassa da fornire la sola indicazione delle ore, peraltro talmente approssimata che una singolare figura professionale, il «temporatore», attiva fino al XIX secolo, era incaricata di correggerla, avvalendosi di una meridiana, a ogni sollevamento dei pesi. L’altezza dei campanili in cui erano istallati, garantendo a quei primi orologi autonomie di alcuni giorni, lascia presumere un identico intervallo per la messa a ora, con attendibilità immaginabili.

A destra schizzo di orologio a molla elicoidale caricata a compressione, di Mariano di Jacopo. Nella pagina accanto Firenze, chiesa di Ognissanti. Sant’Agostino nello studio, affresco di Sandro Botticelli. 1480 circa. Alle sue spalle, in alto a destra, si vede un orologio a molla del tipo di quello disegnato da Mariano di Jacopo, detto il Taccola. In basso il particolare dell’orologio.

L’ora «immobile»

In breve, l’orologio da campanile si impose per l’utilità e per la robusta semplicità e, stando agli studiosi, fu tratto dagli «svegliarini» monastici, conservandone tra l’altro l’assoluta inamovibilità: caratteristica che non costituiva alcun problema finché serviva alle comunità religiose o sociali, ma lo rendeva del tutto inutile per mezzi in movimento. La fune del peso, infatti, doveva risultare verticale e perpendicolare al tamburo su cui era avvolta, impedendo altrimenti il corretto funzionamento del congegno. Sui carri, e soprattutto sulle navi, la determinazione dello scorrere del tempo rimase perciò preclusa, nonostante l’indubbia rilevanza che sarebbe derivata dalla sua conoscenza: basti pensare che, fino a pochi decenni or sono, la longitudine si calcolava dallo scarto fra l’ora locale e quella del luogo di partenza, conservata da un orologio ovviamente di alta precisione. L’inconveniente, nei primi tempi trascurabile, divenne sempre piú frustrante, proprio per l’utilità che, nel frattempo, l’orologio si era ritagliata: tutti ormai regolavano la propria quotidianità sulla scansione delle ore, ma nessuno poteva piú valutarla durante il trasferimento da un luogo all’altro. Per noi, oggi, conoscere l’orario in viaggio costi-

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tuisce una prassi tanto ricorrente da aver fatto includere fra gli strumenti del cruscotto un orologio, per cui stentiamo a credere che fin quasi al Cinquecento se ne potesse avere una sia pur vaga idea solo dall’altezza del sole. Dal punto di vista tecnico, per essere mobile durante il funzionamento, un orologio non deve però risentire delle oscillazioni del veicolo né essere influenzato dall’inclinazione. Una macchina resa dunque isotropa (che mantiene costanti le sue proprietà fisiche in qualsiasi direzione, n.d.r.) dalla gravità. Va subito precisato, tuttavia, che l’orologio mobile non coincide affatto con quello trasportabile, e neppure con quello portatile. A dif-

ferenza di quello da campanile, lo svegliarino era mobile, tant’é che, trasportato in un altro convento e fissato a una parete, riprendeva a funzionare, ma si arrestava durante lo spostamento, a differenza dell’orologio mobile, che verrà definito cosí proprio perché garantiva la sua prestazione anche in movimento, terrestre o navale che fosse. Ma, affinché un orologio siffatto, divenisse portatile, occorreva ridurne l’ingombro e il peso, in modo da non riuscire di impaccio a chi se ne dotava. Per attualizzare, sono orologi portatili i nostri da polso o da tasca; mobili quelli da quadro o da scrivania; e soltanto trasportabili quelli elettrici alimentati dalla rete o da una fonte di energia fissa.

La molla, antica scoperta

Non a caso proprio l’indisponibilità di un’alimentazione non fissa costituí a lungo il maggiore ostacolo frapposto alla trasformazione dell’orologio da trasportabile a mobile e quindi a portatile. Sul finire del XIV secolo la soluzione fu finalmente trovata: la molla. Per la verità, non era una novità stravolgente, ma il mero perfezionamento di un’invenzione, un modestissimo dispositivo meccanico la cui origine si perdeva nell’antichità. Rozze molle metalliche si ritrovano nella gennaio

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scienza e tecnica l’orologio a molla piú remota età classica, e del resto nessuna serratura avrebbe potuto chiudere senza di esse, nessuna trappola scattare, nessuna arma da lancio scoccare. La molla medievale fu ottenuta da un filo o da una lamina di acciaio avvolti a spire, rispettivamente affiancate o sovrapposte, per cui, alterandone la forma, esercitavano una discreta forza per recuperarla. Nel primo caso si aveva, e si continua ad avere, una molla a nastro – tipica quella delle sveglie o degli avvolgibili – nel secondo una molla elicoidale, come lo sono quelle dei materassi o degli ammortizzatori. Il moto fornito dalla prima è una rotazione, dalla seconda una trazione: al di là di questa basilare differenza, per entrambe la cessione non è costante, ma decresce rapidamente fino a esaurirsi del tutto. Il peso degli orologi da parete, scendendo per la gravità fino al suolo o al termine della corda a cui era sospeso, restituiva l’energia spesa per sollevarlo, al pari delle molle che, tornando alla forma originale, restituivano l’energia spesa per deformarle. In teoria, pertanto, si sarebbe potuta sostituire la forza esercitata dalla discesa del peso con quella di ritorno di una molla. In pratica, però, fra le due esisteva una netta differenza, che ne impedí a lungo la sostituzione: mentre il peso nello scendere, esercitava sempre la stessa forza, la molla, nel recupere la forma originaria, ne esercitava sempre di meno. I lettori piú anziani, al pari di chi scrive, ricorderanno i giocattoli a molla, ai quali occorreva «dare la corda» – cioè deformare la molla con una apposita chiavetta – per vederli muovere, moto che presto scemava fino all’arresto. Per poter utilizzare una molla in un orologio occorreva compensare tale variazione, rendendone quasi costante la forza elargita. Il dispositivo che lo permise fu l’invenzione che, rendendo possibile l’impiego della molla nell’orologeria, consentí la costruzione di orologi mobili e poi portatili, gli archetipi di tutti i nostri da polso. Dell’invenzione

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Lo schema di funzionamento Grande ruota dentata sulla cui corona esterna stavano incise le 24 ore. Ruotando, portava le cifre a passare, una dopo l’altra, sotto una lancetta che cosí indicava l’orario, con un’approssimazione normale di 60 minuti circa.

La lancetta che indicava le ore non era fissa, ma poteva essere posizionata manualmente per indicare un orario iniziale, come la ghiera degli orologi subacquei che permette di stabilire la durata dell‘immersione. La ruota dentata, simile a una sega circolare, comandava lo scappamento a foliot. Era impegnata da due eccentrici, diametralmente contrapposti, che, urtandola sopra e sotto, la facevano girare sempre nello stesso verso, emettendo il classico tic e il tac. La carica, ottenuta comprimendo una molla elicoidale, era impartita tramite una vistosa manovella che, per intuibili ragioni, si deve immaginare rimovibile al termine dell’operazione.

Le ore riportate sulla corona rotante erano 24, ovvero l’intervallo tra un’alba e la successiva. L’opzione semplificava la messa a ora del congegno potendosi compiere al levar del sole.


Lo scappamento era costituito da una sorta di bilanciere con due piccoli pesi. Essendo la loro inerzia proporzionale alla distanza dal centro, variandone la posizione, si poteva rallentare o accelerare il moto dell’orologio.

s’ignora l’artefice e la presenza del suo criterio informatore in numerosi taccuini di ingegneri rinascimentali, rende difficile ipotizzare la paternità, lasciando propendere per una comune fonte piú antica e a noi ignota. Diversamente dai giocattoli ricordati, la molla dell’orologio non doveva srotolarsi rapidamente, né con l’intera potenza erogabile, ma avvenire, invece, lentissimamente e per scatti progressivi, in maniera da rilasciare delle piccole dosi energetiche, possibilmente uguali, compito precipuo dello scappamento. Allo scopo, la forza della molla fu applicata tramite una corda a una sorta di cono scanalato, partendo dal suo diametro minore per concludersi sul maggiore. La forza applicata decrescente – il ritorno della molla – sarebbe stata perciò compensata dalla leva crescente – il raggio del cono – nel punto di contatto, esercitando per conseguenza una trazione pressoché costante. In termini tecnici, la diminuzione della forza motrice veniva in tal modo controbilanciata dall’aumento del braccio della forza.

Il «cono» risolutivo

Ricostruzione grafica in pianta, prospetto laterale e assonometria dell’orologio del Taccola.

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In base alla sua connotazione geometrica, il dispositivo fu chiamato «conoide», e consisteva in un cono di bronzo, sulla cui superficie esterna era inciso un solco a spirale, simile alla trottola a strappo di fanciullesca memoria. Nella scanalatura si avvolgeva la corda proveniente, per la molla a nastro, dal barilotto che la conteneva e da lei fatto girare; per quella elicoidale, dall’alloggiamento in cui si allungava o contraeva. Questa la sua esatta definizione: «Dispositivo in forma di cono, montato su una ruota dentata che ingrana con la prima ruota motrice dell’orologio. Nel solco a spirale, che lo percorre dalla base alla sommità, durante la carica si avvolge il budello (o la catena), che poi la molla richiama facendolo ruotare». Del conoide iniziò a parlare, per quanto oggi sappiamo, già Filippo Brunelleschi (1377-1446), orafo,

scultore, architetto e ingegnere, nonché eccellente orologiaio, che seppe trarre proprio da quel mestiere molti suggerimenti per le sue straordinarie macchine da costruzione. Di quella sua attività si trova traccia anche nel Vasari che la ricordò con queste parole: «Laonde avendo preso pratica con certe persone studiose, cominciò a entrare colla fantasia nelle cose de’ tempi e de’ moti, de’ pesi e delle ruote, come si possan far girare e da che si muovono; e cosí lavorò di sua mano alcuni oriuli buonissimi e bellissimi». Piú dettagliato il suo biografo che cosí scrisse al riguardo: «Essendosi dilettato pel passato e fatto alcun oriolo e destatoio dove sono varie e diverse generazioni di molle e da varie moltitudini d’ingegni moltiplicate (…) gli dettero grandissimo aiuto al potere immaginare diverse macchine da portare e da levare e da tirare». Tuttavia, l’unico suo orologio di cui oggi siamo a conoscenza fu costruito nel 1445 per la torre del Palazzo dei Vicari di Scarperia. In quegli stessi anni anche Mariano di Jacopo, detto il Taccola (1382-1453), si occupò del dispositivo a conoide, e lo utilizzò verosimilmente per la costruzione di un primo orologio mobile a molla del quale ci ha lasciato un dettagliato schizzo. Funzionava appena per sei ore, con una molla elicoidale allungata, che veniva deformata avvolgendo sulla conoide, con una manovella, la corda fissata alla sua estremità. Con le spire a contatto cessava la carica, e, da quel momento, la molla, distendendosi, poneva in rotazione la conoide, che uno scappamento del tipo a foliot, oscillando in un verso e poi nell’altro, frenava, facendo emettere al congegno il noto tic-tac, conferma del suo funzionamento. Una sola lancetta fissa su di un quadrante anulare rotante e diviso in 24 ore, indicava l’ora. L’orologio del Taccola, piú ancora di quello del Brunelleschi fu certamente mobile, ma per l’ingombrante foliot non ancora portatile, peculiarità che acquisirà in breve tempo adottando lo scappamento a ruota e quindi a spirale. F

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caleido scopio

Il fascino del vapore

libri • I contributi

presentati in un recente convegno internazionale propongono una rilettura a tutto tondo dell’hammam, continuatore, nel mondo islamico, della grande tradizione classica delle terme

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rede della tradizione termale greco-romana e oggetto di ammirazione e curiosità da parte della cultura occidentale, l’hammam è divenuto un elemento centrale nella cultura del mondo islamico, sin dagli albori dell’espansione araba verso il Mediterraneo, l’Europa del Sud, il Maghreb e l’Asia centrale. Molti i viaggiatori medievali che nelle loro cronache hanno commentato con stupore la ricchezza delle città in base alla presenza dei numerosi bagni pubblici. Una finalità, quella del «bagno», che oltre a essere dettata dalle piú elementari funzioni di pulizia corporale e terapeutiche – centrali in questo senso sono le prescrizioni del codice etico

musulmano –, si connota anche di nuovi elementi: l’aspetto sacrorituale – l’abluzione nelle moschee ne è una evidente testimonianza –, ma anche l’aspetto sociale, come luogo di incontro-intrattenimento. Molto vasta la letteratura antica sull’argomento con posizioni spesso distanti tra loro, sino ad arrivare ad atteggiamenti di totale condanna verso una presunta amoralità nell’usanza del bagno pubblico. Questo e molti altri temi sono affrontati nel volume che raccoglie gli atti di un convegno internazionale tenutosi a Santa Cesarea Terme nel 2008, che, inserendosi all’interno di una vasta rete di studi e progetti dedicati a questo argomento, traccia una serie di percorsi di ricerca proponendo, al tempo stesso, futuri campi di approfondimento.

Dalle terme al bagno turco Coprendo un arco cronologico che va dal V secolo d.C. all’età moderna, i contributi affrontano con punti di vista sempre diversi lo sviluppo del bagno. Si parte da una

Rosita D’Amora e Samuela Pagani (a cura di) Hammam. Le terme nell’Islam Leo S. Olschki, Firenze, 290 pp., 36 figg. e 6 tabelle n.t. + 20 tavv. 28,00 euro ISBN 978-88-222-5996-7

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Lo scaffale Benedetto XVI Donne nel Medioevo Il genio femminile nella storia del popolo di Dio

Prefazione di André Vauchez, postfazione di Maria Mara Monetti, Marietti 1820, Milano, 142 pp.

12,00 euro ISBN 978-88-21118005

Nel rispetto di una consuetudine cara al suo predecessore Giovanni Paolo II, Joseph Ratzinger, nel corso delle udienze settimanali, ha dedicato numerose allocuzioni a personalità esemplari della storia ecclesiastica. Molti di quei discorsi hanno ripercorso l’itinerario di

prospettiva storico-architettonica attraverso la disamina delle varianti costruttive che connotano il passaggio dall’esempio termale classico, passando per quello bizantino, sino ad arrivare all’hammam vero e proprio. Senza dimenticare la dimensione puramente sociale e terapeutica, altri contributi toccano piú da vicino alcune realtà geografiche (in particolare la Turchia, il Maghreb, l’Egitto) in cui l’hammam ha costituito e costituisce tuttora uno degli aspetti tipici della cultura islamica, toccando anche tematiche piú a latere come la letteratura e la storia dell’arte. Non vengono tralasciate, infine, le interessanti osservazioni sui diversi modi di percepire l’hammam da parte del mondo occidentale, attraverso i commenti di viaggiatori e intellettuali che nel corso dei loro Grand Tour ne sono rimasti inequivocabilmente affascinati, contribuendo ad alimentare l’immaginario collettivo di un mondo occidentale da sempre attratto verso l’«esotico». Franco Bruni gennaio

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santità di alcune figure femminili e sono ora riuniti nel volume che presentiamo. Le dissertazioni del pontefice qui raccolte, rese nelle udienze tra il settembre 2010 e il gennaio 2011, illustrano con l’intento divulgativo che si addice a un uditorio «popolare» non

specializzato, ritratti di sante fortificate dalla spinta mistica e da un’attiva operosità. Il loro sorprendente coraggio nell’affrontare disagi e anche dure «battaglie» contro i potenti dell’epoca dimostra – riprendendo le osservazioni della filosofa Maria Mara Monetti nella postfazione del libro – come «fosse stata nel Medioevo smentita e superata senza alcun conflitto la questione della debolezza e dell’inferiorità femminile». L’arco

temporale nel quale vissero queste figure venerate dal mondo cattolico si estende dall’XI al XV secolo, in contesti storici quindi estremamente diversificati. L’ampiezza del periodo conferisce alla sequenza agiografica il pregio dell’indagine su varie situazioni sociopolitiche con cui queste combattive donne medievali dovettero misurarsi. Condizioni a ognuna delle quali, accanto al «racconto» dell’opera teologica, Benedetto

XVI dedica particolare attenzione. La galleria di ritratti alterna nomi celebri come Brigida di Svezia, Ildegarda di Bingen, Elisabetta d’Ungheria, Chiara d’Assisi, Caterina da Siena, Giovanna d’Arco, Giuliana di Norwich, Angela da Foligno, a personalità meno note che costituiscono autentiche scoperte nel panorama della storia della santità: da Matilde di Hackeborn a Margherita d’Oingt, da Caterina da Bologna a Giuliana da

Cornillon, da Gertrude la Grande a Caterina da Genova. In quasi tutte le biografie vibra la vocazione profetica, ma non solo per la capacità delle protagoniste di predire fatti dei loro secoli, come fecero per esempio Brigida di Svezia, Ildegarda di Bingen e Giovanna d’Arco. Le donne dell’Età di Mezzo hanno anche precorso i tempi di riforme che la Chiesa attuò ufficialmente solo in epoche successive. Francesco Colotta

Poker vincente

musica • Maestro di cappella a Dresda, Heinrich

Schütz fu una delle figure di spicco della musica seicentesca, alla cui evoluzione contribuí con una vasta produzione di carattere sacro e profano, spesso ispirata alla lezione dei compositori italiani

L

a simultanea uscita di quattro registrazioni dedicate a Heinrich Schütz è un’ottima opportunità per apprezzare uno dei compositori piú brillanti del primo Seicento tedesco. Una carriera musicale piuttosto duratura quella di Henricus Sagittarius (1585-1672) – nome latinizzato che ricorre spesso sulle tante musiche date alle stampe –, attivo, quasi ininterrottamente per cinquant’anni, come maestro di cappella alla corte di Dresda. Centrale nella produzione di Schütz è la vocalità – fu, tra l’altro, autore della perduta Dafne, prima opera in lingua italiana su territorio tedesco –, che si manifesta nella sua produzione in

MEDIOEVO

gennaio

ogni forma e genere, spaziando dalla polifonia a cappella al moderno genere concertato.

L’importanza dei testi Al primo periodo compositivo risale la produzione madrigalistica profana presentataci dal disco Heinrich Schütz. Italienische Madrigale (CARUS 83.237, 1 CD, distr. Jupiter) con brani tratti dal Primo Libro de madrigali, pubblicato a Venezia nel 1611. Un’opera che dall’eredità della polifonia franco-fiamminga si apre alle novità della seconda prattica monteverdiana e, soprattutto, all’aderenza totale della musica alla parola, dove è quest’ultima a dettare

le immagini sonore al compositore. È una scelta interpretativa in controtendenza quella di affidare all’ampia compagine corale del Dresdner Kammerchor, diretto da Hans-Christoph Rademann, l’esecuzione di un repertorio specificatamente inteso per un ensemble solistico. Ciononostante, le 18 voci del gruppo superano birllantemente la prova, specialmente in brani come Vasto mar, dove lo sfruttamento di una sorta di micropolicoralità si addice meglio a

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caleido scopio un gruppo vocale piú nutrito. Allo stile concertato, ma ben ancorato alla tradizione contrappuntistica, ci riconduce Heinrich Schütz. Musicalische Exequien (RIC 311, 1 CD, distr. Jupiter), che presenta un’opera del 1636, composta a mo’ di servizio funebre in lingua tedesca in onore del principe Heinrich Posthumus von Reuss. L’opera, che non ha eguali, né modelli precedenti, si presenta in una struttura quadripartita affidata a un ensemble variabile che va dalle 7 alle 8 voci, con effetti di policoralità, accompagnati dal basso continuo. Passaggi piú movimentati sono affidati alle voci soliste, mentre l’andamento accordale è riservato generalmente all’intervento dell’intero ensemble corale.

ancora una volta affidata al Dresdner Kammerchor di HansChristoph Rademann, è l’inclusione di strumenti a fiato e a corda (dulciane e violini) in sostituzione di alcune delle parti vocali, secondo una prassi evidentemente legata al contesto storico in cui visse Schütz. Non vengono dunque traditi i propositi compositivi soggiacenti a questa superba raccolta ma, al contrario, lo stile rigoroso e altrettanto ispirato di Schütz è ulteriormente arricchito dai colori strumentali dei componenti della Cappella Sagittariana di Dresda che accompagna l’ensemble vocale.

Piccoli capolavori

Passaggio all’eternità La ricchezza di queste esequie musicali si ritrova anche in altri mottetti «funebri» che completano l’antologia, tra cui il Das ist gewisslich wahr, scritto per il collega musicista Samuel Scheidt, e Herr nun lässest, per l’Elettore di Sassonia Giorgio I. Opere in cui è esaltato il sentimento della morte, mai vissuto come momento finale della vita, ma come passaggio supremo all’eternità. Ineccepibile l’interpretazione del gruppo vocale Vox Luminis diretto da Lionel Meunier, composto da dodici cantanti, un basso di viola e l’organo per l’esecuzione del continuo, come ottimi sono gli interpreti vocali a proprio agio negli assoli come nei passaggi d’insieme, offrendoci una interpretazione raffinata e aderente al contesto musicale. Geistliche Chor-Music 1648 (Carus 83.232, 2 CD, distr. Jupiter) è, invece, una vasta antologia che raccoglie, in uno stile piú misurato, ma al contempo ricco di inventiva musicale, composizioni sacre destinate al culto luterano. Di quest’opera colpisce innanzitutto la

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rinuncia al basso continuo, presenza fondamentale nello stile concertante in cui lo stesso Schütz si era già ampiamente prodotto; assenza motivata, nella stessa prefazione, da un bisogno di ritorno alle origini dell’arte mottettistica. L’interesse di questa registrazione,

Tappa finale di questo itinerario schütziano è la splendida antologia Heinrich Schütz. Great Motets (ALC 1118, 1 CD, distr. Stradivarius) che offre una mirata scelta della vastissima produzione mottettistica di Schütz. Affidati alla eccezionale bravura dello storico gruppo Pro Cantione Antiqua, vengono qui eseguiti alcuni brani tra i piú rappresentativi della versatilità compositiva di Schütz, in cui lo stile a cappella si alterna al genere concertato per voci e strumenti, sino allo sfruttamento della policoralità e all’utilizzo del virtuosismo nei mottetti solistici. Ogni brano è un autentico capolavoro, dalle caratteristiche univoche, messe a pieno risalto dalle raffinate voci maschili del Pro Cantione Antiqua in questa riproposta discografica che raccoglie brani incisi durante gli anni Ottanta. Il celebre gruppo inglese, fondato nel 1968 da Mark Brown, ha intrapreso, da vero pioniere, un cammino tutto in ascesa nella riproposta di repertori medievali e rinascimentali in un periodo in cui la discografia «antica» era agli albori. La ristampa digitale di queste musiche non poteva costituire migliore tributo a un eccezionale compositore affidato ad altrettanti interpreti d’eccezione. F. B. gennaio

MEDIOEVO



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