Duesenberg Brand Magazine

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“Il potere evocativo, quasi occulto e misterioso del dettaglio è la sua capacità di dire e non dire, di rendere visibile l’invisibile, presente l’assente.”

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Contatti via Meravigli, 19 20123 Milano Tel. 0233177271 f@finecomb.com www.finecomb.com

Questo periodico è iscritto alla FIEG Federazione Italiana Editori Giornali Registrazione Tribunale di Milano n°743 del 22/11/2007

Caterina Cedone c.cedone@finecomb.com Alena Lyskova a.lyskova@finecomb.com Greta Magri g.magri@finecomb.com Francesca Pieraccini f.pieraccini@finecomb.com Federico Pozzi f.pozzi@finecomb.com Gloria Tazzini g.tazzini@finecomb.com

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In copertina Dettaglio Riva Ariston Caratteri tipografici Klim Type Foundry Copia digitale www.issuu.com Questo numero È stato chiuso in redazione il 21 novembre alle 24:00


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Editoriale F

inecomb, letteralmente “pettine a denti stretti”, è una espressione che solitamente accompagna verbi quali scavare o ricercare, è una metafora utilizzata in riferimento ad un’indagine approfondita e accurata, che non lascia sfuggire alcun dettaglio, tema principale del nostro lavoro e chiave necessaria per raggiungere il prestigio e l’eccellenza. Le storie di persone e aziende dimostrano come l’ attenta cura dei particolari sia l’origine della raffinatezza e come la ricerca della perfezione, insieme all’ambizione, sia creatrice di identità forti,

che si fanno memorabili modelli d’ ispirazione. Il fondamento del prestigio delle migliori produzioni artigianali è non accontentarsi di un materiale pregiato, ma ricercare quell’unicum che garantisca il solo risultato valido, la sua straordinarietà. Dunque, lasciatevi ispirare dalle storie che leggerete e salite con noi sul gradino più alto del podio. Non tutti sono in grado di tessere la stoffa della leggenda, ma voi, i nostri lettori, avete gli strumenti per farlo.


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Il potere del dettaglio

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La fotografia di dettaglio, un giudizio sulla realtà

La storia di un’arte realizzata su misura

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Riva: navigare sull’onda dell’esclusività

L’importanza della selezione dei tessuti secondo il sarto romano

Quando il tempo diventa oro

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Alla scoperta della personalità di Carlo Riva e della sua azienda d’imbarcazioni di fama mondiale

A. Lange & Sohne, i segreti della creazione dell’orologio sopraffino

Sulle note di un capolavoro I violini Stradivari, il vero motivo della loro unicità

Lo chef Umberto Bombana e l’ingrediente stellato Il pluripremiato cuoco ci svela la ricetta del prestigio

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Il perfezionismo impossibile come aspirazione all’eccellenza

Artista ossessivo o genio imprescindibile? Stanley Kubrick, un’accuratezza che sfiora la follia

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Il lato nascosto di Steve Jobs, una meticolosità quasi maniacale

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Finecomb Redazione

Caterina Cedone

Greta Magri

Francesca Pieraccini

Alena Lyskova

Federico Pozzi

Gloria Tazzini

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Il potere del dettaglio “I dettagli fanno la perfezione e la perfezione non è un dettaglio.”

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a foto di ‘dettaglio’ o di ‘particolare’ si può considerare una categoria precisa nell’ambito della fotografia moderna, distinta dalla macrofotografia, prima che sul piano del risultato visivo, su quello dell’intenzione del fotografo. A differenza di ciò che avviene nella macrofotografia o microfotografia, due termini in apparente opposizione in realtà significativi dello stesso procedimento di ingrandimento di un soggetto piccolo, la foto di dettaglio opera a monte dello scatto una scelta precisa (ed inevitabilmente più o meno concettuale) tra la molteplicità dei particolari

che possono riassumere e sintetizzare un tutto nel modo giudicato più significativo. La foto che ne risulta, detta close-up mutuando il termine dal cinema, indica un primo piano di una parte, di un dettaglio estrapolato da un insieme. Ciò per esaltare un elemento che già appare particolarmente degno di risalto, oppure per mostrare qualcosa che l’osservatore casuale non coglie, portare alla luce un particolare significativo sfuggito ad uno sguardo superficiale sopraffatto e sviato dall’abbondanza di stimoli visivi. “God is in the details” dice Mies van der Rohe, appropriandosi di una frase probabilmente già pronunciata un secolo prima da Gustave Flaubert (“le bon Dieu est dans le détail”), già riferita anche da Benedetto Croce, che la attribuisce a Aby Warburg, “[...] un motto bizzarro ma profondo che soleva ripetere un dotto tedesco (o, se si vuole, ebreo-tedesco), altamente benemerito degli studi, il Wartburg, tenere sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare” (Benedetto Croce, Napoli, conferenza del 18 marzo del 1949). Una frase resa popolare non solo da molteplici citazioni, ma anche dalla sua parafrasi, di origini meno note, “Il diavolo è nei dettagli”,

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sussistendo tra le due parole chiave (dio e diavolo) un’insospettata equivalenza di significato, quantomeno mediatico, peraltro già rintracciabile in altri contesti.

Un dettaglio sconvolge tutta la lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione.

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Pur facendo ricorso ad opposte metafore, entrambe le frasi stanno ad indicare il potere evocativo, quasi occulto e misterioso, del dettaglio, la sua capacità di dire e non dire, di rendere visibile l’invisibile, presente l’assente. Anche Roland Barthes pare un convinto assertore del fatto che il dio che sta nei dettagli di un’immagine fotografica sia l’artefice delle emozioni più coinvolgenti ed irrazionali che essa suscita, il dettaglio non consapevolmente cercato, estraneo al messaggio veicolato dall’immagine, irrilevante rispetto al tutto, che emerge in modo imprevisto: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione”, così scrive di ciò che egli

chiama punctum. Inevitabilmente soggettivo, è un elemento variabile da osservatore a osservatore in funzione del suo vissuto individuale, della cultura, l’ambito sociale, ecc., tanto che Barthes non delega né richiede al fotografo la capacità di farlo emergere, anzi dice “la veggenza del fotografo non consiste tanto nel ‘vedere’ quanto piuttosto nel trovarsi là”. Nella foto di dettaglio, ‘trovarsi là’ presuppone un ruolo attivo di chi scatta, che sceglie per noi quello che ‘dobbiamo’ vedere, decidendo di escludere o inserire, di nascondere o portare in luce, svelare il punctum, il focus dell’immagine reale e consegnarlo all’osservatore, coinvolgendolo in un’esperienza mediata. Lo scatto “può evidenziare così intensamente un dettaglio da renderlo più convincente sulla lastra che nell’originale”: così scrive Nikolaus Pevsner sul potere del fotografo, che nella fotografia di dettaglio è il padrone assoluto del contesto, dei parametri dimensionali e spaziali, della percezione delle proporzioni. In questi termini, la foto di dettaglio, non è l’ingrandimento di un particolare, una semplice amplificazione visiva, acquisisce un’identità propria, separata dal tutto.


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Riva: navigare sull’onda dell’esclusività Quando la cura e l’esperienza centenaria creano una leggenda

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n quattro lettere, in una sola parola si condensano la storia, il mito, la tecnica ed il fascino della nautica made in Italy. La storia di una famiglia che da quattro generazioni costruisce imbarcazioni di eccellente qualità, attraverso il racconto di un’intera epoca, tramandato di padre in figlio che ha lanciato il design italiano nel mondo ai tempi della ‘dolce vita’, la tecnica in continuo aggior-

namento ed in continua evoluzione che ha sempre contraddistinto le creazioni del cantiere di Sarnico, il fascino del legno, dell’acciaio cromato e dell’esclusività di possedere un motoscafo Riva. Il cantiere Riva nasce intorno al 1820 quando il giovane Pietro Riva viene notato per la sua maestria nel riparare e costruire le imbarcazioni sul lago di Iseo e dal suo paese natale Laglio si


Finecomb Carlo Riva nel suo studio di progettazione

quando ridisegna ed ottimizza le linee d’acqua di una delle imbarcazioni da competizione che il cantiere già costruiva da anni e con le quali il padre gareggiava nelle gare di motonautica dell’epoca riscuotendo successo e fama. Siamo nel 1939, in un periodo storicamente difficile per via dell’imminente inizio della seconda Guerra Mondiale, l’attività agonistica si interrompe e il settore della nautica ha un forte rallentamento. Da quel momento Carlo avrebbe preso in mano le redini delcantiere per farlo diventare nel tempo un colosso della nautica mondiale, guidandolo con straordinaria lungimiranza e perizia tecnica. Questo contesto storico modificò l’intera filosofia aziendale: la progettazione, l’approvvigionamento materiali, la produzione ma soprattutto la vendita. Per resistere alla crisi dovuta alla guerra, molte aziende si concen-

trasferì a Sarnico dove, senza saperlo, mosse i primi passi verso la creazione di un mito planetario. Nel corso degli anni la tradizione dei Riva è passata di padre in figlio da Pietro ad Ernesto, a Serafino che prepararono il terreno a quello che negli anni ’50 sarebbe stato il vero artefice del successo del cantiere di famiglia: Carlo Riva. Il giovane Carlo Riva, primogenito di Serafino, ha appena 16 anni

Pietro Riva, senza saperlo, mosse i primi passi verso la creazione di un mito planetario. trarono sulla produzione di serie e sulla riduzione dei costi, che spesso portavano a una perdita di qualità. A differenza degli altri, il cantiere Riva non si fece trovare impreparato di fronte a questa eventualità: la tecnica costruttiva

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andava affinata ed andavano ricercate nuove tecnologie e nuovi materiali ed il flusso produttivo andava ripensato per essere veloci ma precisi. Il motivo per cui i motoscafi Riva hanno sempre riscosso tanta ammirazione e tanto gradimento è stato un perfetto mix di capacità imprenditoriali e tecniche e di creatività che l’Ing. Riva aveva nel proprio DNA. La possibilità di respirare sin dalla nascita l’aria di cantiere, di essere a contatto con personalità di considerevole spessore tecnico, come i maestri d’ascia, e quella non meno importante di poter acquisire da subito la sensibilità necessaria per ‘sentire’ l’acqua sotto la carena, unite a spiccate capacità tecniche, hanno forgiato la personalità di quest’uomo che ha saputo costruire intorno a sé ed alla sua realtà imprenditoriale un’immagine ed una credibilità inattaccabile, poiché sempre supportata da risultati tangibili. Si pensi solo alla finitura di gran pregio di ogni scafo del cantiere di Sarnico, che è frutto della ricerca dei migliori materiali e delle migliori tecnologie possibili all’epoca

Era preferibile che un esemplare fosse distrutto piuttosto che farlo uscire dal cantiere imperfetto in cui sono stati prodotti. Nulla è lasciato al caso, nulla è imperfetto, tutto è curato nei minimi dettagli con precisione maniacale a tal punto che – racconta un aneddoto – era preferibile che un esemplare fosse distrutto piuttosto che farlo uscire dal cantiere imperfetto. A tutto questo l’Ing. Riva ha saputo aggiungere quel pizzico di creatività mai ostentata e mai eccessiva che ha permesso alle sue barche di entrare a far parte dei desideri di chi dal 1950 ad oggi poteva aspirare solo al meglio. Ariston, Tritone, Florida, Junior nomi che rievocano in ogni amante della nautica pura un misto di emozioni tra l’ammirazione e lo stupore per la consapevolezza di essere di fronte a veri e propri

Non un semplice motoscafo, ma una sintesi di ricerca estetica, lusso, sobrietà e tecnica. gioielli, che nel tempo hanno acquistato un valore in molti casi considerevole, ma soprattutto di rivedere in quelle linee tutta un’epoca della nostra storia recente. Quella storia che ha potuto rendere così grande l’azienda Riva in un’ epoca del genere. Un’ epoca in cui sono nate, specie nel nostro

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Dettaglio dello scafo di uno yacht Ariston 19


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paese, molte delle realtà industriali più importanti del mondo proprio grazie ad una mentalità che riusciva a trovare il giusto equilibrio tra forma e sostanza. È il 1954, Carlo Riva è ormai saldamente alla guida dell’azienda di famiglia e ne inaugura un nuovo capannone concepito e realizzato proprio per essere adatto alla produzione. Corsaro, Scoiattolo e Tritone sono già apprezzati pro-

dotti per gli amanti del nascente settore del diporto nautico; i Florida spopolano sulla riviera del Tigullio ed i motoscafi Riva sono presenti ovunque ci sia gente che conta in cerca di oggetti di gran pregio per farsi notare. Il marchio inizia a crescere a dismisura dalla popolarità che Riva acquisisce quando viene scelto dai divi del jet-set internazionale e dalle star di Hollywood per tra-


scorrere il loro tempo libero. Giusto per fare alcuni nomi, tra gli estimatori dei motoscafi Riva vi erano personaggi del calibro di Brigitte Bardot (Florida), Anita Ekberg (Tritone), Liz Taylor e Richard Burton (Junior), Sean Connery e Jean Paul Belmondo, Ingrid Bergman e Aristotele Onassis, fino a Soraya e allo scià di Persia, a re, principi e sceicchi in ogni parte del mondo. È l’epoca del boom economico e la quantità di denaro a disposizione di ognuno permette a molti di potersi concedere il lusso di avere una barca e coloro i quali vogliono apparire scelgono Riva. I motoscafi nati dalla mano di Carlo Riva divengono un vero e proprio status symbol ed ancora una volta la capacità imprenditoriale dell’ingegnere si fa notare per la sua caparbietà. Riva porta il marchio nei posti più in vista: Montecarlo, New York, Roma ed investe in pubblicità ad altissimi livelli: una campagna marketing che oggi si definirebbe “virale per un prodotto di grande appeal. L’appetito vien mangiando recita un proverbio, e la fame di lusso,

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di bellezza e di prestazioni non poteva trovare sazietà se non in una creazione Riva: la creazione Riva per eccellenza. Non un semplice motoscafo ma una sintesi di ricerca estetica, lusso, sobrietà e tecnica che dal 1962 fino al 1996 si è espressa in 769 esemplari di quattro differenti serie diventando simbolo dell’esclusività nella nautica da diporto. Aquarama è stato definito nei modi più disparati: la Ferrari del mare, la regina della Costa Azzurra o lo Stradivari delle barche, sempre accostato ad oggetti che nell’immaginario collettivo richiamano i concetti di grande qualità e bellezza. Il suo nome deriva dal Cinerama ovvero dal formato cinematografico molto popolare negli anni ’60 di cui il largo parabrezza di Aquarama rievocava la forma. Lo scafo era lungo in origine 8.02 metri con una carena stretta

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e lunga senza pattini dalle sezioni di prua affilate che si appiattivano via via verso poppa, terminando con un deadrise molto basso che facilitava l’uscita in planata e stabilizzava l’assetto in navigazione. Caratteristica era la forma della coperta che si apre larga a prua fino a stringersi a poppa con un’andatura morbida e tondeggiante. Essenziale nelle linee e negli allestimenti il piano di coperta presentava un’impostazione quasi automobilistica con un divanetto a tre sedute su cui trovava posto il pilota con due passeggeri, a poppa del quale c’era il grande prendisole posto al di sopra del vano motori. Sotto il ponte di prua trovava posto un piccolo locale cabina con due cuccette e WC a scomparsa. Vera chicca di Aquarama (e di altri modelli Riva) era la capote a scomparsa proprio come quella

di una spider. Molto dello stile di questa meravigliosa opera d’arte navale è ispirato al design automobilistico d’oltreoceano dell’epoca: dalla ruota timone, che era un vero e proprio volante automobilistico Chrysler rivestito in pelle per migliorare il grip, alle forme degli acciai appositamente studiati per impreziosire accessori banali quali trombe di segnalazione o luci di via e che nel tempo sono stati vere e proprie fonti di ispirazione per generazioni di designers. Basti pensare alle manette dei comandi motore poste in orizzontale ai lati della ruota timone come la leva del cambio automatico della macchine americane o ai contagiri personalizzati. Aquarama era spinto inizialmente da una coppia di motori di derivazione Chrysler o Cadillac con potenze dai 185 hp ai 400 hp e riusciva a raggiungere velocità prossime ai 45/50 nodi. Un’ulteriore conferma di quanto questa imbarcazione fosse simbolo di esclusività è l’esemplare n° 278, commissionato nel 1963 da Ferruccio Lamborghini, unico esemplare di Aquarama con dop-

Dal 1962 fino al 1996 si è espressa in 769 esemplari di quattro differenti serie diventando simbolo dell’esclusività nella nautica da diporto. pia motorizzazione Lamborghini V12 da 700 hp cadauno e battezzato appunto “Lamborghini”, che è stato restaurato di recente e riportato agli antichi fasti. Aquarama è divenuto simbolo di


un’epoca ed è tutt’oggi una pietra miliare della nautica mondiale, tanto da essere ancora utilizzato in riprese cinematografiche, spot pubblicitari e servizi fotografici in cui si voglia esprimere l’appartenenza ad un ambiente elitario e ricercato. Negli anni 70’, con l’avvento della costruzione in composito, anche Riva si adegua a questo nuovo materiale adattando il design delle sue imbarcazioni ai vincoli dello stampaggio e collaborando inizialmente con il colosso della nautica USA Bertram che gli fornisce la carena dello Sport Fisherman 25. In questo periodo nascono altri esemplari storici del cantiere di Sarnico come il Riva 2000 prodotto dal 1975 al 1981 in 54 esemplari, la cui carena fu firmata da Renato “Sonny“ Levi, spinta da tre motori Riva da 350 hp cadauno accoppiati alla trasmissio-

ne con eliche di superficie capace di raggiungere i 54 nodi. Furono anche gli anni della vittoria alla competizione di endurance Londra-Montecarlo 2700 miglia nautiche in 14 tappe vinta dal Super Aquar ma Zoom alla media di 32 nodi. Nel 1989 Riva collabora con un altro mito italiano, Ferrari, dando vita al Riva 32’ Ferrari Engineering per poi lasciare la mano alla holding internazionale Rolls Royce che acquista il cantiere nel 1991. Il 1 maggio del 2000 ad opera di un altro grande imprenditore e costruttore della nautica italiana – Norberto Ferretti –Riva inevitabilmente ritorna di proprietà italiana avviando un intenso rinnovamento di stile e design che riporterà il marchio al top del mercato del lusso internazionale, dando alla luce modelli di rara bellezza come Aquariva, Rivarama,

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Rivale, che riprendono il design degli antichi Riva ed i mega yacht fly bridge Duchessa, Opera, Ve-

e costruito un mito che si è fissato in maniera indelebile nelle menti e nei cuori di coloro i quali hanno ben chiaro cosa significa andar per mare con stile e la cui filosofia progettuale e anche costruttiva ed imprenditoriale dovrebbe essere sempre di esempio per tutti coloro che sperano di poter raggiungere dei risultati apprezzabili oggi e sempre.

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Tra gli estimatori dei motoscafi Riva vi erano personaggi del calibro di Brigitte Bardot, Liz Taylor, Sean Connery. nere, Splendida, etc. In 170 anni di storia, una famiglia di persone dedite al proprio lavoro e con una passione radicata per la nautica ha saputo guardare al futuro in maniera critica e positiva senza farsi prendere dalla moda del momento e senza mai permettere che il mero marketing prevalesse sull’arte navale e sui suoi principi inviolabili tra cui la qualità, ha generato

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La storia di un’arte realizzata su misura Sartoria Celentano, una tradizione che dona al cliente il piacere di un privilegio.

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a sartoria è come un tempio in cui si ammirano geometrie rigorose. Una volta entrati, si è subito colpiti dall’atmosfera calda e coinvolgente delle boiserie e delle stoffe e soprattutto dall’esperienza del Maestro Celentano, pronto a guidarvi alla ricerca di quel compagno che vi seguirà per anni: il vostro vestito. Ogni singolo capo della Sartoria è rigorosamente realizzato a mano, grazie alla sapienza tecnica del Maestro e dei suoi

Racchiudono in un dettaglio segreti tramandati da maestro a maestro

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collaboratori. Tessuti inglesi ed italiani vengono declinati sulla personalità del cliente, secondo i dettami classici della scuola sartoriale partenopea. Abiti unici, non solo perché realizzati su misura per ogni singolo cliente, ma perché racchiudono, anche solo in un dettaglio perfetto come può esse-


re un’asola o una cucitura, segreti tramandati, dopo anni di studio e fatica, da Maestro a Maestro. Giovanni Celentano è un grande sarto che aggiunge ai tessuti qualcosa di più di semplici imbottiture, forme e fodere. I suoi abiti parlano della sua sensibilità e della sua precisione, della sua discrezione e della sua cortesia, danno al cliente il piacere di un privilegio. Formatosi a Napoli, sotto l’influenza dei migliori sarti partenopei, Giovanni Celentano lavora dal 1967 a Roma, città nella quale ha raggiunto la piena maturità artistica e dove ha fondato l’omonima sartoria, che verrà ereditata dai posteri, mantenendo negli anni una conduzione familiare. Lo stile del Maestro combina le più importanti tendenze dell’abbigliamento maschile del XX secolo. Si tratti di una giacca in saglia o in tweed, di uno spezzato sportivo o di un classico abito a tre

bottoni in austera e compatta flanella, di un pesantissimo pantalone in whipcord o di un monumentale Ulster, le sue creazioni sanno solleticare il gusto dell’intenditore per la cura – tutta artigianale – del dettaglio, sanno esprimere la finezza e l’attenzione per tutto ciò che ogni uomo elegante si aspetta da un abito di sartoria. Sugli scaffali in legno scuro trovano posto mirabili flanelle, ruvidi tweed, vecchi Sportex di Dormeuil, tagli ormai introvabili capaci di soddisfare il gusto del gentiluomo più esigente. Figurini degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, appesi alle pareti insieme al grande ritratto del Duca di Windsor, rimandano all’epoca d’oro dell’eleganza maschile. Non è difficile, qui, trovare qualche appassionato estimatore dell’eleganza classica commentare insieme al Maestro le pagine delle

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ristampe Electa di Apparel Arts o del classico Homo elegans di Mosconi e Villarosa. Mazzette di John G. Hardy o di Holland & Sherry, in grande numero, vengono accuratamente sfogliate e studiate. Numerosi tagli riposano sugli scaffali della sartoria. “Devono stagionare”, dice il Maestro, “acquistare vita, morbidezza e movimento grazie al contatto con le altre stoffe”. Il Maestro lavora da sempre con tessuti rigorosamente inglesi, dei quali conosce come pochi il nobile e glorioso passato. “Tessuti che hanno fatto la storia della sartoria e dell’eleganza maschile” rivivono mirabilmente sotto le sue mani. Il peso che consiglia è sempre elevato, adeguato ad una lavorazione che per un abito richiede non meno di 60 ore. A volte il peso notevole (per i whipcord si arriva anche a 990 grammi al metro) spaventa alcuni clienti, specie quelli più giovani, che il triste

livellamento operato negli ultimi decenni dall’industria tessile ha reso poco avvezzi a comprendere il linguaggio e le peculiarità di ogni tessuto. Anche solo qualche minuto passato con il Maestro ad accarezzare e soppesare un drappo di bedford cord, di solaro, di lino irlandese basta per accorgersi di che cosa l’uomo abbia perso, nel corso degli anni, di quanto più povera sia, oggi, l’etica e l’estetica dell’abbigliamento maschile. Fare scoprire al cliente tutto ciò, ritornare al passato con la consapevolezza e la coerenza del valore del lavoro artigianale e della cura dei dettagli è, per il Maestro, un vero e proprio dovere. Un corridoio ricco di tessuti ‘vintage introduce al laboratorio. È qui che i gessi e le forbici del Maestro si muovono con la sicurezza che è propria dell’esperienza, del talento, dell’ispirazione del vero artista.


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Quando il tempo diventa oro Nell’atelier dell’orologeria tedesca certe abitudini hanno fermato le lancette all’ora di Leonardo

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ome un concerto di musica sinfonica: prova generale con maestro e orchestrali in maniche di camicia; quindi la ‘prima’, con i musicisti in abito scuro. O come un abito d’alta moda: imbastiti i vari pezzi e provato il modello, quando tutto è perfetto, si scuciono i punti provvisori per sostituirli con quelli definitivi. Così si costruiscono le esclusive macchine del tempo della A. Lange & Söhne di Glashütte, cittadina a pochi chi-

detto anche alpacca, anziché nel consueto ottone rodiato), vengono disposti i vari componenti che, nel caso dei modelli più sofisticati, superano di molto le 600-700 unità. Quindi, si completa il movimento che dà vita a una piccola macchina pulsante, con il bilanciere, il suo “cuore”. È quindi la mano dei maestri orologiai della A. Lange & Söhne l’utensile più prezioso; specie quando si tratta di montare la catena del conoide (una vite senza fine già nota ai tempi di Leonardo da Vinci), che in alcuni dei modelli più complessi, equilibra la forza sviluppata dalla molla di carica. La catena è simile a quella delle biciclette, solo che immensamente più sottile: pur essendo lunga 24 centimetri, infatti, è composta di ben 633 microelementi; tra i quali le minute maglie, che misurano solo 0,6 millimetri di lunghezza e 0,3 di spessore. Ma la mano dei maestri orologiai è non meno importante quando, nei modelli dotati d’indicazione digitale, posizionano, con la lente di ingrandi-

La mano dei maestri orologiai è l’utensile più prezioso.

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lometri da Dresda, capitale della Sassonia. Orologi che hanno origine da una serie di ruote, pignoni, viti, molle, leve e dischi metallici: una volta costruiti completamente a mano, ora escono semifiniti e con tolleranze infinitesimali da macchine utensili computerizzate. È proprio qui che comincia il ruolo fondamentale (e insostituibile) dell’uomo: ogni pezzo viene pulito, controllato perché le misure rientrino nei parametri stabiliti, levigato e sottoposto a una prima operazione di lucidatura e decorazione. Soltanto a quel punto inizia il montaggio: su una base metallica (quasi nobile perché in argentone,


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mento incollata all’occhio, quello che sembra un microscopico frullino, ma che in realtà è un freno aerodinamico che regola la velocità degli scatti dei dischi delle ore e dei minuti. Finito il montaggio, il movimento, ancora privo di quadrante e lancette, è provato e regolato con un misuratore elettronico fino a far rientrare la media di marcia nei parametri previsti (tra i -2 e i +3 secondi/giorno) nelle 5 posizioni che l’orologio di norma può assumere al polso. A questo punto, si smontano tutti i pezzi: è arrivato il momento d’indossare l’abito da sera e, in un ambiente climatizzato e privo di particelle di polvere, ogni particolare viene nuovamente pulito, lucidato e decorato a mano. All’ultima fase della lavorazione, le viti usate per l’imbastitura vengono sostitu-

ite da altre azzurrate alla fiamma; mentre i rubini, ovvero i cuscinetti antiattrito, vengono fissati con minuscoli anelli d’oro (i cosiddetti castoni) e viti. Montati quadrante in argento massiccio e lancette, in oro o azzurrate, il movimento è sottoposto a un nuovo controllo della precisione di marcia e incastonato in una cassa d’oro o di platino. L’orologio è pronto. E sul suo quadrante, accanto alla firma dell’azienda, spicca ora anche la dicitura ‘Made in Germany’: nazionalizzata dal governo della Germania Est dopo la Seconda guerra mondiale, la A. Lange & Söhne è tornata, dopo la caduta del muro di Berlino, all’antico splendore. Oggi grazie al lavoro di 600 persone produce circa 5.000 orologi d’altissima gamma.

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Dettaglio della lavorazione

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Il perfezionismo impossibile come aspirazione all’eccellenza Steve Jobs: una visione del mondo

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Steve Jobs da giovane al lavoro.

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el corso dei primi anni Ottanta, Steve Jobs viveva in una casa quasi del tutto sprovvista di mobilia, dato che non era in grado di tollerare mobili scadenti. Dormiva su un materasso, circondato da alcune enor-

Questo tipo di cura per il dettaglio potrebbe sembrare maniacale e, a volte, in effetti lo è.

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mi stampe fotografiche. A un certo punto si comprò un pianoforte a coda tedesco, nonostante non lo sapesse suonare, solo perché gli piaceva il suo design e il modo in cui era stato realizzato. Quando John Sculley gli fece visita, rimase scioccato dall’aspetto trascurato dell’appartamento. Sembrava una casa abbandonata, soprattutto se confrontata con le curatissime abitazioni che la circondavano. “Mi dispiace, ma non ho molti mobili”, si scusò Jobs, “non ci ho ancora pensato”. Per Jobs fare acquisti rappresen-


ta un problema. “Finisco per non comprare un sacco di cose”, ha detto una volta, “perché le trovo ridicole”. Quando non può fare a meno di comprare qualcosa, l’operazione può risultare complessa. Nella necessità di dotarsi di una lavatrice nuova, ad esempio, Jobs coinvolse la propria famiglia in un dibattito di due settimane. La discussione affrontò temi come il confronto tra design americano ed europeo, la quantità di detersivo consumato, la velocità di lavaggio e l’usura dei capi di vestiario. La grande questione della lavatrice può sembrare eccessiva, ma Jobs applica gli stessi valori - e lo stes-

so processo allo sviluppo dei suoi prodotti. Jobs è ossessionato dai dettagli, è un perfezionista maniaco e rompiscatole che manda fuori di testa i suoi collaboratori con le sue puntigliose richieste. Ma là dove alcuni vedono un perfezionismo impossibile, altri scorgono l’aspirazione all’eccellenza. Questo tipo di cura per il dettaglio potrebbe sembrare maniacale e, a volte, in effetti lo è. Poco prima del lancio dell’iPod sul mercato, Jobs era contrariato perché lo spinotto delle cuffie non produceva un ‘clic’ soddisfacente quando si collegavano o scollegavano gli

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auricolari. Ordinò perciò a un ingegnere di introdurre in tutti gli iPod che sarebbero stati distribuiti a giornalisti e vip in occasione della presentazione del prodotto, un nuovo spinotto capace di produrre un rumore accettabile. Un altro esempio. A un certo punto Jobs pretese che la scheda madre del primo Mac fosse riprogettata per motivi estetici. Alcune parti della scheda, secondo lui, erano ‘brutte’, per cui volle che fosse riconfigurata per offrire una disposizione di chip e circuiti più gradevole alla vista. I suoi ingegneri rimasero esterrefatti. Si tratta di parti dalla tecnologia estremamente complessa, i cui tracciati sono progettati con cura perché le connessioni tra i diversi componenti siano affidabili e solide, studiati nel dettaglio per impedire che i chip si stacchino e per prevenire la formazione di archi elettrici tra i circuiti. Riprogettare una scheda madre perché fosse più ‘bella’ non sarebbe stata un’impresa facile. Naturalmente gli ingegneri protestarono, sostenendo che nessuno l’avrebbe mai vista e, cosa ancor

più importante, pronosticarono che una nuova disposizione dei circuiti non avrebbe funzionato da un punto di vista elettronico. Ma Jobs insistette: “Un buon falegname non usa del legno di pessima qualità per il retro di un armadio, anche se nessuno lo potrà vedere”, disse. Brontolando, i tecnici elaborarono allora un nuovo modello, investendo migliaia di dollari per ottenere una scheda più carina. Ma, come previsto, la nuova scheda madre non funzionava e Jobs dovette risolversi ad abbandonare l’idea. A volte, la sua ricerca della perfezione ritarda lo sviluppo dei prodotti. Non solo, ma lui non si fa alcun problema neppure a sopprimere progetti sui quali il suo team sta lavorando da anni. Tuttavia, il suo rifiuto del compromesso garantisce che i prodotti Apple non vengano messi in distribuzione se non dopo essere stati perfezionati fino a incontrare la sua approvazione. La filosofia senza compromessi di Steve Jobs ha saputo ispirare alla Apple un modello di approccio unico nello sviluppo dei prodotti. Sotto la sua guida,


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lo sviluppo di un prodotto passa attraverso una serie infinita di modelli e prototipi costantemente corretti e modificati, sia per l’hardware sia per il software. I prodotti fanno ripetutamente avanti e indietro tra le mani di sviluppatori, programmatori, ingegneri e manager. Non si tratta di un lavoro in serie. Ci sono un bel numero di riunioni

e di sessioni di brainstorming. Si apportano continue modifiche, prestando particolare attenzione alla semplificazione a mano a mano che il progetto evolve. Si tratta di un processo dinamico e circolare, che talvolta richiede di tornare al tavolo da disegno o addirittura di abbandonare del tutto il prodotto. “Quando si prende in considerazione un

Jobs nel suo studio a Cupertino

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problema e questo sembra estremamente facile da risolvere, vuol dire che non si è capita veramente la sua complessità”, disse Jobs agli sviluppatori del Mac nel 1983: “Quando poi si riconsidera il problema, allora si capisce quanto sia complesso e si adottano delle soluzioni contorte. È qui che di solito la gente si ferma e la soluzione sembra funzionare, almeno per un po’. Ma le persone veramente in gamba vanno avanti fino a scoprire il principio sot-

Jobs pretese che la scheda madre del primo Mac fosse riprogettata per motivi estetici.

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tostante al problema e a trovare una soluzione elegante capace di funzionare a ogni livello. Questo è quello che abbiamo voluto fare con il Mac”. Jobs cita lo scultore rumeno Constantin Brancusi: “La semplicità è la complessità risolta”. In ogni occasione Jobs manifesta una straordinaria cura per i dettagli, che permette alla Apple di sfornare prodotti di raffinata fattura degni di un artigiano. I prodotti Apple hanno vinto numerosi premi per il design e suscitano nei clienti un attaccamento che rasenta la mania. Il primo Macintosh richiese tre anni di sviluppo. Non fu prodotto seguendo la frenetica tabella

di marcia tipica di molti prodotti tecnologici. Il progetto fu sottoposto a diverse modifiche. Ogni dettaglio del design, dal tono di beige del suo case ai simboli sulla tastiera, venne valutato nei minimi particolari e riconsiderato più e più volte finché non sembrò soddisfacente. L’aspirazione di Jobs all’eccellenza è il segreto del grande design Apple. Per lui, ‘design’ non riguarda il colore o il dettaglio di stile. Per lui, ‘design’ significa come il prodotto funziona. Significa funzionalità, non aspetto. E per capire davvero come il prodotto funzioni, dev’essere studiato nel dettaglio durante la fase di sviluppo. Spiega Jobs: “Alcuni pensano che il design si occupi soltanto dell’aspetto esteriore. Ma naturalmente, se si va a scavare più a fondo, si scopre che si occupa di come un prodotto funziona. Il design dell’iMac non era soltanto nel suo aspetto esteriore. Stava soprattutto nel modo in cui funzionava. Per progettare davvero bene una cosa bisogna capirla. Bisogna af-


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Jobs al lavoro nella neonata NEXT.

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ferrare davvero di che cosa si tratta. Capire in profondità una cosa richiede un impegno costante e appassionato: bisogna assaporarla lentamente, non limitarsi a ingoiarla in un boccone. E molte persone non si prendono il tempo necessario per farlo”. L’interesse di Jobs per l’aspetto esteriore dei computer risale già al primo apparecchio prodotto, l’Apple I. Progettato da Steve Wozniak e assemblato a mano nel garage di casa Jobs, era poco più di un mucchietto di semplici schede coperte da pochi chip. All’epoca i personal computer erano rivolti a una nicchia di utenti, perlopiù barbuti ingegneri e amatori, abituati a comprare le singole parti per poi assemblarle sul loro tavolo da lavoro, aggiungendoci alimentatore, monitor e case. Molti di loro si fabbricavano dei case in legno, adoperando di solito delle cassette per la frutta. Uno mise addirittura il proprio Apple I in una valigetta di pelle con il cavo che usciva da sotto creando così il primo portatile. A Jobs non piaceva questa estetica da hobbista. Voleva vendere dei

computer completi di tutto a clienti disposti a pagare, e quanto più possibile. Per conquistare l’utente comune, i computer della Apple dovevano avere l’aspetto di prodotti veri, non di un kit di assemblaggio. Quello che ci voleva erano dei bei case in grado di illustrare le loro diverse funzioni, come accadeva per gli altri prodotti sul mercato. L’idea era di costruire dei dispositivi che non richiedessero assemblaggio: bastava accenderli e si poteva cominciare a usarli. La crociata di Jobs in favore del design ebbe inizio con l’Apple II, il cui progetto passò dal tavolo da disegno alla realtà poco dopo la costituzione della società, nel 1976. Mentre Wozniak lavorava al pionieristico hardware, Jobs si concentrò sul case: “Avevo ben presente che per ogni amatore disposto ad assemblarsi l’hardware del proprio computer da solo esistevano migliaia di persone che non erano in grado di farlo, ma che volevano comunque divertirsi con la programmazione, proprio come facevo io quando avevo dieci anni”, ricorda. Per riuscire a immaginarsi l’aspetto che avrebbe potuto avere, Jobs cominciò a perlustrare i negozi in cerca d’ispirazione. La trovò nel reparto cucine di Macy’s, mentre guardava un robot da cucina Cuisinart. Ecco ciò di cui l’Apple II aveva bisogno: un involucro di plastica ben modellato e dagli angoli arrotondati, colori tenui e una superficie leggermente ruvida. Mettere l’Apple II in un accattivante case in plastica trasformò il personal computer da progetto fai-da-te per appassionati in un ‘elettrodomestico’ pronto all’uso per utenti comuni.


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Sulle note di un capolavoro Il segreto del suono puro e inconfondibile di uno Stradivari.

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ntonio Stradivari è il maestro liutaio più importante della storia italiana. È nella sua città natale che nel 1680, dopo anni di lavoro nella bottega di Nicola Amati, apre la propria.

punto di vista estetico sia del suono. La sua è un’arte complessa, che non richiede solo competenza, ma passione. E questa passione a Stradivari non è mai mancata. I suoi migliori strumenti, tutti firmati con l’iscrizione sul cartiglio “Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat Anno”, sono realizzati tra il 1698 e il 1730. Da questa data la firma cambia e diventa “Sub disciplina Stradivari”, perché probabilmente si aggiunge la mano dei figli, anche loro molto bravi, ma mai come il padre. La fama di Stradivari si diffonde in

A un vero intenditore bastano poche note per riconoscerli. È qui che realizza i suoi violini fino all’ultimo giorno della sua vita. Antonio costruisce la sua fama in ben 75 anni di intenso lavoro, ottimizzando i suoi strumenti sia da un

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tutta Europa, grazie ai musicisti che ne elogiano il lavoro. Ad esempio, nel 1782, il celebre violinista e compositore italiano Giovanni Battista Viotti ha portato i violini Stradivari in Francia e in Inghilterra. Ancora oggi considerati i migliori violini mai creati, per secoli nessuno è mai riuscito a spiegare perché il loro suono sia così puro e inimitabile. A un vero intenditore bastano poche note per riconoscerli: il loro suono perfetto e il loro timbro inconfondibile li hanno resi gli strumenti musicali più famosi del mondo. Dopo oltre quattrocento anni un team di ricercatori americani è riuscito a violare il segreto di cosa rende il suono di questi strumenti così puro e inimitabile. Joseph Nagyvary della Texas A&M University (U.S.A.) e i suoi colleghi hanno sottoposto a risonanza magnetica la segatura proveniente dalla cassa armonica di due violini Stradivari in restauro e hanno scoperto che il materiale risulta essere impregnato da un particolare composto chimico, all’epoca largamente utilizzato nei depositi di legname lombardi per conservare al meglio tavole e tronchi. Secondo i ricercatori sarebbe proprio questa sostanza a donare agli strumenti di Stradivari le loro inconfondibili sonorità. La ricerca di Nagyvary ha evidenziato come la composizione chimica del legno d’acero moderno sia diversa da quella dei legni utilizzati per la realizzazione dei violini: i dorsi di questi ultimi risultano infatti impregnati con sali di rame, ferro e cromo, sostanze spesso utilizzate come veri e propri conservanti nel trattamento del legno. Tali sostanze agiscono di solito come fungicidi, e impediscono alle muffe di aggredire e rovinare le

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piante durante la stagionatura, ma sono anche in grado di alterare le caratteristiche meccaniche del legno e, di conseguenza, le sue proprietà acustiche. Il prossimo obiettivo di Nagyvary, che ha dedicato tutta la sua vita allo studio degli Stradivari e al tentativo di costruirne uno, è ora quello di identificare con precisione i composti chimici e i loro dosaggi. Non mancano comunque pareri scettici: secondo Jon Whiteley, curatore della sezione musicale dell’Ashmolean Museum di Oxford, tentare di imitare grazie alle moderne tecnologie la mae-

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stria di Stradivari è quasi un’offesa alla sua arte e attribuire a un composto chimico e alla stagionatura le sonorità perfette dei suoi strumenti è quanto mai riduttivo. Gli Stradivari giunti fino ai giorni nostri grazie al prezioso lavoro di appassionati e collezionisti sono circa 600 e ciascuno di loro vale diversi milioni di euro.


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Artista ossessivo o genio imprescindibile? Stanley Kubrick, analisi della carriera del maestro dell’immagine

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crivere di Stanley Kubrick non è facilissimo, visto che è considerato dagli amanti del cinema uno dei registi più geniali della storia. La caratteristica di questo cineasta americano, che ha vissuto gran parte della sua vita in Inghilterra, è l’aver affrontato in maniera brillante tematiche diverse

do affresco ottocentesco inglese di “Barry Lyndon” alla guerra di “Full Metal Jacket”. La cosa incredibile è che tutti i suoi lavori sono considerati “Capo-genere”, ovverosia capolavori nel loro genere. Il perché è spiegato nella minuziosità con cui ha affrontato la realizzazione dei suoi film, dove è sempre stato molto attento e maniacale: gli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui non hanno mai avuto vita facile. La passione per la fotografia lo portava ad avere un’ossessione folle per la cura dell’immagine e le sue pellicole testimoniano come il risultato fosse di livello molto elevato. I suoi film colpiscono sempre: prendiamo ad esempio uno dei più

La sua passione per la fotografia lo portava ad avere un’ossessione folle per la cura dell’immagine.

Scena del film “Shining” di Stanley Kubrick

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da film a film: si passa dal peplum di “Spartacus” alla fantascienza di “2001 Odissea nello Spazio”, dalla violenza giovanile di “Arancia Meccanica” all’horror psicologico di “Shining”, dallo splendi-


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celebri - anche se è difficile dire quale non lo sia - cioè “Arancia Meccanica” (A Clockwork Orange); la violenza perpetrata da un gruppo di giovani adolescenti è spietata e gratuita ma, sebbene nel film non si vedano immagini splatter, come ad esempio fa Tarantino, il pugno allo stomaco che provoca la vista di queste scene fa male; il regista fa vedere come stuprino una donna e picchino il marito, mentre il loro capo canticchia “Singin’ in the rain”, rendendolo disabile,

o come massacrano un barbone, reo solamente di cantare ubriaco: scene che lasciano ammutoliti. Altro film particolare è “Shining”, tratto da un romanzo del famoso scrittore americano Stephen King: qui Kubrick punta tutto sul terrore psicologico. Il film è ambientato in un hotel isolato in mezzo alle montagne in Colorado che, durante la pausa invernale, viene affidato in custodia ad una famiglia, con il solo compito di mantenere al minimo tutte le funzioni dei vari macchinari, fino alla riapertura al pubblico con la bella stagione. Inutile dire che non tutto filerà liscio, anzi, l’hotel, costruito su un antico cimitero indiano, risulterà infestato da strane presenze che faranno uscire di senno il capo-famiglia, uno straordinario Jack Nicholson, con conseguenze drammatiche. Qui il talento di Kubrick lavora molto sul creare una sorta di ansia allo spettatore; il film è permeato da una tensione continua, alimentata dal fatto che il figlio della coppia ha una specie di dono, lo shining del titolo, che lo porta ad avere visioni sconvolgenti. Prendendo in esempio questi due film, diversissimi uno dall’altro, si dimostra come Kubrick fosse assolutamente a sua agio anche con generi lontani. In altre pellicole, come il fantascientifico “2001 Odissea nello Spazio”, anno 1968, non si può non

Kubrick sul set di “2001, Odissea nello spazio”

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venire colpiti dagli straordinari effetti speciali della pellicola, assolutamente all’avanguardia per quegli anni. Mentre in “Barry Lyndon”, la ricostruzione storica dell’Inghilterra ottocentesca è precisa

nello Spazio” lo affermeranno come uno dei cineasti più geniali a livello mondiale. Bisogna dire che la maniacalità con cui girava le sue pellicole lo porterà a produrre gli ultimi 4 film nel corso di 25 anni, di cui addirittura 12 dedicati solamente agli ultimi due: “Full Metal Jacket”(1987) e “Eyes Wide Shut”(1999), uscito postumo.

La qualità è il risultato dell’ossessione dello scrittore nei confronti del soggetto trattato.

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e minuziosa: vale la pena di vederlo solo per la splendida fotografia. La pellicola, che provocò non pochi problemi tra l’attore e il regista, si rivelerà uno dei migliori “peplum” della storia del cinema hollywoodiano. Durante gli anni ‘60 il suo talento si affina ancora di più: “Lolita”, “Il dottor Stranamore” e soprattutto il già citato “2001 Odissea

Di seguito un estratto di un’intervista rilasciata dal regista, nel quale parla del rapporto stretto tra un romanzo e il suo corrispettivo cinematografico.

Kubrick sul set di “Arancia meccanica”


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redo che per realizzare un film, il libro ideale non sia un romanzo d’azione, bensì un romanzo che tratti la vita interiore dei suoi personaggi. In questo modo, lo sceneggiatore ha a disposizione indicazioni certe su ciò che un personaggio pensa o prova in ogni momento della storia. Da lì, potrà procedere e inventare l’azione, correlativo oggettivo del contenuto psicologico del libro, che cercherà di trasporre in forma drammatica con accuratezza, ma in modo implicito, senza dover far esprimere letteralmente agli attore il significato del loro vissuto. La gente mi chiede come sia stato possibile realizzare un film a partire da un libro come Lolita, con lo stile di prosa di Nabokov. Considerare la prosa come qualcosa di più che uno degli aspetti che rendono un libro eccellente, significa fraintendere cosa si intende per libro eccellente. Naturalmente, la qualità della scrittura è uno degli elementi che rendono grande un romanzo, ma questa qualità è il risultato della qualità dell’ossessione dello scrittore nei confronti del soggetto trattato, che racchiude un tema, un concetto, una visione della vita e una comprensione del personaggio. Lo stile è ciò che un artista usa per affascinare il lettore, per comunicargli i suoi sentimenti, le sue emozioni e i suoi pensieri. Sono questi gli aspetti che vanno trasposti in forma drammatica, non lo stile. La messa in scena deve trovare un proprio stile e potrà farlo soltanto se il contenuto è stato colto fino in fondo. Procedendo in tal modo, emergerà un altro aspetto della struttura inerente il romanzo. Forse lo farà altrettanto bene, o forse, per certi aspetti, lo farà meglio di quanto

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Kubrick sul set di “Shining”

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lo faccia il romanzo stesso. Vi starete domandando se la realizzazione filmica non sia altro che la continuazione della scrittura. Ritengo che realizzare un film sia esattamente questo. Quando il regista non è l’autore dell’opera, penso che sia suo dovere rimanere fedele al cento per cento al significato espresso dall’autore stesso, senza sacrificarne alcunché in nome di un momento cruciale o di effetti speciali. Sembrerebbe un concetto piuttosto ovvio, ma quante opere teatrali e quanti film avete visto, in cui l’esperienza era eccitante e paralizzante, ma che, una volta terminata, non vi ha lasciato niente? E questo è dovuto in genere a una stimolazione artificiale dei sensi attraverso tecniche che prendono le distanze

dalla concezione artistica dell’opera. In questi casi ci troviamo di fronte al lato peggiore del culto del regista. D’altro canto, non voglio nemmeno suscitare un’idea di rigidità. Quando si lavora a un film niente è più esaltante della partecipazione a un processo che permette al progetto di crescere, attraverso la collaborazione vitale tra sceneggiatori, regista e attori. Qualsiasi opera d’arte realizzata secondo le regole, induce un processo di andata e ritorno permanente tra la sua concezione e la sua esecuzione, poiché il suo intento originario viene costantemente modificato nella misura in cui l’artista cerca di realizzarla in modo oggettivo. In pittura ciò accade tra l’artista e la sua tela; nel cinema avviene tra le persone.


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Lo chef Umberto Bombana e l’ingrediente stellato La ricerca della materia prima come chiave del successo

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’aroma del tartufo si può solo immaginare, ma quando parliamo del tartufo di Grinzane Cavour neanche l’immaginazione è sufficiente. Ed è anche grazie all’uso di questo pregiato tipo di tartufo che Umberto Bombana ha ottenuto le tre stelle Michelin nel 2011 con il suo ristorante “8 ½ otto e mezzo “, che prende il nome dal film di Fellini. Lo chef italiano, originario di Clusone (BG), lavora a Hong Kong da 15 anni ed è infatti nella metropoli cinese che nel 2010, con l’aiuto del suo general manager Danilo Nicoletti, ha aperto un ristorante che rispecchia la sua filosofia, il suo amore per la cucina italiana e soprattutto la sua ricerca di preziosi ingredienti provenienti da tutto il mondo. Gli piace cucinare per una clientela internazionale: è una sfida continua poiché è gente ‘sofisticata e con alte aspettative’. I clienti della Cina continentale sono sempre più numerosi, arrivano da Shangai e Pechino e anche loro hanno gusti raffinati: “Hanno imparato, hanno viaggiato... Apprezzano il vino migliore, il cibo migliore... I Cinesi hanno già un buon palato. Hanno una tradi-

Dettaglio del piatto forte dello chef Bombana, con tarutufo e scaglie d’oro

Chef Bombana a lavoro nel suo ristorante di Hong kong


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zione... Hanno 4000 anni di storia del cibo e quindi ne capiscono. Quando vengono qui, si aspettano di avere un pasto fantastico.” Il ristorante evolve in continuazione, anche perché la concorrenza è agguerrita. Nel palazzo di Hong Kong dove si trova, ci sono ben dieci ristoranti Michelin. Bombana è il primo chef italiano all’estero ad aver vinto il premio Michelin: ha ‘toccato il cielo’ quando ha ottenuto le tre stelle: “E’ la cosa più bella che possa succedere a uno chef ”. Con la soddisfazione di avere clienti felici.

Con il tartufo Grinzane Cavour, neanche l’immaginazione è sufficente. Dunque viene da chiedersi cosa abbia reso lo chef bergamasco un’eccellenza nell’ambito culinario, quale sia il suo punto di forza, tanto potente da contraddistinguerlo dagli altri chef stellati presenti nello stesso palazzo. La risposta è proprio il tartufo citato all’inizio dell’articolo, che lo chef acquista durante la famosa asta del tartufo bianco, per cui si batte in collegamento video dal

suo ristorante a Hong Kong: “Sulle prime la gente è un po’ sospettosa. Ma tutti diventano quasi dipendenti da questo profumo, un aroma così unico e intenso... straordinario”. Così Bombana descrive il suo punto di forza, affascinato dal suo potere, che usa con una maestria tale da essersi guadagnato il soprannome di “Re del tartufo bianco”. La sua passione non si limita solo al tartufo bianco, infatti vediamo anche il tartufo nero volare in tanti piatti: sull’uovo, sul Carnaroli Acquerello e sulle tagliatelle fresche. Fresche? “Freschissime, come i cavatelli”, spiega lo chef: “C’è una signora che ha vissuto vent’anni a Pescara e che me li fa a mano, uno per uno, ogni mattina”. E poi i suoi salumi e formaggi, il meglio che si troverebbe anche vivendo tra Zibello e gli alpeggi altoatesini. I suoi risotti sono quelli di Lomellina e Bassa Padana, nella cella dedicata ai prosciutti vi sono il Pata Negra e la Cinta Senese. Se ancora nutrite dubbi su quanto detto, scendiamo nel dettaglio di alcuni suoi piatti più celebri: gli scampi arrivano dalla Nuova Zelanda col bresciano caviale Calvisius; le spettacolari cappesante dal Mar di Norvegia offrono il frutto di un meticciato felice, grazie ai ricci di mare giapponesi e un’emulsione di peperoni locali. Potrebbe mai mancare

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8 e mezzo Bombana, Hong Kong

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la Francia? Ecco l’astice blu della Normandia, morbidissimo e serenamente maritato a un risotto d’orzo nostrano. Una cornucopia globale di primissima qualità: agnello del Colorado, manzo wagyu australiano e vitello olandese che anima una felice costoletta alla milanese. La chiusura non potrebbe essere più dolce, tra la variazione di cioccolato e i cannoli appena riempiti, con spuma di mandorla e

gelato di pistacchio: di Bronte, ovviamente. Ecco la risposta alla nostra domanda: la ricerca della materia prima perfetta, la scelta specifica e minuziosa degli ingredienti, selezionati da un panorama mondiale, che rendono i menu proposti dallo chef bergamasco un’esperienza sensoriale all’altezza delle tre stelle guadagnate.


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