La Guerna

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Pietro Pace

La Guerna

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Pietro Pace

La Guerna

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“Pensiamo come degli dei e viviamo come poveri animali, in semi libertĂ .â€?

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Capitolo I

PERCHÈ Se qualcuno stà leggendo queste righe, significa che esse fanno parte di un libro, di un altro libro, uno in più. Non che me lo abbia ordinato il medico, ma io ho sentito, quasi, il dovere di scriverlo. Non per raccontare la mia storia, assolutamente banale, o forse normale, ma per raccontare la storia di una fine o quantomeno di un passaggio. La fine di un mondo, di un modo di stare al mondo, la scomparsa di una civiltà. Minuscola, isolata, ininfluente, ma pur sempre una civiltà: quella dei montanari della Valvestino e di Moerna in particolare. Nell’arco di cinquant’anni, quelli dopo l’ultima grande guerra, si è consumata la tragedia, già ampiamente prevedibile ma comunque inattesa, subdola e dolorosa. Per secoli, la vita si era srotolata con ritmi, valori e prospettive quasi immutabili, sicure, ma ora tutto stava irreparabilmente cambiando. La saggezza accumulata, di generazione in generazione, non serviva più a nulla; le piccole conquiste costate sudore e sangue perdevano, di colpo, il loro valore, di fronte all’incedere della modernità. Già si incominciava a vedere qualche piccolo pezzo di prato, faticosamente strappato al bosco e reso domestico, divenire prima incolto e poi, nuovamente, selvatico, riconquistato dal bosco. Quello era il segnale, inequivocabile, del cambiamento di rotta. 7


La montagna non più terra di faticosissima ma civilissima conquista, bensì terra abbandonata. Le case dei paesi e i fienili sparsi sul territorio, non più come cuori pulsanti di un organismo sano e laborioso ma come vestigia di un passato lontanissimo dal presente, prive di un futuro ipotizzabile. Il guaio è che un tale quadro, oltre a raffigurare il comune destino di tanta parte dei nostri paesi montani, nasconde storie complicate di persone, prese alla sprovvista dai repentini cambiamenti della storia e spesso incapaci di trovare un nuovo equilibrio. Storie di gente costretta a vivere senza un appoggio sicuro per il piede buttato in avanti, pur mantenendo un solido aggancio, a terra, con quello rimasto dietro. E allora, per dirla con i saggi dell’Africa, “quando non si sa dove si va, almeno si sappia da dove si viene”. Noi di Moerna, noi della Valvestino, non sappiamo se vi sarà un futuro per la nostra terra e questo fatto rende molto incerto il nostro presente, ma abbiamo la fortuna, almeno quelli della mia generazione, di sapere, abbastanza bene, da dove veniamo. Può sembrare poca cosa, ma non lo è. Tutto ciò ci permette di rendere accettabile un presente assai sconcertante, avendo acquisito, dalla nostra storia passata, la capacità di trovare soddisfazione nel poco, serenità nella fatica del camminare quotidiano, tenacia. Se non ti aspetti grandi cose dalla vita e dagli altri perché sei abituato a contare, quasi esclusivamente, 8


sulle tue forze; se ami ed apprezzi la natura come ogni buon montanaro ma sei consapevole che essa si comporta come una madre non particolarmente generosa, significa che, probabilmente, possiedi gli anticorpi tipici di chi è nato e vissuto in questi luoghi. Di chi è vissuto accontentandosi veramente di poco. Questa, che cercherò di raccontare, è appunto la storia di gente che ha saputo e sa accontentarsi, senza, per questo, piegare la testa o arrendersi. Una sera, tutti insieme, si era appena partiti da Moerna, per tornare a casa, a Roè Volciano. Sul sedile posteriore c’erano: Claudia, nel mezzo e ai lati Davide e Valerio, ognuno nel proprio passeggino. Claudia, la più grandicella, aveva quasi sei anni e i due gemelli erano entrati nell’anno dei cinque. “ Guardate che bella la nostra Moerna, con tutte le sue luci, ditele ciao, bimbi”, dissi, guardando la loro mamma, seduta sul sedile anteriore, dal lato rivolto al paese. “ Ciao Guerna “ dissero i bambini all’unisono. Da allora Moerna è stata da noi ribattezzata Guerna. Che sia di buon auspicio. Non ho cercato la precisione nelle date e negli avvenimenti, volutamente, purtroppo lo stile è quello che è, spero soltanto di riuscire a condividere, con voi, un po’ di malinconia, per un mondo che non c’è più, da ieri l’altro.

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Capitolo II

CREDENZIALI Sono un montanaro. Sono nato in un bellissimo e soleggiato paesino, posto a mille metri sul livello del mare: sembra un presepio. Questo paese si chiama Moerna, in Valvestino. Quel mese di luglio, di tanti anni fa, la mamma stava rastrellando il fieno nella “coltüra”, il prato sotto la chiesa di San Rocco, quando decisi che era giunto il momento di venire al mondo. La mamma corse a casa, mandò qualcuno a chiamare la “levatrice” che abitava nel paese di Turano, posto più in basso, ad una distanza di quasi due chilometri. La levatrice arrivò, trafelata, ma il Pierolì era già nato e aveva un bel groppo sul pancino. Il mio papà era capace di fare una doppia magia: quella del profumo e quella della musica. Ogni mattina, quando ancora era buio ed iniziavano i lavori di governo delle mucche, dalla cucina sottostante alla mia cameretta saliva una accattivante melodia, intervallata da degli strani ZZZZZZZZZZ e un pregnante odore, che trasmetteva una dolce eccitazione. Quando divenni più grandicello, anch’io imparai la magia della radio e del caffè nero.

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LUCIA: MIA SORELLA Stavamo giocando con Gustavo, nello stretto corridoio d’entrata di casa sua, che collega la porta esterna con gli scalini, che portano alle camere da letto e alla “ca dei posì”. Prima degli scalini, sulla parete sinistra del corridoio, si apre la porta della cucina, da cui, presumo, eravamo appena usciti. Improvvisamente si aprì la porta che dava sull’esterno e comparve una figura che, da quel giorno, imparai a riconoscere come mio padre. “Corri Pietro, mi disse , vieni a vedere che bella bambina ho comperato, su dalla Menghì”. Non ricordo se andai a vedere veramente mia sorella, appena nata, ma posso dire, con sicurezza, che quell’evento segnò il mio ingresso nel mondo cosciente. Quel misterioso acquisto di mio padre diede a me la consapevolezza della mia esistenza. Mia sorella era nata ed io avevo iniziato ad esistere.

IL DIAVOLO Non saprei dire quanti anni avevo, sicuramente più di cinque, visto che a quell’età risale il mio 12


primo ricordo. Mio fratello ed io dormivamo insieme nella “camerina”, in un letto ad una piazza e mezza, che occupava tutta la stanza e che lasciava solamente un minimo spazio laterale, per poterci entrare. Io dormivo contro il muro e mio fratello verso la porta, probabilmente perché, essendo egli più piccolo, aveva occupato la posizione più comoda per essere accudito. Ancora adesso, però, mio fratello è convinto che, invece, sia stato io stesso, furbescamente, a scegliere quella posizione, poiché più riparata contro la paura e contro le bacchettate della mamma e della nonna. Non saprei cosa dire in proposito. Quella notte mi svegliai di soprassalto, quasi completamente scoperto, immobilizzato dalla paura. Avevo l’impressione che ad ogni mio impercettibile movimento la porta, appena socchiusa, si muovesse, accompagnata da un cigolio sinistro. Provai a confermare questa mia impressione muovendo appena una mano. La porta cigolò. Avrei voluto con tutte le mie forze alzarmi sul letto e raggiungere il perlino della luce, piazzato vicino alla porta, in fondo al letto, ma il terrore mi impedì di farcela: sicuramente si trattava del diavolo, di cui avevo tanto sentito parlare. A quel punto cercai di capire se anche mio fratello avesse la mia stessa sensazione e quindi lo svegliai. “Domenico, prova a muovere un piede”. Subito la porta cigolò. Allora fu il panico. Non rimaneva che una via d’uscita e quindi all’unisono gridammo: pa13


pàààà. Mio padre arrivò immediatamente, accese la luce, ci rimboccò le coperte e tutto finì. MA CHE PAURA

...SEGUITO Non ricordo quale malanno mi avesse costretto a letto ma la cosa non mi dispiaceva affatto: tutti erano preoccupati per me e disposti ad assecondarmi. In tarda mattinata udii del brusio che saliva dalla sottostante strada che porta al “casel”. Qualcuno, poi, alzò la voce. La nonna comparve sulla soglia della porta della mia camera e con fare dolce, ma deciso, mi intimò: non ti muovere, “Pierolì”, giù in strada c’è il diavolo. Avrei avuto tanta voglia di affacciarmi alla finestra della camera dei nonni, per vederlo, ma non osai disobbedire alla nonna.

LA SCUOLA L’asilo non esisteva a Moerna e dunque il ricordo cade al primo anno di scuola elementare. Penso che 14


fossimo in due alunni, la Domenica ed io, in classe con la seconda, nella stanza di sotto della scuola, in piazza. Di questo anno ricordo abbastanza bene soltanto il bagno, inteso come servizi igienici; mi fece una grande impressione la presenza della turca, che non avevo mai visto, benchè il bagno di casa mia fosse, come ebbi modo di scoprire in seguito, fra i più moderni del paese essendo costituito da un buco perfettamente rotondo nel pavimento, da un coperchio di legno con apposito manico e corredato da un secchio d’acqua.

LA GRANDE ARRABBIATURA DEL NONNO Abitavamo ancora nella casa natia, nella contrada dei “Porte” e quindi è probabile che il fatto sia accaduto prima che frequentassi la scuola elementare. Quella mattina si respirava in casa una strana e opprimente atmosfera. Nessuno parlava. Poi il nonno sparì. In qualche modo riuscii a scoprire dove probabilmente era andato e mi incamminai di buona lena verso quel luogo, nel “mut”. Quando lo trovai capii che era contento di vedermi ma troppo arrabbiato per dimostrarlo. Io cercai di rincuorarlo non so di cosa ma fu tutto inutile: per due o tre giorni il 15


nonno non tornò a casa, a dormire, ma si fermò dalla zia, a “corsèt”.

IL CIMITERO Avrò avuto cinque o sei anni e in quel periodo, come sempre in autunno e in primavera, le nostre mucche, la colomba e la varusca, non erano nella stalla dei “Porte”, in paese, bensì nel fienile della “Paül”, che si trova circa sette - ottocento metri sopra il paese. Tutte le sere e le mattine bisognava raggiungere il fienile per governare e mungere le mucche. Il latte munto lo si portava poi in paese, al caseificio turnario, realizzato durante l’occupazione austro-ungarica. Sulla strada di collegamento, appena sopra le ultime case del paese, si trovava e si trova il cimitero. Così, ricordo che quella mattina, prima delle cinque, mi alzai e andai con il nonno nella “Paül”. Era naturalmente ancora buio; appena usciti dal paese il silenzio era totale, l’aria frizzante, pulitissima. Una leggera brezza portava profumi e sibili misteriosi. Per vederci, avevamo con noi una lanterna a petrolio, che io tenevo in mano con una solennità totale. Quella fiammella che gettava bagliori di luce sui nostri passi e quell’odore intenso 16


di petrolio bruciato mi riempivano il cuore di gioia. Arrivammo al fienile, il nonno governò le mucche, le munse e quindi versò il latte nella “buglia” che mi mise in spalla, affinchè la portassi al caseificio. Così mi incamminai, tutto solo. La lanterna non serviva più perché ormai cominciava ad albeggiare. Doveva essere la prima volta che camminavo tutto solo, quasi al buio. Quanti pensieri per la testa e la sensazione di essere circondato da mille presenze. Intanto il cimitero si avvicinava e a me veniva in mente la storia che avevo sentito da non so chi: una volta, una vecchia scommise che sarebbe rimasta una notte intera nel cimitero, a dimostrazione che non aveva nessuna paura. Ebbene, mentre si girava restò impigliata in una croce, con le lunghe sottane che portava, tirò con forza per liberarsi, ma poiché non vi riusciva, la paura le prese la gola e stramazzò a terra. Mentre pensavo a questa storia, improvvisamente, una voce mi fece sobbalzare: “dove vai Pierolì”? “Vado al caseificio”, risposi col poco fiato rimastomi. Era il povero Cesco che andava, pure lui, nella Paül. Ma oramai le bianche mura del camposanto erano lì. Il cuore batteva forte, le gambe diventarono molli, ma svelte. Lo oltrepassai, respirai più profondamente, mi voltai per accertarmi che non vi fosse nulla di arcano e con la sensazione di averla scampata bella, camminai velocemente verso la meta. 17


LA SPEDIZIONE NOTTURNA Ormai l’estate stava per finire e come spessissimo accadeva, quasi tutti i bambini del paese, ci trovammo radunati al “casel”, con l’intenzione di iniziare uno dei giochi del periodo: “tana” o guardie e ladri o pallone ma qualcuno lanciò l’idea di andare in giro per la campagna, sotto il paese, alla ricerca di qualcosa di buono da mangiare. Eravamo all’imbrunire e l’idea parve ancora più avventurosa. Partimmo. La prima cosa che mangiai fu probabilmente un pezzo di carota ma il sapore che non avrei più dimenticato fu quello di una mela, trovata sotto una pianta, che mi sembrò buonissima. Era praticamente buio quando, mentre ci trovavamo al “coletì”, passò il povero Federico, allora sindaco del paese e mio vicino di casa, che stava tornando, naturalmente a piedi, dagli uffici comunali posti nella frazione di Turano, in fondo alla valle. “Cosa fai qui, a quest’ora,” disse; “tua madre sarà preoccupata, vieni a casa con me”. Avrei tanto voluto dire di si, anche perché nel frattempo i miei amici erano tutti scappati via, compresi i due figli del sindaco, ma dissi a me stesso che non potevo tradire la compagnia e che avrei potuto trovare un altro frutto tanto buono quanto quello che avevo appena mangiato. Quando poi arrivai a casa, mia madre era già sta18


ta informata di tutto e per me ci fu un’abbondante razione di bacchettate sulle gambe. A pensarci sento male ancora adesso, anche perché in settembre era ancora tempo di pantaloncini corti.

LA GELATA Lui, l’asino, aveva la sua stalla su dall’orio, in cima al paese. Veramente era un’asina, ma io non lo sapevo. Era di colore bianco e grigio, più grigio che bianco. Ho sempre avuto l’impressione di essere io l’addetto all’asino ed in effetti toccava a me condurlo quando, con il carretto o con la slitta, si doveva trasportare legna, fieno, fogliame o quant’altro. Ma l’asino è importante poiché ad esso sono legati due ricordi, fra i più vivi, della mia infanzia. In una occasione eravamo andati, con mio padre , mio fratello e l’asino, appunto, a prendere della legna, che si trovava in località “mut”. Era una gelida giornata invernale e tutto il panorama era coperto da una spessa coltre di neve. La strada che dovevamo percorrere era lastricata di ghiaccio. Al ritorno, non so come mai , a mio padre cadde la roncola, che si portava appresso e subito rimbalzò sotto il ciglio della strada, in località “coltüra”, subito dopo il ciliegio 19


dei federichi e si mise a scivolare velocemente verso il basso, essendo il posto un dolce ma deciso pendio. Dopo una corsa di alcune decine di metri si arrestò nella strada sottostante, quella che si chiama “delle castegne” . Subito pensai di correre in basso per recuperare l’arnese ma, non appena misi i piedi fuori della strada, mi ritrovai lungo e disteso per terra, rendendomi conto di scivolare velocemente verso il basso. Mentre già pensavo di incominciare ad urlare, mi sentii sbattere violentemente contro qualcosa: era il ciliegio del “tone romano”, che trovandosi prima dellla scarpata più ripida del pendio, mi aveva bloccato. Mi aggrappai felice a quel tronco, conscio che esso mi aveva salvato. Nel frattempo mio padre, vedendomi scivolare in quel modo, senza pensarci un momento, aveva cercato di rincorrermi per fermarmi ma anche a lui era toccata la mia stessa sorte. Egli si era venuto a trovare leggermente spostato rispetto alla mia traiettoria ma il destino volle che, con la punta del piede destro, riuscisse a toccare il tronco al quale ero aggrappato e quindi ad aggrapparsi, a sua volta. A gattoni cercando di conficcare le unghie nella neve ghiacciata riuscimmo a ritornare in strada, dove, attonito, ci aspettava mio fratello. Che sollievo riprendere le briglie del mio asino, per continuare sulla strada di casa. 20


L’ ASINO In un’altra occasione ricordo che con il nonno eravamo andati a Persone a prendere un po’ di fieno. Al ritorno, subito dopo S. Antonio, improvvisamente, mentre noi due stavamo comodamente seduti sulla tenda di fieno, appoggiata sul carretto e parlavamo del più e del meno, l’asino si esibì in una improvvisa e brusca accelerazione, che fece rotolare il nonno giù dal carretto e finire pesantemente sulla terra battuta della strada. A quella vista saltai di slancio dal carretto e corsi dal nonno per accertarmi della sue condizioni. “Corri” mi disse, “cerca di prendere l’asino io non mi sono fatto nulla di grave”. Non me lo feci ripetere e sono certo, battei il record sul miglio, per la mia età, che però non ricordo bene quale fosse. Comunque raggiunsi l’asino, gli mollai una bella bastonata, lo obbligai a fare dietrofront e insieme tornammo a riprendere il nonno, che ancora si toccava la schiena. Quella volta, per la prima volta, mi sentii orgoglioso di aver fatto una cosa utile, buona. Grazie al mio asino, avevo capito di essere in grado di affrontare, con successo, una situazione difficile.

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Capitolo III

PICCOLI SOPRUSI Alcuni uomini del paese erano impegnati a sistemare il muro della chiesa, dietro il coro. Gustavo ed io, lui otto o nove , io sei o sette anni, eravamo intenti a gustarci alcune amarene, arrampicati sulla pianta, nell’orto del Prezioso. Ad un certo punto, senza che nulla ci avesse messo in pre allarme, spuntò, da dietro il coro, uno di loro. Era l’Angelo barberì che si mise ad urlare minaccioso, rivolgendosi a noi. Ebbe luogo una fuga precipitosa. Dai rami della pianta di amarena, saltammo sul muro di cinta dell’orto e da lì, un altro balzo, ci portò sulla strada. Eravamo stati svelti, tutti e due, ma l’Angelo lo fu più di noi e ci abbrancò. Fui stupito nel vedere che il Gustavo si divincolò con estrema facilità, mentre io non ebbi scampo. Il bellimbusto, dall’alto dei suoi vent’anni, pensò bene di prendermi a calci fino a farmi urtare contro il muro e farmi scendere il sangue dal naso. Non piansi una sola lacrima, ma raggiunsi, in piazza, la zia Catina, che subito mi sciacquò il volto, sotto l’acqua fresca della fontana. A quel tempo non avevo ancora capito che era molto vantaggioso essere figlio di un padre importante: il Gustavo era figlio del sindaco ed io di un emigrante. Ma a modo mio gliela feci pagare, all’Angelo barberì! Qualche tempo dopo, con il Gustavo e il Gianni, 23


suo fratello, avevamo costruito tre bellissimi archi dotati di frecce, ricavate dalle stecche di un vecchio ombrello. Un arco a testa. Non restava che partire, arma alla mano. Senza volerlo passammo proprio dalla strada sotto il sagrato, che costeggia, rialzata e delimitata da un muro in pietra alto meno di un metro, il sottostante orto dell’Angelo. Egli stava segando della legna e poco distante da lui, il suo gatto si scaldava al sole, stravaccato su un grosso tronco. Convinto che la nostra presenza non fosse stata avvertita, tirai l’arco, mirai attentamente e scoccai la freccia. Zac, colpito! Miaoooo. Il piccolo guerriero aveva avuto la sua vendetta trasversale. Non restava che darsela a gambe per non essere scoperti. L’Angelo barberì rappresenta, probabilmente, il vero emblema dell’ultimo dei montanari di Moerna e della Valvestino . Il suo orgoglio, a tratti smisurato, lo ha salvato e gli ha permesso di sopravvivere in un mondo di fantasmi; ma lo ha anche rovinato, impedendogli di cambiare, di adattarsi. In realtà, dietro una maschera di durezza che, solo in apparenza, può sembrare superbia, si nasconde un cuore grande così. Quando si cercò tutti insieme, giovani e meno giovani del paese, di collaborare nel tentativo di mettere freno al degrado-declino incombenti, interrogandoci sul nostro nebbioso futuro, egli fu in prima fila, per generosità, impegno, intelligenza e capacità. Ha delle mani d’oro, forza da vendere, 24


onestà. Ma si è chiuso in se stesso, contro tutti o quasi. Non è riuscito nell’impresa che, ne sono personalmente convinto, gli stava più a cuore: farsi una famiglia, trasmettere ai suoi figli il suo entusiasmo, la sua fede nel futuro. Educato con inflessibilità, secondo principi ferrei che dovevano quasi portare al personale convincimento di una qualche superiorità, egli era certamente pronto a primeggiare nel vecchio mondo, nel mondo dei vecchi che stavano, via via, scomparendo, ma impreparato a muoversi, senza impaccio, in una realtà che stava mutando precipitosamente. Era appena conclusa la messa e il don Battista, uscito dalla sacrestia e giunto sul sagrato, annunciò che aveva in canonica una splendida sorpresa per tutti i chierichetti. Noi, i chierichetti appunto, stavamo giocando a pallone ma quell’annuncio catalizzò la nostra attenzione. Non restammo più nella pelle quando il prete ci disse che si trattava di costumi per il carnevale. Personalmente mi sembrò che quell’inaspettata novità potesse essere di una bellezza mai prima conosciuta e fui il più lesto a salire le scale della canonica, tre alla volta, per posizionarmi davanti all’uscio e poter così essere il primo ad entrare. Subito dopo arrivò anche il don Battista, si fece largo tra i miei amici e poi aprì la porta della canonica. Ma subito, mi prese per un braccio e mi impedì di entrare permettendo così che mi sfi25


lassero quasi tutti. Dapprima rimasi mortificato ma quando, entrato a mia volta mi accorsi che sul tavolo della cucina non era rimasto più nulla, provai per quell’uomo un odio feroce. Lo ritrovai, una decina di anni dopo e incrociando il suo sguardo constatai che quell’odio era ancora lì, intatto. Ripensandoci, sono sicuro che egli cercò di impedirmi di entrare, per primo, in canonica, poiché fra tutti ero quello meno adatto ad aiutarlo a raggiungere il suo scopo: accattivarsi le famiglie più influenti del paese, alla ricerca di consensi per la propria scalata nella gerarchia ecclesiastica. Da parroco di Moerna, infatti, egli mirava a diventare decano della Valvestino. Suppongo che fossimo in dicembre, fattostà che mi lasciai convincere, dal Bepino e dal Gustavo, a prendere la slitta che la mia famiglia teneva nella stanza affittata al caseificio, adibita al trasporto della legna e del fieno, allettato dalla loro promessa di venire trascinato, insieme anche a mio fratello Domenico, sulla strada della “sancetta”. Aveva da poco nevicato ed essendo la strada della “sancetta” una lunga discesa, non troppo ripida, che poi finisce in un bel tratto pianeggiante, pensai che il gioco poteva essere senz’altro fattibile. Così, mio fratello ed io, saltammo sulla slitta e ai comandi si misero il Bepino e il Gustavo e giù, lungo la discesa. La slitta prese subito velocità ed allora mi accertai che mio fratello, il più piccolo della compagnia, fosse ben at26


taccato in modo da non cadere ma non ebbi nemmeno il tempo di compiacermi del fatto che tutto era in ordine che subito vidi il Bepino e il Gustavo lasciare di scatto la guida della slitta,abbandonandola al suo destino. Fortunatamente, la slitta scartò repentinamente sulla sinistra e andò a piantarsi contro un palo della staccionata, di filo spinato, che costeggiava la strada. Di nuovo mi accertai della incolumità di mio fratello Domenico e poi, furibondo, volsi lo sguardo verso i due farabutti. Ma non potei fare altro che osservarli mentre se la davano a gambe, ormai lontani, sghignazzando. Mestamente, con le gambe tremanti, riportai, con una certa fatica, la pesante slitta nella stanza affittata al piano interrato del caseificio e comunque felice per lo scampato pericolo, feci ritorno a casa, col mio fratellino per mano.

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Capitolo IV

IL PUGNALE Quell’anno, la Beatrice, la Bruna, l’ Annarosa e non ricordo chi altri, insieme al don Felice, avevano organizzato, giù nella scuola, una pesca. Non avevo mai visto così tante belle cose, tutte insieme. Ma soprattutto rimasi rapito dalla visione della cosa più bella mai vista prima: un pugnale con un fodero intarsiato di pietre preziose. Naturalmente il tutto rigorosamente di plastica, ma che ne sapevo io , allora, della plastica? In quel periodo a scuola avevamo letto un bellissimo libro illustrato che parlava delle avventure di uno strano personaggio che si chiamava Sandokan e che aveva, appunto, un bellissimo pugnale. Il cerchio era chiuso, bisognava avere quel pugnale. Ma come fare. Naturalmente provai pescando qualche biglietto ma il colpo non mi riuscì e i soldi finirono subito. Allora feci una pensata. Tornai a casa, presi un vecchio giornale e ne ritagliai un angolo, perfettamente bianco, delle dimensioni di un biglietto della pesca, presi dall’astuccio di legno una biro e vi scrissi sopra il numero, credo 174, corrispondente al pugnale. Ripiegai per bene il foglietto, chiesi al nonno Gildo le 50 lire della pescata e corsi su, alla scuola. Consegnate le 50 lire, infilai la mano semichiusa nella quale tenevo il biglietto dentro il grosso vaso di vetro trasparente che 29


conteneva tutti i numeri. Feci finta di cercare con indifferenza e poi zac, ecco il biglietto. La Beatrice lo srotolò e lesse: “ numero 174”. Feci l’indifferente ma dentro di me ero al settimo cielo. Dai, dammelo, pensavo, dammelo subito! Lei mi guardò con leggero sospetto ma affascinata dalla gioia incontrata nel mio sguardo, lanciò un’occhiata alle sue amiche e mi consegnò il pugnale. Lo presi, come si prende un oracolo e via, di corsa, a casa e su per le scale fino in camera. Lo guardai qualche attimo ma poi, quasi timoroso che a fissarlo troppo potesse smettere di essere quella meraviglia che mi era parsa per giorni e giorni, lo nascosi sotto il letto. Passarono i giorni e io continuavo a sentirmi inebriato dalla mia conquista, felice come colui che sa di possedere la cosa più bella del mondo. Una sera, mentre mi stavo vestendo, come sempre, per servire la messa, arrivò il don Felice che mi guardò con sguardo truce e mi disse di qualcuno che aveva pescato un numero, alla pesca, al quale non corrispondeva nessun regalo, il numero 174. Io feci finta di non capire e quando ebbi la sensazione che non ci potessero essere altre complicazioni mi tranquillizzai. Mi sentivo in colpa, in qualche modo provavo vergogna per quello che avevo fatto, ma voi non potete capire quanto era straordinario quel pugnale per un montagnino di sette, otto anni: ne valeva la pena. Insieme alla pesca, c’era anche la lotteria. Così, 30


alla fine, si estrassero i numeri vincenti. Ad uno di questi era abbinato un bellissimo mangiadischi blu e poiché quel numero ce l’avevo io, il mangiadischi fu mio. Mi sentivo l’imperatore della Cina, anche se non sapevo assolutamente come farlo funzionare. Ma il bello doveva ancora venire. Le ragazze, come la Bruna, la Beatrice e l’Annarosa, di un po’ di anni più grandi di me, cominciarono a mostrare nei miei confronti un interesse inaspettato. Alla fine fu chiaro che esse volevano soltanto poter ascoltare quella magica scatolina blu, che funzionava a pile, sedute in un prato, ma il fatto di poter essere io a concedere loro quel privilegio mi faceva sentire alquanto desiderato e importante. Un giorno, cinque o sei anni dopo, arrivò a casa, a trovarci, inaspettatamente, il povero zio Quinto. Aveva in regalo per me un disco: “Abbronzantissima”. Felice, volli subito ascoltarlo col mio mangiadischi. Ma lo zio mi bloccò. “Sei sicuro”, mi disse, con tono rispettoso, ma convincente, “di volerlo proprio ascoltare subito? Il nonno Gildo è morto da poco e forse anche tu vuoi rispettare un silenzioso lutto”. Non seppi cosa rispondere, ma la mente fu sopraffatta dal ricordo del nonno e per più d’un mese non osai ascoltare quel disco. E con questo episodio si perde il ricordo del mangiadischi, vinto alla lotteria di Moerna. 31


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Capitolo V

IL NONNO GILDO Fino all’inverno di quell’anno, la mia vita, in collegio, a Brescia, dove mi trovavo, era trascorsa senza particolari problemi e la mia forte identità di montanaro mi dava un quid di energia in più, che mi faceva sentire quasi superiore ai miei compagni, forte della mia unicità. Ma le cose sarebbero presto cambiate. Il povero Agostino di Capovalle che, con la sua grossa macchina familiare, la quale, come tutte le altre macchine, in quegli anni, aveva nell’abitacolo un odore nauseabondo di gasolio e fumo di sigaretta, faceva servizio al pubblico per ovviare alle carenze nei trasporti da e per la valle, venne a prendermi per riportarmi al paese: la nonna Tonina era morta. Si fece il funerale ma la cosa che più mi rattristò fu lo sconforto del nonno Gildo. Mi sembra che sia appena accaduta la scena in cui, mentre il nonno sorseggiava un goccio di vino e io mi scaldavo i piedi nel forno basso della stufa a legna, egli si mise a piangere lamentando la mancanza definitiva della nonna. Io cercai, in tutti i modi, di consolarlo parlandogli del paradiso e del fatto che, un giorno, le cose si sarebbero nuovamente rimesse a posto. Ma ebbi chiara l’impressione che le mie parole non fossero riuscite ad alleviare il suo dolore. Forse per la prima volta nella mia vita provai, sulla mia pelle, il significato della parola compassione, ver33


so se stessi e gli altri esseri umani, tutti accomunati da un destino imperscrutabile. Ma il nonno era un uomo forte e saggio e sicuramente, pensai, avrebbe saputo reagire e dimenticare. Tornai in collegio con un velo di tristezza. Passarono all’incirca tre mesi e l’Agostino si ripresentò: il nonno, anche se forte, non aveva sopportato, evidentemente, la dipartita della nonna. Nei primi anni della mia vita la figura di mio nonno fu fondamentale per la mia crescita, in considerazione del fatto che mio padre si trovava, per gran parte dell’anno, a lavorare in Svizzera. In un colpo solo, dunque, avevo perso un nonno e un quasi padre. Mi vedo, accanto al suo letto di morte, mentre lo fisso alla ricerca di quel respiro così inspiegabilmente assente. Nel frattempo entra nella stanza mia cugina Marianna e mi racconta di come quel periodo sia carico di avvenimenti drammatici e che perfino il nostro parroco, il don Basilio, si sia procurata una brutta frattura ad una gamba, che lo costringe a farsi portare in giro ingessato. “Bell’affare”, penso tra me e me, “cosa vuoi che sia una gamba rotta o la paura per una scossa di terremoto in confronto alla spaventosa immobilità della morte di mio nonno”? Il giorno del funerale, mio padre ed io, prendemmo di peso il nonno dal suo letto, lo riponemmo nella cassa da morto, che ricoprimmo con l’apposito coperchio e di persona volli fissare, col cacciavite, le viti di chiusura. Come allora, mentre scrivo queste righe, mi tremano le mani e vi posso 34


assicurare che, insieme al nonno, quella volta, nella cassa, chiusi parte della mia giovinezza, della mia spensieratezza, della mia illimitata fiducia nella vita. Al mio ritorno, in collegio, non ero più quello di prima: quando il professore di ginnastica ci fece gareggiare sulla distanza dei 100 metri piani, corsi con un potente freno tirato e molti amici mi batterono. Solo pochi giorni prima me li sarei bevuti d’un sol fiato. Qualche anno dopo morirà anche l’Angelina “Giót”. L’Angelina abitava in casa con noi, in piazza. Ce la trovammo lì quando traslocammo dalla casa dei Porte in quella più grande, appunto, lì in piazza. Questa nuova casa fu donata dallo zio Antonio “Cià”, fratello dell’ Angelina Giòt, a suo tempo emigrato in Svizzera dove aveva fatto una discreta fortuna come arrotino e dove aveva conosciuto e sposato la zia Maria, sorella della nonna Rosina, la mamma di mia mamma Angela. Prima che ci trasferissimo, il nonno Gildo e la nonna Tonina, il papà e la mamma, Domenico, Lucia ed io, il papà chiese all’Angelina di scegliere in quali stanze voleva vivere. Da parte sua, le propose di scegliere l’appartamento a piano terra, più comodo e consono per una persona della sua età. L’Angelina aveva circa 80 anni. Lei però gli rispose che non aveva nessuna intenzione di ammuffire giù da basso e si scelse due stanze al piano di sopra, in mezzo alle nostre camere da letto. Dormiva sempre con la luce accesa. Il perché lo capii una notte quando venni improvvisamente sve35


gliato da lei che mi pregò di seguirla, nella sua camera da letto dove, a suo dire, c’era il diavolo che non la lasciava dormire. Cercai di convincerla del contrario e quindi ognuno dei due se ne tornò a dormire nel suo letto: io con qualche perplessità. Credo che per parecchi anni L’Angelina abbia odiato con tutta se stessa la mia famiglia, considerandola come usurpatrice di un ambiente che si era abituata a sentire come solamente suo, anche se molto grande e di proprietà di suo fratello. Tuttavia, con noi bambini, fu sempre rispettosa e in fondo buona e negli ultimi anni della sua vita lo divenne anche con i miei genitori, quando si accorse che erano loro ad accudirla e curarla in tutto e per tutto. Morì serena, nel suo letto, all’età di 96 anni. In segno di riconoscenza lasciò alla mia famiglia i pochi beni che aveva: il campo su alla “Coresa”, quello nei Ruc, quello di Spenarol e quello in Soà, oltre al fienile delle Legherine. Più di qualunque altro essere umano, passata a miglior vita, ha popolato i miei sogni. Nel sonno non riuscivo a spiegarmi come potesse essere ancora lì a parlare con me, quella donna che era ormai morta da tempo ed ogni volta questo arcano interrogativo mi faceva svegliare. Comunque, un po’ per necessità e un po’ per non lasciar chiuse quelle stanze in cui lei visse, accanto a noi, facendole così diventare un luogo di mistero e di paura, poco dopo la sua morte, trasformai la sua cucina nel mio studio e la sua camera nella mia camera da letto. 36


Capitolo VI

LA CRUS Venendo da Capovalle, politicamente ultimo splendido paese del versante destro della Valle Sabbia, in provincia di Brescia, ma geograficamente parte integrante della Valvestino, anch’essa in provincia di Brescia, svoltata l’ennesima curva a sinistra, si vede il cartello stradale che indica: Moerna, altezza slm metri 986. Pochi metri ancora e poi si giunge al bivio: a sinistra per il cimitero, a destra per la valle di Fa e quindi per Persone. Prendendo a sinistra, dopo una salitella, si arriva davanti al cimitero. Sulla sinistra si trova la cappella della Madonna, poi trasformata in cappella dei caduti e a destra, proprio di fronte al cancello di ingresso del camposanto, c’è una grande croce di calcestruzzo, che probabilmente ci doveva essere anche in passato, visto che da essa ha preso il nome la zona. Il cimitero di Moerna ha una forma all’incirca quadrata, con a sud la porta di ingresso, a nord la cappella centrale, nella quale è appeso, sopra l’altare, un bellissimo crocefisso, con a fianco due costruzioni cubiche, nelle quali sono state ricavate alcune urne e quindi i due muri laterali. Sopra il cancello di ingresso si trova un arco nastriforme che poi si continua, a cornice della larghezza di circa mezzo metro, al di sopra di tutto il muro di cinta, alto a sua volta due metri, due e venti. 37


Adesso, anche quello di Moerna è un camposanto come tutti gli altri. Luogo piuttosto triste, di raccoglimento, senza tempo. Ma una volta, oltre a tutto questo, era anche un campo di gioco, di divertimento. Mi spiego meglio. Per prima cosa, va detto che questo era possibile perché, una volta, esistevano a Moerna e negli altri paesi della Valvestino, degli esserini ora in via di estinzione: i bambini. Ebbene, sia davanti che sul lato sinistro del camposanto, ci sono due appezzamenti di terreno abbastanza grandi e piani da permettere di giocare a pallone. Si giocava sempre a una porta sola, che approntavamo velocemente con due bastoni di legno, magari due “frosche” (ovvero pertiche di legno di circa 2 metri usate per far arrampicare i fagioli nei campi) prese da un campo vicino. Immancabilmente il pallone finiva dentro il camposanto per cui, a turno, si doveva andare a riprenderlo. Passare dal cancello, ogni volta, sarebbe però stato troppo facile, per cui era molto più divertente scavalcare il muro di cinta, per dimostrare la propria agilità. Così scoprimmo quanto fosse bello correre lungo il cornicione del muro, a gattoni arrampicarsi sopra l’arco del cancello di entrata, scendere dall’altra parte e via, giungere fin contro le due costruzioni a lato della cappella e arrampicarsi sulla soletta. Avanti e indietro. Poi magari prendevamo di mira la cappella della Madonna nel senso che ci sembrava interessante arrampicarsi 38


lungo il muro su cui era posta e quindi sedersi all’interno e raccontarci le nostre cose. In questo modo il cimitero era diventato un luogo come gli altri e gli unici momenti in cui esso rimandava un’atmosfera tutt’altro che rassicurante era in occasione dei rari funerali o quando, durante le funzioni religiose, il prete intonava: “ Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda” e lo zio Gregorio, con voce triste e tenebrosa, continuava “Quando coeli movendi sunt et terra, dum veneris judicare saeculum per ignem....”. Ci venivano i brividi, anche se non capivamo il significato delle parole. Neanche il povero Luigi Capelì conosceva il latino, probabilmente, ma aveva comunque afferrato il senso di quelle parole e invece di cantare “quando coeli movendi sunt et terra” cantava: “quando vengono i momenti sotto terra...”. Un giorno il Genio di Capovalle venne lì, al cimitero e cominciò a scrostare i muri e a smaltarli nuovamente, con una grana piuttosto grossa e bianchissima. Anche adesso è così: bianco, un po’ sbiadito, ma bianco. Passato il cimitero, a sinistra si diparte la strada dei Ruc e diritto si scende verso il paese. Un centinaio di metri e sulla destra ecco la prima casa. Una mattina, quando ancora non andavo a scuola, mentre felice correvo per andare a messa, prima di svoltare a destra verso il sagrato, vidi scendere dalla strada della croce un uomo, con le braghe tutte rotte e tutto sporco di sangue. Im39


provvisamente la serenità di quel mattino svanì per lasciare il posto ad una certa angoscia. Riconobbi subito il Bruno “Gorgno”di Persone, cugino di mio papà. Gli andai incontro e dandogli la mano lo accompagnai a casa dalla mamma e dai nonni. Tornato di corsa alla messa, feci rientro a casa piuttosto preoccupato, temendo di vedere il Bruno in un lago di sangue. Invece la mamma lo aveva già medicato e qualcuno, con una macchina, lo aveva accompagnato a casa, dalla zia Letizia, a Persone. La mamma, o il nonno, dissero che per l’ennesima volta, mentre cercava di tornare a casa in moto, completamente ubriaco, era finito fuori strada al “Confì”e dopo una notte trascorsa nel burrone, era riuscito a trascinarsi fino da noi. La zia Letizia di Persone, sorella di mio nonno Gildo era una donna buonissima, sempre gentile e ospitale. Ogni volta che con il nonno andavamo a trovarla era un momento di gioia assicurata e la sua voce squillante, una rassicurazione. Non ho mai avvertito in lei un sentimento negativo. Ma la sua famiglia, o meglio i suoi figli, erano un disastro. Il marito, il povero Davìde, non l’ho mai conosciuto. Era morto da anni. Mio padre mi diceva che doveva aver avuto un brutto male al cervello, che lo aveva fatto soffrire non poco. Per resistere al dolore egli si affidava all’alcol e quando vino e grappa riuscivano a prendere, momentaneamente, il sopravvento, gridava, in gesto di sfida: “ti metto a posto io cancro”. 40


Ma invece fu il male ad avere la meglio. Molti anni prima, si trovava, con la zia Letizia ed i suoi due figli, a fare carbone sui monti di Riva del Garda. Venne il momento che la zia, incinta, cominciò ad avvertire i primi sintomi del parto imminente. “Corri” disse a suo marito, “vai giù a Riva a cercare la levatrice, ma fai presto, ti raccomando”. Il povero Davìde partì subito, portandosi appresso uno dei figli ma, giunto a Riva, prima della levatrice, incontrò parecchie osterie, cosicché il vino dilatò alquanto la sua percezione del tempo e i suoi legami con i doveri di marito premuroso. Ritornò dalla zia con suo figlio e la levatrice, qualche giorno dopo. Il nuovo arrivato era, naturalmente, già nato ed era forte come un torello. Complessivamente, la zia Letizia e lo zio Davide, misero al mondo: Gabriele, Beniamino, Piero, Silvestro, Bruno, Gina e Angelo. Tutti ragazzi splendidi. Tutti buoni e con una salute di ferro. Tutti più o meno uccisi dall’alcol e dalle sigarette. L’ultimo a morire è stato Piero. E proprio in occasione della sua morte, qualche anno fa, ho sentito forte il bisogno di mettere nero su bianco le sensazioni vissute. Eccole: “La morte di un uomo è sempre un qualcosa di orribile, inconcepibile, che toglie il respiro. Lo è ancora di più quando si porta via un uomo veramente vivo. Piero era uno di questi. Amava la vita e la gente, le sue radici, i suoi cari, gli amici, il bere e il fumare. La sua amicizia era leggera e discreta, pie41


na di gratitudine. Il suo modo di vivere trasmetteva voglia di vivere, la sua mancanza di preconcetti rendeva gradevole la sua compagnia. E così sembra che con Piero sia morta anche la vita che esso incarnava ed ora chi lo ha amato ha più paura e si sente meno vivo. E’ un’esperienza che procura, a chi la vive, un dolore lacerante. Ti coglie il rimorso per non aver potuto o saputo tendergli una mano, per trattenerlo ancora qui, con noi. La sua agonia silenziosa, in quella inospitale sala di rianimazione è stata un urlo che ha lacerato il cuore e la mente di chi lo ha amato e pensato fino all’ultimo. Quanta disumanità vi è nel non aver potuto bagnargli le labbra e sussurrargli nelle orecchie: coraggio! Com’è dolorosa la via crucis per molti di noi. Di notte, durante il sonno, ti svegli di soprassalto, quasi per controllare se sei ancora vivo, nel timore che la morte, dopo aver portato via chi ora senti di avere tanto amato, non ancora sazia, possa carpire anche te. Oppure no, forse è solo l’esperienza della pietà, della compassione. Non è possibile non sentirsi solidali con la battaglia dell’uomo contro la sofferenza e la morte. E’ possibile che anche se restiamo vivi fisicamente, la condivisione dell’ultimo viaggio di un essere vivente, sottragga una quota parte al nostro esistere. Se poi si cerca di affrontare questa realtà con l’uso della nostra razionalità, allora ci aspetta solo la follia: sofferenza e morte sono misteri 42


così grandi che la nostra mente non riesce neppure a inquadrare. La loro esistenza pare togliere valore e senso all’intelletto e alla razionalità umana. Un sentimento d’amore, la speranza nel domani, il tentativo di costruire pace e serenità non possono ammettere il baratro del nulla, lo sproposito del persempre. Mi viene da pensare che un vero ateo possa essere considerato la quintessenza della contraddizione: vivere, lottare, sperare inseguendo il nulla, il non senso. Un vero ateo o un vero uomo? O la storia tristissima della condizione umana è la dimostrazione, quasi razionale, della necessità di una via d’uscita. Com’è possibile che un sorriso, tanta fatica, tanto amore e dolore, tanta speranza e tanto coraggio, tanta ingiustizia, tanta gioia, portino ineluttabilmente al nulla? Non è possibile pensare che un vero ateo dovrebbe essere anche un vero brigante? Cosa sono la morale e l’etica, il senso civico e l’assoluto bisogno di giustizia se queste cose sono incorniciate dalla morte e appese al chiodo del nulla”?

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Capitolo VII

LA PIERINA La prima casa che si incontra, sulla destra, scendendo dalla via della “Crus,” è quella della Pierina. Adesso è una osteria, ma una volta era una semplice abitazione. L’”ostera” è appunto la Pierina. Il primo ricordo che ho di lei non è molto bello. La vedo ancora mentre, di ritorno da scuola con la mia cartella in mano, appena iniziata la discesa verso casa nella contrada dei “Porte”, lei mi accusa, seriosa, appoggiata con le gambe ai tubi del “fontanì”, di aver rubato a suo figlio la gomma o la matita. Non era vero niente, ma quella fu la prima occasione in cui mi accorsi che era un grave svantaggio avere il papà all’estero, poiché diventava molto facile, per i furbi, addossare colpe inesistenti a quelli che, come me, erano considerati più indifesi. Ma, a parte questo primo ricordo, bisogna dire che la Pierina e la sua osteria sono state, nel bene e nel male, una tappa fondamentale nella storia recente di Moerna. Ci vuole un bel coraggio, per una donna, madre di quattro figli, con un marito lontano per lavoro, nel decidere di aprire un’osteria. Significa rinunciare all’intimità della propria casa, dover fare bella cera a chi non si vorrebbe nemmeno incontrare, lasciare la porta aperta quando si avrebbero mille motivi 45


per sprangarla. La cosa potrà sembrare ridicola ma credo si debba avere una certa riconoscenza, verso queste persone e chi non capisce, probabilmente, non è mai stato in una osteria di paese, di una paese di poco più di cento anime. All’osteria ho trascorso momenti di assoluta serenità. Anche momenti brutti, a dire il vero. Ma è così in tutte le cose. All’osteria ci vanno gli uomini, con i loro pregi e difetti. Così è possibile passare ore serene a giocare a carte o a morra, cantare allegramente e discutere, ma anche litigare, imbrogliare, bere troppo. Ho l’impressione che una volta, per rendersi conto del tipo di gente che viveva in un determinato paese, fosse assolutamente indispensabile passare alcune ore di osservazione nelle osterie. Tanto più che se è vero il detto: vino veritas, allora solo all’osteria sarà possibile riconoscere la vera indole di una persona. L’allegro, nel senso di uno che ha bevuto qualche bicchiere e ancor più l’ubriaco, sa essere veramente se stesso, al riparo da condizionamenti interiori. Allora l’uomo veramente buono o umile sarà tale anche dopo una buona bevuta, mentre il prepotente si manifesterà per quello che è anche se nella vita di tutti i giorni cercherà di mascherare il suo vero essere con finta bontà. O no? Se non frequentavi l’osteria rischiavi di perdere l’occasione per conoscere veramente a fondo le persone con cui vivevi. Era una specie di scuola di conoscenza dell’altro. Ricordo che, una volta, 46


su dalla Pierina, capitò un fatto che può avvalorare quanto appena detto. Il povero Celestino, in preda ai suoi deliri schizofrenici, se la stava prendendo con il povero Lesio, marito della Pierina. Il primo era di stazza circa doppia e in più animato dal suo furore psicotico, anche se non era per niente cattivo, ma si sa, la mente gioca spesso brutti scherzi. Diede uno spintone fortissimo al Lesio che cadde all’indietro e dopo aver travolto alcune sedie, finì addosso ad una finestra. La situazione stava prendendo una brutta piega, ma nessuno ebbe il coraggio di intervenire. Fortunatamente, però, si mosse di scatto il povero Angelo bergamasco, che aveva sposato una donna di Moerna, Agnese, ma che era appunto di Bergamo. Afferrò per le braccia il povero Celestino, gliele portò dietro la schiena e le immobilizzò con una presa di ferro. In pochi minuti ritornò la calma e tutti ce ne tornammo alle nostre case, per pranzare. In quell’occasione avevo iniziato a conoscere un uomo veramente coraggioso. Se non si fosse verificata quella situazione un po’ paradossale e potenzialmente pericolosa, non avrei mai capito che dietro un aspetto mite e un fare da bonaccione, si nascondeva un carattere forte e intrepido. La Pierina aveva preso la licenza del bar dal povero Tone Gì che, prima di lei, faceva osteria giù a Corsèt. In quegli stessi anni faceva osteria e anche, nei primi tempi, albergo, la Tersilia. I montanari sono persone sospettose e que47


sta caratteristica si accentua ancor più se vivono in un paesino di neanche duecento anime. Ci si conosce troppo bene, ci si incontra fin troppo, fino a darsi quasi fastidio e allora, a volte, come in una famiglia, i rapporti sono molto tesi e improntati al sospetto. Questo lo dico perché ho l’impressione che ci fosse una regola non scritta a guidare i comportamenti interpersonali: va bene tutto, viva la compagnia, pronti a dare una mano in caso di bisogno ma: meglio non fidarsi troppo di nessuno. Detto questo, devo confessare che su dalla Tersilia, per parecchi anni, si respirò un’aria di schietta amicizia e di gioia. Negli ultimi tempi, in una fredda serata autunnale ci ritrovammo in sei e si decise di sedersi vicino al fuoco per fare una partita a tresette.” Ah che bella compagnia”,disse il povero zio Gregorio che amava, anche lui, giocare ogni tanto a carte, ma che faceva parte di coloro che non si lasciano mai andare a discorsi scurrili o volgari e che non ricordo di avere mai sentito bestemmiare. “ Certo”, annuì il Bruno, che oltre ad essere molto giovane rispetto allo zio era anche più burlone e meno intransigente, “ è cosi bella che potremmo anche galarci” ( tradotto: esibirci in un’orgia! ). Nemmeno lo zio Gregorio riuscì a trattenere una divertita e aperta risata. Prima del Tone Gì, della Pierina e della Tersilia facevano osteria anche la povera Giuseppa e la povera Menghì. Di quete osterie non ricordo quasi nulla, 48


se non qualche assaggio di marsala, in compagnia del nonno Gildo. Ero troppo piccolo. Della Menghì, che non si era mai sposata, si diceva che da quando il povero Lorens l’aveva lasciata per un’altra, non si era più ripresa del tutto ed aveva preferito restare sola. Anche il paese restò un po’ più solo, in un caldo pomeriggio d’estate, quando le campane a morto annunciarono che lei se ne era andata. Ricordo come fosse ieri che stavo giocando con la Donatella, sotto il sagrato e che quel suono delle campane e quella notizia mi procurarono, per la prima volta nella vita, un profondo senso di abbandono e tristezza. Per la prima volta, mi resi conto che qualcosa di arcano , indefinito e asfissiante, come l’aria calda dell’estate, gravava sul mio paese e su tutti noi: la morte.

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Capitolo VIII

GLI SBERU’ Un opinionista famoso ha recentemente affermato che gli uccelli non volano mai per diletto, ma al solo scopo di ricercare il cibo. Credetemi, non c’è nulla di più sbagliato. Anche voi vi sareste fatta questa opinione, se vi foste trovati, come me, sul sagrato della chiesa di Moerna, in una qualsiasi calda serata d’estate. Non so se era il suono delle campane o il vociare tranquillo dei moernesi, prima e dopo le funzioni religiose, fattostà che qualcosa avvertiva i rondoni che noi eravamo lì ed essi arrivavano. Prima, li sentivi pigolare in lontananza quasi a chiamarsi a raduno e poi il loro canto stridulo aumentava sempre più, finchè lo stormo, compiendo una repentina e spettacolare virata, passava pochi palmi sopra le nostre teste e via, a riprendere un altro giro. Altro che cercare cibo: quegli uccelli volevano avvertirci che anche loro facevano parte della compagnia e si stavano divertendo un mondo. Non so gli adulti, ma vi posso garantire che noi bambini avvertivamo la loro gioia e questa diventava nostra. Ci sembrava di volare con loro e insieme facevamo a gara a chi era più veloce e spericolato. Che spettacolo! Che senso di libertà e di mistero in quel volo spensierato che pareva un richiamo alla gioia, alla comunione fra terra e cielo! 51


La chiesa di Moerna e il sagrato che la fiancheggia, sul lato sinistro, si trova sopraelevata rispetto alla maggior parte delle case, sorretta da un bellissimo muraglione a secco. Sul fondo del sagrato, si trova la sacrestia, come chiaramente lascia intendere la finestra, dotata di robusta inferriata, che lì si trova, alta da terra circa un paio di metri. A ovest il sagrato, che in tutto ha una superficie di circa una ottantina di metri quadrati, è delimitato dal muro di sostegno del giardino della canonica. A sud, una ringhiera che una volta era sostituita da due semplici tubi, delimita il sottostante muraglione e funge da riparo. Sotto il muraglione passa la strada e sotto la strada si trova la casa e l’orto del povero Barberì. Serviva questa approssimativa descrizione del sagrato di Moerna per farvi capire qual’era, per la maggior parte dell’anno, il campo di gioco del pallone per noi bambini. E la porta, naturalmente unica, era l’inferriata della finestra della sacrestia. Non era per niente facile fare gol, ma non serviva però il portiere e questa non era una semplificazione da poco. Il vero guaio era che, quando colpivamo il pallone con troppa forza, questo schizzava via, scavalcava con estrema facilità la ringhiera e finiva quasi sempre nell’orto del Barberì. Chi lo aveva buttato giù doveva andarlo a recuperare. E così, via di corsa a fare il giro del sagrato e non prima di aver bussato alla porta di casa del Barberì per chiedere : “ per favore, 52


posso andare giù nell’orto a prendere il pallone?”, recuperata la sfera di gomma, tutto riprendeva da capo, finchè non sopraggiungeva l’ora di entrare in chiesa o di tornare a casa, oppure il Barberì si stufava del nostro via vai e il pallone rimaneva bloccato nel suo orto. L’indomani però Il Barberì avrebbe sicuramente dimenticato la sua arrabbiatura e tutto poteva ricominciare. Noi giocavamo allegri al pallone sul sagrato e i rondoni volavano a tutta velocità, accanto a noi. A far finire questo incanto furono almeno due fattori: la mancanza di ricambio generazionale e le automobili. Sul primo fattore non c’è molto da dire, esso rimanda alla triste storia di declino demografico della Valvestino, le cui cause sono certamente molteplici, ma possono essere ragionevolmente riassunte nella mancanza di concrete prospettive di sviluppo economico. Al momento, ritengo che l’unica speranza di sopravvivenza per la mia valle, o per lo meno per un manipolo di valvestinesi, sia la proposizione di un turismo sui generis. Intendo un turismo fatto di amore per la natura, di silenzio, cose semplici, poche comodità, aria pulita e coraggio, coraggio di vivere lontani dalle farmacie, dai supermercati, dai centri sportivi. Lo slogan di questo tipo di turismo dovrebbe essere all’incirca questo: “ se vi piace mangiare poco, consumare poco, se non siete in cerca di grandi emozioni ma di crudo contatto con 53


la terra, se non amate la mondanità ma la località, allora venite in Valvestno, il regno della essenzialità”. Sul secondo fattore, invece, qualcosa da dire c’è. Stiamo parlando della invasione, da parte delle macchine, delle nostre strade, dei nostri paesi, delle nostre città. Nemmeno il sagrato della chiesa di Moerna si è salvato. Possibile che non ci si rendesse conto della assoluta inciviltà insita nella scelta di accettare che degli scatoloni di latta rubassero il posto ai giochi dei bambini e al volo dei rondoni? Possibile. E si è trattato di una epidemia. Dappertutto macchine, moto e camion che violentano, rumorosamente, le nostre esistenze e soprattutto quelle dei nostri bambini e anziani. Strade senza marciapiede, che se barcolli rischi veramente grosso, piazze adibite a parcheggio, strisce pedonali inesistenti e/o irrispettate, gas di scarico, polveri, rumore. Il ritrovarsi, il giocare spensierato dei bambini, la sicurezza: ghettizzati. Indietro non si può tornare, ma forse stiamo pagando un prezzo troppo alto, per questo nostro incedere caotico e irrispettoso. Dovremmo, obbligatoriamente, chiedere e pretendere da chi ci governa, la tutela puntigliosa di alcuni valori che rendono accettabile questo nostro cosiddetto progresso, che altrimenti rischia di diventare solo caos, profitto a tutti i costi. A che ti serve avere la possibilità di comperare, per tuo figlio, non una, ma dieci 54


biciclette, se poi il solo pensiero di saperlo in mezzo al caos del traffico ti terrorizza? Che vecchiaia è mai quella che non può godere della possibilità di passeggiare, a passo lento, ricordando? Oramai il gatto si stà mordendo la coda. A forza di correre con prepotenza, le macchine si stanno fermando. Già, il mito della velocità, degli scambi in tempo reale, si sta impantanando in una nuova palude: gli ingorghi. Ne troviamo oramai ovunque, a qualsiasi ora, con qualsiasi condizione del tempo. Sul sagrato, al posto delle macchine, è meglio che ci stiano i bambini a giocare a pallone, insieme ai rondoni, senza per questo negare il progresso. E’ così difficile da capire?

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Capitolo IX

LE BESTEMMIE Doveva essere il periodo di Pasqua, o giù di lì e a Moerna, venne, in visita pastorale, il vescovo di Brescia. Tutto il paese lo stava aspettando su alla “croce”, davanti al camposanto. Finalmente arrivò, scese dalla macchina e già questo fu, per noi bambini, un evento nell’evento. Non era facile vedere automobili, a quel tempo, tantomeno automobili così lussuose. Fece pochi passi e giunse vicino alla prima fila, dove c’era il nostro parroco con alcuni uomini. “ Eccoci qua” disse, “cari moernesi, allora, come va”? Il povero Cesco, senza tante remore, pensando di interpretare il parere di tutti, rispose candidamente: “ Aah, cosa vuole mai, signor vescovo, fa un freddo dell’ostia”! Il vescovo capì, almeno credo. Il povero Trombel era un uomo dal cuore d’oro, abitava in Cadria, con la sua famiglia. Era un bestemmiatore eccezionale. Una volta, il Livio mi raccontò di lui alcuni episodi che meritano di essere ricordati. Egli, il povero Trombel, appunto, era impegnato, in quell’occasione, assieme ai suoi figli, nel trasporto della legna con la slitta. D’inverno, con la neve, tirare a mano una slitta, benché pesante, può risultare opera abbastanza agevole, ma vi assicuro che, durante il resto dell’anno, sono dolori. 57


I figli del Trombel tiravano con tutte le loro forze, ma la slitta sembrava piantata per terra. “Bestemmiate, figli miei”, proclamò il babbo, “vedrete che così la slitta si muoverà”. La festa del patrono di Cadria, San Lorenzo, era ormai alle porte. Come tutti gli anni, salì al paese un frate confessore. Anche il Trombel, da buon cristiano, si volle confessare. Spifferò al comprensivo frate i suoi peccati, o presunti tali e alla fine dovette ammettere di essere un gran bestemmiatore. Il frate gli concesse, come sempre e a tutti, il perdono, accompagnandolo però con l’esortazione a non bestemmiare più. “ Nooh, padre, ribattè d’istinto il povero Trombel, mi tolga tutto, ma non la bestemmia, sarei finito”. Venne il giorno di San Lorenzo e dopo le funzioni religiose, gli uomini del paese si attardarono in piazza a confabulare. Ben presto il frate d’annata si unì a loro. Uno degli astanti si ricordò del rocambolesco episodio occorso, qualche tempo prima, al povero Trombel e lo invitò a raccontarlo al frate. Sulle prime egli fu titubante, ben conoscendo la propria inclinazione a colorire il suo parlare. Ma poi si lasciò convincere. “ Ebbene, padre, deve sapere che quel giorno la bombola del gas, che tenevo in casa, appunto, per far funzionare il gas, prese fuoco. Provai in tutti i modi a spegnere le fiamme, ma non ci fu nulla da fare. Ad un certo punto, quando oramai temevo il peggio e cominciavo a pensare 58


che anche la casa sarebbe andata in fumo, afferrai la grossa mazza che tenevo in cantina ed iniziai a sferrare colpi al rubinetto della bombola, con tutta la forza che avevo in corpo”. Si guardò in giro e fissò tutti con sguardo compiaciuto, consapevole di essere riuscito, fino a quel punto, a mantenere un linguaggio decoroso, quasi forbito. “E poi?” Lo incalzò il frate, “come andò a finire”? “ Miracolosamente”, ribattè fulmineo il Trombel, “ la fiamma si spense e ringraziando il buon Dio, orca M..., non mi è successo niente”. Già: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. A volte, invece, i meccanismi posti alla base del fenomeno delle imprecazioni, erano più complessi e rimandavano alla grande tradizione greco-romana, intesa nel senso del tentativo, più o meno consapevole, di umanizzare il divino. E così, possiamo certamente inserire nell’alveo di questa tradizione, l’imprecazione che sfuggì al povero Federico, che fu, tra l’altro, uno degli stimati sindaci della Valvestino. Durante la sua investitura, arrivarono, a Moerna e negli altri paesi della valle: l’acqua nelle case e l’asfalto sulle strade. Quella volta, egli stava riportando, dal pascolo, le mucche nella stalla, in paese. Ma un vitello si confermò particolarmente vivace e per nulla intenzionato a tornare al chiuso. Scalciando a gambe pari, come un mulo, in una corsa scoordinata e provocatoria, obbligò il nostro a rincorrerlo fino all’esaurimento del fiato. 59


Resosi conto del fallimento dei propri tentativi di riportare l’animale sulla strada di casa, il Federico si fermò, respirò profondamente e guardando fisso al cielo sentenziò: Madonnina... aa...arrabbiata! Credo che un santo abbia sostenuto la possibilità che chi bestemmia sia, in qualche modo, in una particolarissima comunione con il creatore. Bisogna certamente fare di tutto per evitarla, la bestemmia, fìno a farla scomparire dal nostro linguaggio, ma essa è parte della nostra fragile umanità e non è affatto detto che un mangiaparticole, dal linguaggio ineccepibile, sia più salvabile di un povero bestemmiatore. Una volta, durante il periodo del servizio civile, mi trovavo a Roma e riuscii a soddisfare il grande desiderio di recarmi in San Pietro per assistere ad una funzione religiosa e vedere, magari, il papa. Fui veramente fortunato: il papa arrivò e si sedette sotto il pulpito del Bernini, credo. Ma, subito, rimasi tra lo stupefatto e l’incredulo: tutti battevano le mani, rumoreggiando. “Dove sono capitato” , pensai. “Questi devono essere tutti imbecilli”. Mi aspettavo raccoglimento e trascendenza all’ennesima potenza e trovavo , invece, una forma di espressione da spettacolo, da commedia. Cosa c’era mai da applaudire in una chiesa. Ve la immaginate una folla plaudente davanti al Cristo che risorge. Sarebbe pure possibile, magari, perché non vi è limite alla nostra brama di spettacolarità. No, Gesù non dà spettacolo. Fatto60


stà che, mentre facevo questi pensieri, la funzione religiosa continuava e ogni tanto, la platea applaudiva. Sentii, dentro di me, un profondo disagio e mestamente lasciai la basilica. Oggi, ripensandoci, mi viene da sorridere. Come avrebbe potuto reagire, un introverso montanaro, nel baillame di San Pietro? Uno abituato a sentire bestemmie di ogni tipo, lassù in mezzo ai suoi monti impervi, ma assolutamente non abituato a prendere il sacro tanto sottogamba da farlo diventare occasione di spettacolo? Lasciati i miei monti per gettarmi a capofitto nel lavoro, in quel di Brescia, udii sempre meno bestemmie ma incontrai figli di buona donna a iosa, dal linguaggio estremamente forbito, colto, adeguato. Più parlavano bene, più ti fregavano, senza mai il coraggio di guardarti dritto negli occhi, alle spalle. Non giustifico i miei compaesani bestemmiatori, dico che le cose più vili le ho viste fare da gente che non ho mai sentito bestemmiare. Quindi si potrebbe dire che non basta non bestemmiare per essere uomini migliori. Come, del resto, non basta scrivere libri senza bestemmie o girare films altrettanto puliti, per non essere blasfemi.

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Capitolo X

GLI ARCHETTI Adesso il pensiero di ripetere quell’ esperienza mi inquieta assai e credo che difficilmente riuscirei ad agire, se non spinto dai morsi della fame; eppure, allora, il momento di “mettere giù” gli archetti, era uno dei più belli e attesi, di tutto l’anno. Arrivato settembre, tutto cominciava a cambiare: l’aria era più frizzante, i colori, dal verde iniziale, passavano alle varie tonalità del giallo e del rosso; qualcosa di indefinito faceva pregustare la voglia di chiudersi in casa, accanto al fuoco, magari intenti a cucinare un bello spiedo, con polenta, mentre fuori le prime nebbioline parevano annunciare l’arrivo, sempre imprevedibile, dei primi fiocchi di neve. E così settembre, oltre ad essere il mese in cui le mucche ritornavano dagli alpeggi, nei campi si raccoglievano le patate ed iniziava un nuovo anno scolastico, altresì era il mese in cui, praticamente ogni famiglia, si sceglieva un tratto di bosco, dove posare gli archetti. Addirittura i vecchi ricordavano che, un tempo non molto lontano, le zone degli archetti venivano messe all’incanto, sul sagrato della chiesa, dopo la messa domenicale, di non so quale domenica d’agosto o di settembre. Il fatto è che non tutte le zone erano uguali, nel senso che alcune erano più “buone”, ovvero davano maggiori possibilità di catturare gli 63


uccelli. Come all’osteria, chi prima arrivava, meglio stava. Quindi si partiva, podetta ( roncola ) in vita e rastrello di ferro in spalla. Attenzione a non essere visti o a esserlo il meno possibile e via, al lavoro. Bisognava scegliere un bosco non troppo alto, altrimenti gli uccelli non avrebbero visto, dall’alto, le pasture e poi si procedeva a “tesare”. Praticamente si creava un sentiero, bello ordinato e pulito, da un lato del quale, appoggiate alla vegetazione, lavorata quasi a formare una siepe, si preparavano dei pezzi di ramo intaccati da un lato e perpendicolari al terreno, sui quali si sarebbero poi appesi, in un secondo tempo, gli archetti. Il lavoro veniva fatto con molta cura e con molta gioia, derivante dal fatto di essere immersi in uno scenario naturale di incontaminata bellezza e dalla consapevolezza che il realizzare un buon lavoro avrebbe significato venire presto ripagati con sicuri frutti, cosa questa non molto usuale in una terra, posta a mille metri sul livello del mare, non particolarmente prodiga di frutti, ma piuttosto di fatiche. Non so perché, ma ho l’impressione che si sospendesse il lavoro quasi sempre all’imbrunire e questo dava al tutto un alone di magia e di proibito, come era in realtà. Non si ritornava a casa a mani vuote ma piuttosto ci si premuniva di tagliare quanti più possibili frasche, che sarebbero servite per confezionare gli archetti. E bisognava sceglierle del legno adatto, molto elastico e flessibile, caratteristiche 64


non comuni a tutti i tipi di legno. Si raccoglievano anche dei bastoncini del diametro di un centimetro circa e di lunghezza indefinita, che sarebbero serviti per fare le chiavi, componente indispensabile per rendere l’archetto quella trappola micidiale che esso è. Gli archetti venivano confezionati o sul posto o a casa, tra una faccenda e l’altra. Quindi si procedeva alla posa: un archetto “ teso”, cioè pronto con la chiave inserita, circa una spanna sopra la chiave un po’ di pastura, per attirare gli uccelli, uno spazio variabile, in media di tre o quattro metri e quindi un altro archetto e così via. In seguito, almeno due volte al giorno, si andavano a “vedere”. Ora, come vi ho già detto, non potrei più rifare tutto ciò, non lo considero, più, giusto o, come direbbero alcuni, etico o morale ma credetemi, quei gesti, quelle sensazioni, quelle paure e quelle gioie, quel cibo a buon mercato, tutto ciò era poesia. In autunno, tutti, i più benestanti e i più miserabili del paese, con un minimo di inventiva e di tecnica, potevano procurarsi un pasto sicuro, e che pasto: polenta e uccelli, poesia. Bastava l’odore che usciva dai camini fumanti e pervadeva tutto il paese per mettere il buon umore, figuriamoci quando si sapeva che il profumo proveniva dalla propria casa: poesia.

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Capitolo XI

SOA’ La Valvestino, con un po’ di fantasia, può essere immaginata come un castello in cui le mura di cinta sono rappresentate da una catena circolare di montagne, tutte all’incirca dell’altezza di 1500-2000 metri, con al centro una zona rilevata e strategica, costituita dal promontorio naturale sul quale si erge la chiesetta di S. Rocco. Soà è il versante rivolto a sud-ovest del suddetto promontorio. Si tratta di un grande pendio scosceso, trasformato nel tempo fino a diventare un classico terrazzamento, dove i piani erano adibiti a campi e i tratti ripidi riservati al fieno o alle piante da frutto e non. Il tutto, naturalmente, ripetuto innumerevoli volte: un campo, un piccolo pendio di sostegno, un corredo di alberi. Potrebbe sembrare poca cosa, ma vi assicuro che si tratta invece di un paesaggio favoloso, del frutto di secoli di sapiente e paziente lavoro. Dei piccoli e ripidi sentieri collegano le varie zone e si spingono fino al più lontano appezzamento che, essendo di proprietà, manifesta, in certo qual modo, l’impronta del proprietario: un certo tipo di piante, un tipo di coltivazione, una cura più o meno visibile dell’insieme. Spesso l’accesso ad un appezzamento era parzialmente mimetizzato da una barriera di vegetazione, 67


nella quale passava il sentiero che poi si apriva, improvvisamente, nel campo o nel prato, ed ogni volta sembrava di entrare in una diversa realtà. Queste sensazioni erano vissute quasi certamente più dai bambini, che dagli adulti, i quali conoscevano molto bene anche la fatica che questo piccolo universo significava. La terra era poca, la roccia tanta e dura, l’acqua non esisteva, se non quella piovana; quello che si riusciva a produrre, veniva trasportato quasi esclusivamente a spalle. Ma il tutto era magico, sottolineo era, poiché adesso non rimane che il ricordo e l’attuale situazione di abbandono.

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Capitolo XII

LA STRADA DELLA COLTÜRA Venendo da Ve, passando attraverso il Mut si arriva a Strabois e qui la strada, uscita dal bosco, compie un’ampia curva panoramica a sinistra. Basta alzare un attimo lo sguardo e si è avvolti dalla luce. Diritto davanti a voi, un po’ a sinistra, appare Moerna, in posizione dominante. Un po’ più a destra, in fondo, ecco Persone, appollaiato ai piedi delle piccole dolomiti della Valvestino. Più a destra ancora, assolato, seminascosto, c’è Armo. Poi lo sguardo viene calamitato verso il fondovalle, alla ricerca di altri segni di vita. Si vedono però solo strade, prati, alberi e qualche fienile. Ma noi, che siamo nati quassù, sappiamo bene che là sotto c’è un altro paese: Turano. E così, se mai non foste, per qualsiasi motivo, in grado di sapere, con esattezza, l’ora, e fosse giunto il momento, allora, ben quattro campanili diversi, tre visibili e uno no, vi darebbero la giusta informazione, all’unisono o lievemente modulati fra loro. Alla fine della curva, sulla destra, ecco, quasi sul ciglio della strada, la pianta di noce del povero Fedele, poi, passata la valle del povero Tone Meca, dopo una breve salitella, si arriva nella piana della Coltüra. Sempre sulla destra, ci sono le due piante di ciliegio del Povero Federico e più in basso e in avanti, quella del povero Tone Romano, che salvò 69


me e mio padre, in occasione della gelata degli anni sessanta. Al centro della piana, sotto la strada, c’è l’amarena e sopra la strada il ciliegio del povero Andrea Barberì e dopo pochi passi si arriva al ciliegio, anch’esso sotto la strada, dei Vai. Una dolce discesa, lievemente curvata a sinistra, ci porta al bivio con la strada che porta giù alla Masa e quindi, subito dopo, alla sancetta della Madonna. Prima del bivio, appena sotto il ciglio della strada, ci fanno ombra due bei ciliegi e un noce dei Ferrari. Vicinissimi alla sancetta, i noci sono due, uno sotto e uno sopra la strada, quello sotto del povero Firmo e quello sopra, già della povera Angelina Giòt, ora nostro. Quasi perfettamente piana, la strada continua poi fino ad arrivare alle piante di ciliegio e noce dei Barberì che, sotto la strada, paiono volervi proteggere dal scivolare lungo la ripida, ma non troppo, scarpata sottostante. In questo punto, la strada compie una panciuta curva a circondare il dosso del povero Albino e quindi, dopo pochi metri ancora piani, comincia a salire lungo la “rata della sancetta”. Subito all’inizio della salita, sulla destra, parte il sentiero che porta nei Fose’ e immediatamente dopo c’è il campo del povero Comincioli, separato dalla strada da un muro di sostegno, non per il campo, ma per la strada, appunto, che si trova leggermente sopraelevata rispetto ad esso. E quindi, tra due staccionate di legno e filo re70


ticolato, si sale incontrando, sulla sinistra, le ciliegie nel prato del povero Lesio e sulla destra quelle nei prati dei Ferrari, del povero Milgio e del povero Luigi Bora. A questo punto siamo arrivati in paese e passiamo tra due case, a sinistra il caseiďŹ cio e a destra la casa che fu del povero Milgio. Siamo arrivati.

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Capitolo XIII

IL MONTE STINO Il monte Stino, altipiano appollaiato sopra il paese, come nel caso della siepe di Giacomo Leopardi, rappresentava, per noi bambini, l’infinito; la finestra sul mondo. Ma ancora più magica e profumata era la ricorrente comparsa delle viole di Stino. Ogni primavera, infatti, il dolce pendio che dal lato occidentale costeggia la strada, che appena uscita dalla pineta, divenuta quasi piana, porta ai primi fienili, si copre di un manto vellutato, turchese, di viole. Arrivare, dopo circa un’ora e mezza di camminata, dai mille metri del paese, ai mille e cinquecento del monte ed essere accolti da un simile spettacolo della natura, per poi liberare lo sguardo verso un orizzonte che mano a mano diviene più ampio e sconosciuto, bastava a farci provare un’ebbrezza indescrivibile. Quei prati ampi, verdi, sconfinati, erano un irrefrenabile invito a correre, a saltare. Se il mondo esterno, lontano, era come il monte Stino, allora doveva senz’altro essere bello. Ho l’impressione che il fatto che i Moernesi venissero apostrofati come zingari, data la loro tendenza a lasciare il paese, in cerca di fortuna, possa trovare, in parte, in questa fiduciosa esperienza del monte Stino, la propria spiegazione. Per arrivarci, partendo da Moerna, si deve camminare, come dicevamo, per circa 60 - 90 minuti, a 73


seconda delle proprie gambe e del proprio fiato. Innanzitutto, si deve raggiungere la Paul, passando o dalla strada delle Alberele, o dal sentiero dei Ruc o dalla mulattiera di Poral. Qui, nella Paul, a nord del paese, i prati coltivati finiscono, per lasciar posto ai boschi e ad una prateria sui generis. Vale a dire che, se consideriamo la prateria come una zona pianeggiante, ciò, nel nostro caso è vero solo in parte, poiché alle piane della Paul e della Bösca, si devono sommare i Dos, ovvero un ampio e dolce dosso di collegamento fra le due piane. Al centro della piana della Paul si trova uno stagno che, insieme alla rigogliosa vegetazione, alla lunga siepe naturale di separazione fra prati e boschi, alla presenza dei Fienili ed alla particolare conformazione dei prati coltivati, che , come un’ampia terrazza, permettono, in ogni punto, di aprire lo sguardo verso la corona di montagne che circondano la Valvestino e a sud, verso il Garda e il più lontano orizzonte, conferisce a questo posto un non so che di intimo e rassicurante. Lasciata, a malincuore, la Paul, è consigliabile prendere la mulattiera del Saresì, che delimita a nord-ovest il Gas e dopo circa un quarto d’ora, sbucare nella Bösca: altro posto incantato. Qui, lo stagno non si trova al centro della piana ma spostato sul lato ovest mentre, sul lato sud, un dolce promontorio è trapassato da una galleria a fero di cavallo, reliquato della grande guerra e luogo di mistero, per noi bam74


bini, che lì ci trovavamo per gioco o al pascolo con le mucche o le capre. Ma la cosa più bella della Bösca è senz’altro il faggeto che si trova sul lato nord: faggi secolari a formare una macchia d’ombra e di riparo all’ascolto, se si è capaci di sentirlo, del vento che gioca con le foglie. Subito dopo il faggeto si può bere alla fontana della Bösca, alimentata dall’acquedotto, costruito dagli austriaci, prima della guerra, e che, partendo dal Valù da Olva, a metà fra le pendici e la cima del monte Stino, porta l’acqua in paese. Ancora pochi passi e si arriva in un punto magico: “entrà le vie”. Fra le strade, all’incrocio o come lo si voglia chiamare. La mulattiera del Saresì finisce ad angolo acuto insieme, sulla sua sinistra, alla strada della Bösca , a destra inizia la strada della Coca, in mezzo la mulattiera che ci porterà a Stino e sulla sinistra, verso nord, la strada delle Grole. Un incrocio di strade formidabile, per noi bambini: quante fantasie a pensare a tutte quelle possibilità di raggiungere posti sconosciuti e senz’altro meravigliosi e nello stesso tempo, la sensazione di trovarsi in un punto cruciale, non solo di arrivo ma anche di partenza. Come d’accordo, noi prendiamo la mulattiera per il monte Stino. In mezzo ai boschi, la strada , irta, sale fino ad un punto dove si fa più dolce, lascia intravedere il verde dei prati di Stino che si spingono, in basso, lì vicino, con una lingua ospitale, ed è delimitata, sulla destra, da un grosso masso dolomitico, 75


che chissà come ha fatto a finire lì e a sinistra dalle chiome di un grosso abete i cui rami, noi, usavamo per lanciarci, imitando Tarzan, prima di riprendere il cammino verso la meta. La strada ricomincia a salire decisamente, ma oramai la luce si fa sempre più intensa e improvvisamente ecco, i sassi finiscono e incominciano i mitici prati di Stino.

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Capitolo XIV

IL CARBONAIO Il Vittorio e suo papà, il povero Angel, quell’anno, subito dopo la guerra, erano andati a fare carbone in Valisna, dietro il monte Tombea, a cinque-sei ore di strada da Moerna. L’Angel soffriva di stomaco e quella notte i dolori si fecero via via più forti. Ad un certo punto divennero insopportabili, accompagnati da conati di vomito ematico. Non rimaneva che partire in cerca d’aiuto. Le ombre della sera si allungavano sempre più ma il Vittorio, benché appena bambino, non si perse d’animo e si mise in cammino, destinazione Moerna. Percorse tutta quella strada col cuore in gola e col pensiero fisso a suo padre che stava male, dentro la baracca in Valisna. Verso le ventitre, o la mezzanotte, giunse dalla mamma che, messa al corrente della situazione, chiamò qualcuno della parentela e si mise subito in cammino, non prima di aver messo il Vittorio a letto, intimandogli di riposare. Ma, trascorsa più di un’ora, il Vittorio non riusciva a chiudere occhio. Gli pareva di sentire suo padre lamentarsi per i dolori allo stomaco. Saltò fuori dal letto, si infilò i pantaloni e ripartì come un fulmine. Raggiunse la mamma e lo zio a metà strada. In qualche modo, riuscirono a organizzare il trasporto dell’Angel all’ospedale di Riva, ma fu tutto inutile. Di carbone si poteva anche morire. 77


Quando andava meglio, i guadagni erano comunque assai magri e la vita piuttosto dura. Una volta individuato il luogo dove sarebbe stato possibile tagliare la legna per fare carbone, ci si preparava a partire. Si metteva insieme l’indispensabile: un po’ di farina, di formaggio, magari una capra per il latte o una gallina per le uova, roncola, scure, sega, ramino e un piatto e via. Giunti sul posto, bisognava trovare il luogo più adatto per costruire la baita, ove dormire. Vi lascio immaginare il lusso che ci si poteva concedere. E poi al lavoro, dall’alba al tramonto e una volta imbastita la carbonaia, anche di notte, per evitare che la legna prendesse fuoco, mandando letteralmente in fumo tutte le fatiche. Non che quelli rimasti in paese avessero una vita molto più comoda, ma almeno potevano far rientro a casa per mangiare e dormire, oltre a poter condurre una normale vita di relazione. Anche qui, comunque, i guadagni erano scheletrici. A maggio le mucche partivano per gli alpeggi e ai primi di giugno, si iniziava il primo taglio del fieno (el fe). Finito il taglio del “fe magher”, su a Stino, era già ora di iniziare il secondo taglio (il taglio del cors) cosicché, di taglio in taglio, si arrivava alla festa di San Bartolomeo, alla fine di agosto. Guadagni: zero. Fatiche: tante. Mio padre mi raccontò che una volta, col nonno, si trovarono a carbonare in un luogo infestato dai 78


serpenti. Ne trovavano dappertutto: nel letto, nella dispensa, nel ramino del latte. A tal proposito mi disse che un giorno, lì vicino a loro, un serpente era perfino entrato in gola ad un ignaro carbonaio, che stava dormendo. Del rettile si vedeva solo la coda, che sbucava dalla bocca del malcapitato. Avrebbe potuto succedere di tutto. Subito presero una ciotola, colma di latte e vi immersero la coda della vipera, giacchè è risaputo che ai rettili piace molto il latte!? Accadde il miracolo: si vede che il rettile avvertì il contatto della coda col candido liquido e piano piano fece marcia indietro, uscì dalla bocca e il carbonaio fu salvo. Probabilmente si tratta di una leggenda, come tante altre, visto che, in mancanza di giornali, radio e televisione a farla da padrona era la fantasia.

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Capitolo XV

IL POVERO ORSO Doveva aver lasciato, anche nella mente di mio nonno, un profondo solco, la vicenda tragica che più volte mi raccontò: La storia del povero Orso. Orso era il soprannome dato ad un pacifico e laborioso montanaro di un paese abbastanza vicino , che possedeva e accudiva con diligenza un certo numero di mucche da latte. Un giorno, mentre pascolava sereno le proprie mucche, venne avvicinato da due o tre uomini con un pretesto e come risposta alla sua pronta ospitalità, venne selvaggiamente aggredito, per essere derubato ed alla fine ucciso, nonostante una tremenda difesa, da lui opposta, come solo avrebbe potuto fare un uomo chiamato orso. Questa storia mi ha sempre fatto venire i brividi alla schiena e mi ha riempito il cuore di angoscia. Pareva voler dire: puoi essere forte e preparato quanto vuoi ma se il destino ti mette sulla strada un male troppo grande e crudele, non c’è nulla da fare.

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Capitolo XVI

IL POVERO BORTOLASO Il Bortolaso era proprio di Moerna. Non come il povero Orso, che poteva essere solo immaginato, ma proprio in carne ed ossa, come fosse una sua materializzazione. Era forte come un orso, appunto. Credo di ricordare che il povero Varisto sosteneva che i fascisti lo avessero arrestato ed imprigionato poiché egli non aveva nessuna intenzione di sottostare alle piccole e grandi angherie di quel regime. Una volta, insieme ad altri moernesi, stava scavando, dentro il cimitero, la fossa per qualcuno. Mentre lavoravano sodo di piccone e badile, l’argomento della discussione divenne la particolare condizione degli uomini considerati santi ed in particolare la peculiarità del fatto che essi siano proclamati tali, solo dopo molti anni dalla loro morte. “Sapete”, sentenziò il povero Bortolaso, “perché li fanno santi dopo così tanti anni?” “Perché?” “Perché così risulta oramai impossibile ricordarsi di tutte le brutte figure da essi rimediate, durante la loro umanissima vita”. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse, in gran parte, in Piombì. Piombì è un fienile situato sul versante del monte Stino opposto a quello dove si trova Moerna, ovvero il versante che si affaccia sul lago d’Idro. Si tratta di una località oltremodo isolata, senza acqua e luce, 83


nascosta. Chissà cosa lo spingeva a ritirarsi lassù e comunque quanto coraggio e quanta dignità o dolore in una tale scelta. Su al Dòs, dove c’è la sua casa in paese, lo si poteva incontrare, spesso, intento a confabulare con il suo vicino, il povero Casara, seduti sulla panchina appoggiata al muro di sostegno della strada dell’Orio. Era veramente bravo a costruire le “bene”, ovvero delle grandi ceste a forma di vasca da bagno che servivano per il trasporto di svariati materiali e soprattutto del letame, per la concimazione dei terreni. Una volta il Vittorio mi raccontò che mentre lui percorreva un sentiero nelle vicinanze, lo vide mentre rientrava da Piombì trascinando una slitta stracarica e in prossimità dello stagno della Paul questa gli scartò di lato, si inclinò su un fianco e parte del carico finì nello stagno. La stanchezza e la rabbia del Bortolaso si manifestarono in una serie di bestemmie interrotte solo dalla necessità di riprendere fiato, nello sforzo di recuperare il carico e rimettere la slitta sulla strada. Terminata questa operazione egli, con gli occhi rivolti in alto sbottò: “Che tutte le bestemmie che ho dovuto pronunciare vadano in olocausto ai poveri morti”. Credo che un uomo che dice cose del genere non possa avere avuto paura della morte e nemmeno del Padre Eterno: era perfino in grado di litigare con loro. Adesso la sua casa è vuota, uno dei suoi figli è già morto, un altro è anziano, ma forte come lui e gli altri due, maschio e femmina sono lontani. 84


Capitolo XVII

IL POVERO CESCO Nei primi anni della mia vita il Cesco era mio vicino di casa. In mezzo abitava il povero Candì. Tutti abitavamo nella contrada dei “porte”, così chiamata perché, la maggior parte dei capofamiglia, portava il cognome Porta. Il Candì viveva solo, poiché aveva lasciato la sua famiglia. Il Vittorio sosteneva che non si era sempre comportato molto bene, giacchè succedeva troppo spesso che dalla Francia, dove era andato a lavorare, egli non mandasse, con la dovuta sollecitudine, i soldi a casa. Un conto è entrare in disaccordo con la propria moglie e quindi scegliere di lasciarla, altra cosa è dimenticarsi dei propri figli. Io però lo ricordo come un uomo buono, soprattutto quando prometteva di comperarmi un gelato, o meglio un “sorbet”, come egli lo definiva, alla francese, se avessi accettato di andare a comperare, per lui, le sigarette all’osteria. Ormai vecchio, soleva passare molte ore sdraiato sulla pietra del camino, rischiando più volte di prendere fuoco. Una volta la contrada dei porte entrò in grande fermento. Tutti erano parecchio agitati o almeno a me, bambino di 4 o 5 anni, così sembrò. Dopo un po’ si capì il motivo. La bombola del gas del Candì aveva preso fuoco e c’era il rischio che scoppiasse, con le conseguenze facilmente immaginabili. Ma cosa fare? 85


“forse è meglio chiuderla urlò qualcuno” “ No è ancora peggio”. E allora? Adesso verrebbe spontaneo chiamare i pompieri, ma allora nemmeno si sapeva della loro esistenza. Ad un certo punto vidi mio padre che usciva di gran lena dalla porta del Candì, tirando una catena, alla quale, vidi poi, era attaccata la bombola, che sembrava un grosso “folmenant” ( fiammifero ) acceso e la lasciò in mezzo al cortile. Dopo qualche minuto, probabilmente poiché il gas si era esaurito, la bombola si spense e ritornò la calma. A pensarci oggi, ai rischi corsi da tutti e soprattutto da mio padre, mi viene la pelle di gallina. Per fortuna andò bene. Ultimamente il Cesco camminava ricurvo, quasi a novanta gradi, causa l’artrosi e le fatiche accumulate, ma lo spirito era diritto, indomito. Negli ultimi anni soleva trascorrere l’inverno a Verona, da sua figlia, ma quell’anno cambiò idea. Di anni lui ne aveva oramai 86 o 87 e sarebbe stato più logico che anche quell’inverno lasciasse la casa del paese, fredda e solitaria, per vivere in un caldo appartamento. Non ne volle sapere. Passò i mesi autunnali a procurarsi la legna per riscaldarsi. Non che ne avesse proprio la necessità e certamente, in caso di assoluto bisogno, ci avrebbero pensato i suoi parenti, ma per lui era una questione di orgoglio e un modo meraviglioso per continuare a sentirsi vivo. Nell’agosto di quell’anno, una domenica pomeriggio, arrivò all’osteria della Tersilia, per fare 86


una partita a bocce. Ne giocò più d’una, ma le perse tutte. Gli avversari erano tutti molto più giovani e allenati di lui. Tornò a casa, si cucinò qualcosa per cena e poi su, di nuovo dalla Tersilia, per prendersi la rivincita. E se la prese. Non so se per bravura sua o perché gli avversari avevano compreso il suo coraggio e lo avevano bonariamente assecondato. Tornò a casa a notte fonda, felice. Un pomeriggio di settembre, dopo un viaggio di legna, sulle spalle, da Soà, fino a casa sua, venne a trovarci a casa mia, in piazza. Si accese una sigaretta, sorseggiò con gusto un bicchiere di rosso e quindi mi mostrò il petto ricoperto da un “rasaròt” ovvero un impasto di resina, che aveva raccolto nel bosco. “Perché vi siete messo quel coso sullo stomaco?” Chiesi incuriosito. “Perché, a volte, mi fa piuttosto male e mi sembra che questo impacco mi faccia bene”. Ero studente di medicina al primo anno e intuii che qualcosa non quadrava del tutto. “ Attento” gli dissi “Cesco, potrebbe essere il cuore e allora la cosa sarebbe seria. Dovreste andare dal medico per farsi fare degli accertamenti, almeno un cardiogramma o magari andare anche all’ospedale. E poi dovreste stare molto attento con le sigarette che sono un vero veleno. Dovreste smettere di fumare”. “Per Dio, Pietro”, replicò con accento che non prevede replica, “ non dirmi di smettere di fumare, mi è rimasto solo quello”. Lui non me ne parlò mai ma, quando ancora non ero nato, aveva 87


perso un figlio ancora piccolo. Mentre giocava con la sorella, cadde nel fuoco del camino e urtò un recipiente, pieno di acqua bollente, che rovesciandosi, gli procurò ustioni troppo gravi. Così non ho mai conosciuto Angelo, il figlio del povero Cesco. Mi hanno raccontato che per il dolore e la disperazione, in quel periodo, il povero Cesco urlava giorno e notte poi, la vita gli concesse nuovamente un po’ di pace, almeno apparente. Sua moglie, la povera Rachele, era una donna schiva e un po’ depressa. Me la ricordo appena. Il Cesco si lamentava spesso perché sua moglie, mentre ancora egli mangiava quello che aveva nel piatto, gli faceva sparire posate e bicchiere e lo incitava a sbrigarsi, poiché doveva sparecchiare il tavolo. Ma perché tanta fretta? A pensarci bene si potrebbe dire che forse la Rachele non si fidava più della sorte e temeva di lasciarsi andare e godere di un piacere della vita, come quello conviviale. Era già stata troppo scottata da quell’acqua bollente che aveva ucciso suo figlio. Morì molti anni prima di suo marito. Il vero amore, il paradiso terrestre, il refugium peccatorum, l’elisir di lunga vita del Cesco era la Paul. Sopra il paese, a poco meno di un quarto di strada da esso al monte Stino e a metà fra esso e la Bösca, mitica piana dei faggi, si trova un minuscolo altipiano, al centro del quale vi è uno stagno, con a fianco un fienile, circondato da prati e alberi di betulla, faggi, ciliegi, noccioli, roveri e aceri. Il fienile è composto da due distinte costruzioni. 88


La prima, più grande comprende stalle e fienili veri e propri: quattro stalle sotto e quattro fienili sopra, di quattro proprietari differenti. Di fianco, a oriente, La costruzione dei “casì”. Due sotto e due sopra. Il “casì” è quella parte del fienile dove vive l’uomo, giacchè nella stalla vivono le bestie. Al suo interno, si trova immancabilmente il fuoco, che serve per riscaldarsi, per cuocere i cibi e il formaggio, un giaciglio, assolutamente spartano, il “benel”, una legnaia e qualche mensola, su cui sono appoggiati gli attrezzi necessari. Il casì del Cesco, quello di sotto a est, di fianco al mio, cioè della mia famiglia, era particolare, per noi bambini: magico, misterioso. Il Cesco passava gran parte del suo tempo dentro la sua speciale tana e ne usciva per procurarsi la legna da ardere nel “gas”, il bosco adiacente alla paul, sopra la strada che conduce da Moerna a Persone. Se è vero, come è vero, che l’uomo riesce a modificare un luogo e renderlo assolutamente bello e accogliente, quando non brutto e degradato, è anche vero che un luogo può trasmettere intimità, sicurezza e serenità che sono in grado di allungare la vita o almeno di creare i presupposti perché si continui ad aver voglia di vivere. Anche la vecchiaia, in un posto come la Paul, se caratterizzata da un discreto stato di salute, può essere meno triste e pesante, poiché i prati e i boschi, i gesti rituali di sempre, i tramonti e i silenzi notturni, sono più galantuomini delle persone e soprattutto, più generosi, a patto che 89


non si abbia paura della solitudine e della morte. Il Cesco non aveva paura. Lassù era un rè e la Paul era il suo regno. La vigilia di Natale, di quell’anno, tornavo al paese, di ritorno da Brescia. Incontrai il Cesco nel cortile, sotto la sua casa, dove c’era il mio garage. Fu molto felice di vedermi e mi fece promettere che l’indomani sarei tornato a trovarlo, a casa sua, per mangiare i “mondoi”, ovvero le castagne lesse, che la sera stessa avrebbe preparato. “Contateci” gli dissi “e ci berremo anche un buon bicchiere di vino”. Prese in mano una bottiglia di vino, si buttò su una spalla un filo, al quale aveva legato qualche pezzo di legna e si apprestò a salire le scale interne, che portano alla sua cucina, situata al primo piano rispetto al cortile, ma a piano terra se si passa dalla contrada dei porte, che si trova, evidentemente, ad un livello superiore. I due livelli sono collegati dalla scala sulla quale il Cesco si apprestò a salire. Quando l’indomani mattina, dopo la messa di Natale, poco prima di mezzogiorno, mio padre andò a trovare il Cesco, per fargli gli auguri, lo trovò sul pianerottolo in cima alle scale, appoggiato alla porta della cucina del povero Candì, seduto, con la bottiglia in mano e il piccolo mazzo di legna in spalla. Era morto in solitudine, perché oramai la contrada dei porte era abitata da due persone soltanto. Delle più di venti persone che c’erano, fino a solo qualche anno prima, ora rimaneva solo il Lino Federico. 90


Capitolo XVIII

IL POVERO LUIGI “BORA” Morì in novembre. Aveva subìto un intervento chirurgico, per un male che però non voleva cedere. Ma anche il povero Luigi era forte e per niente intenzionato ad arrendersi, senza combattere. Nell’estate di quell’anno, però, aveva presagito il peggio tanto che, un giorno, disse al Giuseppe: “ caro mio, vedrai, quando cadranno le foglie, in autunno, anch’io cadrò”. E così fu. Qualche anno prima, quando lui aveva oramai ottant’anni, mi chiese di dargli una mano a tagliare l’erba in Chenzere. Accettai volentieri, io diciottenne, voglioso di fargli vedere le mie capacità di falciatore, con una certa compassione nei confronti della sua veneranda età. Che lezione mi diede. Di forza e di maestria. Ma provai anche una grande gioia vedendo come, in quel caso, la vecchiaia non era riuscita a piegare, completamente, lo spirito e il fisico di un uomo. Anzi, non li aveva piegati per niente. E il colmo è che il Luigi non portava le scarpe, ma gli zoccoli ferrati (i sopèi fère). Provate voi a maneggiare una falce, con ai piedi un paio di zoccoli, in pendenze anche del trenta per cento. E non a maneggiarla e basta, ma a farlo in modo tale da star dietro ad un diciottenne presuntuoso, anche se non incapace. Anche lo svolgimento dei mestieri apparentemente più semplici, o umili, come appun91


to tagliare l’erba con la falce, richiede intelligenza e senso pratico, oltre a forza fisica e perseveranza. La falce (il fer) non va buttata sul terreno, poichè si guasterebbe subito, perderebbe il filo e non taglierebbe più niente. Va tenuta sulle braccia, con un movimento dell’ampiezza giusta, per non sprecare tempo e fatica in gesti inutili. Ci vuole coordinazione. Erano guai seri, se non si affrontavano preparati le olimpiadi estive del taglio del fieno. Avrebbe significato guadagni non scarsi, come per tutti gli altri, ma scarsissimi. I più bravi falciatori (i segaur) erano apprezzati e stimati e la loro maestria garantiva alle rispettive famiglie un reddito un po’ migliore. Ma il tutto non si esauriva nel saper falciare perché vi erano dei preliminari altrettanto importanti, sempre legati all’arte del taglio del fieno. Mi riferisco alla battitura del ferro. La battitura permetteva di affilare la falce, dopo un certo periodo, in genere tre o quattro ore, di uso. Si impiegava un kit denominato “piante”, consistente in un martello e una specie di cuneo sottile che veniva piantato per terra e sul quale si appoggiava la falce, che veniva progressivamente battuta ed affilata. Se la battevi troppo forte rischiavi di rompere l’affilatura, compromettendo poi la resa e se battevi troppo poco l‘affilatura sarebbe stata scarsa e il taglio dell’erba, di conseguenza, per niente agevole. Evidentemente il Luigi sapeva fare tutte queste cose molto bene, meglio di me. E mi battè 92


alle olimpiadi del taglio del fieno, in Chenzere. Una volta mi raccontò un episodio che lo vedeva coinvolto durante la guerra del quindici - diciotto. Insieme alla sua compagnia, era impegnato nel tentativo di conquistare una collina, tenuta dagli italiani grazie ad una mitraglia, che rendeva loro l’impresa disperata. Va da se che il Luigi, come abitante della Valvestino al tempo dello scoppio della prima guerra mondiale, era a tutti gli effetti cittadino austriaco e quindi combatteva nelle file austro-ungariche. Fra loro e la sommità della collina, ove erano arroccati gli italiani con la mitraglia, si trovava un rudere quasi completamente distrutto, che permetteva però un qualche riparo. Il Luigi, in compagnia di un fido compagno, il “vecchietto”, come lui lo chiamava, si aggattonò dietro alcuni massi e pezzi di trave. Ma la situazione si faceva, di ora in ora, più drammatica. Alla fine non rimasero che cadaveri, il vecchietto, il Luigi ed il loro capitano. Quest’ultimo, invece di pensare ad una ritirata saggia, quando li vide e realizzò che invece di andare all’attacco della postazione italiana, cercavano di nascondersi tra i resti del rudere e i cadaveri, intimò loro: “avanti, cani codardi, all’attacco!”. Il povero Luigi guardò il vecchietto suo amico e pensò: è finita. A quel punto il “vecchietto” estrasse la sua pistola, non disse una parola e mirò dritto al capitano. Si salvarono entrambi. La zia Erminia, moglie del Luigi, era una donna 93


positiva, sempre allegra e gentile, un po’ cicciottella. Quella sera fui mandato a casa del Luigi, per riferire qualcosa che ora non ricordo, o forse, a portare qualcosa. Appena entrato dalla porta vidi che la zia Erminia aveva in mano la corona del rosario. “ Siediti, Pierolì” mi disse porgendomi una sedia, “recita con noi le ultime Ave Maria e poi facciamo le nostre cose”. “ Va bene” risposi e mi sedetti. E la zia riprese: “ Ave, Maria, gratia plena....fructus ventris tui”. A qusto punto il “ghedàs” (padrino) Luigi attaccò: “ Sancta Maria... Amen”. Disse amen ancora prima che la zia dicesse lo Jesus finale dell’ave Maria. “Luigi, cane” lo apostrofò la zia, “ vai piano”. “ Ostrega , ostrega” sussurrò il Luigi e mi guardò con un sorriso complice e compiaciuto. In un batter d’occhio il rosario finì. La zia Erminia ripose la corona, brontolando un po’, ma col sorriso sulle labbra.

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Capitolo XIX

IL POVERO TONE GI’ Le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate e per questo motivo fui chiamato, un’altra volta, al suo capezzale. Respirava a fatica, era molto pallido, col volto scavato dal dolore, ma non si lamentava. La sua stanza da letto era molto luminosa, ampia e le vecchie assi del pavimento davano l’impressione di calore, anche se la temperatura era piuttosto rigida. Fu molto felice di vedermi, i suoi occhi si ravvivarono, in una espressione di riconoscenza. Ma subito mutò espressione, volle che mi avvicinassi a lui e mi sussurrò: “ orco D.., Piero, non sono capace neanche di morire”. Non riuscii a rispondergli nulla. Considerai quella imprecazione come una richiesta di aiuto ma capii che lasciava intendere un coraggio quasi smisurato. Gli provai la pressione, gli auscultai i polmoni e gli somministrai un antidolorifico, in silenzio. “Grazie tante, sussurrò alla fine, ti faccio tribulare anch’io”. “Non state a dire stupidaggini”, risposi e lo lasciai. Resistette ancora qualche giorno e poi, anche lui, fu capace di morire. A lui la vita aveva riservato uno scherzo in più: “la brasarola”. Con questo termine oggi faremmo riferimento ad una forma di tendinite cronica che colpisca un polso. Niente di trascendentale, direte 95


voi, ma provate a pensare al dolore e alla rabbia che una tale patologia pùo provocare in chi deve fare della forza fisica in generale e delle mani in particolare, un presupposto fondamentale nello svolgimento delle mansioni quotidiane. Diventa veramente difficile mungere le mucche, spaccare la legna, zappare i campi o falciare l’erba. Ma il povero Tone Gi non se la prese mai più di tanto. Lo si poteva vedere spesso, col suo polso fasciato, lavorare come tutti gli altri. Chissà se la decisione che prese, ad un certo punto della sua vita, di aprire osteria, non sia dipesa proprio da questo suo problema. Potrebbe aver pensato: “questa mano non mi guarisce, io invecchio, non ho figli maschi ma quattro femmine, tutte sveglie e volenterose, perché non provare a garantirmi un certo tenore di vita, magari migliore di quello attuale, con questa nuova attività”. Si fece rispettare anche come oste, lui e tutta la sua famiglia. Per non incorrere in problematiche con i suoi clienti, sul portone di entrata superiore della sua casa-osteria, aveva inchiodato un cartello, con una scritta perentoria: “attenti al gallo”. Uomo avvisato, mezzo salvato. Era lento nel movimento e nel parlare e quando ti raccontava qualcosa, se decidevi di ascoltarlo fino in fondo, dovevi armarti di una certa pazienza. Ma non era mai banale. Il primo ricordo che ho di lui è tristissimo. Io avevo otto o nove anni e lui, avendo osteria, 96


faceva anche il servizio di telefono pubblico. Stavo per entrare dalla porta, in piazza, dove ci eravamo appena trasferiti, dalla contrada dei Porte, nella casa più ampia donataci dalla zio Antonio Cià, quando mi sentii chiamare “ Pierolì!”. “Eh” risposi e lo vidi che stava salendo dalla strada di Corsèt. Mi raggiunse e continuò: “dov’è tua madre?” “In casa”. “Allora andiamo. Bisogna avvertirla che hanno chiamato da Pontremoli per dire che tuo zio Quinto si è fatto male”. Mio padre con la mamma partirono subito per la Toscana. Lo zio Quinto non lo vidi più. Il rapporto con sua moglie era improntato, presumibilmente, al mutuo soccorso, ma con qualche remora in più, da parte sua. Un giorno stavano tornando dai prati sopra il paese, i Ruc, con il carretto sul quale avevano caricato due o tre “base” di fieno. Dalla finestra di casa li vidi arrivare in piazza e iniziare a scendere verso Corsèt, dove si trova la loro casa. La strada, in quel punto, è piuttosto ripida e il Tone era obbligato a frenare puntando i piedi saldamente per terra, per evitare che il carretto prendesse velocità. Nonostante questo ripeteva: “Spingi, Ida, spingi!”. Pensai che volesse avere la certezza che la moglie condividesse, in ogni istante, la sua fatica. Un giorno d’autunno, di non so quale anno, raggiunto il monte Stino, mi stavo avvicinando al fie97


nile dello zio Gregorio. Il sentiero passava proprio davanti al “casì” del povero Tone, che subito mi chiamò e mi fece assaggiare una scodella di “fiorì”, (ricotta) che si erano appena formati nel paiolo, dove aveva fatto il formaggio. In vita mia non ho più assaggiato nulla di tanto buono. Neanche il latte condensato, nei tubetti, che il papà portava dalla Svizzera e che mangiavo centellinando le succhiate, era così buono. Quella sera, su dalla Tersilia, fu veramente felice di raccontarmi la storia del povero Orbo. Costui era un suo parente, così soprannominato perché, con ogni probabilità, quando si arrabbiava, menava pacche da orbi. Orbene, per ragioni che non ricordo, fu messo in prigione dalle parti di Tione. Doveva dividere la sua cella con altri due carcerati, due trentini. Costoro, per alcuni giorni, non trovarono di meglio che continuare a sfottere il povero Orbo. “Oh, quanto a te della Valvestino” ripetevano, volendo asserire che un povero montanaro della valle non potesse, di certo, essere un duro, ma anzi fosse destinato a sottostare ai loro capricci. Dopo alcuni giorni, i secondini udirono delle urla di disperazione provenire dalla cella del povero Orbo. Accorsero di gran fretta, ben conoscendo la fama di prepotenti, che si erano guadagnata i due trentini. Rimasero allibiti. I due bellimbusti, con la faccia pesta, li implorarono, in ginocchio, di portarli via, 98


lontano da quella furia della Valvestino. Quando lavorava, lavorava per due o tre o quattro e finita la stagione, non difettava certo in fantasia, sul come spendere i soldi guadagnati. Quella volta decise di scendere sul Garda, a sperimentare le attrazioni del lago. A Gargnano, c’era la possibilità di fare delle belle passeggiate in carrozza e questa gli sembrò un’ esperienza da fare. Chiamò un carrettiere, non volle discutere il prezzo, per non dare l’impressione di essere un morto di fame, anche se si era premunito di comperarsi un elegantissimo vestito, con tanto di cappello, “ma, attento!”, intimò al malcapitato, “mentre mi porti in giro, rivolgiti a me dandomi del gran signore, altrimenti ti ammazzo”. Fu accontentato, senza discussioni, giacchè anche la sua fama lo aveva preceduto, perfino in riva al grande lago. Negli ultimi anni della sua vita, il povero Tone Gì, non se ne restò con le mani in mano. Trasformò il portico che affianca la sua casa, dal lato nord, in un gran bazar. E lo ampliò, anche. Vi potevi trovare di tutto, in bella esposizione: legna di varie taglie, più o meno secca, mattoni, sabbia, sassi, attrezzi da lavoro, fogliame. Credo che sia comprensibile, per ogni uomo, cercare di circondarsi, quando il viaggio stà per concludersi, delle cose che più di tutto hanno orientato le proprie fatiche e ambizioni. E, a parte gli affetti, certe cose, anche se umilissime, 99


come un po’ di legna per riscaldarsi o una pietra ben scolpita, che potrebbe tornare utile, o un ceppo ben conformato sul quale lavorare il legno, possono farci sentire piÚ vivi e ancora utili, piÚ dei soldi o della fama.

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Capitolo XX

L’ESTATE L’estate, a Moerna, era una stagione magica. Bisognava “fare il fieno”. Oramai le mucche erano praticamente tutte sugli alpeggi del trentino o dei “bagoss”, o in Tombea e ogni famiglia dedicava le proprie energie al taglio e alla raccolta dell’erba: in maggio- giugno del fieno ( el fe ), in luglio, del fieno magro di Stino e quindi, tra luglio e agosto, del secondo ( el cors ). Si sgobbava dall’alba al tramonto e non ricordo vi fosse mai il giorno di paga. Eppure le persone erano ugualmente, ragionevolmente serene. “Buongiorno Luigi, dove andate a tagliare l’erba”? (a segar?) “Ooh, Pierolì, vado nella Coltüra e tu”? “Io vado giù al Coletì”. “Bravo, ma sei stato capace di battere il ferro”? “Ciò provato, speriamo”.... “Beh, se vedrai che non taglia, come si deve, fammelo sapere che, casomai, per domani te lo batterò io”. “Va bene “ ghedass” (così mio padre e tutta la mia famiglia chiamavamo il povero Luigi Bora), grazie”. “Ciao, Angelo, dove vai”? “Giù, sotto le case e tu”? 101


“Al Coletì”. “Ciao”. Non era ancora chiaro, quando si partiva, falce in spalla, quèr (ovvero un recipiente, a volte di latta, a volte di legno o ricavato in un corno di mucca, nel quale, con un po’ di acqua, si metteva la pietra, necessaria per affilare, di volta in volta, la falce, dopo averla battuta) attaccato alla cintura e magari le “piante” in mano, ( cosi chiamavamo gli strumenti per battere la falce) perché non si poteva mai sapere... L’aria era frizzante, si veniva accompagnati dal cinguettio degli uccelli e dai primi strilli dei grilli, per il resto regnava il silenzio. Molte volte, nonostante la stagione estiva e l’intensa attività fisica, si aveva freddo, poiché Moerna si trova a mille metri sul livello del mare, ed allora si salutava con gioia il sole, che lentamente si alzava da dietro il monte Camiol e cominciava a riscaldare ogni cosa. Dopo due o tre ore di lavoro, si avvicinava un momento importante: quello della colazione. A dire il vero si cominciava già da parecchio prima a scrutare, in lontananza, l’eventuale sopraggiungere dei rifornimenti, poiché l’appetito era sempre grande. Poi, finalmente, si scorgeva la sagoma agognata ed allora iniziava il rito. “Ciao Pietro, sei stanco”? “Mmh”! Si era sicuramente stanchi, ma bisogna102


va essere uomini forti o almeno cercare di essere tali e quindi si palesava autocontrollo. Dopo un ultimo colpo di falce, per far vedere alla mamma la bravura nell’arte del taglio dell’erba, si creava con essa un bel cuscino per sedersi e finalmente si mangiava. “Cosa mi hai portato mamma”? “Caffè d’orzo, come piace a te, con un po’ di burro che si è sciolto dentro e due panini e poi una bottiglia di acqua fresca”. “Siediti, qui vicino a me, mamma”! “ Sarà meglio che cominci a stendere l’erba” (a trar fora le andane). “No, dai, siediti un po”! “Va bene, mi siedo un po’, vicino al mio uomo”. “Hai visto che bel pezzo ne ho tagliato, mamma, più tanto di quello che ha tagliato l’Antonio giù sotto”? “Si che ho visto, sei stato veramente bravo”. Nel primo pomeriggio l’erba, distesa in mattinata, veniva tutta quanta rigirata con il rastrello per esporre al sole la parte rimasta a contatto con il terreno. Quindi, tempo permettendo, si passava, di buona lena, alla raccolta dell’erba, che essendo stata tagliata circa trenta ore prima, era ormai completamente secca. Per il trasporto, dai prati al fienile, si usavano delle capienti tende, di materiale resistente, chiamate “base”, che venivano riempite 103


di erba secca e poi, o in spalla, o sul carretto trainato dall’asino o da qualche raro mulo, si svuotavano nel fienile e si ritornava di nuovo a riempirle, finchè il lavoro non era finito. A questo punto, se la raccolta del fieno non si era protratta troppo a lungo, vi era la possibilità di un breve rientro a casa, per un attimo di riposo, gustandosi magari una buona bevanda fresca o un goccio di caffè. Nel tardo pomeriggio, il fieno, in precedenza rigirato, veniva raggruppato in piccoli mucchietti, i “merlec”, per impedire che la rugiada notturna o una eventuale pioggia, potessero ritardare troppo il processo di essiccatura e per favorire altresì la repentina asciugatura del terreno, tra un mucchietto e l’altro. Questo lavoro era il più delle volte incombenza della donne, poiché nel frattempo gli uomini, aiutati dalla fresca brezza della sera in avvicinamento, ne approfittavano per tagliare altra erba, da sommare a quella che sarebbe stata tagliata l’indomani. E così il ciclo riprendeva, fino alla fine dell’estate.

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Capitolo XXI

GLI EMIGRANTI Gli abitanti di Moerna venivano chiamati “singhegn”, zingari. Non senza ragione, visto che erano sparsi un po’ in tutto il mondo. Ma non era un’offesa; d’altronde, ce n’era per tutti. Così, quelli di Persone erano gli “streù”, gli stregoni; quelli di Turano i “lecamastèle” (nel mastello di legno veniva lasciato il latte, prima di essere spannato), i leccamastelli; quelli di Armo “i gac”, i gatti; quelli di Magasa “i trombù”, i tromboni e quelli di Bollone e Cadria, non ricordo. Per tutti, prima o poi, si poneva il quesito: restare o cercare miglior fortuna più lontano e spesso all’estero? Molti scelsero l’estero: la Svizzera, la Francia, il Belgio, l’America. E fino a qualche anno fa, all’inizio dell’estate o comunque durante questa stagione, si ripeteva un piccolo miracolo: quelli che erano partiti, tornavano e tutto prendeva un sapore diverso. Il paese si rianimava, si incontravano nuove facce, si scambiavano pareri ed esperienze, ci si ritrovava all’osteria per stare in compagnia, giocare a carte o a bocce, si organizzavano partite e tornei di pallone. Chi veniva da fuori portava nuove idee e diversi stili di vita, che arricchivano le nostre tradizioni e ci stimolavano al confronto. L’emigrante amava, spesso, la propria casa e le proprie cose, lasciate forzatamente a suo tempo, più dei residen105


ti e così nessuno risparmiava sforzi per restaurare, abbellire, ampliare. Al seguito degli adulti c’erano tanti bambini e giovani, che ridavano brio e fantasia al tutto. In una parola: sembrava di stare in un altro paese. Ho da poco saputo della morte, appena cinquantenne, della Ghighì, figlia del povero Sandro della Ancilla, in Francia. Ho provato dolore e una tristezza infiniti. Quell’estate in cui la vedemmo per la prima volta, fu subito magia. Veniva dalla Francia, aveva due treccine fantastiche e una bellissima cadenza nel parlare. Si decise di andare nella Coltüra, il prato sottostante S. Rocco, a fare scorpacciata di ciliegie. Saremo stati sette o otto, Ghighì compresa, con età tra gli otto e i quindici anni. Riuscimmo a salire tutti su una grossa pianta di ciliegie e l’abbuffata ebbe inizio. Non era facile, però, raggiungere le ciliegie sui rami più lontani, neanche per noi, figuriamoci per Ghighì. A qualcuno, forse Gustavo, più smaliziato e più su di età, venne subito una brillante idea. “Ghighì, ti dò una ciliegia, se mi dici ailaviu”. Dapprima lei sembrò perplessa ma poi, sorridendo divertita, si prestò al gioco. Allora facevamo a gara a chi prendeva più ciliegie, da offrire a Ghighì. Io non sapevo il significato di quella parola e non lo sapevano certamente neanche l’Angelo, il Giuseppe, il Rosario e gli altri, ma il gioco ci sembrò comunque bellissimo e con un sapore di proibito che ci fece 106


sentire, oramai, dei grandi. Probabilmente l’estate precedente, tenemmo un gran consiglio: il Gianni, il Gustavo, il Bruno, il Lino, L’Angelo, il Giuseppe ed io decidemmo di imporre a tutti i nuovi arrivati, maschi di una certa età, il battesimo del fuoco. Essi, per entrare a far parte della compagnia e poter giocare a pallone, a cicche, a banditi, a tana eccetera, dovevano accettare di mostrare a tutti il pisello. Non fu facile far rispettare la regola, ma noi eravamo austriaci, piuttosto inflessibili. Quando arrivava il povero Albino, significava che la truppa era al gran completo e che tutto era pronto per un’altra indimenticabile estate. Le ante della sua casa, sempre chiuse durante il resto dell’anno, improvvisamente si spalancavano, quasi a far sapere a tutti che i padroni di casa, adesso, c’erano. Si diceva di lui, che fosse un lavoratore infaticabile e che, in Svizzera, dove si era trasferito, facesse due giornate lavorative in una. Ma quando tornava a Moerna, si concedeva il meritato riposo e sembrava volesse sfruttare, al massimo, quella possibilità di godersi un po’ la vita. Cercava subito la compagnia, cui trasferiva la propria esuberanza, nel parlare, nel mangiare e nel bere. Ultimamente, a dire il vero, le sue sbronze erano sempre più tristi. Spesso gli uomini più forti, meno inclini alla mediocrità, sono quelli che patiscono di più il peso degli anni, del declino. 107


Quella volta, su dalla Tersilia, mi sembrò di capire il suo vero carattere, da una battuta. Si parlava animatamente di automobili: “la mia è velocissima, la mia consuma poco ma và, la mia, invece ha una tenuta di strada eccezionale” e così via. Ad un certo punto il Gustavo si rivolse all’Albino chiedendogli: “E voi, Albino, cosa dite della vostra macchina”? L’Albino sbuffò, con compiacimento e replicò bonariamente: “ma... tato (ragazzo mio), io, semplicemente, gli cavo fuori quanto ha nel fegato”. Nessuno ebbe nulla da obiettare. A me colpì molto quella umanizzazione dell’automobile e pensai: talis padrone, talis macchina. La regola insomma era quella di dare il massimo di se stessi e pretendere altrettanto dagli altri e dalle cose. Niente male come stile di vita. Altro segnale inequivocabile che eravamo nel pieno di una nuova memorabile stagione estiva era l’arrivo, in paese, del povero Angelo “bergamasc” e della sua parentela. Quell’uomo amava Moerna e la Valvestino quanto e più dei locali. Lo potevi incontrare, a qualsiasi ora, quasi sempre in canottiera, col suo bastone appoggiato sul dorso e su cui faceva leva con le braccia portate all’indietro, mentre passeggiava, tranquillo, con la sua famiglia. Era sempre disponibile a dare una mano, ancor più negli ultimi anni, oramai elettricista in pensione. La sua collaborazione fu indispensabile, in occasione della pre108


parazione delle feste, che per anni organizzammo, in paese prima e a S. Rocco poi. Alla fine prese la decisione: lasciare Bergamo e finire la sua vita a Moerna. La sua casa, in paese, era molto accogliente, perché resa tale con paziente lavoro, nell’arco di tanti anni. E non si limitò a restaurare la casa in paese, rimise a posto anche il fienile di “Spenarol”, ridotto quasi ad un rudere e situato in un luogo di impervia bellezza. Dunque, la scelta poteva essere fatta, tanto più che Agnese, sua moglie, non si oppose. Ma le cose non andarono come avrebbero dovuto. Lo avevo incontrato, in occasione delle vacanze natalizie e mi aveva mostrato, con evidente compiacimento, le scorte che aveva accumulato nella sua cantina, recentemente ultimata. In primavera, mentre mi trovavo in macchina, a Roma, con amici-colleghi, mi raggiunse la telefonata di Consuelo, mia moglie: “ sai cosa è successo a Moerna?” “No, non so niente”. “E’ morto l’Angelo”! “ E’ morto l’Angelo?” risposi a mezza voce mentre richiamavo alla mente il volto di tutti gli Angelo di Moerna: L’Angelo Barberì, l’Angelo mio cugino... “ Sì, continuò lei, L’angelo di Bergamo”. Aveva da poco acquistato un piccolo trattore, in seconda mano e proprio con quello si stava recando, passando dai prati della Coltüra, al fienile di Spenarol, trasportando un po’ di sabbia e altre cose, che gli sarebbero servite per i lavori di restauro dello stabile. Aveva da poco bevuto un bicchiere in com109


pagnia del Vittorio e dopo aver chiesto ad Agnese, sua moglie, di raggiungerlo al fienile, passando per la strada della Putola che, compiendo il giro opposto, porta comunque sempre a Spenarol, era partito, suppongo felice. Il Piero Fedele (nel senso di figlio del povero Fedele) lo aveva visto passare, giù alla Masa, e lo aveva seguito. Ad un certo punto, però, gli parve di non udire più, davanti a lui, il rumore, monotono, del trattore in movimento. Quando giunse sul posto capì. Il trattore era uscito di strada ed era finito alcuni metri di sotto, arrestandosi contro una pianta. L’Angelo, vicino al trattore, era riverso a terra, immobile. Tentò in qualche modo di rianimarlo, con l’angoscia nel cuore, ma non ci fu nulla da fare. Non gli restò che dare l’allarme. Nel frattempo Agnese, che dopo aver ultimato le faccende di casa, si era incamminata, non riusciva a spiegarsi il perché del ritardo nell’arrivo di Angelo. Quando udì il rumore secco del roteare delle pale dell’eliambulanza in avvicinamento, fu colta da un terribile sospetto e si mise a correre. L’Angelo aveva all’incirca sessantasette anni. Con lui, la terra di Valvestino, ha perso un uomo che più di tutti l’amava e la rispettava e per questo, da allora, è rimasta più triste. Per ragioni giudiziarie, dovette rimanere chiuso in un sacco, sul letto di morte, per più di ventiquattro ore e questo rese la sua morte ancora più atroce. Poi, finalmente potè essere sepolto, nel cimitero di Moerna. E Agne110


se restò, da sola, a Moerna, a fargli compagnia. Ma si sà, anche il dolore che all’inizio, a volte, funziona da carburante per il nostro coraggio, poi, col tempo, perde la sua forza propulsiva, per lasciare il campo alla solitudine ed allo sconforto. Per questo motivo Loredana, la figlia maggiore di Angelo, mi confidò la sua intenzione di dissotterrare il papà, per portarlo nel cimitero di Bergamo, vicino alla sua casa e a quella dei suoi fratelli, permettendo così anche alla mamma di riprendere una parvenza di vita normale, vicino alla sua famiglia, strappandola alla disperata solitudine di Moerna. Il progetto mi sembrò alquanto temerario, ma non avevo fatto i conti con il coraggio e la determinazione di Loredana. Quando si dice talis pater, talis filia. Ora l’Angelo riposa definitivamente nel cimitero di Bergamo, ma il suo spirito viaggia certamente, tranquillo e bonario, lungo i sentieri della Valvestino. Parecchio tempo prima, intorno agli anni ottanta, si decise, con alcuni amici moernesi tra cui il Vittorio, l’Angelo e il Giuseppe, di tentare di organizzare una memorabile festa, in onore degli emigranti. “Festa dell’emigrante”, così decidemmo di chiamarla. E ci si mise subito al lavoro. Ma le difficoltà si dimostrarono ben presto tante e alcune, apparentemente insuperabili. L’aiuto disinteressato di molti, come del Livio, allora impresario, che ci prestò assi e pannelli in metallo per realizzare la pedana da ballo, insie111


me con tanto entusiasmo, ci permisero, comunque, di predisporre il tutto: sarebbero state due giornate di musica, ballo, mangiate e bevute in allegria. Già, ma se avesse piovuto? Grosso problema. Chi avrebbe pagato i non risibili debiti accumulati? Tramite amici e amici di amici, il filo ci condusse dritti alla sezione dell’allora PCI di Brescia. Lì si mostrarono subito ben disposti nei nostri confronti e ci garantirono la copertura delle spese, in caso di disastro meteorologico. Unica contropartita: la festa doveva cambiare nome, non più “festa dell’emigrante” ma “festa dell’unità”. Così fu. Non senza qualche risvolto di coscienza. Il giorno prima dell’inizio della festa, il don Basilio, l’allora parroco di Moerna, mi fermò sul sagrato della chiesa, mentre camminavo in compagnia di alcuni amici, mi portò in disparte e senza mezzi termini mi disse: “ attento, Pietro, a non compromettere la salvezza della tua anima, con l’organizzazione di una tale festa”. Avrei voluto dirgli che ero un appassionato lettore di Ignazio Silone il quale, tra gli altri, ha scritto un libro intitolato “Uscita di sicurezza”, che avevo letto Roger Garoudj e visto films come “La confessione”, ma risposi soltanto che pensavo che la salvezza dell’anima non fosse una questione politica, di destra o sinistra o di centro e la sua affermazione mi sembrò talmente delirante, che non seppi aggiungere altro. Con un po’ più di tristezza da parte mia, la festa ebbe luogo 112


e fu un successone, nella cornice dei nostri amati monti. Fu, però, il primo gorgoglio di un canto del cigno, che sarebbe durato per più di vent’anni, ma che avrebbe sancito la fine della nostra valle. Ripensando, poi, alla tirata di orecchie del don Basilio nei miei confronti, sarei molto curioso di sapere se ultimamente egli, come molti suoi confratelli, all’interno della chiesa cattolica, abbia mantenuto la sua totale allergia verso tutto quanto è di sinistra, o se, viceversa, non abbia totalmente cambiato idea. In barba alla salvezza dell’anima.

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Capitolo XXII

UNO STILE DI VITA Oserei dire che la figura umana era paragonabile ad uno stato autarchico, autosufficiente. Probabilmente questa è una immagine eccessiva, ma può aiutare a capire quello che vi voglio dire. Un uomo, di medie capacità intellettuali e forza fisica, era in grado di gestire, pressocchè completamente, il destino, proprio e della sua famiglia. La sveglia era quasi invariabilmente precoce, verso le quattro e trenta del mattino e via, a governare le mucche. Vale a dire che si ripuliva la stalla dal letame, si dava, da mangiare, il fieno alle bestie, che quindi venivano munte e il latte lo si portava al caseificio turnario. Se si era di turno, si sarebbe presto iniziata la procedura per produrre il burro e il formaggio e tale faccenda durava fin verso il mezzogiorno. Ma era un momento importante: burro e formaggio erano due componenti fondamentali del sostentamento e del possibile guadagno, per ogni famiglia. Altrimenti la mattinata veniva impiegata per svolgere i più svariati lavori: aggiustare attrezzi come vanghe, badili, scuri, roncole, falci, cesti, reti o teli per il fieno ed il fogliame, martelli, cariole, slitte, carretti eccetera. Importante era anche la raccolta del fogliame (il patos) costituito da foglie ed erba trovati nei boschi e che sarebbe servito a formare uno strato soffice e asciutto, sul 115


quale si sdraiavano gli animali stallati (far da let) e che avrebbe in seguito favorito la raccolta del letame. Così come era importante procurarsi la legna, necessaria per riscaldarsi durante l’inverno, tenere i camini puliti e ben funzionanti, controllare che i coppi fossero ben posizionati sui tetti, per evitare infiltrazioni di acqua. Tutti sapevano coltivare i campi, tutti sapevano allevare un maiale e macellarlo per farne salame e cotechino. I lavori in muratura erano certamente più difficoltosi ma tutti potevano quantomeno provare, nel tentativo di risparmiare quattro soldi, almeno per le realizzazioni più semplici: un gradino, un muro di sostegno, un selciato. La pausa del pranzo interrompeva questi lavori che venivano presto ripresi, poiché verso le quattordici e trenta si ritornava nelle stalle per ripetere quanto già fatto di buon mattino. Si finiva verso le diciotto e già faceva buio, più o meno. Una cena frugale, qualche visita a parenti o amici, magari un calice all’osteria e via a letto. Serviva comunque molta intelligenza, poiché sbagliare avrebbe significato compromettere le proprie capacità di sopravvivenza mentre di contro, avere buona testa e buone mani, significava lavorare meno e avere un tenore di vita migliore. Ma dipendeva da se stessi, dal proprio coraggio, dalla capacità di apprendere e applicare, dalla propria fantasia, dalla propria abnegazione. Ognuno era padrone di se stesso, al contempo alunno e maestro nella diffi116


cile arte di cavarsela; in definitiva, ognuno era un “povero signore”. Il rovescio della medaglia era costituito dalla fatica, a volte tremenda, dalle scarse possibilità di cambiare, radicalmente, il proprio tenore di vita. Quello che vi posso garantire, per esperienza personale, è che un bambino, all’età di dieci, undici anni, poteva essere considerato un montanaro in miniatura. Sapeva già cavarsela, da solo, in molte situazioni. Aveva già disimparato l’abitudine, prettamente infantile, di chiedere aiuto nel momento della difficoltà: più d’una volta aveva dovuto contare solo su se stesso, quando si era trovato, tutto solo, al pascolo con le capre, mentre diluviava; quando aveva dovuto portare a casa, sulle spalle, quelle frasche di legna, alcune delle quali così pesanti da far scendere le lacrime dal dolore e dalla rabbia; quando, in definitiva, il fare la propria parte non era considerato uno sfruttamento minorile, ma una partecipazione attiva alla scuola della vita.

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Capitolo XXIII

LA PRESA DI COSCENZA Probabilmente, la fine della mia infanzia, corrisponde con la partenza per il collegio, finite le scuole elementari. Solo allora, mi resi conto di quanto fosse lontano e sconosciuto, il mondo. E anche di quanto fosse vomitevole. Mi riferisco al fatto che, dovendo affrontare il tragitto dalla valle a Brescia, in automobile, attraverso un percorso rellistico e soffrendo il mal d’auto, mi toccò trascorrere gran parte del viaggio con la testa fuori dal finestrino, vomitando. Mezzi pubblici per raggiungere la città non ce n’erano. E Brescia era lontanissima: piena di pettinatrici. Già, ricordo il mio stupore, in occasione delle prime uscite guidate dal collegio, quando osservai la presenza, lungo le strade, di molti cartelli rotondi, rossi e bianchi, con sotto la scritta: PERMANENTE. Subito pensai alla mamma, quando andava a Capovalle a farsi fare la “permanente”, dalla pettinatrice. Non ho mai pianto in collegio, però avevo una nostalgia struggente per il mio paese, per le mie montagne. Più passavano gli anni e più si rinforzava in me il sospetto di sprecare il mio tempo, a studiare cose interessanti, ma per niente pratiche, mentre la vita vera era lassù...lassù c’era la poesia. Fu così che circa all’età di 16 anni, stimolato 119


dall’allora parroco di Moerna e Persone, don Felice, iniziai a lottare, con la mia gente, nel tentativo di sopravvivere ad un futuro incipiente, ma per nulla rassicurante. Ma la lotta si rivelò presto impari. La tradizione cedeva sempre più il passo alla modernità, i vecchi, i grandi vecchi, morivano e ognuno di noi si ritrovò, ben presto, a rincorrere il proprio destino, per i più, lontano dal paese, senza più poter contare su quell’incredibile bagaglio culturale ed emozionale, a disposizione di chi ci aveva preceduto. E probabilmente molti si sono persi per strada, nel senso che non sono riusciti a staccarsi, a sufficienza, da un mondo che ormai non c’era più, per gettarsi nella mischia del presente. Qualcuno, magari, non è riuscito a farsi una famiglia, altri hanno sottovalutato la forza, illusoria, del bicchiere di vino. Altri, si sono chiusi in un solitario dolore. Anche il paesaggio non ce l’ha fatta. La sinfonia di colori e contrasti, creata dal susseguirsi ben definito di campi, prati, boschi, sentieri, ha ormai perso definizione ed ora tutto è più sfumato e monotono e non è difficile prevedere che, nell’arco di pochi anni, il lavoro, l’arte architettonica naturale, perfezionata nei secoli, verranno rimpiazzati dalla sola natura. A volte, mi viene da pensare che anche la natura sia più triste, senza la sapiente presenza dell’uomo, del montanaro. I ciliegi non fanno più ombra a nessuno e le ciliege chi le guarda più? Qualcuno sa forse 120


apprezzare le qualità dell’antana (Viburno lantana)? O del frassino? E queste piante lo sentono e se ne dolgono. C’è ancora qualcuno che si meraviglia per lo spettacolo offerto, ogni primavera, dalle viole di Stino? No. E loro lo sanno e difatti, non fioriscono quasi più.

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Capitolo XXIV

UNA SPECIE DI ADDIO AI MONTI Addio monti, bianchi rossi e verdi, vicini ma misteriosi, cornice delle nostre vite, tombe per le nostre ossa, spettatori impassibili del tempo che fu e che, quasi certamente, non potrà più tornare. Terre ospitali, impervie ma sicure, sentieri, alberi, prati, campi piccoli e assolati, ruscelli, fontane, sassi e silenzio. Case, fienili, mucche e asini e muli, conigli e galline, cani e gatti, gente. Addio gente, cocciuta e coraggiosa, quasi tutta morta. Un tempo le stagioni erano veramente quattro, con infinite sfumature, i temporali erano tali, la neve era sempre abbondante e le strade di paese erano, invariabilmente, impregnate di sterco di mucca. L’aria frizzante del mattino e del tramonto, mentre ogni cosa pareva perdere i propri contorni, infondeva sana e prepotente gioia di vivere. I camini fumanti delle case, e dei fienili, erano, per quel cielo sovrastante, inequivocabili segnali di vita. I luoghi, conosciuti come il palmo delle mani, tutti chiamati per nome, ricordavano storie o evocavano paure o rappresentavano mete di ineguagliata serenità. 123


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Capitolo XXV

RICORDO Ricordo il Fiorenzo di Capovalle. E’ vero, non c’entra niente con Moerna, ma sento ancora il suo fischietto nelle orecchie. Avevamo appena finito un’altra memorabile sfida a pallone: Capovalle contro Moerna. Non ricordo chi avesse vinto ma che, dopo esserci, sommariamente, rimessi in ordine, ci trovammo in un bel gruppo su a Zumiè, la frazione più alta di Capovalle, a parlare e scherzare in allegria. Il clima era veramente amichevole e le nostre risate rompevano la monotonia di quella calda serata estiva. Ma più ancora che dalle nostre risate, la noia estiva era graffiata dal suono acuto del fischietto del Fiorenzo. Diceva poche parole e poi fischiava, rideva e fischiava, taceva e fischiava. L’indomani partì per il lavoro a bordo del pulmino che trasportava anche i suoi amici. Ma non ritornò più, vivo, a Capovalle. Il pulmino su cui viaggiava, mentre una sera faceva ritorno, dal cantiere di lavoro, alle stanze dove avrebbero trascorso la notte, uscì di strada, il Fiorenzo perse la vita e non potè più fischiare la sua gioia, al mondo intero. Ricordo l’Olivo. Forte come un torello, vispo, vivissimo. Una volta gli diedi un calcio nel sedere. Avevo scoperto che mi “samava” gli archetti. Samare significava togliere dagli archetti, degli altri, 125


gli uccelli e intascarseli. Una forma di latrocinio molto diffusa, a cui veramente pochi sapevano sottrarsi. Quando, quel giorno, lo colsi sul fatto, mi infuriai e mi sembrò giusto punirlo in quel modo. Suo padre mi rimproverò, per questo, ma in modo contenuto, quasi a sottolineare il fatto di aver compreso che, comunque, suo figlio aveva, per primo, commesso un’azione scorretta nei miei confronti. Si alzava quasi sempre all’alba e non mancava mai di seguire suo padre, esperto cacciatore, nei boschi, alla ricerca di indizi sul passaggio della selvaggina. Un ultimo dell’anno lo passammo insieme, a Idro, da Cinzia, con il Giuseppe, il Bepino e il Tarcisio. Cenammo in allegria e poi l’Olivo, che non sapeva nemmeno come fosse fatta una discoteca, fu il primo ad aprire i balli: al ritmo della vita. Quell’estate, credo a fine giugno, stavo studiando nello studio, che avevo allestito a casa mia, nella cucina, al piano di sopra, che fu della povera Angelina Giòt, quando qualcuno bussò alla porta. Era l’Olivo. “ Ciao Pietro”, disse allegro, “non mi faresti, magari, un grosso favore?” “Se posso”, risposi. “Verresti giù, sotto le case, col tuo trattorino, a prendermi qualche basa di fieno; sia io che mio padre siamo acciaccati e faremmo una gran fatica a portarle a casa in spalla”. “ Come no?” E partimmo. Non scorderò mai la profonda riconoscenza che lessi nei suoi occhi quando, a lavoro ultimato, mi congedai senza 126


accettare nulla in cambio. Non scorderò nemmeno il suo cadavere, nella sala mortuaria dell’ospedale di Gavardo: un ragazzone alto un metro e ottantacinque, con due cosce da centometrista, impavido, fulminato da una scarica di corrente, mentre svolgeva il suo lavoro, alle ferriere Lucchini, di Casto. Mentre, con altri tre amici di Moerna, portavo in spalla la bara, dalla chiesa al camposanto, su alla croce, ebbi quasi un senso di colpa: perché lui si e noi no? Che senso ha tutto questo? Che giustizia è mai questa? Anche suo padre deve essersi posto queste domande e non trovando risposte plausibili se la prese, nei primi tempi, con gli amici del paese, divenuti, nella sua mente, devastata dal dolore, responsabili della morte di suo figlio. Ricordo il Paolino. Sempre sorridente, buono come il pane. Giù nella sala di rianimazione dell’ospedale civile di Brescia, il suo cuore batteva all’impazzata per non fermarsi e quelli di suo fratello Mauro e di suo padre Franco, battevano di speranza. Ma poi, si fermò. La sua potente moto, che egli amava purissimamente perché, ne sono convinto, riusciva a portarlo, velocemente, lontano dagli angusti orizzonti del suo piccolo paese di montagna, lo tradì. Non ho mai visto tanta gente, a Moerna, come al suo funerale. Non si poteva non voler bene al Paolino. A cerimonia ultimata, mi avvicinai alla fossa con i miei bambini, per un ultimo saluto, pri127


ma che gli addetti coprissero la bara con la terra. Anche il Mario della Celestina si avvicinò e con tono che non lasciava spazio a repliche, ma che parve disgelare una verità che tutti si cerca di tenere nascosta, sussurrò: “ecco la fine che facciamo”.

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Capitolo XXVI

GIOCHI Niente televisione; niente play-station; niente telefonini cellulari; ma quali impianti di risalita? Semplicemente: gambe e fantasia. Questi erano i due ingredienti fondamentali, alla base della nostra capacità di divertirsi. Le gambe erano, ovviamente, indispensabili quando si trattava di organizzare una partita a pallone; per rincorrere il pallone s’intende, in tutti i sensi. Mi spiego meglio. Se si escludono le partite che potevano essere giocate, lungo tutto l’arco dell’anno, sul sagrato della chiesa, ma che avevano come inconveniente quello di essere disputate su un ruvido e un po’ sconnesso ciottolato, che non mancava di farci sentire la propria dolorosa consistenza, in caso di inevitabili cadute, le altre potevano essere organizzate soltanto in periodi ben precisi, pena suscitare le ire del proprietario di turno del nostro campo di footbal improvvisato. Si poteva giocare, sul morbido, per qualche giorno, dopo il primo e il secondo taglio del fieno. Il fatto è che i posti adatti, in considerazione della particolare orografia dei nostri paraggi, erano assai pochi e uno, in particolare, presentava delle caratteristiche peculiari. Stò pensando alle piane del Dario, sotto la chiesa di S. Rocco, nella Coltüra. La Coltüra è un dolce e ampio pendio a prato che, dal lato opposto 129


a quello di Soà, delimita il promontorio di S.Rocco e nel quale si specchiano, a novanta gradi, l’abitato di Moerna e di fronte, le Glere, ovvero i prati di Armo. Col risaltare dei vari appezzamenti di terreno, falciati in tempi diversi, appare come un immenso tappeto verde, con tutte le tonalità possibili di questo colore, messo lì ad allietare lo sguardo, lanciato oltre le finestre di casa, dei moernesi. Il povero Guido di Turano, che per anni lavorò come impiegato comunale e che possedeva, oltre ad uno straordinario umorismo, una ragguardevole cultura personale ed una innata bontà d’animo, una volta sentenziò: “certamente, si può affermare che, voi di Moerna, possedete delle ampie culture (o colture?), ostrica ostrica, muraglia cinese”. Chi vuol capire, capisca. Come quando egli, facendo riferimento al suo impiego e alla necessità, a volte, di effettuare degli estratti di mappa richiestigli, soleva ricordare che non solo eseguiva tali estratti, ma, al bisogno, anche estratti di “nappa”, soprattutto quando era raffreddato. Ma torniamo a noi. In un punto, il pendio della Coltüra, è interrotto dalle piane del Dario. Non è proprio una piana perfetta, poiché risulta leggermente inclinata, verso nord e verso est, ma di meglio non c’era. Il guaio è che sul lato est, il pendio ricominciava a scendere, continuo, fino giù, nelle “Castègne”e oltre, nel fondovalle. Per fortuna, i primi anni, non esistevano ancora i palloni di cuoio 130


e quelli di gomma, molto leggeri, erano facilmente raggiungibili. Ma con l’arrivo del pallone di cuoio, furono guai. Se prendeva velocità, sul prato tagliato di fresco, chi lo prendeva più. Un giorno, interrotta la partita, verso le due o le tre del pomeriggio per il suddetto motivo, con Gustavo, partimmo per recuperare la sfera. Un po’ perché il pallone era arrivato veramente in basso ed era stato arduo trovarlo fra le ramaglie dei boschi e un po’ perché ci mancarono le forze per tornare, ancora una volta di corsa, su nelle piane, facemmo ritorno a casa, lungo la strada della Coltüra, per l’ora di cena. Riprendemmo la partita con gli altri amici, che dopo un po’ di attesa avevano mangiato la foglia, il giorno dopo. Altro gioco, meraviglioso, erano le “ciche”, le biglie. All’uscita dalla chiesa, finite le funzioni religiose, appena varcato il portone, facevamo a gara a chi era più lesto nel pronunciare la parola d’ordine: “a ciche prim”. Poter giocare la prima mano significava avere il campo libero, poter andare a buca più facilmente e comunque, alla seconda mano, avere più avversari da colpire ed eliminare, facendo così più tanti punti. Che meraviglia, ritrovarsi a giocare in qualche androne appartato o sotto qualche portico riparato, mentre, magari, infuriava un temporale. Che magia credevamo fosse rinchiusa in quelle minuscole sfere di vetro, arabescato. Ma supponiamo, in uno slancio di fantasia, che, pas131


sato il temporale, il cielo, nuovamente aperto, ci avesse sorpresi intenti nel gioco delle biglie ebbene il richiamo ad uscire, a rincorrere nuovi profumi e leopardesche sensazioni, ci avrebbe spinti a cambiare gioco. “A tana”, cioè a nascondino, avrebbe urlato qualcuno. “ No, a banditi”, cioè a guardie e ladri, avrebbe ribattuto qualcun altro. Ma poteva anche darsi che si decidesse di giocare a “ motobimba”. Vale a dire che si prendevano due frasche, una molto più lunga, che si infilava tra le gambe e l’altra più corta a formare il braccio trasversale di una croce e che usavamo come finto manubrio e via: brumm. E d’altronde, se avessimo saputo dell’esistenza, da qualche parte, di un vecchio cerchio in disuso, avremmo fatto di tutto per accaparrarcelo e gareggiare a chi era più bravo nel farlo rotolare, senza farlo cadere, guidandolo con un bastone costruito alla bisogna. Durante la bella stagione e soprattutto in autunno, dal profondo di ognuno di noi, usciva lo spirito cacciatore ed allora era il momento di mettere mano alle armi. A volte si sceglieva l’arco ma, più spesso, il tirasassi. Ogni bersaglio era buono. Uccelli naturalmente, ma anche gatti, topi, lucertole, qualche vetro e financo qualcuno di noi. E che dire della caccia ai grilli. Si trattava di infilare dentro la loro tana, facendo attenzione a stare sui bordi di essa, una “fepla”, ovvero un sottile filo d’erba, che avrebbe solleticato 132


la povera bestia ad uscire. Quindi, si passava alla fase successiva: la cattura di una cavalletta. Infine i due malcapitati, tenuti saldamente uno per mano, erano obbligati a sfidarsi in una gara di mascelle. E’ incredibile come quelle bestiole, appena messe l’una con le fauci vicino all’altra, cominciassero a mordersi, fino allo sfinimento, o al soddisfacimento della nostra crudeltà. In quasi tutte le famiglie, dove c’erano bambini, esisteva un carretto. I nostri carretti erano dei piccoli gioielli di ingegneria e filavano come dei bolidi, anche sullo sterrato o sul ciottolato. Figuratevi cosa significò l’avvento dell’asfalto: brividi. A farne le spese erano, immancabilmente, i pantaloni, in regione glutea. Il sedile era particolarmente ruvido, l’attrito in curva, ve lo lascio immaginare e spesso, la forza centrifuga ci sbalzava per terra e questo avrebbe quasi certamente comportato la necessità di una pezza sul sedere, senza considerare le escoriazioni sulla pelle. Con l’arrivo della brutta stagione, che su da noi, a mille metri, era piuttosto lunga, le occasioni di gioco, all’esterno, erano certamente minori, ma compensate dalla presenza di un elemento formidabile: la neve. Che bello era andare a slittare sulla neve. Detto nel nostro dialetto rende meglio l’idea: “nar a strasenarse co la carovana”. La carovana, cioè lo slittino, era strumento indispensabile, per trasformare la neve e il ghiaccio in un immenso campo da 133


gioco. Ma non dovete credere che fosse sempre facile, o scontato, averne una. Le più semplici erano quelle basse, vale a dire quelle prive di “cavic”, di pioli , dove cioè le due “gambe” slittanti erano tenute in linea da alcune assi trasversali direttamente inchiodate su di esse. Le più belle erano quelle alte, più o meno, che rassomigliavano a delle slitte vere e proprie, in miniatura, ma che richiedevano, per essere costruite, capacità tecniche di riguardo, oltre la portata di un bambino. Ci voleva, insomma, il contributo di un adulto. Quella volta si stava slittando sulla strada della croce ed io, non ricordo per quale motivo, mi ritrovai senza il mio slittino basso. Ero veramente avvilito e ancora adesso ricordo la mia tristezza e l’invidia verso chi, come il Gustavo e il Gianni, aveva una bellissima slitta, costruita per loro dal padre, il povero Federico. Mio padre non c’era, era a lavorare in Svizzera e francamente non vedevo all’orizzonte alcuna buona prospettiva, almeno nell’immediato. Già mi stavo incamminando, mestamente, verso casa, quando il Domenico del povero Cesare Maranghel, mi chiamò: “ Pietro, dove vai?” “A casa!” “E perché?” “Non vedi che non ho la carovana e non posso slittare, cosa stò qui a fare?” Feci ancora qualche passo e poi udii una delle frasi più belle mai sentite in vita mia: “fermati, ti regalo la mia.” “Cosa?” “Ho detto che ti regalo la mia, la vuoi?” Non c’era bisogno di risponde134


re. Improvvisamente, avevo la mia carovana, alta, nuova di zecca e mi sentivo al pari degli altri, dei più fortunati. In seguito mi resi conto che il regalo del Domenico aveva un piccolo difetto, vale a dire che le due gambe erano di legno diverso e quindi con velocità di slittamento sulla neve, diverse, e questo comportava la necessità di correggere continuamente la traiettoria di avanzamento, ma tutto ciò era nulla, rispetto alla squisitezza del gesto che quell’amico, di alcuni anni più grande di me, aveva avuto nei miei confronti. Ma il repertorio dei nostri giochi non finisce certo qui. Ve le ricordate le prime bottigliette di plastica, che contenevano la candeggina. Mai vista una bottiglia che si lasciava schiacciare, senza rompersi. Fu questione di attimi per capire che, riempita di acqua e tappata col suo tappo, in precedenza forato, diventava un archetipo di pistola ad acqua, di cui non conoscevamo, comunque, l’esistenza. E che dire del sambuco. I rami di questa pianta sono particolarmente ricchi, al loro interno, di un tenero midollo, facile da eliminare, per cui essi si trasformano, in men che non si dica, in collaudate cerbottane, da usare con le munizioni costituite dal frutto, simile ad un grappolo di minuscoli chicchi d’uva, del sambuco stesso: che battaglie epiche. Com’è dolce il ricordo della raccolta delle castagne, avvolti dalle nebbioline e dai profumi di ottobre e questo vale anche per la 135


ricerca dei funghi, o delle lumache, degli asparagi. E nemmeno l’andare al pascolo con le mucche, le pecore o le capre, era vissuto come un semplice lavoro, ma piuttosto come l’occasione di un gioco diverso, più responsabilizzante, ma pur sempre un gioco. Si faceva a gara, nella corsa, con i vitelli più agili, si cavalcavano le capre o le pecore in improbabili corride. Perfino l’uccisione, mediante torsione del collo, delle galline o, con l’assestamento di un preciso colpo alla nuca, dei conigli, che poi venivano scorticati, era occasione di divertimento, anche se, in queste occasioni, con un po’ di perplessità. Con un minimo di concentrazione, potrei continuare di questo passo e ricordare mille altre occasioni di gioco, ma penso che quanto scritto fin’ora possa bastare a farvi capire perché mi vengano i brividi, al solo pensiero che debbano esistere degli animatori, che ti insegnano a divertirti. Ma siamo matti? Credo di sapere da me stesso come passare il mio tempo, fra ricordo e immaginazione.

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Capitolo XXVII

FLASH Il povero Nesto, che possedeva un mandolino, strimpellando lo strumento, cantava: “sul dirigibile voglio andar, perché il mio cognato, in terra, non mi lascia star”. Al di là delle difficoltà, che tutti possiamo incontrare nel rapporto col parentado, l’aspirazione mi sembra legittima. Che il povero Andrea Barberì fosse uomo tutto d’un pezzo era risaputo, ma doveva altresì possedere una certa cultura, per riuscire a salutare mia sorella, quando la incontrava, lungo le strade del paese, in quello strano modo: “dove vai, Lucia Mondella?” E come mi raccontò sua moglie, la povera Ghita, mi fece molta impressione la maniera in cui egli affrontò i dolori al petto, la notte che poi se ne andò: cantando il “Te Deum”. Si tornava da non so dove, il povero Cesere Maranghel davanti, ed io, una ventina di metri dietro. Giunti al “fontanì” del “segrà”, in fondo alla discesa della “Crus”, quello ricavato nel muraglione di sostegno del sagrato, appunto, il Cesare si fermò di colpo, per rispondere al saluto del povero Varisto, uscito, in quell’istante, dalla porta di casa, sul pianerottolo antistante. Dopo i brevi convenevoli di rito, il Cesare ebbe a dire: “adesso che è morta la povera Giòt, i più vecchi del paese siamo noi. Sei 137


pronto a fare i bagagli?” Il Varisto non rispose nulla, ma il suo silenzio fu ancor più eloquente di qualsiasi discorso. Già, il povero Varisto era fatto così: un uomo solitamente molto affabile, amante della buona conversazione, che sosteneva e rilanciava con i suoi inimitabili “me rrrecorde”, mi ricordo..., mantenendo la erre più lunga possibile, per richiamare l’attenzione altrui, che diventava assai triste e all’apparenza molto depresso, ogniqualvolta doveva far visita alla salma o partecipare al funerale di un moernese. Non dovettero passare molti anni perché io stesso, ripensando a lui, mi trovassi a rivivere le stesse emozioni. Forse fu sempre lui, il Varisto, a raccontarmi del mio povero bisnonno, “Gambet”. Il bisnonno, morto ultranovantenne, lo stesso giorno, sostiene mio padre, che freddò, su nella Paul, un coniglio selvatico, era padre di dieci figli. Uno di questi, Giovanni, studiò, con eccellenti risultati, teologia e divenne sacerdote. Era così bravo che fu inviato a Roma, per proseguire con gli studi, dopo la consacrazione. Ma, presto, giunse la notizia peggiore: Don Giovanni era morto, per malattia, credo. Al bisnonno Gambet non restava che partire. Dovendo passare, per forza, da Brescia, pensò bene di incontrare una delle figlie che lì lavorava, come serva, presso una famiglia. Faticò molto a trovarla e quando ci riuscì, la sua Giacomina era distesa, fredda, sul tavolaccio di marmo dell’obitorio del138


l’ospedale, uccisa dal tifo. Il resto del racconto non lo ricordo bene, non sono nemmeno sicuro della giusta sequenza temporale degli avvenimenti, ma il senso del tragico che ad esso associai, quello, lo ricordo molto bene. Nonostante tutto, però, il bisnonno Gambet, era uomo dotato di uno straordinario umorismo e bontà d’animo. Lo chiamavano Gambet per via delle sue gambe corte ma, probabilmente, era alto nello spirito. Capovalle confina, naturalmente da sempre, con Moerna e così, in occasione dell’unificazione d’Italia, con Vittorio Emanuele II°, ci fu l’occasione perché gli abitanti di quello splendido paese, potessero dare sfogo al loro neonato patriottismo. Va detto che Moerna, facendo parte dell’impero Austro-Ungarico, si sentiva già parte di una grande nazione, con un grande imperatore: Francesco Giuseppe. Fatta l’Italia, gli abitanti di Capovalle, non perdevano occasione per ricordare ai moernesi: “Madona (con la o chiusa), voi avete il vostro Francesco ma noi, adesso, abbiamo il nostro Vittorio”. La grande guerra poi, ci fece diventare tutti fratelli, quelli della Valvestino, ex austriaci, e quelli di Capovalle, freschi italiani. Si era all’ora di religione e il povero Don Fermo mostrò al Nando un’immagine: un bianco pennuto sovrastava una bellissima fanciulla, in atteggiamento orante, che, presumibilmente, doveva rappresen139


tare la Madonna. Indicando il pennuto chiese: “Chi è, questo, Nando?” “Il gaenèl”, rispose, perentorio, il Nando. Certamente non trovò giustificazione al ceffone rimediato e la giustificazione non la troviamo neppure noi, ritenendo più facile, per un piccolo montanaro, confondere una colomba, che, tra l’altro, egli non poteva avere mai visto prima, con un falco, piuttosto che con lo Spirito Santo! Il povero Bori era un commerciante e non perdeva occasione per dimostrare le sue capacità, nel settore. Credo sia stato il primo, in paese, a possedere un televisore e non potendo certo negare, a noi bambini, di assistere, qualche volta, a quello spettacolo, escogitò un sistema assai moderno, per unire l’utile al dilettevole. Ogni tanto, la televisione si spegneva e perché riprendesse a funzionare, era necessario inserire, in una scatolina, dotata di apposita fessura, collocata di fianco al magico scatolone, una monetina di un certo valore e la cosa si ripeteva, per un certo numero di volte, fino alla fine del programma. Nessuno sospettava che fosse il Bori a togliere la corrente e finchè c’erano spiccioli, lo spettacolo continuava. Per fortuna, quando anche altri acquistarono la televisione, non ci fu più bisogno del marchingegno mangiasoldi: miracoli della concorrenza. Mio nonno Lesio (Alessio), non c’entrava niente con Moerna. Già, poiché mia madre è toscana, 140


nativa di Codolo, frazione di Zum Zeri e quindi i suoi genitori, di là erano. Ma la sua storia personale, la sua sensibilità ed il destino della sua terra natia, resero mio nonno particolarmente simile e in sintonia con noi moernesi. Anche per questo, io lo sentii, sempre, particolarmente vicino. Lo amai come nonno e compagno di sventura. Quando mi sposai, fu particolarmente felice e fece inorgoglire mia moglie dicendole che il suo semplice vestito da sposa, in pizzo Sangallo, era il più bello che avesse mai visto. Non disse null’altro, in proposito. Solo una volta, senza che ne fosse richiesto, mi confidò: “Sono convinto, Pierino, che solo nell’intimità, si capisce se una donna ti vuole veramente bene”. Voi che ne dite? Morì ultra novantenne, con la mente lucidissima e l’animo giovanissimo. A me, che ero corso al suo letto d’ospedale, giù a Pontremoli, dopo essere stato raggiunto dalla notizia della sua improvvisa malattia, disse: “questa volta, Pierino, è finita”. Pianse qualche lacrima, che mi invase l’anima, come un’ alluvione ma poi, senza altre parole o atteggiamenti, mi strinse semplicemente, con forza, le mani. Molti anni prima, quand’io avevo otto anni, in occasione di una vacanza estiva presso lo zio Bepino, a casa del quale il nonno abitava, con la nonna Rosina, per dare una mano nel lavoro dei campi, ebbi modo di sperimentare la straordinaria forza e dol141


cezza delle sue mani, che mi afferravano per posarmi, di peso, sulle sue ginocchia. In quella posizione imparai, da lui, delle canzoni che allora, ma anche adesso, mi sembravano bellissime: lo spazzacamino, la tradotta, piemontesina bella, l’anima mia etc. E poi, raccontava favole incredibili, come quella del cappello da prete a tre punte, che mi sembrò oltremodo magica ma di cui, aimè, non ricordo più la trama. Quando poteva, non perdeva occasione di ricorrere al suo innato senso dell’umorismo e così, se qualcuno gli diceva: “come va Alessio?” Poteva rispondere: “Mi fa terribilmente male una scarpa”. Dopo pranzo, anche senza che la cosa gli venisse richiesta sentenziava: “sono mangiato bene”. Oppure, con fare pensoso, che lasciava intendere profonda preoccupazione: “penso proprio che mi dovrò rivolgere ad un medico. Mi capita, a dire il vero, una cosa molto strana, ogni volta che finisco il pasto: mi scappa tutto l’appetito. Non sarà mica qualcosa di serio?” Fra gli altri, durante gli anni della grande guerra, da lui combattuta sugli altipiani di Asiago, conobbe sicuramente molti commilitoni romani e probabilmente, rimase molto colpito dalla loro parlata. Certamente, quindi, è da ricollegare a quell’esperienza il suo particolare modo di rispondere, a volte, alla domanda solita, come va, con un perentorio: “stò morto bene”. Una sera di quell’estate di vacanze 142


toscane, ci si trovò in gran numero attorno ad un tavolo, per festeggiare, dopo una giornata di duro lavoro. Qualcuno iniziò a disquisire di vino, acqua, acquavite e bevande simili. Ad un certo punto, mi sembrò che il discorso si fosse incartato e l’intervento del nonno valse a riportare il tutto entro il buon gusto. “Sapete, disse con cipiglio, una volta, una discreta quantità di acqua, mi entrò, contro la mia volontà, in una scarpa. La cosa mi diede un tale fastidio che da lì in poi, l’acqua mi è diventata particolarmente antipatica e credetemi, le preferisco un buon bicchiere di vino”. Tutti scoppiarono a ridere e non ci fu più bisogno di discussioni. Amava, dunque, il buon bere e il mangiare, ma quando la nonna Rosina, o la mamma, sembrava volessero obbligarlo a mangiare di più, rispondeva, con calma e fermezza: “Io mangio per star bene e non per star male”. L’esperienza della grande guerra lo aveva, probabilmente, segnato nel profondo e non avrebbe potuto essere altrimenti. Di tutto quello che mi raccontò, ricordo solo pochissimi episodi e due di questi meritano di essere salvati. Una volta, alla sua compagnia, venne dato il compito, oltremodo gravoso, di portare un grosso cannone dal piano fin su, nelle trincee, in prima linea. A complicare l’impresa ci si mise anche il tempo, con una pioggia incessante, che aveva trasformato l’irta mulattiera in un pantano scivoloso. Fu necessario smontare 143


parzialmente il cannone, per evitare lo sprofondamento delle ruote e solo dopo molti giorni di sforzi sovrumani e abnegazione, finalmente, il cannone raggiunse la sua postazione. Ma la cosa peggiore, per il nonno e i suoi compagni, non fu la fatica rimediata, ma le umiliazioni subite. Il capitano, o il tenente, o comunque il graduato che comandava l’operazione, invece di assecondare e incoraggiare i loro sforzi, li apostrofava in questo modo, all’incirca: “spingete, bastardi buoni a nulla, spingete”. Pazienza, bisognava sopportare tutto! A lavoro ultimato, tutti vennero radunati, con l’inconfessata speranza di ricevere un premio, in un piccolo spiazzo fra le trincee. Ma la speranza durò veramente poco e presto si capì che quella riunione serviva solo a preparare una nuova, inconcludente carneficina. “Avete capito bene?”, disse, alla fine, l’alto ufficiale presente. “ Certamente”, rispose qualcuno fra lo stupore generale, “ma sarebbe stato meglio che ci aveste dato almeno il tempo di rifiatare e magari di far visita, con una breve licenza, alle nostre famiglie”. L’indomani, quel qualcuno venne fucilato. Mio nonno ebbe l’impressione che le pallottole del plotone di esecuzione, colpissero anche lui. Povera Italia! Un giorno, un suo compagno di trincea, gli comunicò la sua tristezza legata al fatto che mai nessuno dei suoi familiari aveva risposto alle sue 144


lettere. Neanche mio nonno seppe darsi una spiegazione e solo alcuni giorni dopo, lo colse un dubbio. Chiamò il suo amico e gli chiese di mostrargli una lettera, prima dell’invio, onde poter controllare la plausibilità dell’indirizzo. I suoi sospetti risultarono fondati; sul frontespizio della busta lesse: “DIRETTA PER CASA MIA-LA CASA E’ VICINA AL FICO-LO POSTINO MIO MI CONOSCE”. Seguiva Il nome del paese, che ora non ricordo. Fu sufficiente introdurre qualche piccola modifica all’indirizzo e il nostro, trovò il sistema di comunicare con i suoi. Ma non per molto, purtroppo, poiché la patria pretese il suo sacrificio. Certamente, dopo l’esperienza surreale della prima guerra, il nonno non poteva immaginare che, di lì a qualche anno, si sarebbe nuovamente trovato nel bel mezzo della follia: la seconda guerra mondiale. Passò gli ultimi mesi di quel triste periodo, per la maggior parte del tempo, nascosto in una specie di catacomba scavata sottoterra, con altri uomini del paese, per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi. Questi ultimi, li detestava e già li aveva combattuti con onore e vinti; i fascisti li detestava, però, ancora di più, soprattutto da quando uno di loro tentò di violentare la nonna Rosina, che in quel momento si trovava a letto con in braccio il povero zio Quinto, nato da poco. Solo il risoluto intervento di un graduato tedesco, evitò il misfatto. 145


Ma non aveva troppe simpatie nemmeno per i partigiani del luogo. Li definiva oltremodo prepotenti e scaltri, nel pretendere cibo e favori dalla gente, che non aveva nemmeno il necessario per sfamare i figli. E non riusciva a trattenere lo sdegno nei loro confronti quando ricordava l’episodio in cui essi, benché più volte avvertiti dalla gente, dell’arrivo dei tedeschi, preferirono continuare a banchettare, rumorosamente, incuranti del pericolo e sicuri della propria organizzazione. Che orrore quando i tedeschi, in forze, li sorpresero e li passarono, tutti, per le armi. Dal ventre di quei poveri ragazzi, uscivano i cibi appena ingoiati, prima che i loro cadaveri venissero gettati, come spazzatura ,dalla rupe sottostante il paese.

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Capitolo XXVIII

ANGOSCIA Chi, come me, avendo vissuto la sua infanzia, negli anni sessanta, a Moerna di Valvestino, facesse, ogni tanto, ritorno lassù, non potrebbe esimersi dal provare un certo groppo al cuore. Se avete un po’ di pazienza e mi seguite in questo breve percorso immaginario, lungo le vie di Moerna, capirete il perché. Svoltata la curva della sega, nella val de Fa, passato il bivio per San Rocco, si arriva alla prima casa del paese, sulla destra: il caseificio, ora ristrutturato e rigorosamente vuoto. Una volta, però, questo edificio era il cuore economico del paese. Voluto, forse, ancora durante la dominazione austriaca, esso funzionava così: tutti coloro che avevano mucche da latte e cioè la quasi totalità della popolazione, portavano, ogni mattina, dalle 5 alle 6 e ogni sera, dalle 17 alle 18, il latte munto, che veniva pesato e conservato, in capaci recipienti, immersi in una fontana di acqua corrente. Al raggiungimento di un certo quantitativo, a turno, ognuno doveva lavorare il latte per produrre burro e formaggio, unica vera fonte di possibile guadagno, oltre che alimenti base della cucina, assai povera, di queste montagne. E così, sarebbe bastato piazzarsi davanti alla porta del caseificio, per incontrare, due volte al giorno, almeno un elemento di 147


ogni famiglia del paese, scambiare quattro parole e rendersi conto di come funzionava, tutto sommato bene, quella forma di collaborazione economica, che richiedeva rispetto assoluto delle regole e della struttura. Un po’ alla volta, il via vai dei moernesi, verso il caseificio, con i loro secchi del latte appena munto, è calato, fino a terminare. La maggior parte di loro ha compiuto un viaggio verso un’altra struttura, che si trova su alla croce: il camposanto. Di conseguenza, ora, il caseificio non serve più a nessuno. Ma che bei ricordi suscita ancora. Che soddisfazione quando arrivava il proprio turno di raccogliere il latte e poi di “caserare”. Che bevute di latte, che mangiate di ricotta. Che gioia per la conquista di quelle misere ricchezze: qualche chilo di burro e una forma di formaggio. Pochi passi e subito dopo la strada che porta nella “coltüra”, ecco la casa del povero Milgio. E’ ancora abitata da sua moglie, la Maria dal casel e suo figlio, il Carletto (mentre scrivo queste righe, il 23 aprile 2006, mi raggiunge la notizia della morte della Maria, poche settimane prima del compimento del suo novantesimo anno d’età). Il povero Milgio, che era sempre stato il nostro sacrestano e aveva un bel numero di pecore, era un uomo di una mitezza più unica che rara. Come bambino, piuttosto vivace e ribelle, nelle vesti di chierichetto, non ricordo, da parte sua, nei miei confronti, nessuna prepotenza 148


o imposizione di sorta; e sono sicuro: ne avrebbe avuto certamente le motivazioni. Ora, quindi, al “casel”, ci abita solo il Carletto, in una casa di tre appartamenti, su tre piani. Riprendiamo la strada provinciale che, sotto il paese, dal “casel”, passando per le “grase”, porta a “corsèt”. Dopo pochi passi, sulla sinistra questa volta, ecco la casa del povero Tone “Meca” e della povera Orsolina. Della seconda, vi posso garantire che era l’incarnazione della mitezza, mentre del primo ho un ricordo più ginnico. Mi vedo ancora mentre scappo a gambe levate, in mezzo alla neve, lungo la strada del casel e poi, raggiunta la piazza, giù, verso corsèt, con lui che mi rincorre infuriato. Pensavo di averlo seminato quando, improvvisamente, mi si para davanti il Dario che mi blocca, con l’intento di consegnarmi nelle sue mani. Chissà perché era così arrabbiato con me? Quando oramai stava per afferrarmi, riuscii a divincolarmi, dopo essermi finto rassegnato e via, come un fulmine. A parte questo, l’immagine più nitida di lui, che mi è rimasta, è quella di un uomo dedito perennemente al lavoro, ma senza fretta. Lo si incontrava, estate e inverno, mentre camminava con ai piedi gli insostituibili zoccoli ferrati e con una mano appoggiata su un fianco. E’ una bella casa questa, completamente ristrutturata, affiancata, a occidente, da un giardino a forma triangolare il cui perimetro è costituito, appunto, 149


dalla casa a est, dalla strada che stiamo percorrendo, a sud e, a nord-ovest, dalla strada del “casel” che porta in centro al paese e che percorreremo, se mi seguirete, in seguito. In questa casa, che potrebbe ospitare quattro famiglie, ci abitano la Domenica e suo fratello Rosario Ferrari, lei è la mia unica coscritta, mentre il Rosario è più giovane. Subito dopo troviamo, attaccate alla casa appena descritta, le stalle con i fienili dei Porte e staccata da un androne centrale, la stalla dei Federichi che adesso è stata acquistata e restaurata dal Gioanì. Stalle e fienili sono, naturalmente, vuoti. Subito dopo la stalla dei Federichi, come quest’ultima un po’ distanziata dalla strada da un orto, una volta ben tenuto e ora incolto, ecco la casa dei Ferrari, abitata saltuariamente dal Lino, fratello della Domenica e del Rosario, con la sua famiglia. Un altro androne, in cui passa la strada dei Ferrari che permette di raggiungere la strada più alta, del casel, ed ecco un altro casamento enorme, dove ci abitava il povero Luigi Bora, con sua moglie, Erminia. A parte qualche giorno, in agosto, tutto rimane chiuso e ci sarebbe spazio per una trentina di persone. Ancora uno stretto androne, ed ecco la casa del Mario Rizzi. Con tenacia, egli ha trasformato una casa molto modesta, in cui era nato e aveva vissuto, per qualche anno, con i suoi genitori, sua sorella e suo fratello Aldo, in una graziosissima abitazione di montagna. 150


Del povero Aldo, suo fratello, va detto che visse come pochi esseri sanno fare: senza limiti. Una volta, con il suo amico e cugino, il povero Celestino, decisero di cimentarsi in una gara automobilistica, per stabilire chi fosse, dei due, il pilota più abile. Saliti a bordo delle loro fiammanti Wolskvaghen, nuove di zecca, partirono a razzo, uno verso Capovalle e l’altro verso Persone, con l’intento di fermarsi, al momento di incrociarsi, sulla strada che collega, a cerchio, questi due paesi e controllare chi avesse percorso più chilometri. Così avvenne ma con un piccolo particolare: si incrociarono in una curva stretta, a folle velocità e finirono entrambi fuori strada, pieni di ammaccature, senza più le loro automobili, comperate con tanta fatica ma, avendoli conosciuti, sono certo, ugualmente felici. Dietro alla casa del Rizzi, si intravede la scuola. Si fa per dire, la scuola, visto che adesso è una casa qualsiasi, acquistata da non so chi, forestiero. Ma comunque, adesso, a Moerna, la scuola non serve più; prima di essa, servirebbero i bambini. Già, una casa qualsiasi per voi, ma non per me, e neanche per mio cugini Angelo. Fu proprio lì, nella scuola, che, quella volta, probabilmente in quinta elementare, don Felice, all’ora di religione, invece delle solite cose o di un pezzo dell’incredibile storia di Fagiolino il quale, pur dovendo affrontare avventure pericolosissime e combattimenti morta151


li, riusciva sempre a cavarsela, poiché in possesso di un pentolino contenente una colla magica che, spalmata, faceva rimarginare ogni ferita e riusciva anche a riattaccare membra staccate, decise che era giunto il momento propizio per impartirci una lezione di educazione sessuale. Che cose ci disse! Da non crederci. Stà di fatto che, finita la lezione, mentre tornavamo a casa, con mio cugino Angelo, perplesso quanto me, non potei esimermi dal renderlo partecipe di una mia certa scoperta. “Hai visto Angelo”, dissi pensoso, “le donne sono come le mucche”. L’età e l’innocenza da montanari, non ci permettevano illazioni maliziose, per cui la sua risposta fu limpida, come l’acqua che ci fermammo a bere alla fontana, in piazza: “si”. Fatti pochi passi, ecco la prima delle due case dei Comincioli, quasi sul ciglio della strada. Ma fermi! Guardiamo prima, un attimo, indietro e in basso, pochi metri sotto la strada. C’è la casa del povero Pino e di suo fratello, il povero Serafino. Costruita alcuni decenni orsono, salta subito all’occhio perché ha uno stile diverso dalle altre case. Sembra una villa signorile, con tanto di giardino perimetrale. Nelle intenzioni dei due fratelli, doveva certamente essere l’emblema di una nuova vita, di una specie di rinascita e di rivincita sulle restrizioni antecedenti ma rimase, invece, come una specie di incompiuta, o meglio, di cattedrale nel deserto. 152


Purtroppo il Pino, che faceva il postino e quando parlava aveva delle giugulari che si gonfiavano come un budello al momento di essere insalamato, morì troppo presto e suo fratello, Serafino, che aveva i più bei baffoni di Moerna, lo seguì molto presto e la villa dei sogni rimase praticamente vuota. Dicevamo delle case dei Comincioli. Il Giuseppe, l’unico che io ho conosciuto, era una pasta d’uomo. Non avrebbe fato male ad una mosca e noi bambini, questa sua bontà d’animo, la sentivamo. Passò una vita da emigrante e gli svizzeri, per riconoscere la sua fedeltà al lavoro, gli donarono una medaglia d’oro, strameritata. Purtroppo non riuscì a godersi la pensione per molto. Gli unici due lussi della sua vita, il bere e il fumare, non lo lasciarono invecchiare. Era balbuziente e bastava che aprisse bocca perché, noi bambini, lo si stesse a sentire, estasiati. Un giorno lo incontrò mio fratello, mentre saliva da Corsèt. “Hoo Giuseppe”, salutò, educatamente ed egli, guardandolo fisso negli occhi, rispose serioso: “ grr.....immatea”! (Giuseppe d’Arimatea è un noto personaggio dei vangeli). Un’altra volta, all’osteria, si stava disquisendo sulle notevoli difficoltà che si possono incontrare nella realizzazione di un buon matrimonio. “A me”, sentenziò sorridendo il povero Cominciali, “non poteva in alcun modo andare male; se non avessi sposato la Rina, mia attuale moglie, avrei sposato la Masen153


sa, sua sorella”. Inarrivabile semplicità. Dietro la prima casa dei Comincioli si intravede, separata da alcuni orti ben coltivati, la sagoma bianca della casa di proprietà della mia famiglia, dove visse anche la povera Angelina Giòt e di fianco, la casa del povero Fedele, alla quale si accede dalla piazza del paese e che ospita, al suo interno, la bottega, prima gestita da suo padre e ora dalla Ida. Il padre della Ida, della Alberta e del Piero, che abitano, appunto, nella casa di fianco alla mia, era un uomo basso di statura ma, evidentemente, da non sottovalutare. Una volta, stava tornando da Magasa, dove si era recato, con alcuni amici, a festeggiare i “trudi”. Camminando di buon passo e discutendo del più e del meno, annullarono, ben presto, i cinque o sei chilometri che li separavano da casa e in poco tempo raggiunsero la pazza di Moerna. A questo punto, il povero Fedele, quasi a voler sottolineare il suo assoluto ottimismo, sentenziò: “sacramantua, se avessi qui, tra le mani, un leone, lo lancerei fino in Camiol”. Camiol, è la montagna che si trova dall’altra parte della Valvestino, rispetto a Moerna. La prima delle due case dei Comincioli, divisa esattamente a metà in senso verticale, è ora abitata a ovest dalla Rina, vedova del povero Giuseppe e ad est dalla Freni, vedova del povero Ugo. La seconda, separata dalla prima da una stradina, di accesso alla strada provinciale, è stata acquistata 154


dalla Annarosa e da suo marito Maurizio, per trascorrervi qualche giornata in estate. Attaccata ad essa, sul lato a nord-est c’è la casa del Dario, già abitata dai suoi genitori, la povera Bepa e il povero Narciso, detto Galina. Conservo di questa casa due ricordi, uno bello e l’altro un po’ meno. Quello bello si riferisce alle ore liete passate nella stanzina, adiacente alla cucina, insieme agli amici, a vedere Rin-tin-tin, alla televisione. E sì, nei primi tempi, le televisioni erano forse due o tre, in tutto il paese e quindi, solo la pazienza e l’ospitalità di pochi, ci permettevano di godere, estasiati, di questo incredibile spettacolo. L’altro ricordo è, invece, legato ad un rimprovero che il Dario mi rivolse, mentre scappavo di corsa, scendendo le scale che partono dal terrazzo antistante alla sua cucina. “ Lo sai che sei uno sfacciato?” Borbottò, rivolgendosi chiaramente a me. Io non sapevo bene cosa significasse quell’epiteto, ma non mi sembrò un complimento e d’altronde, non me la presi più di tanto, benché non avessi afferrato completamente il motivo della sua arrabbiatura ma certo, dentro di me, sapevo che tutto ciò era da mettere in relazione alla mia profonda collera verso il don Battista, ospite della sua famiglia, quel giorno, per il pranzo. In fondo alla cucina del Dario c’è un vecchio camino, corredato da due capaci panche laterali e sormontato da un’ampia cappa. Quel giorno il povero Narciso e la povera 155


Bepa inciamparono in una normale discussione di famiglia. Ma il Narciso non era proprio dell’umore necessario per intraprendere un lungo battibecco e per comunicare questo suo stato d’animo si alzò, da una delle panche sulla quale era seduto, infilò la testa su per la cappa del camino, sicchè scomparve quasi completamente alla vista, lasciando intravedere solo le sue braghe fino all’ombelico e quindi proclamò a gran voce, su per il camino: “Signore, liberami dalla vecchia”. A nord, senza soluzione di continuità, c’è la casa di mio cugino Agostino, dove egli vive, udite udite, con sua moglie e le sue tre splendide figlie: in questa casa, come in poche altre, c’è la vita. Prima che egli la acquistasse e la rimettesse in ordine era di proprietà della povera Santina e di suo marito, il povero Marco. Ah come ricordo volentieri la povera Santina, la sua straordinaria semplicità, le sue ruvide mani, da uomo, che si muovevano con incredibile velocità nel lavoro dei campi, il suo coinvolgente appetito. Come dimenticare i suoi intercalari: “valà vecio e cascio”. Io non sapevo assolutamente il significato della parola cascio e rimasi oltremodo stupito dell’atteggiamento di disapprovazione tenuto, quella volta in macchina, dal don Felice e dal Gustavo, nei miei confronti. Ma cosa volete da me, perché mai non posso dire cascio, come la Santina, pensai, guardate voi stessi, piuttosto. Molto più tar156


di capii il significato di quella parola ma, ve lo assicuro, pronunciata dalla povera Santina, aveva tutt’altro significato, in barba al don Felice. Una volta mi raccontò brevemente la storia del suo contratto matrimoniale. “Vedi”, mi disse, con disarmante naturalezza, “il mio povero Marco mi chiese in sposa a mio padre e in cambio gli offrì una mucca. L’accordo ebbe luogo a procedere ed il matrimonio si fece, con gioia, anche senza il viaggio di nozze”. Pensando a lei, penso alla bontà in persona. Il povero Marco, invece, non me lo ricordo, ma di lui conservo due episodi riportatimi rispettivamente dal Vittorio e dal Piero, che ci fanno ben capire che pasta d’uomo egli fosse. Una volta, così mi raccontava il Vittorio, si ritrovarono in una bella compagnia, all’osteria. Il povero Marco doveva aver mangiato qualcosa di vagamente lassativo, poiché si lamentava di un certo brontolamento intestinale, che cercò di sistemare con parecchi calici di rosso. Ad un certo punto, però, il mal di pancia ebbe una puntata superiore alle altre e il nostro non potè trattenersi dall’andare di aria. Con fragore. Subito dopo, paonazzo in viso, si alzò dalla sedia e scomparve. Il giorno seguente, il Vittorio lo incontrò al Casel : “buongiorno Marco, ma cosa è successo ieri sera, che ve ne siete andato così all’improvviso?” “MMM, mi è capitato ancora di sporcare le mutande, per colpa di una pernacchia, ma mai di farne 157


tanta da riempire una tinozza (en soi)”! Un’altra volta, invece, come sostiene il Piero Fedele, il solito gruppo di amici d’ osteria, era assai preso da una discussione vertente sulle donne, sulla fedeltà matrimoniale e su piaceri e insidie legate al sesso. Il povero Marco ascoltava con interesse, scuotendo ogni tanto la testa e sorseggiando più o meno a lungo il vino, che aveva nel bicchiere, in base al variare dell’argomento. Ad un certo punto non ne potè più e con tono tra il serioso e lo stupito, sbottò: “ è inutile che continuiate a parlare, - a osel tirat no ghè pio’ versi ragionar-, capito”? Dopo circa una ventina di passi, sempre in direzione Persone, si arriva al bivio di corsèt. Sulla destra c’è la casa del Bortolì, che fu dei Ciadì e sulla sinistra inizia la salita, di corsèt, appunto, che porta su, alla piazza del paese. Anche il Bortolì ha trasformato una vecchia casa, con annesse stalle e fienile, in una bellissima abitazione, adatta ad ospitare una famiglia numerosa e ancora di più. Che tristezza saperlo lì dentro da solo! Il tempo di osservare la strada che sparisce in una curva a sinistra, verso la “ravera de bel ” e quindi, lasciando spaziare lo sguardo verso nord, di vedere le sagome, prima della tettoia che fu del povero Tone Meca e che, a guisa di magazzino, costeggia, per qualche metro, la suddetta strada, poi della casa dei Cenèle alla quale essi fanno ritorno, dal Canada e dalla 158


Francia, per qualche giorno l’anno e in fondo, della casa che fu di mio zio Gregorio e della sua famiglia numerosa, ora abitata, in splendida solitudine dalla zia Catina. Abbassiamo ora lo sguardo e cominciamo a salire, lungo la strada di corsèt. Dopo pochi passi incontriamo, sulla nostra destra, la casa del povero Costante e della povera Orsola, sua moglie. Le ante sono rigorosamente chiuse, ma la casa è ben tenuta grazie al Tarcisio, che pur abitando in Svizzera, non ha voluto recidere le proprie radici. Sulla sinistra, invece, lasciamo la casa di mio cugino Agostino di cui vi ho già detto. Intanto siamo arrivati al Fontanì da corsèt, messo lì a demarcare un altro bivio: dritto per la piazza del paese, con, sulla sinistra, la mia casa e a destra, verso le altre case di corsèt. Questo crocevia del paese mi è rimasto impresso nella mente, poiché proprio lì si è svolta una scena di vita, piuttosto inconsueta. Mi ero appena alzato dal letto e mi stavo avvicinando alla finestra, aperta giacchè eravamo in piena estate, ma con le ante socchiuse. Subito notai che, all’incrocio del “fontanì,” stavano arrivando, da direzioni diverse, l’Angelo con suo padre, il povero Andrea, e la povera Giostina con suo marito, il povero Gioan Ciadì. Nemmeno il tempo di scambiarsi due parole che subito passarono alle vie di fatto e giù sberloni. Ero un bambino di circa sette o otto anni e mi venne spontaneo pensare che, spesso, gli 159


adulti e i bambini si comportano nello stesso modo. Andiamo a destra per costeggiare la casa del Tarcisio, dal lato nord, e poi quella del povero Tone Gì e quindi quella della zia Catina. In fondo a questa strada, incuneata tra un altro bivio, c’è la casa del Vittorio e quella di suo figlio Angelo che egli ha acquistato dai figli della povera Iolanda. Il belare delle capre, rinchiuse in una stalla, ci conferma che c’è vita, inaspettatamente. Oltrepassiamo la casa del Vittorio, un po’ rincuorati da questi rumori di vita e raggiungiamo, non senza un po’ di fatica, la strada del Dos, che collega la piazza alle case site a nord-est e alla strada di Poral che porta nella Paul, nella Bösca e al monte Stino. Guardando di sotto si vede quello che, in modo paradigmatico, chiameremo: il quartiere del Dos. Un gruppo di case che formano all’incirca un cuneo il cui vertice raggiunge la piazza, capace di contenere si e no una cinquantina di stanze, in realtà abitato, in maniera fissa, da quattro persone. Percorrendo la strada del Dos, si scende fino in piazza e ci si lascia, sulla destra, un altro quartiere che noi chiameremo, con licenza, dell’Orio. Di forma all’incirca triangolare, con vertice opposto a quello del Dos, esso racchiude una sessantina di vani ed è abitato da tre persone. Intanto, siamo arrivati in piazza. Veramente, la piazza di Moerna, è più un’idea che un reale contesto. Se immaginiamo la strada che da corsèt porta 160


su in cima, all’Orio, come una lunga scala, allora, la piazza è paragonabile ad un pianerottolo, di pochi metri quadrati, che spezza, appunto, la scala in due tronconi. Non manca, comunque, la fontana, ora più piccola, ma un tempo grande abbastanza da fungere da abbeveratoio principale, per le mucche del paese. E’ il centro esatto del paese e ad essa convergono tutte le strade: da nord quella dell’Orio, da nord-est quella del Dos, da sud-est quella di corsèt, da sud-ovest quella del Casel, da nord-ovest quella della Crus. Sopra la piazza, sorretta da un possente muraglione (el mur de la cesa o del segrà – il muro della chiesa o del sagrato) c’è la chiesa e dietro e sopra, l’albergo, ovvero la casa del Franco e della Tersilia, con i loro figli. Anche in questa casa ci sono bambini e quindi c’è vita, speranza, futuro in embrione ma per quanto ancora? La chiesa, insieme al caseificio e alle osterie, era uno dei punti nevralgici del paese. Se vi capitasse di assistere ad una funzione religiosa, magari una santa messa, dei nostri giorni, credetemi, assistereste, rispetto a quello che erano, un tempo, le funzioni religiose a Moerna, ad un mortuorio. Adesso è un susseguirsi di formule, ripetute fino alla noia, incomprensibili dai bambini e non solo, con quattro gatti che monopolizzano, in un angolo della chiesa, i canti, strimpellando magari una chitarra, nel nome della modernità. Quando noi eravamo 161


bambini, era tutta un’altra musica, nel vero senso della parola. Intanto si faceva a gara per vestirsi da chierichetti e spesso si era così in tanti da occupare tutto l’altare principale e poi, quando c’era da cantare, si cantava tutti, uomini e donne, piccoli e grandi. Per non parlare delle processioni e delle funzioni, come i vespri, in occasione delle feste maggiori; la regola era: partecipazione attiva. E noi bambini ci sentivamo i primi attori, come quando, il venerdì santo, nel silenzio delle campane, dovevamo chiamare a raccolta, alle tre del pomeriggio, tutta la gente per celebrare, in chiesa, la commemorazione della morte di Gesù, sul Golgota, facendo il giro del paese agitando le nostre “ scresarole” (battole-raganelle) e immancabilmente, si arrivava tardi alla funzione, provocando le ire del nostro parroco. Ma Gesù, sono certo, capiva che il nostro ritardo era legato alla delicatezza del nostro lavoro di campanari itineranti e Lui, non aveva mai niente da rimproverarci. Adesso, ve lo posso garantire, i bambini che si trovano ad assistere alle funzioni religiose, sono felici solo quando il prete annuncia: la messa è finita. Esagerazioni a parte, nostalgie pure, ritengo innegabile una attuale minor partecipazione della gente alle funzioni liturgiche, poiché le stesse sono state private di quel minimo di spontaneità e di senso di appartenenza, che forse erano più presenti un tempo. Di fianco alla chiesa, c’è la 162


canonica, circondata a nord-ovest da un bell’orto, con frutteto, che annovera, tra le altre piante da frutto, due bei ciliegi (calem), sui quali ci facevamo certe indimenticabili scorpacciate. Sopra l’orto della canonica c’è la casa del Vito e di sua moglie Clelia, che tutt’ora ci abitano e non li credo, certo, intenzionati a desistere. In piazza, proprio sotto la chiesa si trova la casa dell’Angelo e della Adele, sua sorella e quindi, muovendoci lungo la strada che porta al casel, ci lasciamo sulla destra l’ultimo quartiere di Moerna, che chiameremo, per intenderci: dei Porte, perché un tempo era abitato da tante famiglie, molte della quali portavano il cognome Porta. Di forma grossolanamente circolare, potrebbe ospitare una cinquantina di persone ed invece è abitato da cinque o sei. Alla fine del quartiere dei Porte, isolata, sulla destra, incontriamo la casa del Gioanì e del Manuèle. Il Gioanì, con la moglie Andreina e i due figli, maschio e femmina è riuscito, come in solo altre due case del paese, a mantenere la propria oasi di vita. Coraggio. Già, coraggio. E’ proprio quello che ci vuole, adesso, per vivere quassù. Un coraggio smisurato, forse misto a incoscienza. Non smetterò mai di essere grato a questi amici che, con tenacia e orgoglio, non accettano di abbandonare la nave, ma resistono, permettendo ai paesi della Valvestino di sopravvivere e di mantenere il ricordo della propria storia, della pro163


pria identitĂ . Ogni volta che un Moernese muore, muore una parte di me, della mia famiglia di nascita, allargata e mi procura profonda angoscia il constatare che il drappello di superstiti si assotiglia sempre piĂš. Coraggio, abitanti di Moerna e della Valvestino. I nostri grandi vecchi, che ci hanno preceduto, ci aspettano senza fretta, non deludiamoli, facciamo loro vedere di che pasta siamo fatti: piĂš tenaci del futuro, che sembra averci abbandonati.

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