Suoni del Silenzio n°3

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Web-zine indipendente musicale fondata nel 2007 ANNO 7 Fanzine ufficiale N°3 prezzo copia â‚Źuro 1.00 info e contatti www.suonidelsilenzio.blogspot.it suonidelsilenzio@gmail.com


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SUONI DEL SILENZIO webzine fondata nel 2007 ANNO 7 fanzine n°3 Collaboratori : Antonio Di Lena, Vincenzo Calò, Rosario Magazzino, Vincenzo Zizzo, Antonio De Franco, Gabriele Casale, Gianluca Distante, Andrea Corvino, Francesco Baroni e Soulknife. Grafica a cura di Antonio Di Lena. Info e contatti: suonidelsilenzio@gmail.com oppure visitate il sito all’indirizzo www.suonidelsilenzio.blogspot.it

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Cittadino americano con sfumature ebree, noto per delle doti canore che potevano significare tutto come niente, apparentemente spiazzante tanto da venir soprannominato l’angelo del Male e con una cultura musicale grazie alla quale è stato sotto la luce dei riflettori volente o nolente per un trentennio, da prendere eternamente come esempio per quel sano gusto nel rockeggiare, Lou sapeva fare come pochi l’amore con la chitarra elettrica, avendo pure istituito una modalità per suonarla, detta “Ostrich Guitar”, ch’è possibile godere all’ascolto dell’album Velvet Underground & Nico. L’angelo del Male combattendo il freddo che aveva innalzava un patrimonio artistico singolarissimo, affinché ribollissimo di rabbia dentro e risaltassimo il problema della complicità come potevamo; e ci nutrivamo allora di un rock proibitivo, accettavamo di proporre alternative alle risposte all’anima, che in fondo non sappiamo mai dare. La fede nella musica l’ha coltivata dipendendo (vabbè, fosse stata l’unica sua dipendenza non sarebbe stato Lou Reed!) dalla radio, tra una schitarrata e l’altra intese non ancora maggiorenne il rock and roll e il rhytm and blues, così bene che negli anni di scuola creò diverse band con alcuni suoi compagni di college, per esibirsi all’interno di un contesto che gli stava comunque stretto, non potendo inoltre evitare l’elettrochoc, intervento con il quale si crebbe di saper aggiustare la sua sessualità ai primi confusi avvertimenti, crudeltà che confidò a

nessuno per diciotto anni, fino al ’74, quando finalmente si sfogò anche se in piccola parte, tramite l’interpretazione di Kill Your Sons. Lou Reed portava rancore per i torti subiti, specie per quelli indiretti, ma sorprendendo, in un silenzio tutto suo… come se non avesse mai dichiarato azioni di ricerca sulla persona che spendeva, tra l’attivo e il passivo spuntava poeticamente, a giostre di colori ferme, sconvolgendo con un’onestà squalificata per il coraggio di non essersi fermato alla copertina. Mentre i suoi virtuosismi con la chitarra rievocavano quell’affascinantissima attitudine al sax che nel jazz è indicativa, l’artista riusciva a conquistare la simpatia dell’amico fidato che lo aiutò nei primi anni della sua carriera, tale Schwartz, e si completava mandando letteralmente affanculo le canzonette che andavano di moda tra i giovani, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60, intensificando dunque il raggio d’osservazione per scrivere testi che trattavano della verità che traspiravano lui, gli elementi dei ghetti che frequentava in solitario… della realtà che imbarazza comunque tutti coloro che sono dediti a fare gli sfigati vestiti a festa, che abbraccia chi pensa di essere povero di natura da dover rassegnarsi a un certo destino. Eh sì, aveva tempo per appurare la sua diagnosi come essere protagonista o umile collaboratore in live che nemmeno cominciavano per i controlli e le prevenzioni, mettendosi sempre a disposizione di una comunicazione dalle parentesi aperte e mai chiuse, come ad imparare che nessuno può vantarsi di risultare invasivo, tradizionale, col sangue che scorre nelle vene, che lui amava tradurre in musica e parole ovviamente. Il talento venne suggellato assieme agli altri componenti dei Velvet Underground, con cui rappresentò più le ombre che le luci della grande mela (New York) puntando a sciogliere le censure che caratterizzavano

un alto tasso d’emarginazione e le riserve sulla fragilità umana ancora oggi difficile d’accettare, seppur droghe e pornografia comportino affari legalizzabili, mortacci nostri! Addirittura un genio quale era Andy Warhol se li portò con sé e il successo dello show Exploding Plastic Inevitable fu assicurato, forte anche della prestazione di una interprete tedesca, Nico. Cazzo come ci davano sotto in particolare con la batteria, ebbri di quel vaneggiamento libero riprodotto in canto… sappiate ragazzuoli che sono proprio Lou Reed e i Velvet Underground i precursori del punk rock nonché ispiratori di sottogeneri altrettanto trascinanti quali noise, new wave, lo-fi e l’alternative! Le idee di una società per recuperare talenti di coscienza andrebbero colte delicatamente per non spacciarci come oggetti di massacro e tornare indietro a dispiacersi, quando oramai si è morti dentro, ebbene c’erano una volta delle leggende viventi che hanno tentato di spiegare questo concetto, che ti facevano sbattere il cuore sui limiti naturali, sanciti dall’assenza delle battaglie in piena regola, per rimediare ai propri errori e dare ciò per scontato… con l’esistenza che assumeva il rumore del vento tra le scelte fatte fottendosene del materialismo da perfezionare. Col piacere dell’utopia era possibile riciclare ciò ch’è considerato sporco dalla maggioranza, da quell’ammasso di lacchè che lucidano un potere maligno pure per loro stessi, che ti fa semplicemente incazzare, e ricominciare quindi a credere nella dignità dell’uomo, nel buio di gesti scortesi ma esauribili, nel volo verso l’altrove, che lascia un segno sulla pelle… ma con la consacrazione di Lou in parallelo stava cominciando l’epoca delle vacche grasse, del bene individuale che non produce energia malsì pigrizia d’intelletto (vedi quell’altro Lou, Bega, che ci tiene a distinguersi da Reed!) a ogni costo. Lou Reed con il suo scarico emotivo accorciava le coperte per vite borghesi che si appropriano d’indennità o simulano infermità per andare forti e dettare condizioni generazionali. Lou Reed aveva fegato, anche s’era marcito e quello nuovo non si è mai adattato all’organismo umano. Lou Reed è la dolceamara lacrima trattenuta a stento dalla sua ultima compagna, che l’è stata affianco quando ha esalato l’ultimo respiro, nella loro tenuta, mentre erano seduti sotto un albero spoglio, a contemplare l’orizzonte. Vincenzo Calò (fonte Wikipedia)


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L’artista, e tatuatore, Cheyenne Randall ha realizzato il suo progetto "Parallel Universe" sottoponendo a una 'seduta virtuale' con la macchinetta e gli aghi celebri rockstar, attori, politici e artisti del '900 trasformandoli in perfetti modelli contemporanei: da John Belushi al Dott. Einstein, da Bob Dylan al Dott. Spock passando per Picasso e Marilyn‌ nelle prossime pagine vi mostriamo alcune foto catturate dal web a voi i commenti...

Bob Dylan

Lady Diana

Jimi Hendrix


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Marilyn Monroe


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Yoko & John


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Iggy Pop


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Ciao Perry, benvenuto su "Suoni del Silenzio"... Ciao a voi e a tutti i lettori e grazie per lo spazio e la vostra disponibilità. Dopo aver suonato in diversi gruppi dal 1996 in poi decidi nel 2005 di intraprendere la carriera solista, cosa ti ha portato a questa scelta? Il mio primo gruppo risale al 1996, ero al liceo e avevo da circa due mesi cominciato a suonare la chitarra. E' stato molto divertente suonare con altri amici e altre persone, ma col passare del tempo mi sono accorto che il mio approccio alla musica era sempre più personale e intimo. Non riuscivo più ne a comunicare con gli altri, a spiegare i miei pezzi o quello che volevo da una canzone, ne gli altri riuscivano a capire me, perciò ho dovuto fare una scelta drastica e dare libero sfogo alla mia musica senza altre interferenze. Avevo bisogno di creare una sorta di dittatura musicale, aperta dal punto di vista artistico ad ogni influenza, ma in cui l'ultima parola fosse sempre la mia. Parlami delle tue esperienze con Dogmha, Three Sixty, Free Gas Expansion, Hayley Mills... I Dogmha furono il mio primo gruppo, come ho scritto prima, ero al liceo, avevo 16 anni. Suonavamo alle rassegne cittadine organizzate dalle varie scuole. Allora la musica dal vivo andava molto di più e ogni mese c'era un concerto che includeva le varie band cittadine. Ci si divertiva moltissimo ed erano altri tempi a giudicare dal vuoto che c'è ora. Con ogni gruppo ho registrato vari demotape, dispersi un po' ovunque in zona. In quel periodo ascoltavo molto i Beatles, gli Smashing Pumpkins, i Nirvana, gli U2 e i Pink Floyd. Sempre in quel periodo grazie all'album che gli U2 registrarono assieme a Brian Eno sotto il nome di The Passengers, ho scoperto la musica ambient. Tu fondi ambient, etnica, psichedelica e chillout questa fusione quanto tempo e passione ti porta dietro? E' stato un percorso lungo. All'inizio ho capito che la mia vera musica sarebbe stata strumentale per diversi motivi compreso il fatto di non avere una voce che poteva garantirmi una certa continuità nei live. Col tempo mi sono innamorato sempre più di questo genere e ho cominciato a registrare dei provini, per capire come migliorarmi e cosa cambiare. Nel frattempo divoravo i dischi di Brian Eno, dei Tangerine Dream, di Vangelis per cercare di formare un linguaggio convogliando le varie influenze che mi davano questi grandissimi musicisti. Un colpo di fulmine per me è stato scoprire la musica di Erik Satie e John Cage e la loro essenzialità. Dal 2006 sei entrato a far parte della rock-blues band

dei Cheyenne Last Spirit, parlaci del vostro incontro e dei vostri progetti... Il rock rimane comunque una mia grande passione ed è per dare sfogo a questa passione che ho accettato di entrare nei Cheyenne. Il gruppo si è formato nel 2006 ed ha ormai all'attivo due album, il primo Maestrale (2010) autoprodotto, ed il secondo Il Giardino del Tempo (2013) distribuito dall'etichetta bolognese AreaSonica. Il genere è Indie Rock italiano. Sempre nel 2006 esce il tuo primo album One Last Step To Eternity, cosa hai provato a pubblicare la tua prima opera solista? E' stata una bella emozione, il disco è stato completamente autoprodotto e distribuito in 300 copie. E' disponibile per il download su Bandcamp ed è possibile ascoltarlo anche su Youtube. Tra il 2007 e il 2011 hai pubblicato oltre venti tracce su vari portali web, pensi che internet sia davvero meritocratico e quanto in realtà aiuta le band emergenti? Quanto ha aiutato te? Si, Myspace e altri siti come Soundcloud, Youtube e Facebook mi hanno aiutato moltissimo a diffondere i miei pezzi, infatti in quel periodo ero convinto dell'inutilità di pubblicare nuovi album, ma sarei andato avanti col pubblicare una canzone per volta. Poi nel 2010 ho cambiato idea e ho raccolto tutti i pezzi nell'album New Songs From The Moon, disponibile anch'esso su Bandcamp. So che hai vinto il Sardinia Sound, dopodiché hai gironzolato un po in un mini tour per Italia te lo aspettavi? E' stata una bellissima esperienza, per me era la prima volta che suonavo questo genere di musica dal vivo (con i Cheyenne e con tutti gli altri gruppi ho sempre suonato in live un'altra musica) e poterlo fare direttamente in una tournèe organizzata è stato davvero grande. Sinceramente non me l'aspettavo, sono abbastanza allergico alle vittorie. Com'è avvenuto l'incontro con l'etichetta tedesca Idealmusik Label per il nuovo album Music To Disappear? Ci siamo incontrati su Facebook. Infatti sul social network esistono molti gruppi dedicati alla musica Ambient, nei quali condividevo e condivido tutt'ora i miei brani. Loro mi hanno notato e mi hanno proposto la pubblicazione di un album, così ho messo insieme tutti i brani pubblicati dal 2010 al 2012 ed è nato il disco Music to Disappear, uscito nell'Agosto del 2012.Sei stato selezionato per la fase finale del premio Andrea Parodi, credi che i premi in Italia siano taroccati? Che chi davvero merita se non va avanti da solo non raggiunge la meta? Per me è stata una grande soddisfazione essere

selezionato tra oltre 100 candidati e poi suonare nella Finale del Premio, che porta un nome così importante. Per me era una cosa nuova e ho cercato di metterci tutta la mia positività pur non conoscendo praticamente nessuno in quell'ambiente. Siamo in Italia e dalla mia modesta esperienza posso dire che conta molto oltre alla bravura (che non sempre realmente c'è) avere conoscenze giuste. Chi cerca di fare musica, specialmente in Sardegna è come se si muovesse in una palude in cui ogni passo sei costretto a farlo lentamente e non sempre è quello giusto, aggiungi poi l'insularità che aumenta i costi di viaggio del doppio. E' una bella sfida, ma per ora resisto. Parlaci dello spettacolo dal titolo Cobalt che hai fatto con insieme al Visual Artist Enrico Venturini... Ho collaborato con Enrico in occasione del Karel Music Expò 2013 al Teatro Civico di Castello a Cagliari, dopo di noi si è esibito Robyn Hitchcook, è stato un grande onore e la performance è andata benissimo. Ho suonato un pezzo del mio primo album e alcune canzoni nuove mentre Enrico proiettava sullo schermo i suoi lavori di colore e luce. E' stato davvero emozionante. Tu curi tutti i tuoi videoclip come nasce l'ispirazione visiva e sonora dei tuoi pezzi? Nasce quasi sempre da una semplice idea, o anche dalla casualità. A volte capita di scrivere un pezzo apposta per un video che ho girato, altre volte giro il video dopo aver scritto e registrato la canzone, basandomi sulle sensazioni che mi hanno portato a comporla o su quello che mi comunica nell'ascolto. Cosa ti aspetti dal tuo futuro musicale? Vivo alla giornata e per ora sto puntando molto sul live per migliorare i nuovi pezzi che ho ancora in fare embrionale. Nuovi progetti in cantiere dopo l'uscita del mini album The Neptune Session? In questo periodo sto registrando molte idee che poi sto sviluppando lentamente e in modo abbastanza meticoloso. Molte le sperimento nei live per migliorarne gli arrangiamenti, altre preferisco tenerle ancora nascoste. Ho cantiere anche un disco completamente in acustico con dei testi, in cui proverò dopo tanto tempo a cimentarmi nuovamente con la mia voce. Grazie di aver partecipato a questa intervista... Grazie a voi, saluto con affetto tutti i lettori e ne approfitto per invitarvi sui miei canali: perryfrank.mymusicstream.com www.facebook.com/perryfrankmusic soundcloud.com/perryfrank www.youtube.com/ frankperry79 www.youtube.com/ perryfrankchannel2 INTERVISTA A CURA DI: Antonio Di Lena


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Toromeccanica: " Facciamo grandi sogni ! "I Toromeccanica sono reduci dal palco del Concertone del Primo Maggio di Roma e dalla vittoria del premio Puglia Sounds per l’1MFestival. Con Sentimentalmente Ok vogliono chiudere il fortunato ciclo di “Star System-Repack” (prodotto da Rusty Records e distribuito in tutta Italia da Self), il primo loro album. La band, composta da Gianpiero Della Torre (voce), Matteo Tornesello (chitarra), Iulo Merenda (chitarra), Mauro Levantaci (basso) e Giorgio Maruccia (batteria), nasce nel 2005 ad Alezio, in provincia di Lecce. L’intento del gruppo è di proporre brani inediti che si possano distinguere all’interno del panorama italiano per il loro stile unico. La musica dei Toromeccanica vive di una sperimentazione a 360 gradi e porta la band ad abbracciare i più disparati stili musicali. Unico filo conduttore di questa miscela di colori è l’attenzione maniacale nella stesura dei testi, elaborati in modo da esprimere, anche tramite l’utilizzo di termini desueti, concetti nuovi e nuove forme di comunicazione. Su tutto una massiccia dose di autoironia. “Ironizzare e non prendere sempre tutto sul serio”, è questa la filosofia della band che ritroviamo nei brani, insieme a quell’alito di libera espressione senza troppi tabù nel trattare tematiche diverse. Raga perché non è da paraculo fondere

pop e rock? Quello che abbiamo tanto amato del Rock, tutto quello che ha resistito alle stagioni ed è arrivato dritto al cuore, è proprio la sua componente Pop nell’accezione più nobile. Crediamo che queste due categorie siano fuse insieme. Per quel che riguarda la musica, la distinzione invece sta a livello solo di atteggiamenti nei confronti del pubblico. Se l'artista in questione si pone indossando la maschera dell’anticonformismo e della ribellione allora è “rock”, se strizza l'occhio alle famiglie e alla morale comune allora è “pop”, di sicuro entrambi nello scrivere canzoni terranno conto del Pop, e al massimo del volume della chitarra distorta, un altro vero e proprio spartiacque tra i due termini. Vi capita di litigare in fase di registrazione? A volte sì a volte no, a seconda del grado di coinvolgimento dei singoli nella canzone in questione. Di solito affidiamo al produttore l’onore e la responsabilità dell’ultima parola. La prima cosa che fate quando vi rivedete compatti? Facciamo grandi sogni! Ci compattiamo ricordando l’esperienza e il percorso di band affermate, e individuiamo il fatto che gli unici problemi che vale la pena affrontare sono quelli che vengono dall’esterno, dal mercato discografico, nelle radio e nei media, dove cerchiamo spazi. La promozione sta prevalendo sulla produzione, musi-

calmente? La promozione radio/tv ormai vince su tutto. Può portare al successo o alla diffusione nazionale anche una canzone ch’è niente di speciale. Talenti e raccomandazioni devono coincidere ad ogni costo? No, questo no. In questa Italia le due componenti devono andare di pari passo. Mi secca ammetterlo ma purtroppo è così. Abbiamo riassunto in una canzone quest’argomento per l’appunto. Bisogna aver talento comunque anche nel cercare l’appoggio delle persone giuste. Di cosa vi stupite? Ma si può trovare la Felicità? Ci stupiamo delle belle canzoni, ci stupisce il fatto che ancora ogni tanto se ne trova in giro qualcuna in questo mare sconfinato. La felicità è alla fine della strada… noi stiamo ancora cercando la strada! In conclusione, chi vi va di salutare come non fate da sempre? Un saluto alle persone che ad ogni concerto ci dicono di non mollare e di andare avanti così... forse perché in cuor loro hanno scommesso che un giorno diventeremo importanti, forse perché hanno quella gran voglia di dire: “l'avevo detto, io!”. Intervista a cura di Vincenzo Calò


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TO PAY OR NOT TO PLAY? Molti di coloro che durante la loro carriera hanno militato in una band con l’ambizione di proporre musica inedita, prima o poi si saranno trovati ad affrontare l’annosa questione dei live, croce e delizia di ogni musicista. Quando i pochi metri quadrati della sala prove cominciano ad andare stretti, quando le prime sudate canzoni hanno finalmente preso forma, nasce l’esigenza di mettersi alla prova davanti ad un pubblico, di far sentire agli altri il frutto delle proprie fatiche, ed è qui che cominciano a presentarsi difficoltà delle quali prima non si immaginava neppure l’esistenza. Esibirsi in un concerto, che esso si svolga in un locale o in una sala apposita, comporta innanzitutto la necessità di avere strumentazioni che prima trovavamo belle pronte nella nostra saletta di fiducia o delle quali non avevamo bisogno: amplificatori per chitarre e basso, casse spia (o in ear monitor), impianto voce, alla peggio anche una batteria o parte di essa… A tutto questo dobbiamo aggiungere la trasferta, il montaggio e smontaggio di tutta l’attrezzatura, il sound check, l’eventuale litigata col gestore per la compilazione del borderò e per avere il rimborso spese pattuito (quando c’è)…misceliamo bene e alla fine otteniamo che, per suonare quaranta minuti a un paio di centinaia di chilometri da casa, si parte alle quattro di pomeriggio per tornare circa alla stessa ora della mattina dopo. E in quella mezzora o poco più, che dovrebbe valere da sola tutto lo sbattimento, spesso ci troviamo a suonare davanti a cinque persone che magari nemmeno sapevano del concerto. Per chi nutre ambizioni maggiori, rispetto al suonare sempre e solo davanti a pochi amici, la situazione tende ad essere quella descritta finora a prescindere dalla collocazione geografica all’interno dello stivale. In questi anni ho avuto modo di farmene un’idea personalmente, tramite le esperienze con la mia band e confrontandomi con altri musicisti. I locali che fanno eccezione sono pochi e spesso non hanno vita facile. E qui entra in scena il “famigerato” sistema del pay to play, cioè pagare per suonare: ci si compra letteralmente uno slot, ovvero lo spazio per esibirsi in una serata che prevede altri gruppi, solitamente

ben più famosi del nostro. Quali sono i vantaggi? Il più evidente è, ovviamente, quello di “garantirsi” (sul perché delle virgolette ci soffermeremo più avanti) la possibilità di suonare davanti a un pubblico più vasto di quello a cui si è normalmente abituati, persone che, pur non essendo venute appositamente per ascoltare noi, potrebbero ugualmente apprezzarci con tutte le conseguenze del caso: acquisto di cd e/o merchandise, aumento di visibilità sui social network, e così via. Collateralmente, ci sono posti che a fronte di un buon riscontro dei presenti, potrebbero decidere di chiamarci nuovamente come opener in altre serate (stavolta, magari, senza spendere un euro o addirittura con un qualche rimborso). Non va infine sottovalutato il ritorno di immagine costituito dal poter aggiungere qualche nome di una certa caratura alla lista dei gruppi coi quali si ha condiviso il palco: agli occhi di chi guarda, infatti, una band che ha aperto ai Nightwish o agli Epica fa un’altra figura, rispetto ad una che ha suonato unicamente alla festa del proprio paese o al circolo ARCI dietro casa (esperienze, queste ultime, rispettabilissime, ma che a mio avviso non possono e non devono costituire più di un punto di partenza, per chi nutre certe aspirazioni in ambito musicale). Allora si tratta di una pratica tutta rose e fiori? Assolutamente no. Al di là della spesa economica, che a volte può rivelarsi non indifferente, si corrono alcuni rischi dei quali bisogna tenere conto. Innanzitutto è importante sapere se sono previste altre band e, nel caso, a che punto della serata è fissata la nostra esibizione, al fine di non incappare in situazioni davvero spiacevoli: conosco una band che, dopo essersi pagata uno slot in apertura a un gruppo davvero grosso, si è ritrovata ad essere la prima di tre opener, col risultato di suonare a cancelli ancora chiusi! In un’altra occasione, invece, ho assistito a gente che dopo aver pagato il biglietto per una serata che prevedeva quattro gruppi, è rimasta volutamente fuori dal locale fino a che non ha iniziato a suonare quello per il quale era specificatamente venuta. Insomma, le incognite ci sono e talvolta non bastano tutte le valutazioni del mondo per evitare di incappare in una fregatura o semplicemente in un investimento inutile. Certe volte una serata non va come ci aspettavamo. Punto. Mi tocca sottolineare, però, che purtroppo alcuni “inconvenienti” sembrano svanire magicamente non appena vengono varcati i confini italici. Chi ha avuto occasione di suonare in Europa, almeno per quanto riguarda il rock/metal, si sarà accorto di come negli altri paesi del continente esista una cultura della musica dal vivo e del musicista molto diversa da quella che domina nel nostro: il pubblico, ad esempio, è più abituato a partecipare ad eventi live (anche con band non necessariamente famose) e tende a seguire con attenzione non solo gli headliner della serata, ma anche gli eventuali gruppi spalla. È chiaro comunque che comprarsi un singolo slot all’estero, per quanto appaia van-

taggioso ai fini della nostra crescita, può non essere altrettanto conveniente dal punto di vista economico e dell’impiego di tempo: il costo del viaggio, del vitto e di un eventuale alloggio sono tutte cose che andranno a sommarsi al prezzo dello slot nudo e crudo. C’è allora chi si paga la possibilità di essere la band di supporto nel tour di un altro artista per un certo numero di date, perché, pur aumentando più o meno proporzionalmente la spesa totale, ci si apre la strada ad un ritorno a livello di visibilità e curriculum davvero importante. Detto questo, come porsi di fronte a un fenomeno che negli ultimi anni sembra aver preso sempre più piede? Personalmente non trovo così scandaloso che una band investa le proprie risorse in quella che, in fin dei conti, è una forma di promozione. Coi tempi che corrono, per un gruppo underground che fa principalmente inediti è difficile trovare da suonare, a maggior ragione se chiede un minimo di rimborso per cercare di rientrare almeno delle spese di benzina e autostrada. Capita quindi non di rado di scendere a compromessi, per far sì che la nostra musica arrivi a quante più persone possibili: si accetta di suonare gratis in quel pub, perché sappiamo che è discretamente frequentato, oppure si partecipa al tal festival a quattrocento chilometri da casa per motivi analoghi. Si tratta di spese che vengono affrontate nella speranza di avere un qualche ritorno: qualche cd venduto, nuovi fan, visibilità, paghiamo per suonare in un contesto che, dal nostro punto di vista, può rivelarsi vantaggioso, esattamente come avviene quando ci compriamo uno slot. Indossando la maschera dei detrattori, d’altra parte, si potrebbe tranquillamente sostenere che il sistema del pay to play soffoca la meritocrazia a favore della disponibilità economica. In realtà credo che questo sia vero solo in parte, o comunque a breve termine: alla fine è il pubblico a decretare il nostro successo o meno, per cui se non abbiamo niente di valido da proporre, o semplicemente se non piacciamo, prima o poi torneremo nell’ombra. In caso contrario, se davvero crediamo in quello che facciamo, possiamo fare qualche sacrificio in più per ritagliarci qualche possibilità importante. Potremmo aprire infinite digressioni sul perché si è arrivati a questa situazione, attaccare chi scarica musica da internet invece di comprarla, i talent show, i locali che propongono solo gruppi locali di ragazzini o cover band, la gente che non va più a vedere i concerti (se non dei soliti noti)…La mia personale opinione è che i tempi sono cambiati, e sfruttare le nuove (ma sono davvero tali?) opportunità di raggiungere il pubblico è una strada che una band deve decidere se seguire oppure no. Soulknife.


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re una serata aperta a vari generi musicali. Il festival si è tenuto a Spinazzola, sfruttando lo spazio di un bar dove lavorava un membro della nostra band. Partendo dal presupposto che tutta la strumentazione è stata messa a disposizione da noi, e in piccola parte autofinanziata, la serata è andata benissimo. Chiunque oltre le band già presenti, con discrete capacità musicali, poteva esibirsi sul palco sotto gli occhi dei presenti. In un certo qual modo ha sortito le sembianze di una serata più rustica e dinamica, dove chiunque poteva dar il suo contributo al proseguo. Ammiro da voi la presa di posizione di cantare in italiano nonostante le vostre influenze sonoricamente siano cantate in inglese, credete che l'ascoltatore percepisca meglio il contenuto e magari in un secondo momento la musica? O viceversa? Il sound è importante, è il biglietto da visita per l'ascoltatore. I testi giungono dopo all'orecchio di chi ascolta ma pochi capiscono l'importanza che essi hanno all'interno della canzone. Scrivere in italiano è un rischio, ma è un rischio che siamo disposti a correre per riuscire ad arrivare dritti dentro le persone. Non vogliamo che essi vadano a prendere il dizionario per tradurre le parole, bensì che ascoltino musica e testo contemporaneamente, come una cosa sola. Le nostre parole sono come un colpo d'arma da fuoco che non fa male, sono dirette. Non usiamo parole complicate, noi voliamo basso per far capire a tutti dove siamo diretti. Speriamo che ogni ascoltatore faccia sua la nostra canzone, cercando di dare un proprio senso alle parole. Cosa vi aspettate dal vostro futuro musicale? Al futuro non ci pensiamo, potrebbe capitare di tutto: gli impegni lavorativi potrebbero addirittura farci allontanare dal progetto, per ora ci basiamo sul presente e su ciò che faremo a breve termine, come l'uscita del secondo singolo sul quale stiamo lavorando. Naturalmente ci aspettiamo di migliorare sempre più, sia per quanto riguarda il sound ancora in elaborazione, sia per le nostre capacità di registrare al meglio i nostri pezzi (interamente autoprodotti). Siamo in cerca di contest e speriamo di poter emergere il più possibile in questa giungla discografica. C'è futuro musicalmente per le band underground in Italia o siamo tutti schiavi delle multinazionali discografiche? Parlando da band "visionaria" dovremmo rispondere affermativamente, ma la realtà è ben diversa. Son finiti i tempi in cui i generi spaziavano e assumevano nomi diversi per ogni piccola sfumatura di chitarra o per uno straripante e armonioso suono di sassofono, o almeno son finiti per chi mette il marchio prima che la tua musica la sentano gli altri. Le case discografiche fan passare tutto ciò che vogliono tra "pop" o "rock", sono loro a decidere chi è in grado di far fruttare denaro ad un'azienda o meno, e naturalmente il materiale meno complesso è, più è facile scriverlo a tavolino. Per questo ci saranno sempre più gruppi che inneggeranno all'amore eterno o ad uno appena finito con melodie strappalacrime, che gruppi formatisi da se che affrontano tematiche diverse e con sonorità più ricercate. Grazie di aver partecipato all'intervista alla prossima...Grazie a voi e a tutti i fan più scatenati di Orietta Berti.

Ciao ragazzi e benvenuti...Ciao e grazie per quest'opportunità. Come si formano i Teoria M12? La band nasce da un'idea iniziale del batterista e del bassista che per molti mesi hanno strimpellato qualche cover prima di incontrare il chitarrista e i due cantanti (chi prima chi dopo). Dopo aver provato un po' di pezzi in cantina, decidemmo di fare qualcosa di nostro scrivendo il nostro primo singolo "Ali Bruciate". Nella biografia ho letto che vi proclamate visionari e fantascientifici, spiegatevi meglio... Per "visionari" intendiamo volenterosi di esplorare tematiche raramente trattate da band italiane con sonorità che in realtà si adattano meglio alla lingua inglese. E' il nome che coglie davvero l'essenza del nostro aspetto "fantascientifico" (più che fantascientifico, forse utopistico). Da ciò nasce il nome Teoria M12, ovvero l'aggiunta di una dimensione alle 11 ipotizzate nella teoria delle stringhe. Voi siete pugliesi, eliminando la collocazione musicale delle band pugliesi che hanno avuto successo anche nell'underground, come definite la scena musicale della vostra zona geografica? La scena musicale pugliese risente molto dell'inadeguata presenza di strutture che possano accogliere ogni genere d'arte, per questo pensiamo che la musica emergente della nostra zona abbia meno possibilità di imporsi nel panorama nazionale ed estero rispetto a band dalla capitale in su. Avete subito scartato l'ipotesi di cover band per via dei tanti generi musicali forse non amalgamabili tra loro, eppure avete messo su un gran bel brano, mi riferisco a "Ali Bruciate" avete in mente di registrare un demo o volete aspettare ancora per cercare di costruire meglio il vostro sound? Grazie per il "gran bel brano" La diversità musicale che ci contraddistingue non ci ha permesso di scendere ad un compromesso, per questo motivo abbiamo da subito scartato l'idea di una cover band. In fin dei conti è proprio questa diversità che ci ha indirizzati nella ricerca di un nostro sound, ancora però da perfezionare, sperando di riuscire a trasformarlo con i prossimi pezzi. Parlatemi dell'esperienza al Ricotta'sh Punk festival, dove si è tenuta l'iniziativa e com'è anIntervista a cura di Antonio Di Lena data la serata? Il Ricotta'sh Punk festival è nato da una nostra iniziativa, con l'aggiunta collaborativa di altre band locali per crea-


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Gli Amaranthe sono un gruppo svedese formato nel 2008 da Jake E Berg (voce maschile) e Olof Mörck (chitarre e tastiere), ai quali successivamente si sono uniti la cantante Elize Ryd (già corista dei Kamelot durante i loro ultimi tour), Andreas Solveström (growl & scream fino all’ottobre 2013, poi sostituito da Henrik Englund), il bassista Johan Andreassen e Morten Løwe Sørensen alla batteria.The Nexus è il loro secondo full length, dopo il demo Leave Everything Behind del 2009, che è valso al sestetto un contratto con la Spinefarm Records per la pubblicazione dell’omonimo debut album (uscito due anni dopo). In questa loro seconda fatica discografica gli Amaranthe ripartono da dove si erano interrotti con la precedente, miscelando sonorità metalcore, riff di chitarra aggressivi (spesso riconducibili al death metal scandinavo), synth ereditati dalla musica elettronica e performance vocali capaci di sconfinare in sentieri decisamente lontani da quelli tracciati dai caposti-

disco metal: pezzi come Invincible, Razorblade e Electroheart presentano infatti, soprattutto durante i chorus, atmosfere a metà tra la dance e l’elettropop, laddove la ballad Burn With Me (scelta come secondo singolo) ha ricordato al sottoscritto un certo pop rock dell’ultimo decennio. Il connubio tra screaming e voce pulita, il cui uso è oramai consolidato in certi generi metal, funziona anche in questa sede in maniera egregia, con gli inserti di Andreas che conferiscono ai pezzi una maggiore dose di aggressività. La produzione è assolutamente di qualità e appropriata al sound proposto: l’unica pecca, a parere di chi scrive, va individuata nel basso, il quale sovrastato dalla cassa, dalle chitarre e dai beat elettronici, finisce per esserne tendenzialmente soffocato e sentirsi solo qua e là. I puristi del metallo probabilmente storceranno il naso, davanti a scelte che possono apparire quantomeno commerciali, ma è innegabile che in mezzo a tante copie più o meno pedisseque di Nightwish, Epica, Lacuna Coil & co., gli Amaranthe emergano come una band dall’identità stilistica chiara, personale e decisamente riconoscibile. Identità che si estende anche sul piano visivo, se si giudica il video della title track The Nexus, a sua volta sullo stile di quello di Hunger (primo singolo dell’album precedente): un vero e proprio cortometraggio con tanto di trama, effetti speciali e logo della Universal Pictures all’inizio. In conclusione ritengo che chi ha apprezzato il loro primo lavoro, così come chi è alla ricerca di un ascolto non particolarmente impegnativo, non rimarrà deluso da The Nexus, sebbene in realtà non aggiunga nulla rispetto a quanto già fatto precedentemente dalla band. A tutti gli altri posso solo consigliare di sentirsi un paio di canzoni con mente aperta, per valutare se gli Amaranthe possono fare al caso loro.

piti del genere. Dodici tracce, per un totale di circa quarantuno minuti, che scorrono via veloci stampandosi nella testa fin da subito. Eh sì, perché la direzione scelta dagli Amaranthe per distinguersi nel mare magnum di band con cantato femminile e approccio melodico, risulta chiara già dalla opener Afterlife: brani diretti, senza tanti fronzoli compositivi o strumentali, e melodie catchy che catturano già al primo ascolto. La band si muove con disinvoltura attraverso le diverse influenze, mostrando, rispetto a due anni fa, un legame ancora più omogeneo tra le proprie due anime.Scendendo un po’ più nel dettaglio, ci troviamo di fronte a una sezione ritmica sempre presente e incisiva, fatta di ritmi incalzanti ai quali si sovrappone iNFO:http://www.amaranthe.se https:// un ampio utilizzo dei synth, a volte cowww.facebook.com/AmarantheBand me sottofondo, a volte con un ruolo più Soulknife predominante. Sul piano vocale, Jake ed Elize si amalgamano tra loro in modo davvero efficace, deviando spesso e volentieri verso linee inusuali per un


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