The Unknown 07

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July o4, 2o18

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Anno nuovo editoriale nuovo. Non era scontato che avremmo resistito tutto questo tempo e invece eccoci qui con un nuovo numero, siamo tornate a fare ciò che ci appaga di più, inutile negarlo, ma vedere le proprie parole riversate all’interno di una rivista fa comunque un certo effetto, anche se la rivista è la propria. Dall’ultima uscita di cose ne sono successe davvero troppe e siamo tornate più forti e sicure di prima, questo è innegabile. L’ennesimo restyle del sito è servito da iniezione di sicurezza, adesso è tutto in bianco, super essenziale e finalmente pronto ad accogliere il primo sfogliabile del 2018. Le cose che ci prefiguriamo per il futuro sono tantissime, il cervello è sempre in movimento per trovare novità da proporvi perché tutto ciò che noi stiamo facendo vogliamo farlo con voi. Abbiamo lavorato duramente per raggiungere sempre più traguardi, siamo scese a compromessi, abbiamo deciso di prendere il tutto più seriamente, abbiamo rinunciato a qualcosa per dar spazio ad altro, ma siamo soddisfatte delle decisioni che abbiamo preso. Abbiamo avuto tante soddisfazioni, meno dello scorso anno le delusioni, ma figurarsi se non va bene così. Ci aspettano ancora tante cose lungo il cammino, tanti concerti, tanti album da ascoltare, tante critiche, tante soddisfazioni, tante notizie da condividere, nella speranza che la nostra Uncool Family possa espandersi sempre di più. Ah, e non fatevi ingannare dall’estetica super essenziale e da quel senso di ordine che ormai inonda le nostre pagine, siamo le solite fancazziste super ritardatarie che tendono a fare tutto nel peggiore dei modi, stile nuovo, stessa attitudine. Ricordatevi sempre Stay Uncool To Be Cool, siate strambi, ballate in giro per la strada, lasciate che la vostra vita scorra per la vostra arte, per i vostri ideali, per la vostra musica preferita, vivete per le cose per cui vale la pena perdere fiato, restare a bocca asciutta, avere l’ansia e quel senso di vuoto allo stomaco, vivete per questo che la vita passa addosso più leggera. E grazie per essere ancora qui.

Per informazioni, recensioni, inviti alle vostre serate e qualsiasi altro tipo di richiesta contattateci tramite Facebook, compilando il form alla sezione contact del nostro sito o scrivete una mail a info@theunknownmusic.com

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Info e contatti

Who We Are Fondatrici: Bianca Errante & Silvia Gigli Autrice: Bianca Errante Fotografa: Silvia Gigli.


LIVE REPORT Dynamite Fest - Day Two

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Anti-Flag 9 Teenage Bottlerocket

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Sottoponte Fest 17

REVIEW Davhid 8 Interrupters 12 Panic! At The Disco 16


wo T y Da È un sabato pomeriggio parecchio afoso, alla Velostazione Dynamo sono già tutti in movimento per il secondo appuntamento del Dynamite Fest e tra adesivi dimenticati a casa e mancanza di caffeina in corpo ci siamo anche noi, cariche per una realtà in costante crescita. L’attitudine del fest è sempre quella, aria festosa e tanti spazi disponibili per le realtà DIY, la mostra, che questa volta ospita la Needle 4 Needle Chapter 2, un connubio di creazione di Mending (He) Art e Paolo Esse, tra illustrazioni da guardare a testa in giù e un meraviglioso kimono con le mani interamente ricamate, un’arte messa in mostra nel migliore dei modi nel suggestivo tunnel della Velostazione. L’arena centrale per l’occasione ospiterà non solo i live, ma sarà anche teatro dell’esibizione delle ragazze della Pole Dance Bologna, mentre tante nuove facce si trovano tra i “banchi” del Dynamic Hands Market, tra le illustrazioni di Kitty Disgrazia, Giulia Cassandra e Gargantua e i pedali handmade di Dron. Tra il dj set e i live assistiamo finalmente alle pazze acrobazie di pole dancing che mi hanno aperto gli occhi su una nuova frontiera e che mi hanno insegnato che per essere davvero sexy bisogna saper lucidare un palo restandoci appese a testa in giù. Un ringraziamento particolare va a FrAnK che ha permesso a tutti i presenti di assistere a tale spettacolo.

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Ma passiamo finalmente a parlare delle band della serata, primi in scaletta i The Jackson Pollock, un duo composto da un chitarrista e una batterista, nulla di troppo sorprendente a scriverlo così, ma quello che c’è sotto, se non li conoscete, è pressoché indescrivibile. Arrivano dalla bella Bologna, riff impeccabili, ben eseguiti e abbastanza composti, le pelli bruciano

sotto le bacchette e la voce di Emily fa tremare i cuori. La cosa davvero divertente è che Emily era proprio di fianco a me mentre sistemava la distro e nuovamente al mio fianco mentre mangiavamo e mai, dico mai, avrei pensato che una ragazza così minuta e docile potesse contenere dentro se quella grinta, ma sopratutto quella rabbia genuina che riversa in musica. Secondi sul palco gli Hellvis con il loro rock n roll molto old school

condito con diverse influenze, anche loro suonano in casa, anche loro buttano giù il mondo, ma in seguito ai The Jackson Pollock distolgo leggermente l’attenzione, non me ne vogliano gli Hellvis, ma risaltare al massimo del proprio splendore dopo l’esibizione dei due risulta davvero difficile, ho comunque apprezzato la musica che hanno proposto e ho trovato il tutto divertente e coinvolgente. Gli ultimi del secondo appuntame-


Ed è con la promessa di un’ulteriore crescita che vi invito a prepararvi al prossimo appuntamento. DYNAMITE FEST DAY THREE Stesso posto, 8 settembre, The Innocent, Teenage Bubblegums e gli attesissimi The Manges, inoltre potrete godere della mostra di Manuel Cossu e di tante nuove realtà DIY al Dynamic Hands Market.

nto del Dynamite Fest sono i the Brokendolls che, a guardarli da lontano, senza sapere chi siano, si possono benissimo confondere per una qualche cover band di qualche artista anni ’80, probabilmente la bandana del cantante non aiuta a distogliersi da questo pensiero che mi ha fatto sorridere per tutto il live. Ad ogni modo sanno il fatto loro e hanno creato uno show di ottimo livello, non i miei preferiti della serata, devo ammetterlo, ma ho comunque apprezzato la chiusura in perfetta armonia con il resto della serata. Quella del Dynamite è stata una serata intensa e per questo non si può far altro se non ringraziare tutti coloro coinvolti nell’organizzazione, ringraziare fino allo sfinimento tutti coloro che hanno reso e continuano a rendere possibile tutto ciò, la scena è viva, la scena si muove e sopratutto cresce a dismisura.

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THE BLUE WALL by DAHVID Dahvid è un artista solista di Newport Beach, arrivato alle mie orecchie per puro caso. E’ in attivo dal 2017 e ha rilasciato il suo primo EP, The Blue Wall, a marzo di quest’anno. In appena quattro canzoni è riuscito a concentrare la grinta e quel fattore emotivo che è evidente appartenergli, restando sui passi di una linea guida ben strutturata ed armonica, ma comunque non troppo perfetta, in modo da non risultare stucchevole all’ascolto. Il disco di apre con That’s What She Said che si apre con degli arpeggi di chitarra a me familiari, l’intro, infatti, con questo cantato distante come provenisse da una radio, ricorda un po’ la scuola Green Day, particolarmente quella fetta di ballad scritte per mano di Billie Joe. Il cantato di Dahvid è inizialmente basso e trascinato, appunto come provenisse da lontano, distorto, per poi esplodere in un vortice di energia punteggiante con l’arrivo del primo riff. E subito l’attitudine della traccia si trasforma. La seconda traccia parte veloce, In The Past ha sonorità già sentite, ancora una volta, mi entusiasma meno della precedente, ma sottolinea, presa nel complesso delle quattro tracce, che sicuramente abbiamo davanti un artista versatile che cambia sonorità già alla seconda traccia. Empty Apartment di tutte mi sembra la più orecchiabile, i toni si abbassano leggermente per dar spazio ad un cantato più trascinato riconducibile nuovamente alla voce distorta e distante della prima traccia. A chiudere l’EP un’altra ballad, All Around The World. Questa resta una ballad per tutta la sua durata e come una brava ballad da chiusura è più sentimentale delle precedenti, risuona più dolce, ma comunque sfuggente, dal momento che immagazzinare in così poco tempo tutte queste varie sonorità è davvero un impresa non da poco. Forse la ballad in chiusura è un po’ scontata, ma in certi casi, come questo, necessaria. Dahvid è un artista molto versatile e al quarto ascolto non posso pensarla diversamente, questo EP ne è comunque la dimostrazione. Ogni traccia risuona diversa dalla precedente, rendendo il lavoro forse poco legato, ma comunque molto piacevole all’ascolto. Non so se è uno di quegli EP che avrò voglia di riascoltare più e più volte in futuro, ma resta comunque un ottimo lavoro.

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NO GODS. NO MASTERS. Sebbene il ritorno a casa da Zona Roveri è sempre traumatico, vuoi che non avere un proprio mezzo di locomozione è di per se una limitazione, vuoi che affidarsi alla Tper in piena notte non è l’idea migliore che si possa avere, è comunque una venue che regala emozioni. Dopo aver visto gli Anti-Flag al Bay Fest, meno di un anno fa, l’entusiasmo all’annuncio di ben tre date italiane aveva smosso il mio cuoricino, facendomi attendere trepidamente l’arrivo dell’8 giugno, potete trovarmi qualcosa di migliore del vedere nuovamente gli Anti-Flag? Probabilmente l’andare a vederli praticamente dietro casa, scazzi con i trasporti a parte. Giungiamo a Zona Roveri perfettamente in tempo, poche le persone all’ingresso, ma all’apertura, con altre due date sparse in nord Italia non ci si poteva aspettare di meglio. Entriamo, Justin Sane si fa vedere al bar all’esterno, un saluto veloce e via, come se avesse

appena incontrato degli amici di vecchia data, all’interno la distro è sempre un’attrattiva per gli occhi, un po’ meno per il portafogli, mentre sotto palco poche anime attendono l’arrivo dei paladini di Pittsburgh. Con il tipico DJ set di Zona Roveri l’attesa passa sempre piacevolmente, fino all’arrivo dei Second Youth sul palco. La band italo britannica in pochi anni di carriera ha affermato la propria presenza con diversi show, dividendo il palco con diversi artisti. Come mettono piede sul palco sul mio viso si stampa un sorriso, e pensare che ascoltandoli da casa pensai che non mi sarebbero piaciuti, e invece eccomi qui ad eloggiarli il più possibile, perché se una cosa è certa, è che nel mondo abbiamo bisogno di più band come i Second Youth. Devo dire che erano mesi che non mi capitava di sentirmi così bene, sotto quel palco, con quelle luci che scaldavano tutto l’ambiente,

quell’aggressività benigna che solo la musica può darti, era davvero da troppo tempo che non mi capitava di sentirmi così felice ed era anche da un po’ che non mi trovavo ad un concerto, penso non potesse esserci modo migliore per riprendere la routine. I Second Youth sono una band che travolge, sarà per via della loro vitalità, della loro padronanza sul palco,

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sempre più in alto, trasmette adrenalina pura e le linee del suo basso restano impeccabili di canzone in canzone, Justin con le sue corse, i suoi giri e i suoi continui salti sul posto sembra una pallina del flipper impazzita, Pathetic distrugge le pelli, mentre il più pacato dei quattro, l’altro Chris, suona in maniera impeccabile per tutta la durata del set.

dello swing celentaniano di André Suergiu (cantante), fanno bene al cuore. Quando una band ti fa sentire così bene, nello sconforto e nella rabbia delle sue canzoni, forse vuol dire che qualcosa di buono ancora c’è, e se preferivate leggere dei riff alla Rancid e del loro ritmo alla NOFX, mi spiace per voi, ma qui il fattore umano batte quello tecnico a mani basse. Attendo con estrema impazienza di poterli rivedere sul palco del Bay Fest (13.08).

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Si torna all’attesa, attesa che diventa sempre più straziante, attesa

che non si sa chi, magari proprio gli Anti-Flag, ha deciso di rendere più dolce con una serie di canzoni fuori contesto come Mambo Italiano, Ba ba baciami piccina o Volare. Finalmente calano le luci, parte l’intro e con tale naturalezza salgono sul palco gli Anti-Flag sulle note di When The Wall Falls e, pressocché istantaneamente, parte un pogo che sarà continuo per tutta la serata, un pogo che è come un fuoco alimentato dalla carica di Justin e compagni, dalla loro unione, dai loro gridi di battaglia, dal loro spirito ribelle. Chris “Dos” salta

Una band come gli Anti-Flag è una band che permette ad un pubblico vivente un mondo corrotto e sempre più abberrato dai paroloni imbarazzanti di rappresentanti politici, di ritagliarsi uno squarcio di pace in una società opprimente ed oppressa e direi che, l’arrivo di una band socio-politica come gli Anti-Flag, sia, come si usa dire, caduta a pennello, viste le recenti notizie che stanno interessando il “Bel”paese. Chi, come me, ha lasciato il proprio sudore grondare sul pavimento di Zona Roveri, rappresenta, insieme a tutti quei pugni alzati al cielo e a quelle voci echeggianti, la fetta di popolo che non ha voglia di piegarsi, rappresenta quella minoranza che mi ha sempre fatta sentire al sicuro, rappresenta quella voglia di rivoluzionare il mondo, di rivoluzionarlo con uno dei mezzi più efficaci e potenti che esista, la musica. Per quanto riguarda la setlist nulla da rimproverare, sono stati accontentati pressoché tutti, la band ci ha regalato dagli inni più scontati come Die For The Government, Got The Numbers e This Is The End (For You My Friend), alle nuove tracce estratte dalla loro ultima release come Racist, The Criminals e American Attraction. Ovviamente in chiusura non poteva mancare Brandenburg Gate con tanto di passaggio palco-pit. Insomma gli Anti-Flag sanno farsi piacere, ma sopratutto sanno come incendiare un pubblico, è già successo e sempre succederà. Lì ho lasciato un pezzetto del mio cuore, adesso attenderò con impazienza il loro ritorno, nel frattempo


la loro musica non smetterà mai di farmi compagnia lungo le mie giornate apatiche. PS: la prossima volta che vedo uno di quei costumi in pile in mezzo al pogo faccio un falò, ti voglio bene uomo puzzola.

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ha belle sonorità e sopratutto ti entra in testa per il resto dei tuoi giorni. E’ un connubio perfetto tra una storia d’amore e lo ska, una traccia come i bravi Interrupters ci hanno abituati a sentire.

FIGHT THE GOOD FIGHT by The Interrupters Tornano i The Interrupters con il loro terzo album e ancora una volta si portano dietro il caro vecchio Tim Timebomb che produce anche questo disco per Hellcat/Epitaph Records. Fight The Good Fight, uscito il 29 giugno, vi anticipo già che rappresenta l’evoluzione più pura e sincera che la band potesse mai avere. Dodici tracce veloci, divertenti, e piene di differenti argomenti. Si parte con Title Holder, la tipica traccia che ci si aspetta da loro, ma si avverte quella marcia in più che la band ha voluto inserire in questo disco, si sono allontanati dalle sonorità più semplici per avvicinarsi ad un qualcosa di non tanto complesso, ma ben strutturato rispetto alle vecchie produzioni, la voce di Aimee cresce di disco in disco diventando sempre più forte e sporca, il che rende la musica degli Interrupters, ma specialmente la sua voce, riconoscibile alla prima nota. So Wrong preannuncia già il cambiamento che ci hanno sottoposto alleggerendosi un po’ dallo ska per lasciare spazio a sonorità più pacate, stessa cosa accade nelle successive Broken World, Gave You Everything e Outrage. La terza traccia è anche il primo singolo estratto dall’album, She’s Kerosene. Devo dire che di tutte è il singolo di presentazione perfetto, 12

Si passa da Leap Of Faith, che è passata abbastanza inosservata ai miei ripetuti ascolti, per arrivare a Got Each Other. Poteva mai mancare il featuring con i Rancid? Ovviamente no. Ed ecco che ci troviamo davanti ad un esplosione di musicalità differenti, ma comunque molto vicine tra loro, i Rancid portano all’ennesima potenza quel fattore di grezzo che lo ska ci regala solitamente, permettendo alla voce di Aimee di risaltare ancora di più con la sua femminilità, questa, insieme a Broken World, She’s Kerosene e Rumors And Gossip, rientrano tra le mie preferite. Ovviamente grazie zio Tim. Nonostante Broken World rientri senza troppe difficoltà tra le mie preferite, è abbastanza oggettivo che rispetto alle precedenti risuona un po’ spenta, è immersa in un connubio di “luci” e suoni differenti e coinvolgenti che purtroppo la lasciano leggermente indietro lungo il tragitto, stessa cosa vale per la successiva Gave You Everything, traccia che ancora una volta marca il percorso che la band ha intrapreso in questo disco. Le chitarre sono meno ska, più punk rock, più armoniche. Not Personal torna sulle note ska, così come Rumors And Gossip che ho particolarmente apprezzato per la vaga somiglianza alle sonorità di She Got Arrested, riprende quindi a pieno la vecchia forma mentis della band. La voce di Aimee risalta al massimo in entrambe le tracce, alternando toni alti e bassi con un’armonia tale che fa risultare il tutto così poco curato, ma nel contempo così ben realizzato. Be Gone e Room With A View funzionano alla perfezione in chiusura ed incorniciano l’album all’interno di una nuova frontiera degli Interrupters.

Nonostante, per apprezzare tutto ciò che gli Interrupters hanno deciso di inserire all’interno del disco, mi ci siano voluti diversi ascolti, penso che senza dubbio abbiano fatto centro un’altra volta, sono riusciti a trovare l’equilibrio giusto tra il vecchio e il nuovo, nonostante i cambiamenti ho riconosciuto la band e la cosa mi ha fatto parecchio piacere, giusto perché questo vuol dire maturare e non cambiare radicalmente. Tra i temi socio-politici e sentimentali che si alternano, e le sonorità ben più distinte che nei precedenti album, Fight The Good Fight è uno degli album meglio riusciti dell’ultimo periodo che segna una nuova era per la band, che non fa altro che dimostrare la crescita artistica, e probabilmente anche personale, che sta avendo. Senz’ombra di dubbio il mio Spotify resterà fermo un bel po’ sulla loro intera discografia, nell’attesa di un qualche tour in Europa in un futuro non troppo lontano, si spera.


EVERY TIME YOU FREAK OUT vare sul canale YouTube Dressed To Punx. Finalmente arriviamo a Milano, sosta non tanto breve all’Esselunga e dritti verso i Magazzini Generali dove partono i saluti ai visi amici, poi, giusto il tempo di qualche chiacchierata, qualche sigaretta e una sbirciata al merch ed inizia la serata. I primi sul palco sono i The Veterans capitanati dal pioniere Andrea Manges. Il loro è un punk rock old school molto fresco e dalle sonorità allegre ed energiche, divertenti e coinvolgenti al punto giusto, mi hanno messo voglia di ballare e quando una band arriva a questo rientra automaticamente in una lista di band ideali. Non li avevo mai visti prima, ma avevo visto Andrea all’opera con i The Manges, è reato dire chi preferisco tra le due? Beh, vi lascerà con questo dubbio esistenziale.

L’organizzazione del mese di giugno mi era ben chiara, ma è davvero imprevedibile come i piani possano cambiare, ed ecco così che fino all’ultimo istante la trasferta a Milano in occasione dei Teenage Bottlerocket era un enorme interrogativo o, più propriamente, non rientrava proprio tra i nostri piani, ma a pochi giorni dalla data arriva Cristian aka FrAnK che, da bravo papino, ci offre un passaggio. E così ci ritroviamo, nell’afoso pomeriggio del 21 giugno, a San Lazzaro di Savena in attesta della

FrAnK-mobile. Il viaggio verso una venue lontana è sempre molto piacevole, a meno che tu non sia a bordo di un regionale con una decina di bambini che ti urlano nelle orecchie nonostante le cuffie, ma fortunatamente non era così. Allora munita di videocamera, mi godo il viaggio verso i Magazzini Generali, con tanto di sosta in Autogrill. Ah, per inciso la videocamera non era la mia, ma mi era semplicemente stata offerta in momentaneo dono da Cant che ha affidato a The Unknown il vlog della giornata che tro-

Dopo quella sensazione di fare surf sulle spiagge hawaiane facciamo una pausa sigaretta, qualche altro saluto qui e lì, ed è già ora di tornare dentro per i Tough. Hanno un bel po’ di seguito in mezzo al pubblico, questo mi fa avere ottime aspettative e sopratutto mi carica il doppio, ma non avendoli mai visti prima sono rimasta un po’ delusa. Per carità ottimi musicisti, ma forse un po’ spenti, forse il palco troppo grande, forse il buio totale sul bassista, ovviamente cose del genere vanno a gusto personale e forse, nonostante li ho precedentemente definiti noiosi, credo che siano più propriamente poco entusiasmanti per me. Terzi sul palco i temutissimi dalla scena Andead. Salgono sul palco con la solita grinta e i soliti gilet in jeans, hanno più spazio del solito per muoversi e saltare di qui e di lì quindi la modalità trottola è immediata. Lo show è il solito connubio di buona musica e forti ideali, all’ennesimo report su di loro devo

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dire che è parecchio difficile trovare cose da dire, se non che non perdono un colpo. In precedenza vi ho detto tutto, potrei ribadire che sono una band con solidi principi, potrei ribadire che per come vanno adesso le cose band cariche di significati come gli Andead sono pressoché necessarie, potrei ribadire che odiare artisti solo per una qualche provenienza o, peggio ancora, un qualche non apprezzamento per la musica che fa è un atteggiamento ottuso, potrei ribadire che l’accettazione sta alla base del nostro mondo, ma so che non servirebbe a nulla. Ad ogni modo bravi Andead. Al mio solito sono riuscita a dilungarmi troppo, quindi tagliamo direttamente alla parte in cui i Teenage Bottlerocket riempiono il locale. Si, perché il locale era pressoché pieno, come ci si poteva aspettare. I salti non tardano ad arrivare e i quattro del Wyoming aprono le danze con Freak Out! e Skate Or Die, singoli chiave della loro discografia. Il live è un insieme di emozioni, risate varie e puzzo di sudore che si scatena nel giro di pochi minuti, specialmente tra quel piccolo gruppetto di timidi pogatori. Personalmente era la prima volta

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che li vedevo live e sono fiera di aver aggiunto un pezzo di cultura alla mia vita, assistere ad una scaletta pressoché perfetta mi ha colmato il cuore di gioia, penso che non avrei avuto richieste o cambi da fare, c’erano tutte, da Skate Or Die a They Call Me Steve, da Bottlerocket a Radio. Tutta la durata del live è stato un miscuglio di emozioni, mi hanno fatta sorridere, ma mi hanno anche emozionata, mi hanno fatto venir voglia di saltare, ma anche di restare assopita a guardarli, l’energia si sprigionava da ognuno di loro, non ho termini di paragone, ma li ho trovati in ottima forma e assistere ad un esibizione così genuina è sempre un qualcosa che resterà impressa nella mia mente. La serata si è conclusa nel migliore dei modi, loro fuori nel cortile dei Magazzini Generali a far foto e due chiacchiere, noi nel vortice delle prese in giro. Siamo poi tornate verso casa, con un po’ di nostalgia per un qualcosa che mi è sembrato finire troppo presto, breve sosta in Autogrill, il più caro che si potesse trovare, e poi di nuovo le quattro mura di casa propria che con l’adrenalina ancora addosso stanno strette più del solito.

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PRAY FOR THE WICKED by Panic! At The Disco Dopo che Brandon Iurie ha donato un milione di dollari per sostenere la GLSEN (Gay, Lesbian and Straight Education Network) per sostenere le menti più giovani della comunità LGBTQ americana, dopo aver lanciato la sua personale associazione no-profit, Highest Hopes Foundation, in supporto a tutti coloro che subiscono discriminazioni per razza, religione, orientamento sessuale ed identità gender, il nome inoltre si riconduce ad High Hopes, singolo estratto dall’ultimo album dei Panic! At The Disco. Dopo tutto ciò mi ha convinta e ho deciso di buttarmi di peso in questa recensione. Pray For The Wicked, questo il titolo, è stato rilasciato per Fueled By Ramen e DCD2, il 22 giugno, ma è stato ampiamente anticipato dai numerosi singoli che la band ha rilasciato: (Fuck A) Silver Lining, Say Amen [Saturday Night], High Hopes, Hey Look Ma, I Made It e King Of The Clouds. Ho sempre ascoltato, più o meno, i Panic! At The Disco, ma li ho sentiti sempre tanto distanti, ho sempre ammirato il genio di Brendon Iurie, ma immettermi in una recensione non è la scelta più felice che io potessi fare, ma devo dire che è andata parecchio bene.

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L’album si apre con (Fuck A) Silver Lining, mi è capitata sott’orecchio così tante volte che sinceramente ai primi due ascolti la detesto, non riesco a sentire nulla che mi piac-

cia, ma dal momento che l’avevo ascoltata alla sua uscita e ricordavo mi fosse piaciuta, ho cercato di mettere da parte quella parte vecchia ed intollerante del mio carattere e sono riuscita ad ascoltarla come meritava di essere ascoltata. Traccia d’apertura azzeccata, non poteva essere diversamente, preannuncia la carica di tutto l’album, tracciando ancora una volta una linea guida che si protrae direttamente dal precedente album, Death Of A Bachelor. Say Amen (Saturday Night) è l’esempio perfetto del connubio stravagante che, anche questa volta, Brandon Iurie ha deciso di inserire all’interno del disco. Si apre con un beat pop che viene spezzato dalla voce sempre impeccabile che si spande nel ritornello dando il meglio di se, lascia sulla bocca un retrogusto un po’ emo, anche se è davvero difficile avvertirlo con tutte le acrobazie pop che hanno deciso di inserire nella traccia. Come al solito questo mix impensabile funziona a pennello. Altro singolo in arrivo, Hey Look Ma, I Made It, mantiene quei suoni stravaganti, ma poi vogliamo soffermarci su quanto versatile sia la voce di Brandon? Riesce a cantare su qualsiasi base, con quel briciolo di vintage che gli appartiene come persona e come artista. Durante tutta la durata del disco riesco ad immaginare Brandon nei panni di un Gatsby moderno, ma non troppo, un amante del teatro che mischia in maniera super armoniosa il vecchio e il nuovo, è come se stessi ascoltando un disco dell’età del proibizionismo però nel 2018, i brani in chiave pop sono ricolmi di influenze anni ’50, dallo swing al jazz, rendendo il tutto così armonioso che risulta difficile non apprezzarlo, sebbene non passerei mai delle ore intere ad ascoltare i Panic! devo riconoscergli che sono pressoché gli unici a fare qualcosa del genere. High Hopes porta verso il basso tutta l’opera, ha una musicalità simile all’ultimo disco dei Fall Out Boy e la cosa non mi piace, passa

Old Fashioned è strana. Non ho altro da dire. E’ una canzone strana. Se l’ascolto chiudendo gli occhi la prima parte mi ricorda l’India, mille colori, stoffe con i fiori, ma anche una perfetta canzone da musical, nulla di strano dal momento che il frontman si è recentemente esibito a Broadway con Kinky Boots, lasciando andare ulteriormente quella teatralità che in quest’album si manifesta al suo massimo con elementi super drammatici. Vale la pena soffermarsi su due tracce in particolare prima di chiudere questo abisso sconfinato di modernità che non mi appartiene per nulla. La prima di cui voglio parlare è King Of The Clouds. Si apre con un coro a cappella e anche qui il richiamo al teatro è immediato. Non è difficile che il cervello si colleghi direttamente a A Quick One, While He’s Away (The Who) o a Bohemian Rhapsody (The Queen). Penso di poter dire che è in assoluto la traccia che preferisco di tutto l’album, ha quel tocco vecchia scuola che mancava in tutte le altre tracce. L’altra traccia che merita attenzione è Dying in LA che è magica. Un piano accompagna la voce di Brandon in vocalismi pressoché perfetti, lasciando che la traccia inebri ogni senso della persona che la sta ascoltando, fa stare bene sentire quella vocalità così unica in un contesto così essenziale e semplice, si aggiungono solo violini a metà, che non fanno altro che rendere il tutto ancora più inebriante, ho tenuto gli occhi chiusi per ogni singolo ascolto che ho dato a Dying in LA, senza dubbio dopo un album così movimentato ed elettrizzante una traccia così non solo era necessaria, ma risalta anche il doppio. Insomma, non ho mai ascoltato davvero i Panic! At The Disco, so cosa hanno prodotto, ma, nonostante segua ciò che hanno fatto in Death Of A Bachelor, Pray For The Wicked è l’unico album che ho apprezzato nella sua interessa, ha quel fattore di teatralità in più portato all’ennesima potenza.


SOTTOPONTE FEST

che sigaretta di troppo e un occhio veloce alla birra, si aprono le danze con gli Spring Moods. Ve ne abbiamo parlato poco tempo fa nella recensione al loro primo full length Sad Love Story e finalmente, a distanza di diversi tentativi, siamo riusciti a vederli live. Se su disco suonano veloci ed energici, in live sono una vera e propria esplosione di suoni, comunque super fedeli a ciò che ci avevano proposto su disco. Cacciano fuori un Ramonescore ben strutturato, sonorità armoniose e sul “palco” se la cavano in maniera esemplare. Da Forlì si scene giù fino ad Ancona dai The Livermores. Con il loro punk rock old school con sonorità comunque più odierne di tante altre band in circolazione sono ormai un pilastro della scena underground. Li avevamo già visti un po’ di tempo fa, in occasione del Montecio Cool Kids, e i loro ritornelli si erano impiantati nella mia mente per riaffiorare alla prima occasione in cui me li sono ritrovata davanti, ecco che passa un secondo prima che anch’io mi lasci trasportare dai loro riff e dalla loro attitudine californiana.

Quando si pensa agli scenari locali, la così acclamata ‘local scene’, mai si arriverebbe a pensare che uno dei centri pulsanti della scena bolognese è rappresentato da una piccola associazione culturale, Il cerchio dalla Libia alla via Libia che, in collaborazione con FrAnK, rende possibile il Sottoponte Fest, un appuntamento mensile che vede protagoniste tre band della scena punk rock italiana. Il 9 giugno si è tenuto l’ultimo ap-

puntamento con ospiti Spring Moods, The Livermores e Zachary. Arrivare al Sottoponte ed essere accolti calorosamente dai ragazzi dell’associazione è il punto focale di tutta la serata, senza nulla togliere alle band, ma vedere comunità così unite e fraterne tra di loro mi rallegra il cuore, tutti quei sorrisi, tutti quei saluti, tutti quei continui inviti a prendere parte alla tavolata per mangiare in compagnia, tutte cose che fanno star bene. Dopo la cena abbondante, qual-

Gli ultimi in lista sono gli Zachary, direttamente dalla riviera Romagnola. Il loro è un punk rock anni ’90, sporco di una moltitudine indefinita di influenze, la menta aperta è il filo conduttore della band che li conduce dritti dritti ad un punk melodico super veloce. Le pelli vengono macinate all’impazzata, quasi confusionariamente, ma nell’insieme la cosa funziona in modo impeccabile, fanno venir voglia di saltare, o forse più propriamente fanno venire voglia di prendere quel tavolino lì di fianco e lanciarlo per aria, per poi andare ad abbracciare quello che quasi non ammazzavi, sono un miscuglio di sensazioni che faccio quasi fatica a buttare giù a parole, ma

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penso che pazzi scatenati che propongono cover super anni ’90 sia una definizione più che azzeccata. Ho apprezzato molto la nuova formazione, che poi nuova non è, ma è semplicemente un -1. Non mi è mancata una seconda chitarra, ho trovato il tutto molto funzionale e molto in sintonia. Si è conclusa così, tra giri in centro con amici, l’edizione del Sottoponte Fest a cui auguro altre venti edizioni, sempre più ricche. Vi consiglio, spassionatamente, di farci un salto alla prima occasione utile, è come trascorrere una serata a casa di amici, in compagnia di gente nuova, alcool e buona musica.

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