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LENCI SCULTURE IN CERAMICA 1927-1937 A CURA DI

VALERIO TERRAROLI ED ENRICA PAGELLA

UMBERTO ALLEMANDI & C. TORINO ˜ LONDRA ˜ VENEZIA ˜ NEW YORK


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ARTE E INDUSTRIA A TORINO. L’AVVENTURA LENCI. CERAMICA D’ARREDO 1927-1937 Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica 23 marzo - 27 giugno 2010

MOSTRA Sindaco Sergio Chiamparino Assessore alla Cultura e al 150o dell’Unità d’Italia Fiorenzo Alfieri Direzione della Divisione cultura, comunicazione e promozione della Città Anna Martina

Presidente Andrea Comba Vicepresidenti Giovanni Ferrero Giovanni Quaglia Segretario generale Angelo Miglietta

Alleanza Toro Armando Testa Burgo Group Buzzi Unicem Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Torino Compagnia di San Paolo Deloitte & Touche Ersel Exor Ferrero Fiat Fondazione Crt Fondiaria-Sai Garosci G. Canale & C. Gruppo Ferrero-Presider Intesa SanPaolo Italdesign-Giugiaro Italgas Lavazza Marco Antonetto Farmaceutici Martini & Rossi M. Marsiaj & C. Pirelli Reale Mutua Assicurazioni Skf Telecom Italia Unione Industriale di Torino Vittoria Assicurazioni

Consiglio direttivo Giovanna Cattaneo Incisa, presidente Sandra Aloia Franco Amato Pier Angelo Chiara Maurizia Rebola Walter Santagata Revisori dei conti Enrico Stasi, presidente Edoardo Aschieri Giandomenico Genta Concetta Rizzo Sergio Rolando Comitato scientifico Enrico Castelnuovo, presidente Gilles Béguin Marco Collareta Danilo Eccher Giuseppe Gherpelli Maria Mimita Lamberti Maria Grazia Messina Marcello Pacini Enrica Pagella Franco Ricca Segretario generale Adriano Da Re Segreteria di presidenza Laura Testa

Risorse umane Lina Carnovale, responsabile Giuliana Massa Paola Mussa Bilancio e contabilità Carla Rosso, responsabile Silvana Bianco Francesca Castello Lucia Mangiamele Antonio Piacentino Controllo di gestione Elisabetta Rattalino Comunicazione e Marketing Alessandro Isaia, responsabile Laura Bosso Davide Monferino Ufficio legale Cristina Mossino Ufficio tecnico Stefano Gulia

Curatori Valerio Terraroli Enrica Pagella Direttore Enrica Pagella

Coordinamento Ilaria Fiumi

Conservatori Clelia Arnaldi di Balme Simone Baiocco Simonetta Castronovo Cristina Maritano Paola Ruffino

Registrar Stefania Capraro

Servizio mostre Ilaria Fiumi Servizi di documentazione Stefania Capraro Carlotta Margarone Servizi educativi Anna La Ferla Francesca Brancati Daniela Falai con la collaborazione di Paola Savio e Elena Cantù

Mailing Carolina Trucco

Servizi museali Tiziana Caserta Donato Scaglione

Protocollo Bibiana Gonnella

Segreteria di direzione Silvia Merlo

Ufficio stampa Daniela Matteu, responsabile Tanja Gentilini

Segreteria generale Flavia Fiorentin

Progetto dell’allestimento Diego Giachello con Marco Gini e Elena Ciani Progetto grafico e immagine coordinata Elio Vigna Design, Torino Video in mostra Pier Luigi Bassignana Elena Romagnolo, Progetto Storia e Cultura delle Industrie del Nord-Ovest Progetto impianti elettrici Alfonso Famà Coordinamento sicurezza in cantiere Gianfranco Vinardi Allestimento IM.FORM, Torino Impianto elettrico IEM di Melissari, Torino Grafica in mostra Ideazione srl, Torino Trasporti Arterìa srl, Torino Assicurazioni Vittoria Assicurazioni Traduzioni Simon Turner

CATALOGO Albo dei prestatori Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino Collezione Antonello Massimo e Rossella Antonetto Walter e Maria Cristina Ceresa Paolo e Barbara Chiono Franco e Nadia Demichelis Giuseppe e Gabriella Ferrero Lazzaro Garella Ferruccio e Michele Vaccarino Coordinamento organizzativo, Consulta Angela Griseri Mario Verdun di Cantogno La mostra è stata realizzata grazie alla disponibilità delle raccolte pubbliche e dei collezionisti privati che hanno prestato con generosità ed entusiasmo le proprie opere. A tutti loro, anche a coloro che hanno preferito mantenere l’anonimato, va il nostro sentito ringraziamento. Si ringrazia Vittoria Assicurazioni per aver contribuito alla realizzazione della mostra in qualità di sponsor tecnico per le coperture assicurative.

Curatori Valerio Terraroli Enrica Pagella Saggi Pier Luigi Bassignana Elena Dellapiana Maria Mimita Lamberti Daniele Sanguineti Valerio Terraroli Gianluca Zanelli Schede e apparati Stefania Cretella [S.C.] Daniele Sanguineti [D.S.] Gianluca Zanelli [G.Z.] La campagna fotografica della mostra e del catalogo è stata realizzata da Bruna Biamino, Torino

In copertina

Mario Sturani, Ciotola Danza sul ponte, 1930/1931 (tav. 118; cat. 96).


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l’Italia Torino sarebbe più o meno la stessa. Ma senza Torino l’Italia sarebbe molto diversa». Umberto Eco, un piemontese «degliSannienza di Alessandria. Nella lunga storia di Torino vi sono momenti che possono essere portati a sostegno di questo paradosso. Il periodo venti-trenta è certamente uno di questi. L’afflusso di esuli illustri durante il periodo preunitario, la presenza di iniziative imprenditoriali e di capitali provenienti dalle città europee più avanzate, la necessità di superare il trauma della perdita della capitale, un gruppo di aristocratici e di borghesi aperto alle innovazioni, pubblici amministratori di alto profilo - Sambuy, Teofilo Rossi, Frola hanno consentito negli anni 1870-1914 un momento di crescita eccezionale. Il positivismo, che immaginava un mondo di progresso materiale guidato dalla scienza e dalla tecnologia, ha permeato quegli anni. Torino, su questa spinta, ha saputo reagire alla difficile crisi postbellica, al duro confronto tra capitale e lavoro del 1920 e ha avuto un momento di grande vitalità proprio negli anni venti-trenta. Vorrei ricordare il peso dell’Università, del Politecnico e in particolare delle Facoltà di Lettere, Giurisprudenza e Medicina, dove grandi maestri univano a una profonda dottrina una forte tensione civile, attenti alla realtà circostante. Una circolarità culturale univa Accademia, Politica e Imprenditoria. Sono gli anni di Gramsci e Gobetti, di Agnelli e Gualino, di Lionello Venturi e Casorati, ma anche della moda, del cinema, del calcio, dell’EIAR: in queste aree Torino assume una centralità nazionale. Ma non vorrei dimenticare il Futurismo, la nuova via Roma, l’Esposizione Universale del 1928. È impossibile non ricordare l’Istituto Galileo Ferraris, la nascita dell’Einaudi, Vincenzo Lancia, Pininfarina, la presenza del principe ereditario a Torino. In questo ambiente è nata ed è cresciuta l’avventura di Lenci, un’azienda che raggiunse 600 dipendenti. E perché Consulta ha deciso di occuparsene? Consulta è nata oltre vent’anni fa. Ogni anno aziende ed enti erogano in forma paritetica una somma per migliorare il patrimonio artistico di Torino. Alle attività di restauro e conservazione che negli anni ottanta hanno consentito interventi importanti sul patrimonio della città in stato di grave degrado, oggi si sono aggiunte la valorizzazione e la fruizione dei beni. Parallelamente, a fronte della contrazione dei fondi disponibili a livello pubblico e privato, particolare attenzione è stata rivolta a mantenere un flusso di risorse dalle imprese ai beni culturali, nella convinzione profonda che questo sia in primo luogo di interesse dell’impresa e del territorio nel quale opera. Nel triennio 2007-2010, la Consulta ha lavorato su diversi progetti: il restauro del plafone del Teatro Carignano dipinto da Francesco Gonin nel 1845, la realizzazione del nuovo percorso museale delle Cucine storiche di Palazzo Reale, il reimpianto delle alberate storiche della Palazzina di caccia di Stupinigi, la mostra «Evocazioni e nuovi allestimenti nell’Appartamento del Re» a Villa della Regina, il restauro delle facciate della chiesa del Santo Sudario e del Museo della Sindone, la realizzazione di nuove installazioni virtuali al Museo Nazionale del Cinema, la mostra «Meraviglie della Galleria Sabauda. Dieci restauri dalle collezioni dei fiamminghi e di Riccardo Gualino». Sono stati avviati, in collaborazione con la Commissione Cultura di Confindustria, percorsi pluriennali di riflessione, iniziando dal finanziamento privato dei beni culturali, proseguendo con un’analisi propositiva sugli aspetti fiscali e, di recente, dal mecenatismo a un nuovo media, la sponsorizzazione del bene culturale. Per questi motivi la mostra «Arte e Industria a Torino. L’Avventura Lenci. Ceramica d’arredo 1927-1937» rientra nella strategia di Consulta. Molte aziende oggi associate a Consulta erano già protagoniste in quegli anni di percorsi di successo. Inoltre il Comune di Torino ha recentemente acquistato l’Archivio Lenci. Le aziende e gli enti di Consulta si augurano di dare con la grande mostra su Lenci a Palazzo Madama un contributo per meglio conoscere quello che, con riferimento all’Einaudi, Ernesto Ferrero ha sintetizzato nel bel libro I migliori anni della nostra vita. LODOVICO PASSERIN D’ENTRÈVES Presidente Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino

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enci è una storia di creatività, di industria, di attenzione al mondo delle cose quotidiane, ed è anche una storia torinese, immersa nel campo di relazioni più vaste che toccano la moda, il mercato, la produzione artistica. È stato perciò naturale, per il Museo Civico, accogliere con entusiasmo e gratitudine la proposta di mostra della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, che dedica alla storia della Lenci un percorso di oltre centocinquanta oggetti, per la quasi totalità messi a disposizione da privati. Proprio l’interesse del collezionismo privato è riuscito, nel corso degli anni, a mettere un argine alla dispersione dell’immenso patrimonio di forme e di modelli scaturito dalla fantasia e dalla perizia degli artisti e dei tecnici che governavano le varie fasi della produzione negli anni d’oro dell’azienda. La varietà e la quantità della produzione - bambole, ma anche molti oggetti d’uso in ceramica, in panno, in legno dipinto - non consentivano una ricostruzione complessiva dell’attività della Lenci. Si è quindi scelto di concentrare l’attenzione sulla ceramica, e in particolare sulle sculture d’arredo, proponendo una selezione di temi e di stili rappresentativa dei dieci anni cruciali che vanno dal 1927 al 1937. Un’occasione per proporre a un più vasto pubblico uno dei rami di produzione più interessanti della Lenci, e anche un motivo per riflettere sulla storia di un patrimonio che non ha purtroppo goduto né della tutela né della fortuna museale che avrebbe ben meritato in ambito torinese. In questo senso la mostra diviene un risarcimento per un capitolo di storia molto particolare e originale della cultura artistico-industriale torinese: tardivo forse, ma anche prezioso per meglio orientare le scelte e le conoscenze future. Insieme alla Consulta, la Fondazione Torino Musei e Palazzo Madama esprimono un sincero ringraziamento a Massimo e Rossella Antonetto, Walter e Maria Cristina Ceresa, Paolo e Barbara Chiono, Franco e Nadia Demichelis, Giuseppe e Gabriella Ferrero, Lazzaro Garella, Ferruccio e Michele Vaccarino e alla Collezione Antonello per aver reso possibile, con i prestiti, la mostra, e per avere con grande cortesia accettato, in questi mesi, l’inevitabile via vai di persone, missive e telefonate causato dalle varie fasi di realizzazione del progetto. Un grazie particolarmente sentito anche alla Consulta, che ha proposto e poi sostenuto questo progetto investendo risorse, intelligenza e competenze tecniche e organizzative. GIOVANNA CATTANEO INCISA Presidente Fondazione Torino Musei

ENRICA PAGELLA Direttore Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica


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Sommario

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Sculture d’arredo. Artisti per Lenci e la ceramica italiana ed europea tra gli anni venti e gli anni trenta VALERIO TERRAROLI

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Le belle statuine MARIA MIMITA LAMBERTI

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Lenci nel panorama industriale torinese fra le due guerre PIER LUIGI BASSIGNANA

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Ceramiche Lenci tra pubbliche esposizioni e strategie commerciali DANIELE SANGUINETI e GIANLUCA ZANELLI

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Lenci e gli oggetti d’uso ELENA DELLAPIANA

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Catalogo

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Schede delle opere Apparati

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Biografie degli artisti

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Glossario tecnico

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Bibliografia

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Indice dei nomi


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Sculture d’arredo. Artisti per Lenci e la ceramica italiana ed europea tra gli anni venti e gli anni trenta VALERIO TERRAROLI

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ella memoria collettiva, e nella tradizione storica, il marchio Lenci è legato alla produzione di bambole, di arazzi, di tappeti e di cuscini nel famoso «pannolenci» e di ceramiche ornamentali, i cui soggetti passarono indifferentemente dalle «signorine Grandi Firme», immortalate dalla penna di Dudovich e, poi, di Boccasile, ai temi di mitologia classica, dagli animali rappresentati in maniera naturalistica a scene di vita popolare, fino a invenzioni plastiche originali e innovative in linea con la scultura contemporanea. A questi temi si dedicò quella produzione, la cui parabola creativa è circoscritta a circa meno di un decennio tra il 1927 e il 19371, che ebbe come obiettivo la produzione di una vera e propria scultura d’arredo: forme plastiche che, in misura del salotto borghese, portassero nelle case una ventata di modernità, non rivoluzionaria, ma piacevole, più aneddotica che narrativa, più popolare che elitaria (fig. 1). La tradizione critica ricorda che la manifattura Lenci, fondata dai coniugi Scavini nel 1919 per la produzione di «giocatolli, bambole, pupazzi, confezioni, articoli di vestiario, decorazioni per vestiti, scialli, cuscini, cappelli, scarpe, pantofole, cinture, articoli di moda e di fantasia, chincaglieria, tende, mobili in legno dorato, arredamenti per la casa...»2, si lanciò nell’avventura di una produzione ceramica a partire dal 1928, data della prima presentazione pubblica a Torino di alcuni prodotti ceramici e propedeutica alla fondativa esposizione presso la Galleria Pesaro di Milano nel 19293. Questa mostra venne sapientemente organizzata sotto la regia di Ugo Ojetti, teorico e patrocinatore della rinascita delle arti decorative italiane, attraverso le biennali internazionali dedicate appunto a quel tema nella Villa Reale di Monza, e cofondatore dell’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche), sempre a Monza4. Strategica fu anche la scelta della galleria d’arte di Lino Pesaro, tra tutte la più aperta alle novità della scuola pittorica del movimento Novecento, e soprattutto attenta alle invenzioni nell’ambito delle arti decorative in relazione al mondo dell’arte figurativa. Infine la scelta di Milano, dove, peraltro, nella galleria Vittorio Emanuele, Lenci aveva un proprio negozio già dal 1923: la città che più di ogni altra, sia per le riviste specializzate, sia per le esposizioni monzesi, era aperta all’Europa nell’ambito del protodesign e della produzione di arti decorative moderne e arredi per la casa contemporanea. La scelta dei coniugi Scavini, audace e onerosa sul piano finanziario e organizzativo, ebbe molte ragioni, non ultima l’esperienza vissuta a Parigi tra l’aprile e l’ottobre 1925 in occasione dell’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, nella quale le ceramiche italiane prodotte da Richard-Ginori, con l’innovativa direzione artistica di Gio Ponti, ottennero la medaglia d’oro: «Oggetti di estrema raffinatezza, colti, modernissimi, risultato di un lavoro incrociato tra designer e competenze artigiane ini- Fig. 1. Mario Sturani, Disegno per il Vaso Arcobaleno, mitabili, nei quali struttura formale e decoro, debitrici totalmente delle 1930-1931. Collezione privata. 11


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esperienze viennesi, rappresentano il canto del cigno della ceramica d’arte»5. Quell’evento espositivo sancì i caratteri internazionali di ciò che da allora verrà sbrigativamente definito il «gusto déco»: una cifra stilistica e un sistema di segni e temi che fondeva, senza apparente contraddizione, eleganza formale e ritmicità compositiva, ricchezza dei materiali e semplificazione avanguardista delle forme, citazioni colte da civiltà del passato e un’esuberanza decorativa lussuosa ed elitaria6. Il fenomeno dell’Art Déco rivelò le sostanziali contraddizioni interne nel mai risolto conflitto tra arte funzionale e arte decorativa, rivelandosi come l’erede di un certo modo di intendere l’Art Nouveau, accentuando ancora una volta l’idea della bellezza del superfluo per poter nutrire un mercato perennemente affamato di novità. Il compito degli Arts Déco sembrò quello di conquistare la più larga fascia di pubblico possibile a uno stile moderno e connotato, in alternativa all’oggetto in stile che aveva ancora una larghissima diffusione. Nello stesso tempo, però, la spinta utopica alla creazione dell’arte totale e al radicale cambiamento della società attraverso la bellezza risultò tramontato in favore di un accomodamento più commerciale che estetico, mutuando dall’incipiente razionalismo e dalla riscrittura futurista e costruttivista degli spazi del quotidiano quelle cadenze aspre e scattanti, geometriche ed essenziali che lo caratterizzarono. D’altra parte, fu evidente nell’expo parigino, e in altre manifestazioni consimili, che un rapporto armonico e indissolubile tra ambiente quotidiano e decorazione, che era stato il perno dell’utopia modernista, veniva eluso, non perché non si conoscessero i termini della questione, peraltro più volte dibattuta, ma perché si era deciso di privilegiare l’individualità e la raffinata preziosità dell’oggetto, il suo isolamento rispetto a un contesto con il quale, certamente, si armonizzava, ma del quale poteva fare tranquillamente a meno. In definitiva, si sancì l’assoluta gratuità dell’oggetto, aumentandone vertiginosamente il desiderio di possesso da parte di un pubblico sempre più alla ricerca del lusso. Che la produzione déco nelle arti decorative, ma anche nella pittura e nella scultura d’arredo e di ornamento, che proseguì sostanzialmente inalterata fino alla metà degli anni trenta, fosse per un mercato di nicchia è indubitabile, ma è altrettanto vero che il rutilante mondo di lustrini e dorature, di ammalianti boudoirs e fastose residenze, di atmosfere arcaiche e moderne insieme, che si ammiravano nelle pellicole cinematografiche, negli spettacoli teatrali, sui piroscafi transoceanici, negli alberghi e nei caffè, penetrò profondamente nella coscienza collettiva e nel sentire comune, nutrendo un desiderio di identificazione con quell’ambiente esclusivo e patinato, tale da dar vita a una larghissima produzione di forme involgarite e dozzinali del gusto «anni venti» a fronte di una produzione che, benché seriale, restò di altissima qualità inventiva e decorativa, come le maioliche e le porcellane di Gio Ponti per la Richard-Ginori, le figure stilizzate e modernissime modellate da Gerhard Schliepstein, per la manifattura tedesca di Rosenthal (fig. 2) e, appunto, gli oggetti e le sculture in ceramica prodotte da Lenci a Torino tra il 1927 e il 1937. Allo stesso tempo il Déco divenne un modo per recuperare alla contemporaneità valori, etici ed estetici, considerati perduti, quali le tradizioni artigianali e le radici nazionali e regionali, come avvenne, ad esempio, in Italia, cercando di coniugare cultura rurale ed eleganza metropolitana, orgoglio per la propria storia e aperture a uno stile internazionale. La sequenza di mostre specificatamente dedicate alle arti decoratiFig. 2. Gerhard Schliepstein, Candeliere in forma di figura femminile, ve, tenutesi biennalmente nella Villa Reale di Monza negli 1928-1930, manifattura Rosenthal, Serb (Baviera). Collezione privata. 12

Fig. 3. Arturo Martini, Bagnanti, 1929-1930, manifattura ILCA, Nervi. Collezione privata.

Fig. 4. Fausto Melotti, Le tre Grazie al bagno, 1930-1931, manifattura Richard-Ginori, San Cristoforo, Milano. Collezione privata.

anni 1923, 1925, 1927 e 19307, per poi trasferirsi a Milano con cadenza triennale, dimostrò la volontà di affermazione a livello europeo della produzione artistica italiana, del suo aggiornamento linguistico, del suo mai dimenticato rapporto con la tradizione, della stretta connessione delle arti decorative e delle arti figurative da cui scaturì la fondazione nel 1925 dell’ISIA, dove tra gli altri studiò Mario Sturani, il maggior artista operoso per Lenci, nella classe di decorazione tenuta dal designer dalmata Ugo Zovetti, il quale fece da trait d’union tra il gusto italiano e i modelli elaborati nell’ambito della cultura secessionista a Vienna e a Monaco di Baviera. Nella complessa geografia della produzione ceramica italiana nel primo dopoguerra, specie nella stretta integrazione tra arte e arti decorative, pur nella diversità delle proposte e delle intenzioni di mercato, le «statuine» ceramiche della Lenci occuparono un posto di rilievo e di particolare interesse, accanto al mai sopito dibattito sulla questione delle arti industriali e, dunque, sulla produzione seriale dei pezzi a fronte di una mai estinta tradizione artigianale per gli elementi di arredo. Sarebbe pericoloso, per una industria d’arte come la ceramica, credere solo a quel che si vede nelle Esposizioni. La vera arte moderna non è certamente mai stata chiusa, volta a volta, in un recinto. L’Esposizione, questa sorta di congestione rappresentativa, è un fenomeno sospetto per il giudizio della produzione che determina lo stile contemporaneo. Essa non contiene solo dei risultati, delle testimonianze sicure della nostra tecnica, del nostro uso e del nostro costume. Essa contiene tutto; il vero e il mendace, il reale e il fittizio, con proporzioni arbitrarie e accidentali8.

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Queste considerazioni furono elaborate dall’architetto Gio Ponti9, in quel torno d’anni direttore artistico e designer delle manifatture RichardGinori, per il saggio dedicato alla produzione ceramica e pubblicato nel catalogo destinato alla partecipazione italiana all’esposizione di Parigi del 1925. Nell’intervento critico, Ponti enunciò almeno tre concetti di fondo del rapporto tra le arti decorative e la produzione industriale di inizio Novecento: la necessità improcrastinabile di trasferire il piano produttivo e commerciale dal livello squisitamente artigianale a quello industriale, la funzione fondamentale delle esposizioni per la diffusione e l’allargamento del consenso del pubblico e, infine, il concetto di stile, che si esprime nei diversi livelli degli oggetti d’uso, ma che quasi mai è davvero rappresentato dagli eventi espositivi, ma partecipa profondamente, e si nutre, della quotidianità. La ceramica venne, dunque, adottata come una cartina di tornasole per valutare, da un lato, e promuovere, dall’altro, la modernità del linguaggio artistico Fig. 5. Susi Singer, Statuette, 1928-1930, Wiener Werkstätte, Vienna. o meglio dello stile, quale insieme di scelte esteDa R. Papini, Le arti d’oggi, 1930, tav. CCLXVI. tiche, praticità della funzione, unitarietà di modelli. La strada fu lunga e accidentata prima di giungere a un’autonomia, dapprima produttiva e commerciale, e poi concettuale dell’oggetto d’arte, in particolare della ceramica artistica, e prese avvio dapprima timidamente e poi, via via, con maggior forza a partire dagli inizi dell’Ottocento quando la produzione inglese di porcellana dagli impasti misti (in particolare parian ware, jasper ware e black basalt) sostituì in tutta Europa la secolare fortuna mercantile della maiolica, pur non intaccando il mercato più popolare della terracotta dipinta: in altre parole l’avvio dell’industrializzazione in Inghilterra comportò la ricerca di formule compositive del prodotto ceramico a minor costo per un inevitabile allargamento del mercato a fronte della ristretta cerchia di acquirenti delle produzioni di porcellane delle manifatture reali e nazionali. Con il progredire, nel corso degli anni trenta dell’Ottocento, delle tecnologie produttive, attraverso l’inserimento nel ciclo produttivo di molte manifatture europee di stampi in gesso per la produzione seriale «a colaggio» dei pezzi, di presse idrauliche e macchine a vapore e l’applicazione delle decorazioni pittoriche con il metodo della decalcomania, si produsse un effetto di saturazione del mercato con prodotti di bassa o pessima qualità materica e soprattutto caratterizzati da un impiego disordinato e superficiale di modelli aulici. La combinazione tra una sempre maggiore richiesta da parte del pubblico e una sempre più disordinata foresta di prodotti «in stile» produsse nelle manifatture più avvedute, e nel dibattito sull’arte, l’esigenza del mantenimento di una relazione stretta tra prodotto e innovazioni tecniche, da un lato, e di una nuova educazione alla storia del gusto, e quindi una precisa conoscenza degli stili, dall’altro, per dar vita a una produzione di alta qualità sia materiale sia estetica cercando, dunque, di utilizzare la ceramica come un veicolo di comunicazione del gusto moderno10. In un simile contesto di cultura e di mercato si inserì con forza, almeno agli inizi, la produzione ceramica Lenci, la quale già contava nei propri ranghi figure come Giovanni Riva e Lino Berzoini, in qualità di modellatori e decoratori dei visi delle bambole, insieme a Teonesto Deabate e, soprattutto, a Sandro Vacchetti. Quest’ultimo, infatti, sigla un’inedita piastra decorativa11, datata 1926, dipinta con una composizione floreale in vaso, che ha molto il sapore di una sperimentazione di decoro

ceramico in linea con un attardato gusto Art Nouveau, ma che dimostra l’impegno sperimentale presso Lenci, appunto già dal 1926, di oggetti ornamentali in ceramica. L’ingresso nella ditta torinese, nel settembre 1928, di Piero Spertini, già operoso a fianco di Guido Andloviz, educato anch’egli alla scuola della Secessione viennese, presso la Società Ceramica Italiana di Laveno sul lago Maggiore (attiva dal 1883), e poi alla Ceramica Vittoria di Mondovì12, e la chiamata da parte di Helen (poi detta Elena) König, dell’amica tedesca Cläre Burchart, già modellista e progettista presso la manifattura Rosenthal13, segnò in modo chiaro la scelta degli Scavini: dar vita a una produzione di oggetti ceramici d’arredo improntati a linee e a forme di gusto internazionale. La fama di Lenci nell’ambito del mondo dell’infanzia, consolidata non solo dal ricco catalogo delle bambole e dei «pannolenci», ma soprattutto degli arredi, come quello disegnato da Gigi Chessa per l’esposizione monzese del 1923: una camera per la prima colazione, ispirata ai modelli del barocchetto piemontese, e arricchita da ceramiche di Deabate, ricami su disegno di Sandro Vacchetti e Beppe Porcheddu, dipinti di Emilio Vacchetti, Felice Vellan e Felice Casorati. Tra il 1926 e il 1927 si iniziò a elaborare una prima serie di sculture, di «statuine», per l’arredo della casa moderna. L’ispirazione non solo dei soggetti, ma delle forme, prese spunto dalle fonti più varie e di immediata accessibilità: i ritagli dalle riviste d’arredo e di costume (dall’inglese «The Studio» alla monacense «Jugend», da «Vogue» a «Die Dame», da «Art et Décoration» a «Gazette du Bon Ton») e dai cataloghi delle esposizioni14. L’obiettivo era quello di creare un repertorio di oggetti eleganti e «alla moda», adatti a un pubblico altoborghese dal gusto cosmopolita e moderno, desideroso di circondarsi di nuove

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Fig. 6. Mario Sturani, Fantino, 1929, manifattura Lenci, Torino. Collezione privata.

Fig. 7. Gio Ponti e Geminiano Cibau, Il maestro di danza, 1927, manifattura Richard-Ginori, Doccia. Collezione privata.


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icone, deliziose e accattivanti, moderne quel tanto da non inquietare acquirenti che rifuggivano le provocatorie deformazioni delle avanguardie. Il «mondo Lenci» era, ed è, tranquillizzante, poiché se da un lato non si spinse lungo l’impervia strada del gusto déco, dalla cifra algida e intellettualistica, preziosa e aristocratica, come la produzione pontiana per le porcellane e le maioliche della Richard-Ginori, dall’altro non cavalcò le proposte provocatorie del secondo Futurismo, come le ceramiche albisolesi dei Mazzotti e di Djulgheroff15, ma preferì creare una morbida fusione di forme moderne con modelli giocosi e ironici, in cui Mario Sturani fu maestro, ispirati sia alle invenzioni di Fortunato Depero sia al gusto francese. Oltre a ciò, trovarono spazio le scene di vita contadina e popolare, in cui primeggiarono i coniugi Grande, i nudi arcaici di Gigi Chessa, dal dettato monumentale ispirato alla scultura coeva, di temi naturalistici, che sapientemente modellò l’«animaliere» Felice Tosalli16, e i nudi femminili, delle «fanciulle in fiore», delle ninfe e delle principesse delle favole di Beltrami, Formica e Vacchetti, fino all’interpretazione cartellonistica e pubblicitaria della donna moderna di Elena König Scavini e di Abele Jacopi: da Al caffè a Primo romanzo, da Grattacielo - Ultimo tocco a La tuffatrice (catt. 58, 62, 50 e 54). I riferimenti ai modelli esperiti dai laboratori secessionisti viennesi risultarono illuminanti. La straordinaria produzione delle Wiener Werkstätte17, diventata normativa per il gusto altoborghese europeo, si era candidata quale velleitaria alternativa, nella sua rigorosa ed elaborata propedeutica artigianale, alla realtà della macchina e della scala industriale, riportando in vita, ancora una volta prima dell’esplosione del fenomeno delle avanguardie artistiche, l’utopia dell’arte come strumento capace di riconfigurare la vita e di metamorfizzare la realtà quotidiana. L’affermazione del credo secessionista viennese, in aperta antitesi con la situazione tedesca più capillarmente industrializzata e dove la semplicità delle forme degli oggetti si affermò come aprioristica necessità di riproduzione industriale, prima che come scelta estetica del nascente design, trovò riscontri diretti in Italia

Fig. 8. Giuseppe Piombanti Ammannati, Venere: testa in turchese, 1935 c., manifattura Egisto Fantechi, Sesto Fiorentino. Milano, Museo d’arti applicate del Castello Sforzesco (inv. 4121).

Fig. 9. Giuseppe Piombanti Ammannati, Testa maschile con cappello di paglia (Estate), 1933-1935, manifattura Egisto Fantechi, Sesto Fiorentino. Collezione privata.

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Fig. 10. Giuseppe Piombanti Ammannati, Testa femminile con fiori e foglie (Primavera), 1933-1935, manifattura Egisto Fantechi, Sesto Fiorentino. Collezione privata.

sia nell’attività di Ponti presso la Richard-Ginori, a partire dal 1923, sia nella figura di Guido Andloviz, direttore artistico nella fabbrica di Laveno18, ma anche nei laboratori faentini di Francesco Nonni19 e di Pietro Melandri20 e della sua scuola, dando vita a una declinazione italiana degli Arts Déco internazionali, con figure scattanti e dai movimenti sincopati, basati sui modelli futuristi, decori naturalistici stilizzati se non chiaramente astratti, richiami al repertorio manierista (Ponti) e allo «stile Pompadour» (Ponti, Andloviz e Nonni): un melting pot intelligente di orientalismo, di rimandi alla cultura classica, di tradizioni popolari e di linguaggi della modernità che trovarono nella ceramica Lenci, e negli artisti che vi si impegnarono, uno dei momenti più alti e affascinanti dell’arte italiana tra le due guerre. Le prime uscite pubbliche, a Torino nell’estate del 1928 e a Londra presso la Callows Gallery nell’autunno del 1929, suscitarono immediate reazioni da parte degli arbitri del gusto contemporaneo che ne stigmatizzarono novità, rinnovamento e intelligenza di invenzione, pur evidenziando l’appartenenza di quei prodotti ceramici a un gusto squisitamente torinese. Gio Ponti, che apprezzava gli artisti che lavoravano per la manifattura di Torino, non intese sminuirne il valore o la qualità creativa, ma sapientemente vergò un giudizio che ancora oggi ci restituisce in sintesi i caratteri profondi di quegli oggetti: Lenci è ora editore di ceramiche. Esse hanno la stessa grazia divertente e acuta dei pupazzi in panno che han reso famoso questo nome. Pubblicando questi esemplari, che sono, mutando quel che s’ha da mutare, tra il Gozzano e il Casorati, di una ispirazione caratteristicamente torinese, acute, frigide e signorili nella espressione e nella caricatura, di castigata malizia nella invenzione, più tese verso l’eccezione che verso una pienezza decorativa che ci delizi riposatamente e definitivamente21.

Il dare e l’avere tra i diversi artisti che tra gli anni venti e trenta si impegnarono nell’ambito della produzione ceramica è un terreno ancora fertile di indagini e numerosissimi sono i possibili rimandi, i sottili riferimenti, le citazioni, talvolta al limite del plagio, che oggi possiamo identificare in molte sculture Lenci. Curiose, ad esempio, risultano le affinità formali e strutturali tra alcuni gruppi plastici modellati da Arturo Martini per l’ILCA di Genova Nervi tra il 1928 e il 1930, come per esempio Le bagnanti (1929-1930; fig. 3), o da Fausto Melotti per la Richard-Ginori/San Cristoforo, come Le tre Grazie al bagno (1929-1930; fig. 4), che fondono echi picassiani ad andamenti ornamentali secessionisti, con le composizioni di Giovanni Grande (Fauno e ninfa dormiente, Susanna e i vecchioni e Venere, catt. 25, 34 e 37). Come del resto è impensabile apprezzare pienamente la modernità dei numerosi nudi femminili di Gigi Chessa senza un confronto stringente con le contemporanee invenzioni novecentiste, in particolare di Arturo Martini. Le sue sculture hanno un sapore arcaico non solo nella sintesi anatomica, ma soprattutto nell’asperità delle superfici invetriate e colorate con tinte monocrome che annullano la piacevolezza descrittiva e naturalistica in favore di una lettura tattile e contemporanea del modellato, di impatto monumentale, del nudo femminile. D’altro canto se da un lato il pensiero va, inevitabilmente, alle terrecotte di Arturo Martini, non si può non rilevare anche una conoscenza delle invenzioni della grande ceramista austriaca Vally Wieselthier, alla quale si deve una serie di sculture in terracotta, dipinte e talvolta inve17

Fig. 11. Ottorino Palloni, Testa femminile, 1936-1938, manifattura Zaccagnini, Firenze. Collezione privata.

Fig. 12. Vally Wieselthier, Filli, 1928, Wiener Werkstätte, Vienna. Collezione privata.


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triate, realizzata tra il 1928 e il 193222, che ricordano sia i Nudini di Chessa (catt. 12-13), sia la Donna con cactus di Da Milano (cat. 17). Ma anche i nudi in maiolica creati in Austria da Max Ella, e soprattutto da Susi Singer per le Wiener Werkstätte, che Papini definì «saggi di preziosità bizantina nel gusto d’orientamento verso gli esemplari dell’arte rustica, diffuso largamente in Austria e Germania» (fig. 5)23, proposero un’interpretazione dei modelli dell’arte classica attraverso il linguaggio secessionista, che reiventò la scultura d’arredo. La stessa Elena König Scavini nel modellare le proprie donnine contemporanee sorprese per strada, a sistemarsi un foulard, a tenersi la gonna sollevata dal vento o a truccarsi, rientrò perfettamente in quella produzione di figurine contemporanee che la stessa Vally Wieselthier modellò e dipinse tra il 1928 e il 1929, così come Milly Steeger, per alcune sculturine in porcellana di Rosenthal24, o Gerhard Schliepstein, in chiave decisamente déco25, sempre per Rosenthal (Figura/Candeliere, 1928-1930, fig. 2) oppure Paul Scheirich, in un esplicito recupero del rococò francese26, per la manifattura di porcellana di Berlino. Gli atteggiamenti, un po’ pettegoli e bamboleggianti, che caratterizzarono le figurine di Elena Scavini, corrisposero immediatamente al gusto piccoloborghese imperante e ne decretarono l’immediato successo, testimoniato dall’alto numero di esemplari realizzato. Perché piacquero le «signorine Lenci», a tal punto da essere quasi immediatamente imitate da manifatture torinesi concorrenti organizzate da transfughi della Lenci, come Le Bestetti e Essevi27? Perché riuscirono a raccontare frammenti di vita quotidiana in una forma elegante e sfiziosa, insieme mondana e popolare: le faccine imbronciate, l’ammiccare delle lunghe ciglia, gli abiti aderenti che segnavano i giovani corpi senza esibirli, le scarpe con i tacchetti, portarono nelle case borghesi l’immagine tranquillizzante, ma spesso pruriginosa (Nuda con coniglio [cat. 56], Marianna [cat. 55], Primo romanzo [cat. 62], Sul Mondo, Liu-Tu), di un mondo femminile spensierato, immerso nella città moderna, in linea con gli «anni ruggenti», lontano da qualsiasi problematica ideologico-sociale, ma che ben presto vestì i panni de La giovane italiana. A fianco della linea di più facile commercializzazione, per così dire, Lenci diede spazio a proposte più complesse sia sul piano della qualità inventiva, sia sul piano realizzativo. Da un lato ci si adeguò al lessico déco esemplificato dal grande Nudo (cat. 68), modellato da Giovanni Riva nel 1929, che nel taglio obliquo della figura, nelle linee spezzate del modellato e nella scelta monocromatica, rimandava esplicitamente alla cultura francese e a prototipi viennesi, come la Diana di Richard Luksch del 1906 per le Wiener Werkstätte28. Così come il Fantino, creato da Mario Sturani per Lenci nel 1929 (fig. 6) e, palesemente, Pierrette del 1930 (cat. 155), chiaramente esemplati sul notissimo Maestro di danza, ideato da Gio Ponti e modellato da Giminiano Cibau per la manifattura di porcellana di Doccia nel 1927 (fig. 7): identici risultano la figura allungata dagli abiti attillati, il movimento ondulato delle braccia, la grazia neosettecentesca dell’insieme29. Per non parlare del côté esotico che comprendeva l’Abissina (cat. 131) e l’Hawaiana (cat. 19), rispettivamente di Sandro Vacchetti (1931) e di Teonesto Deabate (1932), e Le due tigri (cat. 132), sempre di Vacchetti (1931): una scultura che ebbe un buon successo di mercato proprio per quella particolare atmosfera tra favola orientale e divismo cinematografico. Dall’altro si aprì il fronte dei racconti popolari, dell’esaltazione del mondo rurale, della semplicità, etica ed estetica, della vita agreste e paesana, dal mercato alla mietitura, dai balli sull’aia alle feste matrimoniali, assecondando uno dei temi che la cultura postbellica, anche a livello europeo, aveva recuperato dalla tradizione tardo ottocentesca e che il fascismo, fin dagli esordi, aveva celebrato accanto ai fasti della modernità e dell’industrializzazione. D’altro canto la bellezza rigorosa e monumentale di alcuni gruppi plastici dei coniugi Giovanni e Ines Grande non solo rimandano ancora una volta ad Arturo Martini, ma addirittura omaggiano modelli figurativi consolidati come L’Angelus di Jean-François Millet e le visioni metafisiche del contemporaneo Felice Casorati rientrando perfettamente nel filone della ceramica decorativa italiana che utilizza moduli espressivi e modelli decorativi presi in prestito dalle tradizioni popolari regionali: dalla manifattura Richard-Ginori di Mondovì alle ceramiche sarde di Edina Altara e Francesco Melis. Straordinarie per invenzione e novità furono le proposte avanzate nel corso del tempo da Mario Sturani, che, formatosi all’ISIA di Monza con Zovetti, fu amico di Casorati come di Ponti. Fine conoscitore dell’arte di Novecento, amava e si ispirava alla contemporanea cultura artistica parigina. Sensibile agli influssi della poetica di Fortunato Depero e Giacomo Balla, senza sposarne ideologicamente i principi e le modalità, Sturani creò un’infinita quantità di progetti decorativi per la manifattura Lenci, dai ricami agli arazzi, dalle sculture ceramiche agli oggetti d’arredo, imprimendo in ognuno di essi una forza

fantastica e una ricchezza inventiva che non ha eguali in quegli anni. Restano a testimoniarlo una ricca messe di disegni, ora presenti in collezioni private, e la straordinaria produzione di sculture, fra le quali vale la pena ricordare almeno le numerose ciotole con ornamenti plastici e le teste monumentali. Le Ciotole in realtà negano immediatamente di essere ciò che dovrebbero, infatti, pur presentandosi come oggetti la cui forma rimanda alla funzione di contenitore, si trasformano in una struttura architettonica che regge, sopra una passerella aggettante che collega i bordi della tazza, scene di ballo, cavalieri (basti il confronto puntuale con Cavalieri, modellato da Kitty Rix per le Wiener Werkstätte nel 1929; fig. 13), una maestra con i bambini, funambolici esercizi di giocolieri. Il pupazzo o il clown o il giocoliere, variamente declinato, diventa nelle mani di Sturani il protagonista di storie contemporanee: dal sognante Capotreno (cat. 69) al romantico Dimmi di sì (cat. 90), chiaro omaggio alla figura di Macario, dall’indiavolato Maialetto (cat. 73) allo spiritoso Regime secco (cat. 80), nel quale il lampione, come l’intera città, diventa surrealisticamente molle perché visto attraverso gli occhi dell’ubriaco. E spesso al mondo ludico e fantasioso del circo, come nella lampada Scalata alle stelle (cat. 82), Sturani affianca frammenti di vita vera, benché filtrati attraverso un’eleganza di dettato e una levità narrativa assolute, come nello stupefacente gruppo plastico de Le signorine (cat. 84): una lampada il cui sostegno diviene metaforicamente un lampione al quale si appoggiano le filiformi figure di tre prostitute le quali, nella lucida rappresentazione di Sturani, rimandano inevitabilmenFig. 13. Kitty Rix, Cavalieri, 1929, Wiener Werkstätte, Vienna. te ai dipinti espressionisti di Ernst Ludwig Kirchner, ma de- Vienna, Wien Museum. purati da qualsivoglia connotazione sarcastica e tragica. Se il secondo futurismo deperiano toccava le corde più squisitamente ludiche della poetica di Sturani, i riferimenti colti alla scuola di Parigi così come all’ambiente casoratiano erano ancora più profondi, come del resto i rimandi a Picasso (come già Gigi Chessa nel suo Arlecchino del 1928, catt. 4-5), ad esempio nelle Nature morte (cat. 94), pensate come centrotavola, o nell’idea del tema della testa come scultura d’arredo. Le Quattro stagioni, che in mostra vengono presentate nei quattro gessi originali e in tre versioni dipinte, rientrano perfettamente in quel formulario plastico e in quelle tipologie fisionomiche che si riconoscono nei dipinti di Amedeo Modigliani, così come nelle opere picassiane del cosiddetto «ritorno all’ordine». Al tema della testa monumentale, allegorica o meno, rimandano immediatamente le maioliche dipinte di Vally Wieselthier, quali Baccante e Filli (fig. 12) del 1919-192030, ma anche le invenzioni lievemente più tarde del toscano Giuseppe Piombanti Ammannati, quali Il ventaglio, del 193731, Canto degli uccelli, del 193632 (quest’ultimo poi sembra mutuato da un’invenzione di Sturani, di cui si conosce solo il gesso, qui esposto e databile negli anni 1930-1931 (cat. 113), Testa con cappello (fig. 9) e Testa con fiori (fig. 10), sempre ascrivibili alla metà degli anni trenta33. Alle creazioni di Sturani sembra riferirsi la splendida Venere (fig. 8) del 1935 c., sempre di Piombanti Ammannati, con quell’espressione stupita che ritroviamo nella Testa femminile di Ottorino Palloni (fig. 11), realizzata nella seconda metà degli anni trenta per la manifattura Zaccagnini di Firenze; a ulteriore conferma della circolazione diffusa dei modelli Lenci.

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Come si è detto in esordio, la parabola creativa del settore ceramico di Lenci si concluse a ridosso del 1933, quando gli Scavini passarono la proprietà dell’azienda ad altri: certo si continuò a produrre «belle statuine» e oggetti d’arredo, sia riproponendo modelli del catalogo storico, sia adattandosi a richieste del mercato sempre più dozzinali e illustrative, e Sturani continuò a prestare il suo lavoro alla produzione, ma sempre più con fastidio e disamore. Era finita un’epoca, gli «anni ruggenti» erano stati cancellati dalla grande crisi del 1929, il mercato degli oggetti di lusso si era radicalmente ridotto, il mondo della piccola e media borghesia pur identificando ancora nelle Lenci uno status symbol sociale, un regalo prezioso per matrimoni ed eventi familiari, le abbandonarono prediligendo, quando del caso, le piattelle, le statue e i rilievi ceramici con l’icona della Madonna col Bambino. La stessa idea di scultura d’arredo, intesa come veicolo del gusto moderno e alla portata della classe media con l’obiettivo di rendere elegante e «alla moda» un’abitazione comune, si era esaurita: queste «Tanagrine» del Novecento, così come a suo tempo le danzatrici ellenistiche in terracotta, appartenevano a un mondo che stava tragicamente esaurendo il proprio percorso.

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Per la ricostruzione della storia della manifattura ceramica Lenci il volume di A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Catalogo generale dell’archivio storico della manifattura,

santi e R. Rava, Centro Di, Firenze 1987; V. TERRAROLI, Milano déco: le arti decorative cit.; ID., Le arti decorative in «Domus» 1928, in Le arti decorative in Lombardia nell’età moderna 1780-1940, a cura di V. Terraroli, Skira, Milano 1998, pp. 345-369; L. MANNA, Gio Ponti. Le maioliche, Biblioteca di via Senato, Milano 2000. 10 Ceramica italiana cit., passim. 11 La piastra decorativa, di proprietà privata e proveniente da casa Vacchetti, non fu mai messa in produzione. 12 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 12. 13 Ibid. 14 S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 93. 15 V. TERRAROLI, Futurismo, arti decorative e quotidianità. L’eredità modernista e l’oggetto come veicolo di modernità, in Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione, catalogo della mostra a cura di G. Lista e A. Masoero, Skira, Milano 2009, pp. 419-451 (con bibliografia precedente). 16 A. PANZETTA, Felice Tosalli, 1883-1958, Allemandi, Torino 1989. 17 Ricapitolativi di tutta l’attività dei laboratori Wiener Werkstätte è stata la mostra del centenario della fondazione e il relativo catalogo Der Preis der Schönheit. 100 Jahre Wiener Werkstätte, MAK, Vienna 2003. Il settore ceramico era governato da Michael Powolny sul quale si veda E. FROTTIER, Michael Powolny. Keramik und Glas aus Wien 1900 bis 1950, Böhlau, Vienna-Colonia-Weimar 1990, poi seguito da Dagobert Peche, ammirato e imitato da Gio Ponti, per il quale si veda Die Überwindung der Utilität. Dagobert Peche und die Wiener Werkstätte, G. Hatje, Ostfildern 1998, e da Vally Wieselthier, scultrice e designer, per la quale si veda M. HÖRMANN, Vally Wieselthier 1895-1945. Wien-Paris-New York. Keramik-Skulptur-Design der zwanziger und dreßiger Jahre, Böhlau, Vienna-ColoniaWeimar 1999. 18 M. MUNARI, Guido Andloviz. Ceramiche di Laveno 1923-1942, Tipografia Ostiense, Roma 1990. 19 Francesco Nonni. Ceramiche degli anni Venti, a cura di G. C. Bojani, Centro Di, Firenze 1986. 20 E. GAUDENZI, Pietro Melandri (1885-1976), Gruppo editoriale Faenza, Faenza 2002. 21 G. PONTI, Editoriale, in «Domus», II, gennaio 1929. 22 M. HÖRMANN, Vally Wieselthier cit., pp. 142, 172-173. 23 R. PAPINI, Le arti d’oggi cit., tav. CCLXVI. 24 Ibid., tav. CCLXXV. 25 Ibid., tav. CCLXXVI. 26 Ibid. 27 M. G. GARGIULO, Essevi. Autoritratto d’artista, Fioranna, Napoli 2008. 28 Der Preis der Schönheit cit., p. 148. 29 Ceramica italiana cit., pp. 82, 169. 30 M. HÖRMANN, Vally Wieselthier cit., pp. 124-125, 129. 31 Il ruralismo magico di Giuseppe Piombanti Ammannati, a cura di M. Pratesi, Polistampa, Firenze 2006, fig. 36, p. 53, data per dispersa, ma in realtà in collezione privata. 32 Ibid., fig. 33, p. 51. 33 Ora in collezione privata.

Allemandi, Torino 1992, resta il testo di riferimento a cui si aggiungono repertori parziali quali S. PETTENATI, Le ceramiche. Dal progetto all’oggetto, in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M. M. Lamberti, Allemandi, Torino 1990, pp. 91-137; L. PROVERBIO, Lenci ceramiche da collezione, Tipostampa, Torino 2001; M. G. GARGIULO, I racconti della Lenci. Fotografie, disegni, ceramiche, Fioranna, Napoli 2008. 2 Come risulta nel documento del 9 dicembre 1922, conservato presso l’Ufficio centrale brevetti, Registro dei marchi, vol. 187, n. 94, citato in A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., pp. 9-10, nota 2. 3 Ceramiche di Lenci. Elenco delle opere, catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro, dicembre 1929), presentazione di U. Ojetti, Galleria Pesaro, Milano 1929. 4 Sulla storia dell’ISIA della Villa Reale di Monza cfr. L’ISIA a Monza. Una scuola d’arte europea, a cura di R. Bossaglia, Associazione Pro Monza, Monza 1986, e V. TERRAROLI, Appunti sul dibattito del ruolo delle arti decorative negli anni Venti in Italia: da Ojetti a Papini, da Conti a D’Annunzio, da Sarfatti a Ponti, in Arte nella storia. Raccolta di studi in onore di G. C. Sciolla, a cura di V. Terraroli e F. Varallo, Skira, Milano 2001, pp. 131-140. 5 V. TERRAROLI, La ceramica europea e italiana 1900-1950: i percorsi della modernità, in Ceramica italiana d’autore 1900-1950, a cura di V. Terraroli, Skira, Milano 2007, p. 19. 6 Riguardo alla fenomenologia degli Arts Déco esiste ormai una ricca quanto eterogenea bibliografia, ma si vogliono ricordare il catalogo delle recenti mostre londinesi: Art Déco 1910-1939, a cura di C. Benton, T. Benton e G. Wood, Bulfinch, Londra 2003, e Modernism: designing a new world 1914-1939, a cura di C. Wilk, V&A, Londra 2006; per l’Italia, oltre a Milano déco. La fisionomia della città negli anni Venti, a cura di R. Bossaglia e V. Terraroli, Skira, Milano 1999, si veda anche Il Déco in Italia, a cura di F. Benzi, Electa, Milano 2004; mentre sulla ceramica del periodo dell’Art Déco si veda K. MCCREADY, Art Déco and Modernist Ceramics, Thames & Hudson, Londra 1995. Imprescindibili restano le numerose riviste, i cataloghi delle esposizioni, i cataloghi della produzione delle singole manifatture e i repertori, in particolare: R. PAPINI, Le arti d’oggi. Architettura e arti decorative in Europa, Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma 1930; Les Arts décoratifs modernes. France, a cura di G. Quénioux, Librairie Larousse, Parigi s.d. (1928); Encyclopédie des arts décoratifs et industriels modernes au XXème siècle, 12 volumi, Office Central d’Éditions et de Librairie, Parigi s.d. (1930 c.). 7 Sulle manifestazioni espositive a Monza cfr. V. TERRAROLI, Milano déco: le arti decorative e industriali tra il 1920 e il 1930, in Milano déco. La fisionomia cit., pp. 29-127, e 19231930 Monza, verso l’unità delle arti. Oggetti d’eccezione delle Esposizioni internazionali di arti decorative, catalogo della mostra a cura di A. Pansera e M. T. Chirico, Silvana, Cinisello Balsamo 2004. 8 G. PONTI, Le ceramiche. Le ragioni dello stile moderno, in L’Italia alla Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne Parigi MCMXXV, Roma 1925, p. 70. 9 Ricchissima è la bibliografia su Gio Ponti, ma si ricordano in particolare i seguenti riferimenti bibliografici: Gio Ponti. Ceramiche 1923-1930. Le opere del Museo Ginori di Doccia, catalogo della mostra a cura di F. Abboni, S. Salvi, G. Pampaloni e P. C. Santini, Electa, Milano 1983; Gio Ponti. Ceramica e architettura, a cura di G. C. Bojani, C. Pier-

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Le belle statuine MARIA MIMITA LAMBERTI

La porcellana viene quasi sempre usata per fare stupide bamboline J. J. WINCKELMANN

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a citazione di Winckelmann qui proposta viene confutata nel bel romanzo di Bruce Chatwin Utz1, del 1988, un testo a cui mi sento di rimandare i visitatori di questa mostra torinese, nata dalle raccolte di alcuni collezionisti privati: lo scrittore, mettendo a frutto la propria esperienza di esperto d’arte per una grande casa d’aste londinese, delineava il ritratto immaginario di un collezionista di preziose porcellane di Meissen, confinato nella grigia Praga degli anni del dopoguerra, ma soprattutto narrava l’innamoramento quasi carnale e i motivi più profondi della ricerca e della raccolta di questi oggetti fragili e apparentemente inutili, ma capaci di ossessionare sovrani guerrieri come Augusto il Forte e Federico il Grande di Prussia per cui venne coniato nel XVIII secolo il termine di Porzellankrankheit, la «malattia della porcellana». Fatte le debite differenze, del diverso clima culturale della Torino di fine anni venti e dell’alta qualità delle ceramiche Lenci, a fronte della primogenitura e della storica eccellenza della regia manifattura di Meissen, restano alcuni importanti snodi su cui intrattenersi in percorsi paralleli. Troppo forzato, ma assai divertente, sarebbe accostare al giudizio negativo di Winckelmann quello di Mario Sturani (quando confessava in un romanzo autobiografico di aver temuto di sciupare il proprio talento alla Lenci, tanto da lasciare Torino e trasferirsi a Parigi per tentare di vivere di sola pittura): «Ero stufo di far ceramiche e ninnoli stupidi e graziosi: volevo fare il Pittore»2. Resta valido, invece, nel totale coinvolgimento emotivo dei collezionisti più appassionati, sia di porcellane del Settecento sia di ceramiche del Novecento, il riferimento ai motivi più profondi che spingono ad avvicinare l’universo policromo e composito dei tipi e delle invenzioni delle statuette da collezione fino a esserne travolti. Leggendo in Chatwin come «ognuno degli oggetti scelti da Utz doveva riflettere gli umori e le sfaccettature del “secolo della porcellana”: l’arguzia, il fascino, la galanteria, l’amore per l’esotico, la cinica indifferenza e la spensierata gaiezza - prima che tutto fosse spazzato via dalla rivoluzione e dal calpestio degli eserciti»3, anche le spregiudicate statuine di Nella, variante sbarazzina della disinibita garçonne con le gambe nude, il purillo o il cappellino a cloche, irrigidita nel 1935 nella divisa luttuosa da giovane italiana4, narrano a modo loro una storia non meno tragica delle aspirazioni alla modernità e delle scelte della società italiana, di cui le «bamboline Lenci» per quanto «stupide» finiscono per darci testimonianza. Ridurre come Utz «gli eventi di questo fosco secolo» a «rumori di fondo»5, immergendosi in un lillipuziano universo parallelo e dotandolo di vita propria, resta una delle motivazioni faustiane del collezionista, demiurgo delle proprie creature d’affezione, a cui può conferire vita maneggiandole con la massima cura (ancora Chatwin: «il possesso privato conferisce al proprietario il diritto e il bisogno di toccare. Come un bimbo allunga la mano per toccare ciò di cui pronuncia il nome, così il collezionista appassionato restituisce all’oggetto, gli occhi in armonia con la mano, il tocco vivificante del suo artefice»6). Altre tangenze con la cronaca dell’epoca finiscono per costruire intorno alle ceramiche Lenci e alla loro fortuna, diversi tracciati che si intrecciano con gli eventi della storia contemporanea italiana; lo testimoniano non solo la stretta amicizia di Mario Sturani, l’autore più creativo e fedele della ditta Lenci, con Cesare Pavese, ma anche i rapporti con il proprio suocero, il professore Augusto Monti, condannato dal tribunale speciale per complotto antifascista e imprigionato a Civitavecchia, a cui Sturani scriveva il 1o aprile del 1936: «Io lavoro e penso sempre nuove ceramiche e nuovi oggetti - sembra impossibile quanto ancora si vendano tanti oggetti sia pur belli ed eleganti ma così inutili»7. Così nell’autobiografia a due mani Noi due, edita nel 1997 dai coniugi Davide Jona e Anna Foa, non è solo un aneddoto il caso che portò la madre e la sorella del dissidente Vittorio Foa a manifestare la propria gratitudine per i presunti aiuti al proprio congiunto prestati dal presunto amico Dino Segre (in realtà infiltrato negli ambienti dell’antifascismo come informatore dell’OVRA), regalandogli proprio una costosa ceramica Lenci8. Una prova che ben documenta il pregio di quel manufatto, ma 21


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anche la modernità e il gusto anticonformista riconosciuto a quell’oggetto (un vaso? una statuetta?), scelto come dono per un giovane scapolo, autore di romanzi all’epoca assai spregiudicati, firmati con lo pseudonimo di Pitigrilli. Anche se la grazia piccante delle adolescenti modellate da Helenchen (poi Helen) König Scavini manteneva sempre un garbo acerbo e ingenuo, lontano dal maschilismo di romanzi come Mammiferi di lusso (edito nel 1920), Cocaina (1921), Dolicocefala bionda (1936) o dalle forme procaci delle «signorine Grandi Firme» disegnate da Boccasile dal 1938 per le copertine dell’omonima rivista torinese, già fondata dallo stesso Pitigrilli nel luglio 1924 e da lui diretta fino alle leggi razziali. Le ceramiche Lenci, modellate su esempi internazionali soprattutto delle Wiener Werkstätte, ambivano a imporsi in un contesto modernamente europeo da cui traevano ispirazione, come dimostra il reperto, trovato da Silvana Pettenati negli archivi della ditta: Una busta di ritagli [da riviste coeve, usata come promemoria e repertorio di spunti, dove si trovavano], illustrazioni di Charles Martin, rilegature di Legrain e Bonfils; cristalli boemi incisi, vetri di Venini, argenti di Dagobert Peche, ceramiche di Erna Kopriva, ritagli da «Vogue», dalla «Gazette du Bon Ton», da «Die Dame», fotografie di personaggi dell’alta società nelle stazioni sciistiche del Tirolo e di signore abbigliate per balli in costume9.

Lo stesso modello di riferimento dichiarato dalla signora Lenci nelle sue memorie, le coeve statuette di porcellana Rosenthal, disegnate dall’amica Cläre Burchart, la tecnologia raffinata e l’investimento in questa nuova impresa, ne dimostrano le alte ambizioni. A fronte della tipologia cosmopolita di riferimenti non si può non pensare a un’élite europea che, tra moda ed eleganze, prediligeva nuovi oggetti di lusso e un nuovo stile, dopo il successo (anche della ditta Lenci, allora di mobili e giochi per bimbi) dell’Esposizione parigina del 1925. Così la fondatrice ricordava gli inizi: Erano veramente dei bellissimi oggetti. Si fecero delle grandi mostre. Le critiche dei giornalisti erano più che soddisfacenti. Tutti ne parlavano, ma si vendeva poco. La gente preferiva le vere ceramiche tipiche italiane o quelle tedesche e francesi10.

Per inciso, a documentare la voga europea delle ceramiche decorative si potrebbe, come glossa, indicare la pubblicità apparsa nel 1927 in «Art et Industrie» che suggeriva: «Les bibelots signés Robj sont le complément de tout intérieur élégant», anticipando per i soprammobili la dizione più asettica di complementi di arredo. Per incrementare le vendite, in mancanza di boudoirs e salottini eleganti, la stessa König Scavini ammetteva che «si sarebbe dovuta fare una ceramica tipo la bambola Lenci: non il capolavoro d’arte, ma un oggetto piacevole che potesse stare in tutte le case; il piccolo dono per la fidanzata o per la sposa»11. Lo scopo venne raggiunto con la statuetta di Nella12, venduta a migliaia: Andava in tutte le camere delle signorine, e persino in Africa sul tavolo delle mense degli ufficiali, come ornamento. La Nella aveva salvato la ceramica. Di queste adolescenti ne avrò fatte non so quante! Mi divertivo a farle vestite in attesa del tram col vento che alzava loro le sottanine fino al ginocchio, poi mi piaceva molto farle nude; ne feci una seduta sul dorso dell’elefante e una su un grasso ippopotamo. Mi divertivo a crearle, e non facevo alcuna fatica13.

Anche questo fu un successo fragile, minato dalle conseguenze della crisi economica del 1929 che vedrà la forzata cessione della ditta nel 1933, e da quella data una gestione via via più attenta ai bilanci e a prodotti meno raffinati, seriali, per fruitori meno colti e meno abbienti (davvero il piccolo dono di circostanza, e non il pezzo unico a tiratura limitata). Dal salotto degli anni ruggenti la ceramica Lenci sarebbe passata al tinello piccoloborghese degli anni cinquanta. Il passaggio è molto evidente in quel filone di produzione legato alla tradizione e alla pratica religiosa: in Italia era, infatti, consueto che sul letto nuziale si trovasse un’immagine sacra (lo dimostrano ad esempio tutti e quattro i progetti di camera matrimoniale premiati al Concorso nazionale per l’arredamento della casa popolare nel 1928)14, così come a Torino l’ingresso condominiale era posto sotto la protezione della Consolata. Esisteva quindi un largo mercato «privato» e non ecclesiastico di iconografia cattolica, allargato alla piccola oggettistica legata ai riti di passaggio, dal battesimo alla cresima, e ai doni che caratterizzano tali cerimonie. Non a caso questa produzione sicura crebbe proporzionalmente alle difficoltà economiche della ditta Lenci, offrendo un ampio catalogo di Madonne, sia a tutto tondo sia su piastre a bassorilievo. La varietà tipologica è ampia e vi si provarono tutti gli artisti, da Grande a Sturani (con la stilizzata Madonna della spina15 [fig. 1] e il bassorilievo di 22

casalinga grazia preraffaellita della Madonna della casa16 [fig. 2], intenta a imboccare da una scodella il Bambino), o nel 1932 addirittura l’architetto Gino Levi Montalcini17. Ma la fortuna delle madonnine Lenci trovò la rispondenza più tipica nella varietà di esempi modellati dalla signora Scavini che coprì le grazie delle sue predilette figurine femminili con veli mariani e vesti riccamente decorate da motivi floreali o etnici. Si impongono al ricordo la Madonna della neve 18 in costume lappone e la fortunata, elegantissima, Madonna del vento19 (alta ben 41 cm), che trovò posto nelle lussuose ville di alta montagna degli Ajmone Marsan, Bocchioli, Rossi di Montelera a Breuil Cervinia, dove del resto Luciana Gasperl inventava dal nulla i costumi tradizionali in «pannolenci», decorando di fiori alpini (genzianelle, rododendri, edelweiss) e cristalli di neve il rosso e nero del vessillo valdostano. Ma, tornando agli inizi e all’interesse internazionale per questa manifattura, con un’esportazione a largo raggio, va ricordata almeno la visita torinese in fabbrica di una vedette delle ribalte parigine come Joséphine Baker, la «Venere nera» della Revue nègre, acquirente, a quanto scriveva in una lettera al padre Luisa Monti Sturani, della serie delle «Stagioni»20 (catt. 105-112). O con esempi meno alti e in tempi più recenti, la sorpresa di chi scrive di vedere in una vetrina di un antiquario di Long Street a Cape Town, approdatovi da chissà quali peripli, un esemplare in perfette condizioni (con prezzo adeguato al cartellino di precisa attribuzione) della statuetta Sul Mondo21, dove il nudino con il basco, modellato dalla signora Lenci, siede sul mappamondo decorato da Sturani con alberi e animali esotici a illustrare le mappe dei cinque continenti (un elefante e uno struzzo, ovviamente, in bel risalto per l’Africa del Sud). L’invito quindi rivolto da Giulio Carlo Argan, autorevole testimone d’epoca, in uno scritto del 1983 («Sarebbe interessante vedere quanto l’inventiva e la bravura tecnica di Sturani abbiano influito sulla fortuna della produzione Lenci e quanto sul gusto della borghesia piemontese»22), potrebbe allargarsi a un’area più vasta, a partire almeno dalla mostra dei prototipi delle ceramiche tenuta alla londinese Callows Gallery nel 1928, che anticipava volutamente il debutto italiano del dicembre 1929 nella mostra alla Galleria Pesaro di Milano, introdotta da Ugo Ojetti. Il battesimo artistico, con l’ambizione di creare non solo oggettistica ma piccola scultura, nasceva in un complessivo progetto di rinnovamento dell’arredo di interni, all’insegna di un buon gusto moderno, destinato a diventare trent’anni dopo epitome 23

Fig. 1. Mario Sturani, Madonna della spina, 1930, manifattura Lenci, Torino. Collezione privata.

Fig. 2. Mario Sturani, Madonna della casa, 1935 c., manifattura Lenci, Torino. Collezione privata.


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di gusto sciocco, superato e vetusto (con i soprammobili Lenci messi in soffitta o svenduti dai rigattieri, non diversamente da quanto la generazione del razionalismo aveva fatto a suo tempo con gli oggetti Art Nouveau dei nonni) in una svalutazione complessiva dell’insopportabile Novecento che ne liquidava retorica e connivenze politiche, senza troppo discriminare. Eppure la fortuna della piccola decorazione di interni era stata largamente fruita come una presenza quasi necessaria di oggetti dotati di espressività, quando non di ironia, tali da connotare in modi più piacevolmente vissuti la freddezza geometrica imposta dal razionalismo, le superfici lucide e specchianti, il rigore stereometrico e semplificato dei mobili senza ornati. In una sorta di contrappasso, nel romanzo di Chatwin, è proprio un arredo di gusto razionale quello scelto per accogliere la collezione di Utz: La stanza, con mia grande sorpresa, era arredata in «stile moderno». Quasi priva di mobili, a parte un divano letto, un tavolo con la superficie di cristallo e un paio di sedie Barcellona in cuoio verde scuro. Utz le aveva «salvate» in Moravia, da una casa costruita da Mies van der Rohe. Era una stanza stretta, resa ancor più stretta dalla doppia fila di scaffali di cristallo, tutti carichi di porcellane, che andavano dal pavimento al soffitto. Dietro gli scaffali c’erano degli specchi, che davano l’illusione di entrare in un’infilata di stanze scintillanti, un «palazzo di sogno» moltiplicato all’infinito, attraverso il quale le forme umane passavano come ombre fuggevoli23.

Per andare ad esempi non fittizi ma contemporanei all’epoca d’oro delle ceramiche Lenci si possono utilmente leggere, del giovane Marziano Bernardi, capo dell’ufficio stampa del Teatro di Torino, i Lineamenti dell’architettura nuova pubblicato in Climi e artisti, edito dai Fratelli Buratti nel 1929, con la vibrata protesta contro l’anonima e meccanica machine à habiter ipotizzata da Le Corbusier. La possibilità che le ceramiche offrivano di personalizzare e suggerire atmosfere più vissute venivano del resto sfruttate in molti allestimenti espositivi degli architetti giovani, sottolineando in alcuni casi quei titoli descrittivi per i nuovi ambienti allora così di moda. Alla V Triennale di Milano nel 1933, ad esempio, in una foto pubblicata da «Edilizia moderna» della Casa di campagna per un uomo di studio, realizzata dal gruppo romano di Luigi Moretti, sembra di poter riconoscere su un tavolino il Torso24 di Chessa, con il nudo femminile tagliato a metà gamba25. Uno spoglio sistematico delle riviste di architettura, a cominciare dagli articoli di Enrico Paulucci in «La casa bella» dal 1930, porterebbe a un repertorio di ceramiche Lenci (e non solo) ambientate, segno certo della loro fortuna, e del censo degli acquirenti, non diversamente da quanto suggeriscono alcune foto degli arredi di set cinematografici, salotti, fumoirs e stanze da letto di gusto ultramoderno, con nicchie, mensole, tavoli e librerie ravvivati dall’oggettistica di moda: per la coincidenza dei nomi degli allestitori, i pittori Carlo Levi ed Enrico Paulucci, si può indicare almeno il film della Cines La vittoria di Pirro (titolo poi mutato in Patatrac) di Germano Righelli del 1931, una commedia sofisticata alla Lubitsch. Nella stessa interrelazione con il cinema dei «telefoni bianchi», che mimava e in alcuni casi copiava le pellicole statunitensi, vanno ricordati i precoci rapporti della Lenci con la Walt Disney Corporation (del resto la prima traduzione italiana di Mickey Mouse, firmata da Pavese, era uscita in due volumi nel 1932 e 1933 dalla casa editrice torinese Frassinelli, sotto la direzione di Antonicelli) e la statuetta della diva di Hollywood Marlene Dietrich, in abito maschile, cilindro e papillon, modellata da Abele Jacopi (cat. 51). Nella stessa lunghezza d’onda si collocano nella produzione di Sturani gruppi come Regime secco (cat. 80), parodia del proibizionismo ambientata fra i grattacieli, i suonatori di sassofono e i riferimenti al jazz o al mondo del varietà (frequentato dal giovane Pavese invaghito di Milly), sino alla lampada del 1929 Le signorine (cat. 83), ispirata al mondo notturno della filmografia parigina sugli apaches e le loro protette, con le tre prostitute in attesa, languidamente appoggiate a un lampione (un elemento di arredo inconsueto, che trovò posto in casa di un altro amico torinese, il musicologo Massimo Mila). Sempre di Sturani, doveva risultare eccessivamente anticonformista il fermalibri Gim e Liliana26, nella prima versione: una coppia formata da una vezzosa bimba bianca e da un monello di colore, con un cappello di paglia e un’anguria aperta, che ricorda i personaggi del Mississippi di Mark Twain (certo il rimando allo schiavo Jim in Le avventure di Huckleberry Finn, edito da Frassinelli nel 1933 con la copertina di Sturani, autore anche, nel 1932, nelle stesse edizioni, di una maschera di afroamericano per il romanzo, ambientato a New Orleans, Riso nero di Sherwood Anderson, ancora tradotto da Cesare Pavese). Una seconda versione di Gim e Liliana (fig. 3) però provvide a sbiancare la pelle del negretto, rendendone prudentemente meno espliciti i tratti somatici. 24

Altrettanto evidente è lo scambio, intessuto da intellettuali che nella stessa città su fronti paralleli si opponevano al gusto umbertino (ancora presente negli arredi come nelle accademie), tra rinnovamento delle arti decorative ed esempi della pittura e della scultura contemporanea. Fin dalla mostra a Monza nel 1923, la camera per la prima colazione allestita per la Lenci da Gigi Chessa (curiosamente indicato nelle note autobiografiche della Scavini, per un’errata trascrizione, come «Chester il mio pittore preferito»27) aveva alle pareti, fra gli altri, un quadro di Felice Casorati (non identificato, ma dalle foto d’epoca di piccole dimensioni) - e, secondo il catalogo, «ceramiche di Teonesto Deabate». Deabate, dal 1921 collaboratore delle manifatture Galvani a Pordenone e poi direttore artisti- Fig. 3. Mario Sturani, Gim e Liliana, 1930-1932, manifattura Lenci, Torino. co delle ceramiche Vittoria di Mondovì nel 1923-1924, nel- Foto storica dell’archivio Lenci. la camera da pranzo realizzata su suo progetto nel 1929 per la propria abitazione torinese, collocò sulla lucida credenza, in posizione centrale, come documenta una foto d’epoca, la statuetta dell’Hawaiana (cat. 19) e l’originale scatola Tabacco decorata con lettere tipografiche per la Lenci28. Silvana Pettenati ha poi riconosciuto in una foto del salotto della «Casa degli architetti», realizzata da Gino Levi Montalcini, Giuseppe Pagano ed Ettore Pittini all’Esposizione internazionale di Torino del 1928, «un cuscino che riporta la composizione di Sturani Gli amanti sul fiore 29, probabilmente in panno applicato, la stessa usata per lo splendido gruppo in ceramica, eseguito un anno dopo»30. Che appeso al muro, sopra quello stesso divano, vi fosse il quadro Fanciulla col cane di Felice Casorati è un dato importante - sfuggito alla scheda dell’opera nel catalogo generale del pittore, che cita però il commento in proposito nel 1933 di Guido Lodovico Luzzatto31. Il poligrafo milanese sottolineava, accanto al nudino della ragazza con le mani incrociate sul grembo, l’elemento compositivo del cane bianco a chiazze nere, ricorrente nella produzione del pittore, definendolo «un cagnolino di porcellana»32 (in realtà di gesso, secondo la testimonianza di Zanzi, ma poco importa). Il motivo di eleganti macchie nere che ravviva la bianca statuetta del cane, già ritratta col pelame monocromo nel Cane di gesso33 esposto da Casorati al Musée Rath di Ginevra nel 1927, verrà mantenuto anche quando lo stesso oggetto di affezione apparirà nel successivo Beethoven34, inviato alla Biennale di Venezia del 1928. Se il mantello maculato si trasforma in un elegante pattern nero su bianco (come avverrà a Sturani che decora con grandi pois neri il piumaggio di un suo galletto35 e anche, sicuramente, un’analoga inventiva variante del più realistico Gallo36 modellato da Sandro Vacchetti), il motivo decorativo così ottenuto e la lucida superficie dell’olio e delle vernici potevano indurre Luzzatto a un collegamento inespresso con le ceramiche, in un corto circuito di elementi, dove anche l’acerba bellezza della modellina suggeriva in sottofondo le pellucide nudità delle statuine allora di moda. Prima ancora del debutto in Italia alla mostra milanese del 1929 alla Galleria Pesaro, lo stelloncino apparso in «Domus» il 1o gennaio a firma di Gio Ponti, architetto ma anche direttore artistico della nuova Richard-Ginori, aveva puntualizzato con acume: Questi esemplari [...] sono, mutando quel che s’ha da mutare, tra il Gozzano e il Casorati, di una ispirazione caratteristicamente torinese, acute, frigide e signorili nella espressione e nella caricatura, di castigata malizia nella invenzione, più tese verso l’eccezione che verso una pienezza decorativa che ci delizi riposatamente e definitivamente37.

Mi è avvenuto di commentare nel 1987 questo passo come un giudizio elogiativo all’apparenza, ma malizioso e tutto sommato non così lontano dal vero (ci sarebbe da chiedersi quanto nell’attuale moda collezionistica non giochi ancora il brivido dell’affacciarsi sul vuoto dell’ornamento da salotto, a un filo dalla caduta nel Kitsch, mentre i soggetti d’epoca - bambine innamorate, monelle in bicicletta, contadinelle in fiore - vengono apprezzati non diversamente dai film dei telefoni bianchi e dai ritornelli delle canzonette, per la loro carica evasiva)38.

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mancati, primo fra tutti Arturo Martini, presente in più occasioni a Torino a partire dalla Mostra d’arte del Presepio a Palazzo Madama nel gennaio 1929 (dove Tullio d’Albisola, sponsorizzato dalla ditta UNICA - una delle molte proprietà Gualino -, aveva anch’egli esposto un Presepe strapaesano). Lionello Venturi nell’articolo monografico pubblicato nel novembre 1930 su «L’Arte» dedicato allo scultore trevigiano, ne commentava così la produzione di formato minore:

Pur d’accordo con quanto allora scrivevo, oggi vorrei sottolineare nel testo quella caratteristica torinese che accoppiava a Gozzano («le buone cose di pessimo gusto» del salotto della signorina Felicita), apparentemente a sorpresa, il nome di Felice Casorati. Ponti si dimostrava più sottile e meditato in questo accostamento di quanto non appaia a una prima lettura, che può sorvolare sul riferimento casoratiano come una coincidenza subalpina in banale successione cronologica rispetto al poeta crepuscolare. Va ricordato invece come alla freddezza intellettuale dello stile casoratiano già si andasse, negli stessi anni della Lenci, affiancando una vena di rivisitazione ironica dell’ingenuità e del gusto popolare: il vassoio di metallo dipinto a margherite di Albergo di provincia39 del 1927 davanti alla tenda di pizzo a filet (riproposta nella Fanciulla col cane ma anche nel ritratto postumo su commissione dei coniugi Carlo Sacco e Carolina Cerutti40, benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano); gli «Scherzi» (La serenata, L’astemio, La famiglia del pittore)41; gli interni modesti con le imbottite lucide e i materassi a righe dell’ex voto Il sogno del seminarista42 o della Camera a Rubiana43; i paesaggi di piccolo formato, di sapiente naïveté, attenti a registrare i caratteri della scritta tracciata dai giovani di leva sui muri di Cervo: «W 1908 Baci»44. Se alcune di queste opere minori furono esposte da Casorati nella propria sala personale alla Quadriennale di Roma del 1931, si può comprendere la particolarità di questa produzione apparentemente sotto tono: la cifra che accomuna simili episodi in controcanto, è quella di un pittore che si diverte a giocare con elementi della cultura «bassa», forse parodiando la genuinità strapaesana della fronda de «Il Selvaggio». Un atteggiamento condivisibile addirittura per Margherita Sarfatti che acquistò proprio a Roma nel 1931 la versione della Camera a Rubiana, intitolata Camera d’albergo45. Sempre nella stessa Quadriennale il quadro Fanciulla nuda (con i limoni)46 mostrava una stilizzazione del volto (le mandorle cieche degli occhi, il nasino modellato in scorcio, la massa dei riccioli scuri) più decorativa, quasi un Modigliani tradotto secondo le tipologie di una statuina alla Lenci (il cesto con i frutti, il volume dei seni, il segno capriccioso a pennello che sottolinea la peluria delle ascelle). Tutto questo però non smentisce la differenza sostanziale e aristocratica di Casorati, pronto allo scherzo ma ben deciso a tenere fermi i confini, anche nelle prove più dichiaratamente decorative o di arte applicata, dal bancone della macelleria di Monza del 1927 ai mosaici della Triennale di Milano del 1933. Negli arredi disegnati per Gualino poi, e soprattutto nella propria privata abitazione di via Mazzini 52, non entrarono mai le ceramiche Lenci (alcuni bei vasi di Murano, invece, vennero scelti dall’artista), come del resto non ve ne furono in casa Chessa, nonostante la diretta collaborazione del pittore con la ditta torinese. Nella foto che documenta il progetto (affine a quelli realizzati con Sartoris) del bel pianoforte in radica bionda disegnato da Chessa nel 1931-1932, accanto a una parete completamente vetrata e di fronte a una poltroncina in tubolare metallico, si nota una grande testa muliebre in ceramica (fig. 4) (assente dal catalogo Lenci, forse un esemplare unico), monocroma e stilisticamente affine alle migliori invenzioni ceramiche del pittore47. Dalla Lenci invece si guardava con ammirazione alle forme «alte» dell’arte contemporanea. Mario e Luisa Sturani entrarono come intimiditi acquirenti nello studio di Casorati, per impegnare la somma destinata alle proprie nozze: non riuscendo a decidersi tra la più patetica Ragazza malata48, che piaceva alla giovane sposa, e l’audacia di gusto matissiano delle abbreviature della Figura nello studio49, preferita da Mario, ottennero ambedue le tavole al prezzo di una, grazie alla generosità del maestro. In modo esplicito la statuetta modellata dalla König Scavini I due usignoli (gigin) (fig. 5)50, con la suonatrice di chitarra che rivaleggia cantando a gola spiegata con l’uccellino appoggiato sulla spalla è un’aggraziata parodia del rustico gesso del Suonatore di chitarra (La commedia) modellato nel 1924 da Casorati per la ribalta del Teatrino Gualino di via Galliari e in parte ripreso dalla scultura, sempre di gesso, per il padiglione della Mira Lanza all’esposizione torinese del 1928, con la fanciulla che si tappa le orecchie per non sentire il canto dello stesso volatile. Fig. 4. Gigi Chessa, Pianoforte e testa in ceramica (1931-1932). Ma esempi alti anche nel campo della ceramica d’arte non erano certo Foto d’epoca.

Parole che potrebbero servire da commento anche per i contadini sempliciotti e stupefatti dei coniugi Grande, spesso con titoli desunti dalle serie millettiane (così L’Angelus o La siesta), ma che valgono anche per la coppia Gli sposi (cat. 33), dello stesso Grande, affine al Poeta e alla sua musa già riprodotto nella monografia di «Valori Plastici» dedicata al doganiere Henri Rousseau. Lo stesso artista dimostrava una predilezione per un primitivismo colto e cifrato nel gruppo L’antilope (cat. 39), dove il cane elegante con la zampa alzata è un omaggio all’animale araldico della tela di Carlo Carrà Le figlie di Lot. Se la Scavini ricordava: «Amavo molto i libri d’arte e ne avevo veramente tanti. Già a Düsseldorf spendevo gran parte dei miei soldini nei libri» e collegava il primo impulso a creare le nuove ceramiche ai volumi sfogliati «in cerca di ispirazioni», nello studio, sdraiata «sul grande divano basso dove c’erano sempre i miei cani»52, si potrà forse ricostruire una piccola biblioteca delle riviste d’arte e delle illustrazioni servite allo scopo, ad esempio per le citazioni esotiche, come le Miniature indiane dell’epoca islamica edite da «Valori Plastici», puntualmente riprese in una tempera di Sturani del 1927, Paradiso mussulmano53. Restano da individuare altre fonti per le sagome delle marionette del teatro d’ombra giavanese o i repertori di antichità da cui vennero tratte le figure sdraiate all’etrusca come La maschera54 modellata da Chessa (cat. 6) o i profili delle damine minoiche di un vaso di Sturani. Grande ripensò diversamente le statue della cancellata monumentale di Palazzo Reale di Pelagio Palagi in Castore e Polluce (catt. 28 e 29), Tosalli e Vacchetti citavano correntemente Böcklin e Von Stuck nei loro centauri e nei loro fauni, fino alla riconoscibilissima infanta Margherita de Las Meninas di Velázquez al Prado, proposta nel catalogo Lenci sotto il titolo di Piccola infante55 (sic). Gigi Chessa in un articolo apparso in «Domus» il 1o agosto 1929 aveva contrapposto alla retorica meschina dei monumenti ufficiali il senso del monumentale, un tempo delle figurine egiziane o etrusche e ora delle maioliche di Arturo Martini, «non solamente dei simpatici sopramobili» ma «delle sculture vere e proprie: forse fra le più vive che si modellino oggi» in «quel superamento ironico delle forme classiche» concesso a quei pochi cui «concediamo di giocare con questi elementi essendo necessario per ciò un gusto molto vigile e delle forti qualità inventive»56.

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Molti bassorilievi, altorilievi e gruppetti di soggetto religioso o letterario, di genere popolaresco, con intento ironico, e talora con qualche commozione, sono stati prodotti dal Martini, soprattutto in ceramica, e valgono come saggi della sua capacità di farsi bambino e popolo. Nell’attuale esposizione di Monza le ceramiche di Martini eseguite all’ILCA di Nervi, sono numerose. Ne riproduco tre, che mi sembrano incantevoli per la capacità di trasfigurare in una compiuta leggenda un semplice gesto. Un albero mozzo una donna lamentevole, due mani di prigioniero e qualche sfregazzo di nube: niente meno! Alla scena popolare partecipano cielo e terra. E san Sebastiano poveretto è salito sopra uno sgabello villereccio per far vedere la sua dedizione a Dio, con l’accento del buon diavolo che proprio non ne può più. La fuga in Egitto è un motivo più alto, meravigliosamente composto, per quel curvarsi del collo dell’asino che chiude il cono slanciato: pure anche qui la bonomia popolare non manca, e racconta della Madonna che è una reginetta un po’ superba e di san Giuseppe ch’è un povero pellegrino. Quale freschezza di sentimento, quale ingenuità e semplicità! Questa roba non è primitivistica e non è soltanto popolare: è sì popolare, ma con qualche accenno a una universalità, ch’è primitiva51.

Fig. 5. Elena König Scavini, I due usignoli, 1930 c., manifattura Lenci, Torino. Foto storica dell’archivio Lenci.


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Nella sua collaborazione con la Lenci l’esempio di Martini spingeva Chessa non solo a nudi dal robusto modellato e di piena valenza scultorea, ma a una gamma cromatica «in colori indefinibili e irreali: rosa e verdini pallidi, azzurri teneri, neri improvvisi, gialli e grigi rari»57, quella che si trova nei bozzetti salvati (come Due figure distese 58 [cat. 135], poi smaltate invece in toni più aggressivi, probabilmente da Sturani, in modo simile a quanto fece nella versione postuma della già citata La maschera in oro e nero) e nelle statuine di diretta autografia. Fra queste l’Arlecchino (catt. 4-5), in atteggiamento melanconico, la palla contro il piede e la silhouette di una chitarra dipinta sul muro di appoggio. Un dichiarato omaggio, da pittore a pittore, agli acrobati del periodo azzurro e rosa di Picasso, su cui si può chiudere il raffinato gioco delle belle statuine.

Lenci nel panorama industriale torinese fra le due guerre PIER LUIGI BASSIGNANA

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31 G. BERTOLINO e F. POLI, Catalogo generale delle opere di Felice Casorati. I dipinti (19041963), Allemandi, Torino 1995, pp. 291-292, n. 311. 32 Ibid. 33 Ibid., pp. 287-288, n. 301. 34 Ibid., p. 296, n. 324. 35 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 211, n. 650. 36 Ibid., p. 180, n. 443. 37 G. PONTI, Editoriale, in «Domus», II, gennaio 1929. 38 M. M. LAMBERTI, Gigi Chessa «inventor di ceramiche», in Gigi Chessa 1898-1935, catalogo della mostra (Torino, 14 novembre 1987 - 14 febbraio 1988), Fabbri, Milano 1987, pp. 52-53. 39 G. BERTOLINO e F. POLI, Catalogo generale cit., pp. 292-293, n. 312. 40 Ibid., pp. 300-301, n. 344. 41 Ibid.: Innamorati: scherzo o La serenata, n. 394; L’astemio: scherzo, n. 399; La famiglia del pittore: scherzo, n. 400. 42 Ibid., p. 314, n. 402. 43 Ibid., p. 314, n. 403. 44 Ibid., p. 302, n. 353. 45 Ibid., p. 314, n. 404. 46 Ibid., p. 325, n. 422. 47 L. CASTAGNO e L. MOSSO, La ricerca in architettura di Gigi Chessa in Gigi Chessa cit., p. 47. 48 G. BERTOLINO e F. POLI, Catalogo generale cit., p. 279, n. 265. 49 Ibid., p. 342, n. 504. 50 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 151, n. 232. 51 L. VENTURI, Arturo Martini, in «L’Arte», novembre 1930, pp. 556-577. 52 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., p. 101. 53 Mario Sturani cit., pp. 46-47. 54 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 137, n. 140. 55 Ibid. p. 193, nn. 529-530. 56 G. CHESSA, Arturo Martini Inventor di ceramiche, in «Domus», 1º agosto 1929, ora in Gigi Chessa cit., pp. 71-72. 57 Ibid. p. 72. 58 In Gigi Chessa cit., pp. 192-193; A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 384, n. 1739.

B. CHATWIN, Utz, Adelphi, Milano 1989. M. STURANI, Il maglione rosso, in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M. M. Lamberti, Allemandi, Torino 1990, p. 79. 3 B. CHATWIN, Utz cit., p. 46. 4 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Catalogo generale dall’archivio storico della manifattura, Allemandi, Torino 1992, p. 217, scheda 690. 5 B. CHATWIN, Utz cit., p. 97. 6 Ibid., p. 20. 7 In Mario Sturani cit., p. 72. 8 D. JONA e A. FOA, Noi due, il Mulino, Bologna 1997, p. 54. 9 S. PETTENATI, Le ceramiche. Dal progetto all’oggetto, in Mario Sturani cit., p. 93. 10 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola e altre creazioni, Il Quadrante, Torino 1990, p. 102. 11 Ibid., p. 103. 12 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 153, n. 246. 13 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., p. 104. 14 M. C. TONELLI MICHAIL, Il design in Italia 1925-1943, Laterza, Bari 1987, p.12-42. 15 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 155, n. 263. 16 Ibid., p. 204, n. 604. 17 Ibid., p. 179, n. 432. 18 Ibid., p. 185, n. 477. 19 Ibid., pp. 186-187, nn. 484-488. 20 Ibid., pp. 157-158, nn. 281-284. 21 Ibid., p. 204, n. 607. 22 G. C. ARGAN, Testimonianza [1983], in Mario Sturani cit., p. 212. 23 B. CHATWIN, Utz cit., p. 44. 24 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 128, nn. 81-82. 25 R. CAMUS, Casa di campagna per un uomo di studio, in «Edilizia moderna», nn. 10-11, agosto-dicembre 1933, pp. 62-63. 26 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 164, nn. 329-330. 27 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., p. 102. 28 Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, 3-29 aprile 1984), Provincia di Torino, Torino 1984, pp. 103 e 165. 29 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 118, n. 6. 30 S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 92. 2

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l termine del primo conflitto mondiale, il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace fu a Torino più difficile e complicato che nella maggior parte delle altre città italiane: la Città non era stata esposta ad azioni belliche dirette, ma era stata coinvolta, più di ogni altra e assieme al territorio piemontese, nella produzione di forniture militari, principalmente in campo metalmeccanico e tessile. Questa situazione aveva provocato l’inurbamento di una massa notevole di lavoratori, i quali, a guerra finita, non erano disposti ad abbandonare il campo e a rientrare nei luoghi d’origine. Il problema riguardava principalmente la manodopera femminile, per la prima volta impiegata massicciamente nelle fabbriche meccaniche, in sostituzione di figli, fratelli, mariti, impegnati al fronte e, spesso, destinati a non tornare. Per altro verso, un numero non indifferente di cucitrici (che Giuseppe Prato stima dell’ordine di 20.000) provenienti dall’attività di sartoria, particolarmente fiorente ancora alla vigilia della guerra, era stato impiegato a domicilio per la produzione di divise e altre forniture militari. Con la smobilitazione, questa massa di persone, abituata per un triennio ad alti salari (praticamente raddoppiati rispetto al tempo di pace) si trovava repentinamente senza lavoro e senza reddito. Discorso analogo andava poi fatto anche per l’industria metalmeccanica, specialmente per quanto riguarda il settore automobilistico. Anche qui, lo sforzo eccezionale richiesto per ricostituire nel più breve tempo possibile la massa enorme di materiali persi durante la ritirata di Caporetto, aveva comportato una dilatazione senza precedenti degli organici. Basti pensare che le officine FIAT di corso Dante, dai 120 dipendenti previsti all’inizio dell’attività, erano arrivate a occuparne oltre 9.600 nel 1916 e addirittura 16.000 nel 1918. Ma il problema non riguardava soltanto la grande industria, perché lo sforzo era stato corale; la smobilitazione colpiva anche la piccola e piccolissima impresa, la miriade di «boite» installate nelle rimesse in fondo ai cortili. La situazione, poi, tendeva a farsi ancora più complicata per il fatto che, nel tentativo di evitare contraccolpi sul piano sociale, la condizione di alti salari e occupazione forzata era stata protratta per alcuni mesi dopo la conclusione del conflitto, provocando, da un lato, una dilatazione abnorme dei consumi individuali, eccessivamente compressi durante la guerra, e, dall’altro, un rapido aumento dei prezzi, con l’inevitabile conseguenza di un’accelerazione del tasso d’inflazione. In altre parole, si era instaurata una spirale perversa per la quale agli aumenti salariali corrispondeva un equivalente incremento del costo della vita, causa, a sua volta, di nuovi incrementi salariali. Per dare un’idea, sarà sufficiente ricordare che le retribuzioni dei principali settori produttivi - se si considera uguale a cento la paga del giugno 1914 - erano aumentate di 7 volte nel giugno 1921 nelle industrie automobilistiche, di circa 8 in quelle meccaniche, di 4 volte in media nell’industria del vestiario e di 6 volte in quella tessile. A fronte di tali incrementi, i prezzi dei generi alimentari, nello stesso periodo, erano aumentati a Torino di oltre 5 volte: un rincaro leggermente superiore a quello registrato a Milano e sensibilmente più elevato di Roma1. Il sistema industriale, che in un primo momento aveva beneficiato dell’euforia determinata dalla situazione forzosa in cui si trovava l’economia cittadina, finiva perciò ben presto in recessione. Se il 1919 era stato ancora prospero, per la «felice congiuntura che quasi tutte le industrie continuarono a godere in quell’anno, per lo spaccio relativamente esteso nei paesi esteri, il più agevole approvvigionamento di materie prime e soprattutto per l’azione di prezzi crescenti, stimolatori d’una febbrile speculazione»2, con il passare dei mesi, «la depressione iniziata nel secondo semestre del 1920 prosegue e si accentua nel 1921, caratterizzato da scarsa e declinante attività, riduzioni nell’orario di lavoro, licenziamento di personale in gran numero di industrie»3. Fra i settori più colpiti, ovviamente, quello metalmeccanico-automobilistico e il tessile, cioè i settori che maggiormente avevano 29


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beneficiato delle commesse di guerra. Ma accanto a molte ombre, anche qualche luce. A non risentire degli effetti della crisi vi era, innanzitutto, l’industria dolciaria, soggetta a una pesante ristrutturazione con la costituzione dell’UNICA (Unione Nazionale Industria Commercio Alimentari), che raggruppava Talmone, Moriondo e Gariglio, Bonatti, Fabbriche Riunite Gallettine Biscuits, cui si sarebbe aggiunta la Venchi. Mentre, in campo tessile, alla crisi dei filati tradizionali, corrispondeva un rapido incremento nella produzione di fibre artificiali, con la trasformazione della SNIA (che aveva assorbito la Viscosa di Pavia, derivata dalla Cines Seta Artificiale) da azienda di trasporti ad azienda chimica. Un terzo settore, infine, che presentava, almeno temporaneamente, alti tassi di sviluppo era quello degli strumenti musicali, in particolare dei pianoforti; anche qui, con la concentrazione in una sola azienda (la FIP) di otto prestigiose marche torinesi. In definitiva, a non risentire della crisi, o a risentirne soltanto in misura limitata, era il settore cosiddetto delle «industrie varie», fra le quali si deve annoverare anche la Lenci. Fondata nel 1919, questa azienda poteva contare su alcune condizioni favorevoli, costituite da abbondanza di manodopera femminile disponibile, mancanza di concorrenza, che consentiva di assorbire senza eccessivi traumi anche salari elevati, e un prodotto con forte capacità di esportazione, tale da compensare la stagnazione dei consumi sul mercato interno. E così il 23 aprile 1919 Enrico Scavini presenta alla Prefettura di Torino domanda per ottenere un marchio di fabbrica «costituito da una trottola avvolta elicoidalmente da un filo e compresa nella scritta Ludus est nobis constanter industria, disposta secondo un cerchio». Il marchio Lenci sarebbe nato in un secondo momento, più precisamente il 9 dicembre 1922. Questa circostanza, ovvero l’utilizzo del marchio Lenci successivo a quello del motto iniziale, ha dato luogo a qualche confusione che ha consentito alla famiglia Garella, subentrata agli Scavini nella proprietà dell’azienda, di negare che il nuovo marchio fosse desunto dal diminutivo tedesco di Elena, Helenchen, trasformato nel vezzeggiativo Lenci. La questione non è di poco conto, essendo evidente l’interesse della nuova proprietà di affrancarsi, anche per questa via, dall’ingombrante personalità della fondatrice, Elena König Scavini, moglie di Enrico. Secondo questa interpretazione, il termine «Lenci» sarebbe soltanto l’acronimo del motto studiato da Ugo Ojetti e inizialmente utilizzato per contrassegnare la produzione aziendale. Al proposito, in una nota diffusa il 30 luglio 1981 viene fatto notare che un simile modo di procedere era usuale in quell’epoca, come dimostrano, fra gli altri, i casi FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino) e ALFA (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili). La nota si conclude sostenendo, con involontario umorismo, peraltro rivelatore delle intenzioni degli estensori, che «il fatto che la signora Scavini possa in seguito essere chiamata signora Lenci è dovuto al fatto che essa frequentava [!] l’azienda e quindi chi non conosceva esattamente il cognome era portato a chiamarla con lo stesso nome della ragione sociale». Ora, che la signora König (prima ancora che Scavini) frequentasse l’azienda, come una qualsiasi persona di passaggio, suona chiaramente riduttivo e sprezzante rispetto alla posizione da essa effettivamente occupata. Va da sé che la questione potrebbe essere capovolta, sostenendo che Ojetti abbia, per così dire, «confezionato» il motto su misura, facendo coincidere l’iniziale di ogni singola parola con le lettere che compongono il termine «Lenci». Ed è questa l’ipotesi più probabile, suffragata dal fatto che, nell’autobiografia di Elena König Scavini, il vezzeggiativo «Lenci» e la variante «Lencina» risultano riferiti a momenti che precedono, anche di parecchio, la fondazione dell’azienda4. Lencina, del resto, è il nome attribuito alla prima bambola, in qualche misura, industriale prodotta da Elena in collaborazione con il fratello. Che cosa abbia spinto Elena a realizzare pupazzi e bambole è difficile da spiegare. Che si sia trattato di un modo per reagire alla dolorosa perdita della figlioletta, stroncata da febbre spagnola fulminante, è altamente probabile. In ogni caso si trattò di una scelta azzeccata, anche se in parte involontaria: non risulta, infatti, che tra i propositi iniziali di Elena vi fosse anche quello di avviare una produzione su scala industriale dei suoi pupazzi e delle sue bambole. L’immediato successo commerciale che essi ottennero fu anch’esso la conseguenza di condizioni, nel caso specifico, rivelatesi favorevoli. Il fatto è che, come spesso accade, alla fine di un conflitto, specialmente se della portata e della durata della prima guerra mondiale, vi è una penuria di beni voluttuari di ogni genere (compresi anche i giochi per l’infanzia) a fronte di una massa di persone spinte al consumo dalle privazioni subite nel periodo precedente. Quanto ai materiali utilizzati, erano sicuramente i più indicati nel momento che stava vivendo l’Italia, ma più in generale, tutto il mondo occidentale. 30

Incominciai a fare un corpo di telaccia, aggiunsi gambe e braccia con cuciture al gomito e alle ginocchia perché fossero snodate. Ma la testa? Una palla fatta di quattro fette cucite assieme; capelli di lana gialla, naso e bocca dipinte e due bottoni neri da scarpa per gli occhi. Poi un vestitino a quadretti rosso e bianco5.

Così Elena descrive i primi tentativi di realizzazione delle bambole. Materiali poveri, il cui impiego avrebbe consentito di presentarsi sul mercato con prezzi di vendita contenuti, compatibili con l’inflazione del momento e, soprattutto, materiali assolutamente comuni, familiari alla totalità dei potenziali acquirenti, che, proprio per queste loro caratteristiche, potevano essere lasciati nelle mani dei bambini, liberi di strapazzarli a volontà; laddove le tradizionali bambole di porcellana, vestite con abiti ricercati, oltre a essere molto più costose, erano anche molto più fragili. Queste caratteristiche - semplicità di esecuzione, prezzo contenuto, maneggevolezza non sarebbero mutate di molto quando gli stracci vennero sostituiti dal panno realizzato secondo il brevetto messo a punto dal fratello di Elena: il cosiddetto «pannolenci», con il quale non si realizzavano solo le bambole, ma anche abiti per bambini e accessori per signora. Ma a determinare il successo delle bambole concorsero anche altre motivazioni. L’Italia e il mondo uscivano da una guerra sanguinosa, che aveva imposto un sistema di vita non solo austero e improntato alla più rigida disciplina, ma tra lutti, rovine, preoccupazioni per la sorte propria e dei propri cari, era dominato, anche visivamente, da colori cupi, dove il grigio, e soprattutto il nero, la facevano da padrone. Su un piano generale, l’opposizione a questo stato di cose era sostenuta dal movimento futurista, particolarmente attivo a Torino, dove già nel 1922 era stata allestita l’Esposizione Futurista Internazionale, sfociata l’anno successivo nella costituzione del Movimento Futurista Torinese - Sindacati Artistici Futuristi, i cui intenti programmatici erano così riassunti: «Il nostro programma è sempre dinamite violentissima ed esplosiva di cervello nell’assalto ai castelli chiusi della vecchia Arte, per la provocazione futura della LUCE»6. Anche le creazioni della Lenci si ispiravano in qualche modo al clima futurista, e non soltanto perché fra i suoi collaboratori vi erano alcuni degli artisti - da Gigi Chessa a Felice Tosalli, a Mario Sturani - che animavano le iniziative futuriste torinesi; ma anche perché il mondo delle bambole Lenci, come le creazioni dei futuristi, era un mondo colorato, vivace; un mondo anche un po’ squinternato, che però lascia-

Fig. 1. Camera della prima colazione della ditta Ars Lenci, ideata dal pittore Gigi Chessa, adornata da quadri di Felice Casorati, Emilio Vacchetti, Felice Vellan, da ceramiche di Teonesto Deabate e da ricami eseguiti su disegni di Sandro Vacchetti e Giuseppe Porcheddu. Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza, 1923. Foto d’epoca.

Fig. 2. Sala delle bambole della ditta Ars Lenci, ideata dal pittore Gigi Chessa. Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza, 1923. Foto d’epoca.

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va spazio all’allegria e alla fantasia: esattamente quello che le persone, superato l’incubo del conflitto, desideravano. Ciò è quanto emerge fin dalla partecipazione alla Prima Mostra Internazionale di Arti Decorative, tenutasi a Monza nel 1923, dove Lenci è presente nella sezione piemontese con due sale allestite da Chessa e Vacchetti: camera delle bambole e sala per la prima colazione (figg. 1-2). Stando alla cronaca che dell’avvenimento fornisce «L’Illustrazione Italiana», particolarmente severa nei confronti dell’intera rassegna, giudicata banale e passatista, una delle poche partecipazioni che si salvano è, appunto, quella di Chessa:

Semplicità del prodotto e vivacità dei colori saranno anche all’origine del successo che le creazioni Lenci riscuoteranno alla ben più blasonata Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes che si terrà a Parigi nel 1925. L’ambiente era sicuramente congeniale. Concepita come un gigantesco gioco meccanizzato (e basta vedere, nelle fotografie d’epoca, le prospettive che si dipanavano dal Pont Alexandre III o dall’Esplanade des Invalides, per rendersi conto di come si fosse in presenza di altrettante «case di bambola» a dimensione ciclopica), l’Esposizione esplode di notte, quando, dalla Tour Eiffel al Théâtre d’eau, agli edifici delle singole partecipazioni nazionali, tutto il quartiere espositivo viene illuminato da centinaia di sorgenti luminose policrome, che le Fig. 4. Joséphine Baker in visita alla fabbrica Lenci nel 1929. Foto d’epoca. acque dalla Senna moltiplicano all’infinito. In definitiva, un’Esposizione che, nell’impasto tra suono, luci, confusioni, riproponeva, amplificandone i contenuti, uno dei luoghi deputati del divertimento di massa che si stava affermando proprio in quel periodo, il Luna Park, che prende vita, appunto, di notte, anticipando per altro verso quelle cittadelle dello svago che saranno le varie Disneyland dei giorni nostri. E sarà pure vero, come è stato scritto, che quell’Esposizione «volle essere il trionfo reazionario borghese del Déco, insopportabile emblema dei ruggenti anni Venti [...] il degrado al livello del più basso consumismo»8; ma proprio perché orientata a soddisfare gli umori e gli appetiti di una borghesia europea che, a Torino come altrove, affrancata dalle privazioni della guerra e approfittando della congiuntura favorevole che dal 1924 stava attraversando l’Europa, iniziava a gustare i primi frutti dei consumi di massa, essa rendeva quasi inevitabile il successo dei pupazzi Lenci. Anche in questa circostanza è «L’Illustrazione Italiana» a fornire la cifra della partecipazione: «E per finire le notissime bambole “Lenci” dello Scavini di Torino, presentate con molto garbo dal pittore Gigi Chessa. Questi fantocci di colori vivaci e contrastanti, immaginati con arguzia e bizzarria tra fantastica e sentimentale, sono sempre piacevoli»9. Concepita come un gioco, l’Esposizione del 1925 al gioco doveva dedicare la massima considerazione. Di qui, la ricca messe di premi conseguita dalla Lenci: 3 Grand Prix, 7 diplomi d’onore, 6 medaglie d’oro, 3 medaglie d’argento.

Non è questa la sede per ripercorrere la nutrita serie di partecipazioni a mostre ed esposizioni che hanno contribuito all’affermazione della Lenci nel mondo. Per Lenci, come per qualsiasi altro produttore, partecipare alle diverse rassegne espositive, quale che fosse la loro importanza, era il modo più rapido di farsi conoscere. E se poi, come spesso accadeva, la partecipazione era coronata da qualche attestato (medaglia, diploma, semplice menzione), di cui peraltro gli organizzatori erano particolarmente prodighi, il successo commerciale era quasi sempre assicurato. Merita però di essere ricordata la partecipazione all’Esposizione Nazionale di Torino del 1928, perché quella fu la prima volta in cui i prodotti della Lenci comparvero in una rassegna esclusivamente industriale. Sino ad allora, infatti, la partecipazione aveva riguardato rassegne a prevalente contenuto artistico, nelle quali l’aspetto creativo prevaleva sul momento produttivo, nonostante le arti decorative, in quanto arti applicate, fossero ormai entrate nell’epoca della loro «riproducibilità tecnica», almeno da Parigi 1900 e poi da Torino 1902. Ancora oggi non sono completamente chiarite le ragioni che indussero i maggiorenti torinesi, capeggiati dal duca d’Aosta, a proporre una nuova esposizione per il 1928. Che la vittoria nella Grande Guerra, di cui ricorreva il decennale, fosse evento da celebrare era indiscutibile; ma non si comprende quale titolo avesse Torino, più di qualsiasi altra città italiana, di assumersi la paternità dell’avvenimento, celebrandolo addirittura con un’esposizione. Mentre era stato assolutamente logico che fosse toccato a Torino celebrare il cinquantenario dello Statuto nel 1898 e il cinquantenario del Regno d’Italia, nel 1911, questa volta non vi erano particolari benemerenze da accampare. La vittoria era stata il frutto di uno sforzo corale che aveva visto impegnata tutta la nazione e sarebbe apparso più logico, se non si voleva delegare a Roma il compito di celebrare l’evento, pensare a una celebrazione diffusa, che coinvolgesse la maggior parte delle città italiane. Probabilmente, la ragione vera è da ricercarsi nel desiderio del regime di presentare un rendiconto dell’attività svolta a un quinquennio dalla presa del potere. Il desiderio di dare dell’Italia l’immagine di un paese moderno, svecchiato perché governato da una classe politica sollecita e attenta ai bisogni della collettività. Torino, e per altro verso Milano, in quanto maggiori centri produttivi del paese, erano le due città nelle quali era ritenuto più importante che l’opinione pubblica fosse informata di quanto era stato già realizzato. A Milano quell’esigenza fu soddisfatta dilatando i contenuti e prolungando la durata dell’ormai tradizionale rassegna campionaria di primavera: una sorta di fiera-esposizione destinata a durare alcuni mesi, con l’aggiunta di parchi di divertimento. A Torino si preferì battere la strada, tradizionale e collaudata, dell’esposizione. Depurata delle rassegne dedicate alle «opere del regime» (sindacati fascisti, cooperazione mutualità e previdenza, mostra coloniale ecc.) l’esposizione si presentava rigorosamente industriale, per la prima volta con un catalogo costruito sulle categorie merceologiche degli espositori e una loro suddivisione rigorosa nei diversi padiglioni. Quasi assente la FIAT, che aveva preferito calare in forze a Milano, la scena era occupata, anziché dal settore meccanico, pressoché interamente dal settore chimico, che esponeva una gamma vastissima di imprese con produzioni che andavano dalla chimica organica a quella inorganica, dagli idrati di carbonio (zucchero, fecole, cellulosa e sue applicazioni, come carta e fibre artificiali) alla metallurgia, dagli esplosivi ai combustibili, dai colori e vernici alle fibre tessili, dal vetro e dalla ceramica alla chimica farmaceutica, dalla conciaria alla fotografia, passando attraverso la gomma e le materie plastiche. Altri settori importanti, ospitati ciascuno in un apposito padiglione erano quelli della seta, della moda e della ceramica. Protagonista assoluto dell’Esposizione fu Riccardo Gualino, non ancora caduto in disgrazia. Presente in forze nel padiglione della chimica, dove la SNIA occupava un’intera navata proponendo un allestimento curato da Felice Casorati, e nel padiglione dedicato al mobilio, dove la Fabbrica Italiana Pianoforti mostrava la sua elevata capacità nella produzione in serie di serramenti in legno per l’edilizia, la presenza incombente di Gualino si avvertiva anche fuori dal recinto espositivo, in molti degli eventi collaterali: con la rappresentazione dell’Italiana in Algeri nel Teatro di Torino e con la straordinaria presentazione pubblica della sua collezione d’arte in cinque sale di Palazzo Madama. In questa esposizione la Lenci si veniva, dunque, a trovare su un terreno che le era certamente congeniale. Quella che andava in mostra con l’Esposizione del 1928 non era tanto la Torino industriale dell’automobile e delle fabbriche metalmeccaniche, quanto piuttosto «la “raffinata” Torino della merceologia di lusso e voluttuaria della moda, della Lenci, di Cora e di Gancia, dell’arredamento privato e commerciale d’avanguardia»10. E, per altro verso, la Torino del secondo futurismo, presente in

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Pieno di modesta ma ricercata eleganza e di armonia di colori è invece l’ambiente ideato dal giovane pittore piemontese Gigi Chessa. È una saletta da pranzo in legno scuro con filettature di acero formanti riquadri entro cui sono dipinti dei gruppi di fiori: unione insieme semplice e limpida di colori e di linee, dove i quadri di Felice Casorati sono come in casa loro7. Fig. 3. Visita alla Lenci nel 1933. Foto d’epoca.


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forze, con i suoi «cartelli lanciatori» (manifesti promozionali concepiti come elementi di arredo urbano) nel Padiglione Futurista. Un impegno che di lì a qualche tempo si sarebbe concretizzato con l’apertura della Taverna del Santopalato, curata da Nicolaj Djulgheroff. È quindi comprensibile che, questa volta, la Lenci abbia compiuto uno sforzo eccezionale, partecipando a tre diverse sezioni: nella «Casa degli architetti», nel Padiglione della ceramica e, soprattutto, nel Padiglione della moda. È in quest’ultimo, infatti, che il marchio Lenci ottiene una sorta di consacrazione, dal momento che si trova in compagnia di una nutrita schiera di imprese di primaria importanza, almeno a livello piemontese. Fra queste possiamo ricordare il Calzificio Sobrero, il Calzificio Torinese, la Filatura di Tollegno, accanto a due marchi storici dell’alta moda torinese: Galtrucco e La Merveilleuse. Quanto alle ceramiche, non ancora prodotte a livello commerciale (lo sarebbero state l’anno successivo con una presentazione alla Galleria Pesaro di Milano), la loro presenza, più che nella galleria appositamente dedicata (peraltro scarsamente frequentata: in tutto 6 espositori poco significativi, escludendo Lenci), andava ricercata nella «Casa degli architetti» progettata da Gino Levi Montalcini, Giuseppe Pagano-Pogatschnig e Ettore Pittini. In quell’allestimento le ceramiche Lenci facevano bella mostra accanto ai mobili di Cocchi e Sola e alle lampade di Venini. In sostanza, l’Esposizione confermava come la Lenci, nei circa dieci anni di attività aveva saputo trasformarsi da piccola bottega artigiana in impresa industriale, passando a occupare, dalle poche operaie dei primi tempi, alcune centinaia di persone. A questo risultato aveva certamente concorso la felice congiuntura di un mercato internazionale che, anche per l’infanzia, richiedeva prodotti meno «ingessati», modelli più vicini alla vita quotidiana, bambole vestite come vestivano le bambine della media borghesia, o pupazzi vestiti come i clown che i bambini potevano vedere al circo la domenica pomeriggio: era questo il numero più cospicuo di consumatori. Ma un peso non piccolo nell’individuazione delle ragioni di un successo che altrimenti risulterebbe indecifrabile era da attribuirsi all’ambiente: a una Torino che, se era diventata capitale dell’automobile, non aveva rinunciato a essere capitale della moda. E non a caso, proprio il Padiglione della seta dell’Esposizione del 1928, dopo essere stato, nel 1911, il palazzo del Giornale, sarebbe diventato, con la ristrutturazione realizzata da Ettore Sottsass, sede dell’Ente Nazionale Moda. Una parte altrettanto importante del successo deve però essere attribuita alla capacità della coppia Scavini di diversificare, sin dall’inizio, la produzione, in modo da coprire lo spettro più ampio possibile delle preferenze dei consumatori. Una diversificazione che non riguardava soltanto le bambole, ma cercava di raggiungere tutti gli aspetti del mondo dell’infanzia. Già nel catalogo per l’anno 1921, accanto a un numero molto elevato di modelli per bambole (almeno settanta) destinate all’infanzia, compaiono modelli di bambole per arredo (quelle che di solito, per gli amanti del genere, venivano collocate al centro del letto), oltre a riproduzioni di animali esotici (cammelli, elefanti), case per bambole e camerette complete per bambini11. Cura dei particolari e diversificazione saranno una caratteristica costante dell’azienda. Emblematico il caso dei pupazzi riproducenti animaletti, cani in particolare. Di questi ultimi, un inventario del 1934 ne elenca almeno quindici varietà, ciascuna delle quali individuata con un nome proprio (Peter, Pip, Jacky, Cirin, Lilly, Mirka, Fru, Bull, Felix, Dick, Charlie - anche nella variante Tony - Bill, Toby, Miss e Madi). A ogni nome corrisponde non solo una diversa razza, ma spesso anche, di una medesima razza, una diversa versione (come il colore del manto). Tutte queste caratteristiche si ritroveranno puntualmente elencate nel catalogo per l’anno 193112. I dieci anni che lo separano dal precedente sono valsi a moltiplicare le tipologie di bambole, offerte ormai in quarantatré versioni quelle ordinarie (fig. 5), e in un numero ancora maggiore quelle realizzate in feltro lavabile, novità del momento. Sempre nello stesso catalogo si trovano anche numerosi accessori destinati all’allestimento di una casa di bambola: camere complete da letto e da pranzo, soggiorni dotati di caminetto e, ancora, bauletti, armadi, cassapanche... in sostanza tutto ciò che la fantasia infantile può suggerire per rendere confortevole la virtuale esistenza della bambola preferita. Si è in presenza, dunque, di una notevole diversificazione produttiva. Diversificazione che raggiunge l’apice in quelle che, nella denominazione aziendale, vengono genericamente indicate come «confezioni». L’elenco è molto lungo. Accanto ai vestitini per le bambole (proposti in vari tessuti sia di lana sia di cotone), compaiono pigiami e giacche per bambini (queste ultime sia in lana sia nel noto «pannolenci»), e cappelli, borsette, copertine per neonati,

corredi per culla, scialli, ma anche specchi, cornici, porte-bonheur, abat-jour, fiori artificiali, pannelli ricamati e con lavorazione batik. Una diversificazione che giustifica ampiamente lo sviluppo dell’azienda, passata dagli inizi pionieristici (oltre agli Scavini, erano impiegati una cucitrice e lo scultore Giovanni Riva, cui competeva modellare le teste delle bambole) ai 600 dipendenti del 1930: il che aveva comportato il trasferimento dell’azienda dai locali in via Marco Polo 5 alla più confacente struttura di via Cassini 7 (figg. 3, 4, 6 e 7). Al momento dell’Esposizione di Torino del 1928 la Lenci è sicuramente un gigante del settore, come testimonia la sua diffusione a livello internazionale, fenomeno difficilmente riscontrabile in altre realtà produttive italiane del periodo. Da un elenco di clienti di qualche anno successivo all’evento espositivo (1933) risulta che i prodotti Lenci sono venduti, oltre che in numerose località italiane, anche in negozi di Madrid, Il Cairo, Barcellona, Bruxelles, Londra, Bombay, Lisbona, Budapest, Buenos Aires, St. Moritz, Copenaghen, Toronto, Berna, New York, e l’elenco potrebbe continuare. In realtà, però, sia la differenziazione produttiva sia la grande diffusione a livello internazionale, se da un lato testimoniano della vitalità, e per certi versi anche della genialità, dell’azienda, dall’altro sono la spia di una situazione di fragilità, destinata prima o poi a esplodere manifestandosi in tutta la sua gravità. Al di là di un certo limite, infatti, la differenziazione, non consentendo volumi elevati di produzione, si traduce inevitabilmente in un appesantimento sproporzionato dei costi, laddove invece la concorrenza, concentrandosi su singoli prodotti, normalmente copiati dagli originali Lenci (e l’imitazione rappresenta già di per sé un abbattimento dei costi) riesce a produrre volumi più elevati a prezzi di vendita più competitivi. E poco influisce il fatto che il livello qualitativo della concorrenza sia nettamente inferiore a quello del prodotto Lenci: trattandosi in ogni caso di beni voluttuari destinati a un pubblico infantile è normale che considerazioni di tipo economico prevalgano su quelle estetiche o comunque di natura diversa. Per la verità, i primi scricchiolii si erano già avvertiti a Parigi nel 1925, quando pure Lenci era all’apice del successo. In quell’occasione, infatti, oltre a Lenci, che aveva fatto man bassa di premi di tutti i tipi, era stata premiata anche un’altra casa torinese di bambole, nata in concorrenza: la FIABA. All’Esposizione del 1928, poi, gli scricchiolii si erano trasformati in vere e proprie crepe, dovendo fare i conti con una concorrenza ben più agguerrita, rappresentata, nel padiglione dell’Ente Nazionale Piccole Industrie, da due altre aziende: la FATA di Milano e la SIRE di Torino. Del resto, che la pressione della concorrenza si facesse sentire in maniera crescente, creando difficoltà notevoli, era fenomeno già avvertito da qualche anno e testimoniato, per quanto si riesce a comprendere, dall’andamento dei conti aziendali. Infatti, mentre esiste una documentazione abbondantissima per il periodo successivo, per quanto riguarda il periodo di attività riconducibile alla coppia Scavini, l’Archivio Lenci, oggi parzialmente recuperato all’Archivio Storico della Città di Torino, mentre è molto ricco di materiali concernenti il prodotto, è straordinariamente lacunoso in materia di dati amministrativi. Stupisce che tra i documenti di un’azienda che era arrivata a occupare oltre 600 dipendenti manchino completamente quelli contabili (bilanci, libri mastri...), mentre per quanto riguarda il personale, se si esclude un libro matricola, peraltro incompleto, non si dispone né di fogli paga né di riepiloghi periodici e continuativi delle retribuzioni. L’unico documento in materia è un registro che riporta le somme erogate, per ciascun soggetto, a titolo di cottimo per la pittura sulle ceramiche, dal quale registro, peraltro, non si riesce a comprendere se le somme in questione riguardino un singolo esemplare o tutta la tiratura. Sul versante amministrativo, invece, esiste un registro che riporta l’andamento giornaliero e il valore degli ordinativi per ciascun cliente; ma trattandosi di un documento frammentario e tardo (verso la metà degli anni trenta) risulta poco significativo. Fig. 5. La «signora Lenci» (Elena König Scavini). Foto d’epoca.

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L’unico documento sul quale si può fare affidamento, anche se privo di ufficialità, è una specie di riepilogo dei proventi e dei costi dell’azienda per gli anni dal 1926 al 1932. Il documento, scritto a mano, è stato probabilmente redatto nel 1933 sulla base di documenti oggi non più reperibili, in occasione del primo ingresso di soci esterni a sostegno dell’azienda. Da tale documento si evince chiaramente come la situazione economica dell’azienda (tabella 1) andasse progressivamente deteriorandosi, almeno a partire dal 1927. Probabilmente, per quanto è dato saperne, l’esercizio 1926 aveva rappresentato il punto più elevato della sua espansione produttiva, facendo registrare Fig. 6. Lo stabilimento Lenci di Torino nel 1925. Foto d’epoca. ricavi per 10.142.000 lire; ma già l’anno successivo i ricavi si erano ridotti di quasi il 20%, scendendo a 8.327.000 lire, mentre nel 1928 si erano attestati ancora più in basso, a 7.404.000 lire. Dopo un lieve recupero nel 1929 (7.737.000 lire) la situazione tende a precipitare e si assiste a una caduta verticale dei proventi: 4.446.000 nel 1930; 3.351.000 nel 1931; 2.647.000 nel 1932. In sostanza, nell’arco di sei anni, i ricavi sono scesi del 73%. Tabella 1 ANNI

RICAVI TOTALI

RICAVI ESTERO

(in migliaia di lire)

(in migliaia di lire)

Generali Confezioni Ceramiche Bambole 1926 10.142 3.485

––

Totale

%

Confezioni

%

Ceramiche

6.226

7.099

70

2.845

81,6

––

%

RICAVI ITALIA

(in migliaia di lire)

Bambole

%

Totale

%

Confezioni

%

4.153

66,7

3.042

30

1.000

28,6

Ceramiche

%

Bambole

%

2.042

32,8

1927

8.327

3.278

5.048

6.142

73,7

2.478

75,5

3.684

73

2.184

26,2

800

24,4

1.384

27,4

1928

7.404

2.215

5.188

5.179

70

1.665

75,1

3.513

67,7

2.225

30,4

550

24,8

1.675

32,2

1929

7.737

2.000

144

5.593

5.657

73,1

1.507

75,3

30

20,8

4127

73,8

2.080

26,8

500

25

114

79,1

1.466

26,7

1930

4.446

600

398

3.447

3.041

68,4

475

79,1

100

25,1

2.466

71,5

1.405

31,6

125

20,8

298

74,8

988

28,6

1931

3.351

100

451

2.800

2.102

62,7

20

20

225

49,9

1.856

66,3

1.249

37,2

80

17,7

226

50,1

943

33,6

1932

2.647

52

485

2.110

1.382

52,2

15

28,9

242

49,8

1.124

53,2

1.265

47,7

37

71,5

243

50,1

1.086

51,4

esteri. A una contrazione di questi ultimi pari all’80% nel 1932, rispetto al 1926, corrisponde, infatti, una contrazione in Italia del 58 percento. Mentre per quanto riguarda il comparto confezioni la differenza, per quanto significativa sotto il profilo numerico (+99,5 contro +96,3%), è tuttavia poco rilevante in termini assoluti, trattandosi di valori ormai ridotti al lumicino. A «tenere» è soprattutto il comparto bambole, che pur registrando un calo pari al 46,8% del valore iniziale, si mantiene tuttavia ben lontano dal –66% denunciato dai mercati esteri. Volendo dunque sintetizzare la situazione, si può dire che tra il 1926 e il 1932 si registra un pesantissimo calo delle vendite, determinato in primo Fig. 7. Sandro ed Emilio Vacchetti al lavoro nello stabilimento Lenci di Torino nell’ottobre 1925. Foto d’epoca. luogo dal vero e proprio crollo della domanda di confezioni e solo in piccola parte compensato dal successo della produzione di ceramiche. Il calo in questione, poi, risulta più accentuato sui mercati esteri che su quello italiano: e comunque in entrambi i casi, a evitare il tracollo definitivo della Lenci è la relativa tenuta della domanda di bambole, che continuano a dimostrarsi il core business dell’azienda. Ovviamente non è dato sapere sino a che punto i responsabili di Lenci fossero consapevoli della gravità della situazione, anche se dagli stessi documenti sin qui utilizzati è possibile desumere che siano state tentate operazioni di riduzione dei costi e di riequilibrio dei fattori produttivi. Alla progressiva caduta dei ricavi corrisponde, infatti, una parallela riduzione dei costi, che tuttavia non appare sufficiente a contenere gli effetti dei minori introiti. Un’analisi dei costi (tabella 2) permette di verificare come a una riduzione dei ricavi pari al 73% corrisponda una riduzione dei costi del 68%: il 5% di differenza deve essere imputato a rigidità proprie dei costi di produzione, diminuiti, in assoluto, soltanto del 65%, mentre la quota relativa ai costi di personale è assolutamente in linea con gli andamenti dei ricavi (73%). Tabella 2 ANNI

COSTI DI COMMERCIALIZZAZIONE

COSTI DI PRODUZIONE TOTALE PERSONALE

COSTI TOTALI

RICAVI TOTALI

%

%

%

INCIDENZE COSTI %

INCIDENZE PERSONALE %

1926

1.654

4.328

2.429

56

5.982

10.142

58

24

1927

1.208

4.038

2.493

61

5.246

8.327

63

30

1928

1.071

3.533

2.068

58

4.604

7.404

62

28

1929

943

3.934

2.169

55

4.877

77.737

63

28

1930

547

2.707

1.221

45

3.254

4.446

73

27

1931

740

2.146

919

43

2.886

3.351

85

27

1932

387

1.517

662

43

1.904

2.647

72

25

La grande crisi del 1929, colpendo la quasi totalità dei settori produttivi a livello mondiale, influì certamente, e in modo pesante, anche sugli andamenti economici della Lenci: la decisione di dedicarsi alla produzione di ceramiche va dunque letta come un tentativo di porre rimedio al deterioramento dei conti aziendali. Per quanto riguarda, invece, gli effetti della crisi, se, anziché al dato globale, si guarda ai dati disaggregati, si vede chiaramente come essa non abbia colpito in uguale misura tutta la produzione, né abbia esercitato gli stessi effetti su tutti i mercati di sbocco. I ricavi sui mercati esteri, che nel 1926 con 7.099.000 lire rappresentavano la fetta più consistente dei proventi, nel 1932 erano diminuiti di oltre l’80%, soprattutto a spese del comparto confezioni, ridotto a un misero 0,5% del valore iniziale, mentre il comparto bambole, tutto sommato, era riuscito a reggere meglio il colpo, diminuendo «soltanto» del 73% circa. Le ceramiche avevano, sì, contribuito a rendere meno pesante il crollo, ma in misura assolutamente marginale. In più, non è dato sapere a quali costi avvenisse la loro produzione; costi che dovevano essere certamente elevati dal momento che si erano resi necessari cospicui investimenti che i pochi anni del loro utilizzo non avevano ancora consentito di ammortizzare. Nel quadro di un’economia internazionale notevolmente depressa, il mercato italiano sembra essere riuscito a reggere meglio l’urto della crisi. Certo, anche in Italia i ricavi hanno subito una contrazione, ma meno grave di quella registrata sui mercati

A questo punto occorre rilevare come, in mancanza di altri documenti, non sia dato sapere se i ricavi indicati nei materiali disponibili siano da considerarsi introiti effettivi (corrispondenti, cioè, a somme effettivamente incassate) o se invece facciano riferimento soltanto alle fatture emesse dall’azienda, indipendentemente dalla solvibilità della clientela. La questione non è di poco conto: l’eventuale insolvenza del cliente del 1926, quando i costi rappresentano il 58% dei ricavi, pari questi ultimi a 10.142.000 lire, ha un peso ben diverso dall’insolvenza del 1932, quando i costi corrispondono al 72% dei ricavi, ridotti a loro volta solamente a 2.647.000 lire. La seconda ipotesi pare la più probabile, e trova conferma nelle parole della protagonista, Elena König Scavini:

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A darci un grosso colpo fu l’America. Importava tutti i nostri prodotti un fiorentino: avevamo piena fiducia in lui. Cominciò a parlare di fallimenti di clienti, poi riferì che un incendio aveva bruciato una grande quantità di bambole [...]. A Londra il nostro rappresentante e agente si uccise: forse quello era un uomo onesto, anche lì una grossa perdita di capitale. Stava succedendo qualcosa di grave in tutto il mondo, tutti parlavano di perdite13.

Come sempre accade, a fare prioritariamente le spese della crisi furono i consumi voluttuari; e, probabilmente, fra gli effetti secondari della crisi medesima dovettero annoverarsi casi di scorrettezza commerciale da parte di chi colse l’occasione per sottrarsi ai propri impegni. Il risultato fu una crescente difficoltà nel fronteggiare i costi aziendali che, seppure ridotti, non erano proporzionali rispetto ai ricavi. In questa situazione, la produzione di ceramiche, il cui avvio, come si è visto, precedente alla crisi, era stato motivato dal tentativo di recuperare margini di profitto erosi dalla concorrenza, se rappresentò un fatto importante sotto il profilo artistico, ebbe scarsa rilevanza dal punto di vista economico. In effetti, la coppia König Scavini perpetuò con le ceramiche lo stesso errore commesso con le bambole, dando vita a una produzione eccessivamente copiosa. Per quanto un elenco completo della produzione ceramica non sia mai stato stilato (o quanto meno non sia reperibile nel materiale d’archivio ancora esistente), sono disponibili due serie di registrazioni, redatte presumibilmente nel 1933, che riportano, la prima, valori di cottimo corrisposti per la pittura dei singoli pezzi e, la seconda, le dimensioni dei medesimi. Ebbene, i soggetti descritti ammontano a 1.025 unità nel primo caso e addirittura a 1.152 nel secondo. In realtà i soggetti prodotti erano ancora più numerosi, perché per molti di essi erano previste diverse varianti di colore. L’abbondanza di soggetti si accoppiava poi all’estrema cura nella loro realizzazione, tanto da cercare di ottenere gli smalti «alla maniera dei cinesi e dei persiani». Inoltre, gli esordi non sarebbero stati felici, a causa di una scelta errata dei soggetti, e nonostante la riconosciuta bravura degli artisti chiamati a realizzarli: «Tosalli, che copiava tutti gli animali, cerbiatti, tigri, erano dei veri capolavori [...], il pittore Grande, che faceva gruppi di contadini, rudi, semplici, molto espressivi». Belli, ma inadatti al mercato: «Le critiche dei giornalisti erano più che soddisfacenti. Tutti ne parlavano, ma si vendeva poco. La gente preferiva le vere ceramiche tipiche italiane o quelle tedesche e francesi»14. La situazione sarebbe migliorata quando, abbandonati soggetti di gusto tradizionale, ci si sarebbe orientati verso soggetti in linea con lo «stile Lenci» che caratterizzava le altre produzioni: «Non il capolavoro d’arte, ma un oggetto piacevole che potesse stare in tutte le case, il piccolo dono per la fidanzata o per la sposa»15. Ma anche in questa situazione, la condizione economica dell’azienda non ne avrebbe tratto vantaggio: «Grandi spese, molto lavoro e poco guadagno»16. Lanciata la moda, anche per le ceramiche succedeva quanto era già avvenuto per le bambole: «C’era molta concorrenza, tutti ci copiavano: tutto più brutto, ma più a buon prezzo»17. Con queste premesse, aggravate dalla scarsa attenzione dei titolari verso i problemi finanziari e contabili, la conclusione era praticamente inevitabile. Per scongiurare il fallimento, nel 1933 vi fu un primo ingresso di soci esterni: i fratelli Pilade e Flavio Garella, che nel 1937 sarebbero subentrati alla coppia König Scavini. La «cura Garella» produsse senz’altro effetti positivi, almeno dal punto di vista dei conti aziendali, assicurando per un lungo periodo la sopravvivenza dell’azienda anche in tempi travagliati come quelli della seconda guerra mondiale, ma il rispetto delle regole economiche, indispensabile per raddrizzarne le sorti, avrebbe finito per snaturarne l’essenza. Il conto economico prevalse sulla creatività. A tacere, infatti, della scelta, effettuata in un primo momento, di acquisire forniture militari, dettata forse anche dalla particolare situazione in cui veniva a trovarsi l’Italia, la produzione di bambole fu limitata a soli dieci modelli, facendo venire meno la varietà di soggetti e di varianti che aveva caratterizzato sino a Fig. 8. Copertina disegnata da Mario Sturani per il catalogo merceologico della manifattura Lenci del 1930. quel momento l’azienda. Scelta forse dolorosa, ma razionale, e dunque 38

inevitabile. Di fatto, concentrandosi su pochi modelli, era possibile realizzare parte di quelle economie di scala che potevano restituire redditività. Tuttavia, operando in questo modo, all’azienda venivano meno molte delle caratteristiche che avevano contrassegnato la sua prima fase di attività: in particolare, il gusto della sperimentazione e la capacità di confrontarsi con le istanze culturali che provenivano dalla società. L’azienda avrebbe continuato a produrre bambole e ceramiche, ma anziché anticipare le tendenze del pubblico e, in certi casi, anche a indirizzarle come era avvenuto nella prima fase, si sarebbe per lo più limitata ad assecondare le mode consolidate, alla cui creazione non aveva fornito alcun contributo. Così non stupisce che, nell’ultimo periodo di attività, la Lenci sia giunta a riprodurre alcuni dei più popolari personaggi di Walt Disney e, successivamente, personaggi resi popolari dalla pubblicità televisiva, come Topo Gigio o Calimero. Nel 1997, a sessant’anni dall’acquisizione, la proprietà della Lenci è passata dalla famiglia Garella alla Bambole Italiane srl che ha continuato l’attività fino al 2002, anno del fallimento e della definitiva chiusura del marchio Lenci.

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9 P. TORRIANO, Alla esposizione d’arte decorativa di Parigi, in «L’Illustrazione Italiana», 1925, n. 47, p. 439. 10 M. ROSCI, Arte applicata cit., p. 72. 11 ARCHIVIO STORICO DELLA CITTÀ DI TORINO, Fondo Lenci, collocazione (provvisoria) R 79. 12 Ivi, collocazione (provvisoria) R 78. 13 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., pp. 111-112. 14 Ibid., p. 102. 15 Ibid. 16 Ibid. 17 Ibid., p. 111.

G. PRATO, Il Piemonte e gli effetti della guerra sulla sua vita economica e sociale, Laterza, Bari 1925, passim. 2 Ibid., p. 115. 3 Ibid., p. 119. 4 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola e altre creazioni, Il Quadrante, Torino 1990, passim. 5 Ibid., p. 83. 6 A. DRAGONE, Le arti figurative, in Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo industriale e capitalismo, Progetto, Torino 1976, p. 105. 7 «L’Illustrazione Italiana», 1923, n. 40, p. 452. 8 M. ROSCI, Arte applicata arredamento design, in Torino 1920-1936 cit., p. 73.

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Ceramiche Lenci tra pubbliche esposizioni e strategie commerciali 1

DANIELE SANGUINETI e GIANLUCA ZANELLI Ad Anili Scavini, con ammirazione

L

enci iniziò ad avvalersi del veicolo delle esposizioni e di una progressiva propaganda merceologica anche in occasione dell’esordio delle ceramiche d’arte. Il nuovo settore produttivo richiedeva infatti un apposito lancio ufficiale, dal momento che il decennio appena trascorso, dedicato alla creazione di ingegnosi articoli legati al mondo dell’infanzia, aveva condotto il nome della manifattura alla massima e inaspettata notorietà sovranazionale soprattutto nel campo del giocattolo2. Benché la stessa borghesia che acquistava pregevoli bambole e arredi per bimbi fortunati potesse essere ugualmente ben disposta a ornare i salotti di casa con le colorate e ironiche ceramiche - che anzi andavano ad affiancare le ricercate «lady» destinate ai boudoirs di un pubblico adulto3 -, la necessità di accreditarsi in fretta presso un bacino distante dalla produzione in feltro condusse gli Scavini a orientarsi verso sedi editoriali appropriate per esaltare al meglio la nuova produzione. Anzi tra le ragioni di ampliamento settoriale della manifattura vi era certo, dopo le insidie della concorrenza nel campo del giocattolo4, la volontà di diversificare l’offerta per soddisfare il nuovo pubblico della decorazione d’interni. Erano infatti gli anni centrali del processo, guidato da Gio Ponti e Guido Marangoni, di promozione delle arti decorative tramite l’apporto delle riviste, delle esposizioni e delle scuole professionali5. Tra i vari motivi che indussero i titolari ad avviare la produzione ceramica, oltre alla costante passione di Elena König Scavini per la scultura, certamente dovette giocare un ruolo decisivo la presenza di Enrico Scavini, in qualità di membro tecnico e con la modernissima qualifica di «industriale d’arte», nei contesti organizzativi delle mostre internazionali delle arti decorative di Monza6, ambiente nel quale era possibile acquisire un riscontro tangibile dei massimi risultati in questo campo. La fortuna europea goduta dalle arti decorative e la serialità delle stesse, assicurata dall’industria, indicarono agli Scavini, soprattutto all’indomani della capitale esposizione parigina del 1925 cui presero parte7, una strada percorribile di riconversione, offrendo una vera e propria dignità all’oggetto di decoro già prodotto in feltro o in legno attraverso la nobile arte della ceramica. Anche la consapevolezza di poter contare su un gruppo iniziale di artisti, da tempo attivi a fornire una serie infinita di idee sotto forma di bozzetti e disegni dall’utilizzo versatile, fu certamente un elemento che stimolò questo ampliamento. La ceramica costituì dunque un’innovazione che maturò progressivamente in seno alla ditta e che fu sottoposta allo stesso coerente processo di ideazione artistica al quale venivano sottoposti, fin dagli esordi del 1919, le bambole, i mobili, gli arredi, i prodotti tessili per la casa e per la persona. Molte delle ceramiche edite tra il 1928 e il 1929 costituiranno infatti una sorta di adattamento scultoreo delle idee dei pittori già attivi per la manifattura8. Del resto Giovanni Riva e Sandro Vacchetti modellavano da anni i volti delle bambole e di veri e propri manichini; lo stesso Vacchetti, che diverrà ben presto direttore artistico, aveva affrontato la ceramica nel corso dell’esperienza americana, mentre Teonesto Deabate vantava un quinquennio di attività presso la Galvani di Pordenone, oltre ad aver realizzato una serie di piatti esposti a Monza nel 1923 e a Torino nel 19289. Dalle pagine del suggestivo diario di Elena König Scavini emerge, in vari momenti, lo scontro tra la sfera creativa e il mondo industriale con tutti i problemi relativi al mantenimento degli operai e alla necessità costante di nuove invenzioni10. Dunque l’idea di produrre ceramica nacque, secondo la narrazione della König Scavini, proprio nel tentativo di reagire a un momento critico11. Enrico risultò pronto ad assecondare il progetto, concretizzandolo attraverso l’edificazione di un locale apposito, in seno alla fabbrica di via Cassini, e la ricerca, tra Firenze e Faenza, di un capo ceramista e di un formatore. Si ritiene di far risalire questo momento ideativo, seguito certo dalla fase organizzativa e dall’esecuzione dei primi prototipi, al periodo compreso fra il 1926 e il 1927. La stabilizzazione a Torino di Nello Franchini e di Piero Spertini, quest’ultimo forte dell’esperienza presso Lavenia e Mondovì, avvenne nel corso del 1928 per assicurare un supporto tecnico di alta qualità, secon41


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do il volere di Scavini, il quale aveva inoltre individuato un impasto di «caolini nazionali mescolati, per renderli più plastici, a terre d’Olanda, e cott[o] a 1000 gradi»12. Sempre al 1928 è possibile datare il primo contatto con Felice Tosalli, celebre animalier13: «Ci volevano degli scultori e bravi. Ne trovai uno bravissimo, si chiamava Tosalli, che copiava tutti gli animali, cerbiatti, tigri, erano dei veri capolavori; poi chiamai il pittore Grande, che faceva gruppi di contadini, rudi, semplici, molto espressivi»14. Da quel momento il ruolo della nuova produzione sembrerebbe aver acquisito un peso maggiore rispetto alla precedente attività, se non altro nei contesti pubblici e nelle sedi deputate alla comunicazione. Il primo inserimento, quasi in sordina, di una ceramica sembra avvenire, a giudicare dall’immagine disponibile, nel conteFig. 1. «Bottega della fioraia» (stand Lenci) nella «Via dei negozi». Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative, Monza 1927. Foto d’epoca. sto della «Bottega della fioraia» che costituiva in realtà lo stand Lenci all’interno della sezione piemontese, ossia la cosiddetta «Via dei negozi», nella Terza Biennale di Monza del 192715: oltre alla presenza di scatole in legno vivacemente dipinte, che ricordano quelle più tardi realizzate in terraglia16, e alla raffigurazione, nella decorazione di un cuscino, di quello che diventerà Il Cocomero di Mario Sturani (n. 63), si nota infatti, in una nicchia del particolare allestimento sicuramente curato dallo stesso Sturani, un Presepe che, per forma, qualità e chiarissimo decoro, rivela il tipico linguaggio delle ceramiche Lenci (fig. 1)17. Ripercorrere, per quanto possibile, le uscite pubbliche e le varie campagne pubblicitarie, entrambe risolte con connotazioni d’eccellenza, consente di far emergere al meglio le strategie adottate per la presentazione pubblica della nuova linea, peraltro all’insegna di una serrata continuità progettuale con la precedente produzione.

L’ESORDIO DELLA CERAMICA ALL’ESPOSIZIONE NAZIONALE ITALIANA (1928) L’evento torinese dell’estate 1928 - l’Esposizione Nazionale per il IV centenario di Emanuele Filiberto e il X anniversario della Vittoria -, era finalizzato a esaltare il Regime e a mietere consensi attraverso «la politica di intervento dello Stato in ogni settore della produzione»18. Nel vasto parco del Valentino trovava spazio una sezione di artigianato, ordinata da Mario Intaglietta, con una serie di padiglioni progettati da alcuni artisti cittadini, i quali «riuscirono a interpretare architettonicamente le arti viventi nelle singole botteghe»19. Teonesto Deabate, in particolare, aveva ideato il padiglione dei ceramisti e vetrai come uno spazio ellittico dominato da grandi diaframmi trasparenti che creavano «un corridoio circolare illuminato da una finestra utilizzata come bacheca per i vetri di Cappelin, le ceramiche Lenci e di Andlovich»20: questa testimonianza rilasciata da Aldo Parini in «La casa bella» purtroppo non illustra nello specifico gli oggetti Lenci esposti, che sono invece indicati solo in maniera generica nel relativo catalogo21. Si tratta dunque di un’occasione davvero significativa per quella che è considerata la prima presentazione pubblica delle ceramiche, esposte accanto a manifatture del calibro di Castellamonte e Laveno. Non solo, ma la scelta degli architetti di grido cadde su alcune ceramiche Lenci per il decoro di un padiglione allestito come una vera e propria abitazione: si trattava della celebre «Casa degli architetti»22, progettata da Paolo Perona con gusto razionalista di respiro europeo per una famiglia di condizione agiata. Giacché si erano fatti «scomparire dagli ambienti» tutti gli oggetti che non si prestavano «a una succinta ed essenziale composizione architettonica», l’inserimento di due ceramiche Lenci rivelava un indubbio favore23. Il San Cristoforo di Grande (n. 25), decorato nella versione scura, troneggiava sulla sommità della vetrina angolare, recante una collezione di ceramiche di Ponti e di Andloviz, nel raffinatissimo salotto firmato da Levi Montalci42

ni, Pagano Pogatschnig e Pittini (fig. 2)24, mentre nell’ambiente definito Camera da letto del ragazzo, ideato da Melis, spiccava la Protezione modellata da Elena König Scavini (n. 48)25. La presentazione torinese lascia ipotizzare che una frenetica attività avesse caratterizzato i forni della ditta nel corso dell’inverno precedente, con una sequenza progettuale di modelli da scalare quantomeno al 1927. Il rinvenimento di una piastrella con soggetto floreale firmata sul retro da Vacchetti per Lenci e datata 1926, offre una prima cronologia della lunga fase di pura sperimentazione26. Del resto anche il disegno Due figure distese (cat. 135), espressamente finalizzato a un soprammobile in ceramica, firmato da Gigi Chessa e datato 1926, offre un utile termine cronologico della progettazione. La testimonianza della presenza, all’esposizione qui analizzata, delle due ceramiche sopra citate, contrassegnate rispettivamente dai numeri 25 e 48, e la pubblicazione, su «La casa bella» di luglio, dei due fermalibri Il russo e la russa, dotati dei numeri 101 e 10227, indica che entro l’estate del 1928 Lenci aveva già edito un centinaio di modelli. Probabilmente a una tale quantità, necessaria del resto per conferire una pubblica esemplificazione delle caratteristiche distintive della manifattura, era stata fatta corrispondere inizialmente una verifica di gradimento attraverso una tiratura limitata. Si ritiene dunque di individuare le primissime creazioni, sia quelle comparse all’esposizione torinese sia quelle realizzate per i più selezionati circuiti espositivo-commerciali, nelle ceramiche caratterizzate da una tiratura di venticinque e di cinquanta esemplari28. Ne è un esempio appropriato l’inedita Maternità di Ines Grande (fig. 3), nota solo tramite il primo di una tiratura di cinquanta esemplari e forse corrispondente a uno dei primissimi numeri di catalogo non documentati nell’archivio fotografico, come il 19, il 30 o il 4629. La rarità dunque è un indice estremamente valido per misurare la fortuna dell’oggetto sul mercato: dopo la «vetrina» torinese del 1928 e le varie mostre del 1929, molti tra i primi modelli editi con una tiratura limitata non entrarono in produzione. L’intuizione del favore o meno del pubblico, certo demandata al ruolo manageriale di Enrico Scavini30, poteva anche lasciare l’idea di un artista allo stato di abbozzo cartaceo, come il caso di Mario Sturani ha ampiamente dimostrato31. Del resto questo dato emerge dal diario della stessa König Scavini: Erano veramente dei bellissimi oggetti. Si fecero delle grandi mostre. Le critiche dei giornalisti erano più che soddisfacenti. Tutti ne parlavano ma si vendeva poco. [...] Si sarebbe dovuta fare una ceramica tipo la bambola Lenci: non il capolavoro d’arte, ma un oggetto piacevole che potesse stare in tutte le case32.

LE ESPOSIZIONI DEL 1929 La testimonianza di Elena König Scavini, che sottolinea il rapporto inversamente proporzionale tra giudizio positivo della critica e scarsa risposta da parte del mercato, si può considerare lo spartiacque tra la produzione estremamente intuitiva e artistica, tipica del biennio 1928-1929, e quella più incline all’oggetto «soprammobile», sviluppata soprattutto dal 1930. Tuttavia l’archivio fotografico dimostra, almeno per i primi duecento modelli e pur nelle svariate connotazioni conferite dai numerosi artisti, una certa unitarietà concettuale dei pezzi, ora estremamente ironici, 43

Fig. 2. Esposizione Nazionale per il IV centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria, Torino 1928, salotto della «Casa degli architetti». Foto d’epoca.


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ora più poetici, ma tutti molto raffinati nell’esecuzione e nell’uso degli smalti. Già l’importante esposizione svolta nel dicembre 1929, al termine di un anno denso di risultati, presso la Galleria Pesaro di Milano, fu concepita assecondando il più possibile il problema del fatturato. Nella prestigiosa galleria di Lino Pesaro, che occupava tre vasti saloni nel palazzo Poldi Pezzoli, vennero esposte 95 ceramiche, prelevando dal catalogo allora disponibile, che poteva quantomeno contare su 155 modelli33, le opere che fino ad allora avevano riscosso evidentemente maggior successo. Lo scopo rispondeva alla più ampia esemplificazione delle tipologie (figure, gruppi, vasi, lampade, piastre, piatti) e degli autori (sedici artisti rappresentati), tra i quali spiccavano, per la quantità di pezzi proposti, Mario Sturani e Giovanni Grande34. Non pare un caso che gruppi quali Pupazzo (n. 11) e Capotreno (n. 14) di Sturani, noti oggi solo con la tiratura e caratterizzati da una geniale e dirompente modernità creativa, non siano stati scelti per l’esposizione milanese, dove invece erano presenti le composizioni idilliache di Giovanni Grande, i «Nudi» di Gigi Chessa e le surreali invenzioni di Sturani, quelle però strettamente connesse alla trasformazione ludica di oggetti d’uso comune, come lampade, vasi e scatole. Un critico prestigioso, Ugo Ojetti, firmò il testo del catalogo dell’esposizione35, dimostrando, fin dagli esordi e con incredibile lungimiranza, che anche l’opera riproducibile attraverso l’apporto dell’industria poteva mantenere intatta la propria natura artistica, oltre al valore e, a volte, al carattere di rarità. Di fatto, dopo aver delineato le peculiarità di alcuni artisti e contestualizzato la ceramica Lenci nel clima di fervore innovativo prodotto grazie alle invenzioni precedenti - «ultimogenita della Lenci è la ceramica» -, Ojetti si soffermava sull’importante scelta di conferire estrema qualità tecnica agli impasti e alle vernici, elemento fondamentale per ottenere un impiego del tutto inedito della tavolozza cromatica e un riscontro favorevole sul gusto italiano36. Non mancarono contemporaneamente le recensioni: Raffaello Giolli, nelle Cronache Milanesi di «Emporium», lodava «la vastità e la perfezione di questa nuova produzione»37, Dino Bonardi, nelle pagine del «Corriere della Sera», offriva un’accurata cronaca dell’«armoniosa impressione» scaturita dalla visione d’insieme delle opere, tra le quali mostrava di apprezzare soprattutto quelle di Giovanni Grande. Quest’ultimo testo restituisce inoltre una suggestiva descrizione dell’«inscenatura semplice e caratteristica» che, con le ceramiche «dentro nicchie luminose che hanno il senso spaziale, sebbene limitato, di tanti piccoli palcoscenici», sembrerebbe davvero suggerire un possibile intervento progettuale di Mario Sturani38. Al di là di questi pur importanti segni di consenso, Enrico Scavini badava maggiormente al versante delle vendite: non è un caso che una lettera da lui indirizzata il 10 dicembre a Felice Tosalli riportasse il favore riscosso dalle sue invenzioni e la necessità di vedersi all’indomani «per parlare in merito a nuovi soggetti», giacché «da Londra domandano soprattutto animali in movimento»39. Anche Gio Ponti, nell’immediato della mostra milanese e poco prima della IV esposizione di Monza del 1930, rammentava il successo delle nuove ceramiche, «che hanno avuto una magnifica accoglienza sui mercati mondiali»40. In contemporanea con l’evento alla Galleria Pesaro, veniva realizzata, proprio a Londra, una grande mostra antologica presso la Callows Gallery, in Mount Street41. L’esposizione, pubblicizzata attraverso uno spazio a piena pagina illustrato con Mucca di Grande (n. 17) apparso nel numero di dicembre di «The Studio» (fig. 4)42, testimoniava la favorevole accoglienza riservata alle ceramiche da parte dei circuiti internazionali. Nell’articolo comparso a ottobre nella stessa imporFig. 3. Ines Grande, Maternità, 1928. Collezione privata.

tante rivista43 - la cui edizione italiana era curata e distribuita proprio dalla Galleria Pesaro -, venivano presentati «alcuni modelli di ceramiche facenti parte di una vasta collezione creata or ora dal famoso laboratorio Lenci». L’articolo, oltre a essere corredato dalle foto in bianco e nero di undici ceramiche, recava una bella tavola a colori raffigurante Marianna della König Scavini (n. 39, cat. 55) e Tobia di Sturani (n. 129, cat. 86)44. Dopo un tributo alla qualità delle forme e dei colori e alla «vitalità che diverte e attrae», si lodava l’abile compensazione tra il lungo lavoro dell’atelier e il prezzo di vendita45. Infine veniva ricordato l’acquisto «dei primi modelli» da parte del cosiddetto «Museo Nazionale di Nuova York» - dicitura in realtà errata46 -, oltre a essere annotata l’informazione, appresa «al momento di dare la rivista alla stampa», che le ceramiche «non sono state ancora messe sul mercato» - s’intende il mercato inglese -, e che «degli accordi si stanno stipulando per organizzare una mostra a Londra in questo autunno», ovvero presso la Callows Gallery47. Procedendo a ritroso nell’anno 1929, un’altra mostra, realizzata a Torino, possiede il carattere, peraltro mai posto in risalto fino a ora negli studi specifici, di assoluta priorità su quelle invernali e certo più vaste di Londra e Milano: il 28 marzo venivano presentati «alla folla aristocratica di dame e di artisti» i nuovi «fiori del fuoco», «signorilmente disposti [...] in questa raccolta saletta». Si trattava della Galleria Guglielmi in piazza Castello, in quel momento condotta da un certo Lombardi. Una suggestiva cronaca della vernice dovuta a Italo Mario Angeloni fornisce informazioni interessanti, al di là dell’impostazione spiccatamente retorica48. Dopo aver ricordato Fig. 4. Pagina pubblicitaria della mostra monografica alla Callows Gallery di Londra nel numero di «The Studio», dicembre 1929. la tenace impresa dovuta «a quella colta artista che è la signora Lenci-Scavini, al signor Scavini, a suo fratello, e a un valido gruppo di pittori e scultori torinesi», offriva una precisa presentazione degli artisti e con essa una testimonianza diretta del laboratorio. Rammentava inoltre l’estrema delicatezza dei passaggi esecutivi e la possibile comparsa, dopo la stesura della vernice e della seconda cottura, di innumerevoli incidenti che facevano insorgere il malcontento dell’artista, «il quale pretende che tutto lo stile del suo cartone su cui disegnò e colorì il tema venga reso dal fuoco». Poi la cronaca romanzata dell’apertura di un forno:

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Ed ecco la fosca porta ferrea lentamente si scosta, cigola, la grande bocca alitante la calura profonda e odorosa si spalanca; in pochi minuti una tra le più belle creazioni di questa Mostra viene in luce; posso accarezzare con mano desiosa la ceramica di gran formato: un San Cristoforo del pittore Grande!

Infine la conferma di ciò che in precedenza si è argomentato circa la cronologia: Non è un mistero, per quanti s’occupano degli studi di arte in Torino, che ormai da oltre due anni nella bottega robbiesca della Crocetta s’impiantano forni, si creano temi in plastilina, si preparano forme, si cola varietà di caolini e di silici.

Dunque se dalle esposizioni del 1929 risaliamo a ritroso alle lunghe fasi creative e alla complessa organizzazione, si giunge, grazie alla preziosa nota di Angeloni, non solo all’inizio del 1927, come si era supposto, ma forse addirittura alla fine del 1926.


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Tuttavia, per offrire un indice di progressione numerica dei modelli rispetto all’esposizione dell’estate precedente, le citazioni delle opere esposte49 sono troppo esigue e, tra l’altro, privilegiavano di gran lunga il tema religioso in omaggio al quotidiano cattolico su cui Angeloni stava scrivendo. Acquista un certo peso, in un contesto in cui il dibattito tra oggetto d’arte e sua riproducibilità era ancora vivo, il tentativo avviato con la mostra torinese di marzo - «quella d’oggi è una prima conquista» - di inserirsi a tutti gli effetti nella «ricerca del soprammobile nuovo» destinato agli alloggi moderni, a «deliziare le case del ricco» e «a varcare l’Atlantico»50.

LA RETE DI VENDITA E I CATALOGHI MERCEOLOGICI L’intero 1929 fu impiegato nell’operazione capillare di pubblico accreditamento sia sul versante critico sia su quello commerciale. Enrico Scavini, che fin dagli esordi di dieci anni prima risultava il titolare della ditta e il destinatario delle citazioni negli spazi pubblicitari, si occupava principalmente dell’aspetto manageriale. Definito da Gio Ponti un «esemplare creatore di industria d’arte»51, Scavini poteva contare su una serie di relazioni con i responsabili del commercio, create in parallelo ai canali già da tempo attivi per le bambole e per le altre forniture52. È probabile che nelle varie presentazioni pubbliche del 1929 fossero esposte anche le ceramiche con tiratura limitata, appositamente riservate per queste occasioni e dunque seguite, pressoché costantemente nella realizzazione, dai rispettivi artefici. Potevano essere destinate alla vendita, ma non devono confondersi con i prototipi che costituivano il campionario, utilizzato sia dai decoratori per riprodurre il decoro sia dalla ditta stessa nei rapporti con gli addetti ai lavori e i responsabili degli ordini nei negozi specializzati. Nel prezioso libro contabile del 1930, ad esempio, è elencato il campionario destinato a Parigi e costituito da 103 oggetti, descritti dal titolo e ordinati secondo il numero del modello53. I punti vendita specifici erano i due negozi di rappresentanza aperti a Milano, in galleria, nel 1923 e a Torino, in piazza Castello, nel 192554: riservati prima ai giocattoli e alle altre confezioni, poi utilizzati anche per le ceramiche, presentavano allestimenti specifici, curati in particolare da Mario Sturani55. A quest’ultimo, infatti, può essere attribuita l’ideazione dei mobili dotati di centine e modanature e degli svariati decori in legno policromo, tra cui il celebre altorilievo con la bambolina, ancora visibili nell’interno e sul fronte del negozio torinese di piazza Castello56. Lo stesso linguaggio compare poi in una sua bella serie di bozzetti progettuali per i negozi Lenci (cfr. catt. 157-158): due in particolare, databili alla fine degli anni trenta, mostrano un arredo riservato all’esposizione di ceramiche, altri due, firmati e datati 1939, rivelano una giocosa commistione di bambole e oggetti decorativi57. Intanto, la rete capillare di distribuzione, già da tempo impostata su scala mondiale58, lanciava anche sui mercati esteri le ceramiche, contrassegnate fin dall’inizio dal «Made in Italy». Ad esempio in Inghilterra, dove le ceramiche Lenci godettero di un grande successo, un certo Harry Burrows, titolare di una galleria a Manchester, era «the English Lenci agent»59. A Torino, oltre al negozio monomarca, il prestigioso spazio espositivo dell’atelier Sambucco, in via XX Settembre 46, era «esclusivista per Torino delle ceramiche Lenci»60. Altri negozi o locali, come la storica gioielleria Fecarotta di Catania, la Galleria Palladino di Cagliari e il Caffè Principe di Brescia, segnalati nelle pagine di «Domus» per gli allestimenti d’eccellenza, proponevano le ceramiche Lenci in sontuose vetrine o moderni spazi espositivi61. Questi stessi punti vendita si trovano elencati nel libro contabile sopra citato. L’importante documento è distinto in due parti: la prima dedicata ai singoli negozi o gallerie con la specifica delle ceramiche richieste e il quantitativo, la seconda ordinata per oggetto con l’elencazione del nome del negozio e della data di acquisto62. Ad esempio, la Galleria Pesaro, sulla scia della mostra del dicembre 1929, a gennaio 1930 commissionava un discreto quantitativo di opere, mentre, nei circuiti italiani, un ruolo egemonico per il numero di ordini era detenuto da Jannetti, con sede a Milano, Napoli, Firenze e Roma. In campo internazionale le spedizioni delle ceramiche, riportate nel libro contabile - che annota, per ciascuna città, il nome del negozio -, sono davvero capillari: Barcellona, Lisbona, Londra, Nizza, Parigi, Ginevra, Zurigo, Basilea, Vienna, Bucarest, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Montevideo, Boston, Dallas, New York, Cleveland. 46

I prezzi non erano certo popolari: nel luglio 1930 tre ceramiche comparse all’Esposizione di Monza, ossia Zibetto e gallo selvatico di Tosalli (n. 192, cat. 122), Trio vagabondo (n. 189) e Amanti sul tronco (n. 190, cat. 38) di Grande costavano rispettivamente 820, 590 e 485 lire63. Per la gestione degli ordini e la disponibilità dei modelli i cataloghi merceologici risultavano strumenti fondamentali (cfr. la voce «Cataloghi merceologici» nel Glossario tecnico) e vennero, di fatto, adottate le stesse caratteristiche che già distinguevano i cataloghi relativi alle bambole, questi ultimi per certi versi più curati nella struttura a libro e nella sequenza di foto applicate64. Purtroppo la rarità di questi strumenti e la recente dispersione dell’Archivio Lenci che li custodiva non ha permesso, eccetto che per pochi casi, di esaminarli direttamente. I primi tre cataloghi (A1, A2, A3), databili tra il 1928 e il 1929 e illustrati con poche immagini, possiedono piuttosto le caratteristiche di brochures pubblicitarie. Il catalogo B, concepito come un raccoglitore contenente una serie di tavole sciolte, possiede una finalità più catalografica da campionario per gli ordinativi ed è dotato di un’efficace copertina, dai colori vivaci, ideata da Mario Sturani, il cui versatile utilizzo in seno alla ditta era davvero notevole: una testa femminile, simile alle sue geniali Stagioni (nn. 256-259, catt. 105-112), sostiene con una mano una statuetta sullo sfondo di due vasi in silhouette65. Se quest’ultimo, che giunge a illustrare il modello 184, può datarsi entro la metà del 1930, i successivi, realizzati come contenitori a cartella con ceramiche della König Scavini in copertina (D1 e D2), possono collocarsi tra il 1933 e il 1935. Con l’aggiunta nel 1936 di alcuni nuovi fogli, che illustrano il vasellame presentato alla Triennale di Milano di quell’anno, i cataloghi mostrano tutta la produzione allora in vigore dell’azienda, con un effetto davvero eclettico per tipologia e per stile. Non compaiono le sculture eliminate per scarso consenso, mentre alle primissime ceramiche sperimentali, ancora in parte presenti ma con un decoro sempre più semplificato, si affiancava quella produzione di assestamento introdotta, soprattutto per opera della König Scavini, a partire dal 1931 e basata su ciò che il pubblico gradiva maggiormente. Vasi, lampade, animali, piastre, centri tavola, in perfetta coerenza con quanto narrato da Elena nel suo diario, ove rammentava come fossero richiesti i soggetti religiosi e, rievocando il successo riscosso dalla sua Nella seduta (n. 305), le trovate spiritose e le signorine alla moda66.

LE ESPOSIZIONI DEGLI ANNI TRENTA I tre anni che trascorsero tra l’ultima Biennale e la IV Esposizione Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali Moderne, inaugurata nel maggio 1930, videro una serie di radicali cambiamenti in seno all’organizzazione della mostra, dalla cadenza triennale all’aggiunta nel titolo dell’aggettivo «industriale», dalla decisione di trasferire per il futuro l’esposizione a Milano all’uscita di scena di Guido Marangoni sostituito da un «direttorio» composto da Gio Ponti, Alberto Alpago Novello e Mario Sironi67. Lenci, che aveva dal canto suo non poco rinnovato l’identità produttiva, comparve nella Galleria delle ceramiche occupando la sala 107, una delle dieci deputate a presentare «il fiore della produzione italiana», secondo il programma del «direttorio» impostato sulla «modernità di interpretazione, originalità di invenzione e perfezione di tecnica». Il catalogo ufficiale non elenca le opere esposte ma cita «produzioni di Lenci (Torino)»68: attraverso le svariate segnalazioni contenute nelle riviste è possibile stabilire, allo stato attuale delle ricerche, la presenza a quell’evento di una serie di ceramiche, alcune delle quali già esposte in altre sedi nel corso del 1929, finalizzate a illustrare globalmente l’attività della ditta69. Carlo A. Felice, che giudicava «la mostra delle ceramiche a Monza» fra «le più vaste e piene» e non risparmiava puntualizzazioni sulla tecnica e sul decoro, giungendo a criticare perfino i pezzi di Arturo Martini, riservava infine alle ceramiche della manifattura torinese - alcune «di grande serietà», altre «di carattere scherzoso, assai argute, distinte e attraenti» - un giudizio positivo, lanciando nel contempo un monito: «Un certo abuso del buffo, che alla fine ingenera noia, non si può [fare] a meno di notarlo nella saletta della casa torinese, e bisogna dirlo per il rispetto stesso e la simpatia con cui è da seguire questa sua nuova attività»70. Nel complesso il giudizio della critica fu favorevole, come indicano le varie visite virtuali alla mostra che pongono in risalto soprattutto l’aspetto caricaturale71. Tomaso Buzzi, cui spettava l’allestimento della Galleria delle ceramiche, esprimeva, attraverso un lungo articolo in «Dedalo», un giudizio calibrato a proposito delle opere Lenci: 47


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Alcuni pezzi hanno carattere ancora troppo illustrativo e aneddotico, e, per una parentela troppo stretta con le famose bambole, cercano ancora una loro ragione d’essere ceramica; altri invece, e sono i più, raggiungono un tono di migliore gusto ed equilibrio attraverso una maggiore aderenza allo spirito della materia, una colorazione più intonata, una tecnica più perfetta72.

Fin dagli esordi, Lenci occupa con una presenza importante le pagine delle due principali riviste italiane, «Domus» e «La casa bella», nate nel 192885. Attraverso una mirata comunicazione, acquistata sotto forma di spazio pubblicitario o meritata in sede redazionale, la manifattura torinese trasse notevole giovamento dalle due «bibbie» delle arti decorative, dirette rispet-

tivamente da Gio Ponti e Guido Marangoni e finalizzate all’esaltazione delle componenti dell’arredo come elementi costituitivi dell’abitazione moderna. Mentre lo spazio pubblicitario monomarca, costante in «La casa bella» dal maggio 1928, restava ancora connesso alla produzione delle bambole in feltro86, un redazionale comparso sul numero di luglio dello stesso anno e dedicato alla Rassegna del libro presentava per la prima volta, benché indirettamente, le nuove ceramiche, attraverso l’illustrazione di due fermalibri di Sturani (nn. 101-102)87. Nella stessa impostazione pubblicitaria venne poi inserita l’immagine di una bambola con la segnalazione della comparsa «nella Camera da letto per la signorina della Casa degli architetti» in occasione dell’Esposizione di Torino di quell’anno88. Questa réclame rimase immutata sulla rivista nel corso del 1929, rivelando l’esigenza di continuare comunque a promuovere il prodotto più tradizionale89. La favorevole accoglienza di Gio Ponti non tardò a manifestarsi attraverso un editoriale sul numero d’apertura del 1929 di «Domus», nel quale presentava le nuove edizioni e rilevava l’affinità con la «grazia divertente e acuta dei pupazzi di panno» e l’«ispirazione caratteristicamente torinese [...] tra il Gozzano e il Casorati»90. In aprile e in giugno anche «La casa bella» esaltava la nuova produzione, destinata, grazie al lavoro di un gruppo di artisti, «vittoriosamente affermato nel campo modernissimo dell’arredamento o dell’arte cosiddetta pura», a essere «lanciata coraggiosamente all’estero come Fig. 5. Pagina pubblicitaria Lenci in «Domus» e «La casa bella». avverrà quanto prima»91 e a divenire, secondo l’opinione dello stesso Marangoni, «un tipo ceramico di carattere schiettamente moderno»92. Di nuovo «Domus», nell’articolo a firma di Carlo A. Felice pubblicato sul numero di luglio, presentava Lenci nel contesto di una dissertazione sulla ceramica europea attraverso la riproduzione di Figura su scatola (n. 3) e Mucca (n. 17), caratterizzate entrambe dal «tono dello scherzo spiritoso [e da quella] garbata caricatura che rende deliziose le bambole celebri della stessa Manifattura»93. In quell’anno si assiste all’esordio in «Domus» di una mirata campagna di comunicazione merceologica veicolata da un elegante disegno in bianco e nero, sicuramente attribuibile a Sturani - che contemporaneamente era stato coinvolto, come si è visto, nella progettazione della copertina del catalogo merceologico -, raffigurante l’antro di un forno lambito da decorative lingue di fuoco e faville, su cui si stagliano la silhouette di una statuetta femminile e quella di un vaso, posti sui ripiani interni. La scritta inferiore designava il prodotto e la ditta, mentre quella superiore indicava l’allettante nobilitazione dell’oggetto ceramico: «I fiori del fuoco» (fig. 5)94. Se «La casa bella» inserì questa réclame nel corso del 193095, la rivista di Ponti invece predilesse, dopo la prima comparsa nel giugno 192996, una variante, dove l’immagine descritta veniva ridotta a logo, posto in basso a destra, e al centro campeggiava invece Marianna forgiata da Elena König Scavini (n. 39)97. In occasione della mostra alla Galleria Pesaro, «Domus» proponeva nel numero di dicembre 1929 Orco bottiglia (n. 70, cat. 78) di Mario Sturani98. La stessa rivista, fin dal numero di marzo dell’anno successivo, dedicato alla Triennale, annunciava la partecipazione monzese di Lenci, con una tavola a colori che presentava Gli sposi di Grande (n. 24, cat. 33), «una delle più belle fra le nuove ceramiche che Lenci ha con così vivo successo create»99. Un simile omaggio, posizionato strategicamente in frontespizio, venne ripetuto nel corso del 1930, in stretto rapporto con la Triennale: sul numero di aprile compariva la ciotola Danza sul ponte di Sturani (n. 162), oltre alla

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Più apertamente favorevole Ferdinando Reggioni, che sottolineava come Lenci «in pochi anni s’è conquistato anche qui gran fama e un posto di primo ordine, specie per le sue figurine»73. Nel 1932 l’articolo monografico scritto dall’eminente studioso di arti decorative Francis Watson, apparso sulla prestigiosa rivista «Apollo» e finora assolutamente trascurato, rappresenta un’importante consacrazione europea di Lenci sul piano propriamente critico e rivela ulteriormente, attraverso due esposizioni realizzate nello stesso anno, la fortuna delle opere goduta in terra inglese74. La galleria di Alexander Hassé a Leeds e quella a Manchester di Harry Burrows, che oltretutto - come accennato sopra - era l’agente Lenci in Inghilterra, avevano ospitato le coloratissime ceramiche e avevano diffuso con le vendite l’intera collezione in tutto il paese. I quotidiani locali segnalarono queste esposizioni, come testimonia ad esempio il «Manchester Guardian» a proposito della mostra presso la Salon Gallery di Manchester dal 14 al 26 marzo75. Particolarmente graditi gli animali di Tosalli, le figure femminili di Elena König Scavini, le scene pastorali di Grande e le creazioni di Sturani76. Probabilmente erano presenti alle due esibizioni anche le opere che illustravano l’articolo, ossia Mucca di Grande (n. 17), Marianna (n. 39, cat. 55), Rassegnazione (n. 366) e Nella seduta (n. 305) della König Scavini, Cerbiatti (n. 203), Caracal (n. 123, cat. 118), Barbagianni ed ermellino (n. 127, cat. 120) e Anatra (n. 128) di Tosalli77. Fu questo tra gli ultimi episodi di un percorso breve ma intenso, caratterizzato da quel vigore artistico schietto e vivace tipico di un esordio: se da un lato la popolarità capillare, l’imposizione internazionale e il plauso del Regime furono indubbiamente garantiti78, dall’altro gli effetti della recessione del 1929 e una gestione interna a volte azzardata provocarono prima l’ingresso di soci nella proprietà (nel 1933, causando la mancata partecipazione della manifattura alla Triennale di Milano) e poi la totale cessione a questi ultimi del marchio e della fabbrica (1937)79. Contestualmente molti artisti lasciarono la ditta per dar vita ad autonome manifatture, fra le quali Le Bertetti (1932), Essevi (1934) e Ars Pulcra (1935). Elena König Scavini continuerà a restare nell’azienda fino al 1942: a lei si deve la creazione, in quegli anni, di moltissimi modelli, realizzati con i nuovi criteri di semplificazione formale e tecnica, soprattutto nel processo di decorazione a smaltatura opaca, utili per snellire la confezione finale e contenere l’aspetto economico. Grazie al suo desiderio di costante rinnovamento, fu possibile la partecipazione alla VI Triennale di Milano del 1936 dove, dopo una strenua sperimentazione e un viaggio nell’Europa dell’Est in cerca di un’azienda fornitrice di smalti, la König Scavini presentò una serie di coppe e vasi molto particolari con «screziature simili a quelle dei vasi antichi trovati sepolti nelle tombe»80. A questa nuova produzione plaude Roberto Papini, rivelando anzi un’intolleranza verso le precedenti proposte81. E il bel vaso che fa parte delle collezioni del Museo di Arti Applicate di Milano, firmato «Signora Lenci» e datato 1936, fu acquistato dal Comune di Milano proprio in questa occasione82. Lenci compare poi nella selezione di ceramiche italiane pubblicate su «Domus» in un dossier sullo stato delle arti applicate in vista dell’Esposizione Internazionale di Parigi del 193783: nonostante la consapevolezza che la ripresa di Lenci stesse avvenendo «sotto l’impulso di una passione tenace e d’un ingegno che non si vogliono lasciar vincere», in realtà la manifattura non partecipò a quell’evento, probabilmente per il definitivo assorbimento da parte della nuova proprietà. Ultima comparsa pubblica si può considerare la mostra, curata da Pietro Chiesa e sostenuta da tre ministeri e dalla Triennale, svolta a Buenos Aires nel 1938: Lenci, che si annovera tra i pochi protagonisti italiani, tra cui Richard-Ginori, Laveno, Melandri e Zaccagnini, è segnalata in «Domus» tramite l’illustrazione di una brocca e un piatto appartenenti alla serie delle recenti creazioni della König Scavini84.

REDAZIONALI E RÉCLAME


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pubblicazione all’interno di «due nuovi deliziosi esemplari inediti di Lenci, l’uno di sapore arcaico (Vaso, n. 169/D), l’altro pieno di grazia fiabesca (Primo bacio, n. 188)»100, mentre sul numero di settembre figurava Cerbiatti di Tosalli (n. 203), «una delle più deliziose ceramiche edite da Lenci»101. Sempre sul numero di aprile Gio Ponti segnalava che l’«esemplare creatore di industria d’arte, il Lenci (ossia il milanese-torinese Scavini)», andrà a vivacizzare l’apposita sezione a Monza «con le ceramiche delle quali si è già avuto un saggio nelle recenti mostre della Galleria Pesaro in Milano, che hanno avuto una magnifica accoglienza sui mercati mondiali»102. «La casa bella», nello stesso mese, dedicava un entusiastico omaggio alle opere Lenci presenti alla Triennale, «segno di perfezione e bellezza non facilmente raggiungibile» sebbene ottenute in pochi anni di lavoro103: benché, con l’arrivo di Edoardo Persico in redazione, le manifatture venissero particolarmente selezionate, Lenci continuerà, insieme a Richard-Ginori, il suo corso divulgativo104. La gara tra le due riviste prosegue con «Domus», che pubblica sia un lungo editoriale a firma di Gio Ponti sulla presenza di «Lenci nella Galleria delle ceramiche»105 sia proposte di acquisti ai lettori in occasione del Natale106. Le esposizioni del biennio 1929-1930 fornirono dunque un valido supporto di notorietà e diffusione grazie all’interesse mostrato dalla critica e veicolato dalle due importanti riviste, anche attraverso il programma pubblicitario pianificato. Negli anni successivi le comparse di Lenci saranno ridimensionate. «Domus» nei numeri di novembre e dicembre 1931 distribuiva su doppia pagina, con una composizione a mosaico, una serie delle «belle, modernissime ceramiche di Lenci» come proposta per regali natalizi, in prevalenza vasi, scatole e piastre a soggetto mariano (fig. 6)107. «La casa bella» rispondeva, nel numero di novembre, con un redazionale improntato a stabilire la caratterizzazione italiana dei prodotti ceramici di Lenci, «oramai celebri e ricercatissimi, che possono ornare, come quelli danesi o tedeschi, un ambiente attuale». In particolare veniva approfondito il concetto di inserimento dell’oggetto Lenci nel contesto dell’arredo moderno, giacché «la grazia della Monella conviene ottimamente a un salottino per signora, dove metterà una nota gaia e seducente con il guizzo rosso del berretto e la linea birichina» (n. 305), mentre «i due Frati suonatori porteranno invece, in uno studio o in una camera da pranzo, il sentimento di una lirica un po’ gioconda e un po’ malinconica» (n. 204)108. Identico il taglio della pagina inserita nel numero successivo della rivista, illustrata con Scatola Venezia (n. 333, cat. 14) di Sturani, che «starà ugualmente bene su di un tavolo di cristallo o sul piano lucido e preciso di un mobile dei nostri giorni», e con Primavera (n. 338) della König Scavini, che «metterà negli interni d’oggi una nota molto seducente e poetica»109. Per la maggior parte dei numeri del 1932, «La casa bella» accoglieva una nuova pagina pubblicitaria, impostata sulla speculare ripartizione di sei immagini di ceramiche, in prevalenza gli animali di Tosalli, accostate tra loro «al vivo» e suddivise al centro da una banda nera verticale recante, in bianco, la scritta «Ceramiche Lenci» (fig. 7)110. Nello stesso anno Lenci comparve in «Domus» solo tramite un redazionale di novembre, sempre impostato nella forma dei «consigli natalizi»111. Di simile tenore i redazionali degli anni successivi, nei quali l’oggetto ceramico è presentato in maniera sintetica112. La ceramica Lenci trovava poi una reale e accattivante ambientazione in una serie di servizi, presenti in gran numero su Fig. 6. Pagina pubblicitaria Lenci in «Domus», dicembre 1931.

entrambe le riviste nel corso degli anni trenta, finalizzati a illustrare gli interni moderni, a firma di svariati architetti: una sorta di efficace pubblicità indiretta, dunque, che consentiva di contestualizzare l’oggetto ceramico in ambientazioni domestiche alto borghesi, stimolando l’effetto glamour113. Tra i più significativi, nel settore degli spazi ufficiali, si può ricordare la presentazione del magnifico «posto pubblico telefonico che la STIPEL ha inaugurato sotto i portici di Piazza Castello», ove nel rigore delle linee e nella lussuosa essenzialità dell’arredo, spiccano Dichiarazione d’amore (n. 154, cat. 43) e Polluce (n. 133, cat. 29) di Giovanni Grande114. In occasione del ritorno della ditta alla Triennale milanese nel 1936, «Domus» rinnovava l’attenzione nei confronti della manifattura, sottolineando la nuova «gamma dei rossi e dei verdi» applicata a coppe, piatti e vasi115: a questa produzione è dedicata anche la copertina del numero natalizio dello stesso anno116. Inoltre la rivista non mancò di menzionare Lenci, come si è già ricordato, per l’ultima uscita pubblica nella mostra di Buenos Aires del 1938. Dunque Lenci, nel boom degli esordi, fu sostenuta non poco da firme prestigiose e da riviste di importanza internazionale: oltre a «Domus» e «La casa bella», «Le arti plastiche», «Emporium», «Dedalo» e perfino le anglosassoni «The Studio» e «Apollo». A queste si possono aggiungere anche le due interessanti comparse su «Rassegna della istruzione artistica» del febbraio 1932 e in «La ceramica» del giugno 1940, che Fig. 7. Pagina pubblicitaria Lenci in «La casa bella», 1932. non hanno finora goduto di attenzione. La prima è un articolo firmato da Lucio Ridenti che plaudeva, nel periodo ancora di fervore artistico, alla totale specificità di un progetto svolto con coerenza in fedeltà a «uno stile che fosse niente altro che lo stile Lenci»117, la seconda, di natura redazionale, rinnovava nostalgicamente il ricordo di un successo ormai consolidato118. In quel tempo tuttavia le ceramiche Lenci, pur avendo raggiunto una capillarità davvero popolare, avevano da tempo cessato di veicolare quella geniale sperimentazione dovuta all’iniziale gruppo di artisti riuniti intorno a Elena König Scavini, per avviarsi, sotto l’egida del fatturato, verso una lunga fase di riedizioni e di elaborati che non dettavano, ma subivano, il gusto dell’epoca.

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1 Questo studio è una sintesi di un lavoro monografico in corso di preparazione (Lenci 1928-1938. Ceramiche alle pubbliche esposizioni). Si ringrazia di cuore Valerio Terraroli, curatore del presente volume, per aver permesso di anticipare in questa sede alcuni risultati. Ai titoli delle ceramiche seguono tra parentesi le indicazioni del numero del modello come in A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Catalogo generale dell’archivio storico della manifattura, Allemandi, Torino 1992; i numeri preceduti da «cat.» indicano il riferimento alle schede del presente catalogo. Si ringraziano Paolo Arduino, Silvia Barisione, Ezio e Nadia Benappi, Lorena Cascino, Walter Ceresa, Stefania Cretella, Manuela Ferro, Matteo Fochessati, Gianni Franzone, Maria Flora Giubilei, Giuliana Godio, Angela Griseri, Carlo Milano, Matteo

Moretti, Caterina Olcese Spingardi, Elio Pinottini, Monica Porcile, Marie Luce Repetto, Anili Scavini, Gelsomina Spione, Tommaso Tofanetti, Paola Treves, Ferruccio e Michele Vaccarino. 2 M. TOSA, Bambole Lenci, Idealibri, Milano 1989; S. REINELT, Lenci. Decorative and Extravagant - Magic Realm of Lenci Dolls, Wohlfarth Verlag Puppen & Spielzeug, Duisburg 1990; M. GIORGI e H. SOMALVICO, Le bambole Lenci. Le bambole di stoffa italiane, Idealibri, Foligno 2003; Nei panni di una bambola. Le Lenci della collezione di Grazia Caiani, catalogo della mostra a cura di G. Raimondi (Roma, Sala polifunzionale Santa Rita, 14 dicembre 2007 - 15 febbraio 2008), Palombi, Roma 2007. 3 C. TURINA, Ars Lenci, in «Le arti decorative», marzo 1925, p. 28: «Molte bambole


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dell’Ars Lenci cessano di essere dei giocattoli e diventano dei sopramobili». Cfr. anche C. A. FELICE, Giocattoli, in «Lidel», agosto 1923, p. 34; V. PICCINI, Ambienti artistici milanesi, in «La casa bella», marzo 1928, n. 3, p. 38. 4 Ad esempio l’Ars Alma di Cremona, per cui si veda Le nostre industrie d’arte all’estero, in «La casa bella», dicembre 1928, n. 12, p. 69. 5 A. PICA, Storia della Triennale 1918-1957, Il Milione, Milano 1957; A. PANSERA, Storia e cronaca della Triennale, Longanesi, Milano 1978; ID., Monza 1923-1930. Dalle arti decorative al design. La lunga marcia verso il progetto, in 1923-1930. Monza, verso l’unità delle arti. Oggetti d’eccezione dalle Esposizioni internazionali di arti decorative, catalogo della mostra a cura di A. Pansera e M. Chirico (Monza, Arengario, 14 marzo - 9 maggio 2004), Silvana, Cinisello Balsamo 2004, pp. 16-20. 6 Lenci era, inoltre, presente con specifici spazi espositivi: Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1923), 1a ed., Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma 1923, p. 91; Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1923), 2a ed., Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma 1923, p. 82; G. MARANGONI, La I Mostra Internazionale delle Arti Decorative nella Villa Reale di Monza. Notizie, rilievi, risultati, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo s.d. (1923), p. 16; Seconda Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1925), 1a ed., Alpes e F. de Rio, Milano 1925, p. 83 (nella seconda edizione del catalogo la ditta non comparve perché in realtà non riuscì a partecipare all’evento a causa dell’impegno parigino); Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1927), Ceschina, Milano 1927, p. 38; G. MARANGONI, La III Mostra Internazionale delle Arti Decorative. Notizie, rilievi, risultati, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo s.d. (1927), p. 41. Cfr. A. PANSERA, Da Biennale a Triennale. Percorsi, presenze, premi, in 1923-1930. Monza cit., pp. 5054, 60. 7 L’Italie a l’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, Parigi 1925, tavole s.n.; L’Italia alla Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne Parigi MCMXXV, Roma 1925, tav. XXXV. Cfr. inoltre R. BOSSAGLIA, Il Déco italiano. Fisionomia dello stile 1925 in Italia, Rizzoli, Milano 1975, pp. 66-67, fig. 91. 8 Su questa tematica si è già soffermata Silvana Pettenati per il caso di Sturani: cfr. S. PETTENATI, Le ceramiche: dal progetto all’oggetto, in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M. M. Lamberti, Allemandi, Torino 1990, p. 92. Qui, tra i numerosi esempi, si citano la trasformazione nella piastra Le pecore (n. 116) dell’altorilievo in legno elaborato da Chessa per una testiera da letto (Ancora l’ambiente dei bambini, in «La casa bella», maggio 1928, n. 5, p. 46) e la ripresa da parte di Giovanni Ronzan di una bambola ideata da Chessa, Contessa Maffei (n. 165U), per dar vita a Damina con ombrellino (n. 85). 9 Per questi artisti si vedano A. PANSERA, Il «caso» Lenci, in «Faenza», 1985, n. 4-6, p. 331; F. SOTTOMANO, Teonesto Deabate. Artista totale, pittore della leggerezza. La vita, l’opera, la critica, in Teonesto Deabate 1898-1981. Per una modernità senza avanguardia, catalogo della mostra a cura di P. Mantovani, R. Bellini e M. Ferrero (Cherasco, Palazzo Salmatoris, 25 giugno - 17 luglio 2005), Torino 2005, pp. 77-103; Incanti, figure e luoghi di Sandro Vacchetti, catalogo della mostra a cura di A. Abrate (Carrù, chiesa di San Sebastiano, 13-28 settembre 2008), Carrù 2008, pp. 9-24; M. G. GARGIULO, Essevi. Autoritratto d’artista, Fioranna, Napoli 2008. 10 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola e altre creazioni, Il Quadrante, Torino 1990, p. 100: «Per la nostra fabbrica non ci voleva l’arte pura! Ci voleva la trovata spiritosa, l’oggetto che potesse entrare in tutte le case». 11 Ibid., p. 102. 12 A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 331; U. OJETTI, Mostra delle ceramiche di Lenci, catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro, dicembre 1929), Galleria Pesaro, Milano 1929, p. 25. 13 A. PANZETTA, Felice Tosalli, 1883-1958, Allemandi, Torino 1990, p. 29. 14 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., p. 102. 15 Per l’immagine ufficiale dello stand si veda G. MARANGONI, La III Mostra cit., tav. I; R. PAPINI, Le arti a Monza nel 1927. Gli stranieri, in «Emporium», agosto 1927, n. 392, pp. 71-86, tav. s.n.; L’ambiente del bimbo, in «La casa bella», aprile 1928, n. 4, p. 12. Cfr. inoltre 1923-1930 cit., Cd-rom, cartella 1927, file 1927_041CD, 1927_042CD. 16 Per un raro esempio di scatola in legno, decorata da Gigi Chessa, si veda Le capitali d’Italia. 1911-1946. Torino-Roma. Arti produzione spettacolo, catalogo della mostra a cura di M. Vescovo e N. Vespignani (Torino, Palazzo Bricherasio, Stupinigi, Palazzina di Caccia, 4 dicembre 1997 - 22 marzo 1998), Electa, Milano 1997, p. 352. 17 Cfr. ad esempio Protezione di Elena König Scavini (n. 48). 18 V. GARUZZO, Torino 1928. L’architettura all’Esposizione Nazionale Italiana, Testo & Immagine, Torino 2002, p. 20, a cui si rimanda anche per una trattazione globale dell’evento.

A. PARINI, La mostra piemontese dell’artigianato, in «La casa bella», novembre 1928, n. 11, p. 40. Per la partecipazione della Lenci all’esposizione del 1928 si vedano A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 332; A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., pp. 13-14. 20 A. PARINI, La mostra piemontese cit., p. 40. Per il padiglione dei ceramisti e vetrai disegnato da Deabate si vedano I padiglioni dell’artigianato alla fiera di Torino, in «La casa bella», giugno 1928, n. 6, p. 31 (con un errore nella didascalia); R. PAPINI, Epistola al lettore incognito, in 7 padiglioni d’esposizione Torino 1928, Buratti, Torino 1930, pp. 1-4; V. GARUZZO, Torino 1928 cit., p. 61. 21 Esposizione. IV centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria, catalogo della mostra (Torino, Parco del Valentino), Torino 1928, p. 368 (Sezione Padiglione delle ceramiche e dei vetrai: Ditta Lenci - Torino - Ceramiche). 22 Ibid., p. 400 («Casa degli architetti»: Lenci di E. Scavini, Torino - Oggetti artistici). 23 P. MARCONI, Commento all’Esposizione di Torino 1928, in «Architettura e Arti decorative», 1928-1929, n. 1, p. 179. Cfr. inoltre M. ROSCI, Arte applicata arredamento design, in Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo industriale e capitalismo, Progetto, Torino 1976, pp. 77-78; M. ROSCI, Le arti decorative e industriali, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra a cura di G. Bertolo (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, marzogiugno 1978), Ages Arti Grafiche, Torino 1978, p. 184. 24 Per l’immagine ufficiale dell’ambiente si vedano La «Casa degli architetti» all’Esposizione di Torino, in «Domus», settembre 1928, numero speciale dedicato alla «Casa degli architetti» nell’Esposizione di Torino, pp. 32-33; P. MARCONI, Commento cit., pp. 172173; Il mobile moderno in Italia, in «Domus», dicembre 1929, numero speciale dedicato al Mobile moderno in Italia 1929, p. 47. Cfr. inoltre M. ROSCI, Arte applicata arredamento design cit., tav. s.n. 25 Per l’immagine ufficiale dell’ambiente si veda P. MARCONI, Commento cit., p. 174. Nel salotto compariva inoltre un cuscino con il disegno che dava vita, pressoché contemporaneamente, al gruppo Amanti sul fiore di Mario Sturani (n. 6), per cui si veda La «Casa degli architetti» cit., p. 20. Cfr. inoltre S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 92. 26 Cfr. il saggio di Valerio Terraroli in questo catalogo. 27 Rassegna del libro bello, in «La casa bella», luglio 1928, n. 7, p. 45. 28 Non è quindi vero che «Lenci non segnerà mai la tiratura, inibita da una visione artigianale», come si legge in A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 331 nota 54. Anzi, anche le ceramiche che recano una datazione, almeno fino al 1930-1931, possiedono un numero stampigliato relativo alla numerazione progressiva degli esemplari prodotti. Per questa notizia tecnica, qui per la prima volta messa in risalto, si veda la voce «Iscrizioni e timbri» nel Glossario tecnico. 29 Collezione privata, h 20 x 16,5 x 10,8 cm, marcata «Lenci /ITALY / 1/50» e firmata a pennello in verde «seni». 30 A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 331. 31 S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 92. Cfr. E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., p. 100: «Gli artisti creavano tanti bei bozzetti, disegni, quadri, ma poche erano le cose originali commerciabili, di facile vendita». 32 Ibid., pp. 102-103. 33 Come si può dedurre dal numero di modello più alto esposto, ossia Idillio veneziano di Giovanni Grande: n. 155. Per questa mostra si vedano A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., pp. 332-333; S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 92; A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., pp. 15-16. 34 Cfr. Ibid., pp. 35-36 nota 38, per la trascrizione del raro pieghevole con l’elenco delle opere esposte. 35 U. OJETTI, Mostra delle ceramiche di Lenci cit., pp. 7-28. Il testo dello studioso era illustrato con quattordici tavole, tratte probabilmente dai primi cataloghi merceologici della ditta. 36 Facendosi portavoce del gusto italiano, il critico mostrava di non apprezzare le asperità delle ceramiche della Wiener Werkstätte, alle quali per certi versi accostava le Lenci, tranne che per la qualità raffinata e fine della materia e degli smalti: «Certe ruvide bizzarie non sono pel nostro pubblico, che presto se ne stancherebbe» (ibid., p. 28). Non a caso tralascia giudizi nei confronti dei nudi di Chessa, espressamente ispirati, sia nei soggetti che nella lavorazione, alla manifattura viennese (cfr. cat. 13). 37 R. GIOLLI, Cronache milanesi, in «Emporium», gennaio 1930, n. 421, p. 54. 38 D. BONARDI, Maioliche e stoffe d’arte, in «Corriere della Sera», dicembre 1929. Il testo è trascritto in L. PROVERBIO, Lenci: le ceramiche 1919-1937, Tipostampa, Torino 1979, pp. VIII-IX. Cfr. inoltre, come ci segnala Stefania Cretella, la recensione Ceramiche di Lenci e stoffe di Ravasi, in «Corriere della Sera», 12 dicembre 1929, p. 3. 39 A. PANZETTA, Felice Tosalli cit., p. 29. 40 G. PONTI, La vicina IV Esposizione Internazionale d’Arte decorativa alla Villa Reale di Monza, in «Domus», marzo 1930, n. 27, p. 14.

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41 Restano ancora poche, purtroppo, le notizie relative a questa esposizione, di cui non è stato possibile rinvenire l’eventuale catalogo. Si vedano inoltre A. PANSERA, Il «caso» Lenci, p. 332; A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., pp. 15-16. 42 Lenci Ceramics, in «The Studio», 1929, n. 441 (dicembre), tav. VII. Per la moderna riproduzione dell’immagine si vedano L. PROVERBIO, Lenci cit., p. 4; G. RAIMONDI, La ceramica degli artisti tra bottega e industria, in Le capitali d’Italia. 1911-1946. Torino-Roma. Arti produzione spettacolo, catalogo della mostra a cura di M. Vescovo e N. Vespignani (Torino, Palazzo Bricherasio, Stupinigi, Palazzina di Caccia, 4 dicembre 1997 - 22 marzo 1998), Electa, Milano 1997, p. 121; M. G. GARGIULO, I racconti della Lenci, Fioranna, Napoli 2008, p. 20. 43 Modern Italian ceramics. Some examples from the Lenci Studios, in «The Studio», ottobre 1929, n. 439, vol. 98, pp. 719-723. 44 Accanto a Madonna di Vacchetti (n. 120) e ai vasi Uccello (n. 75) e Ballerina (probabilmente identificabile con il modello n. 97) di Sturani compaiono anche Lumaca (n. 27, attribuita nella didascalia della rivista a Elena König Scavini), Regime secco (n. 4), Bombardiere (n. 78), Ragazzo sull’elefante (n. 12), i due fermalibri Il russo e la russa (nn. 101102), i due portacenere Maschera Arlecchino (n. 10) e Pierrot (n. 9). 45 La citazione è tratta dal resumè posto in apertura della rivista. 46 Questa notizia è sempre stata riportata dalla critica, anche moderna, senza una concreta verifica. In realtà si è potuto constatare solo l’inattendibilità dell’informazione: non risultano ceramiche Lenci né presso il Metropolitan Museum (come comunicato, grazie alla mediazione di Paola D’Agostino, da Jane Adlin curatore del dipartimento Nineteenth-Century, Modern and Contemporary Art), né presso il Brooklyn Museum (come confermato da Barry R. Harwood, curatore della sezione Decorative Arts), né presso il Cooper-Hewitt (come precisato da Sarah D. Coffin, direttore del dipartimento Product Design and Decorative Arts). Questi ultimi due musei in particolare avrebbero potuto corrispondere all’arcaica dicitura di «Museo Nazionale». In ogni caso il successo riscontrato dalle ceramiche Lenci in America è testimoniato dalle parole della moglie di Sturani utilizzate in una lettera scritta al padre nel 1936: «Resteranno per lo meno le sue ceramiche, che vanno più che mai in America, dove due giornali di New York ne hanno pubblicato delle foto. Con grandi parole di ammirazione e di lode» (cfr. M. M. LAMBERTI, La rigorosa indisciplina di Mario Sturani, in Mario Sturani 1906-1978 cit., p. 36). 47 È probabile che alla mostra londinese siano stati esposti alcuni progetti grafici delle ceramiche, come ha ipotizzato Silvana Pettenati (S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 135) che ha avuto modo di visionare svariati fogli di Sturani ancora dotati di un imballo di spedizione da Londra a Torino. 48 I. M. ANGELONI, I fiori del fuoco. Per una nobile Mostra d’Arte a Torino, in «Il Momento», 28 marzo 1929, n. 75, p. 4, anche per le citazioni successive. 49 Le opere citate da Angeloni (ibid.) sono le seguenti, qui disposte in ordine progressivo: Zampognaro (n. 5) di Giuseppe Porcheddu; La siesta (n. 15) di Ines Grande; San Cristoforo (n. 25) e Don Chisciotte (n. 33) di Giovanni Grande; Frate violinista (n. 38) di Lino Berzoini; Dama Paonessa (n. 44) di Sandro Vacchetti; Protezione (n. 48) di Elena König Scavini; Angelus (n. 52) di Ines Grande; Hawaiana (n. 55) di Teonesto Deabate; Sposi (n. 79) di Giuseppe Porcheddu; Piastrella - San Francesco (n. 110) di Giovanni Grande. 50 Ibid. 51 G. PONTI, La vicina IV Esposizione cit., p. 14. 52 C. TURINA, Ars Lenci cit., p. 25. 53 Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D52 (cm 32 x 21). Nella sequenza che costituisce questo elenco molti oggetti sono tralasciati e, dal numero 1 (Trionfo di Bacco), si arriva al numero 139 (Damina seduta con due colombe) per un totale di 103 ceramiche. Non a caso vennero eliminate le ceramiche che non riscossero particolare consenso, come Zampognaro (n. 5), Pupazzo (n. 11), Capotreno (n. 14). È comunque possibile che questo campionario fosse stato radunato per lo scopo non precisato di essere condotto ed esibito a Parigi e riproducesse in maniera integrale il vero e proprio campionario ufficiale. 54 Il negozio torinese è ricordato come già attivo nel già citato articolo di Turina del 1925 (C. TURINA, Ars Lenci cit., p. 25). Anili Scavini, figlia di Elena ed Enrico, ricorda e conferma l’apertura in quell’anno. Cfr. inoltre A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 327; G. RAIMONDI, La ceramica degli artisti cit., p. 123. 55 L’attuale aspetto del negozio torinese sembra lontano da come poteva presentarsi dopo il primo intervento di Sandro Vacchetti (L. CASTAGNO, Mario Sturani e il disegno dei mobili, in Mario Sturani 1906-1978 cit., p. 165). In ogni caso Sturani, che collaborò con gli Scavini dal 1926 circa, rinnovò l’arredo nel corso degli anni trenta. 56 Lo storico negozio torinese, in piazza Castello 33, ospita oggi creazioni di moda. I mobili del negozio possono riconoscersi in quelli delineati in un bozzetto di Sturani (Ibid., p. 147, fig. 198). 57 Ibid., pp. 145-146, figg. 193-196.

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C. TURINA, Ars Lenci cit., p. 25; A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 327. Anili Scavini ricorda negozi che avevano l’esclusiva della produzione Lenci a Roma, Parigi, Londra, Monaco, Buenos Aires, Los Angeles e New York. 59 F. WATSON, Modern Italian ceramics. The Lenci school, Turin, in «Apollo», maggio 1932, n. 89, p. 210. Per la questione cfr. infra. 60 «La casa bella», gennaio 1930, n. 25, p. 67. Probabilmente erano destinate a questi negozi le targhe in ceramica da esposizione recanti la scritta «Ceramiche / Lenci / Torino», di cui un esemplare è comparso all’incanto (Finarte, Roma, asta n. 730, 27 marzo 1990, lotto n. 146). 61 Cfr. L. PICCINATO, Un moderno negozio a Catania dell’arch. Alfio Fallica, in «Domus», novembre 1931, n. 47, pp. 53-54; Interni di ambienti pubblici moderni, in «Domus», maggio 1932, n. 53, p. 269. 62 La seconda parte inizia con il modello n. 162 (Ciotola - Danza sul ponte). Ogni pagina è dedicata a un singolo oggetto con l’indicazione del titolo, del numero di modello e, a volte, di un veloce schizzo a matita dell’oggetto stesso. Segue l’elenco degli ordinativi, con la specifica della quantità, del nome del negozio, del luogo e della data nella formula giorno, mese, anno. Vengono progressivamente segnate le vendite in un periodo sempre compreso tra febbraio e dicembre 1930. Nel Fondo Lenci presso l’Archivio Storico della Città è poi conservato un secondo registro (D55) con l’indicazione delle vendite dal 31 maggio al 31 dicembre 1933 e poi dal 1o gennaio al 30 giugno del 1934. 63 G. PONTI, Alla Triennale di Monza. Lenci nella Galleria delle ceramiche, in «Domus», luglio 1930, n. 31, p. 42. 64 Una prima interessante analisi di questi bellissimi cataloghi si trova in M. TOSA, Bambole Lenci, Idealibri, Milano 1989, pp. 39-54. 65 Cfr. Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936, catalogo della mostra a cura di M. M. Lamberti (Torino, Galleria Martano, aprile-maggio 1978), Torino 1978, tav. s.n.; Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti, catalogo della mostra a cura del Centro Internazionale di Brera (Milano, chiesa di San Carpoforo, aprile 1983), Sugarco, Milano 1983, copertina. 66 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., pp. 104-105: «Ho venduto la Nella a migliaia. Andava in tutte le camere delle signorine (...). La Nella aveva salvato la ceramica». Cfr. inoltre A. PANSERA, Il «caso» Lenci cit., p. 334. 67 A. PANSERA, Da Biennale a Triennale cit., pp. 65-66. 68 Catalogo ufficiale della IV Esposizione Triennale Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali Moderne, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1930), Ceschina, Milano 1930, p. 211. Inoltre la ditta compariva nella Galleria dei decoratori con una vetrina «Ars Lenci per i ricami, le bambole ecc.» (ibid., p. 164). 69 Una verifica presso l’archivio fotografico della Triennale, mirata a rinvenire materiale iconografico sulla sala 107, non ha dato esito positivo. Tra le opere esposte a Monza vi erano certamente le seguenti, come si evince dai redazionali e dagli articoli sulle riviste: Le due sorelle (n. 82) di Gigi Chessa; Dichiarazione d’amore (n. 154) di Giovanni Grande; Sposina (n. 160) di Elena König Scavini; Vaso (n. 169/g) e Maschera con lampada elettrica (n. 176) di Mario Sturani; Trio vagabondo (n. 189) e Amanti sul tronco (n. 190) di Giovanni Grande; Zibetto e gallo selvatico (n. 192) di Felice Tosalli; Scatola Tobiolo (n. 198) e Scatola Addio (n. 199) di Giovanni Grande; Ciotola Quattro cavalieri (n. 200) di Mario Sturani; Cerbiatti (n. 203) di Felice Tosalli; I due usignoli (n. 205) di Elena König Scavini. Cfr. T. BUZZI, Le ceramiche italiane all’Esposizione di Monza, in «Dedalo», settembre 1930, pp. 250-252; C. A. FELICE, Arte decorativa 1930 all’esposizione di Monza, Ceschina, Milano 1930, tav. 66; G. PONTI, Alla Triennale di Monza cit., pp. 42-43. 70 C. A. FELICE, Arte decorativa cit., p. 36. 71 Cfr. ad esempio E. SERRETTA, Una giornata alla triennale di Monza, in «L’Illustrazione Italiana», 22 giugno 1930, n. 25, p. 1106; R. PAPINI, La IV Triennale d’Arti Decorative a Monza. II. Le sezioni italiane, in «Emporium», novembre 1930, n. 432, p. 273. 72 T. BUZZI, Le ceramiche italiane cit., p. 252. 73 F. REGGIONI, La Triennale di Monza. IV Mostra Internazionale delle Arti Decorative, in «Architettura e Arti Decorative», luglio 1930, fasc. IX, pp. 508-509. 74 F. WATSON, Modern Italian ceramics cit., pp. 210-216. 75 Salon Gallery. Modern Ceramics by Lenci, in «Manchester Guardian», 19 marzo 1932. 76 Di Sturani si ricordava la presenza a Manchester di Tobia (n. 129) e del vaso decorato con «the figure of Mr. Pickwick» (n. 174), specificatamente realizzato «for the English market» (F. WATSON, Modern Italian ceramics cit., p. 216). Quest’ultimo è attribuito invece a Vacchetti da Panzetta (A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 146, nn. 200201), il quale pubblica due foto relative a parti decorative dello stesso vaso, ritenendole testimonianza di due oggetti diversi. 77 Rassegnazione (n. 366) veniva nominata St. Theresa e illustrata addirittura in due varianti decorative, per cui cfr. ibid. pp. 175-176, nn. 407-408.

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E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., pp. 110-111: «Il Duce parecchie volte, nelle esposizioni d’arte, o in occasione della Biennale a Milano, mi aveva stretto la mano: Le sue bambole sono veramente belle! E spassose le sue ceramiche! Brava, brava!». 79 Ibid., pp. 105, 111-113; A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., pp. 21-22. 80 E. KÖNIG SCAVINI, Una bambola cit., pp. 106, 111. La ditta espose nella Galleria delle arti decorative e industriali dell’esposizione milanese «vasi ceramici» e «in mezzo alla galleria [...], la grande vetrina Lenci con numerosi pezzi di ceramica» (Guida alla VI Triennale, a cura di A. Pica, Edizioni della Triennale, Milano 1936, p. 135). Una verifica presso l’archivio fotografico della Triennale mirata a rinvenire materiale iconografico sulla vetrina Lenci non ha dato esito positivo. 81 R. PAPINI, Le arti a Milano nel 1936, in «Emporium», agosto 1936, n. 104, pp. 65-78. Sul gusto del critico cfr. C. PEZZANO, Il primato delle arti decorative nell’azione critica di Roberto Papini, in «DecArt», 2008, n. 9, pp. 45-48. 82 Museo d’Arti Applicate. Le ceramiche, Tomo terzo, a cura di R. Ausenda, Electa, Milano 2002, p. 143, n. 200. A questa produzione Carlo A. Felice riserva alcune illustrazioni nel suo rendiconto sulla Triennale (C. A. FELICE, Arte decorativa cit., pp. 56-57). 83 La battaglia di Parigi, in «Domus», ottobre 1936, n. 106, p. 20. 84 L’Italia a Buenos Aires, ivi, dicembre 1938, n. 132, p. 4 85 Per approfondimenti sulla storia delle due riviste e dei rapporti con le arti minori si vedano M. ROSCI, Arte applicata arredamento design cit., p. 75; G. COSI e R. FIORINI, Ceramica e riviste italiane dal 1895 al 1930, Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza 1984, pp. 175-196; P. FRANCESCHINI, La ceramica italiana attraverso le riviste e le esposizioni, in V. TERRAROLI, Ceramica italiana d’autore 1900-1950, Skira, Milano 2007, pp. 225-227; C. BAGLIONE, Casabella 1928-2008, Electa, Milano 2008, pp. 13-23. 86 «La casa bella», maggio 1928, n. 5, p. 5; ivi, giugno 1928, n. 6, p. 3; ivi, luglio 1928, n. 7, p. 3; ivi, agosto 1928, n. 8, p. 1; ivi, settembre 1928, n. 9, p. 1; ivi, novembre 1928, n. 11, p. 1. 87 Rassegna del libro bello cit., p. 45. 88 «La casa bella», ottobre 1928, n. 10, p. 3; ivi, dicembre 1928, n. 12, p. 3. 89 Ivi, febbraio 1929, n. 2, p. 3; ivi, maggio 1929, n. 5, p. 2. 90 G. PONTI, Due generi di ceramiche d’arte, in «Domus», II, gennaio 1929, n. 13, p. 44. 91 Le ceramiche di Lenci, in «La casa bella», aprile 1929, n. 4, pp. 29-32. 92 G. MARANGONI, La nuova ceramica, in «La casa bella», giugno 1929, n. 6, pp. 24-28. 93 C. A. FELICE, Alcune ceramiche danesi, italiane, russe e tedesche, in «Domus», luglio 1929, n. 19, p. 31. 94 Si veda anche G. COSI e R. FIORINI, Ceramica e riviste cit., p. 182. 95 «La casa bella», gennaio 1930, n. 25, p. 4; ivi, febbraio 1930, n. 26, p. 4; ivi, aprile 1930, n. 28, p. 80; ivi, maggio 1930, n. 29, p. 77; ivi, giugno 1930, n. 30, p. 70; ivi, luglio 1930, n. 31, p. 70. 96 «Domus», giugno 1929, n. 6, p. 5. 97 Ivi, agosto 1929, n. 8, p. 3; ivi, settembre 1929, n. 9, p. 51; ivi, ottobre 1929, n. 10, p. 63; ivi, novembre 1929, n. 11, p. 4; ivi, numero speciale di Natale 1929, p. 8. 98 L’orco bottiglia, ivi, dicembre 1929, n. 12, p. 9. 99 G. PONTI, I giovani sposi di strapaese, ivi, marzo 1930, n. 27, p. 37. 100 Ceramiche Lenci, ivi, aprile 1930, n. 28, p. 13; Lenci, ivi, p. 47. 101 Alla Triennale di Monza, ivi, settembre 1930, n. 33, p. 13. 102 G. PONTI, La biennale di Monza, in «Le arti plastiche», aprile 1930, p. 2; ID., La vicina IV Esposizione Internazionale d’Arte decorativa alla Villa Reale di Monza, ivi, marzo 1930, n. 27, p. 14.

A Monza, fra breve, in «La casa bella», aprile 1930, n. 28, pp. 47-48. P. FRANCESCHINI, La ceramica cit., p. 227. 105 G. PONTI, Alla Triennale di Monza cit., pp. 42-43. 106 Tre ceramiche di Lenci, in «Domus», dicembre 1930, p. 50. 107 Lenci per Natale, ivi, novembre 1931, pp. 74-75; Al soccorso dei lettori, ivi, dicembre 1931, pp. 80-81. Per l’elenco delle opere che compaiono nei due spazi pubblicitari cfr. A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 36 note 57 e 59. 108 Ceramiche Lenci, in «La casa bella», novembre 1931, n. 47, pp. 49-51. 109 Una ceramica ed un cofanetto, ivi, dicembre 1931, n. 48, p. 47. 110 Ceramiche Lenci, ivi, gennaio 1932, n. 49, p. 1; ivi, febbraio 1932, n. 50, p. 3; ivi, marzo 1932, n. 51, p. 8; ivi, aprile 1932, n. 52, p. 3; ivi, maggio 1932, n. 53, p. 3; ivi, giugno 1932, n. 54, p. 3; ivi, settembre 1932, n. 57, p. 5; ivi, ottobre 1932, n. 58, p. 3; ivi, novembre 1932, n. 59, p. 3. 111 Ceramiche, in «Domus», novembre 1932, n. 59, pp. 672-673. 112 «La casa bella», aprile 1932, n. 52, p. 45; «Domus», agosto 1935, n. 92, p. 36; Immagini sacre, ivi, novembre 1935, n. 95, p. 27. 113 Sfogliando «Domus» si notano le seguenti ceramiche collocate come soprammobile: Primo romanzo (n. 388) di Elena König Scavini (Carattere di arredamenti d’oggi, ivi, gennaio 1933, n. 62, p. 28); Torso con mela (n. 81) di Gigi Chessa (ivi, ottobre 1933, n. 70, pp. 540-541); Piastra Madonna dei colombi (n. 232) di Giovanni Grande (ivi, febbraio 1934, n. 74, p. 39); Madonna (n. 421) di Giovanni Grande (ivi, dicembre 1935, n. 96, p. 22). Invece nelle pagine di «La casa bella» si trovano: Piastra San Cristoforo (n. 112) di Giovanni Grande (G. LEVI MONTALCINI, La camera da letto, in «La casa bella», maggio 1929, n. 5, p. 25); Donna con cactus (n. 153) di Giulio da Milano, alla Triennale del 1930 (LEADER, Arredamento a Monza, ivi, giugno 1930, n. 30, p. 28); Idillio veneziano (n. 155) di Giovanni Grande (LEADER, Gino Maggioni arredatore, ivi, dicembre 1931, n. 48, p. 43); Portapenna fumatore (n. 209) e La zitella e il pappagallo (n. 218) di Mario Sturani (ID., Un cottage nel canavese, ivi, settembre 1931, n. 45, pp. 25 e 27); Tanagra (n. 121) della König Scavini (E. PERSICO, Paulucci arredatore, ivi, maggio 1931, n. 41, p. 21); Nuda con lenzuolo (n. 156) di Gigi Chessa e Scatola con scoiattolo (n. 365/A) di Felice Tosalli (La casa [dell’arch. Pagano-Pogatsching - Milano], ivi, marzo 1932, n. 51, pp. 23 e 26); Nella seduta (n. 305) della König Scavini (ivi, agosto 1932, n. 56, p. 25). Inoltre l’impiego di ceramiche Lenci avveniva anche negli spazi pubblicitari di altre ditte: la Liporesi e figli di Bologna, specializzata in arredamenti, colloca Nella seduta (n. 305) sopra un mobile (ivi, 1933, n. 3, p. 3), mentre la Gatti Teresio pubblicizza i propri arredi collocando Barbagianni ed ermellino (n. 127) di Tosalli al centro di un tavolo. 114 Un locale pubblico moderno a Torino, ivi, ottobre 1930, n. 34, pp. 16-21. 115 Alcune ceramiche di Lenci alla VI Triennale, in «Domus», giugno 1936, n. 102, pp. 40-41. 116 Ivi, dicembre 1936, n. 108. All’interno cfr. Utili regali per Natale che vi consigliamo, ivi, dicembre 1936, n. 108, p. 38. 117 L. RIDENTI, Le ceramiche di Lenci, in «Rassegna della istruzione artistica», febbraio 1932, p. 11. Opere illustrate: Bottiglia con figure romantiche (n. 248), Scatola portacipria Aerostati (n. 241), Portatalco con figurine romantiche (n. 242), Scatola portacipria Bambino (n. 240) di Sturani; I due usignoli (n. 205) della König Scavini; Frati coristi (n. 204) di Berzoini; Vaso Colline (n. 194), Vaso Paesaggio (n. 169/H) e Fioriera (cfr. S. PETTENATI, Le ceramiche cit., p. 110, n. 131) di Sturani; Madonna del giglio (n. 233), Don Chisciotte (n. 33), Mucca (n. 17) e Amanti sul tronco (n. 190) di Grande. 118 Lo stile Lenci, in «La ceramica», giugno 1940, pp. 208-210. Opere illustrate: Cerbiatti (n. 203) di Tosalli, Il destino (n. 790) e Madonna dell’amore (n. 775) della König Scavini. 104

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Lenci e gli oggetti d’uso ELENA DELLAPIANA

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l favore, quasi l’entusiasmo, con cui le bambole, gli abiti bamboleggianti e i mobiletti da bambola firmati Lenci vengono accolti in seno alle prime edizioni della Biennale Internazionale delle Arti Decorative di Monza può stupire, visto che il programma della mostra si propone di riportare «ogni progresso, ogni conquista dell’arte industriale e applicata italiana e straniera, verso uno scopo superiore di moderna stilizzazione e di ardito rinnovamento»1. Come può stupire che alla Prima Biennale la sezione piemontese comprenda la Sala delle bambole, allestita da Gigi Chessa, con bambole, abiti per bambini, cappelli, ricami, mobili, tutti della ditta Lenci, che impiegava per il disegno e la modellazione dei prodotti pittori come Giuseppe Porcheddu e i fratelli Sandro e Emilio Vacchetti2. Il successo di critica, oltre a quello strepitoso commerciale e di pubblico, risponde in realtà a quanto Guido Marangoni, tenace e testardo ideatore delle esposizioni alla Villa Reale di Monza, di stretta fede crociana, aveva in mente, non potendo ovviamente pretendere che l’«ardito rinnovamento» arrivasse tutto d’un colpo. La presentazione di merci delle più diverse provenienze, offerte al pubblico in ambienti ricostruiti, mescolando mobili con oggetti, e, appunto, bambole e abiti, e comunicando in maniera esplicita il progettista e l’allestitore di oggetti e ambienti, oltre alla ditta produttrice, avrebbe dovuto insinuare il sospetto, o meglio l’abitudine, di pensare gli oggetti di uso quotidiano come frutto della sequenza progetto-produzione-commercializzazione-uso. E questo doveva valere per tutti gli oggetti, persino per le bambole fatte in casa con stracci e stoppie, presenti nei ricordi di ogni bambina, o nobilitate da visi di bisquit e capelli veri. Bambole, sedie o piatti, nell’ambizioso programma di Marangoni, che nel 1925 inizia a pubblicare l’Enciclopedia delle moderne arti decorative per l’editore Ceschina di Milano, con l’intenzione di dare testimonianza che «le arti decorative italiane hanno da un decennio iniziato un confortante periodo di risveglio»3, sono - devono essere - frutto di progetto, e dunque devono essere collocabili nella gloriosa scia della tradizione artistica italiana, dei Della Robbia, dei Cellini, dei Maggiolini, ma anche delle manifatture tradizionali che punteggiano il paese, da Capodimonte a Gemona. D’altra parte nel 1923, anno della I Biennale, per il settore della ceramica, avevano fatto il loro ingresso, con il ruolo di direttori artistici, Gio Ponti alla Richard-Ginori, Guido Andloviz alla SCI (Società Ceramica Italiana) di Laveno, Teonesto Deabate e Gino Rossi alla Galvani di Pordenone4. Marangoni evidenzia positivamente proprio questo passaggio, pur non apprezzando le soluzioni formali di Ponti e Andloviz, troppo legate a parer suo al gusto «neoclassico» viennese. Tra la I e la III Biennale, al successo dei complementi Lenci si affianca il ruolo sempre più preponderante della produzione ceramica che pare proporsi come ideale campo di sperimentazione del trasferimento di linguaggi «alti», quelli dove l’impulso alla stilizzazione è più sensibile, ai linguaggi delle arti decorative e applicate. Non stupisce questa volta, dunque, che la ditta Lenci abbia inaugurato anche un settore di produzione ceramica nel proprio ricco catalogo, avendo trovato il suo successo nell’ambiente dinamico della Torino che si andava industrializzando, non solo nel campo automobilistico, ma anche in quello alimentare (conserviero e dolciario), tessile e dell’intrattenimento, e che tendeva a promuovere l’incontro tra l’industria e l’ambiente degli intellettuali-artisti5. Le vendite di Richard-Ginori e delle altre aziende, le scuole di Faenza e le piccole manifatture di tutta Italia ottengono buone quotazioni in occasione delle prime Biennali, in particolare la manifattura che aveva Ponti al suo timone6 è uno dei pochi espositori che non si lamentano degli affari a Monza. Se dunque il «trasferimento» dalle bambole alle ceramiche è il primo naturale passo che la Lenci compie per il suo ingresso in quella porzione di mercato che si stava facendo molto interessante, da subito coloro che sono chiamati a contribuire al passaggio si rendono conto che di sole statuine non si può vivere. A fianco di Elena König Scavini, la «mamma» delle bambole in panno, il marito Enrico chiama personaggi che già avevano 55


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avuto a che fare con una ceramica di tipo industriale, come Teonesto Deabate, reduce da Pordenone, dove si stava compiendo un processo di straordinario interesse: il trasferimento, letteralmente inteso, delle grafiche futuriste su piatti, vasi e oggetti d’uso, con tecniche sempre più industrializzate, dalla matita grassa all’aerografo7. Gigi Chessa, già autore di grafiche e progetti per Lenci, si stava misurando con l’«opera totale» sulle rive del Po8. Con lui altri pittori, oggi molto più noti, non disdegnavano affatto di dedicarsi al progetto, magari per le proprie abitazioni o quelle di amici, di mobili, tappeti, piccoli oggetti d’arredo, insieme ai cicli decorativi per i luoghi del mecenatismo di Riccardo Gualino. Artisti come Casorati, Paolucci, Chessa, Deabate, con il contributo di pochi architetti patentati come Sartoris, venivano regolarmente pubblicati nelle pagine di «Emporium», de «La casa bella» o di «Architettura e Arti Decorative», tanto con i propri dipinti quanto con gli arredi e gli ambienti9. In questo senso, anche la presenza, fortissima, in Lenci di Mario Sturani, fino a oggi interpretata quasi come un ripiego della sua attività di artista10, anche in virtù dei pareri, affettuosi ma non del tutto positivi, provenienti dalla cerchia di amici «dazeglini»11, assume un altro significato. La sua provenienza dall’Università delle Arti Decorative di Monza, creatura di Marangoni come le Biennali12, frequentata tra il 1924 e il 1927, è l’ovvia premessa alla sua successiva attività, sia come pittore, sia come progettista di ceramiche e, perché no, come Fig. 1. Mario Sturani, disegno per il Vaso Paesaggio. poeta e scrittore. L’idea di Marangoni - mostre, scuole, terriCollezione privata. torio - porta, in chiave idealista, alle estreme conseguenze il progetto ancora tutto ottocentesco, del gruppo di Camillo Boito, per un «sistema delle arti» come linguaggio diffuso per la «giovane Italia», privo delle tradizionali cesure tra arti «alte» e applicate, reso disponibile a tutti mediante una capillare azione pedagogica a partire dalla scuola primaria13. Per questo, nonostante successivamente la critica e il collezionismo si siano occupati di più degli aspetti artistici, scultorei e delle piccole serie artigianali - le bambole in porcellana - della produzione Lenci, queste premesse invitano a considerare un’altra porzione della produzione: quella degli oggetti d’uso, dove, se non si può parlare forse ancora di design, la serie, i numeri, l’interscambiabilità dei decori e la realizzazione in chiave semi-industriale gettano a loro volta le premesse della cultura dell’abitare moderna. In questo senso ci può aiutare una lettura un po’ pedante dei cataloghi Lenci, fin dalla prima comparsa della ceramica, all’Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1928, insieme agli architetti della cerchia di Venturi - come volevasi dimostrare all’interno della «Casa degli architetti», allestita da Pagano e Levi Montalcini, oltre che nei padiglioni dei ceramisti e vetrai e in quello dedicato a ceramica e miniere, che vedono ancora gli interventi rispettivamente di Deabate e di Pagano e Perona14. Il primo evento più «strutturato» è la mostra monografica ospitata nel 1929 alla Galleria Pesaro di Milano, luogo privilegiato per l’incontro tra arte di ricerca e ceramica15. In questa occasione tra i 95 pezzi esposti16 23 sono riferiti a oggetti d’uso, scatole, vasi e ciotole. Anche il volumetto pubblicato da Ugo Ojetti in forma di catalogo17, include tra i 14 pezzi fotografati, quattro oggetti, tre vasi e un candeliere-portalampada, tutti a firma di Sturani. Ovviamente il critico giornalista, sodale di Papini, non

si spende per registrare, quantomeno, la consistente presenza di prodotti Lenci che non ripropongano «il cordiale e riconoscibile carattere»18 delle bambole in panno, ma accentua piuttosto il legame che sembra instaurarsi tra le statuine Lenci, eseguite magistralmente pur mantenendo il carattere di multipli - unica caratteristica che Ojetti concede alla modernità - e la tradizione artistica italiana. Il conservatorismo tipico della sua posizione sottolinea la «maliziosa ingenuità» dei nudini della signora Lenci, a scapito delle intemperanze un po’ futuriste e un po’ pontiane di Mario Sturani (figg. 1 e 2). Tuttavia, se le vendite in occasione della mostra milanese non sono per nulla soddisfacenti19, l’anno seguente la contabilità della ditta ci dice che vengono venduti, prevalentemente all’estero, tra grandi magazzini e privati, ben 622 pezzi d’uso, vasi e ciotole, a prezzi piuttosto consistenti, come erano d’altra parte quelli di Richard-Ginori. Tenuto conto che un catalogo probabilmente risalente alla prima metà del 193020, su 182 oggetti ne include solo 21 d’uso (posacenere, vasi, ciotole, candelieri, lampade e una coppa), la produzione, seppure di certo notevolmente implementata nel semestre successivo, e le conseguenti vendite di pezzi con una destinazione pratica, risulta decisamente molto rilevante. Il grande successo commerciale di questo settore della produzione Lenci si deve soprattutto a Mario Sturani: i best seller dell’anno sono il vaso Colombe (n. 169), venduto in 46 esemplari, e il vaso Fiori (n. 172), in ben 83 pezzi: entrambi di li- Fig. 2. Mario Sturani, disegno per il Vaso Paesaggio. nea molto semplice, a bocca larga e piccolo piedistallo, si pre- Collezione privata. stano a decori diversi e vengono acquistati in diverse varianti; ma un orientamento simile si riscontra anche per soggetti più connotati: la Ciotola - Danza sul ponte (n. 162, cat. 96), viene venduta, prevalentemente fuori d’Italia, in 43 pezzi. Sembrerebbe dunque che sia Sturani, fin dagli esordi della ceramica Lenci, a decidere, o assecondare, un indirizzo che si stava diffondendo in Italia in quegli anni. I suoi primi contributi tra gli oggetti con destinazione pratica, posacenere e un vaso (rispettivamente nn. 9, 10 e 20 del catalogo Lenci), appartenenti alla primissima serie, insieme ai personaggi e le figurette ancora di Sturani, di Grande, della König Scavini, di Porcheddu e Berzoini, rimandano a maschere della commedia dell’arte nei posacenere e a maschere veneziane colorate e deformate nel vaso. Difficile non riandare al lavoro di costumista svolto da Sturani con la squadra Lenci per la messa in scena della terza puntata della saga del Signor Bonaventura di Tofano21, alla tendenza macchiettistica e caricaturista tipica della cultura italiana, e specialmente di quella piemontese, nonché a Golia e ad altri illustratori cui Sturani si unirà nei lavori per le case editrici, in particolare quelle per l’infanzia. Diversamente, i modelli subito successivi, dei primi mesi del 1929, presentati poi alla Galleria Pesaro, affiancano all’elaborazione plastica del materiale ceramico, l’orientamento principale della Lenci in quel momento, l’uso di superfici più semplici che si trasformano in fondali per interventi grafici, geometrici o figurativi. Anche in questo caso, si può ipotizzare che la naturale inclinazione di Sturani per la pittura (il mestiere che voleva fare da grande!) abbia subito uno stimolo, una spinta, dall’incontro con i ceramisti futuristi, presenti a Torino nel 1928, anno della nascita della produzione di ceramiche futuriste, e nella mostra tenutasi alla galleria di Milano prima della Lenci. Il gruppo intorno a Tullio d’Albisola, al di là delle intemperanze tardo avanguardistiche e

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dei «vasi motorati», aveva centrato un punto che avrebbe trasformato il volto della ceramica per l’oggetto d’uso, di quella lunga sequenza temporale e formale che caratterizza ciotole, piatti e contenitori: la ceramica poteva essere utilizzata come un foglio, come una tela, da ricoprire e incrostare delle grida e della gamma cromatica tipiche del secondo Futurismo. In questo senso si stavano muovendo le ceramiche Galvani di Pordenone, dove un passaggio di Giacomo Balla nel 192922 lascia in eredità alla manifattura una serie di disegni con tratto futurista molto «accademico», una composizione pittorica compresa nella cornice dei margini del piatto. Per quanto riguarda i pezzi che riuniscono la funzione pratica al cuore deFig. 3. Ines Grande, Damina con ventaglio e Mario Sturani, Vaso Tre colombe corativo dei gruppi plastici, ad esempio la serie delle ciotole e Vaso Arcobaleno, dal catalogo Lenci dell’inizio degli anni trenta. (Il ponte / Contadini danzanti n. 117 [cat. 95], Danza sul ponte n. 162 [cat. 96] e Acrobati n. 175 [cat. 98]), si può andare a cercare un riferimento, oltre che nella già citata pratica grafica e caricaturale, proprio nel settore ceramico e, in particolare, nella produzione dell’autore che fu indubbiamente il vero termine di paragone per chiunque si avvicinasse alla combinazione fra terra e fuoco: si pensi alle eteree figure che popolano le Ciste, le Urne e i piatti di Gio Ponti23 che escono dalle due dimensioni animandosi e rinunciando alla ieraticità Fig. 4. Lampade di Mario Sturani, dal catalogo Lenci che le ancora alle superfici levigate, ma mantenendo la sneldella metà degli anni trenta. lezza tipica della stilizzazione pontiana, come egli stesso ave24 va fatto nella bomboniera Balletto del 1927 . Sturani, pur rimanendo legato alla propria cerchia di amici e sodali e alla frequentazione della pratica pittorica, ha, in realtà, più relazioni con la produzione ceramica coeva di quanto non possa apparire: forse non un pittore prestato alla ceramica, ma un ceramista o, meglio, un progettista di oggetti in ceramica a tutti gli effetti. Nel 1928 inizia anche la collaborazione di Corrado Cagli e dello scultore Di Giacomo con la manifattura Rometti di Umbertide25, nata, in uno dei distretti di più antica tradizione, con il programma di «novare» la produzione: i grandi vasi, i piatti da pompa umbri, anfore e bacili vengono rivestiti dell’estetica futurista, ancora in chiave grafica e caricaturale, combinata con il classicismo dei plasticatori e degli autori dei grandi cicli decorativi, che siano affreschi, bassorilievi, terrecotte o ceramiche, appunto26. Il 1928, anno della comparsa di Lenci e di Sturani sul palcoscenico della ceramica, sembra essere dunque cruciale per le mutazioni degli orientamenti di altre aziende: per quelle collocate in aree a forte tradizione artigianale, come il distretto umbro, gli oggetti di comune produzione si rivestono dei nuovi linguaggi, mentre per quelle a recente vocazione industriale, come il Nord-Est, la semplificazione formale tipica del moderno è utile a rinnovare il mercato con la possibilità di utilizzare tecniche seriali (aerografo, matite grasse, spolvero) per la produzione di oggetti per la casa. Dal punto di vista delle scelte sugli oggetti d’uso Lenci si colloca a metà tra Pordenone e Umbertide, già a partire proprio dall’anno «cruciale». È opportuno forse ancora ricordare che a Torino nel 1928, oltre agli episodi delle esposizioni, si inaugura il palazzo Gualino27, frutto della collaborazione tra Pagano, ancora a Torino e pure direttore tecnico dell’Esposizione Nazionale28, e Levi Montalcini: la comparsa del palazzo non è gradita dal pubblico dei torinesi conservatori che lo battezza subito «Le Nëuve del Valentin»29, ma sollecita, grazie alla cassa di risonanza delle riviste di architettura, il dibattito sull’abitazione e sul ruolo del progettista. Gli ambienti del palazzo sono tutti frutto della riflessione progettuale degli architetti, inclusi i mobili, per la cui

produzione si avviano collaborazioni con aziende specializzate nel trattamento del tubolare metallico, aprendo, di fatto, il tema del disegno industriale applicato all’arredo. Proseguendo nell’opera di ricucitura di rapporti e sodalizi, Pagano e Levi Montalcini appartengono anch’essi al gruppo di intellettuali e artisti torinesi evocati da Bobbio30; in comune con Sturani, compaiono con certezza i nomi di Massimo Mila, Italo Cremona, Arturo Martini e altri31. Si può, dunque, affermare che Sturani - e con lui la Lenci -, a partire dal 1928, anno pregno di entusiasmi e ancora relativamente lontano da più fosche prospettive, appartenesse alla cerchia degli intellettuali-artisti e fosse pienamente calato nelle vicende del dibattito sull’architettura, che aveva nella casa il suo snodo centrale32. Così, la presenza, più massiccia di quanto non si sia finora detto, di oggetti d’uso nella produzione Lenci appare pienamente attribuibile a ragioni culturali, oltre che commerciali e formali, che permettono di considerare i prodotti non solo decorativi come una tappa completamente inserita nella temperie di quei giorni, ivi comprese le biennali e le riviste di architettura. Nella rivista «La casa bella», i complementi decorativi in ceramica tornano finalmente a popolare anche le case moderne secondo lo stile «semplice e chiaro» dell’oggi33, ma via via che viene pubblicata, nella produzione Lenci prende gradualmente il sopravvento la sezione dei vasi e degli oggetti d’uso; in particolare è «Domus», non a caso diretta da Ponti, in quella fase soprattutto disegnatore di ceramiche (non più solo di ceramiche di lusso per la manifattura di Doccia, ma delle versioni borghesi prodotte a San Cristoforo e Mondovì34), che pubblica, per le feste natalizie del 1931, lunghe serie di oggetti firmati Lenci, prevalentemente dovuti a Sturani, in misura minore a Chessa e in grande maggioranza con una destinazione d’uso non meramente decorativa35. Molti sono i vasi presentati in diverse varianti di decoro, come il solito Fiori, n. 172, ma molti sono anche quelli che combinano la funzione con le figurine tipiche di Lenci, dai vasi per piante grasse affiancate da un suonatore o una suonatrice (nn. 287 e 288), alle ciotole attraversate da gruppi di figurine stilizzate e allegre (n. 117, 162, 180 tutti presenti in mostra) (fig. 3). Anche negli articoli che raccontano le esposizioni di Monza si può verificare una simile tendenza36, con Sturani assoluto protagonista sia come «nome», sia come portatore di innovazioni formali, sia, infine, come veicolo per gli oggetti d’uso. La pubblicità indiretta svolta dalle riviste o direttamente commissionata da Lenci sulle stesse testate ottiene buoni risultati anche nell’annus horribilis 1933, quando gli ordini delle bambole sono ormai precipitati, la situazione ha richiesto l’ingresso dei Garella in Lenci37 e la ceramica mantiene la ditta in relativa salute. Ancora dai registri contabili38 risultano vendite discrete. E vasi, ciotole e reggilibri sono più numerosi di figurette e madonne. Anche dopo il 1933, la ricerca, soprattutto di Sturani, che ormai è stabilmente direttore artistico di Lenci, prosegue nella direzione di riunificare le due tendenze, plastica e grafica, assecondate nei primi anni. Alla metà degli anni trenta risalgono le

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Fig. 5. Mario Sturani, Disegno per servizio da caffè Musica. Collezione privata.


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lampade (inv. nn. 480 A-B-C e 481) (fig. 4) che rinunciano a essere sculture figurate luminose per divenire solidi, panciuti o puntuti, combinati tra loro, ancora suscettibili di decori diversi, quasi optical, decisamente in linea con la direzione imboccata dagli architetti modernisti e con un curiosa premonizione della lampada Eclisse (1967) che Magistretti disegnerà negli anni d’oro del «Good Design» italiano. O ancora, negli anni della guerra, i servizi di tazzine e da liquore Musica (inv. n. 1130) (figg. 5 e 6), pensati come forme troncoconiche, risultato di fogli di carta pentagrammata arrotolati a definire tanto il contenitore quanto l’impugnatura. La linea di ricerca di Sturani, anche negli ultimi difficili anni della produzione, evidenzia l’atteggiamento non tanto di un pittore prestato alla ceramica, quanto di un artigiano che ha assunto l’habitus mentale del progettista, nel senso più specifico del termine, che si andava definendo come vero e proprio design, risentendo consapevolmente delle tendenze contemporanee: l’esperienza di Vallauris39 del cenacolo ceramico intorno ai grandi artisti dell’astrattismo conduce, più che a un ritorno alla pittura, a una reinterpretazione del materiale in chiave plastica, sfruttando le tecniche di produzione del colaggio e della coloritura a immersione e avvicinando i suoi ultimi lavori agli oggetti «di fantasia» (che cosa era Lenci se non questo?), che Antonia Campi stava mettendo in produzione con modalità industriali a Laveno40. Fig. 6. Mario Sturani, Servizio da caffè Musica, schede di vendita della ditta Autorialità e produzione, serie, mercato, arte di ricerca, palLenci, Archivio Storico della Città di Torino, Fondo Lenci. coscenici del dibattito sul «moderno» sono stati tutti ingredienti della fase della produzione Lenci tra il 1928 e il 1936. Accanto alle sculturette, accolte come un ingresso dell’arte nella casa moderna, nella definizione di uno stile italiano, gli oggetti d’uso, che condurranno a loro volta all’istituzione disciplinare del design italiano, rivestono un ruolo di certo numericamente importante, se non di primo piano nel panorama nazionale, e allineato agli indirizzi di manifatture trainanti come Richard-Ginori, Mazzotti, Galvani, SCI e altre.

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11 Si tratta di grossi nomi, tutti facenti capo al maestro Augusto Monti, di cui Sturani sposa la figlia, come Cesare Pavese, suo amico fin dall’infanzia, Massimo Mila, Giulio Carlo Argan, Leone Ginzburg e altri: cfr. ibid., p. 33. 12 L’ISIA a Monza. Una scuola d’arte europea, a cura di R. Bossaglia, Associazione Pro Monza, Monza 1986; R. PROFUMO, L’Università delle Arti Decorative e l’ISIA, in 1923-1930. Monza cit., pp. 76-79. 13 Su questi temi cfr. A. B. PESANDO, Opera vigorosa per il gusto artistico nelle nostre industrie. La Commissione centrale per l’insegnamento artistico industriale e «il sistema delle arti» (18841908), Franco Angeli, Milano 2009. 14 A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Catalogo generale dell’archivio storico della manifattura, Allemandi, Torino 1992, p. 13. Sull’esposizione si veda V. GARUZZO, Torino 1928. L’architettura all’Esposizione Nazionale Italiana, Testo & Immagine, Torino 2002. 15 Nello stesso anno la galleria ospita la mostra Trentatré futuristi, che espone ceramiche a firma di Tullio d’Albisola, Djulgheroff, Prampolini, Fillia e un giovane Munari (cfr. E. DELLAPIANA, Il Design cit., p. 117-125). 16 Un elenco completo è fornito in A. PANZETTA, Le ceramiche Lenci cit., p. 35, n. 38. 17 Ceramiche di Lenci. Elenco delle opere, catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro dicembre 1929), presentazione di U. Ojetti, Galleria Pesaro, Milano 1929. 18 Ibid. p. 24. 19 Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D52: nel registro relativo alla mostra milanese risulta la vendita di soli dieci pezzi. 20 Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D622. 21 Mario Sturani cit., p. 33; M. MENZA, Bonaventura: racconto e immagine, SEAM, Roma 2004; Manifesti pubblicitari torinesi, catalogo della mostra a cura di E. Soleri (Torino, Gallerie Principe Eugenio, 16 marzo - 16 aprile 1989), Fratelli Pozzo, Torino 1989. 22 N. STRINGA, Tra folclore e design. La ceramica Galvani di Pordenone tra le due guerre, in La ceramica Galvani tra le due guerre. Forme e decori di Ruffo Giuntini, Angelo Simonetto, catalogo della mostra a cura di G. Ganzer e N. Stringa (Villa Manin di Passariano, Codroipo, 28 settembre 1996 - 6 gennaio 1997), Electa, Milano 1996, p. 18. 23 Gio Ponti. Ceramiche 1923-1930. Le opere del Museo Ginori di Doccia, catalogo della mostra a cura di F. Abboni, S. Salvi, G. Pampaloni e P. C. Santini (Firenze, 19 marzo 30 aprile 1983), Electa, Milano 1983. 24 Ceramica italiana d’autore 1900-1950, a cura di V. Terraroli, Skira, Milano 2007, p. 169. 25 Le ceramiche Rometti, catalogo della mostra a cura di E. Mascelloni e M. Caputo (Rocca di Umbertide, 25 giugno - 6 novembre 2005), Skira, Milano 2005. 26 Gli estremi ideali possono essere individuati, a titolo di esempio, in Sironi in combi-

nazione con gli architetti, da Muzio a Terragni, da una parte, e Andloviz, dall’altra, presente con cicli decorativi in ceramica in diverse mostre promosse dal Regime, in entrambi i casi negli anni trenta inoltrati. 27 Si tratta della sede amministrativa delle aziende che facevano capo a Riccardo Gualino, imprenditore dinamico che sarà di lì a pochi anni investito dall’ostilità del Regime, privato delle proprie attività e inviato al confino. 28 Inspiegabilmente su Pagano non esiste ancora un lavoro monografico, a fronte invece della pubblicazione dei suoi articoli di critica architettonica, da ultima la ristampa della vecchia raccolta a cura di C. DE SETA, Architettura e città durante il Fascismo, Jaca Book, Milano 2008; tale lacuna è in parte colmata da un lavoro su Pagano progettista di interni e mobili: A. BASSI e L. CASTAGNO, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma-Bari 1994. 29 Letteralmente «Le Nuove del Valentino», con un’allusione per nulla velata alle carceri cittadine, «Le Nuove», appunto. 30 N. BOBBIO, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955. 31 A. BASSI e L. CASTAGNO, Giuseppe Pagano cit., p. 27; sul gruppo GANT, Gruppo Architetti Novatori di Torino, nato in occasione dell’esposizione del 1928, cfr. G. MONTANARI e M. VIGLINO DAVICO, Torino città laboratorio della modernità: un mito da sfatare?, in Soleri cit., pp. 39-48. 32 Esemplare in questo senso è il primo editoriale firmato da Ponti come direttore di «Domus», poi ripreso come introduzione di G. PONTI, La casa all’italiana, Domus, Milano 1933, pp. 9-11. 33 Le ceramiche Lenci, in «La casa bella» aprile 1929, n. 16, pp. 29-32. 34 E. DELLAPIANA, Il design cit., pp. 83-94. 35 Lenci per Natale, in «Domus», novembre 1931, n. 47, pp. 74-75; Al soccorso dei lettori, ivi, dicembre 1931, n. 48, pp. 80-81. 36 Ad esempio, un altro specialista di ceramica e allestitore della galleria destinata a Monza, T. BUZZI, Le ceramiche italiane all’Esposizione di Monza, in «Dedalo» settembre 1930, pp. 250-252, illustra il suo articolo con l’immancabile Vaso n. 169, con la ciotola Quattro cavalieri (n. 200), con la Maschera per lampada elettrica (n. 177) di Sturani e con due gruppi plastici di Tosalli e Grande. 37 Cfr. il saggio di Pierluigi Bassignana in questo volume. 38 Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D55: registro dal 31 maggio 1933 al 31 dicembre 1933. 39 S. PETTENATI, Le ceramiche: dal progetto all’oggetto, in Mario Sturani cit., p. 136. 40 E. BIFFI GENTILI, Antonia Campi. Antologia ceramica 1947-1997, Electa, Milano 1998; A. PANSERA, Antonia Campi. Creatività, forma e funzione. Catalogo ragionato, Silvana, Cinisello Balsamo 2008.

MIDES, Torino 1984; ancora significativi, per una visione globale, sono i cataloghi delle mostre Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo industriale e capitalismo, Progetto, Torino 1976, e Torino tra le due guerre, catalogo della mostra a cura di G. Bertolo (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, marzo-giugno 1978), Musei Civici, Torino 1978. 6 1923-1930. Monza cit., pp. 37-41. 7 E. DELLAPIANA, Il design cit., pp. 109-112. 8 La felice definizione è di L. CASTAGNO, I pittori e l’arte applicata, in Lionello Venturi e la pittura a Torino, 1919-1931, a cura di M. M. Lamberti, Fondazione CRT-Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2000, p. 216. L’idea del cenacolo votato a un progetto ampio è già presente in M. ROSCI, Arte applicata arredamento design, in Torino 1920-1926 cit., pp. 69-84; ID., Le arti decorative e industriali, in Torino tra le due guerre cit., pp. 168-187. 9 C. FRANCHINI e A. BRUNO JR., Architetti e artisti delle avanguardie tra le due guerre, in Soleri. La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti, a cura di A. J. Lima, Flaccovio, Palermo 2009, pp. 49-61. 10 Mario Sturani 1906-1978, a cura di M. M. Lamberti, Allemandi, Torino 1990.

Cit. in A. PANSERA, Da Biennale a Triennale. Percorsi, presenze, premi, in 1923-1930. Monza, verso l’unità delle arti. Oggetti d’eccezione dalle Esposizioni internazionali di arti decorative, catalogo della mostra a cura di A. Pansera e M. T. Chirico (Monza, Arengario, 14 marzo - 9 maggio 2004), Silvana, Cinisello Balsamo 2004, p. 51. 2 Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, maggio-ottobre 1923), 1a ed., Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma 1923. 3 Nota dell’Editore, in Enciclopedia delle moderne arti decorative. Vol. I. Il mobile italiano contemporaneo, a cura di G. Marangoni, Ceschina, Milano 1925, p. 7. 4 Su questa fase cfr. E. DELLAPIANA, Il design della ceramica in Italia. 1850-2000, Milano, Electa, 2010, pp. 80-140. 5 Sullo sviluppo industriale del Piemonte un utile strumento è il progetto sintetizzato nel sito www.storiaindustria.it, avviato dal CSI Piemonte, con la direzione scientifica di L. Gallino. Cfr. anche A. D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino 2000; R. GUALINO, Frammenti di vita, Mondadori, Milano 1931; Riccardo Gualino/architetture da collezione, catalogo della mostra a cura di L. Ferrario e A. Mazzoli, Istituto

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Nella pagina precedente

1. MARIO STURANI Inverno, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 107).

2. GIOVANNI GRANDE Antilope, 1929 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 40).

3. GIOVANNI GRANDE Antilope, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 39).


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4. GIGI CHESSA Nuda che si pettina, 1929 MATITA E ACQUERELLO SU CARTA BIANCA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 11).

5. GIGI CHESSA Nuda che si pettina, 1929 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 12).

6. GIGI CHESSA Nuda che si pettina, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 10).


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7. GIGI CHESSA Due figure distese, 1926 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 137).

8. GIGI CHESSA La maschera, 1928 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 6).


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9. GIOVANNI GRANDE Susanna e i vecchioni, 1928-1929 MATITA, INCHIOSTRO ACQUARELLATO E TEMPERA SU CARTONCINO, APPLICATO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 36).

10. GIOVANNI GRANDE Susanna e i vecchioni, 1928-1929 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 35).

11. GIOVANNI GRANDE Susanna e i vecchioni, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 34).


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12. MARIO STURANI Portapenna Fumatore, 1930-1931 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 101).

14. GIULIO DA MILANO Donna con cactus, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 17).

13. MARIO STURANI Portapenna Fumatore, 1930-1931 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 102).

15. GIULIO DA MILANO Donna con cactus, 1929 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 18).


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16. GIOVANNI GRANDE Trionfo di Bacco, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 26).

17. GIOVANNI GRANDE Trionfo di Bacco, 1928 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 27).


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Pagina 78

18. MARIO STURANI Contadine - Ritorno dal mercato, 1928 CHINA E TEMPERA SU CARTA DA SPOLVERO, MONTATA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

72).

19. MARIO STURANI Contadine - Ritorno dal mercato, 1928 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 71).

20. MARIO STURANI Contadine - Ritorno dal mercato, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO, ASSEMBLATA E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 70).


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Pagina 80

21. GIOVANNI GRANDE Capriccio, 1929 MATITA, CHINA E ACQUARELLO SU CARTONCINO APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 42).

22. GIOVANNI GRANDE Capriccio, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 41).

23. GIOVANNI RIVA Nudo, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 68).


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Pagina 82

24. INES GRANDE La sete, 1929-1930 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO MONTATO SU CARTONCINO GRIGIO, APPLICATO SU CARTONCINO NERO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 48).

25. INES GRANDE La sete, 1934 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 47).


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Pagina 84

26. GIUSEPPE PORCHEDDU Artemide, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 64).

27. SANDRO VACCHETTI Le due tigri, 1929-1930 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO APPLICATO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 133).

28. SANDRO VACCHETTI Le due tigri, 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 132).


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Pagina 86

29. PAOLA BOLOGNA Figura danzante, 1932 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA IN SMALTO BIANCO; COLORE NERO APPLICATO A FREDDO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 3).

30. GIUSEPPE PORCHEDDU Sposi, 1929-1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 65).

31. GIOVANNI GRANDE Gli sposi, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 33).


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Pagina 88

34. GIUSEPPE PORCHEDDU Tre figure, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 66).

32. GIOVANNI GRANDE Donna con mantello e ombrello - La pazza dei Tornetti Valle di Vi첫, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 23).

33. MARIO STURANI Orco bottiglia, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 78).


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Pagina 90

35. GIGI CHESSA Torso che si pettina (versione bianca), 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 7).

36. GIGI CHESSA Torso con mela (versione grigia), 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 8).

37. GIGI CHESSA Torso con mela (versione bianca), 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 9).


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Pagina 92

38. GIGI CHESSA Le due sorelle, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 13).

39. GIOVANNI GRANDE Faunetto in frac e nudo femminile, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 24).


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Pagina 94

40. SANDRO VACCHETTI Nuda con fauno, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 129).

41. GIOVANNI GRANDE Venere, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 37).

42. ELENA KÖNIG SCAVINI Marianna, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E PARZIALMENTE MODELLATA E ASSEMBLATA, DECORAZIONE A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 55).


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Pagina 96

44. ELENA KÖNIG SCAVINI Nudo femminile con mela, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 57).

43. ELENA KÖNIG SCAVINI Nuda con coniglio, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 56).

45. ELENA KÖNIG SCAVINI Al caffè, 1933 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 58).


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Pagina 98

46. ELENA KÖNIG SCAVINI La modista - Il cappellino, 1933 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 59).

47. ELENA KÖNIG SCAVINI Colpo di vento, 1934 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 60).

48. ELENA KÖNIG SCAVINI Nella o Nasin, 1934 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 61).

49. ELENA KÖNIG SCAVINI Zizi, 1936-1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI; COLLARE E FRAMMENTO DI GUINZAGLIO IN CUOIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 63).


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Pagina 100

50. ELENA KÖNIG SCAVINI Primo romanzo, 1936-1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 62).

51. ABELE JACOPI Il grattacielo - Ultimo tocco, 1934 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA E PARZIALMENTE ALL’AEROGRAFO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 50).

52. ABELE JACOPI Marlene Dietrich, 1935 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 51).

53. ABELE JACOPI La tuffatrice, 1936-1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 54).


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Pagina 102

54. ABELE JACOPI Al mare, 1936 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 53).

55. ABELE JACOPI Ai monti, 1936 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI, LEGNO E CUOIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 52).

56. GIGI CHESSA Scatola Venezia, 1932 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 14).


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Pagina 104

57. GIGI CHESSA Scatola, 1933 TERRAGLIA FORMATA A STAMPO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 15).

58. MARIO STURANI Scatola, 1930-1931 TERRAGLIA FORMATA A STAMPO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

100).


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Pagina 106

59. MARIO STURANI Vaso Uccello, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 99).

60. GIOVANNI GRANDE Scatola Diana, 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 45).


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Pagina 108

61. MARIO STURANI Scatola Pupazzo, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 91).

62. MARIO STURANI Vaso Cani-uccelli, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 90).


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Pagina 110

63. MARIO STURANI Vaso Il pollaio, 1930 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO, APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 117).

64. MARIO STURANI Vaso Il pollaio, 1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA E AEROGRAFO.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 116).

65. MARIO STURANI Vaso Paesaggio, 1936 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 112).

66. MARIO STURANI Vaso Il mondo e la luna, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. TORINO, FONDAZIONE GUIDO ED ETTORE DE FORNARIS - GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA (CAT. 93).


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Pagina 112

67. MARIO STURANI Vaso La tavola, 1935-1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 114).

68. MARIO STURANI Vassoio con frutta, 1930-1932 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 94).


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Pagina 114

69. MARIO STURANI Centrotavola Pesci MATITA, ACQUARELLO E TEMPERA SU CARTONCINO, MONTATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 156).

70. MARIO STURANI Centrotavola Pesci - Pesce con corallo su piatto, 1934-1935 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 104).

71. FELICE TOSALLI Caracal, 1928 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 119).

72. FELICE TOSALLI Caracal, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. TORINO, FONDAZIONE GUIDO ED ETTORE DE FORNARIS GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA (CAT. 118).


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Pagina 116

73. FELICE TOSALLI, Barbagianni ed ermellino, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 120).

74. FELICE TOSALLI Barbagianni ed ermellino, 1928 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 121).

75. FELICE TOSALLI Zibetto e gallo selvatico ACQUARELLO SU CARTA, APPLICATA SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 123).

76. FELICE TOSALLI Zibetto e gallo selvatico, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 122).


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Pagina 118

77. FELICE TOSALLI Lontra e salmone, 1930/1932 ACQUARELLO SU CARTA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 127).

78. FELICE TOSALLI Lontra e salmone su un piatto - Coppa delle lontre, 1932 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO IN PIÙ PARTI ASSEMBLATE CON BARBOTTINA, DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 126).

79. FELICE TOSALLI Centrotavola con i martin pescatori, 1935/1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 128).


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Pagina 120

80. SANDRO VACCHETTI Gallo, 1933 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 134).

81. FELICE TOSALLI Centauro e faunessa, 1931 MATITA E ACQUARELLO SU CARTA, MONTATO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 125).

82. FELICE TOSALLI Centauro e faunessa, 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 124).


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Pagina 122

84. NILLO BELTRAMI Fiore di zucca, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 2).

83. NILLO BELTRAMI Nuda su una pera, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 1).

85. CLAUDIA FORMICA La principessa e la rana, 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 20).


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Pagina 124

86. CLAUDIA FORMICA La lettura, 1933 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 21).

87. CLAUDIA FORMICA Nudino e farfalla, 1936-1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 22).


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Pagina 126

88. SANDRO VACCHETTI, Nudo su foglie, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 130).

89. TEONESTO DEABATE Hawaiana, 1932 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 19).

90. SANDRO VACCHETTI Abissina, 1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 131).


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Pagina 128

91. GIOVANNI GRANDE La merenda, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 32).


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Pagina 130

92. GIOVANNI GRANDE, Flauto magico, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 31).

93. GIOVANNI GRANDE Marcello e Musetta, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 44).


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Pagina 132

94. GIOVANNI GRANDE, Dichiarazione d’amore, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 43).

95. MASSIMO QUAGLINO, Danza campagnola, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 67).


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Pagina 134

96. MARIO STURANI Calamaio con due figure intente a scrivere, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA; CALAMAI IN BRONZO DORATO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 89).

97. MARIO STURANI Gli amanti sul fiore, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 77).


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Pagina 136

98. GIOVANNI GRANDE Amanti sul tronco, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 38).

99. GIOVANNI GRANDE Fauno e ninfa dormiente, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 25).


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Pagina 138

100. GIOVANNI GRANDE Castore, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 28).

101. GIOVANNI GRANDE Polluce, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 29).


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Pagina 140

102. GIOVANNI GRANDE Don Chisciotte e Sancio Pancia, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 30).


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Pagina 142

103. INES GRANDE Angelus, 1933 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 46).

104. INES GRANDE Affilatura della falce, 1936/1937 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 49).


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Pagina 144

105. MARIO STURANI Ragazzo sull’elefante, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 79).

106. MARIO STURANI Capotreno, 1927-1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 69).


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Pagina 146

107. MARIO STURANI Tobia, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 86).

108. MARIO STURANI Maialetto, 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 73).


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Pagina 148

109. MARIO STURANI Dimmi di sì, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 90).

110. MARIO STURANI Regime secco, 1928 MATITA E ACQUARELLO SU CARTA DA SPOLVERO MONTATA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 81).

111. MARIO STURANI Regime secco, 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 80).


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Pagina 150

112. MARIO STURANI Le signorine (lampada da tavolo), 1929 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 85).

113. MARIO STURANI Le signorine (lampada da tavolo), 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 84).


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Pagina 152

114. MARIO STURANI Scalata alle stelle (lampada da tavolo), 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 82).

115. MARIO STURANI Scalata alle stelle (lampada da tavolo), 1929 MATITA E TEMPERA SU CARTA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 83).

116. MARIO STURANI Ciotola Acrobati, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA E AEROGRAFO.

COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 98).


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Pagina 154

117. MARIO STURANI Testa femminile con coppia danzante, 1930-1931 GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 113).

118. MARIO STURANI Ciotola Danza sul ponte, 1930/1931 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO IN DUE PARTI ASSEMBLATE CON BARBOTTINA, DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 96).


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Pagina 156

119. MARIO STURANI Ciotola Maestra e alunni o Gruppo familiare, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 97).

120. MARIO STURANI Ciotola Quattro cavalieri, 1934 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI E PARZIALMENTE ALL’AEROGRAFO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 103).


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Pagina 158

121. MARIO STURANI Ciotola Il ponte / Contadini danzanti, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

92).

122. GIULIO DA MILANO Arlecchino e Arlecchina, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

16).


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Pagina 160

123. GIGI CHESSA Arlecchino, 1927/1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 4).

124. GIGI CHESSA Arlecchino, 1927/1928 TERRACOTTA DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 5).


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125. MARIO STURANI Maschera Arlecchino (posacenere), 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 74).

126. MARIO STURANI Maschera Pierrot (posacenere), 1928 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 75).

127. MARIO STURANI Maschera Pantalone (posacenere), 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 76).


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128. MARIO STURANI Vaso maschere (cache-pot), 1929 MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

88).

129. MARIO STURANI Vaso maschere (cache-pot), 1929 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT.

87).


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130. MARIO STURANI Primavera, 1935 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. TORINO, FONDAZIONE GUIDO ED ETTORE DE FORNARIS GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA (CAT. 105).

131. MARIO STURANI Autunno, 1930 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA E PARZIALMENTE ALL’AEROGRAFO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 106).


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132. MARIO STURANI Estate GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 112).

133. MARIO STURANI Primavera GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 109).

134. MARIO STURANI Autunno GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 110).

135. MARIO STURANI Inverno GESSO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 111).


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136. MARIO STURANI Inverno, 1935 TERRAGLIA FORMATA A COLAGGIO E DECORATA A SMALTI POLICROMI SOTTOVETRINA. TORINO, FONDAZIONE GUIDO ED ETTORE DE FORNARIS GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA (CAT. 108).

137. MARIO STURANI La moglie di Tobia MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 146).


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138. MARIO STURANI Testa MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 150).

139. MARIO STURANI Testa Primula MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 151).

140. MARIO STURANI Coppa Dame e alberi, 1929 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 143).


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141. MARIO STURANI Coppia di danzatrici, 1930 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 144).

142. MARIO STURANI Gruppo scultoreo per caminetto: due donne - due uomini MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 145).


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143. MARIO STURANI Lo scoiattolo (abat-jour), 1929 MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 142).

144. MARIO STURANI Alla fonte, 1928 TEMPERA SU CARTA VELINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 147).


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145. MARIO STURANI Pierrette (coperchio per scatola di cioccolatini), 1930 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 155).

146. MARIO STURANI Fumatore, 1928/1929 MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 148).


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147. SANDRO VACCHETTI Vaso Circolo Pikwick MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO, APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 164).

148. MARIO STURANI (attribuito a) Città - Quadro paesaggio MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO, APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 161).


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149. MARIO STURANI (attribuito a) Casette - Paesaggini MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 159).

150. MARIO STURANI (attribuito a) Piatto con casetta (+ 2 spolveri) MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. SPOLVERO 1: VELINA E GRAFITE; SPOLVERO 2: VELINA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 160).


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151. GIGI CHESSA Decoro geometrico grigio e nero per barattolo, 1931/1934 MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO, MONTATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 136).

152. GIGI CHESSA Decoro geometrico grigio e nero per barattolo (elemento laterale), 1931/1934 MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO, MONTATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 137).

153. MARIO STURANI Vaso Deserto MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 153).


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154. MARIO STURANI Candelabro Pesci e corallo, 1934 MATITA, INCHIOSTRO E ACQUERELLO SU CARTA, MONTATA SU CARTONCINO OCRA. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 140).

155. ELENA KÖNIG SCAVINI (attribuito a) Centrotavola con pesci, 1936 MATITA E TEMPERA SU CARTA MONTATA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 138).

156. MARIO STURANI Candelabro, 1932 MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 141).

157. MARIO STURANI Vaso MATITA, ACQUARELLO E TEMPERA SU CARTONCINO, MONTATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 152).


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158. MARIO STURANI Vaso Silhouettes ed archi MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 154).

159. MARIO STURANI Bruco MATITA E TEMPERA SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 139).

160. MARIO STURANI Rasputin MATITA E ACQUARELLO SU CARTONCINO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 149).


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161. FELICE TOSALLI, Scimmia e orsacchiotto, ante 1932 ACQUARELLO SU CARTA, APPLICATO SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 162).

162. FELICE TOSALLI Formichiere ACQUARELLO SU CARTA, APPLICATA SU CARTONCINO GRIGIO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 163).


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163. MARIO STURANI Progetto di allestimento per un negozio Lenci INCHIOSTRO BLU E ACQUERELLO SU CARTA DA LUCIDO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 157).

164. MARIO STURANI Progetto di allestimento per un negozio Lenci INCHIOSTRO NERO SU CARTA DA LUCIDO. COLLEZIONE PRIVATA (CAT. 158).


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Schede delle opere


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AVVERTENZE AL CATALOGO Le schede del catalogo sono raggruppate in relazione ai nomi degli artisti (disposti in ordine alfabetico) e all’interno di ogni raggruppamento sono organizzate in ordine cronologico. Ogni scheda riporta il titolo originale dell’opera e la data del pezzo esposto in mostra, accompagnati dal numero di tavola a colori pubblicata nel volume. L’indicazione «Modello n.» si riferisce alla numerazione indicata nelle fotografie un tempo conservate nell’archivio Lenci e pubblicate in A. Panzetta, Le ceramiche Lenci 1928-1964. Catalogo generale dell’archivio storico della manifattura, Allemandi, Torino 1992. Alcune schede del catalogo analizzano il pezzo esposto accompagnato dal disegno e/o dal gesso preparatorio (i cui dati tecnici sono all’inizio della scheda stessa); talvolta la scheda analizza più pezzi di una stessa serie (i cui dati tecnici sono sempre posti all’inizio). Le misure riguardano la dimensione massima della base di ogni pezzo. La prima misura è l’altezza, seguita da larghezza e profondità o dal diametro massimo della base. Nel caso di vasi e di oggetti il diametro indicato è quello massimo del pezzo. Le indicazioni bibliografiche e l’elenco delle esposizioni riguardano la tipologia del pezzo e non necessariamente solo l’esemplare in mostra. SCHEDE A CURA DI Stefania Cretella [S.C.] Daniele Sanguineti [D.S.] Gianluca Zanelli [G.Z.]

NILLO BELTRAMI 1. (TAV. 83) Nuda su una pera, 1930. Modello 18. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 24,5 x Ø 22 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 13-1-30» e simbolo grafico del decoratore; «36» incusso in pasta; etichetta cartacea prestampata «LEONORA / DE WITT / STUDIO / LOS ANGELES». Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Beltrami». Collezione privata. L’opera, caratterizzata da un’atmosfera sospesa tra l’onirico e il surreale, rappresenta una minuta figura femminile seduta su una pera, completa di foglie e picciolo. La decorazione del frutto, dipinto in verde e con cerchi concentrici dai colori brillanti, contrasta con il bianco candido della carnagione della figura e raggiunge un risultato pittorico e fortemente decorativo. La fanciulla, dai capelli blu e dall’espressione sorridente, non nasconde la nudità del proprio corpo, solo velata da un drappo azzurro. Il nudo è reso attraverso masse geometriche semplici e autonome: le forme curvilinee e arrotondate che definiscono la testa, il collo, i seni appena accennati, le braccia e le gambe si caratterizzano per un’essenzialità volumetrica e un’estrema semplificazione nel modellato, segno di un progressivo avvicinamento alla lezione di Arturo Martini. La descrizione del corpo è molto simile ad altre opere di Beltrami, realizzate non solo in ambito ceramico, ma anche nel campo della scultura bronzea; in particolare la serie di piccoli nudi femminili conosciuti come le «Quattro stagioni», che nonostante le dimensioni ridotte riescono a restituire il senso monumentale delle figure. Sebbene la ceramica esposta in mostra risalga al gennaio 1930, l’invenzione del modello deve essere anticipata di qualche anno, in quanto la manifattura aveva precedentemente prodotto una serie limitata a tre esemplari, sicuramente già realizzati durante il biennio 1927-1928. Il secondo esemplare di questa tiratura (PANZETTA 1992, fig. 10, p. 105) si differenzia dalla ce-

ramica esposta esclusivamente per la diversa colorazione delle linee ondulate che decorano le foglie, qui in varie tonalità di verde e blu, per la colorazione meno intensa della pera e per la sostituzione del cerchio concentrico esterno verde, a raggiera, verde con una semplice fascia circolare monocroma. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 18; PROVERBIO 1979, p. 43, n. 53; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 10-11, 58; PROVERBIO 1986, p. 43; PANZETTA 1992, fig. 10, pp. 105, 119, n. 17; QUESADA 1994, p. 119; Le capitali d’Italia 1997, p. 338; PROVERBIO 2001, p. 63, n. 1; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 48, 124, n. 16. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006. [S.C.]

boso e che ricorda la base di La merenda (cat. 32) di Giovanni Grande. In effetti, confrontando i marchi si può constatare che il simbolo grafico del decoratore è lo stesso per entrambi i pezzi e che l’opera di Grande è stata ultimata cinque giorni dopo rispetto a Fiore di zucca. In una fotografia in bianco e nero, pubblicata nel catalogo di una mostra milanese (Le ceramiche Lenci 1983, p. 10), la scultura è sormontata da un paralume fiorato e la presenza di una catenina che pende dall’interno del paralume fa pensare che l’opera venisse prodotta anche per essere utilizzata come abat-jour, con la lampadina collocata all’interno del fiore e il cavo elettrico che correva all’interno del gambo per fuoriuscire da sotto la base. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2, n. 40; Le ceramiche Lenci 1983, p. 10; PANZETTA 1992, p. 122, n. 37; PROVERBIO 2001, p. 64, n. 2; AUDIOLI 2008, p. 109. [S.C.]

2. (TAV. 84) Fiore di zucca, 1929. Modello 40. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 33,5 x 22,5 x 20,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina all’interno della scultura: «Lenci / ITALY / -8-2-29-» e simbolo grafico del decoratore (triangolo). Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Beltrami». Collezione privata. La scultura, ideata da Beltrami nel 1929, raffigura un piccolo nudo femminile in piedi su uno zucchino tondo, aperto in due; dal terreno spunta un fiore di zucca, più alto rispetto alla figura femminile, che si apre in cima per racchiudere un incavo circolare poco profondo, adatto forse a contenere una candela. La resa anatomica stilizzata ricorda la volumetria della Nuda su una pera (cat. 1), secondo uno stile tipico di Beltrami. La fanciulla, dall’incarnato bianco-latte e con la testa reclinata di lato per ricevere il bacio di due colombi posati sulla sua spalla sinistra, sembra essere priva di struttura scheletrica, si piega con un’innaturale flessibilità del corpo e con un effetto elastico e sinuoso che riprende il movimento del gambo del fiore. La base è decorata con un motivo a tratteggio incrociato dipinto in verde, che suggerisce in modo schematico la presenza di un terreno er-

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PAOLA BOLOGNA 3. (TAV. 29) Figura danzante, 1932. Modello 60. Terraglia formata a colaggio e decorata in smalto bianco; colore nero applicato a freddo. 42 x 19,8 x 30,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 30-1-32». Firma incisa in pasta sul bordo laterale della base: «BOLOGNA». Collezione privata. Per lungo tempo la Figura danzante è stata attribuita a un artista anonimo e anche nel catalogo generale della manifattura Lenci il nome dell’autore non viene indicato (PANZETTA 1992, p. 125, n. 59). Il pezzo presentato in mostra ha però permesso di sciogliere ogni dubbio sulla sua paternità, in quanto il nome di Paola Bologna è perfettamente leggibile sul bordo della base. La rarità del pezzo e l’assenza di ulteriori ceramiche pubblicate dalle fonti bibliografiche ha portato a pensare che questa Figura danzante sia un pezzo unico, o che comunque faccia parte di una serie limitata a pochi esemplari.


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La ceramica esposta rappresenta un unicum della produzione di Paola Bologna, incentrata quasi esclusivamente su soggetti religiosi. In questo caso specifico, l’artista affronta il tema della figura in costume con uno stile affine alle contemporanee opere déco e futuriste. La figura, vestita da Pulcinella, è ripresa in una posizione innaturale, con la gamba destra tesa all’indietro e la gamba sinistra piegata ad angolo acuto per poter toccare con la punta del piede il cuore appoggiato sulla base. Il busto si curva all’indietro, in un movimento assecondato anche dalla testa e dalle braccia, slanciate verso l’alto e chiuse in un ovale che incornicia il volto. Il legame con il gusto europeo più aggiornato appare evidente nell’uso di profili stilizzati e volumi sfaccettati costruiti per tagli netti e piani spigolosi. Le varie parti del corpo sono spezzate in piani intersecanti e il risultato finale è una scultura caratterizzata da un equilibrio formale, da una grazia e una raffinatezza tipicamente déco. Lo stesso soggetto è strettamente connesso con le tematiche predilette dalla piccola scultura decorativa dell’epoca e rispondeva alle esigenze di un pubblico che apprezzava soprattutto soggetti contemporanei, fornendo un ampio repertorio di figure danzanti tratte dalla cultura popolare dei cabaret, del teatro e degli spettacoli esotici delle ballerine orientali o dei Balletti Russi. Nella fotografia in bianco e nero conservata nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 125, n. 59), la figura è completamente bianca, con la maschera, la cintura e le scarpe dipinte di nero; anche il cuore è colorato, probabilmente di rosso. In origine, la ceramica in mostra era rivestita esclusivamente di uno smalto bianco e luminoso e solo in un secondo momento è stata dipinta a freddo, probabilmente per farla assomigliare maggiormente al modello originale. In tempi recenti, il colore rosso del cuore è stato rimosso e ora si conserva solo la colorazione nera degli accessori dell’abito. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 125, n. 59; GARGIULO 2008b, p. 183. [S.C.]

GIGI CHESSA 4. (TAV. 123) Arlecchino, 1927/1928. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 29 x 20 x 15 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / ITALY 8/50». Firma incisa in pasta e dipinta in marrone sul bordo posteriore della base: «GIGI CHESSA». Collezione privata.

5. (TAV. 124) Arlecchino, 1927/1928. Terracotta decorata a colori oleosi. 27 x 18,5 x 13,8 cm Cartoncino legato al braccio, compilato a penna nera: «Arlecchino di / Gigi Chessa - / Pezzo unico - / Non vendibile né / regalabile». Firma incisa in pasta sul retro: «CHESSA». Collezione privata. Il modello relativo a questo esemplare non è documentato all’interno dell’archivio storico Lenci (PANZETTA 1992, p. 384, n. 1739). Come nel caso del Fauno e ninfa dormiente di Giovanni Grande (cat. 25), potrebbe identificarsi con uno dei numeri mancanti nella sequenza dei primi cento modelli (19, 30, 46, 62, 73, 86, 92-94, 97), databili entro il 1928. Benché l’esemplare in esame abbia preso parte alle varie esposizioni dedicate alla produzione ceramica della ditta, a partire dai primi anni ottanta del Novecento, non ne sono mai state poste in risalto in maniera adeguata la qualità e l’estrema rarità del decoro. Il soggetto, un’esile figura maschile dai tratti geometrizzati che indossa il costume di Arlecchino e si appoggia a una struttura architettonica composta da una breve scala, un muretto e un ripiano su cui è sistemata una natura morta, costituisce infatti una delle più affascinanti composizioni ideate da Gigi Chessa nell’ambito dell’attività svolta per Lenci, sia per l’eleganza dell’impianto sia per l’eccellenza della decorazione. Del modello è esposto un secondo esemplare, il quale rivela, rispetto al precedente, una policromia completamente difforme, basata sui toni dell’arancione e del giallo contrapposti al nero, particolarmente ricca tanto nella resa dell’abito quanto nella definizione dell’incarnato del volto e nella stesura dell’elemento architettonico. La

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visione diretta di quest’ultimo manufatto ha permesso di rinvenire un cartellino recante la scritta Arlecchino di Gigi Chessa. Bozzo Unico. Non vendibile né regalabile», oltre all’iscrizione in pasta «CHESSA»: in considerazione di questo dato e sulla base di alcuni dettagli tecnici, come il fatto che si tratti di una terracotta dipinta con colori oleosi, si può considerare un prezioso prototipo eseguito dall’artista nell’atelier prima di avviarne la produzione seriale; un oggetto forse decorato dallo stesso Chessa ed elaborato per la valutazione delle qualità cromatica e per la fornitura di un’indicazione di metodo per i decoratori. L’indubbia particolarità del soggetto, poco accondiscendente al gusto borghese, e i costi elevati di produzione, furono i verosimili motivi che portarono a una fortuna limitata dell’invenzione. L’Arlecchino è difatti contrassegnato da una tiratura alquanto bassa: elemento individuato in altri geniali modelli ideati negli anni 1927-1928 e poi non più prodotti. Del resto, come ha suggerito Lamberti (1987, p. 57), le ceramiche di Chessa «entrano in dialogo con la scultura, evitando ogni riferimento aneddotico, ed anche quella punta di frigida malizia dei nudini perbene e piccanti della produzione Lenci». Particolarmente interessante appare l’individuazione nell’impianto decorativo - impostato su toni azzurri che forse indicavano una decisiva variante rispetto a quella proposta nel prototipo di alcuni dettagli propri del vocabolario figurativo del maestro torinese: se infatti il motivo della chitarra, modellato a sottosquadro, è molto prossimo a quello individuabile nel Bozzetto decorativo con chitarra, cavallino e fruttiera di proprietà della famiglia (Gigi Chessa 1987, p. 205, n. 4), la natura morta appoggiata sul ripiano non può che richiamare vari dipinti di Chessa, come ad esempio due olii su cartone di collezione privata, dipinti nel 1922 (Gigi Chessa 1987, pp. 95-96, nn. 14-15). La sapienza del decoratore coinvolto nella realizzazione di questa ceramica emerge anche in corrispondenza dei delicati contrasti chiaroscurali che movimentano la struttura architettonica, suggeriti avvalendosi di attenti passaggi tonali utili per sottolineare il volume dell’insieme, nella cui ideazione si evincono puntuali rimandi alla cultura figurativa del futurismo italiano e del cubismo francese. BIBLIOGRAFIA: Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; LAMBERTI 1987, p. 58; PANZETTA 1992, p. 384, n. 1.739; Le capitali d’Italia 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, pp. 100,

200; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 52, 124; PROVERBIO 2001, p. 94, n. 4; AUDIOLI 2008, p. 109; GARGIULO 2008b, p. 222. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Gigi Chessa, 1898-1935», Torino 1987; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «I sei pittori di Torino, 1929-1931», Aosta 1999; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [D.S. - G.Z.]

6. (TAV. 8) La maschera, 1928. Modello 143. Gesso. 21 x 34,5 x 12 cm Collezione privata. L’enigmatico soggetto creato da Gigi Chessa, qui rappresentato dal relativo gesso, venne esposto nel 1929 presso la Galleria Pesaro di Milano (Ceramiche di Lenci 1929, n. 84). Del modello, creato probabilmente entro il 1928, sono noti fino a oggi solo pochi esemplari, tra i quali l’unico datato è quello della collezione D’Adda che reca sotto la base la scritta «Lenci / MADE IN ITALY / 6.10.1930» (Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; Gigi Chessa 1987, pp. 198-199, cat. 11; h 29 x 32 x 11 cm). Questo pezzo è contraddistinto da una raffinata stesura rosa tenue in corrispondenza della veste e da un’accurata definizione dei tratti somatici del personaggio. Gli altri esemplari conosciuti rivelano una decorazione meno incline alla resa dei particolari, finalizzata piuttosto all’esaltazione dell’aspetto scultoreo della composizione. È il caso della ceramica appartenente alla collezione Sturani pubblicata nel 1978 da Binaghi (1978, p. 355, n. 3), opera che, come precisato successivamente (LAMBERTI 1987, pp. 52-53, 58), venne decorata con smalti a freddo dallo stesso Sturani dopo la morte di Gigi Chessa (1935) «in una personale e contrastata bicromia di nero notte e zafferano intenso», con una netta contrapposizione tra il colore steso in corrispondenza della figura e quello impiegato per impreziosire la base che sottolinea la plasticità del corpo femminile, conferendogli una consistenza quasi metallica (Le Capitali 1997, p. 338). Un carattere, quest’ultimo, ulteriormente accentuato nella versione totalmente ricoperta da uno smalto iridescente bronzo-argenteo resa nota da Luciano Proverbio (1979, pp. 68-68) e datata al 1929

(Collezione privata; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 54, 124), cronologia riportata anche da Panzetta (1992, p. 137, n. 140), il quale documentava, attraverso l’immagine appartenente all’archivio storico della manifattura, un’ulteriore variante decorativa. Un’ultima testimonianza, collocata intorno al 1930 (Collezione privata; I sei pittori di Torino 1999, pp. 100, 200), mostra infine una particolare policromia, contraddistinta da un’intensa tonalità di rosso applicata a colature raggrumate con lo scopo di suggerire la presenza di una superficie metallica interessata da diffuse corrosioni, quasi si trattasse di un oggetto antico, forse di epoca etrusca, riemerso da uno scavo. La natura del materiale utilizzato per questo esemplare, ovvero una terraglia molto leggera, il tipo di decorazione e la mancanza dei ricorrenti dati, come marcature o riferimenti cronologici, potrebbero far pensare all’impiego dell’oggetto nell’ambito della manifattura sia come prototipo sia come esempio di sperimentazione destinata alla definizione di un determinato motivo decorativo. Un uso che potrebbe aver caratterizzato anche la composizione raffigurante Due figure distese di Gigi Chessa (Collezione privata; GARGIULO 2008b, p. 223), realizzata in terraglia e dipinta a freddo, dunque distante da una ceramica finita e destinata alla vendita. Una composizione quest’ultima, evocata in mostra dal disegno preparatorio (cat. 135), significativamente datato al 1926, altrettanto raffinata e innovativa, concettualmente molto prossima a La maschera, con la quale dovette condividere un limitato riscontro commerciale, trattandosi di soggetti più intellettualistici che ammiccanti. In particolare la figura muliebre ammantata e distesa rimanda ai coperchi dei sarcofagi etruschi. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 84; BINAGHI 1976, p. 91; BINAGHI 1978, p. 355, n. 3; PROVERBIO 1979, pp. 68-69; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; PROVERBIO 1986, p. 69; Gigi Chessa 1987, pp. 198-199, n. 11; LAMBERTI 1987, pp. 52-53, 58; MANTOVANI 1987, p. 226; PANZETTA 1992, p. 137, n. 140; Le capitali 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, pp. 100, 200; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 54, 124; PROVERBIO 2001, p. 91, n. 1. [D.S. - G.Z.]

7. (TAV. 35) Torso che si pettina (versione bianca), 1929. Modello 80. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 36,5 x 11,6 x 6,8 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina all’interno della gamba sinistra: «Lenci / MADE IN ITALY / 4-12-29»; «33» inciso in pasta all’interno della gamba destra. Firma incisa in pasta sul retro della gamba sinistra: «GIGI CHESSA». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 80; Ceramiche di Lenci 1929; Torino tra le due guerre 1978, p. 355, n. 2; PROVERBIO 1979 p. 8, n. 4; DE GUTTRY, MAINO e QUESADA 1985, p. 145; Gigi Chessa 1987, pp. 196-197, n. 9-10; PANZETTA 1992, fig. 14, pp. 106, 128, n. 81; Le capitali d’Italia 1997, p. 338; PROVERBIO 2001, p. 97, n. 8; GARGIULO 2008b, p. 186. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Gigi Chessa, 1898-1935», Torino 1987; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997.

8. (TAV. 36) Torso con mela (versione grigia), 1930. Modello 81. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 37 x 12,4 x 6 cm Iscrizione a pennello in nero all’interno della gamba destra: «Lenci / MADE IN ITALY / 10-2-30»; bollino cartaceo prestampato all’interno della gamba sinistra: «Lenci / 80 (in inchiostro nero) / TURIN / ITALY». Firma incisa in pasta sul retro della gamba destra, in basso: «GIGI CHESSA». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 81; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 8, n. 4; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 26, n. 12; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; PROVERBIO 1986, p. 8; Gigi Chessa 1987, pp. 196-197, n. 10; PANZETTA 1992, p. 128, n. 82; Le capitali d’Italia 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, p. 100; Le ceramiche Lenci 2000, p. 56; PROVEBIO 2001, p. 93, n. 3; GARGIULO 2008b, p. 186; AUDIOLI 2008, p. 108. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Galleria Pesaro, Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo»,

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Torino 1997; «I sei pittori di Torino, 1929-1931», Aosta 1999; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000.

9. (TAV. 37) Torso con mela (versione bianca), 1931. Modello 81. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 37,5 x 11,8 x 8,3 cm Iscrizione a pennello in nero all’interno della gamba destra: «Lenci / MADE [...] / [...] 931». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 81; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979 p. 8, n. 4; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 26, n. 12; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; PROVERBIO 1986, p. 8; Gigi Chessa 1987, pp. 196-197, n. 10; PANZETTA 1992, p. 128, n. 82; Le capitali d’Italia 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, p. 100; Le ceramiche Lenci 2000, p. 56; PROVERBIO 2001, p. 93, n. 3; GARGIULO 2008b, p. 186; AUDIOLI 2008, p. 108. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Galleria Pesaro, Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «I sei pittori di Torino, 1929-1931», Aosta 1999; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000.

La serie «Torsi», già presentata in occasione della mostra milanese del 1929, raffigura due diversi modelli di nudi femminili. Il Torso con mela, nelle due varianti con capelli blu e incarnato bianco o capelli blu e incarnato grigio, è costituito da un busto di donna che rivolge lo sguardo direttamente verso lo spettatore. La mano destra è appoggiata sul fianco, mentre il braccio sinistro è leggermente piegato per sorreggere la mela. Il Torso che si pettina ha, invece, un atteggiamento più raccolto, completamente concentrato nell’azione. In tutti i busti esposti, i tratti del volto, piuttosto stilizzati, sono accentuati dalla decorazione pittorica che colora le guance di rosa, le labbra di rosso e gli occhi dal taglio orientale dello stesso blu della capigliatura. La superficie dei corpi non è levigata, bensì modellata in modo irregolare; l’invetriatura molto lucida enfatizza tale irregolarità e produce un particolare gioco di luci e ombre di indubbia matrice pittorica. Per i «Torsi», Chessa non rispetta i modelli compositivi della statuaria tradizionale, che prediligeva la figura intera o il mezzobusto, ma sceglie di tagliare la figura sopra le ginocchia, immaginando le due donne immerse nell’acqua. In effetti, come ricordato da Lamberti (Gigi

Chessa 1987, p. 58), i «Torsi» dovevano avere come base uno specchio per duplicarne l’immagine, così come avrebbe fatto una superficie d’acqua. Con questo espediente, Chessa affronta in due modi differenti il tema del doppio, rappresentato dal riflesso delle singole figure e dall’accostamento della coppia di busti. Per chiarire alcuni degli elementi distintivi del linguaggio e della riflessione artistica di Chessa è utile far riferimento all’articolo Arturo Martini inventor di ceramiche, pubblicato dall’artista nell’agosto del 1929 nella rivista «Domus». Anche se la sua lunga collaborazione con la ditta Lenci è stata dettata in primo luogo da necessità economiche, Chessa sottolinea come al settore delle arti decorative debba essere riconosciuto lo stesso livello di importanza da sempre attribuito alle cosiddette arti maggiori, in quanto le maioliche non devono essere considerate solamente «dei simpatici soprammobili ma sono delle sculture vere e proprie». Secondo il pittore, una delle qualità principali delle sculture in ceramica di Arturo Martini, edite dalla società genovese DIANA e realizzate nei laboratori della Fenice di Albisola, è quella di essere dei minuscoli monumenti da camera. Più in generale, Chessa accusa una mancanza del senso del monumentale riscontrabile in troppe opere scultoree che ornano le piazze italiane «perché questo senso non è dato dalla dimensione, dal gesto più o meno teatrale o dalla linea più o meno decorativa, ma dalla qualità stessa della scultura». Si tratta di una monumentalità riconoscibile anche nei «Torsi» e nelle altre composizioni plastiche ideate da Chessa per Lenci. Nonostante le dimensioni ridotte, i due busti conservano una forza espressiva e un vigore plastico che non trova paragoni nelle opere degli altri artisti attivi presso la manifattura torinese, in quanto il suo modellato volumetrico e massiccio, scolpito in un impasto spesso e corposo, è molto lontano dalla levigata lucentezza dei nudi fintamente ingenui o goffi e ironici di Elena König Scavini e Claudia Formica, così come si discosta dall’esibita sensualità delle figure di Sandro Vacchetti. Lo stesso equilibrio che regola la distribuzione delle masse viene rispettato anche nella scelta cromatica. È proprio l’elemento pittorico delle opere di Chessa a colpire Ugo Ojetti in occasione della mostra presso la Galleria Pesaro, tanto da indurlo a scrivere, nel testo introduttivo al catalogo, che il pittore «vuole sui floridi nudi di

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donna rompere quei lisci lustri in vibrazioni minute come pennellate» (OJETTI 1929, p. 261). Sempre nell’articolo dedicato a Martini, Chessa esalta i colori indefinibili e irreali della sua tavolozza, dominata da «rosa e verdini pallidi, azzurri teneri, neri improvvisi, gialli e grigi che si perdono, bruni forti, che si fondono e si legano e servono a temperare lo schematismo della forma». Come già sottolineato da Lamberti (Gigi Chessa 1987, p. 58), questa è anche la gamma cromatica che ritroviamo nelle tele realizzate da Chessa in questo periodo, così come nei disegni e nelle prime ceramiche ideate per Lenci. In realtà, la serie dei «Torsi» esposta in mostra si distingue per le nette campiture di colori squillanti, che accostano il blu acceso dei capelli al bianco brillante e al grigio scuro dell’epidermide. A tal proposito, Lamberti osserva come, a un certo punto, la colorazione basata sui toni sfumati conviva con la soluzione più decorativa dei colori decisi. L’analisi dei pezzi e delle loro diverse datazioni non ha però permesso di capire se si tratti di una scelta dello stesso Chessa o se le variazioni cromatiche dipendano dalla libertà inventiva dei decoratori. Quello che è certo è che nel novembre del 1929 le cattive condizioni di salute costringono l’artista a soggiornare in Riviera, non consentedogli un costante controllo sulla produzione. In effetti, come accade per altre opere di Chessa, anche i «Torsi» si presentano in diverse varianti cromatiche. Oltre alle due tipologie esposte in mostra, si conosce una versione con i capelli blu e il corpo di un azzurro metallico. Nel volume di Luciano Proverbio (2001, p. 93, n. 3) è stato pubblicato un singolare Torso con mela non invetriato e totalmente ricoperto da una particolare colorazione azzurro-grigia. Questo busto è privo della colorazione rosata delle guance, delle labbra rosse e degli occhi segnati di blu. Anche la mela perde la sua distintiva cromia gialla e la foglia verde. [S.C.]

10. (TAV. 6) Nuda che si pettina, 1930. Modello 29. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 23,3 x 19 x 20,2 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 13-1-930» e simbolo grafico del decoratore; bambola incussa in pasta; «59» e «X» incussi in pasta; etichetta cartacea circolare con «29» a matita. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «GIGI CHESSA». Collezione privata.

11. (TAV. 4) Nuda che si pettina, 1929. Matita e acquarello su carta bianca. 245 x 164 mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE B. GARELLA / N º / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P144». Collezione privata.

12. (TAV. 5) Nuda che si pettina, 1929. Gesso. 26 x 19 x 21,4 cm Iscrizioni sotto la base a matita: «CASSA 16» e «29». Collezione privata. Il modello fu presentato nel 1929 in occasione dell’esposizione monografica allestita presso la Galleria Pesaro di Milano (PANZETTA 1992, p. 35 nota 38) e illustrato a corredo del testo curato da Ugo Ojetti per l’occasione, il quale mostrò di apprezzare cautamente le composizioni ideate da Chessa (OJETTI 1929, p. 26). La ceramica, raffigurante una giovane donna nuda, mentre si pettina la lunga chioma seduta su un tessuto che ricopre parzialmente una base circolare, ha goduto di una certa considerazione nell’ambito degli studi dedicati all’attività svolta dal pittore presso Lenci. L’artista sfruttò la possibilità di disporre delle tre dimensioni per studiare a fondo il nudo femminile, indagato parallelamente in pittura. Anche nelle ceramiche rappresentanti corpi femminili stanti o seduti, Chessa rivela la sua particolare cifra stilistica, connotata da una ricerca della definizione a tutto tondo dell’elemento corporeo, che,

nel caso di molte delle ceramiche eseguite per Lenci, diventa «soggetto di esercizio e di verifica, nell’impianto volumetrico saldo e massiccio, nella struttura anatomica per masse, senza sottigliezze, nella fattura stessa, quasi brutale sotto la patina lucida del colore» (LAMBERTI 1987, p. 57). Sono noti vari esemplari della Nuda che si pettina, tutti caratterizzati da una policromia molto simile a quella che connota il pezzo in esame, realizzato nel gennaio 1930. Tra questi il più precoce risulta per ora la ceramica della collezione Rigano marcata «Lenci ITALY 11/50» (PANSERA 2001, p. 23; I sei pittori di Torino 1999, pp. 99, 200), la cui esecuzione è collocabile ancora entro il 1928. Anche quest’ultimo pezzo mostra, come quello qui esposto, una policromia impreziosita dal raffinato contrasto tra il latteo incarnato della figura e i toni più accesi impiegati per sottolineare le chiome e i dettagli anatomici più sensuali, quali i tratti somatici, le gote e i capezzoli. Una tavolozza cromatica, arricchita anche dalla sovrapposizione del rosa impiegato per il drappo al marrone chiaro steso in corrispondenza della base, che Chessa stesso doveva aver concepito per essere poi riprodotta senza considerevoli varianti dai vari decoratori, tramite un prototipo presente in ditta o esempi grafici conservati all’interno dell’archivio. Lo stesso impianto decorativo, impreziosito da una vernice di notevole qualità, ritorna nella Nuda che si pettina marcata «Lenci / ITALY / 16.2.29» (Gigi Chessa 1987, p. 191, n. 5), in un altro esemplare del gennaio 1930 dipinto da Francesco Pagliarino («Lenci / MADE IN ITALY / 29.1.30»; Gigi Chessa 1987, p. 191) e in un’ulteriore ceramica recante l’iscrizione «Lenci / MADE IN ITALY 21-1-30» (BINAGHI 1978, p. 355, n. 1). Di quest’ultima è nota anche la cifra incussa in pasta «62», posta erroneamente in relazione con il numero del modello (Le ceramiche Lenci 1983, pp. 17, 58), mentre la stessa indicazione scende a «59» per l’esemplare in mostra, terminato circa una settimana prima. Da interpretarsi come la numerazione progressiva della quantità di esemplari prodotti, la cifra consente di affermare che entro il 21 gennaio 1930 erano fuoriusciti dalla fabbrica sessantadue esemplari della Nuda che si pettina, soggetto nei confronti del quale è forse possibile riscontrare una progressiva diminuzione di interesse da parte del mercato a partire dall’inizio degli anni trenta. Non si conoscono

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infatti per ora esempi collocabili con certezza successivamente al dicembre 1931 (cfr. Torino 1976, fig. 77; LAMBERTI 1987, p. 58), e questo modello, al contrario di altre composizioni di Chessa come la Nuda con lenzuolo (n. 156; PANZETTA 1992, p. 139, n. 152), non sembra comparire nei cataloghi merceologici editi dalla Lenci ancora negli anni cinquanta. Solo la ceramica recante sotto la base la scritta parzialmente leggibile «1[...] B 1 - 38 0» (collezione Giulio da Milano; LAMBERTI 1987, p. 191) potrebbe essere più tarda, giacché le sue caratteristiche tecniche permettono di collocarla in un momento successivo, fissato da Lamberti probabilmente al 1938 (LAMBERTI 1987, p. 58). L’assenza in questo esemplare di un dettaglio come la ciotola con frutta, elemento caro al repertorio figurativo di Chessa, appare una prova di un’esecuzione non precoce, allorquando nell’attività di Lenci si evidenzia, al fine di limitare i costi produttivi, una notevole semplificazione nella lavorazione dei modelli. Tale particolare risulta invece presente nel gesso relativo al modello, mentre è nuovamente assente in due disegni di collezioni private collegati al soggetto di Chessa: il primo recante la scritta «Cart. 1 Nuda c/ pettine n. 29» (GARGIULO 2008b, p. 65, n. IV), il secondo, qui esposto, inedito. Si tratta di fogli realizzati nell’ambito della manifattura e non direttamente dall’autore e impiegati dai diversi decoratori come utili strumenti guida per la stesura della policromia. Nel disegno esposto in mostra, databile agli anni trenta, si nota una diversa colorazione del tessuto su cui è adagiata la figura, mentre identica appare la definizione di ogni ulteriore componente, dalla postura della donna alla forma delle pieghe, all’andamento morbido della chioma. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 15; OJETTI 1929, p. n.n.; BINAGHI 1976, p. 91; BINAGHI 1978, p. 355, n. 1; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 17, 58; Gigi Chessa 1987, pp. 190-191, n. 5; LAMBERTI 1987, pp. 56, 58; MANTOVANI 1987, p. 226; PANZETTA 1992, p. 120, n. 27; Le capitali 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, pp. 99, 200; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 53, 124; PANSERA 2001, p. 23; PROVERBIO 2001, p. 95, n. 5. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [D.S. - G.Z.]


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13. (TAV. 38) Le due sorelle, 1930. Modello 82. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 44 x 24 x 15,5 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 15-1-30» e simbolo grafico del decoratore (trattino intersecato da due linee simmetriche); bambola incussa; «59» e «P» incisi in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «GIGI CHESSA». Collezione privata. Questo affascinante soggetto, scaturito dalla geniale creatività di Gigi Chessa, venne presentato nel 1929 presso la Galleria Pesaro di Milano (PANZETTA 1992, p. 35 nota 38) e, l’anno seguente, nella sala 107, dedicata alle ceramiche Lenci, all’interno del percorso della Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza. In questa occasione l’opera venne ammirata da Carlo A. Felice, il quale ne sottolineò il carattere di «grande serietà» (FELICE 1930, tav. 66, p. 36). Le due figure stanti e abbracciate costituiscono una delle più raffinate composizioni realizzate da Chessa per la ditta torinese: si tratta infatti di un soggetto nel quale emerge con forza non solo la particolare definizione da parte del pittore della struttura anatomica femminile, tipica del suo linguaggio espressivo, ma anche un sottile e calcolato gioco ironico, sensuale, quasi disarmante, incentrato sulla «contrapposizione chiaro-scuro come contrasto e armonia» (LAMBERTI 1987, p. 58). Una riflessione sul concetto del doppio, attuabile anche quando la policromia rivela un’uniformità nella stesura degli incarnati dei personaggi: avvalendosi di alcune immagini storiche (PANZETTA 1992, p. 128, n. 83; FELICE 1930, tav. 66, p. 36), è infatti possibile documentare l’esistenza di una variante cromatica connotata da toni uniformi rispetto alla più nota versione chiaro-scuro, una policromia sensibilmente meno vigorosa forse impiegata solo in alcuni precoci esemplari. Basandosi sui dati cronologici e stilistici attestati dalle ceramiche attualmente note, è possibile ipotizzare che anche questo soggetto, certo concettualmente sottile e meno immediato rispetto ad altri modelli proposti, dovette godere, come nel caso della Nuda che si pettina (catt. 10-12), di un certo riscontro solo nei pri-

mi anni di attività, non venendo più prodotto già all’alba degli anni trenta, quando le difficoltà economiche imposero una scelta drastica favorevole ai soprammobili alla moda, più commerciali e meno costosi. Attraverso l’esemplare segnalato nella collezione di Giulio da Milano, recante la scritta «Lenci / MADE IN ITALY / 15.11.1929», la bambola impressa e il numero progressivo «46» (LAMBERTI 1987, p. 58; Gigi Chessa 1987, pp. 194-195, n. 8), si evince che a novembre del 1929 erano stati plasmati e dipinti quarantasei esemplari del modello, un numero che fu destinato a crescere progressivamente nei mesi seguenti, dato che il pezzo in esame, condotto a termine nel gennaio del 1930, costituiva il cinquantanovesimo prodotto. Esposta a svariate mostre, dagli anni ottanta in poi, la ceramica qui esaminata venne però ritenuta quasi sempre - ad eccezione di Ivana Mulatero (I sei pittori di Torino 1999, p. 200) - del luglio 1930, a causa della particolare resa del numero che, nel corpo della marcatura, definisce il mese di gennaio. L’aspetto ieratico del doppio è contestualizzato attraverso la resa vivace e moderna dei tratti somatici e delle capigliature ed è variato dalla contrapposizione cromatica delle chiome e dall’elegante plasticità delle lunghe pieghe che solcano il lenzuolo trattenuto asimmetricamente dalla figura di sinistra. La stesura a smalto ha permesso di esaltare oltremodo la forza anatomica delle due figure, disposte su un basamento che rivela un lontano richiamo ai moduli classici, del resto presente anche nei calzari che indossano le figure. La ceramica si caratterizza per una preziosa stesura della policromia, impostata su colori generosi finalizzati a esaltare la volumetria dei corpi e la discontinuità quasi scabra delle superfici: un aspetto, quest’ultimo, che pone l’oggetto in un contesto europeo dominato dalle Wiener Werkstätte, per certi versi deprecato da Ugo Ojetti, il quale, nel testo del catalogo per la monografica alla Galleria Pesaro, notava che Lenci, rispetto «all’indiavolata Wally Wieselthier» della manifattura viennese, «ha fatto bene a scegliere, perché è una fabbrica italiana, una materia più fine e a cercare smalti sempre più netti e più lucidi». Il critico conosceva bene il gusto italiano - «Certe ruvide bizzarrie non sono pel nostro pubblico, che presto se ne stancherebbe» (OJETTI 1929, p. 28) - e per questo afferma che il limite paventato è risolto in alcune delle ceramiche Lenci, ma non in al-

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tre, rivolgendosi implicitamente proprio alle opere di Chessa, delle quali non a caso non cita alcun soggetto in particolare. Il legame con la manifattura viennese diviene ancor più stringente sfogliando il catalogo dei disegni relativi alle opere sortite dalle Wiener Werkstätte tra il 1920 e il 1931. Un disegno, del giugno 1921, raffigura una ceramica rappresentante due figure femminili nude e abbracciate, entrambe con una corta e moderna acconciatura a caschetto: è chiara a questo punto la fonte di ispirazione per la creazione di Chessa (NEUWIRTH 1981, n. 5.439). BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 40; FELICE 1930, p. 36, tav. 66; BINAGHI 1976, p. 91; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; Gigi Chessa 1987, pp. 194-195, n. 8; LAMBERTI 1987, pp. 56, 58; MANTOVANI 1987, p. 226; PANZETTA 1992, p. 128, n. 83; Le capitali 1997, p. 338; I sei pittori di Torino 1999, pp. 99, 200; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 52, 124; PROVERBIO 2001, p. 92, n. 2; MAINO, DE GUTTRY 2004, p. 188. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Gigi Chessa, 1898-1935», Torino 1987; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «I sei pittori di Torino, 1929-1931», Aosta 1999; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Il déco in Italia», Roma 2004. [D.S. - G.Z.]

14. (TAV. 56) Scatola Venezia, 1932. Modello 333. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 17,5 x 12,9 x 12,9 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / 19-7-32» e simbolo grafico del decoratore (ponte). Collezione privata. A partire dal 1931 la manifattura Lenci inizia a produrre una nutrita serie di scatole cubiche, la cui forma semplice e squadrata viene impreziosita da una ricca decorazione pittorica e da un coperchio con pomolo formato da paesaggi miniaturizzati, figurine o animali. Il progetto vede impegnati tutti i principali artisti della ditta, tra cui si ricordano Mario Sturani, Felice Tosalli, Gigi Chessa e Giovanni Ronzan, che talvolta collaborano alla realizzazione di alcuni oggetti fornendo solamente i disegni per il decoro o per il coperchio.

La scatola esposta in mostra, interamente ideata da Gigi Chessa, propone un soggetto di ispirazione veneziana, argomento che l’artista aveva già avuto modo di affrontare in una serie di dipinti di paesaggio realizzati nel 1928 (Gigi Chessa 1987, pp. 112-117) e che recupera anche in un’altra scatola Lenci, di forma cilindrica, identificata dal numero 329/F (PANZETTA 1992, p. 168, n. 356). Sui quattro lati della scatola sono dipinte due diverse scene notturne, raffiguranti coppie di gondolieri e dame all’interno delle tipiche imbarcazioni veneziane, con elementi architettonici caratteristici della città lagunare (il ponte di Rialto, un’edicola con la statua di una madonnina e piazza San Marco) che emergono dal nero lucido e brillante dello sfondo. Il pomolo del coperchio è composto da tre colombe policrome, ridotte nelle loro forme essenziali, che riprendono gli stessi bianchi, rosa e blu utilizzati per illustrare le scenette laterali. Il gruppo plastico con i tre colombi ritorna anche nelle impugnature dei coperchi di un portatalco (modello 325; PANZETTA 1992, p. 167, n. 348) e del Vaso colombe (modello 343/D; PANZETTA 1992, p. 171, n. 379), entrambi prodotti a partire dal 1931. Riproporre lo stesso motivo pittorico o scultoreo in ceramiche differenti è una pratica più volte adottata dalla manifattura, che in questo modo cercava di ampliare il proprio repertorio e di fornire al pubblico varianti di un medesimo oggetto o decoro. Nel dicembre del 1931, «nel felice imbarazzo natalizio della scelta dei regali», la rivista «Domus» seleziona per i propri lettori un campionario di ceramiche d’arte della Lenci, in prevalenza vasi e contenitori, tra le quali viene inserita anche l’immagine di una Scatola Venezia (cat. 15). Nel mese precedente, «La casa bella» aveva già pubblicato una fotografia della scatola di Chessa accompagnata dal portatalco 325, ritenendo che «ogni signora vorrà, poi, per le sue infinite “cosette” almeno una custodia come questi vasi, dalle forme più indicate per i graziosi tesori ed i piccoli segreti delle dame moderne». Nello stesso articolo la rivista mensile, fondata a Milano nel 1928 da Guido Marangoni e diretta tra il 1930 e il 1943 da Edoardo Persico e Giuseppe Pagano, attribuiva alla casa torinese il merito di aver creato con genialità e modernità un proprio stile autonomo e di aver saputo lanciare sul mercato oggetti divenuti im-

mediatamente celebri e ricercati, capaci di competere con la contemporanea produzione artistica francese, tedesca e danese. In effetti, accanto al variegato repertorio di sculture d’arredo, fin dal 1929 la Lenci aveva iniziato a realizzare oggetti d’uso di diverse forme e dimensioni che conservavano intatto l’alto valore estetico ritenuto indispensabile per arredare con gusto gli interni domestici. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 333; Catalogo D2, n. 333; Al soccorso dei lettori 1931, p. 81; Ceramiche Lenci 1931, p. 51; PROVERBIO 1979, p. 106, n. 188; DE GUTTRY, MAINO e QUESADA 1985, p. 145; Gigi Chessa 1987, p. 201, n. 14; PANZETTA 1992, p. 169, n. 364; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 201, n. 375. ESPOSIZIONI: «Gigi Chessa 1898-1935», Torino 1987. [S.C.]

15. (TAV. 57) Scatola, 1933. Modello 332. Terraglia formata a stampo e decorata a smalti policromi sottovetrina. 20 x 13,2 x 13,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY TORINO / 24-5-933» e simbolo del decoratore (monogramma «GA»). Collezione privata. La scatola, attribuita nell’archivio storico Lenci a Gigi Chessa (PANZETTA 1992, p. 169, n. 363), venne pubblicata in occasione del Natale 1931 all’interno di uno spazio pubblicitario proposto da «Domus» (1931, pp. 80-81). Si trattava di una tipologia di oggetto che, investendo di una valenza artistica un contenitore, ebbe un buon riscontro merceologico, come dimostra la presenza nel catalogo D2, databile tra il 1933 e il 1935. Rispetto al pezzo esposto, l’esemplare illustrato nel catalogo sembra mostrare una colorazione chiara della superficie del coperchio con tre bande leggermente più scure che incorniciano l’impugnatura. Sulle quattro facce della scatola sono dipinte, con una tavolozza cromatica particolarmente preziosa e variegata, altrettante scene raffiguranti un viandante con un gufo e tre personaggi intenti a pescare, a cacciare e a falciare il grano. Si tratta di soggetti, forse in relazione al ciclo delle stagioni, strettamente connessi al vocabolario stilistico di Chessa, il quale crea per la manifat-

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tura torinese raffigurazioni eleganti, con evidenti richiami espressivi al mondo fantasioso dell’infanzia. Una gioiosa vena creativa con cui il pittore dà forma a un repertorio ben riconoscibile, nel quale compaiono, insieme ad accattivanti personaggi dalle silhouettes morbide e allungate, temi ricavati dal mondo animale e vegetale interpretati secondo una sensibilità quasi fanciullesca, come la decorazione con enormi fiori. Si tratta di un tipo di ornato che si ritrova pressoché identica in un ulteriore esemplare della scatola, di recente pubblicata con l’attribuzione al solo Chessa e una datazione al 1931 (GARGIULO 2008b, p. 214), anno a partire dal quale viene probabilmente avviata la produzione del modello. Le due ceramiche si diversificano solo per la resa pittorica di alcuni dettagli decorativi che, nella scatola in mostra, sono delineati con tocchi decisamente più vibrati. A Mario Sturani è invece attribuibile l’ideazione della presa del coperchio, raffigurante una piccola chiesa affiancata da un albero. Si tratta infatti di un elemento che venne impiegato più volte nell’ambito della produzione ceramica della ditta come motivo ornamentale per decorare i coperchi di scatole e vasi. È il caso del Vaso moresco (modello 343/C), nuovamente scaturito dalla collaborazione tra Sturani (coperchio) e Chessa (decorazione), per il quale esisterebbe un disegno datato 1926 (PANZETTA 1992, p. 171, n. 378), oppure della Scatola Cavalli e domatori, realizzata da Sturani insieme a Sandro Vacchetti per quanto riguarda la decorazione (n. 348; PANZETTA 1992, p. 172, n. 386). Lo stesso nucleo decorativo impiegato come presa nel manufatto esposto si riscontra inoltre non solo nel piccolo soprammobile Paesaggio (modello 378; BINAGHI 1978, p. 360, n. 31; PANZETTA 1992, p. 177, n. 421), ma anche nella tipologia di alberi e case che decorano il retro del Ritorno dal mercato (cat. 70). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D2, n. 332; Al soccorso dei lettori 1931, p. 81; BINAGHI 1978, p. 360; PROVERBIO 1979, p. 106, n. 190; PROVERBIO 1986, p. s.n.; PANZETTA 1992, p. 169, n. 363; GARGIULO 2008b, p. 214. [D.S. - G.Z.]


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GIULIO DA MILANO 16. (TAV. 122) Arlecchino e Arlecchina, 1930. Modello 69. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35 x Ø 21,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / T 18-5-30»; bambola incussa; «89» inciso in pasta. Firma incisa in pasta e dipinta in grigio sulla base posteriore: «DA MILANO». Collezione privata. In questa ceramica, prodotta a partire dal 1929, Giulio da Milano mette in scena una muta conversazione tra due personaggi in costume, in cui sono i gesti a suggerire le intenzioni: l’accenno di un inchino e i movimenti delle mani della figura maschile indicano la volontà di invitare la dama a ballare, mentre la testa inclinata della donna rivolta verso il suo accompagnatore fanno presagire la risposta positiva alla richiesta di Arlecchino. Le movenze e i gesti teatrali che caratterizzano il gruppo riconducono l’opera al genere delle scene galanti, dominate da una leziosità e da una leggera spensieratezza derivate dalla pittura e dalle piccole sculture in porcellana della cultura rococò e comune a una parte della produzione Lenci. Il risultato finale raggiunto dall’artista è molto diverso rispetto alle altre ceramiche ispirate alle maschere della commedia dell’arte italiana, soggetto più volte affrontato dagli artisti attivi nella manifattura nel corso di un ristretto arco di tempo, compreso tra il 1929 e il 1930. La grazia neosettecentesca delle sue figure non ha nulla in comune con l’Arlecchino ideato da Gigi Chessa (catt. 4 e 5), in cui appaiono evidenti i ricordi della lezione picassiana, o con i diversi vasi-maschere di Sturani (catt. 74-76 e 87), caratterizzati da una stilizzazione del segno e dalla vivacità del colore di gusto futurista. È proprio l’eleganza raffinata della coppia a colpire Ugo Ojetti, che nel saggio introduttivo alla mostra milanese del 1929 sottolinea come Giulio da Milano sia in grado di rinnovare «col bel garbo il motivo delle nostre maschere tradizionali già tanto caro alla nostra ceramica italiana e straniera, come si può vedere, ad esem-

pio, nelle raccolte del Museo della Scala». Per ricordare ai propri lettori quanto il tema del teatro e delle figure in costume fosse radicato nella tradizione della ceramica europea, Ojetti fa riferimento al nucleo di opere del museo milanese, inaugurato nel 1913, formato da una variegata collezione di porcellane di soggetto teatrale e musicale, provenienti da varie manifatture europee, quali Capodimonte, Doccia, Meissen e Sèvres. In effetti, i personaggi della commedia dell’arte, rappresentati singolarmente o composti a formare gruppi più complessi, hanno avuto grande fortuna a partire da Settecento, grazie alle prime creazioni ideate da Eberlein e Kändler per la manifattura di Meissen. I due personaggi ideati da Giulio da Milano sono figure contemporanee, come rivela il taglio di capelli alla moda della donna, ma indossano abiti di gusto settecentesco, decorati con il medesimo motivo a triangoli sfumati, giocati però su toni contrapposti. Il verde, il rosso-arancione e il giallo dell’abito femminile sono tonalità calde che fanno da contrappunto al viola, al grigio e al nero del costume maschile che appartengono alla gamma dei colori freddi. Il confronto con lo studio preparatorio (GARGIULO 2008b, p. 71, n. XI), firmato e datato 1929, permette di rilevare un lieve cambiamento nell’abito della donna, rappresentato dalla sostituzione dei triangoli verdi con elementi blu. In questo modo, nel disegno appare ancora più netta la contrapposizione tra i colori freddi del costume dell’uomo e la tavolozza dell’abito femminile, ora composta esclusivamente da colori primari. Un’altra differenza da registrare riguarda la decorazione della base: il più complesso decoro a triangoli policromi del bozzetto viene sostituito, nel momento della realizzazione, da una colorazione grigia che sfuma verso il bianco a mano a mano che ci si sposta in direzione del centro del piedistallo. Il modello decorativo della ceramica è coerente con quello dell’esemplare riprodotto nel fondo fotografico della manifattura conservato presso l’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 126, n. 67). BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 69; Catalogo D2, n. 69; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, pp. 15, 27-28; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 28, n. 17; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 19, 58; PANZETTA 1992, fig. 13, pp. 106, 126, n. 67; Invito al collezionismo 1992, copertina, n. 7; QUESADA 1994, p. 115; PROVERBIO 2001, p. 108, n. 2; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 201, n. 376.

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ESPOSIZIONI: Catalogo A1, n. 69; Catalogo D2, n. 69: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

17. (TAV. 14) Donna con cactus, 1930. Modello 153. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 49 x 18,5 x 13 cm Collezione privata.

18. (TAV. 15) Donna con cactus, 1929. Gesso. 52 x 19,1 x 12,4 cm Collezione privata. A causa delle cattive condizioni di conservazione dovute a una poco felice operazione compiuta da precedenti proprietari, in tempi recenti è stato necessario sottoporre la ceramica a un intervento di restauro che ha permesso di recuperare l’alta qualità dell’opera, pur non avendo potuto conservare la marca posta all’interno della cavità. Nonostante l’assenza della datazione, è possibile collocare l’invenzione del modello al 1929, come certificato dalla sua partecipazione alla mostra milanese tenutasi nella galleria di Lino Pesaro. A differenza del gruppo Arlecchino e Arlecchina (cat. 16), caratterizzato da una leggerezza e da una grazia di gusto neosettecentesco, la Donna con cactus si distingue per le forme squisitamente novecentiste e per una concezione volumetrica più solida e compatta. Dal punto di vista compositivo, Da Milano adotta una soluzione particolare, lontana dalla tradizionale figura intera o dal mezzo busto, accentuando maggiormente il senso monumentale della figura tagliandola al di sotto delle ginocchia. Le forme piene del corpo sono avvolte in un abito stretto in vita e ampio nella gonna, che viene trattenuta con la mano sinistra, formando un ricco panneggio che asseconda e valorizza le linee morbide e arrotondate del ventre e delle gambe. Il taglio compositivo, la postura del corpo, la fisionomia del volto e le masse compatte ricordano un progetto del 1921, realizzato da Susi Singer per il laboratorio ceramico delle Wiener Werkstätte (NEUWIRTH 1981, p. 149, n. 5.500), mentre lo sguar-

do vuoto e la forma a mandorla degli occhi riprendono quelli delle figure modellate da Mario Sturani o dipinte da Amedeo Modigliani. Il raffinato incarnato non è definito attraverso una cromia uniforme, ma è arricchito da delicate zone d’ombra che assecondano il modellato e ne mettono in risalto il valore plastico. L’abito è dipinto con un intenso verde bottiglia illuminato da piccole zone più chiare, mentre il vaso e il cactus sono colorati con un marrone e un verde più tenui rispetto alla capigliatura e al vestito. Tra le varianti esistenti, si registra la presenza di un modello in collezione privata datato 14 gennaio 1930, la cui gamma cromatica è ridotta a pochi colori terrosi: l’incarnato è di un bruno tendente all’arancio, mentre i capelli, l’abito e il cactus sono dipinti in marrone. L’unica tonalità più brillante è data dal giallo dei bracciali e della foglia della pianta grassa. Esiste anche un esemplare identico a quello del 1930, ma privo della colorazione gialla del cactus (ROSSO 1983, p. 149). In un’altra versione l’intera figura è dipinta con uno smalto grigio dalle sfumature azzurre, steso senza alcuna distinzione tra l’incarnato, l’abito o il vaso con la pianta (PROVERBIO 2001, p. 107, n. 1). Nella fotografia storica conservata nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 138, n. 149), la figura non è dipinta in smalti policromi, ma è ricoperta da uno strato uniforme di colore chiaro, presumibilmente bianco. La ceramica esposta in mostra, nonostante abbia dimensioni differenti, può essere messa in relazione con un’altra opera di Da Milano intitolata Donna che canta (modello 135; PANZETTA 1992, p. 136, n. 132), affine per stile, tecnica e modellato. In questo caso la figura, vestita con lo stesso abito e gli stessi accessori, è ritratta con gli occhi chiusi, totalmente concentrata nel canto, in una postura associabile a un altro modello delle Wiener Werkstätte, ideato da Erna Koprivna (NEUWIRTH 1981, p. 161, n. 5.534). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 153; Ceramiche di Lenci 1929; FELICE 1930, tav. 13; PROVERBIO 1979, p. 94, n. 105; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 19, 58; ROSSO 1983, p. 149; PROVERBIO 1986, p. 94, 174; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 51; PANZETTA 1992, p. 138, n. 149; Invito al collezionismo 1992, n. 14; Le ceramiche Lenci 2000, p. 57; PROVERBIO 2001, p. 107, n. 1. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

TEONESTO DEABATE 19. (TAV. 89) Hawaiana, 1932. Modello 55. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35,5x 15,5 x 12 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY» e simbolo grafico del decoratore Giuseppe Ferinando (stella cometa), «GIOVANNI PARACCHI / 24-GIUGNO-1932-X», all’interno di una cornice ondulata; «29» inciso in pasta nell’incavo del fondello. Collezione privata. L’opera fa parte, insieme all’Abissina di Sandro Vacchetti (cat. 131), di una limitata serie di ceramiche ispirate a paesi lontani, conturbanti e misteriosi, vissuti come luoghi primitivi e liberi dalle convenzioni e dalle regole della cultura europea. Questa immaginaria libertà di costumi diventa occasione e pretesto per mostrare, in una chiave differente rispetto ai modelli tradizionali, il nudo femminile in tutta la sua provocante bellezza. Più in generale, il fascino per l’esotico è una delle numerose e specifiche componenti che contraddistinguono il gusto déco e che hanno influenzato, non solo nei soggetti, ma anche nelle forme e nello stile, diversi artisti contemporanei. Deabate rappresenta una figura femminile dalla carnagione scura e i capelli neri, raccolti in un’acconciatura impreziosita da due fiori. La fisionomia del viso e del corpo rispetta i canoni estetici che venivano comunemente riconosciuti e ricercati in una donna esotica: grandi occhi allungati, naso schiacciato, un seno florido e abbondante, forme morbide e arrotondate, appena nascoste da un semplice pareo monocromo. Anche la vegetazione, il contenitore dell’acqua che la donna appoggia su una spalla, la collana, il bracciale e la cavigliera contribuiscono a restituire l’atmosfera esotica di un mondo lontano. La gamma cromatica si riduce a pochi colori: il bruno dell’incarnato, il nero dei capelli, il verde del cesto e della vegetazione, il bianco della gonna e il rosa dei fiori e dei gioielli. Le zone d’erba sono rese attraverso un elemento tridimensionale stilizzato e dalla linea ondu-

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lata che, dal confronto con altre ceramiche prodotte da Deabate quali la Cameriera con gatto (modello 47; PANZETTA 1992, p. 123, n. 44), si rivela essere un elemento iconografico ricorrente e distintivo delle sue opere. Sebbene l’esemplare esposto rechi la data 1932, l’ideazione di questa ceramica risale al 1929, come dimostra la sua presenza alla mostra svoltasi presso la galleria milanese di Lino Pesaro. Nonostante questa scultura sia stata prodotta tre anni dopo il primo esemplare, il numero inciso nel fondello indica che la ceramica è stata la ventinovesima a essere ultimata entro il 24 giugno 1932. La bassa numerazione suggerisce il ridotto interesse del pubblico nei confronti di questo modello che non compare in nessuno dei cataloghi merceologici pubblicati dalla manifattura. Si ritiene interessante sottolineare la presenza di due diverse firme relative alla decorazione pittorica, che fanno ipotizzare un lavoro di collaborazione tra due maestri. La stella cometa è il segno di riconoscimento del pittore Giuseppe Ferinando, il cui nome è inserito nei libri matricola della manifattura dal 1930 al 1944, per poi ricomparire dal 1946 al 1961 con il ruolo di maestro ceramista (PANZETTA 1992, p. 398). Giovanni Paracchi, il cui nome non figura nei lacunosi libri matricola o nei libri paga settimanali della manifattura, non si limita a siglare l’opera attraverso un simbolo grafico o le iniziali del suo nome, ma ricorre a una firma estesa e completa, secondo una consuetudine che applica non solo su altre ceramiche, ma anche nei disegni, come ad esempio nel bozzetto per la Madonna del riposo di Giovanni Grande (GARGIULO 2008b, p. 89, n. XL). BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 25; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 21, 58; Teonesto Deabate tra pittura e architettura 1984. p. 165; PANZETTA 1992, p. 124, n. 52; PROVERBIO 2001, p. 113, n. 1; Teonesto Deabate 2005, p. 84. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Teonesto Deabate tra pittura e architettura», Torino 1984. [S.C.]


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CLAUDIA FORMICA 20. (TAV. 85) La principessa e la rana, 1931. Modello 2. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 28 x 26,7 x 16,1 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 11-1-31» e simbolo grafico del decoratore («X» incorniciata); etichetta cartacea compilata a penna blu «Lenci / Figura / n. 2 / 356». Firma incisa in pasta sul bordo laterale della base: «FORMICA». Collezione privata. La ceramica è ispirata a una celebre favola per bambini, di cui esiste anche una singolare versione piemontese ripresa negli anni cinquanta da Italo Calvino nella raccolta Fiabe italiane, in cui i ruoli sono invertiti ed è il principe a sposare la rana-principessa. Claudia Formica prende spunto dalla versione più conosciuta, ma decide di non rappresentare l’episodio del bacio che trasforma il ranocchio in un principe, bensì il momento precedente, caratterizzato dalla lunga conversazione tra i due personaggi. La principessa, appartenente al mondo delle fate o degli elfi, più che a quello degli esseri umani, è seduta su un prato, con la schiena appoggiata a un fungo, le gambe accavallate e le braccia aperte per accompagnare il proprio discorso. La fanciulla non è modellata secondo forme scultoree e ben definite, ma presenta un corpo allungato ed elastico, reso ancora più affusolato dal lucido brillante della vetrina. Dal cappello del fungo più grande si sporge la piccola rana, che può così guardare dall’alto gli occhi a mandorla della principessa. La decorazione pittorica, giocata sui toni del verde e del marrone, è stesa in modo piuttosto approssimativo attraverso pennellate rapide e sfumate, mentre la base è segnata da piccoli ciuffi stilizzati che suggeriscono la presenza del prato. La ceramica, una delle prime prodotte dalla manifattura, è quella che apre il catalogo delle opere esposte a Milano nel 1929 ed è stata l’unica scultura di Claudia Formica a essere presentata in quella occasione.

BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 2; Ceramiche di Lenci 1929; CERUTTI 1982, p. 89; Le ceramiche Lenci 1983, p. 23; PANZETTA 1992, fig. 2, pp. 105, 117, n. 2; PROVERBIO 2001, p. 117, n. 1; GARGIULO 2008b, pp. 48, 237; AUDIOLI 2008, p. 109. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

21. (TAV. 86) La lettura, 1933. Modello 54. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 30 x 35,7 x 21,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 9-33-XI / A / LA LETTURA»; bambola incussa in pasta. Iniziali incise in pasta alla base dell’albero: «.CF.». Collezione privata. A differenza delle altre due sculture dell’artista esposte in mostra (catt. 20 e 22), la donna riprodotta in ceramica non appartiene più al mondo dell’immaginario delle favole e del sogno, ma è una figura reale, perfettamente in scala rispetto ai pochi elementi naturali che la circondano. Nonostante questo dato, si deve comunque osservare una modellazione del corpo molto simile alle altre opere, in cui la sintesi e la stilizzazione delle forme raggiungono livelli tali da ignorare la definizione di alcune parti anatomiche, come nel caso delle dita delle mani, che ricordano quelle delle bambole di pezza. Anche la capigliatura bruna è graficamente stilizzata, pur mantenendo una pettinatura in linea con la moda del tempo. La donna, adagiata quasi senza peso su una base che simula la sezione di un tronco d’albero, è totalmente assorta nella lettura di un libro, avvolta in un’atmosfera irreale e sognante, accentuata dalla nudità della figura coperta solo da un panneggio quasi privo di pieghe. La gonna così formata è decorata da croci blu alternate a brevi tratti viola, distribuiti su un fondo giallo chiaro. Nel complesso, la gamma cromatica scelta per quest’opera si basa soprattutto su delicate tonalità pastello, ravvivate solo dalle macchie giallo intenso dei frutti e dal colore bruno della chioma.

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La ceramica esposta è un esemplare tardo, in quanto il prototipo della Lettura risale già al 1930, come confermano alcuni pezzi di altre collezioni private recanti la data di esecuzione accanto al marchio posto sotto la base. Nonostante questo, il modello esposto è di notevole pregio e rispetta fedelmente la decorazione del modello originale, così come viene riprodotto nelle fotografie d’epoca conservate nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 124, n. 51). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 54; PROVERBIO 1979, p. 43, n. 54; Le ceramiche Lenci 1983, p. 23; PANZETTA 1992, p. 124, n. 51; PROVERBIO 2001, p. 119, n. 3. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

22. (TAV. 87) Nudino e farfalla, 1936-1937. Modello 144. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 26,5 x 26,7 x 13,8 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY» e simbolo grafico del decoratore (ala); sigla incisa in pasta («RA»?); etichetta cartacea compilata a penna blu «17029/7». Collezione privata. La breve collaborazione della pittrice Claudia Formica con la manifattura torinese, limitata al periodo compreso tra il 1927 e il 1930, dà vita a un ristretto nucleo di opere in cui l’elemento dominante è il nudo femminile di piccole dimensioni. Privo di ogni monumentalità scultorea, il nudo diventa più leggero e si allinea al carattere divertito e spensierato tipico di una parte significativa della produzione Lenci. Nel Nudino e farfalla, la minuta figura femminile, probabilmente una creatura dei boschi nata direttamente dal mondo della fantasia e delle favole per bambini, mostra un fisico modellato per volumi semplici e allungati, lontani da un’articolata definizione anatomica del corpo. La fisionomia e l’espressività esagerata del volto e dei gesti rivelano una stretta affinità con alcuni pezzi firmati da Elena König Scavini. La donnina dai capelli biondi, sollevati in un mosso turbante, si trova di fronte a una farfalla gigante e a un cespuglio di fiori, che sono invece resi at-

traverso forme piene, che ricordano le linee morbide dei fumetti e delle bambole. Le ali dell’insetto rappresentano l’elemento decorativo più rilevante dell’intera composizione: se la parte interna è dipinta con la tecnica dell’aerografo, in tonalità che sfumano dal rosa tenue al violetto, la superficie esterna è dipinta a mano con una straordinaria gamma di colori brillanti. Sono proprio le variazioni nella decorazione delle ali della farfalla, differenti sia nella cromia sia nel disegno, l’elemento principale che permette di distinguere e riconoscere i diversi pezzi prodotti a partire dal medesimo modello. Anche se la scultura in esame non è datata, l’analisi della marca, composta dal nome della manifattura, dal luogo di produzione e dal simbolo del decoratore, consente di collocare la realizzazione della ceramica nella seconda metà degli anni trenta. Si tratta dunque di un esemplare tardo poiché il confronto con le fonti bibliografiche e il basso numero del modello indicano che l’ideazione del pezzo sia da collocare già nel 1929. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 144; PROVERBIO 1979, p. 92, n. 100; Le ceramiche Lenci 1983, p. 22; PANZETTA 1992, p. 137, n. 141; PROVERBIO 2001, p. 119, n. 4; GARGIULO 2008b, p. 242. [S.C.]

GIOVANNI GRANDE 23. (TAV. 32) Donna con mantello e ombrello La pazza dei Tornetti Valle di Viù, 1928. Modello 52. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 46 x Ø 14 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY». Firma incussa in pasta sul retro: «Grande». Collezione privata. La ceramica, che dall’analisi della marca semplificata è databile entro il 1928, rappresenta una figura femminile in piedi, con le gambe divaricate, le braccia sollevate e le mani aperte, quasi a voler bilanciare i pesi della mela appog-

giata sul palmo destro e del cuore tenuto nella mano opposta. La testa è coperta da un cappello giallo a tesa larga, decorato con fiori colorati e nastri viola, non dissimile da quelli in paglia o stoffa con ornamenti floreali in pannolenci prodotti dalla stessa manifattura. L’ampio mantello è dipinto internamente in verde, mentre la parte esterna è arricchita da una decorazione a sottili righe nere su fondo bianco, disposte con regolarità per formare figure romboidali. L’abito bianco è completamente rivestito da forme di ogni genere: uccelli in gabbia, scale, scorpioni, insetti, dadi, stelle, la falce di luna, una forchetta, numeri portafortuna, una candela appena spenta, un paio di pinze, una piccozza, vasi di fiori, una pergamena. Questo vasto repertorio di amuleti e simboli scaramantici è definito attraverso una pennellata tratteggiata e sfumata che rende i contorni evanescenti. Il volto, incorniciato da lunghi capelli bruni, sembra in realtà una caricatura con gli occhi chiusi, le labbra strette in un sorriso, le guance arrossate e il mento sporgente. I tratti ricordano quelli di alcuni dipinti di Grande e, in particolare, si può sottolineare un’interessante similitudine con il ritratto Mia moglie allo specchio del 1932, presentato alla prima mostra retrospettiva dedicata al pittore nel 1942, e riproposta ventotto anni dopo nell’esposizione presentata da Luigi Carluccio. Maria Grazia Gargiulo ritiene che la figura di Grande sia ispirata a un personaggio popolare e la intitola significativamente La pazza dei Tornetti Valle di Viù (GARGIULO 2008b, pp. 3435, 180-181, 241). La donna sarebbe la protagonista di uno dei tanti racconti tradizionali delle valli piemontesi, che narra di una strega nascosta tra le montagne dei Tornetti per sfuggire a un’ingiusta profezia d’amore. Questa interpretazione collegherebbe l’opera a dipinti e bozzetti come la Lotta di streghe e nude, sempre esposta in occasione della mostra torinese del 1942, organizzata da Marziano Bernardi, Edoardo Rubino e Vittorio Viale. Le composizioni fantastiche di Grande, popolate da streghe, testimoniano un’infatuazione per il mondo magico raccontato nelle favole e nelle leggende popolari. L’opera esposta è quasi certamente la stessa riprodotta nella fotografia d’epoca ora conservata nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 123, n. 48), in quanto riporta gli stessi piccoli difet-

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ti di produzione presenti sulla base. Allo stato attuale delle ricerche, non avendo notizia di altri esemplari conservati in collezioni pubbliche o private, è possibile ritenere che la Donna con mantello e ombrello sia un’opera unica. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 123, n. 48; GARGIULO 2008b, pp. 34-35, 180-181, 241. [S.C.]

24. (TAV. 39) Faunetto in frac e nudo femminile, 1928. Modello 41. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 29 x 21 x 19,2 cm Iscrizioni a pennello in nero sottovetrina all’interno della base: «Lenci / ITALY», iniziali del decoratore («TC») e «4». Firma incussa in pasta sul bordo laterale della base: «Grande». Collezione privata. L’opera rappresenta un nudo femminile seduto su un alto masso, con il braccio appoggiato sul tronco di un albero carico di foglie e frutti. La modellazione e la decorazione pittorica della figura mostrano strette analogie con altri nudi realizzati da Grande durante i primi anni di collaborazione con la ditta torinese. In questo caso, i volumi semplificati e la scarsa attenzione per il dettaglio, che ricordano le scelte formali di Arturo Martini, sono impiegati da Grande per enfatizzare il valore espressivo di una sensualità innocente, priva di eccessi e di malizia. Accanto alla donna è seduto un buffo faunetto, vestito con un frac che lascia scoperta la pancia tonda; il viso ricorda i volti di alcuni dipinti di Grande, caratterizzati da espressioni caricaturali e ironiche. L’atteggiamento altezzoso della donna, velato da un leggero compiacimento, lascia facilmente comprendere il suo totale disinteresse nei confronti dello strano spasimante, che sembra comunque non accorgersi di questa indifferenza e continua a sperare nell’efficacia del suo corteggiamento. L’opera può quindi essere considerata uno dei primi esempi di ceramiche dedicate al tema della coppia di innamorati o corteggiatori, che offrono all’artista la possibilità di osservare e rappresentare, attraverso la sua caratteristica ironia, un vasto campionario di atteggiamenti umani.


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Pur non essendo datata, la marca semplificata permette di inserire la ceramica tra gli esemplari prodotti entro il 1928. Tra le sculture del Faunetto in frac e nudo femminile pubblicate in altri volumi, si registra la presenza di un pezzo appartenente a una tiratura di cinquanta esemplari (PANZETTA 1992, tav. 8, p. 105). Questa informazione è utile per anticipare ulteriormente la data di creazione del modello, che dovrebbe quindi riferirsi a un periodo collocabile nel biennio 1927-1928. Non si conoscono varianti che presentino differenze significative, in quanto i diversi esemplari si limitano a proporre lievi cambiamenti nella gamma cromatica. In effetti, la maggior parte della superficie è ricoperta con una colorazione bianca uniforme, mentre la decorazione pittorica è molto semplice, limitata alla definizione dei tratti dei volti e di pochi elementi come l’albero e la figura del fauno. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, tav. 8, pp. 105, 122, n. 38; Le capitali d’Italia 1997, p. 339; PROVERBIO 2001, p. 145, n. 15. ESPOSIZIONI: «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

25. (TAV. 99) Fauno e ninfa dormiente, 1928. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 23 x 43,5 x 28 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / ITALY» e iniziali del decoratore («T.C.»). Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata. La ceramica, raffigurante un fauno che, sollevando un velo, contempla bramoso una ninfa dormiente, attesta la particolare inclinazione di Giovanni Grande, nell’ambito della sua intensa attività presso Lenci, per fantasiose composizioni ispirate a temi mitologici. Se nell’affrontare soggetti agresti l’artista evidenziava una forte vena intimistica, nel trasporre brani di tenore mitico pare più incline a concedere rimandi sottilmente ironici e sensuali. La tavolozza cromatica, impostata su una raffinata dominante di toni freddi, accesi unicamente dal rosso delle labbra del fauno e della ninfa, la qualità dei ma-

teriali impiegati, tra cui la splendida invetriatura che esalta la plasticità dei corpi e i passaggi chiaroscurali della policromia, e la presenza dell’iscrizione «Lenci / ITALY» sono elementi che consentono di collocare l’esecuzione di questo manufatto non oltre il 1928. La composizione denota inoltre numerosi rimandi con ulteriori soggetti ideati in quel momento da Giovanni Grande. Se la muscolosa figura del satiro non può che richiamare con immediatezza l’analogo personaggio inserito nel monumentale Trionfo di Bacco (cat. 26), con il quale condivide la definizione dello scuro incarnato e la modellazione a rilievo della capigliatura, il morbido nudo femminile rivela, anche nella definizione dei tratti somatici, una stretta affinità con Venere (cat. 37) e con Nuda su foglia (modello 53; PANZETTA 1990, p. 124, n. 50), nella quale si ritrova la stessa semplificazione formale nella definizione degli elementi vegetali che accolgono, come un’enorme corolla, il corpo femminile. Alla considerevole abilità dell’anonimo decoratore «TC» - autore, tra le altre, delle policromie che impreziosiscono il coevo Faunetto in frac e nudo femminile di Grande (cat. 24) e di una delicata Lettura di Claudia Formica datata «15-3-29» (collezione privata) - si deve la perfetta esaltazione della forza plastica di ogni elemento, assecondando il linguaggio espressivo di Giovanni Grande che, sin dalle prime opere realizzate per Lenci, mostra una rigorosa semplificazione formale mai incline a un decorativismo fine a se stesso. Il numero del modello non è emerso dal corpus storico della manifattura, ma è forte il sospetto che possa coincidere con uno dei dieci mancanti nella rassegna dei primi cento, circoscrivibili al 1928. Non a caso Alfonso Panzetta la inserì nella sezione dedicata alle ceramiche prive di documentazione all’interno dell’archivio storico, presentando un esemplare connotato, rispetto all’opera in esame, da una policromia sensibilmente più marcata (PANZETTA 1992, p. 385, n. 1.744). La stessa immagine in bianco e nero fu riproposta da Luciano Proverbio (2001, p. 149, cat. 21). La decorazione della ceramica in esame appare più accostabile a quella di un’altra collezione privata (Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 176-177, cat. 200). Contraddistinto invece da una gamma cromatica particolarmente accesa e meno naturalistica, con numerose varianti nella stesura cromatica sia per la resa degli elementi vegetali sia per i dettagli

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delle membra virili, è il pezzo di una collezione torinese (GARGIULO 2008b, p. 224), riferito genericamente al 1929. L’esame diretto di quest’ultimo ha consentito di puntualizzarne la tipologia di marca e la datazione («Lenci / MADE IN ITALY / 25-11-29»), oltre a rilevare la presenza del numero «17» incusso in pasta, in relazione alla quantità di ceramiche prodotte sino a quel momento. L’attuale individuazione di esemplari riferibili solo al biennio 1928-1929, il numero estremamente esiguo di pezzi fuoriusciti dalla fabbrica sino al novembre del 1929 e l’assenza all’interno dei cataloghi della ditta editi negli anni trenta, costituiscono le prove di una produzione particolarmente limitata. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 385, n. 1.744; PROVERBIO 2001, p. 149, n. 21; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 177-178, n. 200; GARGIULO 2008b, p. 224. [D.S. - G.Z.]

26. (TAV. 16) Trionfo di Bacco, 1928. Modello 1. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38 x 60 x 37 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY». Firma incussa sul retro: «Grande». Collezione privata.

27. (TAV. 17) Trionfo di Bacco, 1928. Gesso. 60 x 43 x 33,5 cm Firma incussa sul retro: «Grande». Collezione privata. La ceramica, databile entro il 1928, appartiene alla serie di opere a soggetto mitologico, affrontato anche successivamente in sculture come Venere (cat. 37), Castore (cat. 28) e Polluce (cat. 29), Antilope (cat. 39) e Scatola Diana (cat. 45). In questo caso, il protagonista del gruppo è Bacco, figura della mitologia romana nata dall’unione di Giove e Semele. Secondo l’iconografia tradizionale, il dio del vino è rappresentato con un corpo pieno e robusto, nudo o seminudo, con il capo cinto da una corona di foglie di vite o di edera; nella mano tiene il tirso o solleva una coppa di vino, una brocca o un grappolo d’uva. Spesso la figura di Bacco viene inse-

rita in scene che ne rappresentano il trionfo durante i suoi celebri banchetti a base di vino, musica e danze. Solitamente, il corteo che lo accompagna è composto da menadi danzanti, dai satiri e da Sileno in groppa all’asino. Il Trionfo di Bacco ideato da Giovanni Grande raffigura il momento finale della festa, quando l’euforia dell’ebbrezza ha ormai lasciato il posto alla spossatezza. Bacco, caduto in un sonno profondo, viene sorretto da due possenti satiri che cercano di farlo salire sull’asino di Sileno, costretto a cederlo al dio. Sileno è raffigurato dietro il suo animale, nel tentativo disperato di aiutarlo a sostenere il peso della divinità. Anche la giovane Arianna appare stremata dai festeggiamenti e, dolcemente addormentata, si lascia cadere sul collo dell’asino, rendendo il trasporto di Bacco ancora più difficoltoso. La sofferenza dell’animale è perfettamente espressa dagli occhi spalancati e dal muso contratto in un raglio disperato. Il gruppo comprende anche un piccolo, ma forzuto satiro, raffigurato nello sforzo di aiutare gli adulti, e un muscoloso bambino biondo a cavallo di uno dei due cani che accompagnano il corteo. Se il corpo della donna, definito attraverso forme morbide e arrotondate, è in linea con gli altri nudi femminili modellati da Grande, i corpi maschili dei satiri, atletici e statuari, si distinguono per una definizione volumetrica delle masse che ritorna anche nella figura maschile del Fauno e ninfa dormiente (cat. 25). L’opera si accosta alle altre sculture di Grande per il tono ironico che domina la composizione e l’interesse per la descrizione dei diversi atteggiamenti dei personaggi. I gesti e l’aspetto caricaturale sono il segno di un’espressività marcata e teatrale, volta a rendere ancora più grottesca la scena scomposta del Trionfo. L’opera è dipinta con tinte pastello, che ben si adattano alla lucentezza della vetrina e riprendono la stessa delicata gamma cromatica di altre opere ceramiche di Grande. Si registra l’esistenza di alcune versioni dalla cromia più vivida e brillante (Le capitali d’Italia 1997, p. 339; PROVERBIO 2001, p. 141, n. 9) o totalmente prive di colorazione, ma rivestite da una copertura omogenea di colore bianco, come nel caso di un esemplare marcato in bruno «Lenci / Italy / 116-29» e recante incusso in pasta il numero «21» (Ceramica italiana d’autore 2007, p. 177, n. 199). BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 1; Catalogo D1, n. 1; Catalogo D2, n. 1; PROVERBIO 1979, p. 95, n. 112; Le

ceramiche Lenci 1983, pp. 25, 58; PROVERBIO 1986, p. 175; PANZETTA 1992, tav. 1, pp. 105, 117, n. 1; Le capitali d’Italia 1997, p. 339; PROVERBIO 2001, p. 141, n. 9; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 176-177, n. 199; GARGIULO 2008b, pp. 28, 166, 238; AUDIOLI 2008, p. 106. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

28. (TAV. 100) Castore, 1929. Modello 134. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38,5 x 39,3 x 27,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 10-4-29» e simbolo grafico del decoratore; bambola e «43» incussi in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo laterale della base: «Grande». Collezione privata.

29. (TAV. 101) Polluce, 1930. Modello 133. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38 x 37 x 24,7 cm Iscrizione in smalto nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / 6-11-30» e sigla del decoratore, probabilmente Roselda Allemano («RA»); bambola incussa in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo laterale della base: «Grande». Collezione privata. I due gruppi plastici, ideati nel 1929, appartengono alla serie di opere a tematica classica, più volte affrontata da Giovanni Grande. In questo caso specifico, l’artista ritrae due personaggi della mitologia greca e romana, conosciuti soprattutto con il nome di Dioscuri, i «figli di Zeus». Secondo la leggenda, Zeus, invaghitosi della mortale Leda, moglie di Tindaro, le si presenta sotto forma di cigno. In seguito a questa unione, Leda genera due uova dalle quali nascono prima i gemelli Elena e Polluce, poi Castore e Clitennestra. Questi ultimi, in realtà, sono figli legittimi di Tindaro, e in quanto tali completamente umani. Protagonisti di eroiche

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imprese, tra cui il viaggio degli Argonauti alla conquista del vello d’oro, i due fratelli vengono coinvolti in una terribile battaglia contro i cugini Idas e Linceo, ma nello scontro Castore viene ferito a morte. Polluce, non volendo separarsi dall’amato gemello, chiede a Zeus di privarlo dell’immortalità per poterlo raggiungere negli Inferi. Mosso a pietà, il re degli dei concede loro di restare insieme per sempre, un giorno nell’Ade e un giorno sul monte Olimpo. In seguito, come ricompensa per il loro amore fraterno, vengono entrambi portati in cielo e trasformati in costellazione. Fin dall’antichità, i due personaggi sono generalmente rappresentati come nudità eroiche, talvolta vestiti con un semplice cappello conico e un mantello sulle spalle, e sono spesso accompagnati da un cavallo. In alcuni casi tengono in mano una lancia e ai piedi hanno un elmo a forma di guscio d’uovo, evidente ricordo della loro particolare origine. Per le sue ceramiche, Grande preferisce invece ridurre la composizione a pochi elementi, rimuovendo i dettagli meno significativi. Il gruppo di Castore, esperto ammaestratore di cavalli, si riconosce per il panneggio blu e per il destriero dal lucido manto nero, in un accostamento cromatico di estrema e raffinata eleganza. Polluce, il più abile nella lotta e nel combattimento fisico, si distingue dal fratello per il rigido mantello rosso e il cavallo di un grigio più sfumato. Rispetto alle raffigurazioni tradizionali, Giovanni Grande si allontana dalla perfezione classica del nudo atletico. I due eroi, vestiti con una corta tunica bianca e priva di maniche, sono ben lontani dalla bellezza ideale di stampo accademico. Entrambi presentano una testa piccola e tonda, un busto massiccio, gambe e braccia tozze e per nulla muscolose. Dal punto di vista compositivo, lo scultore non si ispira alle statue in bronzo della cancellata che chiude la piazza antistante il Palazzo Reale di Torino: realizzati nel 1846 su disegno di Pelagio Palagi, I Dioscuri sono raffigurati a cavallo, con l’animale che si impenna sulle gambe posteriori. Grande preferisce invece porre le due figure in piedi accanto ai rispettivi animali. Se si vuole cercare un possibile modello di riferimento nella statuaria antica, non si deve guardare alle opere poste alla sommità della scalinata di accesso al Campidoglio. In effetti, nelle due sculture di epoca antoniniana (metà del II secolo d.C.), Castore e Polluce mantengono un atteg-


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giamento sereno e controllato, accompagnati da due cavalli docilmente al trotto. Le opere di Grande, invece, sono più affini alla tipologia rappresentata dal gruppo del III secolo d.C, collocato di fronte al palazzo del Quirinale. In questo caso, i due fratelli sono rappresentati in qualità di domatori, secondo uno schema utilizzato in un numero limitato di opere. La scelta iconografica di Grande ha permesso di articolare le figure in movimenti più complessi, con Castore e Polluce sbilanciati nel tentativo di calmare i cavalli scalpitanti. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, nn. 133-134; PROVERBIO 1979, p. 91, n. 98; Le ceramiche Lenci 1983, p. 24; PROVERBIO 1986, p. 171; PANZETTA 1992, p. 136, n. 131; Le ceramiche Lenci 2000, p. 62; PROVERBIO 2001, pp. 136137, nn. 4-5; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 109, 176177, n. 198; AUDIOLI 2008, p. 105. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

30. (TAV. 102) Don Chisciotte e Sancio Pancia, 1929. Modello 125. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 52 x 58,5 x 36 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 30-10-29», «+» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata). Firma incisa in pasta sul bordo laterale della base: «Grande». Collezione privata. Insieme al Trionfo di Bacco (cat. 26), il gruppo Don Chisciotte e Sancio Pancia è uno dei pezzi di maggiori dimensioni prodotti dalla manifattura Lenci. È uno dei rari esempi di soggetto tratto da opere letterarie: Grande si ispira al testo più conosciuto dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, pubblicato in due volumi nel 1605 e nel 1615. Il Don Chisciotte della Mancia narra le grottesche vicende di un signorotto di campagna che, incitato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide di farsi nominare cavaliere con il nome di don Chisciotte della Mancia. Accompagnato da Sancio Pancia, un contadino improvvisatosi scudiero, si dà a una serie di rocambolesche avventure, interpretando il mondo che lo circonda in termini ro-

manzeschi e diventando vittima della propria immaginazione. Il romanzo di Cervantes fonde in un unico testo diversi livelli di lettura: dalla parodia del romanzo cavalleresco alla satira dell’idealismo, dall’inno alla libertà alla rappresentazione della società spagnola tra il XVI e il XVII secolo. L’attenzione di Grande si sofferma invece sugli aspetti più umani e dolorosi delle vicende dei due protagonisti, mettendo in luce la disfatta del loro modo di vivere. Don Chisciotte ha perso ogni tratto distintivo dell’eroe cavalleresco: la fierezza e il coraggio lasciano il posto all’immagine triste e dimessa di una figura smagrita e dolorante, con la testa fasciata e le spalle avvolte in una coperta a scacchi indossata come un mantello. Nonostante le difficoltà, don Chisciotte mostra un volto sereno e tenta di rincuorare il suo aiutante, incitandolo a rialzarsi e ad affrontare nuove avventure. Sancio Pancia, dal fisico decisamente più robusto, mostra i segni della battaglia - l’occhio bendato e il braccio rotto - e un’espressione stupita che ostentano chiaramente la sua rassegnazione e la sua mancanza di volontà. Il senso generale di sconfitta, non priva di una delicata ironia, non risparmia neppure i due scheletrici animali, che mestamente abbassano la testa. L’opera di Grande è stata esposta in occasione della mostra alla galleria di Lino Pesaro. Nell’articolo di commento all’evento, Dino Bonardi dedica parole piene di ammirazione per il lavoro di Giovanni Grande, del quale sottolinea la forte personalità e la capacità di affrontare aspetti molto diversi e perfino opposti tra di loro. Grande è dotato di un’evidente facilità espressiva, che gli permette di toccare tutti i generi, «dal comico schietto al comico umano; dal mistico all’elegiaco; dal romantico al decorativo». Secondo il critico, tra le opere esposte «più interessante, e forse più aderente all’intimo dell’artista, sembra la sua sensibilità laddove il comico sconfina e si addolcisce il sogghigno dell’umano, ossia là dove mette capo ad una umanità il cui empito di grandezza e di tragedia va a naufragare nella palude, un po’ dolorosa e un po’ goffa insieme, della vita comune. Rappresentativo di questo atteggiamento è quel gruppo Don Chisciotte e Sancio Pancia, nel quale lo spirito intimo, fatto di relatività desolata ma sorridente, dell’eroe di Cervantes, è colto nella sua sostanzialità». Nello stesso anno, Grande affronta nuovamente questo tema letterario realizzando la scultu-

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ra intitolata Don Chisciotte (modello 33; PANZETTA 1992, p. 121, n. 30). In questo caso, la

figura dell’impavido eroe è ritratta a cavallo del suo ronzino, non più accompagnato dal fidato scudiero Sancio Pancia. L’ironia della scena è garantita dal diverso atteggiamento del cavallo e del cavaliere: don Chisciotte mantiene una posizione eretta e composta, esibendo una nobiltà e un coraggio da vero eroe, mentre Ronzinante, ormai stanco di cavalcare senza meta e senza scopo, piega le zampe e reclina la testa in avanti, facendo perdere al suo padrone ogni credibilità. Le affinità tra le due ceramiche non si limitano al tema comune, ma Grande adotta il medesimo stile sia nella modellazione sia nel decoro. Il simbolo grafico riportato sotto la base dell’opera ha permesso di identificare l’autrice della decorazione pittorica in Graziella Arozza, presente nei libri matricola della fabbrica dal 22 giugno 1933 al 6 settembre 1941 (PANZETTA 1992, p. 398). La datazione di questa ceramica e di altre ceramiche esposte in mostra risalenti al 1929 e al 1930 - Flauto magico (cat. 31), Amanti sul tronco (cat. 38), Vaso Il mondo e la luna (cat. 93), Vaso Uccello (cat. 99); Autunno (cat. 106) e Inverno (cat. 107) e l’Abissina (cat. 131) - dimostrano però che la pittrice era stata assunta dalla manifattura diversi anni prima, confermando lo stato purtroppo lacunoso dei documenti amministrativi conservati negli archivi. Tra le versioni esistenti, riconoscibili dalle diverse decorazioni e cromie degli abiti, si sottolinea anche la presenza, in collezioni private, di esemplari sprovvisti dell’invetriatura lucida e dunque databili a un momento più tardo. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 125; Catalogo D1, n. 125; Catalogo D2, n. 125; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 8; BONARDI 1929; PROVERBIO 1979, p. 90, n. 94; PROVERBIO 1986, p. 170; PANZETTA 1992, p. 135, n. 123; Le ceramiche Lenci 2000, p. 65; PROVERBIO 2001, p. 151, n. 25. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

31. (TAV. 92) Flauto magico, 1929. Modello 150. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 27,5 x 30 x 23 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 23-11-29» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); bambola incussa; triangolo inciso in pasta; «47» incusso in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Etichetta cartacea della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, relativa alla partecipazione alla mostra «Torino tra le due guerre» (1978). Collezione privata. Il soggetto raffigurato - una fanciulla in abiti ottocenteschi seduta su un prato e rapita dal suono di un flauto prodotto da un giovane appoggiato a un tronco - costituisce una raffinata interpretazione conferita da Giovanni Grande a un episodio bucolico caratterizzato, come la maggior parte dei temi ideati dal pittore nell’ambito della sua attività per Lenci, da una semplicità formale e da una classica chiarezza compositiva nella resa, a volte sintetica, della figura umana e del suo rapporto con lo spazio circostante. Sono queste le peculiarità stilistiche che contraddistinguono ogni singolo modello ideato da Grande sia nell’affrontare momenti desunti dalla vita quotidiana sia nel dare forma a episodi ricavati dalla mitologia, o, ancora, ispirati ai santi o ai personaggi letterari. L’indubbia qualità ideativa della composizione, incentrata sullo squisito garbo emanato dagli essenziali gesti dei due protagonisti, è stata ulteriormente arricchita ed esaltata, in questo esemplare, da una policromia dovuta alla mano di Graziella Arozza - sicuramente da annoverare tra i migliori decoratori attivi presso Lenci -, giocata su una tenue contrapposizione di toni che definiscono le vesti dei personaggi e da tocchi delicati che sottolineano gli elementi naturalistici. Si tratta di un decoro identico a quello del modello illustrato nel catalogo merceologico databile al 1930 circa (Catalogo B, n. 150) e che ritorna simile in un ulteriore Flauto magico di collezione privata («Lenci / MADE IN ITALY / 7-10-930»), dove la variante più notevole è costituita dalla sostituzione della stesura a campi-

ture della giubba indossata dal giovane con un vivace motivo a rombi contrastanti. Del tutto difforme appare invece la decorazione del modello raffigurato nella fotografia proveniente dall’archivio storico (PANZETTA 1992, p. 138, n. 146), nella quale si percepisce in generale l’impiego di colori più forti, mentre i piccoli bouquets sparsi sulla veste femminile lilla risultano sostituiti da una quadrettatura romboidale decisamente meno delicata. Si tratta di due varianti decorative, contrapposte tra loro anche dalla colorazione conferita alle chiome della fanciulla, che forse documentano, se non due diversi momenti di produzione del modello, almeno una seconda variante a un certo punto accostata alla prima: se la policromia presente nel manufatto in mostra rivela una maggiore adesione al gusto e alla qualità riscontrabile nei primissimi anni di attività, la seconda, come testimonia un Flauto magico di collezione privata torinese recante l’iscrizione «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / VII. XII» - databile dunque al 1934 -, costituisce una successiva evoluzione decorativa introdotta dall’inizio degli anni trenta, momento in cui si assiste in generale a un’analoga accentuazione dei toni delle policromie. Appare possibile riferire al 1928 l’invenzione da parte di Grande di questo modello, che, comparso alla storica esposizione milanese del dicembre 1929 presso la galleria Pesaro (Ceramiche di Lenci 1929, n. 90; cfr. PANZETTA 1992, p. 36 nota 38), dovette ottenere un certo riscontro presso la clientela anche nel decennio successivo, visto che, come già indicato da Binaghi (1978, p. 355, n. 5), risulta inserito nel catalogo merceologico della ditta databile tra il 1933 e il 1935 (Catalogo D2, n. 150), nel quale, peraltro, appare ancora caratterizzato da una policromia chiara con l’applicazione di una vernice particolarmente lucida che, come nei primi esemplari, esalta al meglio sia i colori sia il modellato. A confermare una datazione molto precoce sono pure gli stretti rimandi che possono essere individuati, dal punto di vista stilistico ed esecutivo, con ulteriori composizioni del maestro piemontese o della consorte Ines Grande: appare significativo in questo senso il legame evidente che esiste tra il volto della fanciulla e quello della protagonista di un’inedita Maternità di collezione privata, firmata «Seni» (ovvero Ines Grande) e contrassegnata dall’iscrizione «Lenci / ITALY» e la tiratura «1/50», databile pertanto non oltre il 1928 (cfr. il saggio di Sanguineti e Zanelli in questo volume, fig. 3). Ana-

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logo è infatti il modellato del viso come la suggestiva definizione dei tratti somatici, in entrambi i casi delineati avvalendosi di delicati tocchi a pennello che esaltano la profondità delle orbite, la forma della bocca e il diafano incarnato, secondo un vocabolario espressivo che ritorna in precoci esemplari del San Sebastiano o degli Adolescenti di Giovanni Grande. L’esemplare qui presentato è il quarantesettesimo prodotto fino al novembre del 1929 come indica il numero incusso sotto la base. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 90; Catalogo B, n. 150; Catalogo D2, n. 150; BINAGHI 1976, p. 88; Torino 1920-1936 1976, fig. 73; BINAGHI 1978, p. 355, n. 5; ROSCI 1978, p. 171; PROVERBIO 1979, p. 87; PROVERBIO 1986, p. 167; PANZETTA 1992, p. 138, cat. 146; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 52, 125; PROVERBIO 2001, p. 152, n. 28. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [D.S. - G.Z.]

32. (TAV. 91) La merenda, 1929. Modello 37. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 37 x 43 x 21,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 13-2-29» e simbolo grafico del decoratore (triangolo). Firma incussa sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata. La ceramica, di cui è stato esposto un esemplare in occasione della mostra milanese del 1929, si caratterizza per una sottile ironia che conferisce all’intero gruppo un’atmosfera serena e divertente. Mentre la figura femminile si è abbandonata a un sonno profondo, quella maschile, con la bocca spalancata e gli occhi socchiusi, sembrerebbe intenta nel canto o forse in procinto di assopirsi. In ogni caso i due personaggi sono colti in un atteggiamento rilassato, seduti su un prato e con la schiena appoggiata al tronco di un albero. La decorazione degli abiti e della base è del tutto coerente con l’immagine d’epoca del pezzo conservata nel catalogo della manifattura, recentemente confluito nel Fondo Lenci dell’Ar-


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chivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 121, n. 34). La base della ceramica è decorata con un motivo a trattini paralleli, dipinti in verde chiaro, che suggeriscono in modo schematico la presenza del prato. Come già indicato per Fiore di zucca (cat. 2), questo particolare motivo decorativo è molto simile a quello usato per l’opera di Beltrami, dipinta dallo stesso pittore ignoto, riconoscibile in quanto era abituato a firmare tutte le proprie opere con il simbolo di un triangolo. La figura maschile è stata ripresa da Grande per essere trasformata nell’impugnatura di un coperchio per il Vaso Cantastorie (modello 100; PANZETTA 1992, p. 131, n. 97) del 1929. Anche se l’opera è attribuita a Giovanni Grande, bisogna comunque sottolineare che la forma del vaso è identica a quella del Vaso con fiori (modello 74; PANZETTA 1992, p. 127, n. 73) e del Vaso Pupazzo (cat. 91), entrambi di Mario Sturani. È evidente che si tratti della collaborazione e dello scambio reciproco di idee e modelli, distintivi del clima d’équipe della manifattura torinese. In altra sede l’opera è stata presentata con il titolo La serenata (Ceramiche Lenci ed Essevi 1982, n. 11). BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2, n. 37; Ceramiche di Lenci 1929; Le ceramiche di Lenci 1929; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 24, n. 6; Ceramiche Lenci ed Essevi 1982, n. 11; PANZETTA 1992, p. 121, n. 34; GARGIULO 2008b, p. 174. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche della Lenci ed Essevi. 19271947», Torino 1982. [S.C.]

33. (TAV. 31) Gli sposi, 1929. Modello 24. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 37,5 x 36 x 22 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 9-12-29» e simbolo grafico del decoratore; triangolo inciso in pasta; «34» incusso; bollino giallo con «101» a inchiostro blu. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata.

Il gruppo, ideato da Giovanni Grande probabilmente già nel 1928, rappresenta una coppia di giovani nel giorno del loro matrimonio. La posa statica e le forme definite attraverso masse compatte determinano nel complesso una certa rigidità e anche la gonna, sollevata per mostrare le scarpe e la sottana bianca, è segnata da un panneggio bloccato che crea un effetto poco naturale. Anche le proporzioni tra le singole parti anatomiche non sono armonizzate, come dimostra soprattutto l’analisi delle mani, troppo grandi rispetto al resto del corpo. Il gruppo è apprezzabile per una decorazione degli abiti molto ricca e accurata, che varia a seconda dell’esemplare. In questo caso specifico, il completo dello sposo è dipinto con righe parallele e oblique, color prugna, intervallate da linee verticali gialle; all’occhiello è inserito un fiore rosa, identico a quelli che compongono il bouquet della sposa. L’abito marroncino della donna è invece arricchito da una serie di fiori recisi sui quali sono appollaiate delle colombe azzurre, rese attraverso un segno sintetico e non naturalistico. Questa decorazione è del tutto coerente con quella presentata dall’opera riprodotta nel repertorio della manifattura conservato nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 120, n. 22). Nel gennaio del 1929, Gio Ponti pubblica in «Domus» un articolo intitolato Due generi di ceramiche d’arte, in cui analizza e mette a confronto i prodotti della Lenci e delle Fornaci Aretini di Arezzo. Il testo è accompagnato da due immagini fotografiche raffiguranti il gruppo Gli adolescenti (modello 35; PANZETTA 1992, p. 121, n. 32) e Gli sposi, entrambi realizzati su disegno di Giovanni Grande. Rispetto al modello esposto in mostra, il gruppo riprodotto in «Domus» è una variante semplificata nei decori: l’abito dell’uomo è privo del motivo a righe, mentre quello della donna presenta fiori stilizzati. Dopo poco più di un anno, Ponti ritorna nuovamente a interessarsi di questo specifico gruppo di Giovanni Grande, pubblicando un breve articolo dedicato esclusivamente a questa composizione plastica. Nel testo intitolato I giovani sposi di Strapaese si legge: «È questa, modellata e dipinta da Grande, una delle più belle fra le nuove ceramiche che Lenci ha con così vivo successo create» (PONTI 1930b). Ponti coglie anche l’occasione per ricordare che il mese successivo i lettori avranno la possibilità di vedere dal vivo le opere della Lenci in una saletta nel-

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la Galleria delle Ceramiche della IV Biennale di Monza (1930). L’artista milanese dimostra quindi di apprezzare in modo appassionato le ceramiche prodotte dalla manifattura e, in particolare, sembra ammirare proprio le opere di Grande. Anche in questo caso l’articolo è corredato da una riproduzione fotografica del pezzo, questa volta a colori, che presenta un’ulteriore variante nella decorazione degli abiti: la veste femminile presenta un diverso motivo floreale su base rosa, sempre piuttosto stilizzato, mentre l’abito dello sposo è ora arricchito da un motivo regolare a righe orizzontali e verticali. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, pp. 10, 26; PONTI 1929, p. 44; PONTI 1930b, p. 37; La metafisica: gli anni Venti 1980, p. 167; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; Invito al collezionismo 1992, n. 3; PANZETTA 1992, p. 120, n. 22; Le ceramiche Lenci 2000, p. 67; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 177, n. 203. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

34. (TAV. 11) Susanna e i vecchioni, 1929. Modello 28. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35 x 20,8 x 29,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 26-1-», «TC» e simbolo grafico del decoratore (triangolo). Firma incussa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata.

35. (TAV. 10) Susanna e i vecchioni, 1928-1929. Gesso. 35,5 x 21 x 32,1 cm Collezione privata.

36. (TAV. 9) Susanna e i vecchioni, 1928-1929. Matita, inchiostro acquerellato e tempera su cartoncino, applicato su cartoncino avorio. 223 x 188 (354 x 245 cartoncino) mm Iscrizioni: in alto a sinistra: «Veduta di destra»; in alto a destra: «No 28 / Susanna /

Cart. 1»; sotto il disegno, sul cartoncino grigio: «le seul bien qui me reste au / monde est d’avoir quelque fois pleuré / tres just»; in basso a sinistra sul cartoncino avorio: «SUSANNA / No 28 / CART. 1». Collezione privata. Susanna e i vecchioni è una delle prime opere prodotte dalla Lenci e fa parte del gruppo di novantacinque ceramiche selezionate per rappresentare la manifattura alla mostra milanese del 1929. In questa occasione, Dino Bonardi pubblica un interessante articolo di commento alla mostra, apparso nel «Corriere della Sera» nel dicembre del 1929. Il giornalista mette in evidenza le diverse anime che emergono dall’analisi delle ceramiche progettate da Giovanni Grande e, in particolare, sottolinea il brio e la leggerezza di un pezzo come Susanna e i vecchioni, «dove l’effetto comico, è pienamente ottenuto, ed appare irresistibile, attraverso un gioco stravagante di atteggiamenti e fisionomie». In effetti, illustrando uno tra i più conosciuti episodi dell’Antico Testamento, Grande dà vita a una singolare opera di soggetto religioso, priva di ogni intento devozionale e affine al gusto giocoso della ditta. La casta Susanna viene sorpresa durante il bagno e spiata da due anziani che frequentavano la casa del marito. I due uomini la sottopongono a un terribile ricatto sessuale, ma Susanna non cede e viene salvata dal profeta Daniele, che riesce a smascherare la menzogna dei due anziani. Sebbene l’episodio abbia avuto una lunga tradizione artistica in quanto offriva la possibilità di ritrarre liberamente un nudo femminile, l’artista preferisce giocare non sulla sensualità della giovane figura, quanto piuttosto sull’ironia e sull’effetto caricaturale dell’intera composizione. Il personaggio femminile è raffigurato ignudo, con i piedi immersi in uno specchio d’acqua, le cui increspature sono rese attraverso piccole virgole curvilinee incise sulla superficie ceramica. La donna, colta in un atteggiamento sorpreso, di accentuato gusto caricaturale, esibisce un fisico pieno e goffo, lontano dai canoni di proporzione e bellezza classici. Alle sue spalle si trovano i due guardoni, in abiti antichi e con espressioni grottesche che lasciano trasparire le loro sordide intenzioni. La composizione è conclusa da una piccola lucertola nascosta nel prato e da un albero con rami spezzati e una larga foglia dai contorni seghettati.

Analizzando il decoro degli abiti dei due anziani e la cromia dei capelli della donna, si può con certezza sostenere la stretta affinità esistente tra il modello fotografato nelle immagini storiche che appartenevano al repertorio d’archivio della manifattura (PANZETTA 1992, p. 120, n. 26) e il pezzo qui presentato. Per la prima volta la ceramica viene esposta insieme al disegno preparatorio e al modello in gesso, dal quale venivano ricavati gli stampi per la realizzazione a colaggio della ceramica. Dal confronto con il disegno emergono importanti differenze tra il bozzetto e l’opera finale: nella tempera su carta, i capelli di Susanna da castani diventano blu e gli abiti, gli stivali e il berretto dei personaggi maschili sono decorati con motivi più complessi ed elaborati. Sul ramo privo di foglie viene poi inserito un piccolo volatile blu, assente nella ceramica esposta, nel gesso e nella fotografia storica, ma presente in alcune ceramiche appartenenti ad altre collezioni private, alcune delle quali fanno parte di una tiratura di venticinque esemplari. I bozzetti destinati ai decoratori sono interessanti non solo per la rappresentazione bidimensionale dell’opera che doveva poi essere riprodotta in ceramica, ma anche per la presenza di indicazioni scritte che permettono di compiere ulteriori considerazioni. Prima di tutto, il disegno di Susanna è corredato da numerose indicazioni numeriche, scritte a matita e ormai piuttosto sbiadite, relative a precisi codici di identificazione degli smalti da utilizzare per la decorazione pittorica. Un altro dato interessante da sottolineare è l’iscrizione «Veduta di destra», posta sul cartoncino avorio in alto a sinistra: trattandosi di un oggetto tridimensionale, il decoratore non poteva lavorare facendo riferimento esclusivamente a una visione parziale della ceramica, ma necessitava almeno di un secondo bozzetto con la descrizione del lato posteriore. Le indicazioni cromatiche e i pattern da dipingere sugli abiti non erano comunque sempre rispettati in modo rigoroso, come dimostrano le numerose varianti esistenti di uno stesso modello. Un’ultima osservazione da fare riguarda la particolare citazione in francese, di cui non si conosce la datazione né l’identità di colui che l’ha trascritta, commentata da un lapidario «tres just», scritto probabilmente da altra mano e in un francese stentato. La frase «le seul bien qui me reste au / monde est d’avoir quelque fois pleuré»

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[l’ultimo bene che mi resta al mondo è di aver qualche volta pianto] riprende, inspiegabilmente, gli ultimi due versi del sonetto Tristesse di Alfred de Musset, poeta e scrittore francese vissuto nella prima metà dell’Ottocento. Si tratta di una celebre poesia, citata anche da Ugo Ojetti in L’America e l’Avvenire, un opuscolo scritto nel 1905 dopo l’esperienza di giudice nella commissione di Belle Arti all’Esposizione Internazionale di St. Louis, e dalla scrittrice statunitense Gertrude Stein in Paris France, romanzo autobiografico del 1940. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 28; Catalogo D2, n. 28; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 14; BONARDI 1929; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; ROSSO 1983, p. 153; PROVERBIO 1986, p. 135; PANZETTA 1992, p. 120, n. 26; Invito al collezionismo 1992, n. 4; Le capitali d’Italia 1997, p. 340; Le ceramiche Lenci 2000, p. 71; PROVERBIO 2001, p. 134, n. 2; PER IL DISEGNO: Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; PANZETTA 1992, fig. 5; GARGIULO 2008b, p. 66. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Milano 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; PER IL DISEGNO: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

37. (TAV. 41) Venere, 1929. Modello 22. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 36,3 x 13 x 14,4 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 14/1.29»; «1» inciso in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata. La raffigurazione di Venere ha una lunga tradizione artistica che ha origine nella statuaria classica, per poi trovare ampia diffusione in ambito pittorico soprattutto a partire dal Rinascimento. Tra i temi prediletti dagli artisti si ricordano le descrizioni dei numerosi amori della dea e la raffigurazione della sua nascita. Secondo la versione più conosciuta del mito, narrato da Esiodo, Venere è la figlia di Urano, personificazione del cielo, ed è nata dal mare, dove il ti-


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tano Crono aveva gettato gli organi genitali del padre. Dall’unione del sangue, del seme e dell’acqua marina ha origine la schiuma dalla quale emerge Venere, poi trasportata dentro una conchiglia fino all’isola di Citera e, infine, a Cipro. Venere è dunque venuta al mondo come una donna matura e dalla bellezza seducente. Giovanni Grande sceglie di rappresentare proprio il momento della nascita di Venere, con la dea in piedi nell’acqua. Il corpo, lontano da una precisa definizione di tutte le parti anatomiche, è movimentato da una leggera torsione, accompagnata dai gesti delle mani che tentano di nascondere la nudità. Questa posa rispetta l’iconografia tradizionale della Venere pudica, che si ricollega alla statuaria classica e ha i suoi modelli di riferimento nella Venere Medici conservata agli Uffizi di Firenze e nella Venere Capitolina di Roma, replica da un originale ellenistico derivato dall’Afrodite Cnidia di Prassitele. La decorazione pittorica è limitata a pochi dettagli anatomici e alla resa dell’acqua. I capelli sono della stessa tonalità turchese del mare, rigidamente mossi dalla brezza che la sta trasportando verso le sponde dell’isola di Cipro. Ai suoi piedi si contorce un grosso pesce dalle forme affusolate e appiattite, decorato sul dorso da un motivo a linee incrociate viola e rosa. La testa, le pinne e la coda sono invece dipinte con un azzurro intenso. Giovanni Grande preferisce associare alla dea un ulteriore elemento legato al mondo marino, piuttosto che inserire i simboli tradizionalmente collegati alla figura di Venere, quali la rosa, il mirto o la mela. Il bordo posteriore della base, più alto rispetto alla parte anteriore, è modellato plasticamente per simulare le onde del mare ed è dipinto in azzurro. Il numero «1» incusso in pasta sul fondello dovrebbe indicare che l’esemplare esposto è stato il primo a essere prodotto per il mercato, ipotesi che troverebbe conferma anche nella data precoce riportata sotto il marchio, che si riferisce con precisione al giorno in cui è stata portata a termine la decorazione pittorica della scultura. Nonostante la precocità di questo esemplare, è nota l’esistenza di una precedente tiratura di cinquanta esemplari, il quinto dei quali è stato esposto in una mostra del 1978 (Torino tra le due guerre 1978, p. 355, n. 4), che porta ad anticipare ulteriormente la creazione del modello, verosimilmente collocabile nel biennio 19271928.

I diversi esemplari si distinguono per le minime varianti cromatiche e per i differenti motivi decorativi del pesce. L’immagine fotografica della scultura, conservata nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 119, n. 20), si differenzia dal pezzo esposto per la decorazione pittorica della base, non più dipinta con un azzurro sfumato, ma con una spirale che simula il turbinio vorticoso dell’acqua. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 22; Catalogo D1, n. 22; Catalogo D2, n. 22; Ceramiche di Lenci 1929; Torino tra le due guerre 1978, p. 355, n. 4; PROVERBIO 1979, p. 94, n. 103; Le ceramiche Lenci 1983, p. 58; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 95; PANZETTA 1992, p. 119, n. 20; Le capitali d’Italia 1997, p. 339; GARGIULO 2008b, p. 171. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Torino tra le due guerre», Torino 1978, «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

38. (TAV. 98) Amanti sul tronco, 1930. Modello 190. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 31,5 x 15,2 x 10,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 17-10-30» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); «59» cerchiato in pennarello blu; bambola incussa in pasta. Collezione privata. La ceramica di Giovanni Grande, formata da una giovane coppia di contadini seduti simmetricamente sul tronco di un albero, fa parte della serie di opere di soggetto amoroso, raffiguranti scene bucoliche e agresti. Gli amanti, uniti in un delicato abbraccio che permette al personaggio maschile di avvicinarsi all’amata e darle un tenero bacio sul collo, sono plasmati attraverso forme piene e allungate, mentre la decorazione pittorica, giocata sui colori caldi della terra, è distribuita attraverso rapide pennellate non uniformi, ancora ben leggibili al di sotto dello strato lucido della vetrina che esalta la superficie levigata del modellato. Un esemplare di questo modello è stato presentato in occasione della IV Esposizione Internazionale delle Arti Decorative, tenutasi presso la

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Villa Reale di Monza nel 1930. Nell’articolo di Gio Ponti Alla Triennale di Monza. Lenci nella Galleria delle ceramiche, pubblicato nel luglio di quell’anno dalla rivista milanese «Domus» (PONTI 1930a), gli Amanti sul tronco vengono scelti come corredo fotografico, insieme al Trio vagabondo (modello 189; PANZETTA 1992, p. 148, n. 218) di Grande e al gruppo di Tosalli Zibetto e gallo selvatico (cat. 122). Nel testo vengono messe in risalto le differenti anime che compongono il repertorio della Lenci, riconoscendo nella scelta dei colori e dei soggetti delle prime opere la stretta parentela con la precedente produzione di bambole. La ceramica di Grande può invece essere messa in relazione con la seconda categoria di oggetti identificati dal critico e contraddistinti da «un continuo ascendere verso una sempre più alta appropriatezza alle virtù della materia, un allontanarsi dalla caricatura senza perdere di tipicità, di espressione, di colore e di letizia». In effetti, Ponti prosegue l’articolo riconoscendo nelle opere pubblicate di Grande «la più garbata eleganza» nella modellazione e la ricchezza, nella pittura, «della vivacità di toni bellissimi». Attraverso il simbolo grafico riportato al di sotto della base è possibile riconoscere in Graziella Arozza l’autrice della decorazione, pittrice di grande talento che ha dipinto anche altre opere esposte in mostra: l’Abissina (cat. 131) di Sandro Vacchetti, Vaso Uccello (cat. 99), Autunno (cat. 106) e Inverno (cat. 107) di Mario Sturani, Don Chisciotte e Sancio Pancia (cat. 30) e il Flauto magico (cat. 31) di Grande. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 190; Catalogo D2, n. 190; PONTI 1930a, pp. 42-43; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 185; PANZETTA 1992, p. 149, n. 219; PROVERBIO 2001, p. 155, n. 32; GARGIULO 2008b, p. 206. ESPOSIZIONI: «Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative», Monza 1930; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

39. (TAV. 3) Antilope, 1930. Modello 149. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38,5 x 20,5 x 18,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 2-9-30» e simbolo grafico del decoratore; bambola incussa in pasta; «52» inciso in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande». Collezione privata.

40. (TAV. 2) Antilope, 1929. Gesso. 41 x Ø 22 cm Collezione privata. Il protagonista di questa ceramica, ideata da Giovanni Grande nel 1929 e presentata alla mostra tenutasi presso la Galleria Pesaro, è un giovane cacciatore con la preda sulle spalle, accompagnato dal proprio cane. Il soggetto può essere messo in relazione con Atteone, figura della mitologia greca che apprende l’arte della caccia dal centauro Chirone. Secondo questa interpretazione, l’opera apparterrebbe quindi alla serie di sculture di argomento mitologico più volte affrontato dall’artista. La figura è vestita con una corta tunica monospalla, ornata con un motivo a triangoli alternati in giallo e grigio, molto simile al decoro utilizzato per la maglia della donna della scultura Danza campagnola (cat. 67), ideata da Massimo Quaglino. L’abbigliamento è completato da un mantello blu a rombi grigi, che copre la schiena attraverso un panneggio piuttosto rigido e schematico. I tratti del volto e la fluente chioma bionda, graficamente stilizzata, conferiscono alla figura un’espressione dolce e sognante. La fisicità dell’uomo e degli animali, le cui membra allungate sono riconducibili a masse geometriche autonome, sembrano un chiaro omaggio alla pittura di Carlo Carrà. In particolare si può evidenziare una stretta affinità con le opere dell’artista prodotte tra la fine degli anni dieci e i primi anni venti. Conclusa l’esperienza futurista, Carrà dimostra un legame sempre più forte con i valori di un’arte che rifiuta il superfluo e che unisce un grande realismo al bi-

sogno di spiritualità. Dal punto di vista stilistico, Carrà recupera il segno dalla «conchiusa terribilità plastica» di Giotto e le forme solide di Paolo Uccello e Piero della Francesca, come appare evidente in dipinti quali Le figlie di Loth del 1919 e Pino sul mare del 1921. Per quanto riguarda la ceramica di Grande, il riferimento più diretto è proprio Le figlie di Loth, in cui si ritrova la stessa costruzione delle figure e, addirittura, lo stesso cane colto in una posizione similare. Il compagno di Atteone può dunque essere considerato una citazione diretta dell’opera di Carrà. Il confronto della versione esposta in mostra, la cinquantaduesima prodotta dalla manifattura fino al settembre 1930, con l’immagine fotografica ora conservata nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 138, n. 145) e con il disegno preparatorio (GARGIULO 2008b, p. 78, n. XXI) mette in evidenza le affinità e le differenze nella decorazione dei diversi modelli. Nella redazione storica la figura, non più bionda ma bruna, indossa una tunica decorata in marrone, a simulare non la stoffa ma una pelle di animale. Nel disegno, il mantello rimane blu, ma varia nella decorazione, mentre nell’immagine fotografica è un semplice coprispalle monocromo. In entrambi i casi il cane non ha più un manto marrone, bensì bianco a macchie grigie, e la base non è lasciata bianca, ma è dipinta con ciuffi d’erba stilizzata. Infine, si registra la presenza di una variante caratterizzata da una tunica decorata da bande oblique e incrociate, un mantello monocromo e il cane con il manto scuro e il ventre e il collo bianchi (PROVERBIO 1979, p. 85, n. 85). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 149; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 85, n. 85; Mostra della ceramica italiana 1920-40 1982, p. 35, n. 8; PANZETTA 1992, p. 138, n. 145; PROVERBIO 2001, p. 152; AUDIOLI 2008, p. 107, n. 26. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982. [S.C.]

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41. (TAV. 22) Capriccio, 1930. Modello 152. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 30 x 25,9 x 18,8 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 1-5-30 / A» e triangolo; bambola e «84» incussi in pasta. Firma incussa in pasta e dipinta sul bordo posteriore della base: « Grande» e «X». Collezione privata.

42. (TAV. 21) Capriccio, 1929. Matita, china e acquarello su cartoncino montato su cartoncino grigio. 168 x 101 (245 x 177 cartoncino grigio) mm Iscrizioni: in alto al centro «2.550»; in basso a sinistra «Cart. 4 / n. 152 / Capriccio»; in basso a destra timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / N º / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china blu «P41»; in basso a sinistra, sul cartoncino grigio «CAPRICCIO / N.º 152 / CART. 4»; firma apocrifa a matita, in basso a destra sul cartoncino grigio «Giovanni Grande». Collezione privata. Il modello di questa ceramica è una delle venticinque opere di Giovanni Grande esposte in occasione della mostra milanese del 1929, tenutasi presso la galleria di Lino Pesaro. Nel saggio di presentazione alla mostra, Ugo Ojetti evidenzia la felice varietà di invenzione raggiunta dai collaboratori della Lenci e, rivolgendosi a Giovanni Grande, afferma: «È il più rotondo e riposato di tutti e sceglie sagome compatte e chiuse modellandovi dentro con bonaria sobrietà scenette paesane». Anche se il critico non cita esplicitamente il Capriccio, questa descrizione corrisponde perfettamente al gusto e allo spirito semplice che stanno alla base di un’opera come questa. Il gruppo è composto da due spensierati contadini in groppa a un asinello scalpitante. La carnagione abbronzata e gli abiti modesti e colorati indossati dalla coppia confermano l’identificazione dei soggetti con figure appartenenti al mondo della campagna, lontane anche nella conformazione fisica dalle signorine di città eleganti e pallide, protagoniste delle coeve scultu-


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re di Elena König Scavini. I due personaggi stanno allegramente cantando accompagnati dal suono di una fisarmonica, mentre il mulo raglia e scalcia come se volesse partecipare a questo momento di divertimento o, al contrario, come se volesse interrompere l’improvvisato spettacolo. Si tratta dunque di una scena carica di una sottile ironia, spesso presente nelle opere di Grande di soggetto popolare, molto apprezzate dal pubblico piccolo-borghese del tempo, come testimonia l’alto numero di esemplari messi in commercio; il Capriccio esposto risulta essere l’ottantaquattresimo prodotto dalla manifattura ultimato nel maggio 1930. Nel disegno preparatorio, Grande ricorre a una gamma cromatica più vivace e a una descrizione più sommaria del decoro degli abiti. A differenza della scultura, in cui i gesti dell’asino e delle figure appaiono come bloccati all’interno del materiale ceramico, il disegno si distingue per una maggior incisività nella rappresentazione del movimento, che risulta più concitato e incontrollato. È anche interessante notare il piccolo studio della sola testa dell’animale, ombreggiato con rapidi tocchi sfumati di matita nell’angolo superiore del foglio. Del Capriccio si conoscono alcuni esemplari conservati in collezioni private, differenti per la cromia e la decorazione degli abiti. L’idea di una figura in groppa a un asino imbizzarrito era già stata utilizzata da Massimo Quaglino nell’Asinello con putto (modello 71; PANZETTA 1992, p. 127, n. 70) del 1929, sempre esposto in occasione della mostra di Milano. Anche se l’opera di Quaglino presenta la stessa atmosfera divertita e ironica, il modellato e la decorazione pittorica sono risolti in modo differente, con una resa più naturalistica. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 152; Catalogo D2, n. 152; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 111, n. 218; PROVERBIO 1986, p. 191; PANZETTA 1992, p. 138, n. 148; Le ceramiche Lenci 2000, p. 64; PROVERBIO 2001, p. 135, n. 3; PER IL DISEGNO: GARGIULO 2008b, p. 79, n. XXII. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

43. (TAV. 94) Dichiarazione d’amore, 1930. Modello 154. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 30,5 x 25,2 x 24 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 10-5-30» e simbolo grafico del decoratore, probabilmente Francesco Pagliarino (campanella); «86» inciso in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande» e cerchio. Collezione privata. In questa ceramica, prodotta a partire dal 1929, Giovanni Grande rappresenta un’impacciata coppia di contadini ripresa nel delicato momento della dichiarazione d’amore. La figura femminile evita lo sguardo del giovane, chiudendo gli occhi e reclinando la testa lateralmente. Per la fanciulla il momento è talmente emozionante, o forse addirittura imbarazzante, da non accorgersi che l’ampia gonna a balze, decorata con fiori blu in vaso disposti su un fondo giallo, si sta bagnando con l’acqua contenuta nel secchio posto vicino ai suoi piedi. È questo uno di quei dettagli giocati sull’umorismo e sulla tenera semplicità dei comportamenti umani che caratterizzano le ceramiche di Grande di soggetto popolare. I colori brillanti e le forme morbide e tondeggianti accentuano l’atmosfera fiabesca e sognante della Dichiarazione d’amore, evidente soprattutto nella resa quasi fumettistica degli elementi vegetali e dei fiori. Nell’articolo A Monza, fra breve, pubblicato nel 1930 da «La casa bella», l’opera di Grande è scelta, insieme a Zibetto e gallo selvatico (cat. 122) di Felice Tosalli, come rappresentante della produzione Lenci esposta in occasione della Triennale di Monza e diventa il mezzo per mettere in risalto il valore delle ceramiche torinesi e il loro successo artistico e commerciale anche in campo internazionale, che secondo il cronista potrebbero essere scambiate per opere di qualche grande casa europea. Il testo prosegue esaltando la qualità delle due ceramiche riprodotte: non tesseremo le lodi degli scultori, né delle paste o degli smalti; ci limitiamo a constatare che, per esempio, sul gusto delle ceramiche tedesche, le opere della Lenci sono un segno di perfezione e di bellezza non facilmente raggiungibili. Questa identità di livello tecnico ed estetico di un oggetto d’arte applica-

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ta italiana con quelli che tengono da anni, o da secoli, il mercato europeo e signoreggiano il gusto più raffinato dei paesi moderni, è una cosa che va notata con particolare interesse, perché vi si può scorgere, non solo un modo della diffusione e della concorrenza italiana, una ragion pratica di vita nazionale, ma il grado del clima spirituale di un popolo che conquista la sua cittadinanza europea all’infuori degli schemi provinciali dell’economia e del gusto. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 154; Catalogo D1, n. 154; Catalogo D2, n. 154; Ceramiche di Lenci 1929; A Monza, fra breve 1930, pp. 47-49; BUZZI 1930, p. 252; PROVERBIO 1979, p. 39, n. 40; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 39; PANZETTA 1992, p. 138, n. 150; Le ceramiche Lenci 2000, p. 69; PROVERBIO 2001, p. 153, n. 29; GARGIULO 2008b, p. 198. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative», Monza 1930; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

44. (TAV. 93) Marcello e Musetta, 1930. Modello 260. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 29 x 31 x 20,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / 7-10-30» e «X» incorniciata; bambola incussa in pasta. Firma incussa in pasta sul bordo posteriore della base: «Grande» e «X». Collezione privata. La ceramica di Giovanni Grande raffigura il pittore Marcello intento a eseguire il ritratto della sua amata Musetta. La donna è seduta in terra, mentre Marcello, con in mano il pennello e la tavolozza, è in piedi di fronte a un basso albero trasformato in un pratico cavalletto. I due personaggi non sono vestiti in abiti contemporanei e anche l’acconciatura vaporosa e incipriata di Marcello rivela la lontananza nel tempo della scena raffigurata. In effetti, i personaggi sono ispirati a due protagonisti della Bohème, l’opera lirica di Giacomo Puccini ambientata a Parigi nel 1830. Il riferimento all’opera pucciniana, messa in scena per la prima volta nel 1896 al Teatro Regio di Torino, è in realtà solo un pretesto per rappresentare una giovane coppia di innamorati, in quanto non c’è alcun preciso riferimento al testo e alla storia del com-

positore toscano. Nell’opera lirica, incentrata sugli amori infelici e turbolenti di un gruppo di poveri artisti parigini, non esiste infatti una scena ambientata in un bosco e in nessun momento si fa riferimento a un ritratto di Musetta dipinto da Marcello. L’identificazione del soggetto, resa possibile solo dal titolo che esplicita il nome dei due personaggi, è dunque una libera interpretazione di Giovanni Grande. Si ricorda, inoltre, che il tema dell’innamorato che ritrae la sua dama, in omaggio alla sua bellezza, è un tòpos molto diffuso nella pittura e nella letteratura della metà del Settecento, così come nella contemporanea produzione ceramica di sculture d’arredo. Di quest’opera si è conservato il disegno preparatorio (GARGIULO 2008b, p. 91, n. XLIII), recante l’iscrizione «Marcello e Musetta N. 260 Cart. 6». Nonostante le figure siano delineate mediante un tratto rapido e una colorazione approssimativa non attenta ai dettagli, l’iconografia e la gamma cromatica sono perfettamente in linea con quanto verrà poi realizzato nella versione tridimensionale. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D2, n. 260; PANZETTA 1992, p. 158, n. 285; PROVERBIO 2001, p. 159, n. 40; GARGIULO 2008b, p. 210. [S.C.]

45. (TAV. 60) Scatola Diana, 1931. Modello 216. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 24,5 x 15,8 x 12,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 27-4-31» e «X» incorniciata. Collezione privata. La ceramica di Grande fa parte di una serie piuttosto numerosa di piccole scatole dalla sezione ovale e dalla linea bombata, chiuse da un coperchio con l’impugnatura trasformata in una scultura, in genere più alta rispetto al contenitore sottostante. Si tratta di opere ideate a partire dal 1930, caratterizzate da una perfetta fusione tra le necessità pratiche di un oggetto funzionale e il valore estetico richiesto a un manufatto decorativo. L’origine di queste scatole con coperchio figurato è da rintracciare in una serie di opere progettate da Reni Schaschl-

Schuster, Erna Kopriva e Susi Singer, artiste e collaboratrici delle Wiener Werkstätte (NEUWIRTH 1981, pp. 121, 123, 140-141, 145). Oltre a Scatola Diana, si ricordano, a titolo esemplificativo, la Scatola Tobiolo (modello 198; PANZETTA 1992, p. 150, n. 226) e la Scatola Addio (modello 199; PANZETTA 1992, p. 150, n. 227). In tutti i casi, il titolo dell’opera deriva dal soggetto delle sculture presenti sul coperchio, mentre la decorazione pittorica della scatola raffigura immagini strettamente connesse con il tema plastico: nel caso di Tobiolo, la scultura ritrae il bambino accompagnato dall’arcangelo Raffaele, mentre la superficie della scatola è ornata da un mare agitato e popolato da piccoli pesci; nell’Addio, sul coperchio viene messo in scena il bacio del cavaliere dato alla sua amata e la scatola è decorata con colombe in volo sopra il mare che trasportano nel becco una lettera d’amore. La superficie esterna della Scatola Diana è dipinta mediante rapide pennellate che definiscono un paesaggio collinare, con montagne rosa che si stagliano in secondo piano. Una teoria di snelli e scattanti cerbiatti, di evidente ispirazione déco, è raffigurata nel momento del salto da un dosso all’altro. I vari cervi sono separati da piccoli fiori stilizzati, inseriti all’interno delle colline più alte. Sul coperchio è invece modellato un gruppo plastico formato dalla dea della caccia accompagnata da due cani che le corrono accanto. Anche Diana è ripresa mentre procede velocemente in avanti, con il vento che le solleva i capelli e il mantello blu avvolto sopra la spalla. Nella mano destra stringe l’arco, mentre la faretra con le frecce le scende lungo il fianco sinistro. Come per le altre figure delle scatole di Grande, il gruppo si contraddistingue per i tratti allungati, la semplificazione formale, la marcata espressività e le movenze accentuate di sapore teatrale, capaci di suggerire con immediatezza movimenti e atteggiamenti. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 152, n. 243; PROVERBIO 2001, p. 160, n. 41; GARGIULO 2008b, p. 209. [S.C.]

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INES GRANDE 46. (TAV. 103) Angelus, 1933. Modello 52. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 30 x 43 x 30,8 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 8-6-33-XI» e simbolo grafico del decoratore Domenico Cogno (cerchio con trattino verticale). Iscrizione incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «leni». Collezione privata. A differenza della tradizionale produzione della manifattura Lenci, caratterizzata da ceramiche artistiche non troppo impegnative, incentrate soprattutto su tematiche divertenti e ironiche, i rari gruppi di figure attribuiti a Ines Grande si distinguono per un’adesione sentita ai soggetti contadini e popolari, indagati non con la consueta leggerezza descrittiva, ma con una maggior attenzione per gli aspetti del quotidiano e dei rapporti affettivi. L’Angelus, ad esempio, rappresenta un momento intimo nella vita di una famiglia contadina: le tre figure adunate attorno al tavolo, apparecchiato solamente con tre scodelle ancora vuote, sono impegnate a recitare la preghiera che precede i pasti. La semplicità dell’arredo, la povertà degli abiti, la serietà dei volti e le teste reclinate contribuiscono a suggerire l’atmosfera raccolta e silenziosa, pervasa da una profonda e sincera religiosità domestica. La gamma cromatica è basata su colori cupi e terrosi, mentre i corpi solidi sono definiti attraverso forme semplificate e rigide. Dall’analisi della marca si deduce il nome del decoratore di questo specifico pezzo: si tratta di Domenico Cogno, pittore attivo presso la manifattura dal 1931 al 1944, per poi essere nuovamente assunto poco dopo la fine della seconda guerra mondiale in qualità di maestro ceramista (PANZETTA 1992, p. 398). Anche se la scultura della collezione privata risale al 1933, l’ideazione del modello deve essere anticipata almeno al 1929, in quanto un esemplare dell’Angelus è stato esposto a Milano in occasione della fondamentale mostra dedicata alla manifattura Lenci.


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Le altre varianti conosciute, pur modificando le cromie e i decori degli abiti, mantengono lo stesso tono dimesso dell’oggetto esposto. Il confronto con l’immagine conservata nel fondo fotografico dell’Archivio Storico della Città di Torino mette in evidenza un’unica discrepanza nella decorazione dell’abito della donna: il motivo a rombi del modello storico viene qui sostituito da macchie rosse su fondo chiaro (PANZETTA 1992, p. 123, n. 49). Talvolta, le fonti bibliografiche si riferiscono a questo gruppo con il titolo Benedicite (Le ceramiche Lenci 1983, p. 59) o Padre Nostro (PROVERBIO 1979, p. 24, n. 20). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 52; Catalogo D2, n. 52; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 24, n. 20; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 24; PANZETTA 1992, p. 123, n. 49; Le ceramiche Lenci 2000, p. 74; PROVERBIO 2001, p. 167, n. 3. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

47. (TAV. 25) La sete, 1934. Modello 16. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 36 x 34,2 x 27,2 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / VII-XII». Iscrizione incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «Leni». Collezione privata.

48. (TAV. 24) La sete, 1929-1930. Matita e acquarello su cartoncino montato su cartoncino grigio. 282 x 397 (337 x 492 cartoncino grigio) mm Iscrizioni: in alto al centro «La sete N. 16 cart.1»; in basso a destra timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / N º / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china nera «P35»; in basso a sinistra, sul cartoncino grigio «LA SETE / N.º 16 / CART. 1». Collezione privata. La ceramica, realizzata nel 1934, è una versione tarda e non invetriata di un modello prodot-

to già a partire dal 1930, come testimoniato dalla presenza di opere che recano tale data di esecuzione (PANZETTA 1992, fig. 4, p. 105), informazione che permette di collocare il bozzetto preparatorio in un periodo di tempo compreso tra il 1929 e il 1930. Il gruppo è composto da una coppia di contadini, colti in un momento di riposo durante una giornata di lavoro nei campi. L’uomo ha appena interrotto la sua attività per dissetarsi, mentre la donna lo osserva e attende che finisca di bere per portare via la ciotola e il secchio ancora pieno d’acqua. Nonostante conducano una vita umile e faticosa, le due figure sono nobilitate dalla tranquillità che domina sui loro volti e dalla pacatezza dei gesti; anche gli abiti, poveri e dai colori cupi, sono puliti e ordinati. La semplicità della composizione e l’isolamento delle figure che ne accentuano la monumentalità scultorea, il senso di pacata serenità e l’intensità della scena sono un evidente richiamo alla pittura realista nata in Francia intorno alla metà dell’Ottocento, che vede in Jean-François Millet, e nei suoi dipinti popolati da contadini al lavoro o in preghiera, uno dei principali rappresentanti. È interessante sottolineare la cura riservata alla rappresentazione degli occhi, vicini a quelli da bambola delle figure di Elena König Scavini. Ines Grande è attenta ai dettagli, ma il suo obbiettivo principale è quello di indagare gli aspetti umani del quotidiano, rifiutando ogni tentazione pietistica. L’opera appartiene quindi a un particolare filone affine ai temi legati alla realtà quotidiana del mondo rurale, lontano dai soggetti mitologici e letterari o dai leziosi e provocanti nudi femminili. Anche se il disegno preparatorio non si caratterizza per una grande raffinatezza tecnica ed è risolto attraverso pochi tratti di matita e rapide velature ad acquarello, riesce comunque a restituire con efficacia l’atmosfera semplice e mesta di un momento quotidiano, privo di significati particolari. Rispetto al disegno, la ceramica si differenzia sostanzialmente per il diverso decoro delle vesti: mentre nel disegno e nella versione riprodotta nel catalogo dell’archivio storico del Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 119, n. 15) gli abiti sono realizzati con stoffe monocrome di tonalità ocra e grigie, nella ceramica si ricorre a motivi a righe verticali o incrociate. Si conservano invece le gamme cromatiche spen-

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te, appena ravvivate dal blu del grembiule e dal rosso del fazzoletto. Si conoscono alcune varianti con colori più brillanti, illuminati anche dalla lucentezza della vetrina (PANZETTA 1992, tav. 4, p. 105). Come suggerito da Daniele Sanguineti e Gianluca Zanelli, la strana firma incussa «Leni» è in realtà il modo in cui Ines Grande era solita firmare le sue ceramiche, che ricorreva al suo nome scritto al contrario (Seni), modificando però la «S» con una «L» per mantenere l’assonanza con il nome della manifattura. I due studiosi hanno inoltre avuto modo di visionare una piccola Maternità (un inedito di collezione privata per una ceramica assente nel catalogo generale, cfr. il saggio di SANGUINETI e ZANELLI in questo volume, fig. 3), che reca dipinta a lato la stessa scritta «Seni», dove l’iniziale appare più facilmente leggibile come una «S». Questa scoperta ha permesso di attribuire per la prima volta La sete a Ines Grande, mentre fino a ora l’autore del pezzo è sempre stato considerato il marito Giovanni. BIBLIOGRAFIA: PROVERBIO 1986, p. 202; PANZETTA 1992, tav. 4, pp. 105, 119, n. 15; PROVERBIO 2001, p. 143, n. 11; PER IL DISEGNO: Invito al collezionismo: la manifattura Lenci, 1992, n. 20. ESPOSIZIONI: «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992 (il solo disegno). [S.C.]

49. (TAV. 104) Affilatura della falce, 1936/1937. Modello 68. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 33 x 35 x 28 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY» e simbolo del decoratore Domenico Cogno (cerchio con trattino verticale); «DN»; segno incusso. Collezione privata. Ines Grande mette nuovamente in scena un tranquillo momento di vita contadina, in cui dominano gli affetti familiari e il duro lavoro quotidiano. Il gruppo si trova in uno spazio aperto: l’uomo ha dovuto interrompere il lavoro nei campi per affilare la lama della falce, mentre la donna è seduta su un masso e sta pazientemente imboccando il bambino in piedi

di fronte a lei. La modellazione plastica delle figure, basata sulla semplificazione delle forme e dei volumi, è conforme a quella utilizzata per l’Angelus (cat. 46). Il confronto con alcune ceramiche conservate in altre collezioni private e con le immagini pubblicate dalle fonti bibliografiche ha messo in evidenza l’esistenza di alcune varianti, identificabili in base ai diversi motivi decorativi degli abiti, alle differenze cromatiche e alla presenza o assenza dell’invetriatura. L’esemplare esposto è quasi del tutto simile alla riproduzione fotografica in bianco e nero conservata nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 126, n. 66), della quale ripropone lo stesso motivo degli abiti della donna e del bambino. La qualità dell’immagine non permette invece di verificare con certezza eventuali differenze nella decorazione del vestito maschile. La marca priva della data di esecuzione, associata alla presenza del marchio del decoratore, indica che la ceramica è stata prodotta durante la seconda metà degli anni trenta. La datazione tarda dell’esemplare, di cui si conoscono opere prodotte già nel 1929, è confermata anche dalla mancanza dell’invetriatura. Il cerchio attraversato da un trattino trasversale è il monogramma di Domenico Cogno, autore anche della decorazione dell’Angelus; in effetti, anche se le due opere sono state realizzate a distanza di alcuni anni, le affinità nella gamma cromatica e nei pattern utilizzati per gli abiti mostrano evidenti correlazioni. Cogno ha anche dipinto due delle sculture di Sandro Vacchetti presenti in mostra: il Gallo (cat. 134) e Le due tigri (cat. 132). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 62; PROVERBIO 1979, p. 24, n. 21; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 24; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 217; PANZETTA 1992, tav. 15, pp. 106, 126 n. 66; I bimbi nel mondo della Lenci 1994, n. 1; Le ceramiche Lenci 2000, p. 73; PROVERBIO 2001, p. 166, n. 2. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «I bimbi nel mondo della Lenci: ceramiche, acquarelli e tempere», Torino 1994; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

ABELE JACOPI 50. (TAV. 51) Il grattacielo - Ultimo tocco, 1934. Modello 642. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina e parzialmente all’aerografo. 43,5 x 9 x 6 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY» e iniziale del decoratore, probabilmente Maria Balossi («B»); iniziali incise in pasta («GB»). Collezione privata. La scultura di Abele Jacopi, prodotta a partire dal 1934, raffigura una donna longilinea e impettita, vestita con un abito nero longuette a pois bianchi, stretto in vita da una cintura. La testa è coperta da un piccolo cappello a cloche, mentre al collo il foulard è annodato con un grande fiocco che si muove al vento. La donna, impegnata a incipriarsi il naso, è in piedi su un grattacielo, simbolo della metropoli contemporanea, e ostenta l’atteggiamento sicuro di chi sta per affrontare da vincitrice il mondo circostante. Il grattacielo è colorato con l’aerografo, mentre le singole finestre, una diversa dall’altra, sono eseguite a mano. Tra le varianti esistenti, si ricorda un modello con cintura, foulard e nastro del cappello dipinti di rosso anziché di bianco (Le capitali d’Italia 1997, p. 340). L’idea della figura femminile in abiti contemporanei, raffigurata mentre si trucca il viso, è ripresa da un collaboratore non identificato della manifattura, autore della ceramica Figurina che si trucca, inserita nel catalogo generale con il numero 690 (PANZETTA 1992, p. 242, n. 841). La grazia e l’eleganza di Jacopi lasciano ora il posto a una figura più goffa, dalle forme piene e dall’aspetto più provinciale. La posa, identica alla plastica de Il grattacielo, ha perso la sua naturalezza per diventare più rigida e forzata. Il moderno edificio scompare per lasciare il posto a una cappelliera a fiorellini, chiusa da un nastro scuro. Al posto dell’abito a pois si vede ora un cappottino a quadri ondulati con i polsini in pelliccia, mentre la cloche, tipica della moda del tempo, è sostituita da un berretto di lana.

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Questo confronto dimostra come, anche durante la seconda fase di produzione, all’interno della manifattura permangano due diversi atteggiamenti nei confronti della ceramica d’arte: un filone rivolto a un mercato più raffinato e ricercato, l’altro a un gusto più popolare. BIBLIOGRAFIA: PROVERBIO 1986, p. 157; PANZETTA 1992, p. 233, n. 784; Le capitali d’Italia 1997, p. 340; Le ceramiche Lenci 2000, p. 78; PROVERBIO 2001, p. 171, n. 1; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 201, n. 377; AUDIOLI 2008, p. 104; GARGIULO 2008b, p. 219. ESPOSIZIONI: «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

51. (TAV. 52) Marlene Dietrich, 1935. Modello 802. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38 x 7,5 x 9,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY» e simbolo del decoratore; «802» incusso nella pasta. Firma incisa sul lato della base ai piedi della figura: «a i a». Collezione privata. Il modello della donna moderna ed emancipata, della «signorina Grandi Firme» che si muove e si veste secondo la moda imposta dai manifesti pubblicitari e dal cinema, raggiunge qui la sua estrema conseguenza: non più la donna che imita il fantastico mondo hollywoodiano, ma una vera e propria diva che, per usare le parole del francese Jean Cocteau, è entrata nella leggenda a cavallo di una sedia. La ceramica ideata nel 1935 da Abele Jacopi è, infatti, un ritratto dell’attrice tedesca Marlene Dietrich, divenuta famosa grazie al film L’angelo azzurro (1930) e, in seguito al suo arrivo negli Stati Uniti, trasformata in una vera e propria stella internazionale. Jacopi la immagina impegnata in un passo di danza, con indosso un completo nero a pois bianchi, che riprende una celebre foto della diva vestita proprio con una versione femminile del frac, divenuto di moda a partire dalla metà degli anni venti. Il vestito è arricchito da un papillon nero, da un fiore all’occhiello e da un paio di guanti bianchi. La mano sinistra si solleva per toccare il cappello a ci-


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lindro rosso, mentre l’altra tiene un bastone nero con pomello bianco, realizzato con un materiale non ceramico e più flessibile. Nel repertorio di immagini della manifattura, ora raccolte nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino, sono presenti due diverse fotografie del pezzo. La prima, identificata dal numero 802 (PANZETTA 1992, p. 265, n. 977), è molto simile all’opera esposta in mostra, fatta eccezione per il colore più scuro del cappello, presumibilmente nero, e per l’assenza del bastone. La Marlene Dietrich della fotografia in bianco e nero numero 802/? (PANZETTA 1992, p. 265, n. 976) ha invece un abito privo di pois e tiene in mano un bastone molto lungo e sottile, di un materiale diverso rispetto alla ceramica. La posizione del corpo è identica, ma simmetrica. Potrebbe trattarsi di una variante o, con più probabilità, di una stampa speculare del negativo fotografico. Si può infine registrare l’esistenza di un’ulteriore variante con cappello, guanti e pedana rossi, abito nero e una differente tipologia di bastone, qui simile a un frustino da cavallerizza (PROVERBIO 2001, p. 172, n. 2). BIBLIOGRAFIA: PROVERBIO 1986, p. 155; PANZETTA 1992, p. 265, n. 977; Le ceramiche Lenci 2000, p. 79; PROVERBIO 2001, p. 172, n. 2; GARGIULO 2008b, p. 50. [S.C.]

52. (TAV. 55) Ai monti, 1936. Modello 697. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi, legno e cuoio. 43,5 x 21,7 x 9 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY» e «SC» (iniziali del decoratore); «697» incusso in pasta. Collezione privata. La figura creata da Jacopi propone un modello femminile molto differente rispetto ai nudi un po’ goffi di Claudia Formica, alle sensualità provocanti di Sandro Vacchetti o alle adolescenti e alle «signorine Grandi Firme» di Elena König Scavini. L’escursionista di Jacopi si ispira, invece, alla donna sportiva ed emancipata, libera e indipendente riconoscibile nell’iconografia dei pieni anni trenta.

La donna indossa scarponi da montagna, larghi pantaloni rossi, un paio di guanti e un golfino coordinati, decorati con un motivo a cuori e fiori di gusto popolare. Jacopi dimostra un certo interesse per lo studio degli abiti e delle tradizioni locali, come comprova la nutrita serie di figure in costumi regionali prodotta per Lenci. La testa è coperta da un foulard a fiori stilizzati, dal quale fuoriescono alcuni ciuffi di vaporosi capelli biondi. L’attenzione nella scelta dell’abbigliamento e il dettaglio dei capelli accuratamente acconciati rivelano che si tratta di una donna pratica, che non rinuncia però a seguire le regole imposte dalla moda. La datazione tarda giustifica la mancanza di invetriatura, che determina la presenza di una superficie non più lucida, ma opaca. L’opera viene infatti prodotta durante la seconda fase di attività della Lenci, che comincia orientativamente verso la metà degli anni trenta e termina con la fine degli anni quaranta. Questo periodo coincide con un momento di grave difficoltà economica, che porterà i coniugi Scavini a cedere la proprietà della manifattura nel 1937, passando così la gestione ai fratelli Garella. Prima di rinunciare definitivamente alla ditta, si cerca di ridurre i costi di produzione, molto alti a causa della perfezione tecnica ed estetica ricercata in ogni singolo pezzo, evitando, quando possibile, l’impiego di alcuni materiali, come ad esempio la vetrina lucida. Nonostante questo limite tecnico, Ai monti mantiene nel decoro l’alto livello che fino ad allora aveva contraddistinto la manifattura. Inoltre, come accade anche per Zizi (cat. 63), di Elena König Scavini, l’artista ricorre all’uso di materiali diversi dalla ceramica, per rendere l’oggetto ancora più raffinato e prezioso. In questo caso specifico, Jacopi fa realizzare i bastoni da sci in legno, legati ai polsi attraverso una sottile fascia in cuoio. Di quest’opera, di cui non si conosce il bozzetto preparatorio, non si registrano particolari varianti nella decorazione. Inoltre, il pezzo esposto è del tutto coerente con il modello fotografato nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 244, n. 849), dal quale differisce esclusivamente per il colore più scuro degli scarponi. A differenza di altre ceramiche Lenci, il numero incusso nel fondello non si riferisce alla quantità di oggetti prodotti fino a quel momento, ma riporta in pasta il numero del modello.

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BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 244, n. 849; PANZETTA 2001, p. 192, n. 28; MILLER 2007, p. 105.

ra rispetto al pezzo esposto. Il motivo floreale del tessuto resta invariato.

[S.C.]

BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 244, n. 850; PANZETTA 2001, p. 192, n. 29.

53. (TAV. 54) Al mare, 1936.

[S.C.]

Modello 698. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 45 x 20,6 x 8,8 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY» e monogramma del decoratore («TR»); bollino cartaceo prestampato «Lenci / TURIN / MADE IN ITALY» e compilato a penna nera «698». Firma incussa sul bordo posteriore della base: «A Jacopi». Collezione privata.

54. (TAV. 53) La tuffatrice, 1936-1937.

Il numero di inventario progressivo, l’affinità del soggetto, del titolo e della tecnica esecutiva, la somiglianza stilistica e l’uso della stessa base a forma di parallelogramma indicano che Ai monti (cat. 52) e Al mare fanno parte di una coppia di ceramiche da leggere e vedere insieme. Proprio per questo motivo, sebbene non si conoscano esemplari datati, è possibile collocare l’ideazione di questo modello al 1936. Anche in questo caso, la protagonista è una donna moderna e alla moda, raffigurata durante una villeggiatura al mare. Ancora una volta, Jacopi rivela una grande sensibilità nella definizione dell’abbigliamento e una particolare attenzione per i dettagli decorativi. La donna indossa un maglioncino arancione, una giacchetta gialla e un paio di pantaloni verdi dipinti con grandi fiori stilizzati, un motivo che ritorna anche nelle scarpe e nel nastro legato sotto il mento. Lo sgargiante abbigliamento comprende ancora un cappello di paglia simile a un sombrero e alcune vistose collane blu e verdi. La posa assunta dalla donna, con le mani in tasca, le gambe divaricate, l’espressione seria e lo sguardo perso nel vuoto, rivelano un atteggiamento fiero e altero. Dal confronto con l’immagine in bianco e nero conservata nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 244, n. 850), si deduce che siano stati prodotti anche esemplari con le dita dei piedi smaltate e con la carnagione ambrata, più scu-

La protagonista di questa ceramica, che rientra nella serie delle donne sportive, presenta un corpo atletico e scattante, con la muscolatura contratta in attesa di compiere il salto da un basso trampolino. La posizione della figura rivela una leggera asimmetria che crea un effetto estremamente naturale. Come già indicato nella scheda del catalogo dedicata alla ceramica Ai monti (cat. 52), alcune opere prodotte a partire dalla metà degli anni trenta presentano un procedimento tecnico semplificato rispetto alla prassi abituale della manifattura. Questo fenomeno è registrabile anche per La tuffatrice, come dimostra la presenza limitata della coperta lucida, usata solo per rivestire la carnagione e il trampolino trasformato in piedistallo. Un altro metodo per limitare i costi di produzione era il ricorso alla tecnica della pittura all’aerografo, mediante la quale il colore veniva distribuito in modo più rapido e uniforme rispetto alla tradizionale pittura manuale. In questo caso specifico, l’arancione del costume e della cuffia sono realizzati con l’aerografo, mentre lo smalto bianco e lucido dei pois è ancora dipinto a pennello. Nell’Archivio Storico della Città di Torino sono conservate due immagini fotografiche che mostrano due varianti di dimensioni ridotte, prodotte probabilmente in una fase successiva rispetto al modello più grande. Il numero 903 (PANZETTA 1992, p. 282, n. 1.084) è identico al pezzo esposto, mentre il 903/I (PANZET-

Modello 675. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 46 x 12,7 x 17,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / TORINO / ITALY» e iniziali del decoratore («CH»). Firma incussa sul lato destro del trampolino: «A Jacopi». Collezione privata.

TA 1992, p. 282, n. 1.084) ha una differente de-

corazione del costume, non più a pois bianchi, ma a fiori, e della cuffia, ora monocroma. Anche il colore dell’incarnato sembra essere più scuro. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 239, n. 820; Invito al collezionismo, 1992, n. 28; PROVERBIO 2001, p. 188, n. 20; AUDIOLI 2008, p. 104. ESPOSIZIONI: «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992. [S.C.]

ELENA KÖNIG SCAVINI 55. (TAV. 42) Marianna, 1930. Modello 39. Terraglia formata a colaggio e parzialmente modellata e assemblata, decorazione a smalti policromi sottovetrina. 31,5 x 16 x 21 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 24-1-30» e iniziali del decoratore, probabilmente Roselda Allemano («RA»); bambola e «62» incussi; «X» incisa in pasta. Collezione privata. Nel 1990 viene pubblicata la raccolta di scritti autobiografici di Elena König Scavini, in cui aneddoti di vita privata si intrecciano con la storia della ditta Lenci. In questo racconto, l’autrice descrive anche la nascita della sua Marianna. Il desiderio della signora Lenci era quello di creare ceramiche affini, per gusto e per stile, alle sue famose bambole di panno: «Non il capolavoro d’arte, ma un oggetto piacevole che potesse stare in tutte le case; il piccolo dono per la fidanzata o per la sposa». Pur non essendo una scultrice, inizia a modellare plastilina con estrema libertà, senza ricorrere ad alcuno studio preparatorio. La sua idea è quella di affrontare il tema della Creazione e del peccato originale, raffigurando Eva di fronte al serpente con in bocca la mela. La König Scavini usa come modello se stessa, ritratta nuda davanti allo specchio, ma ben presto è costretta a riconoscere la sua incapacità di restituire correttamente le proporzioni del corpo umano: «Provavo e riprovavo, ma più cercavo di rispettare le proporzioni,

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più diventava brutto e non mi diceva niente. Spariva completamente l’umorismo e tutto quello che volevo esprimere». In effetti, la figura finale modellata dalla Scavini è ben lontana dall’esibire un’anatomia corretta, ma proprio per questo l’opera assume un’aria giocosa e scanzonata, assolutamente in linea con lo stile Lenci ricercato dalla fondatrice. Il gruppo plastico, prodotto per la prima volta nel 1929, è costituito dalla giovane Eva e dal piccolo serpente che spunta improvvisamente tra piante di cavolo, modellate a mano e in seguito applicate alla base con la barbottina. Alla vista dell’animale, la figura tenta di ritrarsi e assume una posizione goffa e innaturale: le gambe robuste si piegano, il corpo si sbilancia verso sinistra, la testa si piega di lato, le piccole mani tozze si alzano e si aprono in un atteggiamento difensivo. Anche il volto si deforma in una smorfia di paura, ma il risultato ottenuto è più vicino a una testa di bambola che a un viso umano: le sopracciglia si inarcano e i grandi occhi blu si spalancano di colpo, le guance piene si colorano di rosso, la bocca si apre solo parzialmente e persino il naso appare asimmetrico. Le diverse varianti realizzate nel corso del tempo presentano quasi tutte la medesima cromia nel nudo femminile e nei cespi di insalata. Si conosce invece un esemplare conservato in collezione privata realizzato alcuni anni dopo, non invetriato, che presenta un corpo rosato e cespi di insalata di un verde più chiaro e sfumato. Il decoro del serpente e della mela sono invece soggetti a un maggior numero di variazioni: oltre al pezzo presentato in mostra, caratterizzato da un animale dipinto con righe nere incrociate e una mela arancione, si conoscono pezzi con serpenti a righe grigie e mele blu o rosse. L’analisi delle fonti bibliografiche ha permesso di ipotizzare l’esistenza di almeno un’altra variante caratterizzata da tonalità differenti. In un articolo del 1932 apparso nella rivista inglese «Apollo», Francis Watson afferma che il gruppo della signora Lenci poteva essere acquistato in due versioni, con l’incarnato bianco e i capelli biondi o con la carnagione abbronzata e i capelli neri. È inoltre interessante sottolineare che l’autore non chiama l’opera con il nome italiano di Marianna, utilizzato fin dal 1929 nelle riviste italiane, nei cataloghi della manifattura e delle gallerie d’arte. Nel testo e nella didascalia che accompagna l’immagine, la ceramica è invece definita Eve, ricorrendo a un titolo


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certamente più attinente con il soggetto rappresentato. L’opera riscosse fin da subito un grande successo e fu scelta sia come copertina del terzo catalogo merceologico stampato alla fine degli anni venti, sia come immagine pubblicitaria, più volte pubblicata in «Domus» tra l’agosto e il dicembre del 1929. Il modello di Marianna, di cui l’esemplare esposto risulta essere il sessantaduesimo colato e dipinto dalla manifattura entro il 24 gennaio 1930, è stato prodotto per diversi anni, come testimonia la sua presenza nel catalogo merceologico pubblicato verosimilmente tra il 1933 e il 1935. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A3; Catalogo D2, n. 39; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, pp. 7, 26; Pubblicità «Marianna» giugno 1929, p. 5; agosto 1929, p. 3; settembre 1929, p. 51; ottobre 1929, p. 63; novembre 1929, p. 4; Le ceramiche di Lenci 1929; WATSON 1932, p. 211; PROVERBIO 1979, pp. XVI, 98, n. 115; La metafisica: gli anni Venti 1980, p. 169; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 23, n. 2; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 29, 59; PROVERBIO 1986, p. 178; Invito al collezionismo 1992, n. 6; PANZETTA 1992, tav. 9, pp. 105, 122, n. 36; Le ceramiche Lenci 2000, p. 27: PROVERBIO 2001, p. 239, n. 3; KÖNIG SCAVINI 2007, p. 115. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Galleria Pesaro, Milano 1929; «Les Realismes: 1919-1939», Parigi 1980; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

56. (TAV. 43) Nuda con coniglio, 1930. Modello 42/?. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 26 x 27,5 x 21,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / 14-2-30» e monogramma del decoratore, probabilmente Anna Gatti («AG»); bambola e «61» incussi in pasta. Collezione privata. La ceramica fa parte della serie dei nudi femminili progettati da Elena König Scavini e caratterizzati da una leziosità e un erotismo, mai esagerati o volgari, che incuriosivano e attiravano il pubblico borghese contemporaneo. Il gruppo è formato da una figura femminile seduta e da un piccolo coniglio bianco sistemato

tra le sue gambe. La donna è completamente nuda e indossa esclusivamente un cappellino giallo ornato da alcuni fiori, un paio di calze autoreggenti in seta grigia e scarpe nere décolleté, più volte utilizzate dalla König Scavini per le sue figure. Il taglio di capelli e i pochi accessori in linea con la moda del tempo permettono di identificare la figura come una donna reale, che vive nel mondo contemporaneo, e non, come in altri casi, con una creatura immaginaria o fiabesca. La donna non sembra assolutamente preoccupata della sua nudità ed esibisce il proprio corpo con naturalezza e indifferenza, secondo un atteggiamento che contribuisce ad aumentare la carica di sottile malizia che contraddistingue l’opera. Le gambe sono aperte a squadra e il busto è ruotato di novanta gradi, creando un movimento spezzato, di gusto squisitamente déco, pienamente percepibile da una visione dall’alto. La donna è seduta su un tappeto imbottito, dipinto con un semplice motivo a linee grigie che formano una scacchiera regolare. Le varianti della Nuda con coniglio si differenziano quasi esclusivamente per i diversi decori della base. Esiste anche una versione priva del piedistallo, ma equivalente nella composizione, identificata nell’archivio storico della manifattura dal numero di inventario 42 (PANZETTA 1992, p. 122, n. 39). La presenza di altre ceramiche datate 1929 consente di anticipare di un anno rispetto al pezzo della collezione privata l’ideazione del modello. Questa datazione trova conferma sia nell’alto numero riportato nel fondello (61), relativo alla registrazione della quantità di esemplari prodotti, sia nella presenza dell’opera sulla copertina di uno dei tre cataloghi merceologici databili entro gli anni venti, editi dalla Società Anonima Stabilimento d’Arti Grafiche Alfieri-La Croix di Milano. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2; PROVERBIO 1979, p. 47, n. 56; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PANZETTA 1992, p. 122, n. 40; PROVERBIO 1986, p. 47; Le ceramiche Lenci 2000, p. 28; PROVERBIO 2001, p. 249, n. 13; Art déco in Italia 2003, p. 57; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 49, 124, n. 17; GARGIULO 2008b, pp. 176-177. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», 1983; «Le ceramiche Lenci», 2000; «Art déco in Italia», Aosta 2003; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006. [S.C.]

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57. (TAV. 44) Nudo femminile con mela, 1930. Modello 65. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 52 x 15,2 x 15,4 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 8-3-30» e simbolo grafico del decoratore (ponte): «E. 20-60»; bambola parzialmente visibile e «70» incussi nella pasta; «X» incisa nella pasta. Collezione privata. La ceramica, prodotta a partire dal 1929 e utilizzata come copertina di uno dei primi cataloghi merceologici della ditta, appartiene alla vasta serie dei nudi femminili ideati da Elena König Scavini. La figura stante, completamente nuda, indossa un singolare copricapo bianco a pois grigi e un paio di calze a rete, terminanti in un risvolto nero simile a una giarrettiera. Ai suoi piedi si trova una ciotola rovesciata, da cui sono fuoriuscite diverse mele. Tra le gambe, leggermente divaricate, si intravede un piccolo coniglio bianco, creatura dal significato ambiguo che si ritrova in altre opere della König Scavini legate al tema del nudo femminile, come ad esempio nella ceramica Nudo con coniglio (modello 42 e 42/?, cat. 56). La donna rappresentata non è più la classica adolescente dal fisico immaturo, ma è diventata una giovane e affascinante femme fatale, sicura di sé e della perfezione del proprio corpo statuario. Il viso, invece, continua a mantenere le abituali caratteristiche da bambola, tipiche di tutte le creazioni di Elena König Scavini. L’opera, esposta in occasione della mostra milanese organizzata presso la Galleria Pesaro, ha attirato l’attenzione di Dino Bonardi, che nel suo articolo Maioliche e stoffe d’arte, pubblicato nel «Corriere della Sera» nel dicembre del 1929, ha commentato: «Esprime atteggiamenti di una composta ma egualmente prepotente femminilità, la quale si manifesta in una tranquilla gioia di sé medesima attraverso un repertorio di linee armoniose che sono particolarmente aderenti alla nostra sensibilità». In effetti la figura è ripresa in un atteggiamento naturale e non lascia trasparire il minimo senso di imbarazzo, né di sfrenata sensualità. Questo comportamento, apparentemente privo di malizia, è in realtà contraddetto dal gesto disinvolto del-

la mano, pronto a offrire al suo interlocutore una mela, simbolo primordiale del peccato. La particolare iscrizione «E. 20-60» riportata sotto la base potrebbe riferirsi a un non ben precisato dato tecnico, mentre il numero incusso nel fondello indica che nel marzo 1930 la manifattura era arrivata a produrre settanta esemplari, dato interessante in quanto conferma il notevole successo commerciale di questo modello. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1; BONARDI 1929; PANZETTA 1992, p. 126, n. 63; PROVERBIO 2001, p. 254, n. 21; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 178, n. 204. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929. [S.C.]

58. (TAV. 45) Al caffè, 1933. Modello 289. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 21,5 x 11,6 x 18,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / Torino 29-5-33-XI / P». Collezione privata. La ceramica, prodotta a partire dal 1933, rappresenta una giovane donna seduta al tavolino di un caffè. La figura è assorta nei propri pensieri, tanto da non essersi neppure sfilata i guanti che accentuano maggiormente la lunghezza sproporzionata degli arti superiori e delle mani. Il libro, lasciato aperto sul piano d’appoggio, si trasforma in una piccola impugnatura che consente di sollevare una parte della superficie, rivelando la funzione di contenitore del tavolino stesso. Oltre al modello presentato in mostra, la manifattura aveva iniziato a produrre già dall’anno precedente un’altra versione di questo soggetto, riconoscibile per la differente forma del tavolino, rotondo anziché quadrato (modello 289; PANZETTA 1992, p. 161, n. 310). La successione temporale è suggerita non solo dalle date riportate sui singoli pezzi, ma anche dai numeri di inventario che rivelano l’ideazione di un centinaio di nuovi soggetti prima che venisse realizzato il prototipo con il tavolino quadrato. La fortuna e la diffusione di questa ceramica è confermata dall’alto numero di varianti conosciute, che si distinguono in primo luogo per le

diverse proposte cromatiche degli accessori e per le decorazioni del vestito, che risolvono in modi differenti il pattern delle linee oblique incrociate. La resa pittorica dell’abito è talmente accurata da lasciar intravedere le cuciture in corrispondenza dei fianchi e dell’attaccatura delle maniche. Pur mantenendo sempre la sua caratteristica aria assorta, a seconda dei pezzi e del decoratore variano alcuni elementi del viso, soprattutto per quanto riguarda la direzione dello sguardo e la carnosità delle labbra. Un’altra piccola discrepanza si registra nella decorazione plastica del cappello: la forma del copricapo è sempre la stessa, ma poteva essere abbellito con un fiocco vaporoso o con un piccolo elemento «a coda di rondine». Quest’ultimo ornamento compare in entrambi i modelli fotografati nei documenti d’archivio e sembra essere stato prodotto in quantità maggiore. Questi cambiamenti nella resa plastica si rivelano molto importanti perché indicano la presenza di diversi gessi, da cui venivano ricavati i relativi stampi, per la produzione dello stesso soggetto. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 389; Catalogo D2, n. 389; PROVERBIO 1979, p. 7, n. 3; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 7; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 186; PANZETTA 1992, p. 179; Le ceramiche Lenci 2000, p. 37. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

59. (TAV. 46) La modista - Il cappellino, 1933. Modello 409. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35,5 x 14,5 x 11,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITA / ITALY / TORINO / 24-2-33 / XI [...]». Firma incisa in pasta nel lato posteriore della base: «icnel». Collezione privata. La modista - Il cappellino rappresenta la tipica adolescente ideata da Elena König Scavini per la sua manifattura. Nel suo libro autobiografico, la signora Lenci racconta come ebbe origine l’idea di creare queste particolari tipologie di figure femminili, diventate in breve tempo l’esempio più conosciuto e rappresentativo del-

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l’intera fabbrica, sia sul mercato italiano sia su quello straniero (KÖNIG SCAVINI 2007, pp. 116-117): Decisi di fare una passeggiata per svegliarmi, fino in piazza Castello, per cercare dai librai dei nuovi volumi. Sotto i portici, davanti a me camminava, svelta, una ragazzina di circa quindici anni. Portava al braccio una grossa cappelliera: era magra, i capelli un po’ sulle spalle e il nasino all’insù. La seguii per un lungo tratto guardandola, forse anche un po’ troppo. Mi piaceva molto quel suo visino sfacciato. Di colpo avevo capito, sentito in me che cosa dovevo modellare. La piccola si voltò di colpo. «Cosa vuole da me?» disse con tono arrogante. «Scusami – dissi – sono la signora Lenci, sai quelle delle bambole Lenci, vuoi venire a vedere la fabbrica? E posare per me? Così con questo vestitino. Voglio fare una statuetta, una ceramica come te; ti pagherò bene. Come ti chiami?». «Nella – mi disse – se vuole vengo anche domani. Sono libera». Così, in poche ore, modellai la Nella. Seduta su una panca con le gambette un po’ storte, un vestito scozzese a colori forti, un purillo rosso a sghimbescio sulla testa, tutta sentimento, niente anatomia. Non era certo un’opera d’arte; ricordava però le mie bambole e ispirava allegria. Penso che tutti noi, alle volte, come cerchiamo il sole, così cerchiamo qualcosa nel colore e nella forma che ci dia gioia. Ho venduto la Nella a migliaia. Andava in tutte le camere delle signorine, e persino in Africa sul tavolo delle mense ufficiali, come ornamento. La Nella aveva salvato la ceramica. Di queste adolescenti ne avrò fatte non so quante! Mi divertivo a farle vestire in attesa del tram col vento che alzava loro le sottanine fino al ginocchio, poi mi piaceva molto farle nude; ne feci una seduta sul dorso dell’elefante e una su un grasso ippopotamo. Mi divertivo a crearle, e non facevo nessuna fatica. Ora conoscevo bene il loro corpo, e gli animali mi riusciva spontaneo modellarli.

Anche se questo racconto può non essere del tutto aderente al dato reale, è comunque interessante in quanto testimonia il contatto diretto con la realtà quotidiana, che diventa il punto di partenza per la creazione del mondo fantastico e fanciullesco della König Scavini. La scultura a cui ella fa riferimento è la Nella seduta (modello 305; PANZETTA 1992, p. 163, n. 323), ma La modista presenta, comunque, evidenti affinità con la descrizione riportata nel racconto, non solo per le caratteristiche fisiche della figura, ma anche per lo spirito che anima l’opera, comune a tutte le altre numerose varianti della Nella realizzate nel corso del tempo. Inoltre, il dettaglio iconografico della grande cappelliera che la giovane porta con sé sembra un esplicito richiamo al primo incontro avuto con la ragazza. Infatti, La modista è seduta su un basso pilastro, con una mela nella mano sinistra e la cappelliera nera infilata nel braccio destro. La fanciulla, con il classico viso da bambola e i capelli alla garçon,


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indossa un basco colorato portato «sulle ventitré» e un abito dal taglio semplice, che asseconda le forme del corpo. La ricca decorazione testimonia l’abilità tecnica raggiunta dalla ditta: su un fondo nero lucido si distribuiscono disordinatamente minuti fiori quadrilobati con stelo e foglie, dipinti in rosa, blu e bianco. Un piccolo cane dal pelo marrone le sta seduto accanto, testimonianza della grande passione della Scavini per il mondo animale. Di quest’opera si conoscono numerose varianti, differenti per la decorazione pittorica e cromatica del vestito, degli accessori e della cappelliera. Lo stesso modello fotografato nell’archivio storico della manifattura (PANZETTA 1992, p. 183, n. 466) si distingue per l’abito a fiori più grandi e per la cappelliera bianca decorata da sottili linee oblique e incrociate. Si deve poi segnalare l’esistenza di alcuni esemplari in collezione privata con la cappelliera impreziosita dall’aggiunta di un fiocco laterale, sempre realizzato in ceramica (PANZETTA 1992, fig. 38, p. 107). Il fiocco non ha solo un valore decorativo, ma si trasforma in una pratica impugnatura per sollevare una parte della cappelliera, rivelandone la funzione di contenitore. Infine, esiste una particolare versione che si differenzia dal modello della collezione privata per la mancanza della cappelliera, il cui numero di riconoscimento è il 409/A (PANZETTA 1992, p. 184, n. 467). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 409; Catalogo D2, n. 409; PROVERBIO 1979, p. 20, n. 16; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 220; PANZETTA 1992, fig. 38, pp. 107, 183, n. 466; PROVERBIO 2001, p. 260, n. 33. [S.C.]

60. (TAV. 47) Colpo di vento, 1934. Modello 363. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38,5 x 13 x 9,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / Torino 10-XII» e simbolo grafico del decoratore (triangolo con un punto al centro). Collezione privata. La figura protagonista del Colpo di vento fa parte del gruppo delle «signorine Grandi Firme» che rappresentano il prototipo della giovane donna moderna, vestita e pettinata secondo le

più aggiornate tendenze della moda. Si tratta di una donna reale non più immersa in un mondo di sogni e di fantasia, ma pronta ad affrontare la vita nella metropoli contemporanea con grazia ed energia. La protagonista di questa ceramica è descritta dalla stessa König Scavini come una fanciulla in attesa del tram, col vento che le alza la gonna fino al ginocchio. In effetti, la donna dalla corporatura longilinea, vestita con un semplice ma raffinato completo formato da una giacchetta corta e una gonna longuette, si sbilancia nel tentativo di non far scoprire le gambe e di non far volare via il piccolo copricapo a punta. L’abbigliamento è completato da un manicotto di pelliccia e da un paio di scarpe nere décolleté. La linea sinuosa del corpo rende quest’opera uno degli esemplari più eleganti creati da Elena König Scavini, secondo un modello iconografico che ricorda le figure descritte nei manifesti pubblicitari o nelle immagini cinematografiche arrivate in Europa direttamente da Hollywood. L’incredibile varietà di decori dell’abito e degli accessori della figura, differenti per pattern e cromie, rende impossibile fornire, almeno in questa sede, una completa panoramica di tutti gli esemplari prodotti. In linea generale, si può comunque registrare la presenza di due grandi categorie d’abito, definite in base alla combinazione e all’accostamento dei diversi pattern impiegati per la giacca e per la gonna: figure con giacca monocroma e gonna in tessuto decorato solitamente con motivi astratti o geometrici, come nel caso dell’esemplare esposto, e figure con un completo coordinato, sempre a motivi astratti o geometrici. Per quanto riguarda gli accessori, non sembra sia possibile riconoscere una regola generale, in quanto non sempre gli accessori presentano le stesse cromie dominanti nell’abito. Anche la colorazione dei capelli non è uniforme, ma sono noti esemplari dalla chioma bionda o bruna. L’opera, che in numerose fonti bibliografiche è erroneamente intitolata La Zizi (PROVERBIO 1979, p. 5, n. 1; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 35, n. 4; PROVERBIO 1986, p. 5), è stata anche realizzata in bronzo, di cui si conosce un solo esemplare (PROVERBIO 2001, p. 242, n. 6). Si tratta di una pratica fino a poco tempo fa ignota, ma il recente ritrovamento di alcune sculture sul mercato antiquario ha messo in luce anche questo particolare aspetto della manifattura. Un altro esempio di ceramica riprodot-

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ta in bronzo è l’Amore paterno (modello 8; PANZETTA 1992, p. 118, n. 8) di Sandro Vacchet-

ti, firmato con le sue iniziali e datato 1929. A Vacchetti sono anche attribuite due sculture conosciute con l’appellativo di «custodi della ditta Lenci», esemplari unici del 1929, di cui non esiste un corrispettivo in ceramica (GARGIULO 2008a, p. 29). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n.363; Catalogo D2, n. 363; PROVERBIO 1979, p. 5, n. 1; Les Realismes 1980, p. 335; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 35, n. 4; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 5; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 219; PANZETTA 1992, fig. 33, pp. 107, 175, nn. 402-403; Le ceramiche Lenci 2000, p. 30; PROVERBIO 2001, pp. 242-243, nn. 6-7; AUDIOLI 2008, p. 107. ESPOSIZIONI: «Les Realismes: 1919-1939», Parigi 1980; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

61. (TAV. 48) Nella o Nasin, 1934. Modello 219. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 39,5 x Ø 12,1 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / 7 - XII -» e simbolo grafico del decoratore, iscrizione incisa sul bordo posteriore della base: «icnel». Collezione privata. Si tratta di una delle tante versioni della Nella che incarna il prototipo ideale dell’adolescente moderna ideata da Elena König Scavini. La giovane indossa un vestito longuette a maniche corte, con ampio colletto bianco e una cintura nera stretta in vita, che ne mette in risalto il fisico asciutto tipico di una ragazza in tenera età, con i seni piccoli e i fianchi appena accennati. L’abbigliamento è completato da una cloche decorata con un morbido fiocco posteriore e da una piccola pochette, stretta nella mano destra. Nella è colta in una posizione molto innaturale: la testa è inclinata di lato ed è incassata nelle spalle, le braccia cadono immobili lungo i fianchi, le gambe sghembe cercano di mantenere l’equilibrio nonostante i tacchi alti. Davanti a lei, appollaiato sul bordo della base circolare, si trova un passerotto con le ali spiegate; la giovane sembra guardare l’animale e questa azione potrebbe giustificare la strana posizione da lei

assunta. In realtà, un’analisi più attenta di questo specifico esemplare rivela una situazione differente: lo sguardo della ragazza non è rivolto verso l’uccellino, ma verso lo spettatore. Questo dettaglio varia a seconda delle ceramiche e delle intenzioni dei singoli decoratori. In effetti, la Nella è, insieme ad altri esemplari della signora Lenci, una delle opere più diffuse, riprodotta durante un arco di tempo piuttosto ampio. Anche se l’opera presentata in mostra è datata 1934, dal confronto con altre ceramiche si deduce che l’ideazione del modello e l’avvio della produzione debbano essere anticipate al 1930 (PANZETTA 1992, fig. 27, p. 105). La grande fortuna commerciale del pezzo ha indotto la ditta a produrne numerose varianti, stimolando la fantasia e l’inventiva dei singoli decoratori, che potevano apportare modifiche, principalmente nei decori dell’abito e nelle cromie. Si conoscono, ad esempio, figure con i capelli biondi o bruni, uccelli dal piumaggio monocromo o variopinto, borsette e cappelli neri, verdi, rossi o blu, in tinta unita o a pois. Negli abiti, il decoro più diffuso sembra essere il pois bianco su fondo nero, mentre più raro è il motivo a righe oblique incrociate, presente nel pezzo della collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 219; Catalogo D2, n. 219; Torino tra le due guerre 1978, p. 356, n. 6; PROVERBIO 1979, p. 65, n. 65; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 22, n. 1; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 65; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 221; PANZETTA 1992, fig. 27, pp. 106-107, 153, n. 246; Le ceramiche Lenci 2000, p. 31; PROVERBIO 2001, p. 237, n. 1. ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

62. (TAV. 50) Primo romanzo, 1936-1937. Modello 388. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 25 x 16,5 x 14 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» e iniziali del decoratore («SR»). Collezione privata. Anche se il pezzo esposto non è datato, si può far risalire l’invenzione del modello al 1932, co-

me confermato da altre opere recanti tale data di realizzazione. Dall’analisi del marchio, invece, si può dedurre che il pezzo in esame sia stato realizzato a partire dalla seconda metà degli anni trenta. Come per altre ceramiche, anche per quest’opera Elena König Scavini prende ispirazione da bozzetti e disegni realizzati da altri collaboratori della manifattura. In questo caso specifico, il punto di riferimento è un pastello di Marcello Dudovich, intitolato Damina in poltrona (PANZETTA 1992, p. 18). Dudovich è un pittore e illustratore attivo presso la manifattura tra il 1917 e il 1919, per la quale prepara numerosi disegni e progetti per bambole, in rari casi ripresi alcuni anni dopo e adattati per la produzione ceramica. La donna raffigurata da Dudovich è una dama appartenente all’alta società, con i capelli accuratamente acconciati e la collana di perle che ne illumina il viso. Avvolta in una morbida vestaglia, accavalla con eleganza le gambe e mostra con disinvoltura le due giarrettiere che sostengono le calze di seta. La signora raffinata e alla moda di Dudovich viene invece trasformata da Elena Scavini in un’acerba adolescente dal corpo asciutto, i seni appena accennati, la carnagione pallida e il volto da bambola, che si abbandona sulla poltrona in una posizione scomposta, con le braccia penzoloni che sorreggono il libro aperto, le gambe sproporzionate, la testa appoggiata all’indietro e gli occhi spalancati che fissano il vuoto. Di quest’opera esistono numerose varianti, che associano in molteplici combinazioni i diversi motivi dei tessuti per la poltrona e per l’abito della giovane. Nel caso della poltrona, si possono schematicamente riconoscere due tipologie decorative: il motivo floreale e la decorazione a scacchi, nelle loro diverse possibilità iconografiche e cromatiche. Sono proprio questi due modelli a essere riprodotti nel catalogo storico della manifattura, identificati dai numeri di inventario 388 e 388/? (PANZETTA 1992, p. 179, nn. 429-430). Per quanto riguarda il vestito della ragazza, oltre alla versione monocroma in nero lucido con il colletto e i polsini bianchi, sono noti esemplari con l’abito rosso a pois bianchi. Con lo stesso titolo si identifica anche un’altra ceramica prodotta da Sandro Vacchetti per la Essevi, la manifattura fondata dall’ormai ex direttore della Lenci nel 1934. Il Primo romanzo di Vacchetti è un esempio della grande libertà di circolazione di bozzetti e disegni, che potevano

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essere ripresi e modificati da diversi artisti. L’opera rappresenta un’alternativa, meno adolescenziale e più sensuale, del tema della figura femminile in poltrona e con il libro. A differenza del modello Scavini, la donna addormentata è completamente nuda, con indosso solo una scarpetta maliziosamente in bilico sulla punta del piede sospeso in aria. Il corpo è mollemente adagiato sulla poltrona e su alcuni cuscini, mentre le parti più intime sono attentamente nascoste dal libro aperto, che mostra il titolo Il 900 e alcuni disegni stilizzati e caricaturali. Questa ceramica è stata pubblicata da Giovanni Bertolo nel catalogo della mostra torinese del 1978, anche se bisogna segnalare un errore nell’impaginato, in quanto le fotografie dei pezzi della Lenci e della Essevi sono state invertite (Torino tra le due guerre 1978, pp. 356, 351). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 388; Catalogo D2, n. 388; Torino tra le due guerre 1978, p. 356, n. 7, p. 361; La metafisica: gli anni Venti 1980, p. 169; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 195; PANZETTA 1992, p. 179, nn. 429-430; Le capitali d’Italia 1997, p. 340; Le ceramiche Lenci 2000, p. 36; PROVERBIO 2001, p. 259, n. 30. ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

63. (TAV. 49) Zizi, 1936-1937. Modello 477. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi; collare e frammento di guinzaglio in cuoio. 39 x 11,7 x 17,7 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» e simbolo grafico del decoratore (ala). Collezione privata. L’opera di Elena König Scavini viene realizzata a partire dal 1936 e fa dunque parte della serie di ceramiche create durante la seconda fase di produzione della Lenci, che indicativamente occupa un periodo di tempo compreso tra la metà degli anni trenta e la fine degli anni quaranta. Si tratta di un momento di profonda crisi economica, che si riflette anche nelle possibilità tecniche a disposizione della manifattura. La necessità di ridurre i costi di produzione porta, ad esempio, a


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limitare l’uso della vetrina lucida, scelta che determina la presenza di opere dalla superficie opaca come avviene, appunto, nel caso di Zizi. Nonostante questo dato tecnico, la ceramica rimane uno dei pezzi più conosciuti di questo periodo, conservando inalterata la bellezza e l’eleganza delle figure femminili create dalla fondatrice. Dal punto di vista iconografico, il modello di partenza per la realizzazione della ceramica è un disegno di Mario Sturani del 1930, intitolato I cagnetti (PANZETTA 1992, p. 24). In questo acquarello su carta, Sturani ritrae una donna dal fisico slanciato ma formoso, che indossa una maglia aderente e scollata, con le maniche lunghe terminanti in ampi polsini dello stesso tessuto a pois utilizzato per il cappello e la gonna. Il berretto, che avvolge la testa dai corti capelli neri, è decorato con un buffo pon-pon; la gonna non fascia il corpo, ma cade morbida lungo i fianchi. La figura apre le gambe con un incedere sicuro, la mano sinistra è appoggiata alla vita, mentre nell’altra tiene una pochette. Tre cagnolini, tutti della stessa razza, si muovono vivacemente tra le gambe della donna, che sembra essere quasi infastidita e disturbata da tutta quell’agitazione. In effetti, il volto è contratto in un’espressione severa, con il sopracciglio inarcato, l’occhio obliquo e la bocca serrata. Diversi anni dopo, il progetto di Sturani viene ripreso dalla Scavini, testimoniando il particolare clima di collaborazione che caratterizzava la manifattura, dove i vari maestri lavoravano spesso in équipe, fornendo disegni e studi preparatori che potevano poi essere ripresi e modificati da altri colleghi. In questo caso specifico, il disegno del 1930 diventa per la Scavini solo una fonte di ispirazione, adattandolo alle proprie esigenze e alla propria sensibilità. Se per certi aspetti, come la posizione del corpo, l’autrice rimane fedele al modello originario, per altri elementi apporta significativi cambiamenti. La figura è il prototipo della tipica ragazza moderna: una giovane dal fisico longilineo e dai capelli biondi tagliati a caschetto, vestita con un elegante abito dalle maniche corte e dalla gonna longuette, decorato con un motivo romboidale in verde, bianco e marrone. Al collo è annodato un lungo foulard verde, mentre la testa è riparata da una cloche con la tesa rialzata. Nella mano sinistra stringe un libro, mentre nella destra tiene il guinzaglio in cuoio del suo terrier maculato, mentre l’altro cane grigio cammina libero accanto a lei. L’atteggiamento accigliato immaginato dal pittore lascia

ora il posto alla serena e fredda compostezza del volto creato dalla Scavini. Anche per la descrizione dei due cani, Elena sembra aver fatto riferimento a un disegno non datato di Sturani (GARGIULO 2008b, p. 93, n. XLV), in cui raffigura proprio due terrier, uno grigio e l’altro bianco a macchie nere, utilizzati per decorare due scatole portasigarette (modelli 584 e 584/B; PANZETTA 1992, p. 221, nn. 713-714). Di questa ceramica è stata prodotta anche una variante in abito a rombi rossi, bianchi e marrone, con il libro, la sciarpa e il cappello dipinti in rosso (PANZETTA 1992, fig. 41, p. 107). In altre sedi, al gruppo è stato attribuito il titolo Passeggiata (PROVERBIO 1979, p. 22, n. 18; PROVERBIO 1986, pp. 22, 83) o Cagnetti (Le ceramiche Lenci 1983, p. 59). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 477; Catalogo D2, n. 477; PROVERBIO 1979 p. 22, n. 18; Le ceramiche Lenci 1983, p. 59; PROVERBIO 1986, p. 22, 83; PANZETTA 1992, fig. 41, pp. 107, 199, n. 571; Le ceramiche Lenci 2000, p. 48; PROVERBIO 2001, p. 248, n. 12. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

GIUSEPPE PORCHEDDU 64. (TAV. 26) Artemide, 1929. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 39,5 x 28 x 14,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 4-9-29» e simbolo grafico del decoratore (triangolo). Iniziali incusse in pasta e dipinte in smalto nero sul retro: «GP». Collezione privata. Il gruppo con l’Artemide fa parte della ristretta serie di opere di gusto più squisitamente déco, prodotte durante i primi anni di attività della manifattura. L’opera si distingue per un’impostazione scultorea resa attraverso un modellato nervoso e una superficie vibrante che accentuano l’atteggiamento fiero e la posa rigida del per-

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sonaggio. Rimanendo in equilibrio su un piede solo, Artemide ruota la testa per mostrare un profilo schiacciato; il braccio sinistro è teso lateralmente, mentre l’altro è piegato come a voler simulare la presenza di un arco pronto a scoccare una freccia. La figura è avvolta in un panneggio dalle pieghe nette e stilizzate, di evidente sapore déco, che lascia scoperto il busto atletico. La dea, il cui nome è scolpito nella roccia che costituisce la base, presenta una decorazione pittorica molto raffinata, che sfuma gradualmente da un azzurro tenue a un intenso turchese. La postura, la definizione anatomica del corpo e il profilo del volto ricordano le numerose illustrazioni dell’artista a soggetto eroico, letterario e mitologico; in particolare, la scultura sembra riprendere il progetto per una «Medaglia per gara di tiro con l’arco» (Disegni di Giuseppe Porcheddu 1928, tav. LVII). Accanto alla dea si trovano due levrieri, animali molto amati dagli artisti déco per la loro fisionomia aggraziata ed elegante. In questo caso, Porcheddu ne mette in risalto soprattutto la muscolatura asciutta e contratta, delineata per tagli ben definiti. Di questo gruppo scultoreo esiste anche una variante conservata in collezione privata che sostituisce la decorazione policroma con un’omogenea stesura di smalto bianco lucido. La colorazione dell’Artemide riprodotta nel repertorio fotografico della manifattura, ora confluito nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino, non corrisponde a quella del modello esposto in mostra, ma si ricollega a una variante dalle tonalità pastello, identificata dal numero 1.152 (PANZETTA 1992, fig. 75, p. 109). In questa versione, la figura di Artemide è rivestita da uno smalto opaco, biancorosato per l’epidermide e bianco-azzurro per il panneggio, che ne attutisce la modellatura nervosa. La capigliatura scultorea, ripresa alcuni anni dopo da Elena König Scavini per il busto della Dea Calipso (modello 646; PANZETTA 1992, p. 233, n. 788), è addolcita da una delicata velatura bionda e anche l’espressione è resa meno austera grazie alla ridefinizione pittorica delle sopracciglia, degli occhi e delle labbra. La stessa operazione è stata proposta anche per i levrieri, non più turchesi ma bianco-grigi e con il naso e le pupille brune. Anche la base e il gruppo di rocce e vegetazione alle loro spalle sono dipinti con colori più tenui e non invetriati. Un ultimo elemento da sottolineare è la

rimozione del nome della dea dal bordo della base. Dal confronto con le fonti bibliografiche emerge che la datazione della variante 1.152 è solitamente posticipata alla seconda fase della storia della manifattura, risalente al periodo compreso tra la seconda metà degli anni trenta e la fine degli anni quaranta, ipotesi che trova conferma nell’alto numero che identifica il modello. È quindi presumibile che l’immagine storica corrispondente alla versione esposta in mostra, datata 1929, sia una delle dieci mancanti nella sequenza dei primi cento modelli, ideati entro il 1928. BIBLIOGRAFIA: Le ceramiche Lenci 1983, p. 30; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 142; PANZETTA 1992, fig. 75, pp. 109, 317; PROVERBIO 2001, p. 218, n. 7; Giuseppe Porcheddu 2007, n. 40. ESPOSIZIONI: «Giuseppe Porcheddu», Torino 2007. [S.C.]

65. (TAV. 30) Sposi, 1929-1930. Modello 79. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 45,5 x 37,5 x 17 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / B1»; frammento di un bollino cartaceo compilato con inchiostro nero: «79». Collezione privata. Se l’Artemide (cat. 64) mostra evidenti legami con i modelli del déco internazionale e il gruppo con le Tre figure (cat. 66) si caratterizza per le forme compatte e le espressioni caricaturali, gli Sposi rivelano un gusto e una leziosità più affini alle preferenze del pubblico piccolo-borghese. Il confronto tra queste ceramiche, ideate tutte nello stesso anno, è un segno evidente dell’eterogeneità di stili che caratterizza il linguaggio dell’artista e, più in generale, l’intero repertorio della Lenci. La mancanza di omogeneità, insita nella produzione ceramica della manifattura, causata anche dalla collaborazione di artisti molto differenti tra loro, viene ben presto rilevata dai critici del tempo, come nel caso di Tomaso Buzzi, il quale pubblica a tal proposito un illuminante articolo sulla ceramica italiana in occasione della Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza del 1930.

L’opera di Porcheddu, presentata a Milano in occasione della mostra del 1929, rappresenta una coppia di giovani sposi in eleganti abiti di taglio ottocentesco, a braccetto sotto un gazebo vegetale con colonne laterali ornate da palmette e sormontate da sfere. Nel complesso, questa ceramica si distingue per i piccoli particolari di carattere aneddotico: il grande mazzo di fiori e, soprattutto, il libro sul terreno, aperto alla pagina con i cuori trafitti e la scritta «Oggi sposi», contribuiscono a identificare il soggetto come una coppia di giovani sposi e non come semplici fidanzati. Altri dettagli determinano, invece, il tono ironico della composizione, come nel caso del piccolo sgabello utilizzato dalla donna per sembrare più alta. La decorazione pittorica alterna parti più semplici, risolte con piatte campiture monocrome, a particolari più stilizzati, come gli elementi vegetali, e zone molto più curate e raffinate, come nel caso delle maniche in pizzo nero del vestito della sposa. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 79; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 39, n. 41; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 29, n. 19; Le ceramiche Lenci 1983, p. 31; PANZETTA 1992, p. 128, n. 80; Le ceramiche Lenci 2000, p. 82; PROVERBIO 2001, p. 215, n. 1. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

66. (TAV. 34) Tre figure, 1929. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 47 x 43,6 x 40 cm Iscrizioni a pennello in nero sottovetrina all’interno della scultura: «Lenci / ITALY», «16.1.29», iniziali del decoratore («T.F.») e «A». Iniziali incusse in pasta e dipinte sul retro: «GP». Collezione privata. La ceramica è stata esposta per la prima volta nel 2007 in occasione della mostra organizzata da Santo Alligo presso la galleria d’arte Narciso di Torino, per ricordare i sessant’anni dalla scomparsa dell’artista. Fino a quel momento non si aveva alcuna notizia di questo pezzo del 1929,

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che non compare neppure nel vasto repertorio di immagini fotografiche conservate nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino. Si tratta dunque di un pezzo unico, un prototipo di dimensioni probabilmente troppo grandi per essere destinato alla produzione seriale. La paternità dell’opera è comunque certa, grazie alle iniziali incise in pasta all’estremità dell’abito marrone di uno dei personaggi, che riprendono il semplice monogramma «GP», firma caratteristica di Porcheddu, utilizzata anche per siglare molte illustrazioni eseguite per libri e riviste. I tre personaggi, dall’aspetto un po’ goffo, formano un unico blocco compatto e sono costruiti attraverso volumi solidi e massicci. Questo modo di definire le forme, unito alla scelta di una gamma cromatica brillante e priva di passaggi tonali, riconduce stilisticamente l’opera a diversi modelli per stoffe, ideate per Lenci e in parte ancora visibili nella raccolta di tavole del 1928, intitolata Disegni di Giuseppe Porcheddu. La cartella di stampe, accompagnata da una prefazione dello scultore Leonardo Bistolfi, contiene anche alcuni disegni per ceramiche, tra cui si ricorda lo studio per lo Zampognaro (modello 5; PANZETTA 1992, p. 117, n. 5), una delle sue prime sculture prodotte dalla manifattura torinese. Il bozzetto per le Tre figure non è stato rintracciato, ma si può comunque far riferimento alla tavola XXXII che mostra un bozzetto a colori per ricamo con personaggi dalle fattezze molto simili a quelli scolpiti. Il personaggio femminile indossa un largo vestito decorato con bande verticali marrone alternate a fiori stilizzati blu ed è avvolto in un ampio mantello bianco, dipinto con fiori verdi distribuiti in modo regolare su un delicato motivo a zig-zag grigio e giallo. L’abbigliamento è completato da una cuffietta bianca e da una gorgiera, il tipico collarino in tessuto molto diffuso a partire dalla fine del Cinquecento. La donna, dal viso fin troppo pieno, tiene per mano il personaggio posto di fronte a lei e lo guarda con un’espressione felice e un po’ imbarazzata. Anche l’abito dell’uomo è descritto con grande attenzione: la casacca bianca a righe blu si intravede appena sotto l’abbondante mantello dal grande bavero bordato in arancione; l’interno marrone del manto bilancia il complesso motivo ornamentale della parte esterna, composto da fasce monocrome che si alternano a zone più larghe con decori resi attraverso un tratteggio


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sottile e inseriti all’interno di una struttura a maglie romboidali. Il terzo personaggio, più anziano rispetto agli altri e vestito con una semplice tunica marrone e un collarino bianco che copre le spalle, chiude la composizione abbracciando dolcemente la coppia. Il risultato finale è un’immagine caricaturale che si ritrova anche in altre opere di Porcheddu e che, secondo l’interpretazione di Leonardo Bistolfi, vuole in realtà essere «l’esaltazione della personalità umana precisata in tutte le caratteristiche esteriori ed interiori». Secondo una recente interpretazione proposta da Maria Grazia Gargiulo nel suo libro I racconti della Lenci (2008a, pp. 49, 236), Porcheddu si sarebbe ispirato ad alcuni protagonisti dei Promessi sposi e, in particolare, il gruppo dovrebbe rappresentare don Abbondio, Perpetua e don Rodrigo che confabulano. In effetti, molti dei soggetti delle illustrazioni e delle ceramiche di Porcheddu derivano dal mondo della letteratura e delle fiabe, per quanto nel romanzo di Alessandro Manzoni non sia rintracciabile un solo episodio che possa giustificare tale interpretazione. L’unico capitolo in cui sono citati tutti e tre questi personaggi è l’XI, ma si tratta di episodi isolati che non prevedono la contemporanea presenza di don Abbondio, Perpetua e don Rodrigo nello stesso luogo. Se si vuole cercare un possibile soggetto manzoniano, allora si deve ipotizzare una diversa identità delle figure. Mantenendo valida l’identificazione della figura più anziana con quella del curato, compatibile per età e abbigliamento, le altre potrebbero essere proprio Renzo e Lucia. Analizzando il gioco dei gesti e degli sguardi che legano i tre personaggi e considerando l’atmosfera gioiosa che domina la composizione, si può proseguire nel ragionamento e concludere che ciò che Porcheddu sta descrivendo è il momento delle tanto attese nozze, celebrate proprio da don Abbondio nella chiesa del paese, così come raccontato nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi. BIBLIOGRAFIA: Giuseppe Porcheddu 2007, n. 36; GARGIULO 2008b, pp. 49, 227, 236. ESPOSIZIONI: «Giuseppe Porcheddu», Torino 2007. [S.C.]

MASSIMO QUAGLINO 67. (TAV. 95) Danza campagnola, 1930. Modello 158. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 25,5 x 13,9 x 10,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / T 13-5-30»; «86» inciso in pasta. Collezione privata. L’opera fa parte della serie di ceramiche progettate da Massimo Quaglino per la manifattura Lenci e caratterizzate da un evidente accento umoristico-caricaturale, dettato sia dalla scelta del soggetto da rappresentare sia dalla resa plastica e decorativa delle singole sculture. La ceramica in esame, l’ottantaseiesimo esemplare ultimato entro il 13 maggio 1930, raffigura due divertenti personaggi, entrambi concentrati nel tentativo di compiere correttamente un passo di danza, evitando l’ostacolo del basso muretto in mattoni presente alle loro spalle. La donna, dal viso buffo e dalle forme abbondanti, si muove maldestramente e allunga la testa per cercare di controllare il movimento dei propri piedi. Il suo compagno di ballo mantiene, invece, un atteggiamento più impettito, ostentando una finta sicurezza che non può non suscitare il sorriso di chi lo guarda. La scelta di volumi semplificati e di forme tozze è controbilanciata dalla maggior attenzione riservata alla decorazione pittorica, segno evidente dell’abilità raggiunta dai decoratori della manifattura. I colori brillanti e vivaci, in linea con lo spirito giocoso dell’intera composizione, sono utilizzati per impreziosire l’abito della donna attraverso rapide pennellate distribuite per sottili righe parallele o incrociate. La maglia è decorata con un motivo a triangoli alternati in giallo e verde acido, mentre la gonna ha un fondo rosa scandito da grandi fiori stilizzati. L’abito scuro del suo compagno è molto più sobrio, ma è comunque ravvivato dai due fiori all’occhiello e dal foulard blu a pois bianchi, annodato come una cravatta. Nel repertorio fotografico della manifattura, ora conservato nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 139, n. 154), la ceramica presenta una diver-

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sa decorazione dell’abito, che rivela una scelta differente nell’accostamento dei vari pattern. Se la gonna della figura femminile è semplicemente dipinta di nero, le calze sono segnate da righe orizzontali e la maglia è ornata da motivi stilizzati color prugna. Più elaborato è il decoro dell’uomo: il monocromo della giacca e il rigatino dei pantaloni lasciano ora il posto a un motivo a scacchi che crea un particolare effetto ottico, dovuto soprattutto alla sovrabbondanza dei diversi motivi decorativi, che si sommano a quelli già elaborati della donna. Il segno e le forme disinvolte e stenografiche, la luminosità del colore e questa vena satirica, ricercata negli atteggiamenti e nelle espressioni dei personaggi, sono una cifra stilistica che Quaglino mantiene non solo nelle altre ceramiche ideate per la Lenci, ma anche in una parte del suo repertorio di disegni, illustrazioni e dipinti. In particolare, il gruppo ceramico può essere messo in relazione con alcune tempere su carta che descrivono feste contadine, come «Festa sul prato» (Massimo Quaglino 2000, cat. 5) e «Festa campagnola» (Massimo Quaglino 2000, cat. 6), entrambe del 1928. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 158; PROVERBIO 1979, p. 87, n. 90; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 32-33, 60; CONTESSI 1983; PANZETTA 1992, fig. 24, pp. 106, 139, n. 154; BRANDONI, MASSARA e SINCERO 1992, p. 301; Massimo Quaglino 2000, fig. 194, p. 156; PROVERBIO 2001, p. 222, n. 3; GARGIULO 2008b, p. 200. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Massimo Quaglino», Torino 2000. [S.C.]

Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «GIOV RIVA». Collezione privata. NNI

L’opera di Giovanni Riva appartiene al ristretto nucleo di opere prodotte dalla Lenci affini al gusto europeo più squisitamente déco. L’eleganza e la raffinatezza di questa ceramica sono determinate principalmente dall’essenzialità del segno, dalla sensibilità disegnativa del modellato e dalla leggera e misurata cromia pastello, limitata al panneggio, al viso e alla chioma, risolta attraverso una grafia sintetizzata. La donna, colta nella sua perfetta e statuaria nudità, si lascia trasportare dal passo di danza che le contrae i muscoli e accentua la linearità della composizione. Il manto, che incornicia il corpo e il profilo della figura, cade alle sue spalle con movenze rigorosamente simmetriche sottolineate dalle nette fasce rosa e azzurre, che concorrono a definire con estrema delicatezza le zone d’ombra degli incavi del panneggio. Il simbolo grafico dipinto sotto la base è stato identificato dalle fonti bibliografiche come la firma del decoratore Alberto Nobili, anche se il suo nome compare nei libri matricola della manifattura solo a partire dal settembre 1937 (PANZETTA 1992, p. 399); inoltre se l’attribuzione risultasse corretta, al momento della decorazione pittorica di questo pezzo l’autore avrebbe avuto quindici anni. L’altra ceramica realizzata dalla manifattura Lenci su modello di Riva è la Nuda, alta oltre un metro, identificata dal numero 56 ed esposta in occasione della mostra milanese svoltasi presso la Galleria Pesaro. BIBLIOGRAFIA: PANZETTA 1992, p. 121, n. 33; PROVERBIO 2001, p. 226, n. 2; GARGIULO 2008b, p. 175.

GIOVANNI RIVA

[S.C.]

68. (TAV. 23) Nudo, 1929.

MARIO STURANI

Modello 36. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 58 x 17,6 x 25 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 14-11-929» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili; «39» incusso in pasta; etichetta cartacea prestampata «13 MAY 1998 / 265».

69. (TAV. 106) Capotreno, 1927-1928. Modello 14. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 27 x 29,8 x 24,4 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 6/50». Collezione privata.

L’opera esposta è il sesto esemplare di una tiratura di cinquanta, un particolare che, unito alla marca semplificata al solo nome della manifattura e al paese di produzione, riconduce l’opera ai primissimi anni di attività della Lenci come produttrice di ceramiche, un periodo riferibile al biennio 1927-1928. Si tratta quindi di uno dei primi progetti ideati da Mario Sturani, che dimostrano la raffinatezza esecutiva, la spontaneità e la spiritosa inventiva del giovane artista da poco tornato a Torino dopo il fondamentale triennio di formazione trascorso a Monza presso l’Istituto Superiore delle Arti Decorative. Questa scultura rivela l’approccio fresco e fantasioso di Sturani nei confronti di ciò che egli stesso, nel romanzo inedito Il maglione rosso, definirà «ninnoli stupidi e graziosi». Protagonista della plastica è un paffuto capotreno che, come un bambino tra i balocchi, si diverte a giocare con il modellino di un treno e una trombetta. La ricchezza inventiva si rivela non solo nella scelta di un soggetto tanto insolito, ma anche nei piccoli dettagli decorativi, come il trenino blu dipinto sul colletto della divisa e il cuore in rilievo che pulsa sul petto o che spunta dal taschino. La modellazione è ottenuta attraverso tratti sommari, che rifiutano ogni dettaglio naturalistico e anche la scelta della gamma cromatica si muove in questa direzione, abolendo sfumature e mezzetinte a favore di colori forti e squillanti distribuiti mediante segni grafici. L’opera infatti non è dipinta con campiture uniformi e sfumate di colore, ma lo smalto è steso con una tecnica semplificata a tratteggi incrociati che lasciano emergere il bianco della base sottostante. Dell’opera non si conosce il disegno preparatorio, ma nel volume monografico dedicato a Sturani (Mario Sturani 1990, p. 115, n. 140) viene pubblicato il quinto esemplare della tiratura di cinquanta. Dal confronto tra i due pezzi si può rilevare una perfetta affinità nei colori e nei decori per quanto concerne la figura del capotreno e gli accessori che completano la composizione, ma si nota un’interessante differenza nella modellazione della base. Il pezzo esposto in mostra presenta una base polilobata, decorata lungo i bordi da un motivo a tratti paralleli che ricordano delle rotaie. La ceramica pubblicata nella monografia del 1990 ha invece una base circolare più larga rispetto a quella esposta e ingloba la parte polilobata che, essendo più alta, fuoriesce di qualche millimetro rispetto alla ba-

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se. È questo il modello di Capotreno che viene riprodotto nel repertorio fotografico del Fondo Lenci conservato nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 118, n. 13). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 14; Mario Sturani 1978; PROVERBIO 1979, p. 91, n. 97; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Mario Sturani 1990, p. 115, n. 140; PANZETTA 1992, p. 118, n. 13; Le capitali d’Italia 1997, p. 341; PROVERBIO 2001, p. 307, n. 20; GARGIULO 2008b, pp. 169, 240. ESPOSIZIONI: «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

70. (TAV. 20) Contadine - Ritorno dal mercato, 1928. Modello 103. Terraglia formata a colaggio, assemblata e decorata a smalti policromi sottovetrina. 28,5 x 39,5 x 28,8 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 3-6-28» e simbolo grafico del decoratore (un segno ondulato percorso orizzontalmente da una linea); «28» incusso in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «STUR-BERT X». Collezione privata.

71. (TAV. 19) Contadine - Ritorno dal mercato, 1928. Gesso. 30,4 x 40,8 x 33,5 cm Iscrizioni in prossimità di sei fori disposti sul retro a incusso «1», «2», «3», «4», «5», «6» e all’interno di rettangoli e quadrati «A», «B», «C», «D», «E». Collezione privata.

72. (TAV. 18) Contadine - Ritorno dal mercato, 1928. China e tempera su carta da spolvero, montata su cartoncino. 340 x 230 mm Iscrizioni in china in alto a sinistra: «occhi contornati = contornati al centro celesti e di fianco verdi»; simbolo (graticcio a rombi) e «sulle guancie rosa»; simbolo (graticcio a rombi inclinati a 45°) e «naso»; sul retro «n. 23 / ceramiche / vasi».


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Firma in alto a destra «MARIO STURANI / 1928» e simbolo grafico (fiore). Collezione privata. Il modello fu esposto nel 1929, corredato dal titolo Tre contadine che ballano, presso la Galleria Pesaro di Milano (Ceramiche di Lenci 1929, n. 53; cfr. PANZETTA 1992, p. 35 nota 38). L’esemplare in esame, presentato alla mostra allestita ad Aosta nel 2000 (Le ceramiche Lenci 2000, pp. 85, 126), venne realizzato, come indica la datazione dipinta al di sotto della base, nel giugno 1928; di conseguenza l’ideazione da parte del pittore Mario Sturani del divertente soggetto agreste, incentrato sulle tre gioiose e rubiconde figure di contadine che unite a braccetto incedono reggendo sulla testa o tra le braccia un cesto, un vaso e una gallina, fu particolarmente precoce. Una datazione che trova conferma nel disegno preparatorio realizzato proprio nel 1928. Ogni dettaglio della composizione, dalle tre protagoniste, alle case e agli alberi che connotano la citazione paesaggistica retrostante, rimanda con immediatezza all’inconfondibile vena creativa ampiamente sviluppata e declinata da Sturani durante la sua permanenza presso Lenci, avviata tra il 1926 e il 1927 (LAMBERTI 1990, p. 33). Un linguaggio versatile e sempre di assoluto livello qualitativo, impreziosito in questo manufatto da una policromia minuziosa e delicata, stesa con veloci e brevi tocchi di pennello e progettata da una delle più valide collaboratrici della prima ora della ditta torinese, ovvero la scultrice Clelia Bertetti (Torino, 1904-1995), la quale, sulla base delle notizie biografiche oggi disponibili (Le ceramiche Lenci 1983, p. 12), sin dal 1927 avviò la sua attività con i coniugi Scavini eseguendo alcuni modelli propri (Vaso con fiori, modello 77; Targa Madonna con Bambino datata 1931; cfr. PANZETTA 1992, pp. 128, 386, nn. 77-78, 1750) e contribuendo, con l’incarico di capo del reparto ritocco, alla creazione della policromia di pezzi disegnati da altri maestri, con particolare riferimento verosimilmente ad alcune ceramiche di Sturani. Ciò è attestato dalla firma «STUR-BERT» visibile sia nello straordinario Ritorno dal mercato in esame, sia nell’altrettanto gaia ed esuberante Scalata alle stelle datata «XVXI-MCMXIX» (cat. 82), nella quale, forse non a caso, si riscontra la stessa netta ma elegante contrapposizione tra toni freddi e tinte più calde. L’inserimento della doppia firma consente

quindi di considerare i due modelli frutto di una comune partecipazione dei due artisti nella fase creativa, sicuramente avvenuta per la scultrice nel momento in cui intervenne direttamente sul prototipo progettando una decorazione poi riproposta dalle numerose maestranze impegnate nella stessa ditta, come attestano i simboli dei due decoratori, purtroppo ancora privi di una precisa identità, delineati nelle due ceramiche citate. Si tratta del resto di un modus operandi che si riscontra in altri modelli della manifattura, molti dei quali nati da un’idea di Mario Sturani: è il caso di Regime secco (cat. 80), contrassegnato dalla firma «STUR-FEA» (ossia Sturani e il formatore Matteo Fea), oppure della Nuda con ranocchio, solitamente riferita al solo Sturani, ma che invece - come documenta un esemplare inedito (Lenci / MADE IN ITALY / 19.9.931) recante sul retro della base la firma «STUR-VAC» - costituisce un momento di collaborazione tra Sturani e Sandro Vacchetti, autore in questo caso della semplice decorazione, dato che la figura femminile nuda rivela chiaramente uno stile assolutamente sturaniano. Del Ritorno al mercato è emerso il relativo gesso, dal quale è possibile ricavare alcune interessanti informazioni tecniche: alle spalle dei tre personaggi disposti in primo piano sono infatti presenti alcuni fori contrassegnati da numeri incussi abbinati ad alcuni spazi a forma di rettangolo e quadrato recanti all’interno indicazioni alfabetiche, sempre incusse. Si tratta dei riferimenti utili per il successivo assemblaggio degli alberi e della piccole case che compongono il paesaggio retrostante, dettagli che tra l’altro ritornano, dipinti o formati a colaggio, in altre ceramiche di Sturani, dal Vaso Il villaggio (modello 105) al coperchio del Vaso moresco eseguito in collaborazione con Gigi Chessa (modello 343/C; cfr. PANZETTA 1992, pp. 131, 171, nn. 101, 378). L’assenza del modello nei cataloghi merceologici successivi a quello databile al 1930 circa (Catalogo B, n. 103) e l’estrema rarità degli esemplari emersi nell’ambito del collezionismo privato indicano il progressivo abbandono della produzione di questo pezzo. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 53; Catalogo B, n. 103; PROVERBIO 1979, p. 86, n. 87; PROVERBIO 1986, p. s.n.; PETTENATI 1990, p. 229, n. 296; PANZETTA 1992, p. 131, n. 99; Le ceramiche Lenci 2000, pp. 85, 126; PROVERBIO 2001, p. 295, n. 7.

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ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [D.S. - G.Z.]

73. (TAV. 108) Maialetto, 1928. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 32 x 11,5 x 21 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / ITALY» e iniziali del decoratore: «T.C.»; «10» e «o» incussi. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «STURANI». Collezione privata. Tra le ceramiche Lenci citate nell’opuscolo pubblicato dalla Galleria Pesaro di Milano in occasione della mostra allestita nel dicembre 1929, al numero 44 compare il Maialetto di Mario Sturani, opera che Alfonso Panzetta ha proposto di identificare in una ceramica illustrata attraverso un esemplare emerso presso una collezione privata (PANZETTA 1992, p. 383, n. 1.736). Si tratta di un suggerimento condivisibile, dato che il manufatto evidenzia un preciso rimando dal punto di vista figurativo al titolo riportato nell’elenco, e rivela la presenza dell’eclettico linguaggio di Sturani e i caratteri esecutivi propri della produzione degli esordi. Il modello, che non risulta documentato nell’ambito dell’archivio storico, è sicuramente identificabile con uno dei dieci numeri mancanti tra il novero delle prime cento ceramiche prodotte. I dati riportati al di sotto della base dell’inedito esemplare presentato in questa occasione consentono di collocare non oltre il 1928 la realizzazione della ceramica, che venne sicuramente eseguita in pochissimi esemplari. L’esuberante composizione di Sturani, della quale appare difficile definire con immediatezza i contenuti, forse desunti dall’artista dal mondo delle fiabe e per questo verosimilmente destinata a impreziosire le stanze dei bambini, non fu pienamente apprezzata dal pubblico, troppo eclettica dal punto di vista della decorazione, concepita dall’artista stesso. L’attuale individuazione di due soli esemplari e l’assenza del modello in tutti i cataloghi merceologici della ditta sono elementi certo connessi a un precoce abbandono di questa ideazione. In ogni caso, come indica il

numero incusso in pasta nell’esemplare in mostra, entro il 1928 erano stati prodotti almeno dieci pezzi. Appare interessante evidenziare che il confronto tra l’immagine resa nota da Panzetta, e riproposta successivamente da Proverbio (2001, p. 342 n. 114) - corredata da una datazione del pezzo al 1929 non meglio precisata -, e la ceramica qui esposta svela dal punto di vista dell’impianto decorativo alcune interessanti variazioni, percepibili soprattutto nella resa del corpo del maiale e della creatura fantastica seduta sulla sua schiena. In questo esempio colpisce il netto contrasto tra le tonalità rosee impiegate per dipingere l’animale e i colori freddi che connotano l’incarnato del personaggio marino, colto mentre regge sulle spalle una bambina e stringe nella mano le code di due comete. Similmente ad altre ceramiche di Sturani, come il Pupazzo (modello 11; PANZETTA 1992, p. 118, n. 10) o il Capotreno (cat. 69), pure il Maialetto venne ben presto sacrificato dagli Scavini per far fronte alle richieste dettate dal gusto della propria clientela, poco sensibile nei confronti di una composizione geniale, ma non di immediata comprensione, la cui lavorazione, con particolare riferimento alla complessa fase della decorazione, doveva tra l’altro condizionare non poco il prezzo finale di vendita al pubblico. Da sottolineare è la capacità dimostrata in questo esemplare dal decoratore «T.C.» nella realizzazione di una policromia che sottolinea, esaltandolo, lo spirito sturaniano. Non pare condivisibile la proposta di collegare a questo soggetto un disegno di collezione privata siglato da Mario Sturani (GARGIULO 2008b, p. 70, n. X), in quanto il foglio, già reso noto da Silvana Pettenati (1990, p. 225, cat. 283), risulta contrassegnato lungo il bordo inferiore dalla scritta «Fortunino portafortuna ceramica» e peraltro è del tutto distante dalla dinamica compositiva qui esaminata. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929, n. 44; BINAGHI 1976, p. 89; PANZETTA 1992, p. 383, n. 1.736; PROVERBIO 2001, p. 342, n. 114. [D.S. - G.Z.]

74. (TAV. 125) 76. (TAV. 127) Maschera Arlecchino (posacenere), 1928. Maschera Pantalone (posacenere), 1930. Modello 10. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 15,5 x 15,6 x 9 cm Iscrizioni a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / italy» e «T.C.c.S.»; «3» incusso in pasta. Etichetta cartacea prestampata: «Lenci TURIN (ITALY) / DI E. SCAVINI / MADE IN ITALY / 10 [a penna blu] / PAT. SEPT. 8-1921 - PAT. N. 142.433 / STE S. G. D. G. X 87.395 - BREVETTO 501-178». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 10; PROVERBIO 1979, p. 112, n. 220; PROVERBIO 1986, p. 192; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Mario Sturani 1990, p. 228, n. 286; PANZETTA 1992, tav. 6, pp. 105, 118, n. 9; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; PROVERBIO 2001, p. 305, n. 17; Novecento a novecento gradi! 2006, p. 36, 120, n. 4; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 178-179, n. 211. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006.

75. (TAV. 126) Maschera Pierrot (posacenere), 1928. Modello 9. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 15,3 x 13 x 9,3 cm Iscrizione in smalto nero sotto la base: «Lenci / ITALY» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili. Etichetta cartacea prestampata, parzialmente lacunosa: «M. STURANI (a penna rossa) Lenci TURIN (ITALY) / DI E. SCAVINI / MADE IN ITALY / 9 (a penna blu)/ PAT. SEPT. 8-1921 - PAT. N. 142.433 / S. G. D. G. X 87.395 - BREVETTO 501-178». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 9; PROVERBIO 1979, p. 112, n. 222; CERUTTI 1982, pp. 66-67; Le ceramiche Lenci 1983; p. 60; Mario Sturani 1990, p. 218, n. 254; PANZETTA 1992, p. 118, n. 9; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; PROVERBIO 2001, p. 305, n. 17; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 36, 120, n. 4. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983«; Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006.

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Modello 31. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 15 x 13,7 x 14,2 cm Iscrizione in smalto nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / 6-1-30» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili. Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 31; PROVERBIO 1979, p. 112, n. 221; Mario Sturani 1990, p. 218, n. 255; PANZETTA 1992, p. 120, n. 28; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; PROVERBIO 2001, p. 307, n. 22. ESPOSIZIONI: «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997.

Le tre ceramiche esposte in mostra costituiscono la serie completa di piccoli oggetti ispirati alle maschere della commedia dell’arte, destinati a essere usati come portacenere. Secondo lo stesso principio compositivo del Vaso maschere (cat. 87), Sturani adatta la forma concava delle maschere per ottenere oggetti cavi utilizzabili come contenitori - in questo caso portacenere - e lo sviluppo in altezza dei volti mascherati svolge anche una funzione aggiuntiva, impedendo la vista del contenuto. In questo modo, l’artista mette a punto una nuova tipologia di ceramiche, capaci ancora una volta di fondere con intelligenza e fantasia le necessità pratiche degli oggetti d’uso con le esigenze estetiche degli oggetti decorativi. Fra le tre ceramiche, il volto di Arlecchino si distingue per una maggior semplificazione nella modellazione e nella definizione dei particolari. Il viso è sagomato attraverso forme schematiche, sottolineate da una decorazione pittorica limitata a pochi dettagli: l’incarnato bianco è appena ravvivato dal rosso della bocca e dalla colorazione rosea delle guance, della punta del naso e del mento; una linea continua verde definisce le sopracciglia e la forma del naso, mettendone in evidenza la forma netta e tagliente di matrice cubista e futurista; gli occhi sono trasformati in una mandorla gialla racchiusa all’interno del tratto verde che delimita il contorno delle palpebre, secondo una tipologia che ricorre anche in altre ceramiche, disegni e progetti di Mario Sturani. L’elemento distintivo di questa figura, necessario per riconoscere immediatamente la maschera raffigurata, è il motivo a scacchi con cui sono dipinti il cappello e il tes-


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suto che incorniciano il volto: il primo alterna rombi bianchi, marrone, grigi e neri, mentre il secondo presenta una cromia basata su piatte campiture di colori brillanti. Secondo l’immagine tradizionale, Pierrot è una figura dal volto pallido e dall’espressione triste. Sturani, invece, interpreta la malinconia del personaggio, diventato il simbolo dell’innamorato infelice, in chiave ironica e leggera, modellando copiose lacrime che scorrono lungo le guance e due cuori posti ai lati del viso, simboli delle pene d’amore. Al posto del semplice copricapo nero che caratterizza l’abito di Pierrot, l’artista crea un ampio cappello che si muove con andamento avvolgente, decorato da un bottone circolare. Sul copricapo e tra i capelli neri sono inseriti coriandoli e stelle filanti in rilievo, dipinti in blu e in verde, elementi tipici dei festeggiamenti per il Carnevale, che rendono ancora più stridente il contrasto ironico tra l’allegria della festa e la tristezza tipica del personaggio. La composizione è completata dalla chitarra solitamente utilizzata da Pierrot per suonare dolci serenate sotto la finestra dell’innamorata. L’ultimo posacenere rappresenta Pantalone, il vecchio mercante avaro e lussurioso di origine veneziana. I caratteri distintivi del suo costume sono la barbetta da capra e la maschera nera con il naso adunco, che copre parzialmente il volto e lascia intravedere gli occhi vuoti e inespressivi dipinti in verde. La decorazione pittorica, distribuita per rapide pennellate, risulta essere piuttosto approssimativa e meno attenta ai dettagli rispetto alla Maschera Pierrot. Per stabilire la datazione dei singoli pezzi risulta molto utile l’analisi delle marche riportate a pennello sotto la base e l’eventuale presenza di segni incussi. La marca semplificata, con il nome della manifattura e con il paese di produzione, permette di collocare l’esecuzione della Maschera Arlecchino entro il 1928. La datazione precoce sembra essere comprovata anche dalla presenza del numero 3 incusso nel fondello, che dovrebbe indicare la progressione nella cronologia d’esecuzione. Secondo tale interpretazione, il pezzo in mostra dovrebbe essere il terzo esemplare prodotto dalla manifattura e destinato alla vendita. È noto un esemplare conservato in una collezione privata (Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 178-179, n. 211) in cui la marca «Lenci Made in Italy, 21-VIII-’29» è accompagnata nel fondello dal numero incusso «41», che documenta il buon numero di pezzi

realizzati nell’arco di pochi mesi e comprova il gradimento del pubblico per oggetti di alto valore decorativo e di piccole dimensioni, presumibilmente venduti a prezzi più accessibili rispetto alle sculture e ai grandi vasi. L’iscrizione a pennello della Maschera Pierrot presenta le stesse caratteristiche riscontrate nella Maschera Arlecchino ed è quindi possibile collocare l’esecuzione del pezzo durante la prima metà del 1928. Anche se la ceramica Maschera Pantalone esposta in mostra è datata 6 gennaio 1930, la presenza di altre ceramiche datate all’anno precedente, il basso numero di inventario e, soprattutto, le strette affinità con Maschera Arlecchino e Maschera Pierrot consentono di anticipare il momento della creazione del modello, collocando anche questo progetto nel 1928. Per quanto riguarda il nome del decoratore, il simbolo grafico presente in Maschera Pierrot e Maschera Pantalone è associabile al nome di Alberto Nobili, pittore anche di altre ceramiche esposte in mostra. L’autore della Maschera Arlecchino resta invece ignoto; è probabile che la sigla «T.C.c.S.» si riferisca alle iniziali del pittore, ma esse non corrispondono ad alcuno dei nomi presenti nei libri paga settimanali o nei libri matricola conservatisi negli archivi. [S.C.]

77. (TAV. 97) Gli amanti sul fiore, 1929. Modello 6. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 25 x 37 x 16 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 19-XI-‘29» e simbolo grafico del decoratore (ponte); bambola e «39» incussi in pasta. Firma incisa sulla base posteriore: «STURANI». Collezione privata. La ceramica, esposta in occasione della mostra presso la Galleria Pesaro di Milano, rappresenta due giovani innamorati seduti di spalle, che ruotano il busto e la testa per potersi guardare dolcemente negli occhi. L’uomo indossa un elegante frac, è seduto su una foglia e appoggia

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il proprio cappello a cilindro su una gamba; la donna è invece seduta sui petali di una campanula e solleva con eleganza la mano sulla quale si è posata una farfalla. L’atmosfera irreale e sognante, messa in evidenza dalla mancanza di proporzioni tra i personaggi e gli elementi vegetali, trasforma i due amanti in creature fantastiche, lontane da ogni concreto legame con il mondo reale. Nella modellazione e nella decorazione delle figure si ritrovano i principi stilistici tipici delle silhouettes aggraziate ed eleganti di Sturani, giocate su fisionomie allungate e flessuose. La tecnica pittorica utilizzata per decorare i petali del fiore e i boccioli rivela l’attenta riflessione compiuta da Sturani su alcune delle tematiche principali affrontate durante gli anni dieci del Novecento dal gruppo futurista. In particolare, l’uso di effetti cromatici netti ottenuti mediante la scomposizione dei colori dello spettro ricordano la serie di opere del pittore Giacomo Balla intitolate «Compenetrazioni iridescenti». Questi dipinti si basano sul frazionamento della luce nei suoi colori primari, disposti secondo forme triangolari che corrispondono alla struttura del raggio luminoso. L’interesse scientifico per gli effetti della luce e del movimento ridotti a schemi geometrici e triangoli colorati, che influenza tutta l’esperienza futurista di Balla, si traduce in Sturani in un esito decorativo molto efficace. Questo processo di suddivisione della gamma cromatica era già stata studiata dall’artista durante la sua permanenza a Monza, come testimoniano alcuni disegni molto affini ai fiori che compongono la ceramica. Si tratta, in particolare, delle tempere su carta Campanula verde del 1926 e Campanule - Fioritura di colori del 1927 (Mario Sturani 1990, p. 25). La fotografia in bianco e nero visibile nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 117, n. 6) si distingue dall’opera esposta per l’assenza della farfalla appoggiata sulla mano della fanciulla. Si conosce anche un esemplare con la parte interna delle foglie dipinta di blu (Mario Sturani 1990, pp. 98-99, n. 109). La prima apparizione pubblica delle ceramiche Lenci risale al 1928, quando la ditta partecipa all’Esposizione Internazionale di Torino. Oltre a esporre le proprie creazioni nella Galleria del vetro e nella Galleria delle ceramiche, la manifattura collabora all’allestimento della «Casa degli architetti», le cui sale interne sono

state fotografate e descritte nel numero speciale di «Domus» del settembre 1928, interamente dedicato all’evento espositivo torinese. Una delle fotografie del salotto ha permesso di riconoscere sul divano un cuscino in panno applicato che riporta il disegno di Mario Sturani Gli amanti sul fiore. La composizione ha quindi origine come modello per tessuti e solo a partire dall’anno successivo viene trasformata in una ceramica, di cui l’opera esposta rappresenta il trentanovesimo esemplare fuoriuscito dalla ditta entro il 19 novembre 1929. Come suggerito da Silvana Pettenati (Mario Sturani 1990, p. 137), l’artista amava così tanto questo soggetto da replicarlo anche in una lastra in smalto, appartenente a una collezione privata, frutto di esperimenti compiuti nel dopoguerra insieme a Jacques Tati, regista, attore e mimo francese. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 6; Ceramiche di Lenci 1929; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Mario Sturani 1990, pp. 92, 98-99, n. 106, p. 241, n. 2; PANZETTA 1992, p. 117, n. 6; Le ceramiche Lenci 2000, p. 86; PROVERBIO 2001, p. 304, n. 16. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

78. (TAV. 33) Orco bottiglia, 1929. Modello 70. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 31 x 15 x 16,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 8-4-29» e simbolo grafico del decoratore; «16» incusso in pasta. Collezione privata. Quest’opera di Sturani fa parte della serie di oggetti d’uso che non rinunciano all’alto valore decorativo che contraddistingue le ceramiche prodotte durante i primi anni di attività della manifattura. La forma panciuta della bottiglia viene sapientemente sfruttata per dar vita a un personaggio grottesco, appartenente al mondo delle fiabe per bambini. L’orco tiene nella mano destra un bastone di legno che si trasforma nell’impugnatura della bottiglia, chiusa da un tappo mimetizzato nella parte superiore del cappello. Lo spazio scuro tra il corpo dipinto del-

l’orco e il mantello blu viene utilizzato da Sturani per inserire le sagome di due bambini con i capelli biondi e l’abito blu. La bimba si è appena punta con il coltello che l’orco tiene in mano, mentre il bimbo scappa stringendo un piccolo pugnale. L’atteggiamento spaventato dei due bambini non trova però corrispondenza con l’aspetto burlesco dell’orco, che sorride e spalanca gli occhi in un’espressione fissa. Nel 1929 Sturani progetta anche l’Orchessa bottiglia (modello 70 bis; PANZETTA 1992, p. 126, n. 69), che riprende la stessa forma utilizzata per l’Orco. L’impugnatura è in questo caso formata da una treccia d’aglio, mentre il tappo si trova in corrispondenza del fiocco che le orna i capelli. La donna, dall’espressione bonaria, sembra non accorgersi che sotto il suo mantello rosso si stanno nascondendo due bambini identici negli abiti e nei tratti somatici ai bimbi raffigurati nell’Orco: la bambina fa capolino da dietro il grembiule a scacchi della donna, mentre il ragazzo si porta il dito davanti alla bocca per suggerire alla compagna di fare silenzio. La fonte iconografica di questa ceramica è stata resa nota da Maria Mimita Lamberti (Mario Sturani 1990, pp. 28-29, 34). In particolare, l’idea di trasformare l’orco e l’orchessa in una ceramica è riconducibile al primo lavoro compiuto da Sturani per la Lenci, che gli permise di conoscere e collaborare con Sergio Tofano, artista poliedrico noto soprattutto come attore e regista teatrale, grafico e inventore dei fumetti del Signor Bonaventura. Tofano aveva incaricato Lenci di realizzare i costumi in panno per la prima trasposizione teatrale delle avventure del suo personaggio, andate per la prima volta in scena al teatro Carignano di Torino nel 1927. Il successo di questa collaborazione convinse Tofano ad affidare alla manifattura l’incarico di realizzare le scene e i costumi anche dello spettacolo La Regina in berlina con Bonaventura staffetta dell’ambasciatore, presentato al teatro Argentina di Roma nel 1928. Le recensioni del tempo evidenziano soprattutto la grazia, l’eleganza e la vivacità degli scenari e dei costumi ideati dalla ditta torinese, che realizza in panno non solo gli abiti, ma l’intera scenografia. Le fotografie dello spettacolo, pubblicate dalla rivista «Comœdia» nell’aprile 1928, mostrano evidenti riferimenti con le ceramiche prodotte da Sturani a partire dall’anno successivo. In effetti, l’Orco bottiglia e l’Orchessa bottiglia sono chiaramente ispirati ai personaggi dell’orco ve-

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getariano, gentile e senza denti, e della moglie della commedia di Tofano, dei quali Sturani riprende anche le fattezze fisiche e i costumi. L’immagine di un orco buono, per nulla intenzionato a divorare i bambini nascosti sotto il suo mantello, giustifica anche le espressioni serene e divertite delle due figure. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 70; Ceramiche di Lenci 1929; L’orco bottiglia 1929, p. 9; Mario Sturani 1978; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 35, 60; Mario Sturani 1990, pp. 29, 34; PANZETTA 1992, p. 126, n. 68; PROVERBIO 2001, p. 309, n. 25; GARGIULO 2008b, p. 185. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti, catalogo della mostra», Milano 1983 [S.C.]

79. (TAV. 105) Ragazzo sull’elefante, 1929. Modello 12. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 26,5 x 16,2 x 8,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina all’interno della zampa anteriore destra: «MADE IN ITALY»; iscrizione a pennello in nero sottovetrina all’interno della zampa anteriore sinistra «4-12-29 / Lenci». Collezione privata. Insieme al Capotreno (cat. 69) e al Pupazzo (modello 11; PANZETTA 1992, p. 118, n. 10), il Ragazzo sull’elefante è un perfetto rappresentante dell’adesione fresca e istintiva al mondo dell’infanzia che caratterizza la fase iniziale dell’attività di Sturani. Lo stesso artista, nel racconto Il bruno e l’azzurro, ricorda positivamente questo primo momento di collaborazione con la ditta Lenci: «Lavorare così per la gioia dei bambini, per la gente sana e giovane era una bella cosa, ma quando incominciò a diventare un mestiere, una necessità della vita, perse gran parte del suo fascino caratteristico» (Mario Sturani 1990, p. 36). L’artista guarda con curiosità e invidia al mondo spensierato e leggero dei fanciulli, dei poeti e dei «felici pazzerelli», capaci di perdersi nel mondo immaginario del meraviglioso. L’uomo comune, troppo impegnato nelle serie attività quotidiane necessarie per sopravvivere alla realtà, ha comunque bisogno, almeno ogni tanto, di rifugiarsi in fantasie feli-


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ci e sogni ingenui, necessari per risollevarsi dal corso banale della propria vita. Sono questi i presupposti per comprendere la produzione più solare e allegra dell’artista, capace di interpretare con straordinaria naturalezza un repertorio di immagini provenienti direttamente dalla propria fantasia. Il Ragazzo sull’elefante conserva ancora oggi tutta la carica ironica e vivace, frutto di una forza creativa ingenua, ma intelligente. Sturani si ispira al mondo colorato e spensierato del circo e immagina un buffo elefante con la proboscide terminante in un fiore blu, le grandi orecchie pinzate da orecchini a cerchio e gli occhi sostituiti da margherite in rilievo. Il corpo bianco è dipinto con gruppi di tre pallini, mentre sul capo è appoggiato un cappello conico. In groppa al pachiderma è seduto un pagliaccio che tiene in mano due mazzolini di fiori colorati. Anche in questo caso, gli occhi sono sostituiti da fiori stilizzati dipinti di blu. Il modello riprodotto nelle immagini d’epoca conservate nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 118, n. 11) si distingue per una decorazione pittorica più complessa: le orecchie sono dipinte con bande ondulate oblique, mentre i semplici pallini blu sono sostituiti da fiori stilizzati in diversi colori e dimensioni, distribuiti sulla superficie senza un ordine preciso. L’abito della figura non presenta alcuna differenza, ma la decorazione del viso comprende anche due gote rosse, l’arco delle sopracciglia e le narici. Sturani ritornerà sul tema dell’elefante alcuni anni dopo, quando, insieme alla moglie Luisa, lavorerà a L’elefante con le brache, un progetto per un libro illustrato per bambini caratterizzato da una gamma cromatica fresca e vivace, affine a quella adoperata per le ceramiche (Mario Sturani 1990, pp. 58, 72). BIBLIOGRAFIA: Le ceramiche Lenci 1983, p. 36; Mario Sturani 1990, p. 228, n. 287; PANZETTA 1992, p. 118, n. 11; PROVERBIO 2001, p. 306, n. 19; GARGIULO 2008b, pp. 168, 239. [S.C.]

80. (TAV. 111) Regime secco, 1929. Modello 4. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 25 x 25,2 x 15,6 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci X / MADE IN ITALY / 30-10-29 / -ER-»; bambola e «47» incussi in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo laterale della base: «STUR-FEA». Collezione privata.

81. (TAV. 110) Regime secco, 1929. Matita e tempera su carta da spolvero, montata su cartoncino. 399 x 262 mm Iscrizioni a matita in alto a destra: «vino bianco / e / vino rosso»; sul retro a destra «n. 40 / Ceramiche figure». Firma sul retro, in alto a destra: «MARIO STURANI / 1928» e simbolo grafico (fiore). Sul retro del cartoncino, timbro della manifattura Lenci. Collezione privata. Il modello per questa ceramica deriva da un acquarello su carta da spolvero, firmato da Mario Sturani e datato 1928. Nel disegno, gli elementi della composizione sono ordinati secondo un andamento simmetrico che utilizza come asse il lampione. Su una base ellittica sono disposti due personaggi maschili dagli abiti e dalle espressioni del tutto similari, con in mano due bottiglie di vino e il braccio sollevato per non far rovesciare il liquido nel bicchiere. Le due figure, evidentemente già ubriache, barcollano e tentano di restare in piedi aggrappandosi al lampione che li separa. Il personaggio sulla destra, vestito con casacca e pantaloni in varie tonalità di rosa, appoggia un piede sul tetto di un condominio, mentre l’altro, vestito di giallo, tocca con la punta della scarpa il cappello a cilindro caduto a terra. Alle loro spalle si stagliano piccoli edifici moderni dalle linee sghembe che contribuiscono a creare il senso di una percezione spaziale sfalsata dall’ebbrezza dell’alcol. Probabilmente per motivi tecnici, nel passaggio dal disegno alla ceramica la composizione è stata semplificata, eliminando il personaggio posto sulla sinistra. Le caratteristiche generali

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del progetto vengono comunque conservate e il tono caricaturale e ironico della scena risulta ancora più accentuato. Il disorientamento della figura è reso più evidente dall’andamento ondulato del lampione, restituito non solo plasticamente, ma anche pittoricamente mediante una decorazione a linee ondulate parallele. L’espressione accigliata descritta nel disegno viene sostituita da un sorriso tirato e da uno sguardo fisso, incantato a osservare la luce che fiammeggia nella lanterna. La gamma cromatica scelta è meno carica rispetto al disegno e cambia completamente il modo di concepire la decorazione dell’abito: se nel bozzetto i colori brillanti erano distribuiti in modo uniforme, nella scultura si preferisce utilizzare colori sfumati disposti in fasce verticali nei pantaloni e orizzontali nella maglia. Esistono però esemplari che, pur mantenendo lo stesso motivo decorativo e le stesse tonalità, ricorrono a smalti più brillanti e accesi. In questo caso, anche il viso acquista un colorito più vivace: le gote si accendono di rosa, le orecchie e il naso diventano rossi, indicando con più evidenza lo stato di ebbrezza (PROVERBIO 2001, p. 300, n. 12). Regime secco, con i suoi temi dissacranti, i riferimenti alla metropoli contemporanea, la ricerca di movimento e il ricorso a una gamma di colori accesi, entra a far parte del ristretto numero di opere di ascendenza futurista realizzate da Sturani durante il primo periodo di attività alla Lenci. A Torino e a Monza, l’artista aveva avuto modo di entrare in contatto con le tematiche futuriste e questo interesse si manifesta non solo in una serie di disegni e progetti, ma anche in alcune riflessioni teoriche, comunicate già nel novembre 1925 all’amico Cesare Pavese. Nella corrispondenza tra i due personaggi, Sturani esprime una precisa concezione dell’arte, basata sui principi del colore, del volume e del movimento. Secondo Sturani, l’impressionismo si è focalizzato solo sul problema del colore, ignorando completamente le problematiche relative alla costruzione, al disegno, all’anatomia, al contenuto e al volume. Al contrario, il cubismo ha dimenticato tutti gli insegnamenti dell’impressionismo per concentrarsi esclusivamente sul peso e il volume. Al futurismo dedica invece parole molto positive: «Col futurismo s’incomincia a comprendere che occorre un’unione artistica delle varie tecniche al contenuto, si tenta con espressioni statiche di rappresentare il movimento, e si dà valore alla vita moderna»

(Mario Sturani 1990, p. 31). In effetti, sono questi i tre principi fondamentali che regolano un’opera come Regime secco. Prima di tutto, il materiale ceramico, nella sua duplice possibilità decorativa data dalla forma plastica e dalla decorazione pittorica, si presta perfettamente a dar vita al tema scelto, rispettando la necessità di unire armonicamente la tecnica al contenuto. Il movimento reale del personaggio e l’oscillazione dello spazio circostante, dovuta alle sue percezioni sensoriali alterate dagli effetti del vino, sono un elemento fondamentale, perfettamente riconoscibile. Il tema scelto e la presenza dei grattacieli, simboli della città moderna, rispecchiano l’interesse futurista per il mondo contemporaneo. La doppia firma incisa sul lato sinistro della base identifica in Sturani l’autore del progetto e in Matteo Fea il formatore del gesso, che deve aver avuto un ruolo importante durante la fase progettuale, collaborando con Sturani nel delicato momento di passaggio dal disegno alla modellazione tridimensionale. Sebbene il nome di Matteo Fea compaia nei libri paga settimanali solo dal 24 gennaio al 7 maggio 1930, con l’incarico di formatore e ritoccatore, il pezzo esposto, datato 30 ottobre 1929, permette di anticipare il suo arrivo presso la manifattura almeno di tre mesi, e conferma lo stato lacunoso delle informazioni contenute nei pochi registri amministrativi conservatisi negli archivi. Le iniziali dipinte sotto la marca potrebbero invece essere quelle di Enrica Robecchi, decoratrice inserita nei libri paga mensili dal 31 gennaio 1930 al 1o aprile 1931 (PANZETTA 1992, p. 397). Anche in questo caso, la sua assunzione alla Lenci deve essere anticipata, come dimostra non solo questo esemplare di Regime secco, ma anche altre ceramiche risalenti all’agosto del 1929, come, ad esempio, un esemplare di Cameriera con gatto di Teonesto Deabate (PANZETTA 1992, tav. 11, p. 105). Il numero incusso in pasta indica invece che l’esemplare esposto è stato il quarantesettesimo a essere ultimato entro la fine di ottobre 1929, rivelando un buon successo commerciale nonostante il particolare tema trattato. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 4; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 38, n. 37; PROVERBIO 1986, p. 38; PANZETTA 1992, p. 117, n. 4; Le capitali d’Italia 1997, p. 341; Le ceramiche Lenci 2000, p. 84; PROVERBIO 2001, p. 300, n. 12; GARGIULO 2008b, p. 167; AUDIOLI 2008, p. 107. PER IL DISEGNO: Mario Sturani 1990, p. 100, n. 110.

ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

82. (TAV. 114) Scalata alle stelle (lampada da tavolo), 1929. Modello 131. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 50,5 x 18,2 x 14 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / XV/XI/MCMXIX» e simbolo grafico del decoratore (sole); «43» incusso in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base «STUR-BERT». Collezione privata.

83. (TAV. 115) Scalata alle stelle (lampada da tavolo), 1929. Matita e tempera su carta. 195 x 330 mm Iscrizioni a matita con i codici degli smalti; a destra: «Precisazioni: / tenere i / calzoncini / più scuri / (marroni) / spazzolati / e la maglia / con un verde / anche lui / più scuro / che si intoni / con i calzoncini». Collezione privata. Il progetto per la lampada Scalata alle stelle è un valido esempio della straordinaria capacità inventiva di Sturani, in grado di coniugare brillantemente le necessità pratiche di un oggetto d’uso con le esigenze estetiche di un oggetto d’arredo. La fantasia dell’artista dà vita a un gruppo di tre figure, acrobati del circo o bambini impegnati in un gioco, sulla cima di un monte circondato da una corona di nuvole bianche, dipinte con una serie di stelle a otto punte. Per rendere più efficace la propria scalata e riuscire a raggiungere le stelle più alte, i tre personaggi formano una torre umana e mantengono l’equilibrio aggrappandosi alle code delle comete, che nascondono gli alloggiamenti per le lampadine. Gli abiti dei personaggi sono ornati con una variegata serie di elementi tratti dal mondo naturale: nuvole, stelle, falci di luna, fiori, frutti e ani-

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mali di ogni tipo. La decorazione pittorica risulta piuttosto approssimativa a causa del segno rapido e stilizzato, ma l’uso di colori accesi contribuisce a creare l’atmosfera gioiosa e spensierata che caratterizza la lampada. Un modello della Scalata alle stelle è stato esposto in occasione della mostra milanese del 1929 insieme ad altre trentadue ceramiche ideate da Sturani. Nel saggio di presentazione all’evento, Ugo Ojetti fornisce una breve descrizione delle caratteristiche stilistiche di ciascun partecipante e, riferendosi a Mario Sturani, afferma: «Più immaginoso e colorito, con snelle figure compone nel Fantino, nel Vento, negli Amanti, nella Scalata alle stelle, elastici ghirigori ai quali i lustri della ceramica sembrano prolungare il guizzo in un lampo». La ceramica pubblicata nel catalogo di Ojetti si differenzia da quella esposta per una semplificazione nella decorazione degli abiti, qui monocromi, mentre gli occhi non sono circolari, bensì dipinti a forma di stella. Il pezzo riprodotto nel catalogo dell’archivio storico della manifattura è invece più affine al disegno preparatorio (PANZETTA 1992, p. 135, n. 129): i pantaloncini sono dipinti in monocromo, mentre la casacca è segnata da piccoli trattini. L’esemplare esposto presenta la stessa decorazione di quello illustrato nel catalogo merceologico stampato negli anni trenta presso la tipografia Vincenzo Bona di Torino. Oltre alla marca dipinta che riporta il simbolo grafico del decoratore, la cui identità è ancora sconosciuta, la ceramica riporta un’ulteriore firma incisa sul bordo della base. Accanto alle prime lettere del cognome di Sturani è infatti riportata una firma parziale che indica la partecipazione di un terzo collaboratore, probabilmente coinvolto nell’ideazione o nella realizzazione del decoro degli abiti. Si tratta di Clelia Bertetti, artista presente alla Lenci dal 1927 al 1932 che, per un certo periodo, lavora anche come capo del reparto del ritocco. Clelia Bertetti è la prima collaboratrice a lasciare la manifattura per fondare con Piero Ducato un proprio laboratorio di ceramiche artistiche denominato Le Bertetti. Prende così avvio la diaspora dei dipendenti della Lenci che, intuendo le potenzialità economiche offerte dall’industria ceramica, danno vita a una serie di piccole manifatture indipendenti, conosciute con l’appellativo di «epigoni». La ditta di Clelia, il cui primo marchio è costituito dalle lettere «LeB», si dedica al-


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la produzione in serie di oggetti di buona qualità in terraglia e terracotta, prediligendo immagini sacre e nudi femminili molto vicini al gusto Lenci. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 131; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, pp. 20, 26; PROVERBIO 1979, p. 39, n. 42; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PANZETTA 1992, p. 135, n. 129; PROVERBIO 2001, p. 316, n. 42; GARGIULO 2008b, pp. 55, 190-191, 238; AUDIOLI 2008, p. 108. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

84. (TAV. 113) Le signorine (lampada da tavolo), 1929. Modello 130. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 49 x Ø 16,3 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 21- 9- 29» e simbolo grafico del decoratore (sole); bambola incussa in pasta; etichetta cartacea prestampata «Lenci TURIN / (ITALY) / DI E. SCAVIN / MADE IN ITALY / 130 [scritto a mano] / PAT. SEPT. 8-1221 - PAT. N. 142.488 / STÈ S. G. D. G. X 37.325 - BREVETTO 501-178». Firma incisa in pasta e dipinta sul bordo della base: «STURANI». Collezione privata.

85. (TAV. 112) Le signorine (lampada da tavolo), 1929. Gesso. 40 x Ø 16,8 cm Collezione privata. Con quest’opera, Sturani si allontana dalle tematiche infantili e giocose per affrontare soggetti tratti dalla contemporaneità della vita cittadina. L’artista immagina tre donne, indubbiamente tre prostitute, vestite con abiti alla moda e raffigurate in piedi sotto un lampione, in attesa. Ogni figura si distingue dalle altre per il diverso abbigliamento, per gli accessori e per la posa: la donna con i capelli lunghi e biondi è impegnata a rifarsi il trucco e tiene in mano un piccolo specchietto e un rossetto; la figura alla sua sinistra guarda fissa davanti a sé e ha le mani incrociate sul ventre, stringendo una piccola

borsetta; la terza donna, infine, incrocia le gambe sulle quali è appoggiato un ombrello giallo a bande orizzontali bianche. Gli abiti sono decorati con grande attenzione per i dettagli e per la restituzione fedele dei pattern dei tessuti, che assecondano le pieghe e le forme del corpo. Le tre figure conservano le caratteristiche tipiche delle donne di Sturani: fisionomie asciutte e slanciate e tratti del volto stilizzati, dominati dalla vuota mandorla colorata degli occhi, che trae ispirazione dai ritratti di Amedeo Modigliani. Sono le stesse figure che ricorrono in altri bozzetti per ceramiche, come le numerose teste femminili o le protagoniste del disegno per Gruppo scultoreo per caminetto: due donne/due uomini (cat. 145). In un ambiguo gioco tra finzione e realtà, Sturani trasforma il lampione di ceramica in una vera e propria lampada elettrica. In questo modo la luce che piove dall’alto e rischiara le figure in piedi sotto la lanterna ricrea lo stesso effetto della luce elettrica che avrebbe illuminato le figure reali inserite in un contesto urbano notturno. Non si registrano particolari differenze nel decoro e nella cromia rispetto alla versione riprodotta nella fotografia del Fondo Lenci conservato nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 135, n. 128) o all’esemplare pubblicato nel volume monografico dedicato all’artista (Mario Sturani 1990, p. 104, n. 118). La presenza del simbolo del sole dipinto sotto le basi del pezzo pubblicato nel 1990 e della lampada esposta, terminati a sedici giorni di distanza, indica che l’autore della decorazione è sempre lo stesso sconosciuto pittore, aiutando a chiarire il motivo delle evidenti affinità stilistiche tra le due versioni. Un modello di Le signorine è stato esposto in occasione della mostra del 1929 tenutasi presso la galleria milanese di Lino Pesaro. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 130; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 94, n. 104; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PROVERBIO 1986, p. 174; Mario Sturani 1990, p. 104, n. 118, pp. 135, 241, n. 6; PANZETTA 1992, tav. 20, pp. 106, 135, n. 128; PROVERBIO 2001, p. 316, n. 43; GARGIULO 2008b, p. 192. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

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86. (TAV. 107) Tobia, 1929. Modello 129. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 29,5 x Ø 18 cm Iscrizione in smalto nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / 24-IX-‘29» e simbolo grafico del decoratore (ponte); bambola e «45» incusso; «X» incisa in pasta. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «STURANI». Collezione privata. Tobia, conosciuto anche con il nome di Tobiolo, è il personaggio biblico legato alla figura dell’arcangelo Raffaele, che lo aiuta a curare il padre dalla cecità suggerendogli di usare come antidoto le interiora di un grosso pesce catturato nel fiume. Sturani si allontana dall’iconografia più diffusa, che raffigura il piccolo Tobia in compagnia dell’angelo, preferendo isolarne la figura, trasformata in un giovane pescatore dal viso dolce e dai lineamenti femminili, esaltati dalla fluente chioma bionda acconciata con foglie e fiori di campo. La tavolozza cromatica si basa sui tipici colori freschi e squillanti comuni anche ad altre opere di Sturani, come la Scatola Pupazzo (cat. 91) e Gli amanti sul fiore (cat. 77). Il pallido incarnato del volto è ravvivato dalle gote rosate e dalle piccole labbra rosse, mentre le orbite sono dipinte con lo stesso blu intenso del mantello. La plastica levigata e morbida del corpo contrasta con le forme taglienti e spigolose della vegetazione e con la modellazione decisamente più rigida e grafica dei capelli e del panneggio del mantello. Il modello, presentato in occasione della mostra milanese svoltasi presso la Galleria Pesaro, dovette incontrare un buon successo commerciale, almeno per quanto riguarda il primo anno di produzione, come testimoniato dal numero incusso al di sotto della base dal quale si evince che il Tobia presentato in mostra è il quarantacinquesimo esemplare prodotto fino al novembre 1929. Nonostante questa iniziale fortuna, l’opera non fu più inserita nei cataloghi merceologici e allo stato attuale delle ricerche non si conoscono esemplari datati ad anni successivi. Inoltre, non risulta che l’opera sia mai stata esposta e nelle fonti bibliografiche viene riprodotta solo l’immagine in bianco e nero ricava-

ta dal catalogo merceologico B (PROVERBIO 1979, p. 84, n. 83) e dal catalogo generale della manifattura (PANZETTA 1992, 9. 135, n. 127; PROVERBIO 2001, p. 315, n. 41). Bisogna attendere fino al 2008 per vedere pubblicato il primo esemplare a colori, del tutto coerente con l’esemplare esposto, sempre datato 1929, ma purtroppo privo di più precisi riferimenti relativi a marche e iscrizioni (GARGIULO 2008b, p. 189). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 129; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 84, n. 83; Mario Sturani 1990, p. 230, n. 299; PANZETTA 1992, p. 135, n. 127; PROVERBIO 2001, p. 315, n. 41; GARGIULO 2008b, p. 189. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929. [S.C.]

87. (TAV. 129) Vaso maschere (cache-pot), 1929. Modello 20. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 15 x 17 x 15 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 23-11-929» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili; bambola e «41» incussi in pasta; clessidra (?) incisa in pasta. Firma incisa in pasta e dipinta in corrispondenza del tronco d’albero: «STURANI». Collezione privata.

88. (TAV. 128) Vaso maschere (cache-pot), 1929. Matita e tempera su cartoncino. 285 x 318 mm Iscrizione a matita sul retro; «Vasi» e timbro «Lenci». Iniziali «M.S.». Collezione privata. Il piccolo cache-pot ideato da Mario Sturani nel 1929 è costituito da tre maschere accostate le une alle altre; sfruttando la loro concavità, l’artista crea una forma chiusa adatta a contenere un vaso con pianta. Nonostante la carica ironica e giocosa delle forme e la forte stilizzazione del modellato e dei decori, è possibile riconoscere i diversi soggetti rappresentati: la maschera blu è la trasfigurazione di un volto maschile, quella di tonalità rosa-arancio è invece un viso femmi-

nile, mentre l’ultima è il muso di un animale non ben identificabile. I punti di congiunzione delle tre maschere sono nascosti da una cascata di fiori bianchi, da un mazzo di fiori e fragole, e da un tronchetto d’albero sul quale è appollaiato un uccello variopinto. Come ricordato da Marco Bardini nel catalogo della mostra organizzata a Montelupo nel 2006, Sturani affronta un modello ceramico di lunga tradizione, che parte dal vaso canopico, passa attraverso le teste antropomorfe di Caltagirone e arriva fino alla ceramica contemporanea (Novecento a Novecento gradi! 2006, p. 120). Il modello antico viene però reinterpretato in chiave assolutamente moderna, facendo ancora una volta riferimento al patrimonio stilistico e inventivo di matrice futurista. Il gusto per il gioco e il divertimento, il tema del fantoccio e del travestitismo, la cromia priva di ogni sfumatura, gli arditi accostamenti di colore, l’uso di angoli appuntiti e i contorni netti e taglienti dei profili, dei fiori e dei ciuffi vegetali, rivelano un evidente richiamo agli stilemi futuristi. La staticità inevitabile delle tre maschere viene attenuata dal movimento della collana di perle, che entra nell’occhio destro e fuoriesce dalla bocca della maschera blu. Gli occhi e la bocca dei volti sono infatti scavati direttamente nell’impasto, dando vita a un’interessante contrapposizione tra i pieni e i vuoti. Il disegno preparatorio, una tempera su cartoncino siglata «MS.», mostra strette analogie con la decorazione cromatica dell’opera esposta. Esistono invece alcuni esemplari che presentano una cromia molto differente; tra questi, si ricorda il vaso pubblicato da Luciano Proverbio (2001, pp. 292-293, nn. 4-5), che si distingue per l’interno del recipiente dipinto in nero e le maschere giocate sulle tonalità del giallo e del rosa. È noto un esemplare del tutto simile al modello esposto, appartenente a una collezione privata (Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 110, 178-179, n. 212), la cui marca «Lenci / Made in Italy / 16-7-29» è corredata dal numero incusso «36», che documenta il buon numero di cache-pot prodotti entro il luglio 1929, mentre l’esemplare esposto, risalente al novembre dello stesso anno, è il quarantunesimo della serie. Questa indicazione è utile per rilevare la progressiva perdita di interesse per tale modello, considerando che nel giro di quattro mesi ne furono realizzati solo cinque esemplari.

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BIBLIOGRAFIA: Catalogo A1, n. 20; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 11; Torino tra le due guerre 1978, pp. 356-357, n. 10; PROVERBIO 1979, pp. 58, 59, n. 62; La metafisica: gli anni Venti, 1980, p. 107; Ceramiche Lenci ed Essevi 1982, n. 28; CERUTTI 1982, p. 66; PANSERA 1985, tav. IC/c; PROVERBIO 1986, p. 59; L’art déco en Europe 1989, pp. 31, 267; PANZETTA 1992, p. 119, n. 18; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; Le ceramiche Lenci 2000, p. 90; PROVERBIO 2001, pp. 292-293, nn. 4-5; Il déco in Italia 2004, p. 187, n. 196; BERTONI e SILVESTRINI 2005, p. 344; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 37, 120, n. 5; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 110, 178-179, n. 212; AUDIOLI 2008, p. 107; GARGIULO 2008b, pp. 170, 238; TERRAROLI 2009, p. 438. PER IL DISEGNO: Mario Sturani 1990, p. 97, n. 105. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Torino tra le due guerre», Torino 1978, pp. 356357; «La metafisica: gli anni Venti», Bologna 1980; «Ceramiche Lenci ed Essevi. 1927-1947», Torino 1982; «L’art déco en Europe: tendances decoratives dans les arts appliques vers 1925», Bruxelles 1989; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Il déco in Italia», Roma 2004; «Novecento a novecento gradi!», Montelupo 2006; «Futurismo 1909-2009: velocita+arte+ azione», Milano 2009. [S.C.]

89. (TAV. 96) Calamaio con due figure intente a scrivere, 1930. Modello 209. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina; calamai in bronzo dorato. 21 x 19 x 12,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 18-9-930» e simbolo grafico del decoratore. Firma incisa in pasta sul bordo posteriore della base: «STURANI». Collezione privata. L’opera fa parte della serie di oggetti destinati all’ornamento degli interni domestici, che però non rinunciano a una precisa destinazione d’uso. In questo caso specifico, la presenza di due piccoli contenitori in bronzo dorato, applicati sulla base, trasforma il gruppo scultoreo in un calamaio. Sturani immagina due esili figure sedute sui petali di un fiore; entrambe accavallano le gambe e tengono in mano un foglio bianco sul quale stanno per scrivere qualcosa con una penna gialla. L’intera composizione è giocata su una


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disposizione simmetrica degli elementi, di evidente ascendenza déco, che determina una composizione un poco rigida, raffinata ed elegante. La percezione speculare è confermata non solo dalla perfetta corrispondenza dei gesti delle due figure, ma anche dalla loro straordinaria somiglianza fisica. Secondo il tipico linguaggio sturaniano, le figure si caratterizzano per una modellazione levigata delle superfici che fa risaltare i volumi e le forme primarie a discapito della definizione dei dettagli; anche la resa dei volti si muove in direzione di una stilizzazione del segno, piuttosto che di una resa naturalistica dei tratti somatici. Allo stesso modo, il fiore non è riconducibile con precisione a nessuna specie realmente esistente, ma è ideato per diventare un comodo sedile per le due figure e contribuire, in chiave scenografica, all’equilibrio e alla simmetria della composizione. Il bordo della base è dipinto con tre fasce sovrapposte di vari colori, mentre il piano di appoggio rettangolare è decorato con un reticolo di linee nere e brune, definite da rapidi tocchi di pennello, che creano un motivo geometrico a scacchi romboidali. Il modello riprodotto nel catalogo dell’archivio storico della manifattura (PANZETTA 1992, p. 151, n. 235) aveva una diversa destinazione d’uso: al posto dei due calamai in bronzo è infatti applicato alla base un solo contenitore, stretto e lungo, ideale per l’inserimento di una penna. Il progetto ideato da Sturani poteva quindi essere adattato a diverse esigenze ed essere messo in commercio sia come portapenne sia come calamaio. Si conosce anche un esemplare privo di contenitori, realizzato quindi esclusivamente come oggetto d’arredo (ROSSO 1983, p. 151). Tutte queste varianti non presentano differenze significative nella decorazione pittorica o nella modellazione. BIBLIOGRAFIA: ROSSO 1983, p. 151; PANZETTA 1992, p. 151, n. 235; PROVERBIO 2001, p. 332, n. 89. [S.C.]

90. (TAV. 109) Dimmi di sì, 1930. Modello 21. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 38,2 x 29,6 x 14 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 5-7-30» e simbolo grafico del decoratore (ponte). Collezione privata. Per lungo tempo si è pensato che l’autrice dell’opera fosse Elena König Scavini. L’attribuzione si basava sulle informazioni contenute nel catalogo della mostra milanese del 1929, che riconosceva nel Dimmi di sì una ceramica della «signora Lenci». Nel testo introduttivo al catalogo, Ugo Ojetti sottolineava come Elena Scavini sia stata capace di infondere in Marianna (cat. 55) e in Dimmi di sì le stesse caratteristiche insite nelle sue bambole e, in particolare, vi riconosceva la sua fantasia immaginativa e una «maliziosa ingenuità feravilliana». Con questo aggettivo Ojetti creava un paragone tra la ceramica e il mondo teatrale, in quanto richiamava alla memoria le rappresentazioni teatrali di Edoardo Ferravilla, attore dilettante divenuto famoso per la naturalezza con cui interpretava le commedie in dialetto milanese e per la creazione di una serie di personaggi che hanno a lungo influito sull’immaginario del pubblico di fine Ottocento. Anche nell’articolo di commento alla mostra pubblicato nel «Corriere della Sera», la paternità della scultura viene riconosciuta alla signora Lenci; nel testo, intitolato Maioliche e stoffe d’arte, Dino Bonardi fa riferimento al lavoro definendolo «di un grottesco bizzarro, e concepito con dinamica libertà di atteggiamenti dalla signora Lenci». Ancora nel 2001, nel volume Lenci. Ceramiche da collezione di Luciano Proverbio l’opera viene assegnata a Elena König Scavini e viene evidenziata come un errore l’attribuzione a Mario Sturani fatta da Alfonso Panzetta (1992, p. 119, n. 19). Prima ancora di Panzetta la ceramica era già stata riconosciuta come opera del pittore da Silvana Pettenati, autrice di un interessante saggio sulla ceramiche ideate per Lenci (Mario Sturani 1990, p. 135). In effetti, la straordinaria forza immaginativa ed espressiva, il tono giocoso e lo stile di Dimmi di sì sono chiaramente riconducibili al linguaggio del mae-

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stro e non al gusto meno raffinato della signora Scavini. La base della ceramica è decorata da ciuffi d’erba resi attraverso pennellate verdi a «V» e nella parte posteriore presenta cinque casette e un campanile, di dimensioni inferiori rispetto alla figura. L’idea di inserire edifici ridotti in scala rispetto ai personaggi principali viene ripresa da Sturani anche in altre opere ideate nel 19281929, come Contadine - Ritorno al mercato (cat. 70) e Regime secco (cat. 80), un confronto che appare come un’ulteriore conferma della paternità della ceramica. La scultura raffigura un buffo personaggio impegnato a staccare a uno a uno i petali di una margherita, nella speranza di ottenere una risposta affermativa alla sua domanda d’amore. La figura di Pierrot è costruita attraverso forme affusolate e linee curve, con gli arti inferiori e superiori piegati in una posa innaturale, che dà la sensazione di un personaggio elastico, privo di struttura ossea. Anche il viso, con gli occhi a mandorla e il naso allungato, ricorda quello di un pupazzo. L’abbigliamento è costituito da un piccolo cappello conico appoggiato sulla testa calva, una giacca a coda di rondine, un paio di pantaloni bianchi e scarpe nere. La giacca è dipinta con un decoro a scacchi bianchi e neri che riprende i motivi geometrici utilizzati dagli artisti delle Wiener Werkstätte per decorare molti degli oggetti prodotti nei laboratori viennesi. Questo motivo a scacchi lo si ritrova anche in alcuni disegni di Sturani (GARGIULO 2008b, p. 149, n. CLVII), e in altre opere prodotte da Lenci, come il Giocatore di golf (modello 231; PANZETTA 1992, p. 155, n. 259) realizzato da Sandro Vacchetti su ispirazione di un omonimo pastello di Marcello Dudovich (PANZETTA 1992, p. 16). Sturani era entrato in contatto con i modelli mitteleuropei durante i suoi studi presso l’Istituto Superiore delle Arti Decorative di Monza, che frequenta tra il 1924 e il 1927. Fin dal periodo monzese, le esperienze secessioniste tedesche, così come gli stimoli provenienti dal futurismo o dalla grafica pubblicitaria, vengono sempre filtrate attraverso la sua personale fantasia inventiva e sono restituite mediante un perfetto controllo della tecnica. La figura fondamentale per la sua conoscenza del mondo artistico austriaco e tedesco è Ugo Zovetti, professore del corso di decorazione della scuola di Monza. Il maestro, formatosi presso la Kunstgewerbeschule di

Vienna con Josef Hoffmann e Koloman Moser, fondatori delle Wiener Werkstätte, era stato assistente di Moser e membro del Werkbund austriaco. Tra le varianti esistenti, si conoscono esemplari con una diversa disposizione delle abitazioni e con margherite dai petali più corti e arrotondati. Per quanto riguarda la decorazione pittorica, alcune versioni tarde sono prive dei delicati passaggi tonali che caratterizzano la decorazione dei petali del fiore, presentano motivi a scacchi più irregolari, un cappello nero con una banda bianca e una diversa colorazione del viso. Anche nelle tonalità delle case si registrano differenze: oltre al modello colorato, rappresentato dalla ceramica esposta, si conservano esemplari con case dalle pareti bianche e il tetto di un rosso uniforme o dipinto a simulare le tegole. BIBLIOGRAFIA: OJETTI 1929, pp. 6, 26; Ceramiche di Lenci 1929; BONARDI 1929; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 28, 59; Mario Sturani 1990, p. 115, n. 139, p. 135; PANZETTA 1992, p. 119, n. 19; PROVERBIO 2001, pp. 11, 17, 252, n. 16. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

91. (TAV. 61) Scatola Pupazzo, 1930. Modello 99/?. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 44,5 x Ø 22 cm (vaso: 15,5 x Ø 22 cm; coperchio: 29 x Ø 20,6 cm). Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / 3-6-30», «A» e simbolo grafico del modellatore (ponte); «90» inciso in pasta. Firma in smalto nero sul coperchio «STURANI». Collezione privata. La ceramica fa parte della serie di oggetti d’uso che mantengono un evidente valore decorativo non solo grazie alla decorazione pittorica del recipiente, ma soprattutto grazie al complesso coperchio modellato, alto quasi il doppio rispetto alla parte sottostante. Il corpo della scatola è dipinto a pennello in rosa e in giallo, con una particolare tecnica sfu-

mata a motivi lineari che ricorda i coevi vasi della ditta Galvani di Pordenone, specializzata nella decorazione con l’aerografo. Il coperchio è decorato con una particolare scultura composta da un flessuoso e stilizzato pupazzo seminascosto tra le fronde di uno strano racemo verde, tra i cui riccioli vegetali sono inseriti diversi elementi di sicuro effetto ornamentale: forme sferiche sfumate in rosa e con un puntino nero centrale, che ricordano gli occhi di vetro delle bambole; forme circolari a fasce concentriche blu, gialle e rosa, interpretabili come fiori semplificati; forme coniche cave, probabilmente utilizzabili come portacandele, decorate con linee nere e gialle sfumate. La trasformazione degli elementi naturali in forme astratte e geometriche, il dinamismo e l’andamento ritmico, il ricorso a composizioni asimmetriche e a colori netti e squillanti rivelano strette affinità con i principi stilistici messi a punto in ambito futurista tra la metà degli anni dieci e la fine degli anni trenta. In particolare, nel gioco astratto e futurista della figura-pupazzo e dell’elemento vegetale, le scelte decorative ricordano le invenzioni di Giacomo Balla e di Fortunato Depero. Il giovane Sturani aveva avuto modo di conoscere le silhouettes stilizzate, le cromie contrapposte e il mondo meccanico dei dipinti, dei giocattoli e degli arazzi di Depero in almeno due occasioni fondamentali: la mostra personale organizzata nel 1923 al Winter Club della Galleria Sabauda di Torino (Mario Sturani 1990, p. 31) e la sala Casa d’Arte Futurista allestita alla Terza Biennale di Monza del 1927. Oltre al modello esposto, la manifattura ha prodotto anche una variante identificata dal numero 99 (PANZETTA 1992, p. 131, n. 95): la decorazione del coperchio resta invariata, mentre cambiano la forma, le dimensioni e il decoro del recipiente. Secondo le fonti bibliografiche, il modello 99 è stato prodotto a partire dal 1929, dato avvalorato dalla sua presenza alla mostra della Galleria Pesaro, mentre il confronto delle marche indica che la variante esposta in mostra risale al 1930. La scelta di fornire due varianti con lo stesso coperchio può essere giustificata dal successo commerciale del modello, confermato dal numero incusso nel fondello che identifica nell’esemplare esposto il novantesimo prodotto dalla manifattura entro il 3 giugno 1930. Le fonti bibliografiche hanno più volte pubblicato un’ulteriore variante, caratterizzata dall’assenza della scatola sottostante: la scultura

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con il pupazzo viene così trasformata in un semplice candeliere. L’oggetto non è inserito nel catalogo generale della manifattura e risulta quindi privo del numero identificativo. La presenza di esemplari datati colloca l’inizio della produzione del modello al 1930 (Mario Sturani 1990, p. 108, n. 125). BIBLIOGRAFIA: Mario Sturani 1990, p. 108, n. 125; PANZETTA 1992, p. 131, n. 96; PROVERBIO 2001, p. 313, n. 34. [S.C.]

92. (TAV. 62) Vaso Cani-uccelli, 1930. Modello 118. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 32,8 x Ø 18 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 10-9-30» e iniziali del decoratore («CN»). Collezione privata. Il vaso ha un corpo sferico con collo troncoconico e piede innestato su una base circolare. Il bordo del collo è stato lavorato a mano dopo la fase di colaggio e prima dell’essiccazione, in modo da asportare una parte dell’impasto, ancora morbido, e creare il motivo a dentelli triangolari; l’irregolarità del bordo conferma l’intervento manuale sull’oggetto. La superficie esterna è lavorata in rilievo ed è dipinta con smalti dalle tonalità sgargianti. Nella storia della ceramica italiana, i primi esempi di lavorazioni in rilievo risalgono al XVIII secolo, eseguiti secondo una particolare tecnica a calco ideata dalla manifattura di porcellane Ginori di Doccia. Nell’opera di Sturani il riferimento storico perde ogni valenza imitativa per trasformarsi in un puro elemento decorativo. Sturani immagina una divertente scenetta ambientata all’aperto, con un felino maculato che si abbevera a un piccolo stagno e, sul lato opposto, due volpi colorate che giocano a rincorrere un gruppo di uccelli. In effetti, anche se il vaso è conosciuto con il titolo Vaso cani-uccelli, le code lunghe e vaporose dei due animali fanno pensare con più probabilità a due volpi. L’identificazione esatta delle specie animali rappresentate non è comunque fondamentale per la comprensione dell’opera, in quanto l’obiettivo di Stura-


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ni non era quello di creare una scena corretta dal punto di vista naturalistico, ma di evocare con semplicità e freschezza un mondo gioioso, capace di trasmettere lo stesso spirito di vivace allegria anche in chi guarda l’oggetto. Per quanto riguarda le possibili varianti, si conoscono vasi che si differenziano per minimi cambiamenti nelle scelte cromatiche; più interessante è invece evidenziare la presenza di vasi privi della lavorazione frastagliata del collo (Mario Sturani 1990, p. 101, n. 113). Anche se l’opera esposta è datata 1930, l’idea del vaso risale almeno all’anno precedente, come confermato dalla presenza di questo oggetto alla mostra organizzata nella Galleria Pesaro di Milano. Le iniziali «CN» riportate sotto la base fanno ipotizzare che l’autrice del decoro sia stata Carla Novellis, pittrice il cui nome compare nei libri paga settimanali della manifattura per un breve periodo di tempo compreso tra il settembre del 1930 e il febbraio dell’anno successivo (PANZETTA 1992, p. 397). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 118; Catalogo D1, n. 118; Catalogo D2, n. 118; Torino tra le due guerre 1978, p. 356, n. 12; Mario Sturani 1978; Mario Sturani 1990, p. 101, n. 113; PANZETTA 1992, p. 133, n. 114; PROVERBIO 2001, p. 314, n. 36. ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978. [S.C.]

93. (TAV. 66) Vaso Il mondo e la luna, 1930. Modello 95. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 60,2 x Ø 18 cm (vaso: altezza 33,5 cm; coperchio: 27 cm). Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base «Lenci / MADE IN ITALY / 13-10-’30» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata). Firma dipinta in marrone sul bordo del coperchio «STURANI». Torino, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (inv. FD 327). Il vaso è formato da un alto corpo a calice allungato e poggia su un piede troncoconico uni-

to alla base circolare. La superficie esterna del recipiente è dipinta con bande nere e sottili linee gialle e lilla che definiscono aree quadrate all’interno delle quali sono inseriti piccoli paesaggi collinari con un fiume in primo piano e un albero, raffigurati nelle diverse stagioni dell’anno. Sul coperchio, che raddoppia l’altezza totale dell’oggetto, sono sedute alcune figurine intorno a un mappamondo, mentre in piedi, sul mondo, si trova un personaggio maschile bifronte che solleva sopra la testa una falce di luna, con un movimento ascensionale che sottolinea l’andamento verticale della composizione. Le figure sono modellate attraverso superfici levigate, forme semplificate e masse compatte che tralasciano ogni particolare naturalistico; anche la decorazione pittorica non è stesa con cura, ma è distribuita in zone omogenee senza soffermarsi nel definire i dettagli del volto o le pieghe degli abiti. I paesaggi dipinti e le differenti figure modellate sul coperchio giustificano la diversa titolazione - Vaso Stagioni della natura e della vita - utilizzata in alcune fonti bibliografiche (Mario Sturani 1990, pp. 103, 241; Il déco in Italia 2004, p. 186, n. 196). Lo stesso giorno in cui è stato ultimato il vaso, ora conservato nella Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ne è stato realizzato anche un secondo esemplare, datato «12/11/30», che presenta minime differenze nella gamma cromatica (Il déco in Italia 2004, p. 186, n. 196). Anche se entrambi i modelli sono stati eseguiti nel novembre 1930, l’ideazione del progetto e l’avvio della produzione deve essere anticipata all’anno precedente, come confermato dalla presenza di un Vaso Il mondo e la luna alla mostra milanese tenutasi presso la Galleria Pesaro. I grandi vasi con coperchi modellati, come il pezzo in mostra o il Vaso Paesaggio (cat. 115) possono essere considerati la risposta di Sturani e della ditta torinese alla coeva produzione della manifattura di porcellana di Doccia e, in particolare, alle urne con coperchio ideate da Gio Ponti già a partire dal 1923. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2, n. 95; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 24; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Mario Sturani 1990, p. 103, n. 116, pp. 135, 241, n. 4; PANZETTA 1992, p. 130, n. 92; Il Novecento 1993, p. 294; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; Le ceramiche Lenci 2000, p. 88; PROVERBIO 2001, p. 290, n. 2; Il déco in Italia 2004, p. 186, n. 196. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti»,

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Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Milano 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Il déco in Italia», Roma 2004. [S.C.]

94. (TAV. 68) Vassoio con frutta, 1930-1932. Modello 136. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 20 x Ø 11,4 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / / 4-4-93 […]» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili; «75» incusso in pasta; etichetta cartacea prestampata e compilata a penna blu: «R. H. Macy & Co. / 06 - 35 / 32-50 / F2741». Collezione privata. L’opera fa parte di una serie limitata di centrotavola e vasi ideati da Mario Sturani, decorati con nature morte plastiche composte da fiori e frutti. Oltre al modello esposto, si ricordano il Vaso con fiori (modello 74; PANZETTA 1992, p. 127, n. 73), il Vaso con frutta (modello 76; PANZETTA 1992, p. 127, nn. 75-76) e il Vaso La tavola (cat. 114). Il Vassoio con frutta è formato da un recipiente a fasce blu, gialle e nere, colmo di fiori, foglie e frutti europei ed esotici. Le caratteristiche stilistiche principali della modellazione e della decorazione pittorica sono individuabili nella semplificazione delle forme, nell’essenzialità dei colori e nell’uso di tinte contrastanti. Solo in alcuni casi le superfici levigate e sintetiche lasciano il posto a una resa più naturalistica, riconoscibile nella restituzione della scorza ruvida del limone o delle piccole protuberanze circolari dell’avocado. Nel complesso però è il colore, più che la forma, a prevalere. I colori squillanti non cercano una somiglianza cromatica oggettiva, ma assumono un valore puramente decorativo e servono a far risaltare le masse e i volumi dei singoli oggetti. Rispetto al modello riprodotto nelle fotografie d’epoca conservate nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 136, n. 133), il centrotavola esposto risulta essere ancora meno aderente al dato reale. Ad esempio, pur nella semplificazione generale del pezzo, l’uva del modello storico è

dipinta con tonalità sfumate che costruiscono le ombre e sottolineano la forma sferica dei singoli acini, mentre la grande foglia posta al centro della composizione è attraversata da spesse nervature nere che aiutano a comprenderne la natura. Nel pezzo esposto, invece, la foglia viene dipinta per metà in giallo e per metà in rosa, perdendo ogni riferimento con il dato naturale e finendo per assomigliare a una grande farfalla. Purtroppo, la sbavatura della marca impedisce di sapere con esattezza l’anno di esecuzione del pezzo, che risale comunque agli anni trenta. Il modello originale è stato però ideato nel 1929, come conferma l’esistenza di un disegno datato, riconducibile a questo specifico centrotavola. Il simbolo grafico del decoratore è invece perfettamente leggibile e identifica in Alberto Nobili l’autore della decorazione. Il pittore lombardo è lo stesso che ha eseguito il decoro di altre opere esposte, come Le due tigri (cat. 132) di Sandro Vacchetti, il Vaso maschere (cat. 87), la Maschera Pierrot (cat. 75) e la Maschera Pantalone (cat. 76) di Sturani. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 136; Ceramiche di Lenci 1929; Lenci per Natale 1931, p. 75; PANZETTA 1992, p. 136, n. 133. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929. [S.C.]

95. (TAV. 121) Ciotola Il ponte / Contadini danzanti, 1930. Modello 117. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 24 x Ø 26 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base, parzialmente coperta dall’etichetta cartacea: «[…] 30-6-930»; etichetta cartacea prestampata e compilata a penna blu: «GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA - TORINO / Mostra Torino tra le due guerre / Autore Sturani / Opera Il Ponte / Proprietario SCHREIBER» e «41» cerchiato con pennarello blu. Collezione privata. L’opera fa parte della serie di recipienti emisferici ideati da Mario Sturani a partire dal 1929, di cui Il ponte / Contadini danzanti rappresenta il

modello più antico. Si tratta di ciotole di medie dimensioni, attraversate da strutture a ponte sulle quali sono disposti due o più personaggi; in questo modo la ciotola perde ogni funzione pratica per diventare un oggetto puramente decorativo. In questo caso specifico, la decorazione all’aerografo utilizzata per ricoprire la superficie esterna della scodella permette di sfumare gradualmente dal marrone al nero. Sulla passerella sono allineati sei personaggi, la cui modellazione è risolta attraverso forme sintetiche ridotte in volumi semplici e arrotondati che assecondano i movimenti sinuosi del ballo. Questo modo di trattare il modellato, basato su una plastica levigata in cui i volumi e le masse prevalgono a scapito del dettaglio, si ritrova anche nelle altre figure per ciotole realizzate su disegno dell’artista. Il suo particolare modo di plasmare i corpi è un’evidente testimonianza dell’attenta riflessione compiuta su quanto prodotto più o meno negli stessi anni da Gio Ponti, Tullio d’Albissola e Arturo Martini. Durante i suoi studi presso la Suola Superiore delle Arti Decorative di Monza, Sturani aveva sicuramente avuto modo di osservare le opere ideate da Ponti per la Società Ceramica Richard-Ginori esposte nelle Biennali monzesi (1923, 1925, 1927, 1930), mentre le plastiche di Tullio d’Albissola e di Arturo Martini, decorate da Manlio Trucco, erano state esposte a Torino nel 1929, in occasione della «Mostra d’Arte del Presepio» a Palazzo Madama. Per il cane, Sturani adotta una forma più schiacciata, che verrà poi recuperata in vasetti a ponte realizzati alcuni anni dopo e ornati con diverse tipologie di animali (modelli 764-767; PANZETTA 1992, p. 258, n. 932). La ceramica è identica, nei colori e nella decorazione degli abiti, al disegno preparatorio Scodella Contadini N. 117 Cart. 3 (GARGIULO 2008b, p. 73, n. XIV). Si conosce invece una variante caratterizzata da colori brillanti e dalla ciotola dipinta in azzurro, con l’interno bianco e il bordo e la base del ponte blu (PROVERBIO 2001, p. 289, n. 1). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 117; Catalogo D1, n. 117; Catalogo D2, n. 117; Torino tra le due guerre 1978, p. 356; Mario Sturani 1978; PROVERBIO 1979, p. 107, n. 206; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PROVERBIO 1986, p. 187; Mario Sturani 1990, p. 218, n. 256; PANZETTA 1992, p. 133, n. 113; Le ceramiche Lenci 2000, p. 91; PROVERBIO 2001, p. 289, n. 1; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 111, 179, n. 214.

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ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

96. (TAV. 118) Ciotola Danza sul ponte, 1930-1931. Modello 162. Terraglia formata a colaggio in due parti assemblate con barbottina, decorata a smalti policromi sottovetrina. 21 x Ø 28 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO»; bollino cartaceo con «276» a penna blu. Collezione privata. La scodella è decorata con la tecnica dell’aerografo ed è suddivisa in tre fasce parallele che sfumano dal giallo chiaro al marrone. Sulla stretta passerella che collega le due sponde del contenitore sono appoggiate due piccole figure impegnate in un passo di foxtrot, un ballo da sala appartenente al genere della musica sincopata, molto diffuso a partire dagli anni dieci del secolo scorso. I volti, dagli occhi a mandorla, la bocca stretta e il naso allungato, rispecchiano i tratti fisiognomici tipici delle figurine di Sturani, che si ritrovano anche nei ritratti e in molti disegni preparatori. Le cromie dominanti della ciotola vengono riprese per decorare anche la parte plastica: la donna dai capelli neri indossa un corto abito giallo e marrone, mentre il vestito del ballerino alterna piatte campiture arancioni a zone nere. Il risultato finale è una ceramica di grande equilibrio e raffinatezza, che non rinuncia all’estro e alle invenzioni brillanti tipiche del linguaggio sturaniano. A differenza delle altre scodelle esposte in mostra, la ceramica non è realizzata in un unico blocco, ma la ciotola e il ponte sono stati formati con due stampi diversi, per poi essere assemblati prima della cottura attraverso l’uso della barbottina. Della Danza sul ponte si è anche conservato il disegno preparatorio, firmato e datato 1930 (Mario Sturani 1990, p. 125, n. 161). Nel passaggio dal modello alla realizzazione tridimensionale, le due figure hanno subito un’ulteriore sempli-


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ficazione volumetrica e cromatica, mentre le linee e i movimenti appaiono più fluidi e meno sincopati. Nel bozzetto, la ciotola è decorata con colori scuri che trapassano da un viola intenso al nero. Anche nella ceramica riprodotta nelle immagini del Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 139, n. 158) i colori risultano essere più scuri rispetto a quelli dell’opera esposta. Di questo modello si conoscono alcune varianti conservate in collezioni private che si differenziano principalmente per la diversa distribuzione del giallo, del nero e del marrone. La coppia di ballerini è stata anche utilizzata per ornare un portacenere (modello 302; PANZETTA 1992, p. 163, n. 320) e la scatola cubica 337 (PANZETTA 1992, p. 169, n. 368). Si tratta di un interessante esempio di come la manifattura, nel tentativo di variare e diversificare il più possibile la produzione, ricorresse a un motivo decorativo o a un particolare elemento plastico già utilizzato in precedenza, modificandolo e adattandolo a nuovi oggetti. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 162; Catalogo D2, n. 162; 3 ceramiche di Lenci 1930, p. 50; Mario Sturani 1978; Mario Sturani 1990, p. 125, n. 162; PANZETTA 1992, p. 139, n. 158; PROVERBIO 2001, p. 318, n. 47. ESPOSIZIONI: «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978. [S.C.]

97. (TAV. 119) Ciotola Maestra e alunni o Gruppo familiare, 1930. Modello 180. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 32 x Ø 29,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 26-8-930» e simbolo grafico del decoratore Alberto Nobili; segno (?) inciso in pasta. Collezione privata. La ciotola ha una forma più schiacciata rispetto alle precedenti scodelle emisferiche (catt. 9596) e il corpo è innestato su un piede circolare. L’idea di base resta però sempre quella di un contenitore emisferico con un raccordo a ponte disposto diametralmente, sul quale sono inseri-

te le piccole figure in movimento. La parte esterna del recipiente è dipinta con una raffinata tonalità di blu; l’interno, il piede e il ponte sono invece smaltati con un nero brillante. Al centro della passerella è collocata una figura femminile, una mamma o forse una maestra, insieme a un gruppo di bambini indisciplinati, due maschi e due femmine. Chiudono il gruppo due cagnolini neri. La disposizione delle figure, attentamente simmetrica secondo i modelli déco, dà vita a una struttura triangolare che ha il suo vertice nella testa della donna. La modellazione plastica presenta le stesse caratteristiche stilistiche delle figure realizzate per le altre ciotole, mentre i volti sono dipinti con due puntini per gli occhi, una macchia rossa per la bocca e una linea continua che definisce le sopracciglia e il naso. Gli abiti sono resi in blu e nero, facendo così risaltare maggiormente l’incarnato pallido delle figure. Nonostante alcune figure presentino una parziale caduta di smalto, probabilmente dovuta a un difetto di cottura, la ceramica mantiene intatta la sua qualità estetica e l’originalità del suo insieme. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 180; Catalogo D1, n. 180; Catalogo D2, n. 180; Mario Sturani 1978; Mario Sturani 1990, p. 233, n. 321; PANZETTA 1992, p. 147, n. 209; Ceramica italiana d’autore 2007, pp. 111, 179, n. 213. ESPOSIZIONI: «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978. [S.C.]

98. (TAV. 116) Ciotola Acrobati, 1930. Modello 175. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina e aerografo. 35 x Ø 17 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 17-5-30-» e simbolo grafico del decoratore (ponte); «86» (o «98») e «X» incisi in pasta. Collezione privata. La Ciotola Acrobati rappresenta una diversa interpretazione del modello delle scodelle con figure plastiche. I personaggi, non più inseriti su un raccordo a ponte, sono ora disposti a formare una struttura scenografica che si sviluppa in altezza. Due piccoli acrobati in bilico sul bordo della scodella sostengono sulle proprie spalle altrettan-

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ti circensi che, abbracciandosi, chiudono la coreografia umana. I quattro personaggi, identici nella modellazione e nella cromia, indossano pantaloni gialli e una casacca verde con maniche bianche a pois verdi. L’abbigliamento è completato da un piccolo berretto a punta. Le tinte pastello dei verdi e dei gialli ritornano anche nella ciotola, dipinta con la tecnica all’aerografo. La definizione dei volti e dei corpi delle singole figure ricorda il piccolo bevitore della prova pubblicitaria Bacicia realizzata dall’artista nel 1930 (Mario Sturani 1990, p. 58, n. 66). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 175; Catalogo D2, n. 175; CERUTTI 1985, p. 35; Mario Sturani 1990, p. 233, n. 320; PANZETTA 1992, p. 146, n. 204. [S.C.]

99. (TAV. 59) Vaso Uccello, 1930. Modello 75. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 27 x Ø 22,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 14/10/30» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); sotto il coperchio, «19» e «o» incussi in pasta. Firma incussa sulla scatola e dipinta in marrone: «STURANI». Collezione privata. Sebbene il titolo con cui questa ceramica è comunemente citata nelle fonti bibliografiche la identifichi come un vaso, l’opera fa in realtà parte della nutrita serie di scatole accompagnate da un coperchio ornato da elaborati gruppi plastici che fungono da impugnatura e raddoppiano l’altezza totale dell’oggetto. Il basso recipiente circolare presenta la stessa forma della prima variante della Scatola Pupazzo di Sturani (PANZETTA 1992, p. 131, n. 95; cat. 91) ed è dipinto con un motivo a pallini blu e gialli alternati e disposti su due registri ad altezze differenti. La zona centrale del coperchio è occupata da un ramo fiorito e da un uccello dal corpo allungato, sinuoso e curvilineo. La forte stilizzazione della modellazione viene mantenuta anche nella decorazione pittorica: il piumaggio variopinto del volatile è reso attraverso brillanti smalti blu, gialli e marrone; le campanule che

pendono dal tralcio sono dipinte con un motivo geometrico a rete romboidale verde o arancione contenente singoli puntini, mentre negli altri fiori il colore si limita a sottolineare l’attaccatura dei petali e il loro profilo esterno. Nel pieghevole della Galleria Pesaro che riporta l’elenco completo delle opere esposte nel 1929 compare un Vaso Uccelli che, nonostante la diversa titolazione, è stato associato da Alfonso Panzetta al modello presentato in mostra (PANZETTA 1992, p. 35 nota 38). Se si ritiene valida questa interpretazione, si può collocare l’ideazione della scatola al 1929, ipotesi che troverebbe conferma anche dal basso numero di inventario. La variante esposta è dunque un esemplare più tardo, ultimato nel mese di ottobre 1930. È nota anche una versione successiva, datata «18/4/931» e appartenente a una diversa collezione privata, caratterizzata da una singolare decorazione pittorica: la scatola è dipinta uniformemente con uno smalto metallico color bronzo, mentre il coperchio è rivestito da smalti metallici dai riflessi verde/azzurro. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929; Mario Sturani 1990, p. 229, n. 293; PANZETTA 1992, p. 127, n. 74; PROVERBIO 2001, p. 310, n. 28. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929. [S.C.]

100. (TAV. 58) Scatola, 1930-1931. Terraglia formata a stampo e decorata a smalti policromi sottovetrina. 23,5 x 13,2 x 13,2 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «L. MADE IN ITALY» e simbolo grafico del decoratore (una «Y» con due trattini sul gambo). Collezione privata. All’interno dell’archivio storico Lenci è possibile individuare varie scatole (modelli 332-337, 346, 348; PANZETTA 1992, pp. 169, 171-172) contraddistinte da misure analoghe, ma diversificate tra loro per la decorazione del corpo principale e le forme plastiche conferite alla presa. La scatola in esame costituisce un’ulteriore variante di tale modello, finora non documentata. La bambina seduta che abbraccia una gallina e reca sulle gambe distese un pulcino deriva da un’idea di Mario Sturani, come attesta

un’ulteriore ceramica intitolata Gallinella (modello 377; PANZETTA 1992, p. 177, n. 420; PROVERBIO 2001, p. 339). L’attribuzione del soggetto è confermata anche da un foglio, riferito sempre a Sturani, raffigurante quattro bozzetti per coperchi (PETTENATI 1990, p. 220): in uno di questi compaiono, intorno alla bambina, quattro pulcini disposti su un prato, come variante per un coperchio di un contenitore circolare, forse un portatalco. Si tratta di un modello che, similmente ad altri di piccolo formato, venne impiegato in vario modo all’interno della manifattura per produrre piccoli soprammobili destinati probabilmente a decorare stanze da letto per bimbi. La stessa figura femminile si ritrova inoltre su una piccola base circolare (PANZETTA 1992, p. 177, n. 420) oppure su una calotta più ampia (PETTENATI 1990, p. 221, n. 269), da considerare come la parte superiore di una scatola a forma di uovo, della quale si è rinvenuto un esemplare in collezione privata («Lenci / MADE IN ITALY / 201-30»). La datazione di quest’ultima consente di ritenere abbastanza precoce la messa in produzione del soggetto ideato da Sturani. La vivace contrapposizione della gamma cromatica e la sovrapposizione dei riquadri all’intreccio creato dalla linee blu, verdi e nere rivela, per quanto riguarda il decoro del contenitore, un gusto di lontana eco futurista, individuabile, con altre soluzioni cromatiche, anche in altri simili manufatti, tra cui la Scatola con coppia di danzatori (modello 337; PANZETTA 1992, p. 169, n. 368), per la quale venne riutilizzato l’elemento figurativo che costituiva la Ciotola Danza sul ponte (cat. 96), sempre di Sturani. Per meglio armonizzare il contrasto tra la geometrica decorazione della scatola e la più giocosa raffigurazione del coperchio, il decoratore ha raccordato i due elementi attraverso la stesura di un semplice prato, riproponendo per la veste della bambina gli stessi lucenti colori sottostanti. Individuabile in altre composizioni di Sturani è la medesima esuberante policromia che impreziosisce la gallina, molto simile a quella che si ritrova in un acquarello su carta raffigurante un Galletto reso noto da Pettenati (1990, p. 221, n. 271). Di difficile interpretazione risulta la presenza della firma «Grande», incisa nella pasta appena visibile sotto la base, e quasi totalmente ricoperta dalla scritta a pennello con la marca della manifattura: sicuramente nulla nel manufatto

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giustifica un possibile intervento ideativo di Giovanni Grande, la cui ricerca espressiva risulta molto distante dalla spensieratezza creativa del mondo sturaniano. [D.S. - G.Z.]

101. (TAV. 12) Portapenna Fumatore, 1930-1931. Modello 209. Gesso. 19 x 19,5 x 9,5 cm Collezione privata.

102. (TAV. 13) Portapenna Fumatore, 1930-1931. Matita e acquarello su cartoncino. 214 x 204 mm Iscrizioni: in basso a destra firma autografa a matita «Mario Sturani»; timbro a secco in basso a destra «COLLEZIONE / B. GARELLA / N º / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china nera «P319»; sul retro schizzo parziale di un vaso. Collezione privata. Il gesso e il disegno presentati in questa occasione documentano un modello ideato da Mario Sturani durante la sua articolata attività svolta presso Lenci. Si tratta in particolare di un portapenna in ceramica (modello 209; PANZETTA 1992, p. 151, n. 236) che, insieme al Calamaio con due figure intente a scrivere (cat. 89) e a un set di tre pezzi da scrivania (modello 210; PANZETTA 1992, p. 151, n. 237), sempre scaturiti dalla sua fervida creatività, furono verosimilmente prodotti dal 1930 per essere destinati a impreziosire uno spazio appartenente a una casa borghese. A riguardo appare interessante la presenza del portapenna in esame posto sopra un essenziale scrittoio collocato in uno studio moderno - definito «pratico ed elegante» - nell’ambito di un cottage situato nel Canavese e illustrato nel numero di settembre 1931 della rivista «La casa bella» (Un cottage 1931, p. 25). Non corretta risulta pertanto la datazione del modello al 1932 avanzata da Proverbio (2001, p. 338, cat. 104) a corredo della stessa immagine desunta all’archivio storico della manifattura. L’individuazione del disegno correlato a questo soggetto consente di meglio comprendere le dinamiche produttive all’interno della ditta degli


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Scavini. Sturani delineò liberamente sul foglio una composizione, particolarmente suggestionata dal contemporaneo mondo del fumetto, che, solo in un secondo momento, venne destinata alla traduzione ceramica, approntando alcune piccole varianti. La sigaretta, trattenuta nel disegno dalle aggraziate dita del personaggio, risulta sostituita, nell’oggetto ultimato, da un apposito elemento, con base probabilmente in metallo dorato, destinato ad accogliere una penna. Si tratta di un intervento che permetteva sia di conferire al pezzo una sua specifica utilità sia di non alterare l’originale idea dell’autore. Il gesso mostra solo il mezzo busto della figura, i cui peculiari tratti somatici venivano esaltati avvalendosi di una fantasiosa e accesa decorazione, totalmente fedele al disegno anche nel modo di dipingere la camicia e di definire la stilizzata capigliatura. Appare interessante mettere in evidenza il leggero studio a matita per un vaso - decorato con un cavallo - che compare sul retro del foglio. Questo oggetto è connotato da una forma a spirale particolarmente simile a quella che caratterizza il Vaso Silhouettes ed archi, di cui è emerso un disegno, montato su cartoncino grigio, riferito a Mario Sturani e contrassegnato dal numero di modello «173/A» (cat. 154). Tale numerazione era stata affidata a un vaso dalla foggia più semplice prodotto nel 1930 e decorato con il medesimo motivo di chiara matrice sturaniana (PANZETTA 1992, p. 144, n. 188). BIBLIOGRAFIA (PER IL DISEGNO): GARGIULO 2008b, p. 87, n. XXXVII. [D.S. - G.Z.]

103. (TAV. 120) Ciotola Quattro cavalieri, 1934. Modello 200. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi e parzialmente all’aerografo. 29 x Ø 28 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO / VIII-XII» e «X» incorniciata. Collezione privata. Tra le ciotole emisferiche ideate da Sturani, la Ciotola Quattro cavalieri è quella che si caratte-

rizza per una maggiore ironia e per un forte senso ludico. Sturani immagina quattro pupazzetti privi di espressione, seduti a cavallo di una lunga zebra, decorata con onde grigie illuminate da pois gialli. Il modello iconografico del gruppo è riconducibile alla ceramica di Kitty Rix-Tichacek Cavallo con due cavalieri, realizzata nel 1929 nei laboratori delle Wiener Werkstätte (Yearning for Beauty 2006, p. 349). I corpi dei personaggi sono composti da semplici volumi geometrici: le gambe sono trasformate in rigidi cilindri lineari, mentre i busti subiscono un lieve movimento laterale e le braccia si piegano con elastica sinuosità. La testa di tutte le figure è coperta da un piccolo cappello a pois blu che accentua la forma sferica del capo. I tratti somatici tipici dei volti ideati da Sturani subiscono un’ulteriore semplificazione e si riducono a due puntini neri per gli occhi, a gote rosate e a una piccola bocca rossa; il naso, appena accennato, è modellato plasticamente. Rispetto alle altre scodelle, la decorazione della superficie esterna appare più elaborata: le classiche tonalità sfumate sono ora sostituite da una decorazione a pennello che riproduce, entro cornici rettangolari disposte su tre ordini sovrapposti, un motivo zebrato alternativamente in verde e in marrone. Il tono spento del verde oliva, che riveste in modo uniforme l’interno della ciotola e il ponte sospeso, contrasta con i verdi e i viola accesi utilizzati per la realizzazione degli abiti dei personaggi, identici nella decorazione, ma alternati nella distribuzione dei colori. Di questa ceramica, prodotta a partire dal 1930 ed esposta alla Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza, è noto anche un esemplare invetriato realizzato il 17 marzo 1937, conservato in una collezione privata, e un modello con il ponte e l’interno del recipiente dipinto in blu, datato 1o luglio 1930 (Mario Sturani 1990, p. 109, n. 127). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 200; Catalogo D2, n. 200; FELICE 1930, tav. 66; 3 ceramiche di Lenci 1930, p. 50; BUZZI 1930, p. 250; Mario Sturani 1978; Mario Sturani 1990, p. 109, n. 127, p. 241, n. 8; PANZETTA 1992, p. 150, n. 228; AUDIOLI 2008, p. 109; GARGIULO 2008b, p. 208. ESPOSIZIONI: «Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative», Monza 1930; «Mario Sturani: opere dal 1923 al 1936», Torino 1978. [S.C.]

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104. (TAV. 70) Centrotavola Pesci Pesce con corallo su piatto, 1934-1935. Modello 455/P. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. Piatto 5 x 41 x 33,5 cm; gruppo con il pesce 31,5 x 21,5 x 13,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base del piatto e del gruppo con il pesce: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» e iniziale della decoratrice, probabilmente Maria Balossi («B»). Collezione privata. L’opera fa parte di una serie di ceramiche di soggetto zoomorfo realizzate a partire dalla metà degli anni trenta, quando Mario Sturani, di ritorno dal soggiorno a Parigi, inizia a dedicarsi a studi naturalistici. Secondo quanto affermato da Silvana Pettenati (Mario Sturani 1990, p. 136), gli animali disegnati e modellati da Sturani si distinguono dalle opere di Felice Tosalli per la mancanza della minuzia calligrafica che caratterizza le sculture di quest’ultimo e sono invece più affini alle miniature di gusto tardomanierista, realizzate tra il Cinquecento e il Seicento, e considerate alle origini dell’illustrazione scientifica. Opere come il Pesce con corallo su piatto hanno indubbiamente il merito di saper coniugare una sapiente rappresentazione naturalistica con un evidente gusto per la decorazione, che si esprime attraverso l’equilibrio della composizione, la brillantezza degli effetti cromatici e il contrasto tra le parti lucide e le zone lasciate prive di vetrina. Al centro di un piatto ovale dipinto in verde mare, che riprende i modelli utilizzati anche per i centrotavola con animali di Tosalli, Sturani colloca un pesce lungo quasi 27 centimetri, nascosto tra i rami di un corallo scarlatto non invetriato e scandito da piccole stelle dipinte in giallo. Intorno alla base del corallo sono ancorati polipi, spugne e conchiglie colorate, dalle quali fa capolino la testa di una murena. La ceramica riesce dunque a restituire con eleganza e fantasia la ricchezza di forme e di colori della barriera corallina, trasformando il centrotavola in una vera e propria scultura d’arredo. Il Pesce con corallo su piatto è il pezzo principale di un servizio da tavola composto da quattro diverse tipologie di segnaposti a sogget-

to marino (modello 456, 456/B, 456/C e 546/D; PANZETTA 1992, p. 195, nn. 540543). Queste coppette, di dimensioni ridotte rispetto al centrotavola principale, si differenziano le une dalle altre per i diversi elementi tratti dal mondo sottomarino, ma conservano comunque la stessa forza decorativa, gli stessi colori vivaci e lo stesso equilibrio compositivo. Delle Coppette centrotavola pesci si è anche conservato il disegno preparatorio (Mario Sturani 1990, p. 128, n. 170). Rispetto al progetto, le opere in ceramica risultano semplificate dal punto di vista della complessità compositiva e del numero di elementi riprodotti, ma mantengono la medesima qualità estetica e stilistica. La tempera su carta, datata e firmata da Sturani, colloca l’invenzione del servizio da tavola nel 1934, mentre il centrotavola esposto è stato probabilmente realizzato l’anno successivo. Le fonti bibliografiche (PANZETTA 1992, p. 390) hanno ipotizzato che la sigla riportata sotto la base possa essere considerata la firma distintiva di Maria Balossi, il cui nome però non compare nei pochi registri amministrativi della manifattura conservatisi negli archivi. Il gruppo del pesce tra il corallo è stato anche prodotto come scultura isolata, priva del piatto di base. L’opera è stata pubblicata da Luciano Proverbio con il titolo Pesce tra alghe e coralli (PROVERBIO 1979, p. 30, n. 27.A). L’interesse di Sturani per il mondo marino lo porta a ideare, probabilmente proprio nello stesso periodo, una serie di candelabri singoli e doppi decorati con pesci e coralli, di cui in mostra è presentato uno dei disegni preparatori (cat. 140), per poi tornare su questo tema con opere come il Pesce luna del 1936 (modello 632; PANZETTA 1992, p. 230, n. 772). BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 455; Catalogo D2, n. 455; PROVERBIO 1979, p. 30, n. 27.A; Mario Sturani 1990, p. 128, n. 169, p. 136; PANZETTA 1992, p. 195, n. 539. [S.C.]

105. (TAV. 130) Primavera, 1935.

107. (TAV. 1) Inverno, 1930.

Modello 256. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35,7 x 24,2 x 18,2 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / TORINO / MADE IN ITALY / 6 • XIII • M»; etichetta cartacea prestampata compilata a penna blu: «GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA TORINO / Mostra: Torino tra le due guerre / Autore: M. Sturani / Opera: Primavera / Proprietario: coll. Sturani, TO». Firma incisa in pasta su bordo laterale. Torino, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (inv. FD 328).

Modello 259. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi. 32,7 x 33 x 19,5 cm Iscrizione a pennello in nero sotto la base: «Lenci / MADE IN ITALY / 10-10-30» e simbolo del decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); bambola incisa in pasta. Collezione privata.

BIBLIOGRAFIA: Torino tra le due guerre 1978, p. 357, n. 16; PROVERBIO 1986, p. 208; Mario Sturani 1990, p. 111, n. 132; PANZETTA 1992, p. 157, n. 281; Il Novecento 1993, pp. 282, 296; Le ceramiche Lenci 2000, p. 96; PROVERBIO 2001, p. 297, n. 9; BERTONI e SILVESTRINI, 2005, p. 344; Novecento a novecento gradi! 2006, p. 120. ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Novecento a novecento gradi!», Montelupo 2006.

106. (TAV. 131) Autunno, 1930. Modello 258. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina e parzialmente all’aerografo. 32 x 24,8 x 18,8 cm Iscrizione a pennello in nero sottovernice al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY/ 25-11-30», e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); bollino cartaceo prestampato «Lenci / TURIN / ITALY» compilato a penna nera «258»; bambola incussa in pasta. Bollino cartaceo sulla base, a sinistra «MOBLES / OBJECTES D’ARTS / JUAN BUSQUETS / PASSEIGE […] 36». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Mario Sturani 1990, p. 235, n. 331; PANZETTA 1992, p. 158, n. 283.

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108. (TAV. 136) Inverno, 1935. Modello 259. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 33 x 24 x 19 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 7-XIII» e simbolo del decoratore Domenico Cogno (cerchio con trattino verticale); etichetta cartacea prestampata compilata a penna blu: «GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA - TORINO / Mostra: Torino tra le due guerre / Autore: M. Sturani / Opera: Inverno / Proprietario: coll. Sturani, TO». Firma incisa in pasta su bordo laterale. Torino, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (inv. FD 329). BIBLIOGRAFIA: Torino tra le due guerre 1978, p. 357, n. 17; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PROVERBIO 1986, p. 208; Mario Sturani 1990, p. 111, n. 133; PANZETTA 1992, fig. 29, pp. 107, 158, n. 284; Invito al collezionismo Torino 1992, n. 18; Il Novecento 1993, p. 296; Le ceramiche Lenci 2000, p. 96; PROVERBIO 2001, p. 296, n. 8; Il déco in Italia 2004, p. 187, n. 199; BERTONI e SILVESTRINI 2005, p. 344; Novecento a novecento gradi! 2006, p. 120. ESPOSIZIONI: «Torino tra le due guerre», Torino 1978; «Invito al collezionismo», Torino 1992; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Il déco in Italia», Roma 2004; «Novecento a novecento gradi!», Montelupo 2006.

109. (TAV. 133) Primavera, 1930. Gesso. 38 x 25,5 x 19,3 cm Collezione privata.


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110. (TAV. 134) Autunno, 1930. Gesso. 33,5 x 25,5 x 20 cm Collezione privata.

111. (TAV. 135) Inverno, 1930. Gesso. 35,5 x 25,5 x 20,3 cm Collezione privata.

112. (TAV. 132) Estate, 1930. Gesso. 38,5 x 25 x 19,5 cm Modello 257. Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: «Le revue moderne de l’art et de la vie» 1931; Mario Sturani 1990, p. 235, n. 330; PANZETTA 1992, p. 158, n. 282

Il tema delle stagioni viene interpretato da Sturani attraverso un ciclo di quattro teste allegoriche a tutto tondo che rivisitano in chiave moderna i busti e le erme di tradizione classica. I volti creati da Sturani si distinguono per la bellezza iconica ed essenziale, accentuata dalle orbite cave degli occhi, dipinte con i colori dominanti di ciascuna scultura. Pur nella comune stilizzazione dei tratti marcatamente allungati, ogni figura mantiene un proprio carattere specifico che mette in evidenza la straordinaria fantasia inventiva dell’artista e la sua personale capacità di interpretare e variare l’immagine umana. La raffinata modellazione plastica è valorizzata da una decorazione pittorica di altissima qualità, basata su una tavolozza cromatica che restituisce perfettamente le atmosfere e le sensazioni climatiche di ciascuna fase dell’anno, ricorrendo a colori freddi per l’Inverno, a tonalità fresche e delicate per la Primavera e a tinte ambrate per l’Autunno. Se le due teste della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino sono state esposte in diverse mostre a partire dal 1978 e sono state più volte riprodotte in cataloghi e volumi dedicati alla manifattura o al loro inventore, la variante dell’Inverno appartenente a una collezione privata e l’Autunno, fino a ora conosciuto solo attraverso le foto storiche e intitolato erroneamente l’Estate (PANZETTA 1992, p. 158, n. 283), risultano del tutto inedite.

La primavera, simbolo della giovinezza, della rinascita e della spensieratezza, viene tradizionalmente raffigurata come una giovane donna con il capo cinto da una corona di fiori e con in mano un ramoscello che germoglia. La testa femminile ideata da Sturani ha capelli turchini modellati in pasta, indossa un cappello dalla tesa larga ornato con fiori, foglie e fragoline di bosco e stringe tra le labbra un rametto con due fragole. Il virgulto viene sostituito dai rami in fiore posti alle spalle della figura. L’inverno, stagione della morte e del riposo ciclico della natura, è solitamente rappresentato da una figura ormai vecchia e stanca, con i capelli grigi e gli abiti pesanti, posto vicino ad alberi spogli. Sturani resta fedele all’iconografia classica, anche se preferisce sostituire l’immagine dell’anziano con un uomo maturo, rendendo meno evidente il richiamo al tema della morte, probabilmente troppo angosciante per un’opera destinata ad arredare e ingentilire gli interni domestici. I busti esposti in mostra sono particolarmente interessanti in quanto presentano due differenti colorazioni pittoriche che, pur mantenendo lo stesso livello qualitativo, conducono a risultati espressivi differenti. Le tonalità degli azzurri e dei grigi dominanti nel pezzo della collezione privata accentuano la sensazione di rigidità e freddezza tipiche della stagione rappresentata, mentre nel modello del museo torinese il verde del cappello e, soprattutto, il rosa delle gote addolciscono i lineamenti del viso, reso più realistico dall’assenza della neve che nell’esemplare precedente vela la zona sottostante gli occhi e gela tra la barba e i capelli. È nota anche una terza variante, datata «14/02/31», che si distingue per una colorazione impostata sulle tonalità del grigio, prive però delle cromie azzurre del pezzo esposto in mostra (Invito al collezionismo Torino 1992, n. 18; Il déco in Italia 2004, p. 187, n. 199). L’autunno è la terza stagione dell’anno, il momento del raccolto inteso come ricompensa del faticoso lavoro nei campi e frutto dell’abilità umana applicata alla gestione della natura. Il periodo autunnale, associato alla fase finale della vita umana, viene abitualmente interpretato come un uomo di età adulta con in mano grappoli d’uva, foglie di vite e calici di vino. La scelta compiuta da Sturani di raffigurare l’autunno come una testa femminile può essere la causa principale dell’equivoco che ha da sempre indotto le fonti bibliografiche a considerare que-

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sta ceramica come la raffigurazione della stagione estiva. La visione diretta del pezzo ha però permesso di chiarire per la prima volta tale imprecisione, in quanto la testa femminile ha il capo coperto da una cloche decorata con una corona di piccole pere ed è circondata da grappoli d’uva e da un’aureola di foglie secche. Allo stato attuale delle ricerche non sono emerse ceramiche dell’Estate in nessuna collezione privata e non risulta che sia mai stato venduto un esemplare in occasione di aste o vendite antiquarie. Il pezzo deve comunque essere stato prodotto in almeno un esemplare, in quanto, come ricordato dalla moglie di Sturani, la serie completa delle «Stagioni» fu acquistata da Joséphine Baker (oppure le fu regalata) nel 1932 (Mario Sturani 1990, p. 93). Le ricerche effettuate sul nucleo integrale dei modelli in gesso, provenienti dalla ditta Lenci e acquistati da un collezionista privato torinese, hanno riportato alla luce tutti e quattro i gessi delle Stagioni, che vengono presentati al pubblico per la prima volta in occasione di questa mostra. La visione diretta della testa mancante dell’Estate conferma l’errore storicamente compiuto nell’identificazione dei soggetti, in quanto gli attributi distintivi della stagione, difficilmente leggibili nella riproduzione in bianco e nero dell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 158, n. 282), sono ora chiaramente decifrabili: sulla testa maschile, incorniciata da mossi capelli ondulati, è posto un cappello conico in paglia, ornato da fiori e foglie; la figura è circondata da spighe di grano, ciliegie e fiori. In effetti, anche se solitamente raffigurata con sembianze femminili, la stagione estiva è tradizionalmente associata all’immagine del grano e a cornucopie ricolme di frutti, con una chiara allusione alla maturazione dei frutti della terra, che in un’interpretazione più ampia rimanda all’età adulta della vita umana. [S.C.]

113. (TAV. 117) Testa femminile con coppia danzante, 1930-1931. Gesso. 52 x 23,8 x 14 cm Collezione privata. Nel corso delle indagini effettuate sul nucleo dei gessi provenienti dalla ditta Lenci, integralmente pervenuto presso una collezione privata torinese, è stata riscontrata l’esistenza di numerosi modelli relativi a ceramiche non altrimenti documentate nell’archivio storico della ditta torinese. Si tratta di soggetti, di cui allo stato attuale delle ricerche non è emerso alcun esemplare in ceramica, ideati dagli artisti attivi per i coniugi Scavini e che forse non furono messi in produzione. È il caso di questo gesso, concepito con probabilità come maschera da appoggio, i cui caratteri stilistici, dalla resa dei tratti somatici del volto femminile, alla definizione stilizzata dei due personaggi colti in movimento sulla sommità del capo, alla fantasiosa impostazione dell’armonioso impianto compositivo, rivelano con chiarezza la paternità di Mario Sturani. Immediato è infatti il rapporto con le quattro straordinarie raffigurazioni allegoriche delle stagioni risalenti al 1931 (catt. 105-112), con la Maschera per lampada elettrica (modello 177; PANZETTA 1992, p. 146, n. 206) e, per quanto riguarda la coppia danzante, con la Ciotola Danza sul ponte (cat. 96), in relazione alla quale è emerso un disegno recante la data 1930. Nello stesso periodo deve essere pertanto collocata l’ideazione da parte di Sturani di questa ulteriore raffigurazione scaturita dal suo inesauribile genio creativo, poi tradotta da un abile modellatore in un gesso da cui non si esclude possa essere stato ricavato qualche raro campione in ceramica utilizzato solo per scopi promozionali o espositivi. Nella resa, tra l’espressivo e il caricaturale, della maschera non sono poche le tangenze con l’esperienza delle Wiener Werkstätte, ma anche con l’eccellente ricerca di Giuseppe Piombanti Ammannati: basti citare la Testa Venere delle Civiche Raccolte d’arti applicate del Castello Sforzesco di Milano (inv. 4121; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 210, n. 440). La fredda accoglienza da parte del pubblico e quindi la scarsità degli ordinativi da parte dei rivenditori possono aver motivato l’immediato abbandono del modello a favore di so-

prammobili dalle dimensioni più contenute caratterizzati da una creatività non così bizzarra e intellettualistica. [D.S. - G.Z.]

114. (TAV. 67) Vaso La tavola, 1935/1937. Modello 147. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35 x Ø 27 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» e monogramma del decoratore («GI» sovrapposte); bollino cartaceo prestampato «Lenci / TURIN / ITALY» compilato a penna nera «14[...]». Collezione privata. La purezza geometrica del corpo del vaso, un semplice tronco di cono rovesciato e colorato uniformemente con un tenue smalto giallo, è bilanciata dalla ricchezza plastica del coperchio, il cui alto bordo è nascosto dall’orlo traforato della tovaglia bianca. Il coperchio è infatti concepito come una tavola apparecchiata, sulla quale sono appoggiati disordinatamente due strofinacci, una brocca con un bicchiere, una borraccia, un piatto con la tesa decorata da motivi alternati a fiori e a graticcio, quattro mele, due calle, lunghe foglie affusolate e un foglio di giornale. Tra i progetti di Mario Sturani che facevano parte dell’archivio della manifattura Lenci si è conservato un acquarello su carta, privo di data, che reca l’iscrizione «Vaso fiori e frutta. N. 74 bis. Cart. 2» (Mario Sturani 1990, p. 105, n. 119). Anche se il numero indicato sul disegno non corrisponde ad alcun modello conosciuto di ceramiche prodotte dalla manifattura, il progetto può certamente essere considerato il disegno preparatorio per il Vaso La tavola, in quanto ripropone la medesima natura morta plasmata sul coperchio. Rispetto al disegno e ad altri esemplari dello stesso vaso (GARGIULO 2008b, p. 195), l’opera esposta si distingue per alcune piccole differenze compositive, come ad esempio la diversa disposizione delle mele sul tavolo. Il disegno evidenzia forti legami con le nature morte di Cézanne, di Picasso e dei Fauves, riconoscibili principalmente nel ribalta-

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mento in avanti del piano d’appoggio, nella rinuncia alla tradizionale costruzione prospettica dello spazio e nella ricerca di appiattimento bidimensionale e di geometrizzazione dei volumi. La trasposizione tridimensionale del soggetto non riesce a trasmettere la stessa straniante percezione spaziale del disegno, ma conserva, comunque, la semplificazione delle forme e la brillantezza della cromia che conducono a risultati di grande effetto e originalità. La tipologia della marca riportata sotto la base, priva della data di esecuzione ma accompagnata dalle iniziali del decoratore, indica che il vaso esposto in mostra è stato prodotto durante la seconda metà degli anni trenta, sebbene l’ideazione del modello risalga al 1929, come confermato dalla presenza di un Vaso La tavola alla mostra tenutasi presso la Galleria Pesaro di Milano. Le iniziali «GI» non corrispondono al nome di alcun collaboratore registrato nei libri matricola e nei libri paga settimanali della manifattura attualmente conservati nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 147; Ceramiche di Lenci 1929; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 160; PANZETTA 1992, p. 137, n. 143; Invito al collezionismo 1992, n. 12; PROVERBIO 2001, p. 317, n. 45; GARGIULO 2008b, p. 195. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Invito al collezionismo», Torino 1992. [S.C.]

115. (TAV. 65) Vaso Paesaggio, 1936. Modello 96. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 53 (34,5 vaso; 19 coperchio) x Ø 17 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / 20.3.36» e simbolo grafico del decoratore (gatto). Collezione privata. Il vaso, composto da un alto corpo a campana sorretto da un piede troncoconico innestato alla base circolare, è identico nella forma al Vaso Il mondo e la luna (cat. 93). Il corpo è suddiviso in due registri sovrapposti, separati da fasce verdi e gialle. All’interno dei due registri, lungo una fascia continua, si sviluppa un paesaggio collinare intervallato da case isolate o disposte in piccoli gruppi. La distribuzione delle case e


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degli elementi vegetali viene riproposta fedelmente nei due registri, anche se la decorazione rigorosamente manuale del pezzo comporta variazioni nella cromia e nella disposizione delle porte e delle finestre. Si tratta di un paesaggio sospeso nel tempo, in cui l’assenza di ogni forma di vita umana o animale accentua il senso generale di immobilità e silenzio. Le case, prive di peso e appoggiate in equilibrio precario sul terreno collinare, sono delineate attraverso semplici volumi geometrici, cubi o parallelepipedi dai colori pastello sormontati da piccoli tetti in mattoni, e si inseriscono all’interno di un paesaggio stilizzato, delineato dal netto contorno delle collinette in primo piano e dalle montagne che si intravedono in lontananza. Anche i cespugli e gli alberi si trasformano in sagome prive di profondità, con le chiome verdi ridotte a silhouettes circolari o ondulate, appoggiate su esili tronchi scuri. Questo modo di rappresentare lo spazio, che a prima vista può apparire ingenuo e infantile, è in realtà il frutto di un’attenta riflessione sulla tradizione del paesaggio novecentesco, che ha il suo punto d’origine nei paesaggi volumetrici di Paul Cézanne e arriva alle casette, agli alberi e alle colline di matrice giottesca di Carlo Carrà. Nel coperchio, l’immagine bidimensionale che fascia il corpo è trasformata in una vera e propria scultura, che conserva le caratteristiche sintetiche della rappresentazione pittorica. Le piccole abitazioni si arrampicano lungo i pendii della montagna e seguono l’andamento a spirale degli alberi, accompagnando l’occhio in un movimento ascendente e continuo che dalla base sale fino alla cima del coperchio, sulla quale è disposta l’ultima casetta isolata. Come indicato da Maria Mimita Lamberti, per Mario Sturani queste colline animate da casette e campanili rappresentavano il luogo ideale per una vita rustica e serena, e sembrano essere la trasformazione visiva di un’immagine mentale illustrata prima in un racconto dell’artista del 1928 e ripresa molti anni dopo in una descrizione di Caccia grossa tra le erbe: «Le case rosa, azzurrine, lilla, coi loro tetti rossi rossi come pezzetti di carta tra il verde» (Mario Sturani 1990, p. 36). Il modello del vaso è stato ideato nel 1929 e un esemplare è stato presentato in occasione dell’esposizione inaugurata presso la Galleria Pesaro di Milano. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2, n. 96; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 24; PROVERBIO 1979, p. 105,

n. 187; Mario Sturani 1990, p. 103, n. 117, p. 241, n. 5; PANZETTA 1992, p. 130, n. 93; PROVERBIO 2001, p. 312, n. 32; GARGIULO 2008b, p. 188. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929. [S.C.]

116. (TAV. 64) Vaso Il pollaio, 1937. Modello 178. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina e aerografo. 33 (vaso 20, coperchio 13,6) x Ø 19 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 2-37» e simbolo grafico del decoratore Giuseppe Ferinando (stella cometa). Collezione privata.

117. (TAV. 63) Vaso Il pollaio, 1930. Matita e acquarello su cartoncino, applicato su cartoncino grigio. 100 x 155 (173 x 239 cartoncino) mm Iscrizioni: in alto al centro «Vaso - Il pollaio / No 178 Cart. 4»; in basso a destra timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / N º / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera «V10». Collezione privata. Il vaso monofiore a sezione circolare, che interpreta in chiave moderna una forma classica, ha un corpo a campana rovesciata, sostenuto da un piede troncoconico innestato su una base circolare ed è chiuso con un coperchio a imbuto sul quale sono appollaiati diversi animali da cortile. Gli uccelli, tutti diversi tra loro, sono modellati attraverso forme arrotondate e stilizzate, senza alcuna pretesa naturalistica e neppure la decorazione pittorica rispetta riconoscibili modelli reali, ma è ridotta a semplici segni grafici, in diverse tonalità di ocra, marrone e rosso. L’effetto finale è quello di un oggetto squisitamente decorativo, caratterizzato da un lieve tocco di ironia e divertimento. Il piede e il coperchio sono rivestiti con un verde uniforme, mentre il corpo del vaso è smaltato di bianco, con la fascia centrale ornata da un motivo geometrico a righe nere trasversali alternate a zone più ampie attraversate da linee on-

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dulate che recuperano un motivo molto diffuso in area viennese. Nel disegno preparatorio, le bande ondulate non sono dipinte su un fondo bianco, ma si trovano in corrispondenza di una porzione smaltata in giallo chiaro; anche la decorazione degli uccelli varia, preferendo una soluzione meno stilizzata e colori stesi in campiture più ampie. La ceramica esposta è un esemplare tardo del 1937, mentre il modello originario risale al 1930. Dall’analisi del simbolo grafico si deduce inoltre l’identità del decoratore, il pittore Giuseppe Ferinando, presente nei libri matricola della manifattura dal 31 gennaio 1930 al 31 maggio al 1944. Dopo la fine della guerra, Ferinando continua a lavorare per la ditta torinese fino al marzo del 1961, con il ruolo di maestro ceramista (PANZETTA 1992, p. 398). BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 178; Catalogo D2, n. 178; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Mario Sturani 1990, p. 219, n. 262; PANZETTA 1992, p. 147, n. 207; Le ceramiche Lenci 2000, p. 93; PROVERBIO 2001, p. 329, n. 80; GARGIULO 2008b, p. 84; PER IL DISEGNO: Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti, 1983, p. 60; GARGIULO 2008b, p. 84, n. XXXIV. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; PER IL DISEGNO: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [S.C.]

FELICE TOSALLI 118. (TAV. 72) Caracal, 1928. Modello 123. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 14 x 40,5 x 23,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base «LENCI / TORINOITALIA» e simbolo grafico del decoratore Giuseppe Ferinando (stella cometa); «123» incusso in pasta. Monogramma di Felice Tosalli («FT» in un triangolo) incusso in pasta nella parte posteriore. Torino, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (inv. FD 437).

119. (TAV. 71) Caracal, 1928. Modello 123. Gesso. 15,3 x 45 x 26,8 cm Collezione privata. Il modello in gesso, raffigurante un caracal disteso con la schiena appoggiata a una semplice struttura rettangolare, venne utilizzato per la tiratura delle varie ceramiche, di cui una fu esposta nel 1929 alla storica mostra allestita presso la Galleria Pesaro di Milano (Ceramiche di Lenci 1929, n. 71). Costituisce senza dubbio «una delle opere più riuscite e significative tra quelle realizzate da Tosalli nell’intero arco di collaborazione con la fabbrica torinese» (Arte Moderna 1993, p. 474), sia per la raffinata e moderna concezione del semplice impianto compositivo, di gusto déco, sia per la notevole qualità del decoro che connota gli esemplari noti. Tra questi si segnala la ceramica - contrassegnata dalla scritta «Lenci TORINO-ITALY», dal simbolo del decoratore Beppe Ferinando (una piccola stella cometa) e dal monogramma in pasta dell’autore entro un triangolo - pervenuta alle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino a seguito di una donazione attuata nel 1992 in memoria di Elisabetta Tosalli (inv. FD437; Arte Moderna 1993, pp. 474-475). L’oggetto ottenne sicuramente un considerevole riscontro da parte del pubblico, un favore che oltrepassò anche i confini nazionali, come dimostra la segnalazione nell’importante contributo pubblicato nel numero di maggio 1932 nella rivista «Apollo» da Francis Watson, il quale illustrò la ceramica sottolineando che il pezzo era stato concepito «as a book-end or simply as an independent piece to rest squarely against a wall» (WATSON 1932, p. 215). La puntuale resa dell’animale è una delle caratteristiche alla base del successo raggiunto dalle composizioni di Tosalli nell’ambito del mercato inglese. Un riscontro confermato dalla presenza nei cataloghi pubblicati da Lenci dal 1930 e ancora in un ulteriore catalogo merceologico risalente agli anni cinquanta e nel quale il modello risulta contrassegnato dal nuovo numero alfanumerico «CA18» relativo alle «ceramiche animali». Lo studio e la produzione di questo soggetto deve essere verosimilmente collocata nel biennio 1928-1929, come dimostra

l’individuazione in collezioni private di alcuni esemplari recanti il secondo estremo cronologico, unitamente alla bambola incussa e, talvolta, al monogramma del maestro. Inoltre il modello si inserisce all’interno di un nucleo uniforme di pezzi ideati da Tosalli nell’ambito della sua attività presso la ditta, avviata verosimilmente già dal 1928 con l’Albatros (modello 114, PANZETTA 1992, p. 132, n. 109), frutto di una stretta collaborazione con la principessa Bona San Cipriano di Baviera di Savoia, e proseguita con pezzi raffiguranti animali in lotta o in riposo. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 123; Catalogo D2, n. 123; Catalogo E, CA18; Ceramiche di Lenci 1929, n. 71; WATSON 1932, p. 215; Arti applicate 1974, n. 165; BINAGHI 1976, pp. 88-89; BINAGHI 1978, pp. 183, 359, n. 20; PROVERBIO 1979, pp. 36, 100; Le ceramiche 1983, pp. 38, 61; PROVERBIO 1986, pp. 36, 180; PANZETTA 1990, pp. 29, 137, n. 133; Felice Tosalli 1992, p. 18; PANZETTA 1992, p. 106, n. 18; p. 134, n. 121; Arte Moderna 1993, pp. 474-475. [D.S. - G.Z.]

120. (TAV. 73) Barbagianni ed ermellino, 1929. Modello 127. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 27,4 x 49 x 30 cm Iscrizione a pennello in nero al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 21.12.29» e simbolo grafico del decoratore (un triangolo); bambola incussa; «54» inciso in pasta. Collezione privata.

121. (TAV. 74) Barbagianni ed ermellino, 1928. Gesso. 33,5 x 52 x 41 cm Collezione privata. Il modello, di cui si conserva anche il gesso, fu esposto alla mostra del dicembre 1929 presso la Galleria Pesaro (Ceramiche di Lenci 1929, n. 74; PANZETTA 1992, p. 35 nota 38) e illustrato nel relativo catalogo (OJETTI 1929, p. 17) con il titolo Gufo ed ermellino, anche se a evidenza si tratta di un barbagianni. Il numero del modello, dedotto dalla relativa immagine presente nell’archivio storico della ditta (PANZETTA 1992, p. 135, n. 125), lascia supporre una genesi av-

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venuta tra il 1928 e l’inizio dell’anno successivo. Non sono noti, per ora, esemplari recanti una tiratura, ma solo la datazione, di cui la più arretrata risale al 1929. Tra le svariate tipologie di soggetti contemporaneamente prodotti da Lenci, gli animali di Felice Tosalli giunsero con probabilità nel corso del biennio 19281929, quando lo scultore entrò in contatto con Enrico Scavini (PANZETTA 1990, p. 29). I primi modelli presenti, con un gruppo abbastanza compatto, nella sequenza dell’archivio storico compaiono, se si esclude il caso offerto dall’Albatros realizzato insieme a Bona di Savoia, dal numero 122, corrispondente al Caprone (PANZETTA 1992, p. 134, n. 119). La straordinaria capacità posseduta da Tosalli di conferire una realistica soluzione plastica agli animali, emerge soprattutto con il modello qui esaminato, il primo a introdurre una lotta tra preda e predatore. Già Francis Watson (1932, pp. 212-213) esaltava l’invenzione, rispetto agli altri animali realizzati dallo scultore e caratterizzati per lo più da figure in riposo, per la fedeltà al dato naturale e per il drammatico movimento. In effetti, la presenza di due sole lotte di animali all’interno del corpus di sculture - oltre a questa, Zibetto e gallo selvatico (cat. 122) - conferma la distanza verso soggetti di aggressione. Nel Barbagianni ed ermellino emerge con prepotenza il retaggio del soggiorno parigino, effettuato dall’artista dal 1905 al 1907, e dello studio della plastica francese, che, al contrario, prediligeva lo spirito romantico sotteso alle scene di lotta tra animali (PANZETTA 1990, p. 33). In ogni caso il modello ebbe un notevole riscontro, come testimonia anche la lettera indirizzata allo scultore da Enrico Scavini il 10 dicembre 1929, connessa ai risultati che la mostra presso la Galleria Pesaro andava già riscuotendo e alla richiesta, soprattutto inglese, di «animali in movimento» (PANZETTA 1990, p. 29). Il modello restituisce, con non poco virtuosismo tecnico, il balzo dell’ermellino, che si contorce e si allunga per fermare e nel contempo addentare il volatile, e la sofferenza della preda, disposta ad arco nell’estremo tentativo di spiccare il volo. La dinamicità dell’immagine e la molteplicità dei punti di vista fanno del gruppo, proteso in altezza e in profondità grazie alla scenografica apertura alare, un vero capolavoro di Tosalli e una prova di difficoltà per il formatore che doveva tradurre il prototipo fornito dall’artista. La drammaticità è stemperata dall’estrema elegan-


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za dell’insieme, adatto particolarmente come centrotavola. Si confronti a proposito la pubblicità della ditta di arredi Gatti Teresio comparsa nelle pagine di «La casa bella» nei primissimi anni trenta (Una ceramica ed un cofanetto 1931, p. 66). Un disegno conservato nell’archivio Tosalli (GARGIULO 2008b, p. 132), che raffigura un diverso intreccio tra i due animali impennati su un basamento cubico, sembrerebbe riferirsi, proprio per la tipologia di basamento e la soluzione compositiva - di difficile resa nella traduzione ceramica -, a un gruppo scultoreo ligneo. Invece il disegno comparso all’esposizione milanese del 1983, purtroppo non illustrato, doveva essere il bozzetto guida per il decoratore (Le ceramiche Lenci 1983, p. 60). Presente nei cataloghi merceologici degli anni trenta, il modello non contemplava varianti nella stesura della policromia. Il bellissimo esemplare qui proposto, risalente al dicembre 1929 - momento in cui aveva già raggiunto una tiratura di 54 pezzi come dimostra il numero incusso -, rivela la partitura cromatica, esaltata dalla lucentezza degli smalti, basata sul contrasto tra il maculato piumaggio marrone dell’uccello e il candido manto uniforme dell’ermellino, appena ombreggiato in prossimità del dorso e delle zampe. Nel repertorio di Panzetta (1990, p. 106, n. 19), l’esemplare proposto non reca la datazione, ma il monogramma incusso «FT». BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 127; Catalogo D1, n. 127; Ceramiche di Lenci 1929, n. 74; OJETTI 1929, p. 17; WATSON 1932, pp. 212, 215; BINAGHI 1976, p. 89; PROVERBIO 1979, p. 102, n. 144; Mostra della ceramica italiana 1982, p. 27, n. 15; Ceramiche Lenci ed Essevi 1982, n. 38; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PROVERBIO 1986, p. 182, n. 188; PANZETTA 1990, pp. 29, 33, 136, nn. 122, 151; PANZETTA 1992, pp. 106, 135, nn. 19, 125; PROVERBIO 2001, p. 354; Novecento 2006, p. 137; FRANCESCHINI 2007, p. 317. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Le ceramiche della Lenci ed Essevi. 19271947», Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983. [D.S. - G.Z.]

122. (TAV. 76) Zibetto e gallo selvatico, 1930. Modello 192. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 11 x 46 x 25 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 9-4-30 / N [o V?]»; monogramma di Felice Tosalli («FT» in un triangolo) inciso in pasta, «X» e «78» incussi. Collezione privata.

123. (TAV. 75) Zibetto e gallo selvatico Acquarello su carta, applicata su cartoncino grigio. 195 x 127 (244 x 173 cartoncino) mm Iscrizioni: in basso a sinistra monogramma di Felice Tosalli («FT» in un triangolo); timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china nera «A142»; in basso, sul cartoncino grigio «Cartella animali N.o 192 Faina e gallo selvatico». Collezione privata. L’opera esposta fa parte del variegato campionario di ceramiche zoomorfe ideate per la Lenci da Felice Tosalli, artista che si distingue dagli altri protagonisti della manifattura proprio per la scelta di soggetti tratti quasi esclusivamente dal mondo animale. Il soggiorno parigino, collocato tra il 1905 e il 1907, rappresenta un momento fondamentale nel suo percorso artistico, in quanto ebbe la possibilità di approfondire le tematiche zoomorfe che proprio in Francia si erano sviluppate in modo originale a partire dall’età romantica, grazie alle opere di pittori come Théodore Géricault e Eugène Delacroix, e scultori come Antoine-Louis Barye. Testimonianze scultoree di «animalieri» francesi, sia ottocenteschi sia contemporanei, erano facilmente visibili in molti luoghi pubblici della capitale, osservate da Tosalli nel Jardin des Tuileries, nel Jardin des Luxembourg, nel Palais du Trocadero, nel Jardin des Plantes e nell’Hôtel de Ville. Inoltre, se il parco zoologico di Torino era stato smantellato nel 1886, Parigi offriva un contatto diretto con il mondo animale, grazie a un interessante giardino zoologico affiancato dal Museo di Storia naturale. Tosalli ebbe quindi mo-

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do di studiare dal vivo moltissime specie animali, frequentando con assiduità queste strutture inserite nel Jardin des Plantes (PANZETTA 1990, pp. 32-34). A questi riferimenti culturali, si devono infine aggiungere le influenze della produzione ceramica internazionale che già in passato si era occupata di questo specifico soggetto. Tosalli conosceva bene le ceramiche tedesche di Rosenthal; inoltre, doveva avere ben presenti gli animali della Manifattura Reale di Porcellane di Copenaghen e della Bing & Gröndahl, esposti nel 1902 a Torino in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte decorativa. Tra i testi della sua biblioteca si trovava anche L’arte decorativa all’Esposizione di Torino del 1902 di Vittorio Pica, il quale forniva un’analisi approfondita delle opere presentate dalle due ditte nordiche, contrapponendo l’elemento pittorico della prima alla forza plastica della seconda, che esponeva tra le sue opere «una mirabile serie di forme animali». Lo Zibetto e gallo selvatico è un gruppo formato da due animali di origine asiatica. Lo zibetto, un mammifero notturno simile a un felino, ha una testa larga e arcuata, il muso bianco e appuntito, le orecchie corte e aguzze e piccoli occhi rotondi. Il corpo, allungato ma robusto, è dotato di una lunga e folta coda, suddivisa in sei o sette anelli alternativamente di colore bianco e nero-bruno. In genere, il pelo fitto e ruvido presenta una colorazione di base grigio chiaro, a volte tendente al gialliccio, arricchita da numerose macchie nero-brune di varie forme e grandezze, distribuite lungo i fianchi e le zampe. Il ventre e i lati del collo sono invece ricoperti da un pelo bianco, mentre intorno agli occhi si trova una grande zona bruna. Questa sommaria descrizione dell’animale è utile per capire quanto Tosalli sia rimasto fedele al reale aspetto dell’animale, sebbene la straordinaria brillantezza dell’invetriatura della ceramica non riesca a restituire l’effettiva ruvidezza del pelo. Anche la variopinta e mossa livrea del gallo selvatico è resa con grande naturalismo, sfruttando il forte carattere decorativo dei suoi colori brillanti e dell’andamento sinuoso delle lunghe penne posteriori. Lo zibetto, dal fisico forte e scattante accuratamente modellato, è impegnato ad azzannare il collo della sua preda, che apre il becco quasi a voler lanciare un ultimo disperato grido di aiuto. Questa ceramica, insieme al gruppo Barba-

gianni ed ermellino (cat. 120), sempre realizzato dalla manifattura torinese, rappresenta un unicum nella produzione dello scultore. Infatti, Tosalli non ama i soggetti cruenti e gli episodi di lotta, ma preferisce momenti più quieti e pacati. Panzetta considera quest’opera come un caso «puramente incidentale e come un’ulteriore conferma della propria iniziale formazione parigina» (PANZETTA 1990, p. 33), in quanto la descrizione di scene di caccia era piuttosto diffusa tra gli artisti romantici come Barye. Sebbene il disegno esposto in mostra sia intitolato Faina e gallo selvatico e riporti lo stesso numero identificativo della ceramica, il soggetto rappresentato non può essere considerato il vero e proprio bozzetto preparatorio, quanto piuttosto uno studio preliminare per la realizzazione dello zibetto. L’acquarello dà ancora una volta prova della cura e della meticolosa attenzione riservata da Tosalli allo studio dei dettagli anatomici. Attraverso l’uso di una delicata stesura del colore, l’artista restituisce con rapida essenzialità il manto e la fisicità dell’animale, mentre l’occhio e il muso sono indagati con grande precisione e trasmettono un senso di estrema adesione al dato naturale. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D1, n. 192; Catalogo D2, n. 192; PONTI 1930a, p. 42; A Monza, fra breve 1930, p. 47; PROVERBIO 1979, p. 102, n. 145; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PROVERBIO 1986, p. 182; PANZETTA 1990, fig. 123, p. 136; PANZETTA 1992, fig. 25, pp. 106, 149, n. 221; Le ceramiche Lenci 2000, p. 106; PROVERBIO 2001, p. 351, n. 1; Novecento a novecento gradi! 2006, p. 137, n. 51; PER IL DISEGNO: Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; Lenci. Il bestiario 1992, n. 66; GARGIULO 2008b, p. 135, CXXII. ESPOSIZIONI: «Quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative», Monza 1930; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Pisa 2006; PER IL DISEGNO: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Lenci. Il bestiario», Torino 1992. [S.C.]

124. (TAV. 82) Centauro e faunessa, 1931. Modello 148. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 35,2 x 13,7 x 18 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 15-1-31 / N [o V?]»; monogramma di Felice Tosalli («TF» inseriti in un triangolo) e «86» incisi in pasta, bambola incussa. Collezione privata.

125. (TAV. 81) Centauro e faunessa, 1929. Matita e acquarello su carta, montato su cartoncino. 215 x 133 (246 x 174 cartoncino) mm Iscrizione a china marrone sotto i tasselli cromatici: «Il campione N. 1 è per le parti pelose e i / capelli della faunetta. / Il campione N. 2 è per le macchie del / mantello del centauro. / Il campione N. 3 è per i bordi delle / macchie del mantello del centauro. / La disposizione e la forma delle macchie / del mantello del centauro sono da copiarsi tali e quali dal presente bozzetto; / a tergo vedersi per il lato destro». In basso, sul cartoncino: «Cartella Animali N. 148 Centauro». Sul retro, timbro della ditta Lenci. Collezione privata. Il gruppo di Tosalli, esposto nel 1929 alla mostra sulle ceramiche Lenci nella galleria milanese di Lino Pesaro, è composto da un centauro cavalcato da una giovane faunessa, creatura mitologica dalla forma umana, ma con le zampe di capra. Le due figure sono colte mentre spiccano un lungo salto per superare l’ostacolo di un cespuglio. Lo zoccolo posteriore destro del centauro, personaggio metà uomo e metà cavallo, è ancora appoggiato al terreno, ma il resto del corpo è ormai completamente proteso in avanti. Le caratteristiche fisiche sono analizzate fin nei minimi dettagli: lo scatto atletico del centauro consente di metterne in risalto la muscolatura in tensione e la gabbia toracica dilatata, mentre la postura instabile e ruotata della faunessa evidenzia la sensualità di un corpo pieno e vigoroso. Anche l’espressione dei volti è pensata per trasmettere pienamente la gioia e il piacere di un momento ludico di puro divertimento.

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Il lungo e preciso studio preparatorio del progetto da riprodurre in ceramica è testimoniato da due disegni conservati in collezioni private. Il primo è un bozzetto che raffigura il gruppo visto lateralmente (GARGIULO 2008b, p. 56). In questo caso, Tosalli non si preoccupa del dato cromatico, ma definisce con pochi e sicuri segni l’anatomia dei corpi e l’espressività dei volti. Non si tratta di un disegno destinato alla fase produttiva, ma appartiene ancora al momento creativo, come suggerisce la presenza, accanto alle due figure, di una testa equina pensata per un’opera differente, eseguita con la stessa cura riservata al centauro. Il secondo bozzetto esposto in mostra è invece realizzato per i pittori che operavano nei laboratori della manifattura e si sofferma soprattutto sull’analisi del dato cromatico. L’acquarello su carta, contrassegnato dalla scritta «Cartella Animali N.148 Centauro», ripete perfettamente la composizione e il taglio visivo del modello precedente. La rappresentazione figurativa è accompagnata da precise indicazioni autografe sui colori da impiegare per le singole parti. Sotto i tasselli cromatici da utilizzare come campioni, i decoratori potevano leggere: «Il campione N. 1 è per le parti pelose e i capelli della faunetta. Il campione N. 2 è per le macchie del mantello del centauro. Il campione N. 3 è per i bordi delle macchie del mantello del centauro. La disposizione e la forma delle macchie del mantello del centauro sono da copiarsi tali e quali dal presente bozzetto. A tergo vedesi per il lato destro». In questo modo, Tosalli cerca di evitare che il decoratore interferisca con il suo progetto, che doveva essere riprodotto fedelmente, senza modifiche, semplificazioni o variazioni cromatiche. La scelta di argomenti mitologici come il centauro e il fauno permette all’autore di affrontare contemporaneamente i temi principali della sua riflessione artistica: la figura umana e il mondo animale. L’importanza di questi due aspetti del suo immaginario è confermata dalla frequente ripresa di simili soggetti iconografici anche nel repertorio delle sculture lignee, dove satiri, ninfe, centauri e sfingi sono raffigurati in una grande varietà di atteggiamenti ed espressioni. Come suggerito da Alfonso Panzetta (1990, pp. 32-37), se il riferimento culturale per le opere zoomorfe è principalmente la Francia, per le tematiche legate alla mitologia classica, Tosal-


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li si ispira all’ambito Jugendstil e al simbolismo monacense di pittori come Arnold Böcklin e Franz von Stuck, le cui opere si caratterizzano per una declinazione in chiave greco-arcaica del simbolismo. A questi, si devono poi aggiungere le suggestioni mitologiche di Erna Kopriva, membro delle Wiener Werkstätte conosciuta soprattutto per le sue opere in ceramica e i progetti per la sezione tessile (NEUWIRTH 1981, p. 97). Pur avendo vissuto una vita artistica e privata piuttosto riservata, carente di contatti diretti con i centri culturali italiani ed europei più vivaci e moderni, Tosalli dimostra di essere sempre aggiornato sulle ultime novità internazionali. In effetti, dall’analisi dei materiali conservati nella sua biblioteca personale, in parte ricordati da Panzetta nella monografia dedicata all’artista (PANZETTA 1990, pp. 153-154), emerge un interessante campionario di volumi e riviste, come la francese «L’illustration» e le italiane «Emporium» e «A B C - Rivista d’Arte». Tra i volumi di storia dell’arte compare anche Dreitausend Kunstblätter der Münchner «Jugend», il volume curato da Georg Hirth, fondatore della rivista «Jugend» e ideatore del termine «Secessione». Il catalogo, riccamente illustrato, raccoglie una vasta selezione di dipinti, manifesti e bozzetti eseguiti tra il 1896 e il 1908 dai maggiori artisti simbolisti e modernisti europei, tra cui la Lotta tra i centauri (Dreitausend 1908, p. 18, n. 146) e il Centauro di Böcklin (ibid., p. 19, n. 154), la Faunetta di Feldbauer (ibid., p. 98, n. 781) e i Centauri romani di Georgi (ibid., p. 119, n. 936) rivelano stringenti legami con il soggetto mitologico ideato da Tosalli. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 148; Ceramiche di Lenci 1929; PROVERBIO 1979, p. 29, n. 26.A; PANZETTA 1990, fig. 126, p. 137; Lenci. Ceramiche e disegni 1991, n. 116; PANZETTA 1992, p. 138, n. 144; QUESADA 1994, pp. 118-119; Le capitali d’Italia 1997, p. 342; PROVERBIO 2001, p. 355, n. 5; AUDIOLI 2008, p. 106; GARGIULO 2008b, p. 196. PER IL DISEGNO: PANZETTA 1992, p. 25, n. 4; GARGIULO 2008b, p. 77, n. XIX. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

126. (TAV. 78) Lontra e salmone su un piatto, 1932. Modello 308/P. Terraglia formata a colaggio in più parti assemblate con barbottina, decorata a smalti policromi sottovetrina. 13,5 x 58 x 53 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 16-6-32 / N [o V?]» Collezione privata.

127. (TAV. 77) Lontra e salmone, 1930/1932. Acquarello su carta. 197 x 120 mm Iscrizioni: in basso a sinistra monogramma di Felice Tosalli («FT» in un triangolo); timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI»; sul retro «A128». Collezione privata. La coppa nera ha un bordo bianco ed è internamente dipinta in smalto turchese, in modo da simulare la presenza dell’acqua. Sulla larga base della coppa/centrotavola, una lontra si allunga incuriosita per osservare un pesce che nuota nella parte opposta del piccolo invaso. Il salmone, modellato separatamente e in seguito applicato con la barbottina sul bordo interno, ha pinne e coda rosate e un corpo azzurro ornato da piccole macchie nelle tonalità del rosa e del turchese. Come per gli altri animali, anche per la lontra Tosalli rivela un’ottima capacità di restituire caratteri fisici, movenze ed espressioni distintivi della specie. In particolare, questo carnivoro acquatico si distingue per il corpo sottile e flessibile, ricoperto da una pelliccia di color bruno sul dorso e sulle zampe e nocciola-bianco sul ventre, sul petto e sulla gola. Le zampe corte e palmate hanno artigli taglienti adatti per afferrare le prede, mentre la coda è larga e piuttosto schiacciata. La testa tondeggiante e allungata presenta un muso arrotondato e occhi piccoli. Come ricordato da Alfonso Panzetta, la conoscenza quasi scientifica del mondo animale deriva non solo dal confronto diretto maturato durante il periodo parigino, ma anche da un costante approfondimento di tali tematiche su testi di biologia, anatomia e storia naturale. Questo atteggiamento da zoologo non si risolve in una semplice e rigorosa rappresentazione delle fattezze fisiche, ma si unisce a un’originale consi-

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derazione degli atteggiamenti e del comportamento specifico dei singoli animali, permettendo all’artista di riprodurre con delicata naturalezza e con ironia particolari momenti di vita dei suoi soggetti. Il risultato ottenuto è una serie di opere molto differenti rispetto alla produzione di gusto romantico e all’approccio impressionistico o sintetico degli altri «animalieri» contemporanei francesi e italiani. Anche se non è stato identificato l’esatto bozzetto preparatorio, viene presentato in mostra un interessante studio che può essere messo in relazione con questa coppa/centrotavola, in quanto analizza contemporaneamente l’aspetto del salmone e la fisionomia di una lontra con la coda arricciata, mentre cammina con movenze fluide e circospette. Gli animali sono collocati su due registri sovrapposti e il rapporto proporzionale tra le dimensioni delle due figure non viene mantenuto, in quanto il salmone risulta troppo grande rispetto alla lontra. In conclusione, il disegno si presenta come lo studio morfologico di due figure trattate come soggetti separati e indipendenti. Della Lontra e salmone su un piatto esiste una variante più articolata, intitolata Coppa delle lontre (modello 165/P; PANZETTA 1992, p. 140, n. 161), che prevede l’aggiunta di una seconda lontra pronta a catturare con un rapido movimento della zampa, ancora sospesa in aria, il pesce dalla bocca spalancata. In un’ulteriore versione (modello 308; PANZETTA 1992, p. 164, n. 327), la lontra che osserva viene eliminata per lasciare il posto da protagonista alla lontra cacciatrice. Il lavoro di Tosalli è stato scelto, insieme ad altre cinque opere della manifattura, per una pagina pubblicitaria, pubblicata nella rivista «La casa bella» tra il gennaio e il novembre del 1932. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche Lenci gennaio 1932, p. 1; marzo 1932, p. 8; aprile 1932, pp. 3 e 45; maggio 1932, p. 3; giugno 1932, p. 3; novembre 1932, p. 1; PANZETTA 1992, p. 164, n. 328; Le ceramiche Lenci 2000, p. 110; PROVERBIO 2001, p. 359, n. 12; Novecento a novecento gradi! 2006, p. 137, n. 50; PER IL DISEGNO: Lenci. Il bestiario 1992, n. 68; GARGIULO 2008b, p. 136, n. CXXVII. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006; PER IL DISEGNO: «Lenci. Il bestiario», Torino 1992. [S.C.]

128. (TAV. 79) Centrotavola con i martin pescatori,

BIBLIOGRAFIA: PROVERBIO 1979, p. 103, n. 149; Lenci. Il bestiario 1992, n. 86; PANZETTA 1992, fig. 49, pp. 108, 205, n. 612.

1935/1937. Modello 502/P. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 14 x Ø 39 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / R. F.»; «DM» inciso in pasta. Collezione privata.

ESPOSIZIONI: «Lenci: Il bestiario», Torino 1992.

Il Centrotavola con i martin pescatori appartiene alla stessa tipologia della Lontra e salmone su un piatto (cat. 126) e di tutti gli altri piatti e recipienti decorati da Felice Tosalli con varie specie di animali, come ermellini, scoiattoli, volpi, marmotte, anatre e ranocchie. La grande ciotola dalle linee morbide e arrotondate è smaltata con un nero lucidissimo, ha il bordo bianco e l’interno di un grigio sfumato. Sul bordo esterno è appollaiato un martin pescatore che stringe nel becco lungo e appuntito il pesce appena pescato. Il piccolo volatile ha un piumaggio molto variopinto, con il petto di un giallo scuro e le ali di un verde metallico illuminato da brevi pennellate bianche. Dalla parte opposta, un secondo uccello dispiega le ali mostrando il blu brillante del piumaggio sul dorso e l’arancione del ventre. Questo martin pescatore, rimasto senza cibo, allunga il becco in avanti, inarca il dorso e solleva le corte piume della coda, assumendo una posizione arcuata molto scenografica. Come la Lontra e salmone su un piatto, il centrotavola non è marcato con il monogramma di Tosalli. In effetti, non tutte le opere realizzate su disegno del maestro recano la sua firma, soprattutto se si tratta di pezzi destinati a una produzione di media o grande serie. In questi casi, l’artista non aveva più il controllo sull’esecuzione del pezzo, che poteva perciò subire piccole o rilevanti modifiche per mano dei vari decoratori che lavoravano per la manifattura. Le figure dei martin pescatori sono anche state modellate singolarmente per creare piccole sculture decorative. Il primo martin pescatore (modello 923/1; PANZETTA 1992, p. 285, n. 1104) veniva replicato con un’iconografia identica a quella del centrotavola, mentre l’esemplare con le ali aperte veniva arricchito da un pesce inserito trasversalmente nel becco (modello 923; PANZETTA 1992, p. 285, n. 1103).

[S.C.]

SANDRO VACCHETTI 129. (TAV. 40) Nuda con fauno, 1928. Modello 26. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 30 x 15,5 x 21,5 cm Iscrizione a pennello in verde sottovetrina sul bordo interno della base: «Lenci / ITALY». Collezione privata. La marca semplificata, ridotta alla semplice indicazione del nome della ditta e della nazione di produzione, indica che la ceramica è stata prodotta entro la fine del 1928. La data così arretrata giustifica anche la mancanza di perfezione nella resa dei dettagli, soprattutto nella decorazione della base e nella colorazione dei capelli. Il gruppo è formato da due figure, un nudo femminile e un piccolo fauno verde raffigurati mentre compiono un passo in avanti con movenze di chiara matrice déco, molto simili alle danzatrici e alle ninfe delle sculture francesi. La nudità della figura è attenuata da una gonna lunga fino ai piedi, con un fondo bianco ornato da elementi a stella che immediatamente rimandano a schemi déco o futuristi, formati da quadrati marroni inseriti in raggi triangolari gialli. Il piccolo fauno verde ai piedi della donna le cinge le gambe in un abbraccio vigoroso, mentre il resto del corpo ripete perfettamente le movenze spezzate della donna. In questo modo, Vacchetti amplifica il ritmo sincopato tipico della scultura déco che domina l’intera composizione. Le due figure sono appoggiate su una base inclinata, che presenta sul retro una fessura rettangolare destinata a contenere piccoli oggetti. L’esemplare della collezione privata si differenzia dalle altre varianti dell’opera e dal modello fotografato del Fondo Lenci conservato nell’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 120, n. 24) per la presenza di

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una singolare linea gialla che pone in evidenza le pieghe e i dettagli anatomici del corpo. Grazie a questo particolare il corpo della donna, che pur nella posizione ritmica e spezzata del passo mantiene una certa morbidezza delle forme, viene reso più netto e affine all’incisività grafica che caratterizza i numerosi disegni di Vacchetti dedicati allo studio del nudo femminile. Singolare è anche il colore dello smalto usato per la trascrizione della marca: al posto del nero tradizionale è stato impiegato lo stesso verde scelto per dipingere le zampe del fauno, gli occhi e le sopracciglia della donna. Le altre varianti si distinguono per le diverse colorazioni dei capelli del nudo femminile e del corpo del fauno. Interessanti variazioni riguardano inoltre la decorazione della gonna. Nelle immagini di repertorio (PANZETTA 1992, p. 120, n. 24), il tessuto è dipinto con elementi circolari bicolore, intervallati da pois più piccoli e monocromi; un’altra versione di questa ceramica propone un pattern a fasce oblique e incrociate, composte da sottili linee gialle trasversali (GARGIULO 2008a, p. 94). In entrambi i casi si mantiene una tipologia di decoro associabile ai tessuti con decoro geometrico tipici dei maturi anni venti. BIBLIOGRAFIA: Catalogo B, n. 26; PROVERBIO 1979, p. 41, n. 48; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 41, 60; PANZETTA 1992, p. 120, n. 24; Le capitali d’Italia 1997, p. 343; PROVERBIO 2001, p. 368, n. 5; GARGIULO 2008a, p. 94; GARGIULO 2008b, p. 172. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

130. (TAV. 88) Nudo su foglie, 1929. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 18,5 x 27,5 x 23,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / ITALY / 15-6-29» e simbolo grafico del decoratore Giovanni Ronzan (fiore); «12» inciso in pasta. Collezione privata. La ceramica di Vacchetti fa parte del ristretto numero di opere marcate Lenci che non sono state identificate tra le fotografie storiche dell’archivio della manifattura e, pertanto, risulta pri-


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va di numero di riconoscimento. La collocazione cronologica dell’opera è però certa grazie alla data presente sui pezzi conosciuti. Probabilmente, l’opera è identificabile con una delle ceramiche di Sandro Vacchetti esposte in occasione della mostra del 1929 presso la Galleria Pesaro di Milano, indicata nel catalogo della mostra con il titolo Primavera (Ceramiche di Lenci 1929). L’opera ritrae una figura femminile addormentata su un giaciglio di foglie e fiori. Il corpo della donna, completamente nuda, asseconda la forma arrotondata dell’ammasso di foglie, quasi un cespo di lattuga gigante, rendendo difficile comprendere pienamente la composizione da una visione esclusivamente frontale. Il punto di vista preferenziale per una corretta fruizione del pezzo è, infatti, una veduta leggermente dall’alto, che permette la visione dell’intero corpo seminascosto tra la vegetazione. La donna presenta un incarnato eburneo, labbra rosse e una folta chioma di capelli, il cui movimento ondulato è sottolineato da lunghe e sottili pennellate brune. Anche nella decorazione degli elementi naturali il pittore non ricorre a piatte campiture di colore, ma utilizza una tecnica a tratteggi incrociati che lasciano emergere il bianco dello smalto sottostante. Tra le larghe foglie verdi e gialle sono disposte diverse varietà di fiori colorati e piccoli animali: una lumaca, un bruco, una coccinella blu, una rana e un uccello appollaiato accanto alla donna. Il fiore seguito da un puntino dipinto al di sotto della base è certamente il simbolo grafico di Giovanni Ronzan, pittore che lavora per Lenci in qualità di formatore, ritoccatore e decoratore fino al 1939, quando decide di fondare, insieme ai fratelli Antonio, Giuseppe Luigi e Tina, tutti artisti operanti presso Lenci, una propria manifattura specializzata nella produzione di figure femminili e soggetti sacri. La ceramica, che non compare in alcuno dei cataloghi merceologici editi dalla manifattura, sembra essere un modello destinato a una produzione limitata, come attesta il basso numero incusso accanto alla marca, riferito alla quantità di sculture prodotte fino al giugno 1929. BIBLIOGRAFIA: Ceramiche di Lenci 1929; Le ceramiche Lenci 1983; p. 60; PANZETTA 1992, p. 385; Le capitali d’Italia 1997, p. 343; PROVERBIO 2001, p. 372, n. 14; GARGIULO 2008a, p. 97; GARGIULO 2008b, pp. 230, 236. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti»,

Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997. [S.C.]

131. (TAV. 90) Abissina, 1931. Modello 196. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 54 x 37,2 x 19 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 26-1-31» e simbolo della decoratrice Graziella Arozza («A» cerchiata); bollino cartaceo prestampato: «MOSTRA DELLA CERAMICA ITALIANA 1920-40 / PALAZZO NERVI / 29/5 - 20/6 1982 / N. 21» (a penna blu); etichetta prestampata compilata a penna nera: «FONDAZIONE PALAZZO BRICHERASIO / via Lagrange, 20 - 10123 Torino / Tel (011) 562.96.04 - Fax (011) 562.97.57 / “Le capitali d’Italia: Torino - / Roma 1911-1946” 4-12-97 22-3-98 / Vacchetti “Abissina” 23-8-30 / ceramica cm 40x55 / FONDAZIONE PALAZZO BRICHERASIO». Firma incisa in pasta sul bordo anteriore della base: «ESSEVI». Collezione privata. L’opera, prodotta a partire dal 1930, è considerata la rielaborazione di un acquarello di Mario Sturani, raffigurante una donna di colore con ai piedi un casco militare, zanne di elefante e una natura morta con ananas, noci di cocco e banane (PANZETTA 1992, p. 23). La Figura africana, datata 1929, è a torso nudo, indossa una gonna svasata, una collana di fiori e un alto cappello cilindrico. Pur ispirandosi a questo modello, Sandro Vacchetti abbandona l’immagine asciutta, rassicurante e fortemente decorativa della donna, preferendo forme più accattivanti e sensuali. Il sorriso languido del disegno di Sturani viene sostituito da un ghigno ferino, che sembra riprendere il motivo tribale del cappello. Il corpo, non più nascosto dalla gonna, ma sfacciatamente esibito in una postura sinuosa, mette in evidenza i tratti somatici considerati caratteristici delle donne abissine: seno a punta, ventre arrotondato, fianchi bassi e larghi, gambe robuste e cosce corte. L’artista esaspera questi linea-

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menti fisici, accentuandone la tensione erotica, senza però scivolare nel caricaturale. La verticalità della figura è bilanciata dallo sviluppo orizzontale della base, su cui sono sistemati il cesto con i frutti esotici e il képi, il tipico elmetto coloniale. Per comprendere pienamente il significato dell’opera, la sola lettura frontale non è sufficiente. Infatti, ruotando intorno alla scultura si scopre che la giovane abissina tiene in mano un fucile, maldestramente nascosto tra le pieghe del tessuto. La ceramica non è quindi solo il pretesto per mostrare un nudo femminile, ma si carica di significati più profondi e attuali, legati alle mire espansionistiche del regime fascista. L’Abissinia, l’odierna Etiopia, verrà infatti conquistata nel 1936 dalle truppe italiane comandate dal generale Badoglio e farà parte dell’Africa Orientale italiana fino al 1941. L’opera, talvolta erroneamente denominata La guerra d’Abissinia, può quindi essere considerata una delle poche ceramiche ispirate a un tema politico contemporaneo prodotte dalla manifattura torinese. In occasione della mostra tenutasi a Montelupo nel 2006, Marco Bardini fornisce un’ulteriore chiave interpretativa, associando al motivo imperialistico il tema dell’eterna battaglia dei sessi (Novecento a novecento gradi! 2006, p. 123). In quest’ottica, il fucile non è solo allusione al dominio militare, ma diventa simbolo «maschile», strumento di conquista e di potere nei confronti della figura femminile. Nonostante la sua posizione di inferiorità, in quanto africana e donna, è però lei a stringere l’arma tra le mani, con un atteggiamento malizioso e seduttivo che lascia intendere la potenziale pericolosità della situazione. In questo clima di tensione, Vacchetti mette in scena un ambiguo gioco di ruoli tra chi ha il potere e chi lo subisce, tra chi domina e chi è dominato. Rispetto all’immagine fotografica conservata presso l’Archivio Storico della Città di Torino (PANZETTA 1992, p. 149, n. 223), la ceramica in mostra presenta un incarnato più chiaro e una differente decorazione del panneggio e del drappo del copricapo. BIBLIOGRAFIA: Mostra della ceramica italiana 1982, p. 30, n. 21; Ceramiche Lenci ed Essevi 1982, fig. 41; CERUTTI 1982, p. 64; Le ceramiche Lenci 1983, p. 60; PANZETTA 1992, fig. 26, pp. 106, 149 n. 223; QUESADA 1994, p. 114; Le capitali d’Italia 1997, p. 344; Le ceramiche Lenci 2000, p. 113; PROVERBIO 2001, p. 367, n. 3; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 46, 123, n. 14; GARGIULO 2008b, pp. 25, 207. ESPOSIZIONI: «Mostra della ceramica italiana 1920-40», Torino 1982; «Ceramiche Lenci ed Essevi 1927-1947»,

Torino 1982; «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 1911-1946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006. [S.C.]

132. (TAV. 28) Le due tigri, 1931. Modello 83 Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 40 x 30,4 x 15,5 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 15-12-31» e simbolo grafico del decoratore Domenico Cogno (cerchio con trattino verticale). Collezione privata.

133. (TAV. 27) Le due tigri, 1929/1930. Matita e acquarello su cartoncino applicato su cartoncino. 223 x 315 (245 x 350 cartoncino) mm Iscrizione in alto a destra: «Le due tigri. N. 83 / Cart. 2»; sul cartoncino in basso a sinistra: «LE DUE TIGRI / N.o 83 / CART. 2», in basso a destra: «Lenci / V CASSINI». Collezione privata. Sandro Vacchetti ripropone il tema della sensualità femminile e del suo ambiguo e contrastato rapporto con il sesso maschile. Il mondo femminile è ancora una volta vissuto da Vacchetti in termini di attrazione e repulsione, che si manifestano in una progressiva trasformazione della figura femminile in una belva. In campo artistico, la trasfigurazione della sensualità femminile in immagini ferine e minacciose aveva già trovato ampia diffusione tra gli artisti simbolisti, i quali, accanto alla visione angelica e materna della donna, diffondono una nutrita serie di figure mitologiche o contemporanee che, attraverso la loro bellezza assoluta, spesso vagamente esotica, diventano il simbolo del peccato, della tentazione e del pericolo mortale. La misantropia simbolista trova un riscontro nell’ansia misogina tipica del periodo fascista e viene qui pienamente interpretata da Vacchetti attraverso la creazione di una donna-tigre.

La sensualità della figura femminile, che esibisce con sicurezza il proprio corpo, è aumentata dal gioco della gonna che scivola leggermente verso il basso per mostrare maliziosamente le natiche e l’inguine. La carnagione bianca del busto contrasta con i colori scuri della gonna, decorata con figure di gusto tribale, fiori e insetti. La donna cammina altera accompagnata da una tigre e accarezza dolcemente l’orecchio dell’animale. Il rapporto simbiotico e simbolico tra le due figure non è dato solo dall’atteggiamento e dalle movenze comuni, ma è reso ancora più evidente dalla trasformazione del volto della donna, che nella forma degli occhi e delle orecchie replica il muso di un felino. Anche i capelli, modellati plasticamente attraverso segni stilizzati, rispecchiano il pelo dell’animale. L’analisi del simbolo grafico posto sotto la base ha permesso di identificare il decoratore del pezzo. Si tratta di Domenico Cogno, pittore ceramista autore anche della decorazione del Gallo (cat. 134) di Vacchetti e dell’Angelus (cat. 46) e dell’Affilatura della falce (cat. 49) di Ines Grande. L’opera esposta è del tutto coerente con il bozzetto preparatorio e ne rispetta i colori e i motivi decorativi del panneggio. Esiste anche un altro disegno (GARGIULO 2008b, p. 128, n. CIII) che ripropone, in una versione semplificata, il solo decoro della gonna, successivamente ripreso per ornare il corpo del Vaso composizione (modello 172/H; PANZETTA 1992, p. 143, n. 186), attribuito a Mario Sturani e datato 1931. Nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino sono conservate due diverse immagini della scultura di Vacchetti. La prima, il cui numero è 83 (PANZETTA 1992, p. 129, n. 84), si distingue dalla fotografia 83/? (ibid., n. 85) per la cromia più chiara del fondo della gonna e per la mancanza di invetriatura. Tra gli esemplari prodotti, pubblicati in diversi volumi o osservati in altre collezioni private, si riconoscono piccole differenze nella composizione del motivo decorativo del tessuto o nelle scelte cromatiche dei capelli e del pelo. Esiste inoltre una variante caratterizzata da una decorazione uniforme dorata. Un esemplare della ceramica Le due tigri fu presentata nel 1929 presso la Galleria Pesaro e, in quest’occasione, l’inviato del «Corriere della Sera» Dino Bonardi pubblicò un interessante articolo di commento all’evento. Riferendosi all’opera di Vacchetti, ne poneva in evidenza la

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«rigidità un po’ decorativa, ma piacente». In effetti, pur ricorrendo a tematiche conturbanti, movenze provocanti e nudità esibite, Vacchetti riesce a mantenere un controllo formale che gli permette di dar vita a una scultura piacevole che può tranquillamente essere esposta all’interno di un salotto, di una sala o di una camera da letto di un’abitazione borghese poiché la componente erotica è solamente suggerita attraverso forme e movenze che richiamano l’iconografia della diva cinematografica. BIBLIOGRAFIA: Catalogo A2, n. 83; Catalogo D1, n. 83; Catalogo D2, n. 83; Ceramiche di Lenci 1929; OJETTI 1929, p. 18; BONARDI 1929; CERUTTI 1982, p. 64; Le ceramiche Lenci 1983, p. 41; ROSSO 1983, p. 157; PANZETTA 1992, p. 129, nn. 84-85; Invito al collezionismo 1992, fig. 9, n. 9; Le capitali d’Italia 1997, p. 344; «Le ceramiche Lenci» 2000, p. 112; PROVERBIO 2001, p. 365, n. 1; TERRAROLI 2001, tav. 63; Ceramica italiana d’autore 2007, p. 178, n. 205; AUDIOLI 2008, p. 107, GARGIULO 2008a, p. 96; GARGIULO 2008b, p. 187. ESPOSIZIONI: «Mostra delle ceramiche di Lenci», Milano 1929; «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992; «Le capitali d’Italia. Torino, Roma 19111946: arti produzione spettacolo», Torino 1997; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000. [S.C.]

134. (TAV. 80) Gallo, 1933. Modello 401. Terraglia formata a colaggio e decorata a smalti policromi sottovetrina. 28 x 26 x 24,7 cm Iscrizione a pennello in nero sottovetrina al di sotto della base: «Lenci / MADE IN ITALY / 30-3-33-XI» e simbolo grafico del modellatore Domenico Cogno (cerchio con trattino verticale). Collezione privata. Sandro Vacchetti dimostra un approccio ai soggetti tratti dal mondo animale completamente differente rispetto al linguaggio messo a punto da Felice Tosalli. Se Tosalli descrive con grande fedeltà le forme e i comportamenti dei suoi animali, in Vacchetti si può riconoscere un atteggiamento meno scientifico, volto a esaltare soprattutto il valore decorativo del soggetto prescelto. Nella modellazione plastica del gallo, elementi altamente naturalistici, come ad esempio la superficie ruvida delle zampe o la definizione della zona oculare, si uniscono a una concezio-


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ne più schematica del piumaggio, distribuito secondo un andamento simmetrico e regolare. In questo modo la livrea assume una qualità puramente decorativa, molto lontana da una resa mimetica del dato reale. Anche nella decorazione pittorica si può riconoscere questa duplice valenza: se la cromia delle zampe rispetta il dato naturale e gli occhi sono restituiti con grande realismo, la decorazione del piumaggio raggiunge l’astrazione. Il corpo è infatti suddiviso in zone bianche a pallini neri o zone di due tonalità di grigio a pois bianchi. La gamma cromatica, dominata dai bianchi, dai grigi e dai neri, è accesa dal rosso brillante della cresta e dei bargigli. Di questo pezzo esistono diverse varianti, molte delle quali sono documentate anche nel repertorio fotografico della manifattura, confluito nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino. L’esemplare che più si avvicina alla scultura esposta è il numero 401 (PANZETTA 1992, p. 180, n. 443), il quale presenta un’identica livrea, fatta eccezione per la presenza di una linea nera che mette in evidenza alcuni contorni e dettagli del becco, degli occhi e del piumaggio. La ceramica è anche arricchita da un gruppo di piume dipinte sulla testa. Si registra un’ulteriore versione caratterizzata da un piumaggio suddiviso in zone bianche a pois neri e zone nere a pois dello stesso giallo vivace delle zampe e del becco (Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 81, 136, n. 49). Il gallo 401/1 (PANZETTA 1992, p. 181, n. 444) è invece una ripresa più tarda del modello plastico di Vacchetti, modificato nella decorazione da Mario Sturani. Di questo esemplare si è anche conservato il disegno preparatorio (GARGIULO 2008b, p. 95, n. XLIX), del tutto coerente con il modello tridimensionale. In questo esemplare del 1942, la dicotomia tra adesione al dato reale e decorazione astratta è del tutto annullata. Il piumaggio è infatti restituito con maggior precisione, differenziando le varie zone non solo cromaticamente, ma anche attraverso un’eterogenea trattazione della superficie, in modo da distinguere le zone del dorso e delle zampe, rivestite da piume corte e vaporose, dalle ali e dalla coda, formate da penne più lunghe e rigide. Le sculture identificate dai numeri 401/3 e 401/4 (PANZETTA 1992, p. 181, nn. 445-446) sono nuovamente opere attribuite al solo Vacchetti. Il primo esemplare si differenzia dal modello presentato in mostra per una decorazione

più naturalistica; il secondo è posizionato su una base ellittica e non è decorato. La superficie bianca è però totalmente segnata da una fitta crettatura, mentre semplici tratteggi in smalto nero sottolineano le parti terminali di alcune penne, il contorno degli occhi, la linea del becco e le pieghe delle zampe. Una riproduzione fotografica del Gallo «bianco a pois neri, cresta rosso vivo» è stata pubblicata in «Domus» nel novembre 1932, insieme ad altre due sculture della Lenci, la Rassegnazione (modello 366; PANZETTA 1992, p. 175, n. 407) di Elena König Scavini e la Madonna (modello 390/A; PANZETTA 1992, p. 179, n. 433) dell’architetto Gino Levi Montalcini. Nel testo di commento, intitolato semplicemente Ceramiche, l’autore (con ogni probabilità il direttore della rivista, Gio Ponti) sottolinea il carattere vivace del colore, la luce degli smalti e la «signorile elegante interpretazione della natura» che contraddistinguono l’opera di Vacchetti. BIBLIOGRAFIA: Catalogo D2, n. 401; Ceramiche 1932, pp. 672-673; PROVERBIO 1979, p. 34, n. 31; Le ceramiche Lenci Milano 1983, p. 60; PANZETTA 1992, pp.180-181, nn. 443-446; Le ceramiche Lenci 2000, p. 115; PROVERBIO 2001, p. 377, n. 26; Novecento a novecento gradi! 2006, pp. 81, 136, n. 49; GARGIULO 2008a, p. 101. ESPOSIZIONI: «Le ceramiche Lenci. Gli artisti. I secessionisti», Milano 1983; «Le ceramiche Lenci», Aosta 2000; «Novecento a novecento gradi! Ricerca espressiva e forme della ceramica nel Novecento storico», Montelupo 2006. [S.C.]

Sezione disegni GIGI CHESSA 135. (TAV. 7) Due figure distese, 1926. Matita e acquarello su cartoncino. 366 x 255 mm Iscrizione in basso a destra: «CHESSA / 1926». Collezione privata. Attraverso rapidi tratti di matita che definiscono contorni stilizzati riempiti con liquide velature ad acquarello, Gigi Chessa delinea due fi-

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gure sdraiate su un fianco e appoggiate sul gomito, interpretando nuovamente il tema del doppio (cat. 13) non solo in chiave di contrapposizione uomo/donna, ma anche dal punto di vista compositivo, ricorrendo a posizioni similari e simmetriche. La posa dei personaggi e i drappeggi che ne avvolgono i corpi sono un evidente riferimento alla tematica antica delle figure distese sul triclinio, citazione che diventerà ancora più evidente nella piccola scultura di Chessa intitolata La maschera (cat. 6). Allo stato attuale delle ricerche non risulta che il gruppo progettato da Chessa sia stato destinato a una produzione seriale, in quanto non si conoscono esemplari realizzati in terraglia e non si sono ritrovate immagini riferibili a questo modello tra i documenti d’epoca della manifattura, confluiti nel fondo fotografico dell’Archivio Storico della Città di Torino. L’unica ceramica conosciuta, una terracotta dipinta a olio conservata in una collezione privata torinese (GARGIULO 2008b, p. 223), deve essere considerata un prototipo, realizzato entro il 1928 come modello di prova prima di decidere se mettere l’oggetto in produzione. La gamma cromatica utilizzata per la decorazione pittorica della terracotta, basata sulle tonalità decise del nero, del blu e dell’arancio, si allontana dalle delicate tinte acquerellate del disegno, dimostrando ancora una volta le rilevanti differenze tra il progetto e l’opera finale già messe in luce nella scheda relativa ai Torsi (catt. 7-9). Insieme alla piastra a soggetto floreale realizzata da Sandro Vacchetti nel 1926 (collezione privata), il disegno di Chessa, esposto in mostra e pubblicato per la prima volta, è una testimonianza fondamentale per la ricostruzione della storia della manifattura Lenci, in quanto, grazie alla data apposta in basso a destra, offre un’ulteriore conferma alle nuove ipotesi che hanno proposto di anticipare l’avvio della produzione ceramica, o quanto meno dei primi esperimenti, dei primi progetti e delle prime prove tecniche, al biennio 1926-1927 (cfr. saggio di TERRAROLI in questo catalogo). [S.C.]

136. (TAV. 151) Decoro geometrico grigio e nero per barattolo, 1931/1934. Matita e tempera su cartoncino, montato su cartoncino grigio. 267 x 144 (315 x 245 cartoncino) mm Iscrizione in alto a destra: «Barattolo grigio e nero / Cart. 4 No 174L»; timbro a secco in basso a destra: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «D300»; in basso a sinistra sul cartoncino grigio: «BARATTOLO GRIGIO E NERO / N.o 174L / CART. 4». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 142, n. CXL.

137. (TAV. 152) Decoro geometrico grigio e nero per barattolo (elemento laterale), 1931/1934. Matita e tempera su cartoncino, montato su cartoncino grigio. 175 x 65 (245 x 113 cartoncino) mm Timbro a secco in basso a destra: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «D358»; in basso a sinistra sul cartoncino grigio: «SCATOLA / GRIGIO E NERO / N.o 331/[?] CART. 7». Collezione privata. I disegni contrassegnati dai codici D300 e D358, pur presentando la stessa tipologia di decoro, erano destinati a due diversi oggetti in ceramica. Il primo bozzetto riporta sullo stesso foglio la decorazione del coperchio circolare e del corpo cilindrico per un vaso identificato dal numero 174/L (PANZETTA 1992, p. 145, n. 199), che fa parte di una serie di numerosi barattoli, tutti della stessa forma e dimensione, decorati con diversi motivi ideati non solo da Chessa, ma anche da Mario Sturani e Sandro Vacchetti. Sebbene nel repertorio fotografico dell’Archivio Storico della Città di Torino si siano conservate solo le riproduzioni fotografiche di undici pezzi, la presenza di una ceramica con il numero 174/Q (PANZETTA 1992, p. 146, n. 203) fa ipotizzare che la serie completa dovesse prevedere almeno quindici vasi. Il secondo disegno si limita a mostrare la decorazione della superficie esterna di un portacipria cilindrico, completato da un coperchio dipin-

to con bande parallele bianche, grigie e nere, e il pomello modellato plasticamente con una composizione di bacche e boccioli di fiori. Anche in questo caso, oggetti della stessa forma erano destinati a essere decorati con motivi differenti, ideati principalmente dallo stesso Chessa. Come già sperimentato con successo da Gio Ponti nella manifattura di porcellana di Doccia, anche la Lenci accosta liberamente forme e decori, dando vita a oggetti in serie che prevedono diversi formati, decorazioni e destinazioni d’uso. Della serie di portacipria 331 (PANZETTA 1992, pp. 168-169, nn. 358-362) il catalogo della manifattura conserva otto immagini fotografiche, ma la progressione dei numeri di inventario conosciuti arriva fino alla lettera «M», indicando l’esistenza di almeno undici modelli differenti. Dalle fonti bibliografiche e dalla presenza di alcune ceramiche datate è possibile rilevare che la serie dei vasi risale al 1931, mentre i portacipria sono databili al 1934; queste informazioni ci permettono di datare con buona approssimazione entrambi i disegni e di concludere che Chessa ha ideato inizialmente il disegno D300, per poi recuperare alcuni anni dopo lo stesso motivo a fiori stilizzati nel bozzetto D358. Come già aveva fatto Sturani in alcune opere realizzate tra il 1929 e il 1930, anche Chessa aggiorna il proprio linguaggio facendo propri alcuni caratteri distintivi delle avanguardie artistiche. Entrambi introducono nella produzione della manifattura evidenti declinazioni futuriste, raggiungendo risultati interessanti. In particolare, questi disegni denunciano un evidente richiamo alla grammatica del secondo futurismo, filtrata attraverso un’ulteriore schematizzazione derivata dagli stilemi déco, che riconosce nei dipinti, nei bozzetti e negli arazzi ideati da Fortunato Depero e da Giacomo Balla il punto più alto in termini inventivi. Nei due disegni di Chessa, il legame con una certa produzione futurista si manifesta principalmente nell’interpretazione del dato reale attraverso il modello geometrico e astratto proprio dell’arte meccanica, che porta a trasformare le linee morbide dell’elemento floreale in forme nette e taglienti, come ritagliate nel metallo, e i colori naturali in cromie prive di ogni passaggio tonale. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 142, n. CXL. [S.C.]

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ELENA KÖNIG SCAVINI (attribuito a) 138. (TAV. 155) Centrotavola con pesci, 1936. Matita e tempera su carta montata su cartoncino. 166 x 340 (175 x 350 cartoncino) mm Iscrizione in alto a destra: «Centro-tavola / No 564 / Cart. 12»; in basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china nera: «P282»; sul retro una serie di numeri. Collezione privata. Il disegno esposto in mostra raffigura un nudo femminile inginocchiato su una composizione di pesci, conchiglie e polipi dipinti nelle stesse tonalità arancioni e gialle del piccolo pesce che la giovane sta sollevando sopra la testa. Anche se l’iscrizione riporta il numero 564, corrispondente in realtà a una coppa con scoiattoli di Felice Tosalli (PANZETTA 1992, p. 217, n. 689), il disegno è il bozzetto preparatorio per la ceramica numero 566, conosciuta con il titolo di Trofeo (PANZETTA 1992, p. 218, n. 691). La presenza di ceramiche datate permette di collocare anche l’esecuzione del disegno al 1936. Oltre alla riproduzione fotografica del Trofeo realizzato su modello dello studio preparatorio esposto, tra i documenti della manifattura conservati presso il Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino si trova l’immagine della variante 566/A (PANZETTA 1992, p. 218, n. 692), differente rispetto al bozzetto non solo nella decorazione, ma anche nella composizione, in quanto il gruppo plastico è collocato al centro di un largo piatto circolare. Entrambe le versioni sono opera di Elena König Scavini e fanno parte di una piccola serie di ceramiche caratterizzate dalla presenza di sirenette e nudi femminili seduti su animali marini di vario genere. La tempera, priva di firme o sigle, potrebbe quindi essere attribuita alla stessa Scavini, ma si deve comunque tenere presente la possibilità di trovarsi nuovamente di fronte a un caso di collaborazione tra diverse personalità, in quanto non sono rari i casi di opere realizzate dalla Scavini a partire da disegni ideati da altri artisti. Nello stesso periodo, ad esempio, Abele Jacopi affronta tematiche similari nel


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gruppo I tritoni (modello 577; PANZETTA 1992, p. 220, n. 704), mentre Sturani è impegnato nella progettazione di oggetti d’uso decorati con pesci ed elementi marini. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 107, n. LXVIII. [S.C.]

fase di produzione della manifattura, che corrisponde a un periodo di tempo compreso tra l’inizio degli anni quaranta e il 1964. Pur non essendo firmato, il disegno può essere attribuito con certezza a Mario Sturani, di cui si riconosce il gusto per il colore e la carica ironica e leggera che dominava anche le prime opere ideate per la manifattura torinese. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 150, n. CLIX.

MARIO STURANI

[S.C.]

139. (TAV. 159) Bruco

140. (TAV. 154) Candelabro Pesci e corallo, 1934.

Matita e tempera su cartoncino. 162 x 249 mm Iscrizioni: «1389 / + CA015»; «verde / 27»; «C05 / + 160»; in basso a sinistra «1.387 Cart. 27»; in basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a matita: «A91»; sul retro schizzo di una scodella. Collezione privata. Protagonista del disegno è un simpatico bruco verde, con la pancia gialla a pois bianchi e neri, che cammina eretto su due foglie e indossa un paio di occhiali, un cappello a cilindro blu, un colletto e un grosso fiocco annodato intorno al collo. L’autore non cerca la verosimiglianza naturalistica, ma trasforma l’animale in un pupazzo per bambini, dalle forme morbide, dai colori sgargianti e dall’aspetto divertente. Le annotazioni alfanumeriche riportate a matita si riferiscono ai codici degli smalti da utilizzare per la decorazione pittorica della ceramica, mentre la cifra 1387 riportata in basso a sinistra riguarda la numerazione del modello della relativa scultura in ceramica alta 40 centimetri, intitolata Bruco con cilindro e riprodotta nel catalogo generale dell’archivio storico della manifattura (PANZETTA 1992, p. 335, n. 1431). Purtroppo la fotografia in bianco e nero non consente di sapere se i colori brillanti che caratterizzano la tempera siano poi stati rispettati con fedeltà in fase di produzione. Dal confronto con l’immagine storica emerge una piccola differenza nella modellazione plastica relativa alla posizione dei piedini dell’animale. L’alto numero del modello permette di collocare con approssimazione il disegno e la ceramica alla terza

Matita, inchiostro e acquarello su carta, montata su cartoncino ocra. 350 x 260 mm Iscrizione in alto al centro: «Candelabro da tavola / doppio. / N. 457 / Cart. 10»; in alto al centro sul cartoncino ocra: «CV 40». Collezione privata. Il disegno di Sturani costituisce l’accurato studio preparatorio per il candelabro identificato dal numero 457 (PANZETTA 1992, p. 195, n. 544), formato da due bracci separati da una composizione con due pesci e un ramo di corallo simili ai centrotavola (Centrotavola Pesci - Pesce con corallo su piatto, cat. 104) e segnaposti ideati dall’artista nello stesso periodo. La forma dei due bracci per candele è il frutto di una rivisitazione del tema classico della cornucopia dalla superficie scanalata, ma interpretato secondo l’elegante lessico déco. La ripresa di motivi desunti dal repertorio greco, etrusco e romano costituisce uno degli elementi peculiari della declinazione italiana dell’Art Déco, che ha portato a risultati estremamente originali grazie alla sovrapposizione dell’idea di stilizzazione moderna con la semplicità insita nelle architetture e nelle decorazioni antiche. Ancora di ascendenza déco è il raffinato accostamento cromatico dei bianchi, dei rossi e dei neri che ricorda la tricromia tipica delle illustrazioni e della grafica pubblicitaria. Il candelabro fa parte di un gruppo di ceramiche comprendente una coppia di candelieri identici, ma speculari, con un solo pesce, un piccolo ramo di corallo e una stella marina (modello 458; PANZETTA 1992, p. 196, n. 547). Tra i documenti confluiti nel fondo fotografico dell’Archivio Storico della Città di Torino

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sono conservate altre due immagini relative al candelabro di Sturani, differenti solo nella cromia e nella decorazione dei pesci (modelli 457/1 e 457/?; PANZETTA 1992, pp. 195-196, nn. 545-546). Pur non essendo datato e firmato, il disegno è attribuibile con certezza a Sturani ed è databile al 1934 non solo per l’esistenza di ceramiche che riportano tale data, ma anche per la presenza di un secondo disegno, riproducente il modello del candeliere singolo, che in basso a destra reca l’iscrizione a matita «M STURANI / 1934». Di questa serie di portacandele esiste un ulteriore disegno (GARGIULO 2008b, p. 103, n. LXIV) che riunisce tutti i candelabri su un unico foglio e riporta anche le dimensioni e il valore commerciale dei singoli pezzi. Rispetto al disegno in mostra, quello pubblicato nel 2008 presenta una colorazione netta e definita, stesa per campiture piatte che rendono gli accostamenti cromatici più violenti. Come già sottolineato nelle schede relative al Centrotavola Pesci - Pesce con corallo su piatto, (cat. 104) e al disegno preparatorio per il Centrotavola Pesci (cat. 156), affini per soggetto e stile al progetto per il candelabro, l’opera si collega al repertorio di ceramiche e schizzi di soggetto zoomorfo eseguiti dall’artista negli anni successivi al viaggio a Parigi, stimolato dagli studi naturalistici a cui si dedica con costanza e passione, che troveranno applicazione nelle illustrazioni scientifiche per diversi testi di entomologia (Mario Sturani 1990, pp. 73-77). [S.C.]

141. (TAV. 156) Candelabro, 1932. Matita e tempera su cartoncino. 228 x 328 mm Iscrizione sulla base del candeliere: «MS. 32» in tempera gialla; timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «V4». Collezione privata. Il disegno, firmato e datato 1932, deve essere stato eseguito subito dopo il ritorno di Sturani dal suo soggiorno parigino e illustra il progetto per un candeliere che non risulta essere stato realizzato. La particolare struttura dell’oggetto, artico-

lata in due elementi a «U» raccordati fra loro e trasformati nei bracci del candelabro e nei piedi di sostegno innestati a una base ellittica, sembra essere una personale interpretazione e riflessione sul motivo della doppia cornucopia stilizzata, impiegato da Gio Ponti, Emilio Lancia e Tomaso Buzzi per una serie di mobili e di oggetti d’arredo a partire dall’inizio degli anni trenta. La superficie del portacandele è dipinta con un motivo zebrato in verde oliva e marrone che riprende la medesima decorazione già utilizzata da Sturani per la Ciotola Quattro cavalieri (cat. 103) del 1930. Al di sotto della colorazione a tempera della parte superiore del braccio destro è ancora perfettamente leggibile una precedente decorazione a onde semplificate, tracciate con rapidi segni di matita. Anche la rappresentazione della figurina maschile, inserita tra i due bracci del candelabro, riprende i medesimi caratteri stilistici delle figure modellate per decorare la serie delle ciotole con raccordo a ponte, caratteri riconoscibili principalmente nella stilizzazione dei tratti somatici, nella semplificazione volumetrica del corpo, nell’allungamento delle forme e nell’andamento disarticolato di gambe e braccia.

giovane seduto in una pozza d’acqua che guarda un asino a scacchi che si abbevera. Come per altri disegni esposti in mostra, non risulta che il progetto sia stato effettivamente realizzato, probabilmente per la complessità della composizione o perché non approvato dai coniugi Scavini. Il disegno, indipendentemente dalla sua funzione originaria di bozzetto preparatorio, conserva il fresco sapore d’invenzione decorativa di qualità. Nonostante mantenga il suo tipico tratto sintetico, che si risolve in contorni netti e larghe campiture di colore molto diluito, Sturani indugia nel descrivere alcuni piccoli dettagli che rendono la composizione più preziosa, come l’edera che si arrampica con movimento circolare intorno al tronco dell’albero, la gonna pinzata tra le gambe per evitare che il vento la sollevi o il piccolo scoiattolo impegnato nel rosicchiare una ghianda.

BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 81, n. XXV.

Matita e acquarello su cartoncino, applicato su cartoncino grigio. 307 x 295 (493 x 338 cartoncino) mm Sul retro, tasca contenente 4 spolveri. Iscrizioni a matita con i codici degli smalti: «Cart. 4 / Dame e alberi / No 166/4»; sul cartoncino «DAME E ALBERI / No 166 CART. 4». Firma: «M. STURANI / 29» e simbolo grafico (fiore). Collezione privata.

[S.C.]

142. (TAV. 143) Lo scoiattolo (abat-jour), 1929. Matita e tempera su cartoncino. 336 x 240 mm Iscrizione in basso a destra, a matita: «lo scoiattolo / Sturani / 1929 / abat jour»; timbro a secco in basso a destra: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P26». Collezione privata. La tempera riproduce una fanciulla dai capelli corti e dal profilo tagliente, seduta su un basso tronco spezzato mentre osserva con curiosità uno scoiattolo accovacciato su un ramo più alto. Come suggerito da Silvana Pettenati (Mario Sturani 1990, p. 135), il disegno fa parte di una serie di quattro bozzetti per abat-jour con figure di giovani appoggiati a tronchi d’albero, dalle movenze e dai caratteri stilistici simili a quelli della ceramica Pupazzo (modello 11; PANZETTA 1992, p. 118, n. 10), raffigurante un

BIBLIOGRAFIA: Mario Sturani 1990, pp. 112, 135; GARGIULO 2008b, p. 141, n. CXXXVIII.

da collocare al centro della tavola, identificata dal numero di inventario 166/A (PANZETTA 1992, p. 140, n. 163). L’oggetto era formato da una piattella circolare del diametro di 37 cm, sostenuta da un basso piede svasato; se l’interno della piattella era riccamente decorato, la parte esterna era dipinta uniformemente in smalto nero. La Coppa Dame e alberi fa parte di una piccola serie di coppe che comprendeva altre due ceramiche: la Coppa Colombi (n. 166), sempre ideata da Sturani, e la Coppa Fiori numero 166/B (PANZETTA 1992, p. 140, nn. 162, 164). Quest’ultima è decorata con una composizione floreale ideata da Gigi Chessa, probabilmente derivata dal motivo che ornava il tavolo e la credenza progettate da Chessa per la camera della prima colazione, presentata dalla ditta torinese alla Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Monza del 1923. [S.C.]

[S.C.]

143. (TAV. 140) Coppa Dame e alberi, 1929.

Il disegno raffigura un gruppo di sei donne che giocano o passeggiano in un bosco. Le figure, pur conservando caratteri fisici differenti che dimostrano la capacità del pittore di interpretare sempre in modo originale l’immagine femminile, sono accomunate da una resa stilistica che permette di identificare immediatamente l’autore del disegno. Sturani non cerca di creare uno spazio illusionistico e di dare profondità alla scena, ma sistema sullo stesso piano bidimensionale le donne e le silhouettes degli alberi, suggerendo l’effetto di figurine ritagliate e appoggiate su un fondo a puntini verdi. Il progetto era destinato alla decorazione dell’interno di una coppa, o meglio di un’alzata

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144. (TAV. 141) Coppia di danzatrici, 1930. Matita e tempera su cartoncino. 237 x 331 mm Iscrizioni a matita, sul retro in alto a sinistra: «N. 12 / Ceramiche / Figure» e schizzo di una figura. Iniziali «M. S. 30». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Mario Sturani 1990, p. 116, n. 138.

145. (TAV. 142) Gruppo scultoreo per caminetto: due donne/due uomini Matita e acquarello su cartoncino. 247 x 325 mm Iscrizioni a matita a sinistra: «2 uomini 2 donne / Gruppi / per caminetto»; sul retro in basso a destra: «Ceramiche Figure». Firma in basso a destra: «STURANI». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Mario Sturani 1990, p. 114, n. 138.

146. (TAV. 137) La moglie di Tobia Matita e acquarello su cartoncino. 302 x330 mm Iscrizione in alto a destra: «LA MOGLIE DI TOBIA»; firma autografa sotto il collo


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della testa: «Mario Sturani»; timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P33»; sul retro in alto a sinistra: «n 12 / Ceramiche / teste». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 140, n. CXXXVI.

147. (TAV. 144) Alla fonte, 1928. Tempera su carta velina. 315 x 360 mm Simbolo grafico di Sturani (fiore) e «MARIO STURANI / 1928» in alto a destra; timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI» all’interno del quale a china nera: «P22»; sul retro, in alto a destra: «n. 3 / Ceramiche / piastre». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: Invito al collezionismo 1992, n. 1; GARGIULO 2008b, p. 141, n. CXXXVII. ESPOSIZIONI: «Invito al collezionismo: la manifattura Lenci», Torino 1992.

148. (TAV. 146) Fumatore, 1928/1929. Matita e acquarello su cartoncino. 258 x 342 mm In basso a destra firma autografa: «M. Sturani»; timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / N º / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P104»; sul retro, «n. 6 ceramiche / piastre». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 147, n. CLII.

Nel periodo compreso tra il 1928 e il 1931, ossia negli anni precedenti la partenza per Parigi, Sturani fornisce alla ditta Lenci un numero impressionante di schizzi, bozzetti e disegni per ceramiche, che sono state realizzate solo in parte. Una significativa quantità di materiale rimasto solo a livello progettuale è stato depositato negli archivi della manifattura e, dopo la chiusura, è stato disperso e venduto ai collezionisti. Alcuni dei disegni non entrati in produzione si riconoscono in quanto non sono stati montati sui classici cartoncini grigi o ocra che recano le indicazioni con il titolo, il numero del modello e la cartella in cui veniva conservato, ma si presentano come fogli liberi con indicazioni sul retro che manifestano il tentativo, portato avanti probabilmente dallo stesso artista, di cataloga-

re o quanto meno di ordinare il materiale cartaceo. Per questo motivo, come rilevato da Silvana Pettenati (Mario Sturani 1990, p. 92), su alcuni disegni sono ancora leggibili le categorie e i numeri progressivi riportati sul retro: «Ceramiche figure», «Ceramiche teste», «Ceramiche piastre», «Ceramiche nudi» e «Ceramiche religiose». Anche i cinque disegni esposti in mostra fanno parte di questo nucleo: La moglie di Tobia è la dodicesima opera progettata per la serie delle «Teste», Alla fonte risulta essere il terzo progetto di una serie di piastre mai eseguite in ceramica, mentre il Fumatore è il sesto studio appartenente alla stessa categoria. La sequenza numerica fa ipotizzare la vicinanza nel tempo dei due progetti per piastre e, considerando la datazione certa della prima tempera, si può supporre che il Fumatore sia stato eseguito in un arco di tempo compreso tra il 1928 e il 1929. Appartengono invece alla serie delle figure la Coppia di danzatrici, corrispondente al dodicesimo esemplare della sequenza, e il Gruppo scultoreo per caminetto: due donne/due uomini, privo dell’indicazione numerica. La moglie di Tobia raffigura un volto femminile visto di profilo, con lo sguardo accigliato rivolto verso il piccolo insetto dispettoso che si è posato sulla punta del naso. Con pochi tratti di matita e rapide velature di acquarello, Sturani affronta un tema ricorrente nelle tempere e nei bozzetti per ceramiche, dimostrando una vera e propria ossessione per i volti stilizzati di fanciulle moderne e aggraziate, sprizzanti giovinezza e gioia di vivere, a volte interpretate in chiave fresca e ironica, altre volte trasformate in icone statiche e impenetrabili, con occhi vuoti e fissi. Alla fonte ritrae due giovani donne nei pressi di una cascata; la figura di destra cerca di consolare l’amica che ha fatto cadere in terra la brocca in argilla destinata a contenere l’acqua, una scena pervasa da quella frizzate ironia distintiva del linguaggio sturaniano. Le figure e il paesaggio sono tracciate per mezzo di volumi semplici e tratti lineari, che definiscono aree dipinte non attraverso campiture piene o tonalità sfumate, ma con tinte brillanti stese mediante una tecnica a tratteggio, limitata ai soli contorni, che lascia intravedere la carta sottostante. Sul retro della carta velina, all’interno del perimetro esterno del disegno, è steso un grossolano strato di tempera color ocra che doveva creare un delicato contrasto cromatico tra la zona dipinta e lo sfondo, il quale in origine doveva ave-

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re una tonalità più chiara, ora offuscata a causa del tempo e delle cattive condizioni in cui è stato conservato in passato. Il Fumatore raffigura un giovane affacciato alla finestra, con una sigaretta accesa in mano, che mantiene i tipici tratti stilistici delle figure di Sturani: fisico asciutto e tratti allungati, capelli che scendono sulla fronte in riccioli graficamente sintetizzati e occhi a mandorla colorati, che rievocano gli sguardi annullati dei volti di Modigliani. Nel buio della stanza, alle spalle del giovane, due figure femminili sono tratteggiate con segni rapidi e sintetici che definiscono il contorno dei volti e la folta chioma bionda, mentre macchie verde-azzurro accennano al volume degli abiti. Le protagoniste della Coppia di danzatrici, abbigliate con uno stravagante e variopinto completo, sono impegnate in un passo di danza che dà origine a un movimento ritmico e spezzato, di gusto spiccatamente déco. Sturani crea una composizione speculare e simmetrica, con le due donne contrapposte che sollevano un nastro di stoffa colorato. Il volto della figura ritratta frontalmente presenta le stesse caratteristiche stilistiche rilevate nel Fumatore; la posa dei corpi e le sciarpe svolazzanti sono invece un chiaro omaggio a Gio Ponti e alla sua Grande bomboniera “Balletto”, realizzata dalla manifattura di porcellana di Doccia a partire dal 1927 (Ceramica italiana d’autore 2007, p. 80, cat. 141) ed esposta insieme ad alcune ceramiche Lenci nel salotto della «Casa degli architetti» all’Esposizione Internazionale di Torino del 1928 (La «Casa degli architetti» 1928, pp. 20, 32). Gruppo scultoreo per caminetto: due donne/due uomini mostra due giovani che passeggiano tenendosi a braccetto, vestite con un’ampia cloche e due abiti identici, ma di differenti colori, che accentuano il fisico magro e slanciato. La postura aggraziata ed elegante si accompagna alle espressioni serene e rilassate dei volti, definiti attraverso essenziali tratti a matita e acquarello. Sullo sfondo si stagliano grattacieli di gusto futurista, gli stessi che l’artista inserisce in Regime secco (cat. 80). Lo schizzo sulla sinistra del foglio illustra chiaramente il progetto completo di Sturani: le donne dovevano far parte di due gruppi da collocare su un caminetto, composti da coppie di figure maschili e femminili.

149. (TAV. 160) Rasputin

150. (TAV. 138) Testa

153. (TAV. 153) Vaso Deserto

Matita e acquarello su cartoncino. 137 x 232 mm Iscrizioni: in alto a destra «rasputin»; in basso a destra «Mario Sturani» e timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera «P101». Collezione privata.

Matita e acquarello su cartoncino. 118 x 147 mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P110»; sul retro, parziali schizzi a matita. Collezione privata.

Il disegno, firmato ma privo di data, sembra essere il bozzetto preparatorio per una mascotte o per un pupazzo di panno probabilmente mai realizzato, piuttosto che per una ceramica. La fantasia e la genialità inventiva di Sturani gli permettono di spaziare in ogni ambito produttivo della manifattura, che lo vede impegnato non solo sul versante ceramico, ma anche nella progettazione di mobili, costumi e scenografie teatrali, tessuti e bambole. Il suo stile allegro e libero, ma sempre intelligente e innovativo, dà vita a creazioni originali, spesso incuranti delle concrete possibilità di applicazioni pratiche del modello proposto. Questa incontenibile forza creativa viene sottolineata anche dalla moglie Luisa, che nel 1936 scrive al padre: «Mettendo via tutti i disegni di Mario ho scoperto un mucchio di cose nuove e bellissime che ancora non conoscevo, ma tutti mezzi fatti e mezzi no, su carta volante, spiegazzati e impolverati. Che disordine! E che peccato che sempre cominci e mai finisca. Grandi idee, grande genialità, gran gusto e così poca fermezza e ordine. Mah, che farci? Resteranno per lo meno le sue ceramiche» (Mario Sturani 1990, p. 36). L’acquarello esposto, che raffigura un buffo animale maculato simile a un gatto, mantiene l’ingenuità ironica e infantile delle prime opere prodotte in ceramica sul finire degli anni venti e rivela lo spirito fresco e inventivo del maestro soprattutto in dettagli ironici come la coda che si avvolge intorno alla gamba, i calzini a righe o le bretelle che sostengono i mutandoni bianchi.

151. (TAV. 139) Testa Primula

Matita e acquarello su cartoncino applicato su cartoncino grigio. 98 x 132 (307 x 175 cartoncino) mm Iscrizioni: in alto a destra «Vaso deserto N. 185 a / Cart. 4 / A»; in basso a sinistra «2.502 3 04»; in basso a destra «362 H»; timbro a secco «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera «V70». Collezione privata.

BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 148, n. CLIII. [S.C.]

BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 139, n. CXXXV.

BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 81, n. XXXV.

Matita e acquarello su cartoncino. 117 x 146 mm Iscrizione sotto il collo della testa: «PRIMULA»; in basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «P120»; sul retro, parziali schizzi a matita. Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 139, n. CXXXIV.

Pur non essendo firmati e datati, l’analisi stilistica dei due disegni permette di attribuirli senza alcun dubbio a Mario Sturani e di collocarli intorno ai primi anni trenta. I due progetti non realizzati ricordano, infatti, altri bozzetti autografi e opere ceramiche come i busti della serie Stagioni (catt. 105-112), a cui sono legati non solo per i soggetti, ma anche per il taglio compositivo e per lo stile sintetico nei tratti, aggraziato nelle forme, delicato nei colori e attento ai dettagli. [S.C.]

152. (TAV. 157) Vaso Matita, acquarello e tempera su cartoncino montato su cartoncino grigio. 116 x 153 (161 x 195 cartoncino) mm Timbro a secco in basso a destra: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «V11». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 81, n. XXIV.

[S.C.]

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154. (TAV. 158) Vaso Silhouettes ed archi Matita e acquarello su cartoncino applicato su cartoncino grigio. 124 x 94 (185 x 160 cartoncino) mm Iscrizione in basso a destra «N. 173 / A / Cart. 4 / Vaso Silhouettes ed archi». Collezione privata. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 81, n. XXVI.

Questo gruppo di disegni offre un interessante esempio del vasto campionario di vasi di molteplici forme, dimensioni e decori, progettati intorno ai primi anni trenta e solo in parte prodotti. Il disegno per vaso a forma di coppa, con il classico volto femminile di Sturani che si staglia su un particolare sfondo a macchie colorate, non è mai stato realizzato, mentre il Vaso deserto è entrato in produzione a partire dal 1931 ed è identificato dal numero 185/A (PANZETTA 1992, p. 148, n. 214). Il corpo sferico del vaso, che poggia su un piede a disco e termina in un collo cilindrico, è ornato con un paesaggio desertico appena accennato dalla presenza di palme stilizzate, all’interno del quale sono collocati alcuni animali esotici: un coccodrillo a pois, le sagome di due fenicotteri in volo e due animali simili ad antilopi. Un discorso a parte merita il Vaso Silhouettes ed archi: l’oggetto non è mai stato realizzato in ceramica, probabilmente a causa della forma troppo complessa per essere destinata a una produzione seriale, ma il decoro pittorico, composto da piccoli pesci e coppie di schematiche silhouettes danzanti simili a ombre scure poste su sfondi ripartiti geometricamente in aree gialle, azzurre e bianche, è stato ripreso per decorare uno dei recipienti della serie 173, messa in commercio


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nel 1930. Di questo ricco repertorio di vasi dal corpo a campana, innestato su un basso piede troncoconico, si conservano undici varianti riprodotte nel catalogo generale, ma dovevano esistere almeno una ventina di esemplari dal momento che si conosce una ceramica con il numero 173/2A (PANZETTA 1992, p. 145, n. 195). Tra i diversi decori utilizzati per questi vasetti, alti appena undici centimetri, i più originali e divertenti sono stati creati da Sturani e Chessa, autori di motivi con paesaggi, figure, nature morte e composizioni floreali. [S.C.]

155. (TAV. 145) Pierrette (coperchio per scatola di cioccolatini), 1930. Matita e acquarello su cartoncino. 233 x 331 mm Iscrizione a matita a destra «Pierrette»; sul retro «Scatole bonbon e sorpresa per cotillon» e «61». Firmato in basso a destra: «Sturani 1930». Collezione privata. La figura delineata da Sturani nel 1930 fa parte del ricco corpus di progetti per ceramiche della manifattura torinese mai entrate in produzione. L’indicazione riportata a matita sul retro del foglio chiarisce la destinazione d’uso immaginata dall’artista: la figura non era stata pensata come piccola scultura d’arredo, ma doveva decorare il coperchio di una scatola portacioccolatini e avrebbe potuto essere acquistata in coppia con una scatola, anch’essa mai realizzata, ornata con una figura maschile affine a Pierrette per posa, abito e cromia. Pierrette è la tipica donna moderna sturaniana, vestita con un costume di carnevale dalle tinte pastello, che coniuga con originalità alcuni elementi distintivi degli abiti di diversi personaggi della commedia dell’arte, come i pon pon di Pierrot e il motivo a rombi colorati di Arlecchino. Pierrette è ripresa in un movimento morbido e flessuoso, con la testa ruotata, le gambe incrociate e le braccia ondulate, evidentemente ispirata al Maestro di danza modellato da Giminiano Cibau su disegno di Gio Ponti per la Società Ceramica Richard Ginori nel 1927 (Ceramica italiana d’autore 2007, p. 82, cat. 133). Sturani conosceva molto bene la scultura di Gio

Ponti, in quanto era stata esposta insieme ad alcune ceramiche Lenci e al suo cuscino con Gli amanti sul fiore (cfr. cat. 77) nel salotto della «Casa degli architetti», allestito in occasione dell’Esposizione Internazionale di Torino del 1928 (La «Casa degli architetti» 1928, pp. 20, 32-33). [S.C.]

156. (TAV. 69) Centrotavola Pesci Matita, acquarello e tempera su cartoncino, montato su cartoncino grigio. 288 x 165 (332 x 232 cartoncino) mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «A143»; in basso a sinistra sul cartoncino grigio: «Vaso pesci / N.o 968 cart. 20». Collezione privata. Si tratta del bozzetto preparatorio per il Centrotavola Pesci, identificato dal numero 968 (PANZETTA 1992, p. 293, n. 1153). Il disegno non illustra l’intero oggetto, ma si sofferma sul dettaglio con i pesci, il corallo e la conchiglia, risolti nella ceramica attraverso una lavorazione a rilievo che decora la parte frontale dell’oggetto, il cui corpo è modellato e dipinto a imitazione di uno scoglio. Le affinità stilistiche e compositive, unite ai numeri progressivi dei modelli, indicano che il vaso fa parte di una coppia completata dal Vaso con pesci e stella marina (modello 967; PANZETTA 1992, p. 293, n. 1154). Anche se il disegno e le ceramiche non sono datati, il numero di catalogo permette di collocare queste opere nella seconda fase di attività della manifattura, in un periodo compreso tra la metà degli anni trenta e la fine degli anni quaranta. Questa datazione risulta anche coerente con il nuovo interesse di Sturani per i soggetti tratti dal mondo animale, sviluppatosi in seguito al suo ritorno dal soggiorno parigino. Tra le opere dell’artista esposte in mostra, il disegno può essere messo in relazione con il Centrotavola Pesci - Pesce con corallo su piatto (cat. 104) e con il disegno preparatorio per il Candelabro Pesci e corallo (cat. 140). [S.C.]

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MARIO STURANI (attribuito a) 157. (TAV. 163) Progetto di allestimento per un negozio Lenci Inchiostro blu e acquarello su carta da lucido. 321 x 225 mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B. GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «M11». Collezione privata.

158. (TAV. 164) Progetto di allestimento per un negozio Lenci Inchiostro nero su carta da lucido. 497 x 230 mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B. GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «M12». Collezione privata. Mario Sturani, nell’ambito della multiforme attività progettuale svolta per Lenci, si occupò, fin dagli anni iniziali (1926-1927), della creazione dell’immagine coordinata della ditta, attraverso lo sviluppo grafico del logo, di alcune campagne pubblicitarie, delle insegne dei negozi, fino agli allestimenti degli stessi punti vendita. I due disegni in esame sono infatti proposte ideative per gli arredi di un negozio monomarca o comunque di uno spazio di rappresentanza della ditta. In particolare nel primo si nota, ricavato in un ambiente con soffitto a travi, una sorta di vano rientrante rivestito sulle pareti con vetrine contenenti bambole in feltro e, sulla sommità, oggetti in ceramica. La tipologia di questi mobili, dal profilo accoppiato e arrotondato, rivela una serrata affinità con un motivo tecnico molto caro a Sturani, applicato proprio in una serie di ampie vetrine realizzate per Lenci alla fine degli anni trenta (CASTAGNO 1990, p. 157, figg. 218, 167). Nel secondo lucido è delineata, da un punto di vista angolare, una grande stanza, delimitata a sinistra da una ringhiera e a destra dall’innesto di una scala. Al centro campeggia un ampio ta-

volo, alle pareti è visibile una boiserie che, dettando l’allineamento degli ingombri, ospita due vasti contenitori e un armadio. All’angolo opposto a quello dell’osservante è collocata una porta. Quest’ultima, dotata al centro di una finestra dalla forma polilobata, è del tutto simile a quella che si trovava presso gli uffici dell’ultima sede della ditta (divenuta nel frattempo Bambole Italiane), prima del recente fallimento. Il disegno è una derivazione, condotta a ricalco, da un foglio più completo sia nella rifinitura grafica sia nella composizione: quest’ultimo (CASTAGNO 1990, p. 145, fig. 193) comprende anche un soppalco soprastante, di cui nel foglio in esame si scorge solo la colonna portante. Inoltre nel contenitore di sinistra sono delineati gli oggetti entro celle espositive, qui non completate. Un altro foglio (CASTAGNO 1990, p. 145, fig. 194) indaga in maniera più particolareggiata il mobile, costituito da un piano liscio, da un alto zoccolo mistilineo e da una teoria di celle quadrate utilizzate per l’esposizione delle ceramiche. Lo stesso motivo di gusto arcaizzante, visibile in negativo nello zoccolo del contenitore, si ritrova in positivo nella centina del grande armadio. Anche il tavolo possiede profili mossi da analoghe cornici a lobi: a ben guardare è lo stesso magnifico arredo progettato e realizzato da Sturani che, nella realtà, lo intarsiò sul piano con una serie di decorazioni favolistiche, di cui è anche noto il bozzetto (CASTAGNO 1990, p. 150, figg. 203-204). Questo tavolo risente non poco di suggestioni chessiane, basti osservare quello esposto nello stand Lenci alla prima Biennale monzese del 1923 e quello pertinente al Museo dell’Architettura e Arti Applicate di Torino (I sei pittori 1999, pp. 98, 199). Se nel primo disegno si scorge una commistione di bambole in feltro e ceramiche, nel secondo lo spazio espositivo è dedicato esclusivamente a queste ultime (vasi, gruppi scultorei, figure religiose), suggerite dall’artista con tratti veloci. È possibile attuare una proposta di identificazione solo con il San Giorgio e il drago visibile sulla sommità della colonna in primo piano, del tutto evocativo del modello elaborato da Giovanni Grande nel 1928 (modello 58; PANZETTA 1990, p. 124, n. 55) e poi riprodotto in una seconda versione verso la fine degli anni trenta (modello 733; PANZETTA 1990, p. 252, n. 897). Nella colonna di innesto della scala è invece tracciato un soggetto imprecisato, che va a

sostituire il Galluccio di Sturani (modello 639; PANZETTA 1990, p. 232, n. 779), ben visibile nell’altro disegno da cui questo deriva. Non è agevole definire la destinazione dei due progetti, che vanno ad affiancare una nutrita serie di disegni di simile soggetto (CASTAGNO 1990, p. 167). Emerge comunque l’interesse nei confronti di una proposta standard di arredo in ottemperanza allo stile Lenci: i negozi di Milano e di Torino, gli stand di esposizioni, lo stesso spazio di rappresentanza interno all’azienda - a cui potrebbe riferirsi il disegno più articolato - vennero progressivamente progettati e adeguati da Sturani alla fine degli anni trenta con la costante di alcuni elementi, come il soppalco, le vetrine, i decori lignei in legno policromo, ancora ben visibili nel negozio di piazza Castello 33, attualmente dedicato a creazioni di moda. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 158. [D.S. - G.Z.]

159. (TAV. 149) Decoro con casette - Paesaggini Matita e acquarello su cartoncino. 177 x 201 mm Iscrizione in basso a destra: «250 / 400», timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a matita: «D108». Collezione privata.

160. (TAV. 150) Piatto con casetta (+ 2 spolveri) Matita e acquarello su cartoncino. 108 x 112 mm Spolvero 1: velina e grafite; 132 x 129 mm Spolvero 2: velina; 188 x 251 mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «D421». Collezione privata. I piccoli gruppi di case e paesaggi potevano verosimilmente essere utilizzati per decorare ceramiche di diversa natura, in quanto nel vasto repertorio della Lenci si rintracciano numerose scatole, servizi di piatti, posacenere, placchette decorative e piccoli oggetti dipinti con motivi molto simili a quelli riportati nei due disegni

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preparatori. Consultando la raccolta di immagini conservate nell’Archivio Storico della Città di Torino non si sono trovate ceramiche decorate con i paesaggi del disegno marcato D108. Il secondo bozzetto è invece stato utilizzato per decorare il piatto da portata di due servizi da tavola, identificati dai numeri 804/1 e 806/2 (PANZETTA, 1992, p. 266, nn. 980 e 983). Sebbene non sia possibile datare con precisione i due servizi, il numero del modello permette di collocarne l’ideazione e, di conseguenza, la realizzazione del disegno durante la seconda fase storica della manifattura, compresa tra la seconda metà degli anni trenta e la fine degli anni quaranta. Entrambi i disegni sono privi della firma del loro esecutore, ma un confronto con le case che ornano il Vaso Paesaggio (cat. 115) potrebbe far ragionevolmente attribuire i progetti a Mario Sturani. In effetti, le silhouettes degli alberi, le forme geometriche delle abitazioni, la stilizzazione del segno e i colori brillanti rivelano evidenti affinità non solo con il vaso citato, ma anche con alcuni dipinti di paesaggio eseguiti dall’artista. Il disegno Piatto con casetta è accompagnato da due veline per lo spolvero, una delle quali presenta ancora tracce della grafite usata durante la lavorazione. Si tratta di una particolare tecnica di decorazione che permette di riportare con precisione un determinato modello su una superficie. Su un foglio di carta lucida o carta velina vengono tracciati i contorni del disegno preparatorio e lungo queste linee vengono praticati dei piccoli fori; quindi il foglio viene appoggiato sulla superficie dell’oggetto e con un apposito strumento imbevuto di grafite o colore si tamponano le parti perforate, la polvere penetra attraverso le fessure lasciando una traccia del contorno, che deve essere successivamente completata a mano. Nel settore ceramico, questo procedimento consente di riprodurre lo stesso motivo su più oggetti, dando vita a una produzione seriale che richiede comunque una lavorazione artigianale. [S.C.]


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161. (TAV. 148) Città - Quadro paesaggio Matita e tempera su cartoncino applicato su cartoncino grigio. 354 x 245 mm Iscrizione in basso: «Città / No 406/0 Cart. 9»; in basso a sinistra, sul cartoncino grigio: «QUADRO PAESAGGIO / N. 453 / C. 10»; sul cartoncino grigio, in basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «D81». Collezione privata. La tempera raffigura un paesaggio urbano di gusto metafisico e futurista, con palazzi sghembi, separati da strade nere e polverose, e un cielo plumbeo coperto dalle nubi e dai vapori provenienti dalle ciminiere e dalle industrie collocate sullo sfondo, simboli della modernità che contrastano con il dettaglio della carrozza trainata dal cavallo in primo piano. L’uso di colori piatti e accesi, il tema della velocità, della modernità e della vita urbana sono certamente derivati dall’ambito futurista, mentre più affini alla pittura metafisica sono il ricorso a prospettive sfalsate, a punti di fuga multipli e a piani inclinati che rendono lo spazio instabile e straniante. L’iscrizione sul foglio indica che il disegno era destinato a decorare alcune ceramiche della serie 406 (PANZETTA 1992, pp. 182-183, nn. 455-463), corrispondente a una piccola scatola rettangolare con coperchio. Tra le fotografie d’epoca conservate nel Fondo Lenci dell’Archivio Storico della Città di Torino non compare alcuna immagine riferibile all’oggetto 406/O, ma sono comunque presenti altre nove scatole che possono far immaginare come doveva presentarsi il pezzo in questione: il corpo della scatola doveva essere dipinto con una stesura omogenea di colore bianco o nero, mentre l’elemento decorativo era rappresentato esclusivamente dal coperchio dipinto con il paesaggio urbano. L’iscrizione sul cartoncino si riferisce invece al portacenere 453 (PANZETTA 1992, p. 194, n. 534), dipinto con lo stesso paesaggio leggermente modificato per essere adattato al formato quadrato. Purtroppo nessuno dei portacenere fotografati in archivio o realizzati in ceramica riporta il nome del suo ideatore, rendendo quindi impossibile attribuire con certezza il disegno, anche se l’autore più probabile sembra essere Mario Sturani.

Anche per la datazione, ceramiche e disegno non forniscono informazioni dirette e ci si deve limitare a una valutazione dei numeri dei modelli, che consente di collocare con buona approssimazione le scatole, i posacenere e, di conseguenza, il disegno preparatorio intorno alla metà degli anni trenta. BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 131, n. CXIII. [S.C.]

FELICE TOSALLI 162. (TAV. 161) Scimmia e orsacchiotto, ante 1932. Acquarello su carta, applicato su cartoncino grigio. 205 x 130 (245 x 172 cartoncino) mm In basso a sinistra monogramma di Felice Tosalli («FT» in un triangolo); in basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «A140»; in basso, sul cartoncino grigio: «Cartella Animali N.o 340 Orsacchiotto». Collezione privata. I disegni di Felice Tosallli, solitamente realizzati a matita e acquarelli, si caratterizzano per la sicurezza del tratto e per l’elevata capacità di restituire con fedeltà il dato reale, dimostrando una completa padronanza dei mezzi tecnici a disposizione e una perfetta conoscenza delle tematiche animaliste. Come già ricordato da Alfonso Panzetta (1990, p. 35), nel processo creativo di Tosalli il disegno rappresenta il momento più importante, spontaneo e immediato, carico di un effettivo significato preparatorio e progettuale. In questa fase l’artista ha la possibilità di studiare le caratteristiche fisiche del soggetto prescelto, analizzandone le movenze, le forme e gli atteggiamenti. Soffermandosi soprattutto sui dettagli anatomici e sul loro variare in base alla posa assunta, Tosalli può scegliere con maggior sicurezza la posizione migliore da far assumere al suo soggetto e variarla a seconda degli effetti desiderati. Inoltre, in questa fase è già in grado di immaginare il risultato finale dell’opera, sia questa realizzata in legno o in ceramica.

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Il disegno esposto è, in realtà, lo studio preparatorio per due diverse opere a soggetto zoomorfo. Lo studio della scimmia cappuccino è destinata a un gruppo composto da una scimmia con in mano un frutto, seduta sulla seconda gobba di un cammello. La posa e l’atteggiamento dell’animale sono quindi molto differenti rispetto al bozzetto preparatorio, ma la scimmia modellata e dipinta mantiene tutte le caratteristiche fisiche esaminate nell’acquarello. Di questa ceramica si conoscono tre diverse varianti: il gruppo intitolato Cammello e scimmietta, risalente al 1932, è identificabile dal numero 339 e costituisce il modello base da cui prendono origine le altre due versioni (PANZETTA 1992, p. 170, n. 370). Il modello 339/A (PANZETTA 1992, p. 170, n. 371) corrisponde, invece, a un piatto decorativo in smalto colorato su un lato del quale è collocato il gruppo con i due animali. Infine, il numero 339/? (PANZETTA 1992, p. 170, n. 372) si riferisce a un pezzo identico al modello base, ma privo del basso piedistallo rettangolare su cui è solitamente collocata la scultura. Il lato destro del foglio è riservato allo studio di un orso bruno. Tosalli ha ideato diverse ceramiche con protagonista uno o più orsi, ma questo disegno può essere messo in relazione con la ceramica Orso, identificata dal numero 340 (PANZETTA 1992, p. 170, n. 373). Rispetto al bozzetto, l’animale mantiene la posizione eretta sulle zampe posteriori, ma la testa è rivolta verso il lato opposto, ha la bocca spalancata e i denti in vista. Nel modello scultoreo si perde quindi l’aspetto tenero e sereno dell’animale descritto nel disegno. Anche in questo caso è stata realizzata una variante, il cui numero di riconoscimento è 340/A, che utilizza la figura dell’orso come decorazione per un portacenere (PANZETTA 1992, p. 170, n. 374).

163. (TAV. 162) Formichiere Acquarello su carta, applicata su cartoncino grigio. 205 x 130 (245 x 163 cartoncino) mm In basso a destra timbro a secco: «COLLEZIONE / B GARELLA / No / DISEGNI LENCI», all’interno del quale a china nera: «A133»; in basso sul cartoncino grigio: «Cartella Animali N354 Formichiere». Collezione privata. In questo disegno, Tosalli raffigura un formichiere gigante, analizzando con precisione quasi scientifica tutte le principali caratteristiche fisiche dell’animale. Il formichiere solleva in alto il suo muso conico a forma di proboscide, che termina in una bocca stretta. Gli occhi e le orecchie sono minuscoli, mentre la coda è molto lunga e pelosa. Le zampe anteriori sono robuste e dotate di lunghi artigli ricurvi. Il corpo, dalla forma allungata e schiacciata lateralmente, è ricoperto da una pelliccia ruvida e folta. Tosalli modifica però il colore del manto, sostituendo la tradizionale tonalità grigia con un marrone più caldo, mentre mantiene la striscia nera bordata di bianco presente lungo i fianchi. Il disegno è lo studio preparatorio per la scultura in ceramica conosciuta come Formichiere, indicata nel catalogo dell’archivio storico della manifattura con il numero 354 (PANZETTA 1992, p. 173, n. 392). BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 135, n. CXXIII. [S.C.]

SANDRO VACCHETTI 164. (TAV. 147) Vaso Circolo Pikwick Matita e tempera su cartoncino, applicato su cartoncino grigio. Coperchio Ø 110 mm; decoro laterale 370 x 154 mm; cartoncino 490 x 328 mm Sul retro, tasca contenente 3 spolveri. Iscrizioni a matita con numeri dei codici degli smalti; iscrizione sul cartoncino grigio: «VASO CIRCOLO PIKWICK / N. 174/M CART. 4». Collezione privata. Come indicato nel cartoncino grigio su cui sono montate le due tempere, l’inedito disegno di Sandro Vacchetti rappresenta il modello grafico per il Vaso Circolo Pikwick, identificato dal numero di inventario 174/M. L’esemplare ideato da Vacchetti è dunque una delle numerose varianti decorative per la serie di scatole cilindriche numero 174, di cui fa parte anche il Decoro geometrico grigio e nero per barattolo di Gigi Chessa (catt. 136-137). Sebbene il vaso di Vacchetti non compaia nelle fonti bibliografiche, il pezzo è certamente stato prodotto, come testimoniato dalla carte da spolvero con tracce di grafite conservate nella tasca posta sul retro del cartoncino e dalle riproduzioni fotografiche pubblicate nei cataloghi merceologici datati tra il 1933 e il 1935 (Cataloghi D1 e D2, n. 174/M; PROVERBIO 1979, p. 107, n. 200). Si segnala che l’immagine ri-

BIBLIOGRAFIA: GARGIULO 2008b, p. 136, n. CXXVI. [S.C.]

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portata nel catalogo generale redatto da Alfonso Panzetta non trova un’effettiva corrispondenza con il Vaso Circolo Pikwick, ma raffigura un differente modello della serie 174 (PANZETTA 1992, p. 146, n. 200). Il disegno circolare, decorato con gruppi di nuvole e un arcobaleno su cui è appollaiato un volatile, illustra il decoro del coperchio, mentre la tempera sottostante mostra il più articolato sviluppo della decorazione del corpo del vaso. Vacchetti immagina quattro figure maschili accompagnate da un cane che camminano in un prato fiorito, con una casa di campagna sullo sfondo. Gli elementi del paesaggio e le figure emergono da uno sfondo nero, che dovrebbe far risaltare i colori brillanti degli smalti utilizzati durante la decorazione pittorica delle ceramiche. Pur nella semplificazione delle forme e dei volumi, Vacchetti si sofferma nel descrivere con attenzione i particolari più minuti, tra i quali si evidenziano i dettagli degli abiti, le espressioni dei volti e i fiori del prato. Come suggerito dal titolo, la scena principale è ispirata al Circolo Pickwick, il primo romanzo scritto da Charles Dickens. Pubblicato nel 1836, il libro racconta il viaggio compiuto dal signor Samuel Pickwick, fondatore dell’omonimo circolo, e dai suoi tre amici attraverso l’Inghilterra del primo Ottocento. Lo spirito burlesco e ironico del romanzo viene conservato anche nel disegno, popolato da buffe figure, come il personaggio panciuto tranquillamente addormentato in una carriola spinta da uno dei suoi compagni di viaggio o il cane che incede fiero e sorridente. [S.C.]


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Biografie degli artisti A CURA DI STEFANIA CRETELLA

NILLO (PASSIONILLO) BELTRAMI (Fornero, Novara 1899 - Viverone, Biella 1988) Dopo aver studiato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, frequenta lo studio dello scultore Edoardo Rubino e inizia la carriera come autore di opere funerarie e celebrative, tra cui si ricordano il Monumento ai Caduti di Saint-Vincent, il busto in bronzo di Giuseppe Garrone al palazzo di Giustizia di Roma e sette interventi al Cimitero Monumentale di Torino. In seguito si dedica a una serie di opere di dimensioni ridotte che testimoniano la sua vicinanza alle forme e al gusto di Arturo Martini. Partecipa alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino, a partire dal 1925, e a quelle del Circolo degli Artisti, dal 1927. Nel 1930 espone un angelo per altare alla Mostra di Arte Sacra di Roma ed è presente all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di Monza con l’opera L’Angelo, per il quale gli viene anche assegnato il premio ENAPI; nel 1932 partecipa alla Biennale di Venezia con il bronzetto La Vittoria. Nillo Beltrami lavora frequentemente con il materiale ceramico a partire dalla fine degli anni venti. Per la manifattura di ceramiche Richard-Ginori di Mondovì esegue una Madonna con bambino, mentre la collaborazione con Lenci gli permette di progettare sei diverse sculture di soggetto femminile, nessuna delle quali venne presentata alla mostra organizzata nel 1929 dalla manifattura negli spazi della Galleria Pesaro di Milano. Successivamente, realizza una serie di dieci formelle in ceramica smaltata in bianco, dedicate ai Miracoli di Sant’Antonio da Padova. Nel 1952 partecipa alla Quadriennale di Torino esponendo le sue prime opere in mattone. Sono lavori fondamentali nel suo percorso artistico in quanto rivelano una nuova volontà di sperimentazione che caratterizza la fase finale della sua attività. Negli anni successivi è protagonista di diverse mostre personali a Milano, Venezia e Torino, e nel 1956 partecipa alla Biennale di Venezia con cinque opere in mattone. Negli anni sessanta affianca l’attività artistica con quella didattica, insegnando prima all’Istituto d’Arte per la Ceramica di Castellamonte e poi al Liceo Artistico e all’Accademia Albertina di Torino. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Le ceramiche Lenci 1983, pp. 10-11; PANZETTA 1992, p. 401.

PAOLA BOLOGNA (Torino 1898-?) Membro di una famiglia nobiliare, la baronessa frequenta l’Accademia Albertina di Torino e nel 1918 fa la sua prima apparizione pubblica presentando alcuni suoi lavori alla Mostra degli Amici dell’Arte di Torino. Nel 1927 espone a Budapest e da quell’anno partecipa alle rassegne

della Promotrice di Belle Arti di Torino. Dalla metà degli anni venti si dedica principalmente all’illustrazione per libri e per giornali. Presso l’editore Paravia illustra diversi romanzi, tra i quali si ricordano I giocattoli di zia Mariù di Paola Carrara Lombroso (1921), La mummia in fondo al mare di Vittorio Emanuele Bravetta (1928) e Storie allegre ripresentate ai ragazzi da Nonno Pazienza di Carlo Collodi (1945). Negli anni trenta collabora con la manifattura Lenci, specializzandosi nella creazione di Madonne e soggetti religiosi. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Gli anni Trenta 1982, p. 582; PROVERBIO 2001, p. 77; PANZETTA 1992, p. 401.

LUIGI (GIGI) CHESSA (Torino 1898-1935) Dopo un primo periodo di formazione presso lo studio del padre, il litografo e pittore Carlo Chessa, nel 1914 inizia a frequentare l’Accademia Albertina e in particolare i corsi di Disegno e di Figura. Nel 1917 lascia l’Accademia per dedicarsi alla pittura sotto la guida di Agostino Bosia e l’anno successivo esordisce alla Promotrice di Belle Arti di Torino con opere tardo impressioniste. All’inizio degli anni venti entra in contatto con Felice Carena, suo futuro cognato, e soprattutto con Felice Casorati, che lo introduce nel clima stimolante e vivace che ruota intorno a casa Gualino. Durante il biennio trascorso ad Anticoli con il cognato conosce la pittura di Ubaldo Oppi e Armando Spadini e dipinge una serie di paesaggi che verranno poi esposti alla Prima Quadriennale di Torino. Il suo primo articolo critico viene pubblicato nel 1919 nella rivista di Piero Gobetti «Energie Nuove», inaugurando un’attività che lo porta sul finire degli anni venti a scrivere prima per «Domus» e poi per «Le arti plastiche» e «La casa bella». Alla Biennale di Venezia del 1922 ha la possibilità di visitare la mostra dedicata a Cézanne e ai postimpressionisti: un incontro che influenza la sua pittura in chiave volumetrica e luministica. Nello stesso anno inizia la proficua e duratura collaborazione con la ditta torinese Lenci, per la quale progetta mobili, cappelli, bambole, tessuti e tappeti di un colorato e raffinato gusto déco, che si alleggerisce e si semplifica negli anni trenta. Nel 1923 partecipa con la ditta alla Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza e riceve il diploma d’onore. Per l’occasione progetta due ambienti della sezione piemontese dedicati al mondo dell’infanzia: la Sala della prima colazione e la Sala delle bambole. Nello stesso anno espone come pittore alla Quadriennale di Torino e, presentato da Felice Casorati, alla «XIV Mostra di Ca’ Pesaro» di Venezia. Nel 1925 è presente all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi con una stanza per bambini e una farmacia. Chessa si dedi-

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ca con costanza anche alla pittura di paesaggi, nudi e nature morte e, nel 1926, viene invitato a partecipare alla Prima Mostra del Novecento Italiano a Milano, cui però non prende parte. Parallelamente alla sua attività di pittore e collaboratore della Lenci, inizia a lavorare in ambito teatrale come scenografo e costumista. In qualità di architetto, decoratore e scenografo, su incarico di Riccardo Gualino, ristruttura e arreda il Teatro di Torino (distrutto durante i bombardamenti nel 1942) e cura gli allestimenti dell’Italiana in Algeri, dell’Alceste e della Sacra rappresentazione di Abraham e Isaac. Nel 1926 viene chiamato a collaborare con il Metropolitan di New York per l’allestimento de La Giara, mentre l’anno seguente inizia a insegnare Scenografia presso la Scuola Superiore di Architettura di Torino. Sempre nel 1927 espone alla Terza Biennale delle Arti Decorative di Monza, dove realizza il progetto della «Piccola farmacia», presentata nella «Via dei negozi», allestita dalla sezione piemontese. Nel 1929, sotto la guida di Lionello Venturi nasce il Gruppo dei Sei di Torino, formato da Chessa insieme a Jessie Boswell, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci. Nel frattempo continua la sua proficua collaborazione con la manifattura Lenci, per la quale inizia a ideare e produrre anche opere ceramiche. Nel 1929 partecipa all’esposizione della Galleria Pesaro come ceramista, presentando diverse piastrelle e piccole sculture. La sua prima mostra personale è del 1931 alla Sala d’Arte Guglielmi di Torino, dove espone opere che, secondo Lionello Venturi, dimostrano la perfetta assimilazione della lezione di Cézanne, di Soffici e della tradizione ottocentesca dei macchiaioli toscani e dei romantici lombardi. Come architetto, partecipa alla Prima Mostra di Architettura Razionale a Roma, progetta i padiglioni dei fotografi e delle Valli di Lanzo all’Esposizione di Torino del 1928 e, in collaborazione con Alberto Cuzzi, la villa Borsetti a Balme. In qualità di arredatore, progetta gli interni per la ditta Solaro e per la casa di Gualino; nel 1933 collabora con Gino Levi Montalcini e Giuseppe Pagano alla realizzazione della Sala dell’estate, allestita in occasione della Quinta Triennale di Milano. Negli anni trenta collabora nuovamente con Cuzzi per la progettazione degli arredi in alluminio e cristallo per il bar Fiorina di Torino, realizzati dalla ditta Luigi Colombo. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: PROVERBIO 1979, p. 211; Dizionario biografico degli italiani 1980, vol. 24, pp. 177-179; DE GUTTRY, MAINO e QUESADA 1985, pp. 142-151; Gigi Chessa 1987; Galleria Sabauda 1987, pp. 203-204; TERRAROLI 2001, p. 52; Il déco in Italia 2004, p. 347.

GIULIO DA MILANO (Nizza 1897 - Torino 1991) Nato da madre francese e padre italiano, musicista all’Opera di Nizza, trascorre l’infanzia in Francia, per poi trasferirsi a Torino nel 1914. Qui s’iscrive all’Accademia Albertina di Belle Arti e segue i corsi di Giacomo Grosso e Cesare Ferro, ma sono soprattutto i soggiorni a Parigi a influenzare il suo linguaggio artistico. Nella capitale francese frequenta l’ambiente di Montparnasse ed entra in contatto con i temi e i motivi stilistici impressionisti e postimpressionisti. La critica ha più volte messo in relazione lo stile pittorico di Da Milano con le opere di Delacroix, Renoir, Van Gogh, Matisse, Daumier e con gli artisti che vivevano e lavo-

ravano a Montparnasse, come Derain e De Vlaminck. Il clima internazionale scoperto a Parigi e i suoi rapporti con Edoardo Persico lo inducono a maturare l’idea di fondare un gruppo di artisti torinesi, capace di liberarsi da una visione provinciale dell’arte e aprirsi a esperienze europee. Da questo iniziale progetto prende vita, nel 1929, il Gruppo dei Sei di Torino, di cui Da Milano non farà però parte, pur mantenendo stretti rapporti di amicizia con Gigi Chessa e con gli altri membri del gruppo. Nel 1927 ha luogo la sua prima mostra personale agli Amici dell’Arte, dove ottiene anche la medaglia d’argento del Ministero della Pubblica Istruzione. Nello stesso anno partecipa alla Quadriennale di Torino con un insolito bozzetto per pala d’altare, intitolato L’estasi di San Francesco. Nel 1929 espone alla Promotrice di Belle Arti di Torino e un suo olio su cartone, la Strada di città, viene acquistato dalla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, che conserva anche un altro dipinto acquistato nel 1940. Come pittore, dal 1930, partecipa a numerose edizioni delle biennali di Venezia, alle quadriennali e alla Permanente di Milano, ai premi Michetti e Bergamo. Oltre a esporre in occasione di importanti collettive, diverse gallerie di Torino e Milano organizzano sue mostre personali. Tra il 1929 e il 1930 si colloca la sua esperienza alla Lenci, dove non si limita a realizzare i modelli per ceramiche, ma diventa insegnante di scultura di Elena König Scavini, aiutandola anche nella modellazione di alcune opere. Tra le ceramiche esposte nella mostra della Galleria Pesaro a Milano si contano cinque modelli di Da Milano: Arlecchino e Arlecchina (cat. 16), Damina che canta (modello 135), Piatto Pescatore (modello 141), Piatto Danzatrici (modello 151) e Donna con cactus (modello 153, cat. 17). Da Milano si occupa anche con continuità di grafica e illustrazione. In campo editoriale, crea nuovi caratteri tipografici e s’interessa alle varie tecniche di stampa e impaginazione. Diventa direttore della rivista «Graphicus» e collabora alla formazione dell’Istituto Superiore di Arti Grafiche Bodoni di Torino. Nel 1934 partecipa al concorso dell’illustrazione del libro nell’ambito della mostra degli Amici dell’Arte. In questa occasione, il re Vittorio Emanuele III acquista alcuni suoi disegni. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Giulio da Milano 1969; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 18-19; Galleria Sabauda 1987, pp. 206-207; PANZETTA 1992, p. 402; Il Novecento 1993, pp. 291, 629.

TEONESTO DEABATE (Torino 1898-1981) Dopo aver completato gli studi superiori alle scuole tecniche, s’iscrive all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e segue i corsi di Giacomo Grosso e Luigi Onetti. Nel 1917 interrompe gli studi per arruolarsi come volontario per la guerra e di questa esperienza restano alcuni disegni. Tornato a Torino nel 1918 e diplomatosi all’Accademia, inizia a dedicarsi con uguale intensità alla pittura e alle arti decorative, in un continuo scambio dialettico che caratterizza la sua intera attività. La sua prima apparizione pubblica come pittore risale al 1920, quando partecipa a una mostra collettiva degli Amici dell’Arte di Torino, mentre nel 1922 espone alcune opere alla Promotrice di Belle Arti. Tra il 1921 e il 1924 si occupa di ceramica, collaborando con la manifattura Galvani di Pordenone e con la ditta Vittoria di Mondovì, di cui diventa direttore artistico. In occasione della Prima Biennale di Monza del 1923, espone al-

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cune ceramiche collocate nella piattaia della Sala della prima colazione, prodotta proprio da Lenci su progetto di Chessa. Nello stesso anno, comincia a collaborare con Chessa e, in seguito, lo affianca nel riallestimento del Teatro di Torino. Accanto agli impegni come pittore e designer, tra il 1923 e il 1926 ha la possibilità di collaborare come illustratore per le riviste «L’ora del the» e «Cuor d’oro», che pubblicava anche lavori di Da Milano e Quaglino. Nel 1927 è presente in diverse rassegne: partecipa alla Mostra del paesaggio piemontese e alla Quadriennale di Torino, all’Esposizione nazionale di Firenze e alla Terza Biennale di Monza, dove predispone la Sala per un centralino telefonico della società STIPEL e progetta alcuni mobili per la «Piccola farmacia» di Chessa. Questo è anche l’anno in cui inizia la sua collaborazione con Lenci. Per la manifattura piemontese, oltre alle ceramiche Hawaiana (cat. 19) e Cameriera con gatto (modello 47), fornisce alcuni disegni per la realizzazione di tappeti, arazzi e vasi. L’anno seguente è coinvolto attivamente negli allestimenti per l’Esposizione Internazionale di Torino, realizzando le decorazioni parietali per il padiglione delle feste e della moda e per il padiglione della mutualità e assistenza. Si occupa anche dell’intero progetto per il padiglione dei ceramisti e dei vetrai, dove vengono esposte anche opere della Lenci. Alcune decorazioni murarie realizzate sul finire degli anni venti rivelano l’influenza del futurismo torinese, assimilato nella versione «astratto-macchinista». Tra il 1929 e il 1970 insegna alla Scuola Superiore di Architettura di Torino, poi trasformata nella Facoltà di Architettura del Politecnico. Nel 1930 torna nuovamente a Monza, dove organizza con Quaglino e Da Milano la Sala dei due sergenti. Nello stesso periodo inizia a lavorare per alcune manifatture tessili di Zoagli. Si occupa anche di scenografia teatrale e cinematografica, realizzando ad esempio le scene e i costumi per il film Don Bosco di Goffredo Alessandrini. Durante gli anni trenta e quaranta continua a dividersi tra la pittura, partecipando a molteplici esposizioni nazionali e internazionali, e l’arredamento d’interni, elaborando numerosi progetti di carattere innovativo. Dal secondo dopoguerra, i temi pittorici più ricorrenti sono paesaggi, nature morte e figure, realizzate secondo stilemi tradizionali basati su un armonico rapporto tra luce e colore. La sua partecipazione a mostre personali ed eventi collettivi prosegue con regolarità fino agli anni sessanta, quando inizia a preferire lunghi soggiorni sul lago d’Orta, a Venezia e in Val di Susa, durante i quali dipinge in prevalenza paesaggi. Dopo il 1970 i temi più ricorrenti tornano a essere le nature morte e i nudi. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Dizionario biografico degli italiani 1987, vol. 33, p. 191-193; Teonesto Deabate 1984; 900 piemontese 1986; Galleria Sabauda 1987, pp. 207-208; PROVERBIO 2001, pp. 111-112; PANZETTA 1992, p. 402; Teonesto Deabate 2004.

tive. La sua prima apparizione pubblica risale al 1928, quando presenta un bronzo di soggetto sacro all’Esposizione Nazionale della Promotrice, a cui partecipa anche l’anno seguente con una fontana. Da questo momento in poi si registra una sua costante partecipazione all’Interregionale di Firenze, alle mostre della Promotrice e alle mostre sindacali di Asti, Alessandria, Casale e Novi Ligure. Nelle recensioni, pubblicate tra il 1930 e il 1932, Emilio Zanzi riconosce in Claudia Formica una delle poche donne a saper usare la stecca e lo scalpello e riferisce di alcuni piacevoli bozzetti per fontane e sculture da giardino. Nel 1933 alla Mostra intersindacale di Firenze espone Donna mediterranea, una scultura in pietra a grandezza naturale, mentre nel 1938 interviene alla collettiva romana di artisti piemontesi e alla Biennale di Venezia con il bronzo Il ritratto della sorella, opera acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino. L’anno successivo riceve il riconoscimento speciale del premio Bagutta-Spotorno e realizza la Fontana della Giovinezza, con una scultura in bronzo, per il comune di Poirino. Il 1941 è l’anno della sua prima mostra personale e del premio di riconoscimento del Sindacato Belle Arti di Torino. Le opere del periodo iniziale si caratterizzano per una tendenza alla stilizzazione di ascendenza arcaica, per poi virare nella seconda metà degli anni trenta verso gruppi monumentali di matrice novecentista, piccole sculture di carattere aneddotico e gruppi bronzei agili e dal modellato vibrante. Si cimenta anche con la terracotta, riprendendo forme e modelli della statuaria toscana rinascimentale. Dopo la seconda guerra mondiale, ottiene numerose commissioni pubbliche e si dedica soprattutto a monumenti funerari, soggetti sacri e monumenti celebrativi. Tra questi, si ricorda in particolare il Monumento ai partigiani sul piazzale del Municipio di Rivoli, composto da sei bassorilievi con scene di combattimento. Intanto continua a partecipare a esposizioni pubbliche come la Biennale di Venezia del 1950 e la Quadriennale di Roma del 1959-1960. La sua ultima mostra personale risale al 1983. Accanto alla sua attività di scultrice, tra il 1927 e il 1930 collabora con la manifattura Lenci, per la quale realizza pochi modelli per ceramica incentrati sulla rappresentazione del nudo femminile. L’unica opera di Claudia Formica esposta in occasione della mostra milanese del 1929 è La principessa e la rana (cat. 20). BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Le ceramiche Lenci 1983, pp. 22-23; Galleria Sabauda 1987, pp. 220-221; PANZETTA 1992, p. 403.

(Nizza Monferrato, Asti 1906 - Torino 1987) Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Torino dove studia scultura con Edoardo Rubino ed Emilio Musso. In seguito si trasferisce a Firenze per perfezionarsi con Guido Calori e ha modo di conoscere le opere di Libero Andreotti. Secondo alcune fonti, durante il periodo di formazione avrebbe anche compiuto un viaggio di studi a Parigi. Tornata a Torino apre un proprio atelier e inizia a partecipare a manifestazioni esposi-

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Mostra retrospettiva 1942; Giovanni Grande 1970; La metafisica: gli anni venti 1980, pp. 167-168; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 24-25; PANZETTA 1992, p. 403.

INES GRANDE (Brescia 1890 - Roma 1978) Moglie di Giovanni, lavora per la manifattura Lenci dedicandosi soprattutto a gruppi ceramici di soggetto contadino e pastorale. Tra le opere esposte in occasione della mostra del 1929 alla Galleria Pesaro, l’Angelus (cat. 46) è l’unico modello ideato dalla signora Grande. In seguito collabora con altre manifatture fondate da ex dipendenti della Lenci, come l’Essevi di Sandro Vacchetti e l’IGNI di Nello Franchini. In seguito, i coniugi Grande fondano la scuola di ceramica Laros. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Dal merletto alla motocicletta 2002.

GIOVANNI GRANDE (Torino 1887-1937)

CLAUDIA FORMICA

una mostra organizzata dalla Galleria Guglielmi di Torino e alla mostra del 1932 presso il Circolo Sociale di Cuneo. Dopo la morte dell’artista sono state organizzate due importanti mostre monografiche: la prima è stata organizzata nel 1942 da Marziano Bernardi, Edoardo Rubino e Vittorio Viale nei saloni de «La Stampa», mentre la seconda si è svolta nel 1970 presso la Galleria d’Arte Fogliato. Alla carriera di pittore Grande affianca un’intensa attività come collaboratore per la Lenci. A partire dal 1928 è impegnato nella realizzazione di numerosi modelli per ceramiche, che hanno riscosso un immediato successo di pubblico e di critica, come dimostrano le numerose riproduzioni delle sue opere su riviste come «Domus», «La casa bella» e «The Studio». Insieme a Sturani e alla König Scavini, Grande è la personalità che più di ogni altra ha influito nella storia della manifattura torinese, creando un ricco nucleo di opere di soggetto vario, ma sempre caratterizzate da un’ironia fresca e piacevole e dalla volontà d’indagare i diversi aspetti del comportamento umano. Tra le novantacinque opere presentate alla mostra sulle ceramiche Lenci svoltasi presso la Galleria Pesaro di Milano, venticinque risultano essere di Grande. Sue creazioni compaiono anche all’Esposizione Internazionale di Torino del 1928 e alla Triennale di Monza del 1930. Interrotti i rapporti con la manifattura, il suo interesse per la produzione ceramica lo spinge a fondare la Laros, una scuola di ceramica gestita in collaborazione con la moglie Ines.

Dopo aver seguito i corsi di Andrea Marchisio e Giacomo Grosso, si diploma in pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. La sua carriera inizia ufficialmente nel 1914, quando partecipa alla Biennale di Milano con La signora Giulia e Il filosofo, acquistato dalla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Si dedica soprattutto alla realizzazione di paesaggi e ritratti, esposti alla Quadriennale di Torino del 1923, alla Biennale di Venezia del 1926, all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1929 e alla mostra della Società Amici dell’Arte del 1936. Le esposizioni personali sono molto rare e si limitano a

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ABELE JACOPI (Pietrasanta, Lucca 1882-1957) Dopo aver terminato gli studi di scultura presso l’Istituto d’Arte di Pietrasanta, partecipa a numerosi concorsi toscani per la realizzazione di opere celebrative e monumentali, tra i quali si ricorda la Vittoria per il Monumento ai caduti della sua città. Partecipa anche al concorso per il Monumento al Duca d’Aosta di Torino; pur non vincendo, suggerisce l’idea di adottare il modello compositivo basato sul raggruppamento delle figure. Dal 1908 partecipa alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino. È, inoltre, l’autore della statua di San Contardo Ferrini conservata nel

Duomo di Milano. Negli anni trenta collabora con lo scultore Edoardo Rubino, con il quale realizza diverse opere monumentali. Alla loro collaborazione si deve il Monumento Nazionale al Carabiniere eretto nel giardino del Palazzo Reale di Torino, il Monumento alla Linea Gotica di Ripa di Seravezza e il Faro della Vittoria, un’imponente vittoria alata in bronzo situata sulla sommità del colle della Maddalena, nel parco della Rimembranza di Torino. La statua, donata dal senatore Giovanni Agnelli per celebrare il decimo anniversario della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale, è accompagnata da un’epigrafe dettata da Gabriele D’Annunzio. Nel 1934 inizia a lavorare per Lenci, impegnandosi soprattutto nella progettazione della serie dei costumi regionali e di figure e nudi femminili. Nonostante le difficoltà economiche in cui versa la manifattura e la ristrettezza dei mezzi tecnici a disposizione, Jacopi riesce a dar vita a sculture raffinate ed eleganti, di grande qualità estetica. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Le ceramiche Lenci 1983, pp. 26-27; PANZETTA 1992, p. 403.

ELENA KÖNIG SCAVINI (Torino 1886 -1974) Il padre di origine tedesca, dottore in chimica e scienze naturali con la passione per la pittura, giunge a Torino come responsabile della Reale Stazione Agraria; la madre austriaca è una donna colta e sensibile. Elena cresce dunque in un ambiente raffinato e culturalmente ricco di stimoli. Nel 1898, insieme alla sorella Gherda, trascorre cinque mesi con il Circo di Madame Nouma Hawa, un’esperienza che lascerà tracce in alcune sue opere ceramiche. Dopo la morte del padre, soggiorna per brevi periodi in Svizzera, Austria, Ungheria e Germania, per poi trasferirsi nel 1902 a Losanna, dove la madre aveva trovato lavoro come interprete. Nel 1905, durante un soggiorno torinese presso la sorella, compagna del poeta Ignazio Vacchetti, conosce Emilio e Sandro Vacchetti, che avranno un ruolo di primo piano all’interno della manifattura Lenci. Nel 1906 è a Düsseldorf e frequenta la Scuola d’Arte Applicata, diplomandosi in fotografia l’anno successivo. Qui apre un suo studio fotografico, occupandosi anche di batik e stampa su tessuto. Durante questo periodo di studi entra in contatto con Cläre Burchart, ceramista, progettista e modellatrice per la Rosenthal. Rientrata a Torino, nel 1915 sposa Enrico Scavini. Nel 1919, i coniugi Scavini fondano la manifattura Ars Lenci, specializzata nella realizzazione di giocattoli in legno e mobili per bambole, a cui si affianca anche una produzione di abiti, cuscini, cappelli, scialli, scarpe, tappeti, arazzi e accessori. Il successo arriva però con i pupazzi e le bambole in panno colorato, lavorato secondo una particolare tecnica perfezionata dal fratello Harald. La ditta fa la sua prima apparizione pubblica nel 1923, quando allestisce due sale alla Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza: la prima contiene vetrine che espongono bambole, mentre la seconda è pensata come una camera da colazione per bambini, realizzata su disegni di Gigi Chessa. Nel 1925 partecipa all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di Parigi dove vince il Grand Prix, sette diplomi d’onore, sei medaglie d’oro e tre d’argento; due anni dopo torna a Monza con un negozio di fiori e bambole interamente allestito dalla stessa König Scavini. Dal 1928, la

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casa torinese inizia la produzione di ceramiche artistiche, avvalendosi della collaborazione di Cläre Burchart e di molti artisti e decoratori. Elena König Scavini partecipa attivamente alla realizzazione di diversi modelli in ceramica, preferendo soggetti sacri e figure femminili di adolescenti e giovani donne, caratterizzate da un tono di spiritosa malizia e di fresca ingenuità. I soggetti modellati dalla König Scavini riscuotono immediatamente un positivo riscontro commerciale e critico, sia in Italia sia all’estero, e vengono esposti in tutte le mostre cui la manifattura partecipa. Nonostante questo immediato successo, la ditta subisce gli effetti della recessione economica internazionale, aggravata dagli alti costi di produzione dovuti all’elevato livello di perfezione tecnica sempre richiesto da Elena König Scavini. Nel 1933, è costretta a far entrare nella società il commercialista Pilade Garella e il fratello Flavio; nel 1937 la situazione economica è talmente compromessa da costringerla a cedere completamente la ditta ai due fratelli Garella. La signora König Scavini continua a lavorare per la ditta come dipendente fino al 1941. Dopo aver definitivamente abbandonato la manifattura si dedica alla scultura, all’antiquariato e all’arredamento.

e l’inedito Viaggi di Gulliver. In ambito pittorico non sceglie l’olio o la tempera, ma predilige gli acquarelli su tavola di acero. La collaborazione con la manifattura Lenci risale già al 1922, quando realizza bozzetti per giochi, bambole e arredi. Quando la ditta inizia la produzione delle ceramiche, anche Porcheddu si presta alle nuove richieste e inizia a progettare e realizzare sculture. Tra le novantacinque opere esposte alla mostra monografica milanese, l’unica opera firmata da Porcheddu è il gruppo Sposi (cat. 65). Nel 1939 si trasferisce a Bordighera e durante la guerra diventa presidente del Comitato di Liberazione Nazionale. Nel 1947 parte per Roma per un viaggio dal quale misteriosamente non fa più ritorno.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: La metafisica: gli anni Venti 1980, pp. 169-170; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 28-29; KÖNIG SCAVINI 1990; PANZETTA 1992, pp. 403-404; PROVERBIO 2001, pp. 231-234.

Nel 1904, con la famiglia si trasferisce a Torino e qui, nel 1911, inizia gli studi presso la Scuola Tecnica Plana, per poi trasferirsi alla Valperga Caluso. Nello stesso anno conosce Giuseppe Porcheddu e visita l’Esposizione Internazionale di Torino, dove osserva con interesse le opere dei disegnatori francesi presenti alla rassegna allestita presso la Società Canottieri Armida. Inizia così a coltivare la passione per il disegno, che diventa uno dei settori artistici in cui opera con più assiduità. Nel 1914 riesce a pubblicare il suo primo disegno nel giornale umoristico «Il Fischietto», mentre dall’anno successivo inizia a collaborare con la rivista «Numero», fondata e diretta da Golia (Eugenio Colmo). Anche nel periodo della guerra continua a pubblicare illustrazioni, collaborando con la rivista «Trincea». Durante una licenza, torna a Torino e supera l’esame di ammissione all’Accademia Albertina di Belle Arti, che però non frequenta. Dopo la guerra prosegue la collaborazione con «Numero» e inizia a creare illustrazioni umoristiche per il settimanale satirico «Il Pasquino» e disegni per la rivista per ragazzi «Cuor d’Oro», per la quale lavora anche Giulio da Milano. Parallelamente, inizia a occuparsi di pittura e, su suggerimento di Casorati, espone alla mostra «Vedute Torinesi» presso la Società di Belle Arti Antonio Fontanesi. All’Esposizione Internazionale di Torino del 1928 decora il padiglione di caccia e pesca e la «Casa del vino» di Giuseppe Pagano. Tra il 1929 e il 1930 collabora con la ditta Lenci, per la quale modella alcune ceramiche contraddistinte da un gusto caricaturale e umoristico affine a una certa sua produzione grafica. Alla mostra nella Galleria Pesaro del 1929 sono presenti due sue sculture: Asinello con putto (modello 71) e Bombardiere (modello 78). Il 1930 è un anno ricco di esperienze: collabora con Deabate alla decorazione della Sala dei due sergenti alla Triennale di Monza; vince il premio Raymond della Promotrice di Torino; illustra alcuni libri per ragazzi delle edizioni SEI; decora villa Ponti ad Arona; soggiorna a Parigi, dove tornerà ancora l’anno successivo. Da questo momento in poi, l’artista compie numerosi viaggi che gli forniscono stimoli culturali e soggetti sempre nuovi per le sue opere. Nel 1936 compie una crociera nell’oceano Atlantico in compagnia del giornalista Ernesto Quadrone e realizza una serie di ottanta disegni di viaggio che presenta alla Biennale di Venezia. Al suo ritorno, decora il Circolo Granata, nuova sede del To-

GIUSEPPE PORCHEDDU (Torino 1898 - Roma? 1947?) Figlio di un famoso ingegnere e costruttore, affronta gli studi classici per poi iscriversi ai corsi di architettura presso il Politecnico di Torino. La sua formazione artistica si svolge invece da autodidatta, sotto la guida di Leonardo Bistolfi, autore della prefazione della cartella Disegni di Giuseppe Porcheddu. Le prove grafiche giovanili si caratterizzano per i tratti taglienti e per la scelta di soggetti mitologici e fantastici, probabilmente per influenza del «filone del deforme» di ascendenza nordica, che Porcheddu aveva avuto modo di osservare e studiare in occasione della Prima Esposizione di Caricatura Internazionale tenutasi a Rivoli nel 1911. La sua attività di disegnatore inizia ufficialmente nel 1919, quando pubblica le sue prime illustrazioni nella rivista satirica «Il Pasquino»; a partire dagli anni venti lavora anche per «La Lettura», «Numero», «L’Illustrazione del Popolo», «La Domenica del Corriere» e «Il Secolo XX». Dal 1920 al 1929 è direttore di una collana letteraria presso le edizioni De Agostini di Novara, occupandosi anche dell’ideazione di numerose illustrazioni. Lavora per tutte le principali case editrici italiane, illustrando racconti e romanzi, tra i quali si ricordano La felicità domestica di Lev Tolstoj (1928), Angelo di bontà di Ippolito Nievo (1929), Le avventure del barone di Münchausen di Rodolfo E. Raspe (1934), I ribelli della montagna di Emilio Salgari (1941) e Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi (1942). Espone alla Fiera del Libro di Firenze e partecipa alla Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza del 1923, dove presenta alcuni lavori alla Mostra degli adornatori del libro. Dal 1922 allestisce mostre personali anche all’estero e dal 1925 partecipa alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino. Per il cinema realizza le scenografie di Ettore Fieramosca del regista Alessandro Blasetti. Esegue anche i fumetti Il castello di San Valerio, Il mistero degli specchi velati

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Disegni di Giuseppe Porcheddu 1928; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 30-31; PANZETTA 1992, p. 405; Giuseppe Porcheddu 2007.

MASSIMO QUAGLINO (Refrancore, Asti 1899 - Torino 1982)

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rino Football Club. Con Quadrone affronta anche un viaggio in Libia, dove ritorna più volte per realizzare affreschi e tempere per alberghi e chiese. Quando scoppia la seconda guerra mondiale viene richiamato alle armi per lavorare presso l’ufficio stampa della Marina. Nel secondo dopoguerra continua a produrre decorazioni murarie e illustrazioni per libri e riviste. Nel 1955, su invito di Casorati e Paulucci, ottiene la cattedra di Decorazione all’Accademia Albertina, fino a quel momento tenuta da Italo Cremona. Quaglino mantiene il ruolo d’insegnante fino al 1969. Nel frattempo continua a dipingere, disegnare, illustrare libri e partecipare a mostre collettive ed esposizioni. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Le ceramiche Lenci 1983, pp. 32-33; PANZETTA 1992, p. 405; Massimo Quaglino 1995; Massimo Quaglino 2000; 900 piemontese 2002.

GIOVANNI RIVA (Torino 1890-1973) Lavora come artigiano ebanista in una ditta di arredi sacri, specializzandosi nella lavorazione a intarsio e nella scultura in legno. Contemporaneamente segue i corsi della scuola serale municipale di disegno a Torino come allievo di Giovanni Guarlotti, che lo aiuta a inserirsi progressivamente nella cerchia di Leonardo Bistolfi, indirizzandosi verso la plastica e la scultura. Dal 1913 partecipa alle rassegne annuali della Promotrice di Belle Arti di Torino e lavora come ritrattista di divi cinematografici per i manifesti pubblicitari dei film. Due statue degli attori Leda Gys e Febo Mari sono conservate al Museo Nazionale del Cinema di Torino. Nel 1916 vince il concorso nazionale di scultura Baruzzi di Bologna con l’opera L’incubo, mentre nel 1919 ottiene l’incarico di erigere il Monumento ai Caduti di Civitavecchia. A Torino realizza le due grandi lapidi in bronzo collocate ai lati dell’entrata della galleria Subalpina, dedicate a Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti, ma l’impresa che gli permette di affermarsi nel campo artistico nazionale è la fontana Angelica di piazza Solferino, opera realizzata tra il 1922 e il 1930. L’opera, composta da quattro figure che rappresentano le stagioni, accompagnate dalle allegorie degli elementi naturali e stagionali, gli vale il premio alla Quadriennale di Torino del 1931. Durante gli anni venti lavora per la manifattura Lenci, occupandosi soprattutto della modellazione dei visi delle bambole. In ambito ceramico realizza solo due nudi femminili di gusto déco, uno dei quali presentato in occasione della mostra alla Galleria Pesaro del 1929. Negli anni trenta prosegue l’attività di scultore eseguendo alcuni monumenti per il Cimitero Monumentale di Torino e vari incarichi per il Municipio, senza abbandonare le esperienze espositive. Partecipa alla Biennale di Venezia del 1940 con il gruppo scultoreo in gesso Centauro e ninfa, ammesso al concorso di statue per giardino, e a quella del 1942 con il bronzo Riconquista, posto nel padiglione del Regio Esercito. Nel secondo dopoguerra, oltre a varie commissioni per opere cimiteriali, continua a prendere parte assiduamente a rassegne ed eventi espositivi. Nel 1970 partecipa per l’ultima volta alla Promotrice di Belle Arti e al Piemonte Artistico Culturale. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Le ceramiche Lenci 1983, p. 34-35; Galleria Sabauda 1987, p. 226; PANZETTA 1992, p. 405.

MARIO STURANI (Ancona 1906 - Torino 1978) In giovane età si trasferisce con la famiglia a Torino e s’iscrive al liceo classico Massimo D’Azeglio, dove stringe una profonda e duratura amicizia con Cesare Pavese, Massimo Mila e Giulio Carlo Argan. Prosegue gli studi al liceo Cavour che è più vicino alla sua abitazione. Durante gli anni di studio compie le prime esperienze in campo artistico: nel 1924 partecipa con lo pseudonimo di Ivan Benzina*** alla Prima Mostra di Avanguardia nel sotterraneo del teatro-caffè Romano, organizzata dal Movimento Futurista Torinese - Sindacati Artistici Futuristi. L’anno successivo presenta alcune xilografie alla Seconda Mostra d’Arte Nazionale di Foligno, conseguendo il secondo premio nella sezione del «Bianco e Nero». Nel 1924 abbandona il liceo per iscriversi all’Istituto Superiore delle Arti Decorative di Monza, con l’obiettivo di sviluppare il suo interesse per il disegno, e dove si diplomerà nell’estate del 1927. Nel 1926 vince il sesto premio per un bozzetto di cartellone pubblicitario della Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza; nello stesso anno a Torino espone alla Seconda Mostra Pro Arte e Cultura. Nel 1927 presenta quattro dipinti nella mostra «34 pittori futuristi» alla Galleria Pesaro di Milano e sempre coi futuristi espone nella palazzina della Promotrice di Belle Arti di Torino. La collaborazione con la manifattura Lenci inizia negli anni monzesi: durante le vacanze estive del 1926, o forse dopo la licenza del 1927, entra in contatto con i coniugi Scavini e inizia a fornire i primi bozzetti per scatole e tessuti. Dal biennio 1927-1928 inizia anche la produzione di ceramiche, alle quali Sturani si dedica con assiduità sviluppando un vasto repertorio di sculture decorative e oggetti d’uso. Le opere a sua firma costituiscono la produzione più caratteristica della manifattura, riconoscibile per la carica ironica e la vivace invenzione cromatica. Nel 1929 numerose ceramiche progettate da Sturani vengono selezionate per rappresentare la manifattura alla Galleria Pesaro e dei novantacinque pezzi esposti circa un terzo sono di sua invenzione. Si occupa anche della progettazione di mobili e nel 1930 realizza le camere da pranzo per la madre di Massimo Mila e per la sorella di Argan. Nell’inverno del 1931-1932 parte per Parigi dove soggiorna per un anno mantenendosi con lavori saltuari: disegnatore di copertine per la rivista «Vogue», formatore in gesso e valletto in casa di una famiglia agiata. Il suo obiettivo è però quello di diventare un vero pittore, sogno che abbandona dopo aver visto la prima retrospettiva di Picasso alla Galleria Georges Petit, un confronto che gli provoca una profonda crisi artistica. Dopo l’esperienza parigina torna a Torino e riprende per qualche tempo l’attività di disegnatore di copertine per l’editore Frassinelli, iniziata su invito di Pavese prima della partenza per la Francia. Riprende anche la collaborazione con Lenci che si protrae fino al 1964. Il lavoro alla Lenci viene ora vissuto con frustrazione, come un male necessario per garantirsi il sostentamento economico. Porta avanti anche collaborazioni occasionali come grafico e impaginatore per riviste, pubblicità e case editrici. Nel 1935 sposa Luisa, unica figlia di Augusto Monti, e nello stesso anno i coniugi realizzano un libro per bambini intitolato L’elefante con le brache. La sua vera passione sono ora gli studi di entomologia, campo nel quale la sua ricerca scientifica ottiene riconoscimenti europei. Negli anni quaranta torna nuovamente alla pittura, eseguendo una serie di piccole tempere esposte solo nel 1955 in una mostra intitolata «Pae-

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saggi minimi». Nello stesso anno espone alcune tempere alla Galleria La Bussola di Torino, ma in seguito la sua pittura torna a essere un’attività privata. Accanto al lavoro di pittore, illustratore e inventore di ceramiche, Sturani coltiva con passione le sue aspirazioni letterarie, cimentandosi in diversi testi spesso rimasti allo stato di manoscritti. In particolare, si dedica a due testi autobiografici rimasti inediti intitolati Il bruno e l’azzurro, redatto nel 1928, e Il maglione rosso, utile per ricostruire il suo soggiorno parigino. Tra il 1928 e il 1929 predispone una raccolta di undici racconti intitolata Un giorno e un anno. Nel 1942 pubblica da Einaudi Caccia grossa fra le erbe, un libro di divulgazione entomologica, mentre nel 1947 l’editore De Silva pubblica i due volumi illustrati Vita delle farfalle e La luna. Infine, sono numerose le pubblicazioni di carattere universitario edite dall’Istituto di Entomologia Agraria di Torino. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Mario Sturani 1978; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 36-37; Mario Sturani 1990; PANZETTA 1992, p. 406.

FELICE TOSALLI (Torino 1883-1958) Dopo le ore di scuola frequenta la bottega del padre falegname, dove inizia a prendere confidenza con il legno e a disegnare animali e figure. Nel 1897 frequenta i corsi inferiori all’Accademia Albertina di Belle Arti, durante i quali conosce Cesare Ferro e Sandro Vacchetti. Negli anni della formazione riceve numerosi premi e riconoscimenti e, al termine degli studi, ottiene una medaglia d’argento per il disegno e la figura. Su suggerimento del padre, per perfezionare la propria tecnica inizia a lavorare in una bottega artigiana e poco tempo dopo apre un proprio laboratorio specializzato nella produzione di sculture a grandezza naturale di soggetto sacro, destinate alle chiese torinesi. Nel 1905 decide di lasciare Torino per Parigi, dove soggiorna per due anni. Nella capitale francese lavora come intagliatore in un laboratorio di restauro e produzione di mobili a imitazione dell’antico, occupandosi della riproduzione di bassorilievi e di sculture di animali e figure. In questo periodo scopre le opere degli animalieri francesi e la passione per il mondo animale. Tornato in Italia per aiutare il padre, alterna il lavoro in bottega alla passione per la scultura di soggetto zoomorfo. Nel 1909 prende parte per la prima volta alla mostra della Promotrice di Belle Arti, dove torna nuovamente a esporre nel 1925. Come litografo, collabora con Emilio Vacchetti alla Litografia Editrice Doyen; si occupa anche di grafica, disegnando cartoline, illustrazioni per la rivista «Numero» e manifesti pubblicitari per la ditta Rolando & Brosio e per la compagnia di assicurazioni La Métropole. Durante la prima guerra mondiale presta servizio volontario all’ospedale Vittorio Emanuele e negli ospedali da campo. Finita la guerra, si trasferisce con la moglie a Revigliasco e riprende a lavorare come disegnatore. Negli anni venti si cimenta anche con la pittura muraria, eseguendo ad esempio le decorazioni del soffitto per il distrutto caffè Romano in piazza Castello e la Maddalena ai piedi di Gesù nella cappella di Santa Maria Maddalena in Montana sul colle della Maddalena. Parallelamente, continua a dedicarsi alla scultura lignea di tema mitologico e zoologico. Nel 1920 entra a far parte del Circolo degli Artisti e partecipa attivamente alle mostre e alle varie iniziative artistiche organizzate dal gruppo torinese. Nel 1921 la Galleria Vinciana di Milano prepara una

mostra collettiva con opere di Cesare Maggi, Bep del Chiappa e Tosalli. L’anno successivo è a Firenze per l’esposizione «La Fiorentina Primaverile», le cui sale erano state allestite e decorate da Galileo Chini. Nel 1923 torna a Torino, partecipa alla Biennale d’Arte di Varallo ed esegue il suo primo ritratto, cui seguiranno altri ritratti femminili e infantili. Nel 1927 inizia a dare lezioni private di scultura alla principessa Bona San Cipriano di Baviera di Savoia, che diventerà poi collaboratrice della manifattura Lenci. L’anno successivo Tosalli entra in contatto con i coniugi Scavini e comincia la sua attività come ideatore di ceramiche. Per la ditta progetta sculture di soggetto animale; in occasione della mostra tenutasi presso la Galleria Pesaro, espone Caracal (cat. 118), Barbagianni ed ermellino (cat. 120) e Centauro e faunessa (cat. 124). Nella seconda metà degli anni trenta realizza anche alcuni modelli in ceramica per la manifattura tedesca Rosenthal e nel dopoguerra presta la sua opera nei laboratori della ditta Ceramiche d’Arte Campionesi. Le sue ultime mostre, tenute nella Sala d’Arte Lombardi di Torino, risalgono al 1935 e al 1937: la prima comprende un repertorio di legni intagliati, la seconda raccoglie disegni e tavole a colori. Dopo la sua morte, Angelo Dragone e Sandro Mantovani preparano una mostra retrospettiva al Circolo degli Artisti; opere di Tosalli vengono in seguito esposte in occasione di mostre collettive e personali.

ta manifattura di bambole. Inizia così la sua lunga e proficua collaborazione con la Lenci, prima come decoratore e modellatore di visi di bambola e in seguito come ceramista. Nel 1922 diventa direttore artistico della manifattura, ruolo che mantiene fino al 1934. Nel gennaio di quell’anno decide di abbandonare la Lenci per fondare con Nello Franchini una propria manifattura di ceramiche artistiche, avvalendosi anche della collaborazione di altri dipendenti della Lenci come Otto Maraini e Ines Grande. Le opere prodotte dall’Essevi sono molto vicine per gusto, tecnica e soggetti a quanto già realizzato dalla Lenci, soprattutto per quanto riguarda i nudi femminili e le figure vestite secondo la moda del tempo. Con l’inizio del conflitto mondiale, Vacchetti trasferisce i laboratori a Carrù, ma è comunque costretto a ridurre drasticamente la produzione; negli an-

ni immediatamente successivi la ditta riprende nuovamente l’attività. Quando il figlio Giuseppe, che lo aveva affiancato come amministratore, lascia l’azienda di famiglia, la situazione si complica e nel 1952 è costretto a chiudere. Nel complesso, i modelli prodotti dalla ditta sono circa ottocento, tutti numerati, datati e siglati sotto la base. Parallelamente all’attività di ceramista, Vacchetti svolge quella di pittore e scultore, di cui si conoscono alcuni bronzi di gusto déco. A partire dal 1920 partecipa alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino e, dopo la chiusura dell’Essevi, si dedica esclusivamente alla pittura, per lo più di paesaggio. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: BILLÒ 1980; Le ceramiche Lenci 1983, pp. 40-41; PANZETTA 1992, p. 406; TERRAROLI 2001, p. 76; GARGIULO 2008a.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Felice Tosalli 1959; PANZETTA 1989; Felice Tosalli 1992.

SANDRO VACCHETTI (Carrù, Cuneo 1889 - Torino 1974) Figlio del maestro elementare del paese cresce, insieme ai suoi sette fratelli, in un contesto familiare pervaso da un forte amore per la musica e l’arte. Intorno al 1905 Sandro si trasferisce a Torino per raggiungere i fratelli maggiori Emilio e Filippo, entrambi studenti all’Accademia Albertina sotto la guida di Giacomo Grosso. Sandro si iscrive invece ai corsi serali di disegno e nudo dell’Accademia, ottenendo risultati molto positivi. Poco tempo dopo i suoi due fratelli aprono un proprio studio di pittura insieme all’amico Matteo Oliviero, che diventa il nuovo maestro del giovane Vacchetti. A questo periodo risalgono alcuni studi a matita raffiguranti figure femminili, che manifestano il precoce interesse per la raffigurazione del nudo, e una serie di paesaggi di Carrù e dintorni. In questa prima fase torinese, Vacchetti apprende le tecniche della cromolitografia e dell’acquaforte da Dalmone e Giovanni Guarlotti, e collabora con il fratello Emilio nella realizzazione di una serie di cartelloni e manifesti pubblicitari per l’industria cinematografica torinese. Nel 1914 riesce a ottenere un lavoro negli Stati Uniti come illustratore pubblicitario e litografo, e ha la possibilità di trasferirsi per tre anni a Boston, cui fa seguire anche un breve soggiorno a New York. Di questo lungo periodo americano rimangono numerosi disegni di nudi femminili; secondo alcune testimonianze, avrebbe anche iniziato a occuparsi di ceramica, realizzando piastrelle e piccoli nudi femminili di particolare successo presso gli attori cinematografici dell’epoca. È dunque durante gli anni trascorsi all’estero che matura il suo interesse per la figura femminile, più volte protagonista dei successivi lavori italiani per Lenci e per Essevi. Rientrato in Italia, i coniugi Scavini lo invitano a lavorare per la neona-

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Glossario tecnico A CURA DI STEFANIA CRETELLA

AEROGRAFO Strumento ideato verso la fine del XIX secolo, composto da una penna o una pistola collegata a un piccolo serbatoio d’aria compressa, che permette di rivestire una superficie con tracce di colore nebulizzato. Spruzzando il colore sulla superficie, anche in più strati sovrapposti, si ottengono effetti sfumati e linee delicate. L’uso di apposite mascherine consente di proteggere le parti che non devono essere dipinte. Durante i primi anni di produzione, la manifattura Lenci utilizza tale tecnica principalmente per la colorazione dei vasi e delle ciotole. Le decorazioni degli abiti e la realizzazione dei dettagli venivano invece realizzati a pennello. BARBOTTINA Argilla allo stato semiliquido, utilizzata, dopo la seconda cottura, come collante per saldare le diverse componenti di un oggetto. Viene anche utilizzata per creare una decorazione a rilievo ottenuta stendendo sulla superficie dell’oggetto appena modellato uno o più strati di barbottina, applicati a pennello o tramite l’uso di una siringa. Tra le opere esposte in mostra, la barbottina è utilizzata come collante nella Marianna (n. 39, cat. 55) di Elena König Scavini, nella Ciotola Danza sul ponte (n. 162, cat. 96) di Mario Sturani e nella Lontra e salmone su un piatto - Coppa delle lontre (n. 308/P, cat. 126) di Felice Tosalli. CERAMICA Termine di origine greca utilizzato per indicare tutto ciò che viene realizzato modellando un impasto a base di argilla e acqua, successivamente essiccato e sottoposto a cottura. A seconda dei componenti dell’impasto, della temperatura di cottura e della decorazione, i manufatti ceramici si distinguono in terracotta, maiolica, terraglia, porcellana e grés. COLAGGIO Tecnica di modellazione ideale per le piccole produzioni in serie, che sfrutta la possibilità di riutilizzare più volte lo stesso stampo ricavato da una forma in gesso. Le valve dello stampo vengono fatte combaciare e chiuse, con un solo lato aperto per consentire di versare all’interno l’argilla fluida. Una volta riempito tutto lo stampo, l’argilla viene fatta riposare per alcuni minuti. Entrando in contatto con il gesso delle forme, più poroso e assorbente, l’argilla inizia a perdere una parte della propria acqua e lo strato più superficiale si solidifica. Una volta rimossa l’argilla rimasta ancora allo stato liquido, le forme vengono aperte e viene estratto il modello. Prima di procedere alla fase di essiccazione, il pezzo viene lavorato per eliminare gli eventuali difetti e i segni delle giunzioni delle forme.

COTTURA Fase di lavorazione che segue la modellazione e l’essicazione e può essere ripetuta varie volte a seconda del tipo di ceramica e della decorazione. La difficoltà principale che si presenta in questa fase è rappresentata dalle rotture dovute a improvvisi mutamenti termici; è perciò necessario mantenere la giusta temperatura, evitando sbalzi improvvisi e ricorrendo a un riscaldamento e un raffreddamento graduali. Dopo l’operazione di cottura, la perdita dell’acqua causa una riduzione di circa 1/6-1/8 del volume dell’oggetto. Nei prodotti più semplici, privi di invetriatura e decorazioni pittoriche, è sufficiente una sola cottura a temperature differenti a seconda della plasticità dell’impasto. L’oggetto sottoposto a una sola cottura prende il nome di biscotto. Le cotture successive sono necessarie per fissare le varie fasi di decorazione e invetriatura. Si dicono «a gran fuoco» le cotture ad alta temperatura utilizzate per fissare le vernici, gli smalti e alcuni colori stesi sottovernice; mentre si dicono «a piccolo fuoco» o «a terzo fuoco» quelle a bassa temperatura, adatte per fissare i colori più delicati e ottenere effetti particolari come il lustro metallico. Secondo quanto riferito da Ugo Ojetti nel catalogo della mostra organizzata alla Galleria Pesaro di Milano nel dicembre 1929, la manifattura Lenci era solita cuocere i propri pezzi a una temperatura di 1.000 °C (OJETTI 1929, p. 25).

silice ottenuta dalla calcinazione del quarzo. La composizione è simile a quella del grés, ma si differenzia da questo tipo di ceramica per la cottura, che avviene a temperature molto più basse (circa 800 °C contro i 1.300 del grés). L’impasto, dalla colorazione bianco-avorio, può essere modellato a stampo, a colaggio o a tornio e le decorazioni plastiche e in rilievo possono essere incise o applicate tramite barbottina. Il corpo dell’oggetto può essere decorato a smalto, a decalcomania o con colori che rivestono l’intera superficie. Tra i documenti conservati negli archivi della manifattura non sono emersi appunti o riferimenti relativi alle componenti utilizzate durante i primi anni di attività per preparare gli impasti. L’unica informazione utile, sebbene piuttosto approssimativa, viene fornita da Ugo Ojetti nel catalogo della mostra sulle ceramiche Lenci presso la Galleria Pesaro di Milano: secondo il critico, Enrico Scavini avrebbe messo a punto una cera-

mica «composta di caolini nazionali mescolati, per renderli più plastici, a terra d’Olanda» (OJETTI 1929, p. 25). VERNICE - VETRINA Materiale trasparente ottenuto mescolando silice pura e ossido di piombo, macinati o ridotti in polvere e sciolti in acqua. L’oggetto, la cui superficie viene ricoperta con la vernice tramite immersione, è sottoposto a cottura. L’alta temperatura permette al piombo di reagire con la silice e trasforma i vari componenti in uno strato vetroso fortemente aderente al corpo sottostante. Oltre a conferire la caratteristica lucentezza, questa operazione garantisce l’impermeabilizzazione del pezzo. Poiché la silice fonde a temperature molto elevate (1.475-1.715 °C), l’ossido di piombo svolge anche una funzione fondente, permettendo di ridurre sensibilmente le temperature dei forni.

ESSICCAZIONE Fase di lavorazione del materiale ceramico che segue la modellazione, durante la quale il composto argilloso perde una buona percentuale d’acqua. Dopo questa fase l’oggetto subisce una riduzione delle dimensioni e assume un aspetto più compatto e stabile, che permette di ridurre il rischio di deformazioni in fase di cottura. In passato avveniva direttamente all’aria, con i prodotti disposti su ripiani riparati da tettoie. Con il miglioramento delle tecnologie e con l’avvento della produzione industriale, si sono adottati appositi locali climatizzati, in grado di controllare il tasso di umidità e di mantenere una temperatura calda, costante e uniforme. INVETRIATURA Fase di lavorazione della ceramica che prevede il rivestimento dell’oggetto con uno strato di vernice e la successiva cottura. TERRAGLIA Prodotto ceramico di origine inglese, ideato verso la fine del Seicento nella bottega di John Dwight. Diventata famosa grazie alla manifattura di Josiah Wedgwood, si caratterizza per l’impasto poroso, fine, molto denso e robusto. La terraglia è composta prevalentemente di argilla bianca e

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Elementi tecnici di archiviazione interna alla ditta Lenci e proposte di lettura per le marche delle ceramiche A CURA DI DANIELE SANGUINETI

ARCHIVIO DISEGNI All’interno della manifattura era custodito un ingente archivio di grafica, ora purtroppo in parte disperso, in parte smembrato in varie collezioni. Gli studiosi che hanno avuto la possibilità di consultarlo nell’originaria integrità (PETTENATI 1990, pp. 91-137; PANZETTA 1992) hanno restituito la natura eclettica dell’insieme, costituito da bozzetti, progetti, schizzi e spolveri per un totale di circa 2.500 fogli. Tale materiale rifletteva l’intera attività creativa della manifattura fin dalle origini, contemplando anche fogli relativi a bambole, mobili, decorazioni per scatole, fiori, arazzi, allestimenti, ossia tutta la produzione anteriore e parallela all’avvio del settore ceramico. Probabilmente la presentazione dei disegni per ceramiche alla mostra milanese del 1983 (Le ceramiche Lenci 1983) coincise con la loro prima dispersione, seguita via via da ulteriori esposizioni (Lenci 1992; Invito al collezionismo 1992) e aste (Lenci 1991). Un notevole quantitativo di fogli, assorbito da una collezione privata, venne contrassegnato da un timbro a secco circolare contenente le seguenti informazioni: «Collezione / B. Garella / No / Disegni Lenci». Nel recente volume di Maria Grazia Gargiulo (2008b), specificatamente rivolto alla grafica Lenci, Alfonso Panzetta (2008, pp. 6-7), a cui è stata affidata la presentazione, non ha usato mezzi termini nel definire «miope e irreparabile» questa dissipazione, ancor di più per non essere stata preceduta da una pubblicazione globale del fondo grafico che ne avrebbe almeno preservato la memoria. L’asse portante dell’archivio era costituito dai disegni guida utili per il decoratore, unitamente ai prototipi scultorei, nella fase dell’applicazione della veste policroma sul biscotto. Con l’avvio ufficiale della produzione di ceramica, una serie di fogli, di varia natura o specificatamente realizzati, vennero montati su un cartone pesante di colore grigio, sul quale erano riportati i dati identificativi del pezzo, ossia il titolo, il numero del modello e la cartella in cui il disegno stesso veniva riposto. Gli stessi dati erano tracciati, tramite pennino e inchiostro nero e con diversa grafia, sul foglio, generalmente un cartoncino bianco, nel tempo ingiallito, sul quale il disegno era delineato a matita e acquarellato oppure colorato a tempera. Finora sono stati reperiti cartoni di supporto di tre diversi formati (490 x 330 mm, 355 x 250 mm e 244 x 173 mm). Le due dissimili grafie lasciano presupporre un’archiviazione svolta da più mani. Sul retro dei cartoni può trovarsi una tasca realizzata con carta velina dove erano collocati gli spolveri, anch’essi su velina minutamente forata, relativi ai temi decorativi previsti per quella ceramica: generalmente ciò accadeva per un decoro ornamentale o figurato che veniva riportato sul supporto liscio (ad esempio scatole, bottiglie, piastre, vasi, piatti oppure elementi parziali di un gruppo scultoreo, come ad esempio gli abiti). Tale metodo di archiviazione, progressivamente implementato con l’aggiunta di nuovi modelli, venne adottato con costanza almeno fino alla fine degli anni quaranta. I dati finora disponibili in merito al disegno con il nu-

mero progressivo più alto contenuto in ciascuna cartella forniscono le seguenti informazioni: n. 38 nella cartella 1, n. 76 nella cartella 2, n. 149 nella cartella 3, n. 191 nella cartella 4, n. 248 nella cartella 5, n. 268 nella cartella 6, n. 342 nella cartella 7, n. 446 nella cartella 9, n. 546 nella cartella 11, n. 589 nella cartella 12, n. 636 nella cartella 13, n. 693 nella cartella 14, n. 744 nella cartella 15, n. 790 nella cartella 16, n. 836 nella cartella 17, n. 881 nella cartella 18, n. 1.050 nella cartella 21, n. 1.098 nella cartella 22 e n. 1.238 nella cartella 25. Ogni cartella dunque doveva contenere tra i 50 e i 100 disegni. A parte era incrementata la «Cartella Animali», a cui appartenevano, ad esempio, il disegno del Centauro e faunessa di Felice Tosalli (n. 148, cat. 125) e quello della Lepre (n. 524), sempre di Tosalli benché già reputata di Abele Jacopi. Nel corso degli anni cinquanta, come testimoniano il Catalogo G (cfr. la voce «Cataloghi merceologici») e gli studi di Panzetta (1992, p. 113), venne reimpostata la numerazione dei modelli in gesso e di conseguenza anche quella dei disegni a essi riferiti. La produzione venne divisa per tipologia tematica attraverso una sigla (ceramiche animali CA, ceramiche costumi CC, ceramiche fantasia CF, ceramiche nudi CN, ceramiche piatti-coppe CP, ceramiche religiose CR, ceramiche targhe CT, ceramiche vasi CV, ceramiche Walt Disney CW) a cui seguiva una nuova numerazione: dal fondo grafico, dopo aver archiviato i disegni relativi a ceramiche non più prodotte, vennero attinti quelli relativi a ceramiche ancora realizzate, rimontati su cartoncini color avorio, sui quali con un timbro a inchiostro fu segnato il nuovo codice identificativo. Questo è il caso, ad esempio, del foglio relativo alla Moglie del soldato (collezione privata), già appartenuto alla cartella 12 con il numero 580, che venne tolto dall’originario supporto grigio e rimontato, insieme ad alcuni dettagli della decorazione, sul nuovo cartoncino avorio (355 x 255 mm) accompagnato dalla sigla «CFo1» (per un ulteriore esempio cfr. GARGIULO 2008b, p. 97). In questa fase venne comunque banalizzato il puntuale e coerente metodo d’archiviazione che connotava i primi anni di attività. Ogni foglio dell’archivio originario poteva recare svariate informazioni sulla partitura decorativa attraverso frasi esplicative, aggettivazioni cromatiche o codici relativi ai colori prodotti dalle industrie di riferimento. Un caso davvero esemplare è costituito dal citato disegno per il Centauro e faunessa di Tosalli che contiene, accanto alla raffigurazione, tre rettangoli cromatici, una legenda esplicativa sulle zone in cui ciascun campione doveva essere steso e una minuziosa indicazione finale: «La disposizione e la forma delle macchie del mantello del centauro sono da copiarsi tali e quali dal presente bozzetto. A tergo vedesi per il lato destro». Invece, un disegno di collezione privata databile intorno alla metà degli anni trenta, relativo a Mamma sirena sul piatto (cartella 9, n. 435A), dal formato inconsueto (194 x 165 mm) e di cui si conosce un secondo disegno, sempre conservato nella stessa cartella, in relazione a Cattivo pesce (n. 407), presenta sul verso una velina su cui sono dattiloscritte le seguenti indicazioni che lasciavano un

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buon margine di libertà al decoratore: «La figura della sirena va in crème o bianco grigio con la coda in tono verde. La tartaruga va in verde più scuro, quasi verde bottiglia. Il piatto va di colore quasi nero ma mescolato col verde od in un bel verde molto scuro, sempre che sia un colore signorile». Una lettera accompagnava il numero del modello laddove il bozzetto di turno creava la differenza tra un oggetto e l’altro, nel caso soprattutto di scatole e vasi. È necessario, infine, distinguere il disegno che costituiva la fase ideativa e progettuale di un determinato artista da quello che invece era il bozzetto guida per il decoratore. Testimonianze della prima tipologia sono rare per la maggior parte degli artisti, a eccezione di Chessa, Tosalli e Sturani. L’attività grafica e progettuale di Gigi Chessa si estende ben oltre il manufatto ceramico: di estrema importanza risulta un disegno, firmato e datato 1926 e relativo probabilmente a un tappeto, che in seguito venne montato su cartoncino per costituire il decoro del Vaso Cavalluccio (collezione privata; modello 313/A). Nel caso invece del disegno Due figure distese (cat. 135), espressamente finalizzato a un soprammobile ceramico e anch’esso datato 1926, si dispone di un utile termine cronologico per confermare l’avvio del nuovo settore, in seno alla ditta, a partire da quell’anno. Molti disegni di Felice Tosalli, alcuni dei quali esposti in mostra, per linguaggio rivelano la sua mano e sono riconducibili a proposte cui, per varie ragioni, non venne dato seguito (GARGIULO 2008b, pp. 132-136). Lo stesso vale per Mario Sturani, la cui attività grafica e progettuale per Lenci fu ingente dal 1926/1927 fino al 1931 e alla partenza per Parigi: molti fogli, studiati per la prima volta da Silvana Pettenati (1990, p. 92) e in parte qui esposti, rappresentano la sua costante attività creativa che solo parzialmente venne realizzata o dalla quale si attinse in seguito, come mostra il caso esemplare della celebre Zizi di Elena König Scavini (cat. 63) nata da un’idea grafica (I cagnetti, 348 x 241 mm) firmata dall’artista nel 1930 (collezione privata; PANZETTA 1992, fig. 6, p. 24). Dunque i fogli montati sui cartoncini e finalizzati al lavoro di decoro della ceramica potevano essere i bozzetti ufficiali o le rielaborazioni grafiche, anche autografe, chiaramente asservite allo scopo, come indicano i casi di più disegni dedicati ai vari lati della ceramica per i gruppi complessi o come lascia intendere, ad esempio, il bozzetto relativo a Susanna e i vecchioni di Giovanni Grande (cat. 36). L’usura e le macchie che si creavano inevitabilmente per l’utilizzo su questo materiale portava spesso alla sostituzione, come in Nuda che si pettina (cat. 11), noto attraverso due esemplari, e nella Madonna Fiamminga (GARGIULO 2008b, p. 100). ARCHIVIO FOTOGRAFICO L’archivio fotografico storico delle ceramiche edite dalla ditta dal 1928 al 1964, già esaminato da Alfonso Panzetta (1992), è ora conservato presso l’Archivio Storico della Città di Torino. Consta di tre nuclei di immagini: il principale, costituito da fotografie di formato 15 x 21 cm sul quale sono indicate in maniera discontinua le informazioni basilari sull’oggetto; il secondo, rappresentato da fotografie più piccole di formato 10 x 13 cm, che hanno colmato le lacune del gruppo precedente utilizzando ugualmente le informazioni segnate (numero del soggetto, autore, titolo, misure); il terzo, costituito da immagini ancora più piccole di formato 6 x 8 cm e 4,5 x 5,5 cm, applicate in sequenza su cartoni grigi (per una puntuale descrizione, anche di sottogruppi fotografici, cfr. PANZETTA 1992, p. 113). La prevalenza di fotografie che riprendono gli oggetti sullo sfondo di una parete con un sottile motivo a rametti, appartenenti

dunque alla sequenza fotografica principale, permette di considerare che quelle riprese furono fatte in un momento successivo agli esordi del 19281929, quando probabilmente divenne urgente poter disporre di un archivio. Non sono pochi, infatti, gli esemplari di ceramiche che mostrano una decorazione più tarda e variazioni cromatiche rispetto ai primi decori. Ma il vero e proprio archivio, dalle molteplici finalità aziendali, è costituito da una sequenza di cartoncini (7 x 14 cm) che costituiscono lo schedario generale (Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D290-D296): sopra uno schema prestampato sono applicate piccole fotografie e sono indicati numero, titolo, misure, indicazioni del decoro, prezzo di vendita. L’incompletezza della sequenza potrebbe rivelare l’esclusione dalla produzione dei modelli non presenti. ARCHIVIO GESSI L’intera serie dei modelli in gesso, proveniente dalla ditta Lenci, è stata assorbita da una collezione privata che con passione e lungimiranza ne ha avviato il restauro e la schedatura, tutt’ora in corso. Al momento dell’acquisto il materiale era suddiviso in sessantanove casse di legno, ognuna delle quali ospitava, protetti da paglia, dai dieci ai quindici modelli, a seconda delle dimensioni. Un foglio scritto a penna, presente in ciascuna cassa, elencava il materiale contenuto. Con evidenza, questa modalità d’imballaggio risale al termine del periodo produttivo (1964). Il patrimonio di modelli in gesso costituiva la parte più importante del settore ceramico della ditta, dal momento che assicurava la riproducibilità degli esemplari, in base alle richieste dei negozi e dei rappresentanti commerciali. Il problema della cronologia di produzione e dell’organizzazione dei modelli si può affrontare, in mancanza di una specifica documentazione, per via deduttiva attraverso i dati ricavabili dai gessi stessi e dalle ceramiche analizzate. I prototipi in plastilina forniti dagli artisti venivano affidati ai formatori per ottenere il gesso, dal quale si ricavava successivamente il calco ove veniva colato l’impasto. In alcuni casi il ruolo del formatore era determinate e poteva comparire, sotto forma di simbolo («X», «P», «O»), sulla ceramica stessa. Addirittura Matteo Fea, formatore e ritoccattore, siglò con il proprio cognome, insieme a Sturani, Regime secco (cat. 80), evidentemente perché aveva contribuito, nell’effetto finale del gesso, all’adattamento dell’idea dell’artista. La presenza di Fea, segnata nello stesso modo, compare anche in un bellissimo esemplare di Il gregge (modello 50), di collezione privata, marcato «Lenci/Italy» e ideato da Giuseppe Porcheddu. La gestione dei gessi avveniva attraverso il conferimento di numeri progressivi: la totale varietà, che si nota fin dagli esordi, nella sequenza delle opere e dei loro artefici consente di dedurre un processo di addizione cronologica dei modelli stessi in base a una priorità dettata non tanto dall’ideazione dell’artista, quanto dal numero progressivo assegnato al gesso da parte del formatore. L’elaborazione del gesso costituiva, infatti, il punto di partenza per la produzione e il relativo numero d’identificazione dettava, per la quantità di modelli elaborati pressoché contemporaneamente, la collocazione fisica del gesso stesso nel locale destinato alla formatura, la pronta e ordinata disponibilità dello stesso e l’immediata riconoscibilità in sede merceologica. I gessi finora esaminati, alcuni dei quali compaiono in mostra, hanno consentito di formulare numerose considerazioni. Innanzitutto, come si deduce dalla consistenza materica, alcuni gessi sono da considerarsi originari, altri sembrano derivazioni successive: evidentemente l’uso conti-

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nuativo, soprattutto per i modelli che restarono a lungo in produzione, usurò il gesso originario e impose il rifacimento di quest’ultimo. Alcuni di essi evidenziano, lungo la superficie, il segno dei tasselli a calco che veniva applicato, sezionando idealmente la scultura in varie parti, per ricavare il negativo utile per il successivo colaggio. La schedatura di questo materiale è utile per andare a colmare le lacune nella sequenza dei modelli, giacché si sono trovate opere, appartenenti in maniera visibile alla prima produzione, di cui non è mai emersa alcuna versione in ceramica. Si segnala, ad esempio, oltre alla Testa femminile con coppia danzante (cat. 113) di Sturani, anche una bellissima composizione firmata da Giovanni Grande che rappresenta una coppia di contadini intenta a esercitare il loro bimbo nei primi passi oppure una geniale rappresentazione della Principessa sul pisello, sicuramente ascrivibile ancora a Sturani. I gessi rivelano spesso la presenza già incussa della firma degli artisti, oppure, sotto la base, il numero del modello. CATALOGHI MERCEOLOGICI I primi (A1, A2, A3), ridotti nelle dimensioni (19 x 16,5 cm) e databili entro gli anni venti, furono stampati dalla Società Anonima Stabilimento d’Arti Grafiche Alfieri-La Croix di Milano e possiedono un carattere a tal punto sintetico da essere paragonabili alle moderne brochures pubblicitarie destinate agli acquirenti. Non essendo possibile visionarli direttamente (non è nota purtroppo l’ubicazione neppure di una copia) e basandosi sulla descrizione fornita da Panzetta (1992, p. 114) che li aveva consultati ancora presso la ditta, i primi cataloghi contengono undici immagini a colori, compresa la copertina, relative a ceramiche accompagnate dall’indicazione dell’autore, del titolo e del numero di serie. L’ordine cronologico di questi tre cataloghi è stato stimato sulla base della progressione dei modelli sia in copertina sia all’interno: A1 reca in copertina la Nudo femminile con mela (modello 65, cat. 57) di Elena König Scavini e giunge a illustrare il modello 70, Orco bottiglia (cat. 78) di Mario Sturani; A2 si apre con la Nuda con coniglio (modello 42), sempre della König Scavini, e si chiude con il Vaso Pupazzo (modello 99), mentre di A3 Panzetta vide solo la copertina con Marianna (modello 39) della König Scavini. In ogni caso si può supporre fossero editi pressoché contemporaneamente, come tre varianti di una stessa edizione. Maria Teresa Binaghi (1978, p. 354), che per prima aveva affrontato la citazione di questi strumenti, aveva visionato solo il catalogo A1, datandolo con precisione al 1929. Probabilmente le fotografie a colori dovevano essere le stesse che vennero inserite nel testo di supporto alla mostra presso la Galleria Pesaro di Milano (OJETTI 1929). È significativo che, come per la campagna pubblicitaria in «Domus» e «La casa bella», furono collocate in copertina le creazioni di Elena König Scavini, titolare della ditta. Gli altri cataloghi rivelano una natura maggiormente composita, adatta per effettuare gli ordinativi. Il catalogo B (Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D622), stampato dalla tipografia Vincenzo Bona di Torino, ha un piccolo formato ed è costituito da un raccoglitore - dotato di una vivace copertina a colori (15 x 17 cm) disegnata da Mario Sturani (cfr. il saggio di BASSIGNANA in questo volume, fig. 8) - nel quale sono raggruppate 86 tavole in bianco e nero costituite da fogli leggeri. Sulla copertina si legge: «Ceramiche / Lenci / Italy / Torino / Via Cassini / 7». Ogni foglio (17 x 14,5 cm), che reca solitamente un singolo oggetto, ma può anche dar conto di più ceramiche, offre le indicazioni dell’autore, del titolo, delle misure e del numero di modello; in alto a sinistra compare il logo «I fiori del fuoco», utilizza-

to per le pubblicità in «La casa bella» e «Domus» del 1929-1930. Per questa ragione, oltre al fatto che delle 125 ceramiche illustrate quella recante il numero di modello più alto è il 184, relativa a un Vaso di Vacchetti, si può datare intorno all’inizio del 1930. Presso il Fondo Lenci esistono due esemplari dello stesso catalogo, l’uno composto da 86 tavole (che si suppone completo), l’altro da 71. L’esemplare visionato da Binaghi (1978, p. 354) recava 82 fogli, mentre quello di cui Panzetta (1992, p. 114) dava conto è lo stesso conservato presso il Fondo Lenci. Si può dedurre l’esistenza di un successivo catalogo C dalla recente pubblicazione di una tavola di cui era composto (GARGIULO 2008b, p. 33). Doveva essere costituito sempre da fogli sciolti, recanti strisce fotografiche con una decina di oggetti ciascuna, sistemati su un unico piano d’appoggio, con l’indicazione del numero del modello e le misure. Dalla tavola pubblicata si deduce che il numero di modello più alto giungeva intorno al 350 c. Del catalogo D, sempre stampato presso Vincenzo Bona di Torino, è stato possibile esaminare più copie (Torino, Archivio Storico della Città, Fondo Lenci, D620, D621; Torino, Biblioteca d’Arte dei Musei Civici, 681.1.LEN; collezione privata). È caratterizzato da un formato maggiore (17,5 x 24,2 cm) ed è anch’esso composto da fogli radunati in un contenitore cartaceo a cartella. Sono note due edizioni dello stesso, come si deduce dall’esistenza di due varianti nella copertina: la prima (D1) reca la Maschera bambina di Elena König Scavini (modello 466), la seconda (D2) la Maschera Madonna della stessa autrice (modello 561). Invariata resta la scritta «Lenci / Made in Italy / Le ceramiche Lenci / Torino Via Cassini 7». Binaghi (1978, p. 354) aveva dedotto dalla copia analizzata la ceramica caratterizzata dal numero più alto, consistente nel 598 (un piatto con un gallo dipinto nel centro). Panzetta (1992, p. 114) invece aveva visionato quattro copie, delle quali nessuna è risultata identica all’altra: collazionandole, lo studioso aveva fatto emergere un’unica copia composta da 88 fogli per un totale di 509 ceramiche, di cui il piatto n. 598 risultava sempre il modello dal numero più alto. La composizione articolata su schede sciolte ha reso davvero arduo preservare l’integrità degli esemplari: quelli conservati nel Fondo Lenci hanno 46 fogli (edizione D1) e 81 fogli (edizione D2), quello presso la Biblioteca d’Arte dei Musei Civici di Torino (edizione D2) consta di 78 fogli, mentre quello di collezione privata (edizione D2) è composto da 81 fogli. Un esemplare del catalogo D1, comparso nel corso del 2009 in un’asta su Internet, recava, oltre alle schede, un dattiloscritto in cui erano radunate, in ordine di modello, tutte le ceramiche comprensive di titolo, autore e prezzo di vendita. Si ipotizza che il catalogo D sia databile, per il tipo di ceramiche proposte (ancora visibilmente di alta qualità e dotate di ottimi smalti) e per il numero di modello cui si è giunti, tra il 1933 e il 1935. In occasione della partecipazione della ditta alla Triennale di Milano del 1936 vennero stampati verosimilmente due nuovi fogli, finalizzati a illustrare il vasellame creato dalla König Scavini e addizionati allo stesso catalogo, come dimostra il diverso cartoncino utilizzato. Infine il catalogo E (conservato in collezione privata, 17 x 16 cm), stampato da Amilcare Pizzi di Cinisello Balsamo (Milano), è ascrivibile agli anni cinquanta e comprende 293 ceramiche a colori, ordinate secondo un codice alfanumerico introdotto in quell’epoca. In copertina reca la scritta «Lenci / Via Cassini 7 Torino Italia Tel. 580124 / 580123» con il logo al centro, ideato da Sturani: la bambolina circondata da una ghirlanda floreale e dalla scritta «Ludus est nobis constanter industria».

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ETICHETTE CARTACEE La fragilità del materiale cartaceo non consente di stabilire con certezza se ogni ceramica che usciva dalla ditta, fin dagli anni iniziali, era sempre dotata di un’etichetta, apposta al di sotto della base, o se questa veniva applicata solo in casi particolari, ad esempio per gli oggetti destinati all’esportazione. In ogni caso in molte ceramiche del 1929 è presente una prima tipologia, di formato rettangolare (55 x 33 mm), identica, in tutto e per tutto, a quella in uso nella produzione della bambole. Recava a stampa, entro una sottile riquadratura, la scritta «Lenci TURIN / (ITALY) / DI E. SCAVINI / MADE IN ITALY» e, in basso, il numero del brevetto «PAT. SEPT. 8-1921 - PAT. N. 142483 / STÈ S.G.D.G.X 87395 - BREVETTO 501-178», mentre al centro era segnato, a penna o a matita, il numero del modello. Dal 1930 si trova invece una nuova etichetta, decisamente più piccola e di formato circolare (Ø 20 mm), recante a stampa in inchiostro rosso la scritta «Lenci / Turin / Italy» con lo spazio centrale destinato a ospitare il numero del modello, delineato sempre a inchiostro o a matita. In questa analisi non possono ovviamente essere prese in considerazione le numerose etichette, spesso riscontrabili sulle ceramiche, che venivano apposte dal negozio per personalizzare e indicare la provenienza della ceramica in vendita. ISCRIZIONI E TIMBRI Accanto alle segnature dipinte (cfr. la voce «Marche») sono presenti sulle ceramiche una serie di informazioni impresse o incise, a volte immediatamente percepibili dal pubblico quale garanzia di lavorazione artigianale a volte più criptiche e connesse a scopi merceologici. Le firme degli artisti che avevano eseguito il modello della ceramica assicuravano una diretta paternità, fornendo di conseguenza un pregio maggiore all’oggetto, in una soluzione di buon compromesso tra il processo d’esecuzione seriale e la presenza, sia pur indiretta, dell’artefice. Solitamente già incusse sui gessi, le sigle o le firme degli artefici dei modelli, presenti lungo i bordi retrostanti della base, passavano nell’operazione di creazione del calco e di ottenimento dell’esemplare per colaggio dell’impasto. Potevano inoltre essere stampigliate o incise direttamente a mano sul biscotto e a volte si riferivano non solo all’esecutore del modello ma anche al progettista dell’impianto decorativo. In entrambi i casi potevano venire riprese a pennello nei solchi dell’incisione nella fase di applicazione del decoro. Le ceramiche dotate di tiratura (cfr. la voce «Marche») potevano recare firme direttamente dipinte sottovernice. Per una campionatura delle varie firme, a volte ridotte alle iniziali, a volte trasformate in simboli o monogrammi, a volte scritte al contrario (come nel caso di Icnel per la signora Lenci, Elena König Scavini, o di Seni per Ines Grande), spesso indicate semplicemente in stampatello, si rimanda alle schede del catalogo. Inoltre si sono rinvenute, accanto alle firme incusse, alcune lettere sempre incise in pasta, come «O» e «X», ancora difficilmente risolvibili: in via ipotetica, poiché riguardano ceramiche dei primissimi anni di attività, quando erano valutate alla pari tutte le fasi produttive, potrebbero indicare il nome del formatore. In un bellissimo esemplare di Le due tigri (modello 83), comparso di recente all’incanto (Genova, Cambi, 1o dicembre 2009, lotto 184) e marcato «Lenci / Italy / 8-5-29»), si trovava sulla base, accanto all’iscrizione «ESSEVI», l’anomala scritta incisa «Lenci» seguita dalla caricatura di una bambola. A partire dal 1929, con una presenza più sporadica dall’esordio del decennio successivo, può riscontrarsi, al di sotto della base della ceramica, la co-

siddetta «bambolina» poggiante sulla scritta «Lenci», ossia un timbro, applicato sul biscotto, raffigurante la stessa bambina con fiocco in testa e fiori in mano presente nel marchio ideato da Mario Sturani per la ditta: utilizzata come un contrassegno di appartenenza, alla stregua dei timbri a tampone delle grandi manifatture europee (come, ad esempio, Goldscheider), affiancava la marcatura delineata a pennello, che divenne ben presto univoca. La «bambolina», per la sua stessa tipologia figurata e per le misure (3 x 2,5 cm), si adattava a essere applicata solo su superfici piane e lisce, spesso ai margini per non pressare troppo il fragile biscotto. Un dato di assoluto interesse, il cui significato è stato sciolto grazie alla comparazione di più ceramiche derivanti dallo stesso modello, riguarda la presenza, pressoché costante, dal 1928 (prendendo in parte avvio dalla tipologia di marca «Lenci / ITALY») fino almeno al 1930, di un numero incusso apposto sempre nel fondello o nell’incavo del pezzo e chiaramente realizzato con un timbro componibile. Aver accertato la crescita progressiva di questo numero parallelamente all’avanzare della cronologia d’esecuzione, suggerita dagli elementi contenuti nella marca stessa (cfr. la voce «Marche»), ha indotto a considerarlo l’indicazione del computo progressivo degli esemplari prodotti, immessi sul mercato e dunque singolarmente numerati. Al numero era certamente collegato un registro interno degli esemplari prodotti, in base agli ordini, alle richieste dei distributori e alla destinazione del pezzo, a cui probabilmente era anche connessa la tracciabilità dei professionisti coinvolti nella sua realizzazione, dal formatore al decoratore. Dunque la raccolta e la comparazione di questi dati è di fondamentale importanza per conoscere la quantità di esemplari di quel determinato modello prodotti all’interno di un anno solare, fornendo elementi utili per dedurre un’esecuzione a volte straordinariamente limitata. A puro titolo esemplificativo si può stabilire che il 20 maggio 1929 vedeva la luce il ventiquattresimo esemplare dell’Amore paterno (modello 8) di Vacchetti mentre il 4 luglio dello stesso anno si era giunti al trentaseiesimo esemplare; e ancora il 6 novembre 1929 era stata ultimata la quarantacinquesima Mucca (modello 17) di Grande che, il 12 aprile 1930, era giunta al settantanovesimo esemplare prodotto; infine il 4 maggio 1929 veniva datato il ventiquattresimo esemplare di San Sebastiano (modello 13) di Giovanni Grande che, il 20 novembre di quell’anno, aveva raggiunto quota «50». Si ritiene dunque un buon indice sia per identificare quegli esemplari realizzati per essere sicuramente posti in vendita (si tenga presente, infatti, che le ceramiche dotate di tiratura non presentano mai questa indicazione numerica), sia per dedurre la fortuna commerciale di un determinato modello. Anzi si può immaginare che la sua funzione principale interna alla ditta fosse proprio connessa a scopi di conteggio commerciale. Dopo una fase in cui questo numero cessa di essere indicato si presenta poi, in un momento successivo al 1933, un’ultima fase in cui la numerazione stampigliata si riferisce esclusivamente al numero del modello. MARCHE Dall’esame delle ceramiche e dalla ricostruzione dei processi produttivi è possibile dare conto di una prima diversificazione tipologica delle marche in uso. Pur considerando alcune eccezioni dovute alla manualità dell’operazione, sono emerse, limitatamente agli anni cosiddetti «storici», sei tipologie che scandiscono altrettante fasi cronologiche, nonostante non sia escluso un impiego parallelo o a volte misto. Ciascuna di queste marche indica un processo che, pur nella serialità, tende a porre in risalto il valore artistico-artigianale dell’oggetto, attraverso una serie combinata di infor-

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mazioni. La segnatura risulta molto essenziale al momento dell’esordio (1927-1928), tende ad arricchirsi di una serie di garanzie di qualità durante la produzione dei primi anni (1929-1932), per poi perdere vigore man mano che la produzione stessa acquista una distanza cronologica dagli esordi e affronta i problemi dei costi di esecuzione (dal 1933 e poi, radicalmente, dalla fine degli anni trenta). Una premessa necessaria deve quindi porre l’accento sulla cronologia di queste fasi e affrontare il problema dell’avvio della produzione che, tenendo conto dei dati e delle fonti finora disponibili, può retrodatarsi, a livello ancora progettuale, al 19261927. Ognuno dei marchi descritti è riconducibile a un periodo ben identificabile: ne consegue che la ceramica derivante da un determinato modello, che poteva essere mantenuto in fabbricazione anche per molti decenni dopo la sua ideazione, può essere inserita in un preciso ambito cronologico d’esecuzione grazie all’esame della marca, oltre naturalmente all’apporto di altri indizi quali il decoro e la qualità degli smalti. 1. «Lenci / ITALY» con tiratura di venticinque o cinquanta esemplari Quella che si può definire una prima tipologia di segnatura, priva di espliciti elementi cronologici, dovrebbe riferirsi a un periodo collocabile nel biennio 1927-1928. Accanto alla marca «Lenci / ITALY» era registrata l’indicazione del numero dell’esemplare e della tiratura prevista (venticinque o cinquanta). In certi casi è nota perfino una tiratura di tre esemplari, affiancata da indicazioni tecniche, come suggerisce, ad esempio, l’iscrizione «Lenci / ITALY / Ts. F. VERNICE / 2/3» presente su La pera (modello 18) di Nillo Beltrami (PANZETTA 1992, p. 106, n. 10). Le ceramiche segnate in tal modo indicano quasi certamente l’esordio e l’intervento diretto dell’artista nelle varie fasi esecutive: potevano essere impiegate per fornire una prova di realizzazione alla quale i decoratori dovevano attenersi nel corso della produzione successiva, oppure offrire la possibilità di sperimentare smalti e vernici, infine, circolare in un ristretto giro di addetti ai lavori. Altra cosa erano i pezzi, forse in terracotta, che costituivano il campionario: un esempio davvero calzante è Arlecchino in terracotta, ideato da Gigi Chessa (cat. 5), sul quale sono stati stesi colori oleosi, che reca la sola firma incisa dell’autore, accompagnato da un cartellino con la scritta: «Arlecchino di Gigi Chessa. Bozzo Unico. Non vendibile ne regalabile». Il fatto che siano noti alcuni modelli solo tramite la tiratura potrebbe significare che quell’esemplare non fu destinato, per ragioni di gusto e accoglienza, alla produzione successiva finalizzata alla vendita o, se lo fu, venne ben presto eliminato dal catalogo. Comunque i pezzi contrassegnati da questa marca dovevano avere il carattere di prova d’eccellenza, costituire una prima verifica ai vertici del versante commerciale in qualità di campionario e rappresentare il materiale più adatto per le prime esposizioni pubbliche. 2. «Lenci / ITALY» Dal 1928 le ceramiche Lenci erano pronte per la vendita. La marca semplificata, che si ritiene in uso soprattutto nel primo semestre dell’anno, era identica agli oggetti d’esordio dotati di tiratura e veniva tracciata dal decoratore, ultimato il lavoro di coloritura dell’esemplare, a pennello in colore nero sottovernice - salvo rarissimi casi in cui poteva essere tracciata in marroncino - al di sotto della base o nell’incavo del fondello. Natural-

mente accadeva che ogni decoratore, che in alcuni casi già tendeva ad aggiungere la propria sigla o simbolo, apportava ovviamente lievi modifiche, nella resa calligrafica e nella grandezza dei caratteri, al logo Lenci, peraltro in stretta continuità con quello utilizzato per le bambole e le altre forniture d’arredo fin dal 1919. In alcuni casi può anche trovarsi la formula «Lenci / ITALIA». 3. «Lenci / ITALY» con giorno - mese - anno e simbolo o iniziali del decoratore Questa segnatura, in uso almeno dalla metà del 1928 fino a giugno del 1929, coincide con il pieno processo commerciale e inaugura la comparsa dell’informazione sulla cronologia. Naturalmente quest’ultima si riferiva all’esecuzione della specifica ceramica o meglio al momento della conclusione del processo che terminava con la decorazione, con l’applicazione della vernice e con l’ultima cottura, e non indicava la creazione del modello. Questa tipologia si caratterizza dall’accostamento alla marca «Lenci / ITALY», della datazione, nella formula giorno, mese, anno in numeri arabi, e della paternità esecutiva del decoratore, attraverso un simbolo grafico o le iniziali del nome. La presenza dissimulata del decoratore, il cui simbolo difficilmente poteva essere sciolto e compreso dal pubblico, serviva comunque come garanzia di una decorazione condotta a mano che, pur non prevaricando l’esecutore del modello, forniva una connotazione di pezzo unico all’oggetto seriale, in combinazione con la specifica cronologica. 4. «Lenci / MADE IN ITALY» con giorno - mese - anno e simbolo o iniziali del decoratore L’aggiunta della specifica «MADE IN ITALY» avviene a partire dal luglio 1929, come risposta al successo riscosso sui mercati europei e, più in generale, mondiali. In base ai decoratori, è possibile anche rinvenire la segnalazione degli estremi della data in numeri romani. 5. «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» con giorno - mese - anno, indicazione dell’anno fascista e simbolo o iniziali del decoratore Tra il 1932 e il 1933 è introdotta un’ulteriore specifica di provenienza («TORINO») e l’era fascista, espressa in numeri romani, che può affiancare l’indicazione tradizionale dell’anno (a volte abbreviato) o sostituirsi a esso. Il consenso riservato più volte alle ceramiche Lenci dal Regime, come ricordava Elena König Scavini (1990, pp. 97, 110-111) nel suo diario, può aver contribuito all’introduzione dell’anno secondo il calendario fascista. L’utilizzo irregolare di questi dati, variamente combinati, diventa una caratteristica di questa fase. 6. «Lenci / MADE IN ITALY / TORINO» e simbolo o iniziali del decoratore Dalla seconda metà degli anni trenta tende a venir meno la datazione degli esemplari prodotti. «MADE IN ITALY» e «TORINO» possono trovarsi insieme oppure può comparire una sola delle due specifiche di provenienza. In questo ambito un discorso a parte merita la firma «Lenci, Signora Lenci, Elena Scavini» adottata dalla Scavini stessa dal 1936-1937 per gli oggetti o le figure da lei ideati, in occasione del definitivo passaggio gestionale della ditta (PANSERA 1985, p. 336).

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Indice dei nomi La lettera n riguarda la citazione in nota; il numero in corsivo è riferito alle figure; il numero in grassetto rimanda alle tavole a colori.

ADLIN, Jane 53n. AGNELLI, Giovanni 269. AJMONE MARSAN, famiglia 23. ALESSANDRINI, Goffredo 268. ALLEMANO, Roselda 207, 219. ALLIGO, Santo 225. ALPAGO NOVELLO, Alberto 47. ALTARA, Edina 18. ANDERSON, Sherwood 24. ANDLOVIZ, Guido 15, 17, 42, 55, 61n. ANDREOTTI, Libero 268. ANGELONI, Italo Mario 45, 46, 53n. ANTONICELLI, Franco 24. ARDUINO, Mario 51n. ARGAN, Giulio Carlo 23, 61n, 271. AROZZA, Graziella 208, 209, 212, 238, 240, 243, 252. AUGUSTO DI SASSONIA, detto il Forte 21. BAKER, Joséphine 23, 32, 244. BALLA, Giacomo 18, 58, 230, 237, 255. BALOSSI, Maria 217, 242, 243. BARDINI, Marco 235, 252. BARISIONE, Silvia 51n. BARYE, Antoine-Louis 248, 249. BASSIGNANA, Pierluigi 61n. BATTISTI, Cesare 271. BAVETTA, Vittorio Emanuele 266. BELTRAMI, Nillo (Passionillo) 16, 122, 195, 210, 280. BENAPPI, Ezio 51n. BENAPPI, Nadia 51n. BERNARDI, Marziano 24, 205, 269. BERTETTI, Clelia 228, 233. BERTOLO, Giovanni 223. BERZOINI, Lino 14, 53n, 54n, 57. BINAGHI, Maria Teresa 197, 209, 278. BISTOLFI, Leonardo 225, 226, 270, 271. BLASETTI, Alessandro 270. BOBBIO, Norberto 59. BOCCASILE, Gino 11, 22. BOCCHIOLI, famiglia 23. BÖCKLIN, Arnold 27, 250. BOITO, Camillo 56. BOLOGNA, Paola 87, 195, 196, 266. BONA SAN CIPRIANO DI BAVIERA DI SAVOIA 247, 272.

BONARDI, Dino 44, 208, 211, 220, 236, 253. BOSIA, Agostino 266. BOSWELL, Jessie 267. BURCHART, Cläre 15, 22, 269, 270. BURROWS, Harry 46, 47. BUZZI, Tomaso 47, 225, 257. CAGLI, Corrado 58. CALORI, Guido 268. CALVINO, Italo 204. CAMPI, Antonia 60. CARENA, Felice 266. CARLUCCIO, Luigi 205. CARRÀ, Carlo 27, 213, 246. CARRARA LOMBROSO, Paola 266. CASCINO, Lorena 51n. CASORATI, Felice 15, 18, 25, 26, 31, 31, 32, 33, 56, 266, 270, 271. CERESA, Walter 51n. CERUTTI SACCO, Carolina 26. CERVANTES SAAVEDRA, Miguel de 208. CÉZANNE, Paul 245, 246, 266, 267. CHATWIN, Bruce 21, 24. CHESSA, Gigi (Luigi) 15, 17-19, 24-26, 26, 27, 28, 31, 31, 32, 43-45, 52n, 53n, 54n, 55, 56, 68, 70, 91, 92, 103, 105, 107, 160, 184, 196202, 228, 254, 255, 257, 260, 263, 266-269, 277, 280. CHIESA, Piero 48. CIBAU, Geminiano 15, 18, 260. COCTEAU, Jean 217. COFFIN, Sarah D. 53n. COGNO, Domenico 215-217, 243, 253. COLLODI, Carlo (Carlo Lorenzini) 266. CREMONA, Italo 59, 271. CRETELLA, Stefania 51n, 52n. CUZZI, Alberto 267. D’AGOSTINO, Paola 53n. D’ALBISOLA, Tullio 27, 57, 239. D’ANNUNZIO, Gabriele 269. DA MILANO, Giulio 18, 75, 159, 199-201, 203, 267, 268, 270. DAUMIER, Honoré 267. DEABATE, Teonesto 14, 18, 25, 31, 41, 42, 53n, 55, 55, 127, 203, 233, 267, 270. DELACROIX, Eugène 248, 267.

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DEL CHIAPPA, Beppe 272. DE MUSSET, Alfred 211. DEPERO, Fortunato 16, 237, 255. DERAIN, André 267. DE VLAMINCK, Maurice 267. DE WITT, Leonora 195. DI GIACOMO, scultore 58. DICKENS, Charles 263. DIETRICH, Marlene 24, 217. DJULGHEROFF, Nicolaj 16, 34. DRAGONE, Angelo 272. DUCATO, Piero 233. DUDOVIC, Marcello 11, 223, 236. DWIGHT, John 274. EBERLEIN, Johann Friedrich 202. ELLA, Max 18. EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA, duca d’Aosta 33. FEA, Matteo 228, 233, 277. FEDERICO II DI PRUSSIA, detto il Grande 21. FELDBAUER, Max 250. FELICE, Carlo A. 47, 49, 54n, 199. FERINANDO, Giuseppe detto Beppe 203, 246, 247. FERRAVILLA, Edoardo 236. FERRO, Cesare 267, 272. FERRO, Manuela 51n. FOA JONA, Anna 21. FOA, Vittorio 21. FORMICA, Claudia 16, 41, 123, 125, 198, 204, 206, 218, 268. FRANCHINI, Nello 41, 269, 273. FRANZONE, Gianni 51n. GALANTE, Nicola 267. GALLINO, Luciano 60n. GARELLA, Beppe, 199, 213, 216, 248, 255-262, 276. GARELLA, famiglia 30, 39. GARELLA, Flavio 38, 59, 218, 270. GARELLA, Pilade 38, 59, 218, 270. GARGIULO, Maria Grazia 205, 226, 276. GARRONE, Giuseppe 266. GASPERLO, Luciana 23. GATTI, Anna 220.

GEORGI, pittore 250. GÉRICAULT, Théodore 248. GINZBURG, Leone 61n. GIOLLI, Raffaello 44. GIOTTO DI BONDONE 213. GIUBILEI, Maria Flora 51n. GODETTI, Piero 266. GODIO, Giuliana 51n. GOLIA (Eugenio Colmo) 57, 270. GOZZANO, Guido 26. GRANDE, Giovanni 16, 17, 18, 22, 27, 38, 42, 44, 45, 47, 49, 51, 52n, 53n, 54n, 57, 61n, 66, 72, 76, 80, 87, 88, 92, 95, 107, 129-1131, 133, 136-1138, 140, 195, 196, 203, 205-216, 241, 261, 268, 269, 277, 278, 279. GRANDE, Ines 16, 18, 27, 43, 44, 53n, 58, 82, 141, 142, 209, 215, 253, 269, 273, 279. GRISERI, Angela 51n. GROSSO, Giacomo 267, 268, 272. GUALINO, Riccardo 26, 33, 56, 61n, 267. GUARLOTTI, Giovanni 271, 272. GYS, Leda (Giselda Lombardi) 271. HARWOOD, Barry R. 53n. HASSÉ, Alexander 49. HIRTH, Georg 250. HOFFMANN, Josef 237.

MACARIO, Erminio 19. MAGGI, Cesare 272. MAGISTRETTI, Vico 60. MANTOVANI, Sandro 272. MANZONI, Alessandro 226. MARAINI, Otto 273. MARANGONI, Guido 41, 47, 49, 55, 56, 201. MARCHISIO, Andrea 268. MARI, Febo (Alfredo Rodriguez) 271. MARTINI, Arturo 13, 17, 18, 27, 28, 47, 59, 195, 198, 205, 239, 266. MAZZOTTI, Giuseppe 16. MELANDRI, Pietro 17. MELIS, Francesco 18, 43. MELOTTI, Fausto 13, 17. MENZIO, Francesco 267. MILA, Massimo 24, 59, 271. MILANO, Carlo 51n. MILLET, Jean-François 18, 216. MODIGLIANI, Amedeo 19, 203, 234, 258. MONTI STURANI, Luisa 23, 26, 232, 259, 271. MONTI, Augusto 21, 61n, 271. MORETTI, Gigi 24. MORETTI, Matteo 51n. MOSER, Koloman 237. MULATERO, Ivana 200. MUSSO, Emilio 268. MUZIO, Giovanni 61n.

INTAGLIETTA, Mario 42. JACOPI, Abele 24, 100-1102, 217-219, 255, 269, 276. JONA, Davide 21. KÄNDLER, Johann Joachim 202. KIRCHNER, Ernst Ludwig 19. KÖNIG SCAVINI, Elena (Helen, Helenchen) 11, 15, 16, 18, 20, 22, 23, 25-27, 27, 30, 31, 34, 35, 35, 37, 38, 41, 43, 45, 47-51, 53n, 54n, 55, 57, 95-1100, 186, 198, 204, 214, 216, 218224, 228, 229, 236, 242, 245, 254, 255, 257, 267, 269, 270, 272, 274, 277-280. KÖNIG, Gherda 269. KÖNIG, Harald 269. KOPRIVNA, Erna 203, 215, 250. LAMBERTI, Maria Mimita 196, 198, 231, 246. LANCIA, Emilio 257. LE CORBUSIER (Charles-Edouard JeanneretGris) 24. LEVI MONTALCINI, Gino 23, 25, 34, 42, 56, 58, 59, 254, 267. LEVI, Carlo 24, 267. LOMBARDI, gallerista 45. LUKSCH, Richard 18. LUZZATTO, Guido Lodovico 25.

NIEVO, Ippolito 270. NOBILI, Alberto 226, 227, 229, 230, 235, 238240. NONNI, Francesco 17. NOVELLIS, Carla 238. OBERDAN, Guglielmo 271. OJETTI, Ugo 11, 23, 30, 44, 56, 57, 198-200, 202, 211, 213, 233, 236, 274, 275. OLCESE SPINGARDI, Caterina 51n. OLIVIERO, Matteo 272. ONETTI, Luigi 267. OPPI, Ubaldo 266. PAGANO-POGATSCHNIG, Giuseppe 25, 34, 43, 56, 58, 59, 61n, 201, 267, 270. PALAGI, Pelagio 27, 207. PALLONI, Ottorino 17, 19. PANZETTA, Alfonso 53n, 197, 206, 228, 229, 236, 241, 248-250, 262, 263, 276, 277. PAOLO UCCELLO 213. PAPINI, Roberto 18, 48, 56. PARACCHI, Giovanni 203. PARINI, Aldo 42. PATISSE, Henri 267. PAULUCCI, Enrico 24, 56, 267, 271. PAVESE, Cesare 21, 24, 61n, 232, 271.

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PECHE, Dagobert 20n. PERONA, Paolo 42, 56. PERSICO, Edoardo 201, 267. PESARO, Lino 11, 202, 203, 208, 213, 234, 249. PETTENATI, Silvana 22, 25, 52n, 53n, 229, 230, 236, 241, 242, 257, 258. PICA, Vittorio 248. PICASSO, Pablo 19, 28, 245, 271. PIERO DELLA FRANCESCA 213. PINOTTINI, Elio 51n. PIOMBANTI AMMANNATI, Giuseppe 16, 19, 245. PITIGRILLI (Dino Segre) 21, 22. PITTINI, Ettore 25, 34, 43. PONTI, Gio 11, 12, 14, 15, 17, 18, 20n, 25, 26, 41, 42, 44, 46, 47, 49, 50, 55, 58, 59, 61n, 239, 254-257, 258, 260. PORCHEDDU, Giuseppe detto Beppe 15, 31, 53n, 55, 57, 84, 87, 88, 210, 212, 224-226, 270, 277 PORCILE, Monica 51n. POWOLNY, Michael 20n. PRATO, Giuseppe 29. PROVERBIO, Luciano 197, 198, 206, 229, 235, 236, 241, 243. PUCCINI, Giacomo 214 QUADRONE, Ernesto 270, 271. QUAGLINO, Massimo 213, 214, 224, 268, 270. RASPE, Rodolfo E. 270. REGGIONI, Ferdinando 48. RENOIR, Pierre-Auguste 267. REPETTO, Marie Luce 51n. RIDENTI, Lucio 51. RIGHELLI, Germano 24. RIVA, Giovanni 14, 18, 35, 41, 81, 226, 227, 271. RIX-TICHACHEK, Kitty 19, 242. ROBECCHI, Enrica 233. RONZAN, Antonio 252. RONZAN, Giovanni 52n, 200, 251, 252. RONZAN, Giuseppe Luigi 252. RONZAN, Tina 252. ROSSI DI MONTELERA, famiglia 23. ROSSI, Gino 55. ROUSSEAU, Henri 27. RUBINO, Edoardo 205, 266, 268, 269. SACCO, Carlo 26. SALARI, Emilio 270. SANGUINETI, Daniele 216. SARFATTI, Margherita 26. SARTORIS, Alberto 26, 56.


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SCAVINI, Anili 41, 51n, 53n. SCAVINI, Elena, vedi König Scavini, Elena. SCAVINI, Enrico 11, 20, 30, 32, 34, 35, 38, 41, 41, 43-46, 50, 53n, 55, 218, 228, 229, 242, 245, 247, 257, 269, 272, 275. SCHASCHL-SCHUSTER, Reni 215. SCHEIRICH, Paul 18. SCHLIEPSTEIN, Gerhard 12, 12, 18. SINGER, Susi 14, 18, 202, 215. SIRONI, Mario 47, 61n. SOFFICI, Ardengo 267. SOTTSASS, Ettore 34. SPADINI, Armando 266. SPERTINI, Piero 15. SPIONE, Gelsomina 51n. STEEGER, Milly 18. STEIN, Gertrude 211. STURANI, Mario 13, 15, 18-22, 23, 24-28, 31, 41, 43-47, 49, 50, 52n, 53n, 54n, 56-60, 56-60, 61n, 66, 74, 78, 88, 105, 109, 110, 113, 114, 135, 144, 146, 148, 150-1152, 154, 157, 159, 162-1164, 166, 167, 169, 171, 172, 175, 176, 178, 181, 183, 185-1188, 192, 197, 200-203,

210, 212, 224, 227-232, 234-241, 243-246, 252-256, 258-262, 271, 272, 274, 277-279. TATI, Jacques 231. TERRAGNI, Giuseppe 61n. TERRAROLI, Valerio 51n, 52n. TOFANETTI, Tommaso 51n. TOFANO, Sergio 57, 231. TOLSTOJ, Lev 270. TOSALLI, Elisabetta 247. TOSALLI, Felice, 16, 27, 31, 38, 42, 44, 48, 50, 53n, 54n, 61n, 115, 116, 119, 120, 190, 191, 200, 212, 214, 246-251, 253, 255, 262, 263, 272, 274, 276, 277. TREVES, Paola 51n. TURINA, C. 53n. TWAIN, Mark (Samuel Langhorne Clemens) 24. VACCARINO, Ferruccio 51n. VACCARINO, Michele 51n. VACCHETTI, Emilio 15, 31, 37, 55, 269, 272. VACCHETTI, Filippo 272.

VACCHETTI, Giuseppe 273. VACCHETTI, Ignazio 269. VACCHETTI, Sandro 14, 15, 16, 18, 25, 27, 31, 32, 37, 41, 43, 53n, 55, 84, 95, 120, 126, 127, 180, 198, 201, 203, 212, 217, 218, 222, 223, 236, 239, 251-255, 263, 269, 272, 273, 278, 279. VELÁZQUEZ, Diego 27. VELLAN, Felice 15. VENTURI, Lionello 27, 56, 267. VIALE, Vittorio 205, 269. VITTORIO EMANUELE III DI SAVOIA, re d’Italia 267. VON STUCK, Franz 27, 250. WATSON, Francis 48, 219, 247. WEDGWOOD, Josiah 274. WIESELTHIER, Vally 17, 17, 18, 19, 20n, 200. WINCKELMANN, Johan Joachim 21. ZANELLI, Gianluca 216. ZANZI, Emilio 25, 268. ZOVETTI, Ugo 13, 18.

REFERENZE FOTOGRAFICHE Collezione Antonello: pp. 13, 15 (a destra), 16 (al centro e a destra), 75, 103, 112, 114 (in basso), 156. Collezioni private / foto Bruna Biamino: pp. 11, 15 (a sinistra), 23, 56-58, 59, 65-74, 76-102, 104-110, 113, 114 (in alto), 115 (in alto), 117-155, 157-165, 167-169, 171-192. Collezione privata / foto Ernani Orcorte: pp. 44, 116. Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino / foto Goffi, 1993: pp. 115 (in basso). Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino / Gonella Foto snc, 1991: pp. 166, 170. Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino / foto Pino Dell’Aquila, 1989: p. 111 (a destra). Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino / foto Goffi, 1993: p. 115 (in basso). Museo d’arti applicate del Castello Sforzesco, Milano: p. 16 (a sinistra). Wien Museum, Vienna: p. 19.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate e si scusa per eventuali, involontarie inesattezze e omissioni.

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