Il Fatto Quotidiano (13 Gennaio 2010)

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Dopo i fatti di Rosarno l’Egitto accusa l’Italia di non rispettare le minoranze arabe e musulmane. Siamo davvero caduti in basso y(7HC0D7*KSTKKQ(

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LE PROPOSTE PER CAMBIARE LA POLITICA DEL PAESE

LE PROPOSTE PER CAMBIARE LA POLITICA DEL PAESE

EDITORI RIUNITI

EDITORI RIUNITI € 1,20 – Arretrati: € 2,00 Spedizione abb. postale D.L. 353/03 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 Roma Aut. 114/2009

Mercoledì 13 gennaio 2010 – Anno 2 – n° 10 Redazione: via Orazio n° 10 – 00193 Roma tel. +39 06 32818.1 – fax +39 06 32818.230

”IO, DELL’UTRI E COSA NOSTRA” Nei verbali di Ciancimino jr gli incontri del senatore con Provenzano e “l’autista” Schifani

Quel che diceva Napolitano di Paolo Flores d’Arcais

dc

n mese fa, l’11 dicembre del 2009, Berlusconi di fronte ai parlamentari europei del Partito popolare consegna la dichiarazione di guerra contro la Costituzione italiana. Tale è la gravità eversiva del gesto che il presidente della Repubblica – che troppo spesso confonde l’irrinunciabile imparzialità con una corriva equidistanza – è costretto a bollarlo come “violento attacco alle istituzioni di garanzia”, seguito a ruota da Fini. Cos’è cambiato da allora, nelle intenzioni demolitrici del premier? Solo questo: che l’appetito sedizioso di Berlusconi vuole imporre marce forzate nella realizzazione del piano, e la sua bulimia totalitaria esige che esso venga santificato dall’idolatria dell’amore. Il servo encomio non gli basta più, vuole il culto. L’informazione è già orwellianamente nelle sue mani, nove italiani su dieci si tengono al corrente esclusivamente sui tg, tutti minzolianamente “perinde ac cadaver” nella disinformacija. I servizi segreti non potranno più essere “deviati”, li esige privatizzati al suo servizio, il segreto di Stato per coprire gli intrecci con Pollari e Pompa ne è il viatico. Le leggi da approvare tassativamente entro febbraio (ipse dixit) calpesteranno l’autonomia del potere giudiziario e sottrarranno “l’Unto” alla legge, mai più eguale per tutti. L’avvertimento in perfetto stile “Padrino” sulle “conseguenze”, se il Parlamento non rispettasse la scadenza, sigilla il cerchio delle minacce eversive. Il razzismo, promosso dalla maggioranza della maggioranza di governo, legittima ormai la schiavitù e un Ku Klux Klan mafioso. Di che altro c’è bisogno? Che pretenda in vita l’apokolokyntosis dell’imperatore Claudio, la divinizzazione in zucca immaginata da Seneca? Quale cecità impedisce ai Bersani e ai De Bortoli di riconoscere che ormai la democrazia in Italia residua e resiste solo nelle manifestazioni di piazza e nel caparbio eroismo di qualche settore delle istituzioni (in primo luogo tra i magistrati)? Perciò, dalla condanna di Napolitano – il momento più lucido della sua presidenza, rimosso nel discorso di Capodanno – la politica italiana deve ripartire, se vuole evitare all’Italia il baratro. Perché: o Napolitano ha esagerato, e allora è stata imperdonabile irresponsabilità. O ha detto il vero (e il minimo), come i fatti evidenziano, e allora le leggi anticostituzionali che Berlusconi sta approntando non può firmarle, e prima ancora Fini non può votarle. Se la logica non è un’opinione, e la moralità un optional.

U

I decreti legge discussi in carcere, la trattativa con lo Stato durante la stagione stragista, gli appalti e il coinvolgimento dei Servizi segreti Lo Bianco, Cottone e Rizza pag. 2 e 3 z

di Peter

Gomez

Bernardo Provenzano Clo heloaveva considerasse affidabile già raccontato un suo ex braccio destro, il boss di Caccamo, Nino Giuffè. Tra il 1993 e il 1994, aveva ricordato il super pentito, Zio Bino al termine di una mezza dozzina di riunioni tra capimafia, aveva detto: “Siamo in buone mani, ci possiamo fidare”. pag. 2-3 z

Udi Marco Lillo DA PALERMO ALLA DOLCE VITA ROMANA er capire chi è MassiPgnamo Ciancimino bisopasseggiare con lui tra il Pantheon e piazza di Spagna, dove ha abitato con il padre quando don Vito era agli arresti domiciliari. pag. 3 z

IMPUNITÀ DEL PREMIER RIBELLARSI SI PUÒ

Processo breve, rivolta Anm. Il Pd: “Ostruzionismo”. Alfano: decreto-blitz per congelare i procedimenti di B.

ncarceri

nlazio

Alfano si accorge dell’emergenza e chiede nuove celle

Polverini Giacca rossa camicie nere

Mascali e Nicoli pag. 4-5 z

Telese pag. 8z

D’Onghia pag. 9z

Udi Massimo Fini

nrosarno

L’ AFRICA NERA Le mani dei clan: “Possiamo uccidere NON MORIVA cento persone” DI FAME ui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati sfruttati fino all’osso, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. pag. 13 z

S

Fierro pag. 7z

CATTIVERIE Ad libertatem ad delinquerem. Amen

Palato Chigi di Marco Travaglio

rionfo di ascolti, lunedì, per la telepompa funebre allestita in onore di Bottino Craxi (“Una storia italiana”) dal suo pony express Gianni Minoli: lo share del 6% corrisponde più o meno alla percentuale che lo statista garofanato incassava sugli appalti. Chi eventualmente fosse sopravvissuto alla seratina votiva è stato poi letteralmente finito dall’intervista rilasciata ieri da Stefania Craxi ad Aldo Cazzullo del Pompiere della Sera: quella in cui l’equilibrata figlia d’arte sostiene che il padre “morì in povertà”. In queste ininterrotte celebrazioni del noto erede di Turati, manca sempre un dettaglio: i verbali di Giorgio Tradati e di Maurizio Raggio, i due prestanome a cui Bottino aveva affidato i suoi tre conti svizzeri: Northern Holding, Constellation Financière e International Gold Coast. Qualcuno, dopo aver visto la minolata e letto la cazzullata, si sarà fatto l’idea che i due tizi fossero dei funzionari del Psi, visto che il massimo di critica consentito sulla stampa e la tv di regime è quella di una gestione un po’ distratta dei finanziamenti al partito (“il tesoro di Craxi è una maxiballa”, sostiene la figlia, “non è mai esistito: esisteva il ‘tesoro’ del partito, i conti esteri del Psi, ma mio padre non se n’è mai occupato”). Invece no: Tradati era un compagno di scuola di Craxi, Raggio era un ex barista di Portofino fidanzato della contessa Francesca Vacca Agusta, amica di Craxi. A che titolo quei due carneadi, estranei al Psi, gestivano i tre conti, se i tre conti erano del Psi? In realtà erano i conti di Craxi, che vi accumulò per 15 anni tangenti personali che usava per spese personali: le sentenze definitive parlano di “un appartamento a New York, due operazioni immobiliari a Milano, una a La Thuile, una a Madonna di Campiglio” (le nuove sedi del Psi?), “velivolo Sitation da 3 miliardi di lire”, un villino “a Saint Tropez per il figlio Bobo” (anche lui, l’altra sera, pontificante in tv senza che nessuno gli chiedesse di quegli 80 milioni di lire tratti dai conti svizzeri del padre per garantirgli il dorato esilio in Costa Azzurra); una villa e un prestito di 500 milioni per il fratello Antonio; “100 milioni al mese per l’acquisto di Roma Cine Tv”, l’emittente di una della amanti: Anja Pieroni. Spese tipiche di un uomo “morto in povertà”. E’ un vero peccato che Minoli, fra gli storici, i politici, i politologi, i nani e le ballerine intervistati, si sia scordato di quei due tipini che, da soli, avrebbero potuto lumeggiare la statura politica e morale del francescano di Hammamet. Ma, anche nel tentativo di incensarlo, Minoli gli ha reso un pessimo servizio. Craxi che dice “essere mio cognato ha danneggiato Pillitteri” e promette a De Mita la staffetta per poi rimangiarsela, ci svela da chi ha imparato a mentire il suo degno compare che l’ha sostituito a Palazzo Chigi. Napolitano che attacca Berlinguer sull’Unità perché ha osato invocare “la questione morale” ci spiega molte cose sull’attuale inquilino del Quirinale. Martelli che parla con la massima naturalezza di “flussi di finanziamenti da aziende pubbliche e private al Psi”, come se quelli da aziende pubbliche non fossero vietati dalla legge che questi signori avevano approvato per poi violarla subito dopo, la dice lunga sulla doppia morale di quella (e di questa) classe politica. Non male il ricordo di Craxi incaricato dall’Onu di occuparsi del debito del Terzo mondo, dopo tutto quel che aveva fatto per il debito dell’Italia. Ma il punto più alto della telepompa funebre si raggiunge quando Minoli, con un lapsus freudiano, racconta: “Craxi entra a Palato Chigi”. Meravigliosa metafora orale di un’epoca: Bottino ci metteva il palato, Minoli la lingua.

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COSE LORO

I protagonisti in aula: da mister Forza Italia al pm Antimafia

è MARCELLO DELL’UTRI Per Massimo Ciancimino è “il nostro senatore” citato nei pizzini del 2000 e del 2001 come interlocutore del boss Provenzano. Il politico Pdl è senatore dal 2001.

è SALVATORE CUFFARO Ex governatore della regione Sicilia. È per il figlio di don Vito il “nuovo presidente” nominato dal boss Provenzano nelle missive scritte al padre, nel 2001.

è ANTONIO INGROIA Allievo di Paolo Borsellino. È il procuratore aggiunto che sta indagando sui misteri della trattativa tra mafia e carabinieri nel 1992 di cui parla Ciancimino jr.

19 NOVEMBRE 2002

MUORE DON VITO: INDAGINI AL VIA 8 GIUGNO 2006

VIENE ARRESTATO PER RICICLAGGIO 10 MARZO 2007

5 ANNI E 8 MESI IN PRIMO GRADO APRILE 2008

PARLA DELLA TRATTATIVA TRA STATO E MAFIA 30 DICEMBRE 2009

IN APPELLO PENA RIDOTTA A TRE ANNI E 4 MESI

Dell’Utri, “uomo di zio Bino” CIANCIMINO JR RIVELA AI PM DI PALERMO di Peter Gomez

he Bernardo Provenzano lo considerasse affidabile lo aveva già raccontato un suo ex braccio destro, il boss di Caccamo, Nino Giuffè. Tra il 1993 e il 1994, aveva ricordato il super pentito, Zio Bino al termine di una mezza dozzina di riunioni tra capimafia, aveva detto: "Siamo in buone mani, ci possiamo fidare". Ma l'eventualità che tra il senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri, e l'anziano uomo d'onore corleonese, per dieci anni alla guida di Cosa Nostra, vi fossero stati degli incontri a tu per tu era finora rimasta solo nel campo delle ipotesi. Chi adesso invece spariglia le carte e dà per sicuri quei summit, in cui si discuteva su come risolvere politicamente i molti problemi della mafia, è Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, l'ex sindaco di Palermo protagonista di un pezzo importante della presunta trattativa tra Stato e i clan siciliani dei primi anni Novanta. Dice Ciancimino Junior: "Tra di loro c'erano rapporti

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stretti, molto stretti. Io so che si conoscevano che c’era un rapporto diretto. Tant’è che per mio padre, quando aveva bisogno di avere favori da quel partito (Forza Italia ndr) o notizie, bozze di legge, il punto di riferimento per era sempre il Lo Verde (uno degli alias di Provenzano ndr). Spesso anche tramite il Lo Verde mi sono arrivati a casa disegni di legge a casa, manovre su cose (il sequestro ndr) dei beni…". È questa, forse, la rivelazione più importante contenuta nei 22 verbali del giovane Ciancimino, depositati due giorni fa (con parecchi omissis) al processo per la mancata cattura di Provenzano contro l'ex capo del Ros dei carabinieri, generale Mario Mori. Per mesi davanti ai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Ciancimino Junior ha provato a riscrivere un pezzo di storia d'Italia, consegnando i documenti conservati da suo padre, i pizzini ricevuti da Provenzano, e soprattutto le spiegazioni su quanto era accaduto in Sicilia affidate da don Vito a un li-

bro che l'ex sindaco democristiano stava scrivendo prima di morire. Così Massimo Ciacimino parla dei misteri della storia italiana recente: da Ustica al caso Moro, dagli omicidi di Michele Reina e Pietro Scaglione a quello di Piersanti Mattarella. E ricostruisce pure il versamento di presunte tangenti date "da Romano Tronci all'onorevole Enrico La Loggia" (ex Dc, poi ministro di Forza Italia), e racconta di "una somma di denaro (duecentocinquantamila euro)" consegnata nel 2005 un commercialista perché fosse girata al presidente della Commissione Affari Costituzionali del senato, Carlo Vizzini. Dalla moviola della sua memoria esce insomma il dipinto verosimile, ma ancora tutto da verificare, dell'area grigia. Di quella zona di confine tra la mafia e una borghesia siciliana da sempre abituata a convivere e a fare affari con i boss. Un filo sottile che parte da Palermo per arrivare a Roma e che poi, secondo Massimo Ciancimimo, si riannoda ad Arcore dove Dell'Utri, già

CIRAMI, la dissociazione e il Decreto “dibattuto” a Rebibbia con Pippo Calò el 1988, un anno dopo il cambio di ca- rebbe la fine dell’organizzazione Cosa Ndi Cosa vallo politico dalla Dc al Psi, una parte Nostra’’. L’argomento era “caldo’’ in quei Nostra pensava alla dissociazio- giorni, visto che di dissociazione si parla ne, forse prefigurando, come ha detto il pentito Nino Giuffrè, esiti tragici. Un’ importante conferma alle parole di Nino Manuzza arriva oggi da Massimo Ciancimino che rivela come in quel periodo suo padre parlasse degli aspetti giuridici della dissociazione con il suo difensore, il professore Virgilio Gaito, e, successivamente, di quelli operativi, con il boss Pippo Calò, con il quale era rinchiuso nel carcere di Rebibbia. La dissociazione è il chiodo fisso dei corleonesi e finisce anche nel “papello’’ di Riina. Ma don Vito, che ben conosceva gli effetti della proposta, parlando con Massimo, prendeva in giro il boss: “È così cretino – ha raccontato Ciancimino jr, riferendo le parole del padre su Riina – che nello scrivere questo punto non si rende conto che sa-

sui giornali nel luglio del ’92, poco prima della strage di via D’Amelio: “C’è un’intervista all’onorevole Martelli che tanto critica questa cosa’’, rivela Massimo Ciancimino. Pochi anni dopo il papello la “dissociazione’’ dei mafiosi viene codificata in un disegno di legge presentato dal senatore del Ccd Rino Cirami, originario di Agrigento. E Ciancimino jr chiosa: “Mio padre si è messo a ridere quando hanno nominato l’onorevole Cirami ad Agrigento e, unica cosa, gli hanno fatto fare il decreto legge’’. Risate giustificate dal fatto che quel testo, racconta Massimo, venne fatto pervenire da Marcello Dell’Utri a Provenzano, che lo girò a suo padre. Il quale, “della dissociazione parlò in carcere con Calò a Rebibbia, ne parlò tante Giuseppe Lo Bianco volte di questo’’.

trentacinque anni fa, "sicuramente aveva gestito soldi che appartenevano sia a Stefano Bontade (il capo della mafia palermitana ucciso nel 1981 ndr) che a persone a lui legate". A pm Ciancimino junior ha offerto molte piste per i possibili riscontri: nomi di società tra le famiglie mafiose dei Bonura e dei Buscemi (questi ultimi già risultati soci del gruppo Ferruzzi di Ravenna), l'identità di commercianti di diamanti testimoni dei presunti passaggi di capitali, appunti di suo padre. Ma per il momento tutto è ancora coperto dal segreto investigativo. Agli atti finisce invece il racconto del dopo. Di quello che ac-

cadde quando nel 1992 Cosa Nostra uccide l'eurodeputato Salvo Lima, l'andreottiano che fino a quel momento aveva fatto da tramite tra la grande politica e le cosche. A quel punto don Vito, già arrestato e condannato, ma ancora libero, accarezza l'idea di prendere il suo posto. Con Provenzano vanta un'amicizia antica. I carabinieri del Ros, che vogliono catturare Totò Riina, bussano spesso alla sua porta. Don Vito pensa così di poter diventare il nuovo punto d'equilibrio tra Stato e mafia. Ma la situazione presto precipita. Lui va in carcere e viene sostituito. "Da chi? Da qualcuno che l’aveva scavalcato?" domandano i

I SERVIZI SEGRETI e la stagione stragista rizzolato, con occhiali, alto circa 1,75-1,80, sem“B pre ben vestito, si permetteva di arrivare senza appuntamento e veniva a trovare mio padre anche mentre questi si trovava agli arresti domiciliari”'. Ecco l’identikit del signor Franco, o Carlo, il misterioso 007 che, secondo Massimo Ciancimino segue, passo dopo passo, le fasi della trattativa aperta tra Cosa nostra e lo Stato. È lui il personaggio principale dei “'servizi”' che compare nelle infinite pagine dei verbali del figlio di don Vito. Massimo non fa mai il suo nome, ma lo descrive come ''l'anello di collegamento col dottor Sica e col dottor De Francesco (entrambi hanno rivestito il ruolo di Alto commissario per la lotta alla mafia, ndr), nel periodo compreso tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio”. Del signor Carlo o Franco, il ragazzo dice che è riuscito incontrare suo padre anche in carcere. Ma come? “Attraverso un colloquio investigativo”. E quel “signore distinto” non è il solo agente segreto che controlla come un’ombra i piani segreti di don Vito. Di spioni e 007, Massimo Ciancimino parla più volte: “Il luogo dove mio padre incontrava il signor Franco e altri soggetti dei servizi era a via Villa Massimo; lì c’erano gli uffici dei servizi segreti. Lì mio padre incontrava Sica e De Francesco”. Spiega poi il giovane Ciancimino: “I rapporti coi servizi mio padre li ha sempre tenuti, cercando di limitare a uno o due persone i rapporti con Cosa Nostra. Lui diceva che il suo pregio era quello di avere rapporti solo con Provenzano”. I servizi hanno sempre avuto un ruolo chiave per don Vito. “Nel sequestro di Aldo Moro - ricorda il figlio - mio padre mi disse che era stato pregato ben due volte di non dar seguito alle richieste ricevute per far pressione su Provenzano affinché si attivasse per aiutare lo Stato Sandra Rizza nella ricerca del rifugio dello statista”.

Da sinistra, Silvio Berlusconi e Bernardo Provenzano; al centro un disegno di Manolo Fucecchi con Vito e Massimo Ciancimino; in basso via D’Amelio subito dopo la strage dove ha perso la vita il giudice Paolo Borsellino

pm. Ciancimino junior risponde sicuro: "Mio padre disse che Marcello Dell’Utri, una persona che non stimava, perché la riteneva troppo impulsiva, poteva essere l’unico che poteva gestire una situazione simile". E le sue, secondo il figlio dell'ex sindaco, non erano ipotesi. Perché, nel corso degli anni, del rapporto diretto tra Provenzano e l'ideatore di Forza Italia, lui avrebbe avuto più volte riscontri diretti. Per esempio un biglietto ricevuto dalle mani del boss nel settembre 2001. Nel dattiloscritto si legge: "Carissimo Ingegnere (don Vito Ndr) ho letto quello che mi ha dato M (Massimo ndr)... Mi è stato detto dal nostro Sen e dal nuovo Pres che spigeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza. Appena ho notizie ve li farò avere, so che l’av. è benintenzionato. Il nostro amico Z ha chiesto di incontrare il Sen. Ho letto che a lei non ha piacere e bisogna prendere tempo si tratta di nomine nel gas, mi ha detto che vi trovate in Ospedale che la salute vi ritorni presto e che il buon Dio ci assista". Massimo Ciancimino, che ha già potuto apprezzare le capacità d'intervento del padre sul mondo Fininvest quando era riuscito a far assumere, nel giro di 20 giorni, un'amica a Publita-

Bernardo Provenzano sul senatore del Pdl: “Siamo in buone mani, ci possiamo fidare”


Mercoledì 13 gennaio 2010

COSE LORO è TOTÒ RIINA La cattura del capo dei capi, secondo Ciancimino, sarebbe stata il frutto dalla collaborazione tra la mafia di don Vito e Provenzano con il Ros.

è MARIO MORI Quando fu arrestato Totò Riina era il comandante del Ros dei carabinieri. Don Vito, secondo il figlio, lo riteneva un interlocutore per la trattativa.

Quando Schifani faceva l’autista “IO, RENATO, TOTÒ CUFFARO E QUEGLI INCONTRI AL BAR” di Marco Lillo

er capire chi è Massimo Ciancimino bisogna passeggiare con lui tra il Pantheon e piazza di Spagna, dove ha abitato con il padre quando don Vito era agli arresti domiciliari. Le migliori boutique, da Cenci a Car Shoe, se lo contendono. I vip e i politici, magari un po’ sfuggenti ora che è famoso, lo salutano. Nei ristoranti alla moda, come Maccheroni o Riccioli Caffè lo accolgono come un’autorità e lo abbracciano chiedendogli del piccolo Vito, il bambino che porta il nome del famigerato nonno sindaco mafioso e assessore all’urbanistica del sacco di Palermo. Massimo Ciancimino, prima di essere arrestato nel 2006 con l’accusa di aver riciclato il tesoro del padre era un rampollo della “Palermo bene” che lo apprezzava proprio per le stesse ragioni per i quali i pm volevano arrestarlo. Nonostante il padre fosse stato condannato per mafia, gli avvocati in cerca di clienti e le belle figliole in cerca di sistemazione mormoravano al suo passaggio: “Il padre gli ha lasciato un patrimonio di centinaia di milioni di dollari in Canada”. Lui non faceva nulla per smentire la leggenda e parcheggiava il suo Ferrari sul molo per poi salire su un fuoribordo Itama 55 con il quale incrociava tra le Eolie e le Egadi. Democristiani e forzisti lo consideravano un amico. E ora lui sta riversando ai magistrati tutto quello che ha visto e sentito in tanti anni passati a cavallo tra mafia e politica. Davvero imperdibile il verbale del 22 dicembre scorso nel quale Ciancimino jr racconta ai pm come ha conosciuto Cuffaro e Schifani: “Nel 2001, avevo incontrato l’Onorevole Cuffaro a una festa elettorale.... poi mio padre mi ha ricordato che faceva l’autista all’ex ministro Calogero Mannino quando pure io accompagnavo mio padre alle riunioni. Poi ho ricollegato: quando accompagnavo mio padre dall’onorevole Salvo Lima (prima in rapporti con i boss e poi ucciso nel 1992 dalla mafia, secondo i pentiti Ndr) spesso rimanevamo io fuori dalla macchina e c’era Renato Schifani che guidava la macchina a La Loggia (non Enrico ma il vecchio Giuseppe, importante politico Dc eletto presidente della Regione Sicilia e poi deputato Ndr). Io rimanevo con mio padre e Cuffaro guidava la macchina a Mannino. Diciamo i tre autisti erano questi. Oggi ovviamente gli altri due hanno fatto ben altre carriere, io no. Andavamo a prendere cose al bar”. E

P

lia, traduce. Il "nostro sen" è Dell'Utri, il "nuovo pres" è invece il governatore Siciliano Totò Cuffaro, mentre "l'av" è l'avvocato Nino Mormino, difensore di tutto il ghota di Cosa Nostra, legale di fiducia di Dell'Utri e, in quel momento vice-presidente della commissione giustizia della Camera. Tre politici già finiti sotto

inchiesta per fatti di mafia (i primi due condannati in primo grado, il terzo archiviato) che, secondo Ciancimino junior, cercavano di darsi da fare perché l'ultima parte di pena che ancora costringeva l'ex sindaco agli arresti domiciliari, fosse cancellata da un provvedimento di clemenza. Anche per questo nelle

POLITICI, affari, appalti e tradimenti elle dichiarazioni di Massimo Ciancimino viene noNCamera minato Enrico La Loggia, vice presidente del Pdl alla ed ex ministro per gli Affari regionali. A lui Romano Tronci - esperto di energia che avrebbe agevolato l’espansione degli affari di Ciancimino nell’est europeo avrebbe versato una tangente di 50 milioni, secondo le rivelazioni del figlio di Don Vito. I pm che interrogano Ciancimino jr partono da un appunto scritto di propria mano che comincia con la dicitura: “Aziende sotto pressione 1980-1991”, al quale seguono nomi di imprese, imprenditori e uomini politici. Si parla della Impregilo, dell’acquedotto dello Jato, di una sopraelevata in cui Vito Ciancimino avrebbe fatto da garante e che avrebbe portato alla stipula di un “contratto” con Buscemi. Poi Benny D’Agostino (socio della Sicula Brokers con Renato Schifani, ndr) per i “lavori marittimi litoranea verso Bagheria”. Ancora Panzavolta, Ferruzzi e Gardini. Negli stessi appunti si tira in ballo anche Leoluca Orlando. “Vaselli, Cozzani e Silvestri accordo Leoluca Orlando” scrive Ciancimino facendo riferimento a lavori di manutenzione. “La fideiussione fatta da Cozzani e Silvestri era controgarantita da Vaselli” continua annotando fra parentesi “Orlando sapeva?”. Poi si passa al settore ambientale, “mio padre fuori, gestiva direttamente da Lima, con Thermomeccanica Di Benedetto delegato da Lima”. E proprio all’ex esponente Dc assassinato dalla mafia, Ciancimino dedica un paragrafo: “Contratto con Lima cui mio padre addebitava la sua rovina” scrive Ciancimino mettendo fra parentesi il nome di Andreotti e aggiungendo che “non solo lo tagliò fuori da… ma prese poi in giro amico storico. Versamenti successivi dei soldi dati a mio padre furono versati a Lima”. Infine la scritta: “Presa in giro su lavori nuovi, vedi esempio La Loggia 50 milioni” e fra parentesi Andrea Cottone i nomi di La Loggia e Sciangula.

mani di Ciancimino, altre volte anche tramite Provenzano, a partire dal '96 arrivano spesso gli articolati pro-mafia, poi presentati in parlamento. O almeno così dice Ciancimino Junior che spiega anche come "il nostro amico Z", fosse suo cugino, Enzo Zanghi. Un uomo già finito nel mirino degli investigatori nel 1998, quando due mafiosi legati a Provenzano, in alcune intercettazioni avevano parlato di lui come della persona che chiedeva di votare per Dell'Utri alle elezioni europee. Certo, non tutte le parole di Ciancimino Junior vanno prese come oro colato. Gli investigatori stanno cercando di capire come mai già in bigliettini del 2000, quando Dell'Utri era solo deputato, comparisse un "amico senatore" che, secondo il testimone, sarebbe sempre il braccio destro di Berlusconi. Ma il dato è che per ora le sue parole sembrano preoccupare molte persone. Tanto che nei giorni scorsi, il giovane Ciancimino ha detto a Il Fatto Quotidiano di essere stato avvicinato da un emissario di Dell'Utri, forse proprio in vista di una possibile convocazione al processo d'appello contro il senatore azzurro. A Palermo e non solo, si trattiene il respiro.

Dati per certi i summit in cui si discuteva su come risolvere politicamente i problemi della mafia

poi la chiusa da attore consumato: “C’è chi è più fortunato nella vita!”. Non c’è da scandalizzarsi se, come ha raccontato Lirio Abbate, è stato proprio il figlio di don Vito a consigliare ad Angelino Alfano quando non era ancora ministro ed era ancora calvo, un professore in grado di restituirgli la chioma con un trapianto. Il fatto è che Massimo Ciancimino è simpatico e maledettamente sveglio. Con un padre padrone che dava ripetizioni a Provenzano al mattino e lo legava alla catena alla sera per frenare la sua irrequietezza, ha dovuto tirare fuori presto la sua personalità. Mentre il fratello più grande studiava per il concorso in magistratura (fallito all’orale), lui pensava a fare soldi. Quando lo arrestano aveva appena ceduto la quota ereditata dal padre nella società che si occupava della metanizzazione in Sicilia (con la benedizione dei boss). L’altra socia era la nuora di un procuratore antimafia. E molti politici di Forza Italia avevano ottenuto finanziamenti grazie a quella società. Dopo l’arresto tutti lo mollano. Il giovane Ciancimino si sente tradito e, dopo la condanna in primo grado, comincia a raccontare una parte di quello che sa. Si dice che la parte più interessante dei verbali sia ancora coperta da omissis. E che lì si parli anche di un certo Silvio Berlusconi.

MIO PADRE, soldato di Gladio e uomo della trattativa Stato-mafia x sindaco, brasseur d’affairs dei corleo- pochi corleonesi che sapeva l’inglese, perEfia-Stato nesi, uomo centrale della trattativa ma- ciò mio nonno è stato assoldato da quello e, infine, anche soldato di Gladio. che a suo tempo si chiamavano i Marines’’. Della struttura segreta di ispirazione atlantica don Vito Ciancimino, come ha rivelato il figlio Massimo, è stato un affezionato adepto. I pm ne hanno trovato traccia in un “pizzino” consegnato dallo stesso Ciancimino: un foglio A4 manoscritto, che si apre con la dicitura: “Gladio per Serravalle era una copertura, già nel passato in cui ne ero a capo ho sospettato che Gladio fosse una struttura che servisse da copertura a qualcosa di nascosto, a un magma che vi navigava sotto e che doveva restare segreto…’’. “Mio padre mi disse che faceva parte di Gladio – ha esordito Massimo – aveva avuto diversi incontri’’. L’origine del rapporto, secondo Ciancimino jr, risalirebbe allo sbarco degli americani in Sicilia: “Mio nonno Giovanni era stato assoldato come interprete – ha detto - perché era uno dei

Un rapporto ereditato poi dal padre, don Vito, che costituì le sue prime società con un colonnello dei carabinieri: “Difatti quelle licenze che voi avete – dice Massimo ai pm - sono le prime società che mio padre costituisce pure insieme a questo Colonnello americano di Import- Export perché il rapporto poi continua nel tempo”. Anche il misterioso 007 Carlo-Franco sarebbe stato a conoscenza dell’affiliazione a Gladio di don Vito, della quale Massimo non conosce altri dettagli: “Partecipò a riunioni, ma mi sembrano cose così lontane dalla mia realtà… escludo ogni partecipazione di mio padre a strutture come Massoneria e cose varie mentre mi ha sempre parlato di Gladio. Un argomento che non ho approfondito perché mi sembrano veramente teg.l.b e s.r. mi così da film quasi”.


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Mercoledì 13 gennaio 2010

Legittimo impedimento, in aula il 25 gennaio

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AD PERSONAM

a commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame degli emendamenti al testo sul legittimo impedimento. Il relatore e primo firmatario del provvedimento Enrico Costa esprime soddisfazione: “Si tratta di un testo equilibrato, serio - commenta - che va oltre i confini della maggioranza che peraltro si è dimostrata molto

compatta”. I deputati centristi, la cui proposta sul legittimo impedimento era stata in gran parte recepita dal Lodo Costa, si sono astenuti su molti emendamenti che sono stati respinti invece dal centrodestra. Le proposte di modifica presentate erano 168 di cui 5 presentate dall’Udc e tre dal deputato del Pdl Enrico La Loggia. Il provvedimento dovrà ricevere ora il

parere delle commissioni competenti ed è atteso in aula per il 25 gennaio. Il ministro Alfano, intervistato dal Tg1 ha detto: “Il legittimo impedimento altro non è che il diritto a governare di chi è stato chiamato dal popolo. E il processo breve serve ad assicurare un principio di civiltà: una data certa entro cui il cittadino può sapere se è colpevole o innocente”.

PER FARLO BREVE

Il premier imbriglia i processi, l’Anm: “È impunità” Il Pd: “Ostruzionismo, ci metteremo di traverso” di Antonella Mascali

Giustizia è sfatta: un altro colpo al principio di uguaglianza (FOTO ANSA)

i dice che la toppa è peggio del buco. Lo stesso vale per il maxi emendamento al disegno di legge “processi brevi”, che con le modifiche non solo continuerà ad ammazzare miglia di procedimenti e a favorire Berlusconi, ma anche tanti colletti bianchi, per esempio, con l’ammorbidimento della legge che permette di perseguire le società e con i limiti alla Corte dei Conti. Per la prima volta stabiliti tempi massimi dei processi, con tempi diversi, per tutti i tipi di reato, compresi mafia e terrorismo, cancellata la distinzione tra imputati incensurati e recidivi. Tutto ciò in 8

S

Limite massimo per la durata, condono “garantito” anche per i colletti bianchi punti, a firma del senatore del Pdl Valentino, che spesso fa riferimento a proposte di legge dell’attuale Pd e al “giusto processo” previsto dall’articolo 111 della Costituzione. Secondo il maxi emendamento per i reati la cui pena è inferiore ai 10 anni, “sola o congiunta alla pena pecuniaria”, il processo di primo grado è estinto se dura oltre 3 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio. Quello d’appello deve durare 2 anni e quello in Cassazione 1 anno e mezzo. Per

i reati la cui pena “è pari o superiore nel massimo a 10 anni di reclusione” , i processi muoiono dopo 4 anni, se sono in primo grado, 2 anni e 1 anno e mezzo se sono in Appello o in Cassazione. Per processi di mafia o terrorismo i termini diventano rispettivamente “5 anni, 3 anni e 2 anni e il giudice può, con ordinanza prorogare tali termini fino a un terzo ove rilevi una particolare complessità del processo o vi sia un numero elevato di imputati”. E veniamo al regime transitorio concepito per salvare il premier dai processi Mediaset e Mills. Recita questa parte conclusiva del testo: la normativa “non si applica ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge… ”. Ma c’è l’inghippo salva-B. e con lui una selva di imputati in procedimenti di primo grado: “Unica eccezione a questo principio è costituita dai processi relativi a reati commessi fino al 2 maggio 2006, e quindi direttamente interessati dal provvedimento dell’indulto… con pe-

ne nel massimo, inferiori ai 10 anni, se non c’è stata la sentenza di primo grado dopo due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio”. Proprio come per i processi a carico di Berlusconi: per il processo Mills ( prossima udienza venerdì), la richiesta di rinvio a giudizio c’è stata il 10 marzo 2006. Per il processo Mediaset-diritti tv ( prossima

udienza il 18 gennaio), la richiesta di rinvio a giudizio è del 22 aprile 2005. Contando anche la pausa forzata di un anno, grazie al lodo Alfano, i processi comunque con questa legge sono morti, ancora prima che per causa della legge ad personam, ex Cirielli. Se passa questo testo possono brindare anche le società, “persone giuridiche” in

PAOLO BERLUSCONI Condanna confermata a quarta sezione penale della Cassazione ha conLPaolo fermato la condanna a quattro mesi di carcere per Berlusconi inflitta dalla Corte d’appello di Milano nel 2008 per false fatturazioni dal valore di circa 5 miliardi delle vecchie lire, emesse dal '93 al '95 con la società Simec che gestiva la discarica di Cerro Maggiore. Il sostituto procuratore della Cassazione, Mauro Iacoviello, ieri in udienza aveva chiesto il rigetto dei ricorsi e quindi la conferma della condanna. I giudici della quarta sezione penale, presieduta da Graziana Camponato, hanno accolto le richieste del pg.

IL COMMENTO Le irragionevoli bizze di un bambino capriccioso di Lorenza Carlassare

hanno un rilievo comunicativo Iciònomi fortissimo: chiamare ‘processo breve‘ che il governo ha escogitato per risolvere, nell’immediato, problemi processuali che interessano il suo ‘Capo’ è una trovata che merita l’applauso. Chi non vorrebbe, in Italia, finalmente un processo breve? La soluzione è elementare : se il processo è troppo lungo, basta fissare un termine entro il quale necessariamente si chiude. Un bel taglio netto, e voilà, come d’incanto il processo non c’è più. Ma l’interesse pubblico in nome del quale si esercita la giustizia penale è, anch’esso, cancellato? Ciò che colpisce innanzitutto è l’irragionevolezza di queste norme. A prima vista sembra una considerazione banale , priva di rilievo sul piano giuridico. Ma non è così; la ‘ragionevolezza’ delle leggi è uno dei criteri con i quali la Corte costituzionale misura le norme che vengono sottoposte al suo giudizio.

Anche nella sentenza recente, n. 262/2009, che dichiara la illegittimità del ‘lodo Alfano’ si legge che, se la finalità della sospensione dei processi per le Alte cariche fosse quella di tutelare il diritto di difesa degli imputati, la previsione di una presunzione assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto della titolarità della carica, senza la possibilità di verificare se davvero l’impedimento sussista, “sarebbe intrinsecamente irragionevole e sproporzionata”. Qui di ragionevole non c’è nulla. Sembra il gioco di un bambino capriccioso: se qualcosa lo infastidisce, preme un bottone e la fa sparire. Nella stessa motivazione della proposta del processo breve, è detto che il principio della ragionevole durata del processo è “espressione di un sistema efficiente, che non si attarda più del dovuto nell'affermazione della verità giudiziale” come più volte ha affermato la Corte europea dei diritti dell'uomo. Tutto vero e giusto oltre che costituzio-

nalmente doveroso: in base all' art.111, comma 2, la legge “assicura la ragionevole durata” del processo. Ma come si realizza questo obiettivo? Come riconoscono gli stessi sostenitori dell’emendamento innanzitutto, si realizza in primo luogo “attraverso una valida organizzazione giudiziaria” . Viene da chiedersi perché, allora non abbiano provveduto a questo. In verità, come tutti sanno e ripetono, l’obiettivo si realizza innanzitutto eliminando le difficoltà che attanagliano l’amministrazione della giustizia: aumentando i fondi, aumentando il personale senza il quale i magistrati non possono procedere spediti, aumentando il numero stesso dei magistrati, assolutamente inadeguato nelle sedi più difficili. Questi sono rimedi ‘congrui’; altrimenti fissare termini perentori il cui decorso porta all’estinzione del processo ha solo effetti distruttivi. Rispetto al fine dichiarato, la riduzione della durata dei processi, dunque, il rime-

base alle legge 231 del giugno 2001 e quindi perseguibili penalmente. Dal complesso emendamento, allo studio dei magistrati, si evince che i tempi utili per arrivare a una sentenza contro una società possono addirittura in alcuni casi passare dagli attuali 5 anni, a 2 anni o al massimo due anni e 3 mesi. Il ddl prevede anche limiti di tempo per i procedimenti della Corte dei Conti. In questo caso i processi si estingueranno se la sentenza di primo grado è stata emessa dopo più di 3 anni dal deposito dell'atto di citazione in giudizio. Due anni, se il danno non supera i 300mila euro. La regola vale anche per i processi contabili in corso, al momento di entrata in vigore della legge ma, secondo la norma transitoria, solo se “sono trascorsi almeno cinque anni” dall'atto di citazione in giudizio. I processi contabili in appello, anche quelli in corso, decadran-

no se trascorrono più di due anni dalla notifica della sentenza di primo grado. L’Associazione nazionale magistrati, che aveva definito “devastante” la versione vecchia del ddl, ieri ha rincarato la dose: “Si rischia di mettere in ginocchio la già disastrata macchina giudiziaria - ha detto il presidente Palamara - . Con il processo breve non si dà giustizia alle vittime del reato e si rischia di dare impunità a chi ha commesso fatti delittuosi”. Non le manda a dire neppure il Pd: “Contro il processo breve dice Bersani - ci metteremo di traverso”. E la presidente dei senatori democrat Finocchiaro promette ostruzionismo: “Abbiamo chiesto che il provvedimento torni in commissione” perché è del tutto nuovo, “e se non verrà accolta la nostra richiesta faremo ostruzionismo e presenteremo centinaia e centinaia di emendamenti”. A Schifani, che ha sostenuto di non avere il potere di rinviare in commissione il provvedimento, Finocchiaro ha ricordato che il presidente del Senato “non è soltanto un notaio”.

RAIDUE

Belpietro in onda a febbraio

I

l Cda della Rai ha inaugurato l’anno parlando di piano industriale e risorse (entrambi rinviati al 27 gennaio). E per restare in tema, arriva una cattiva notizia: la Cassazione ha respinto il ricorso della Rai che metteva in dubbio la legittimità della Corte dei Conti a promuovere iniziative sulle responsabilità per danno erariale degli amministratori: chi sbaglia, pagherà. E invece le ultime su Maurizio Belpietro in Rai sono poche righe di una scheda acclusa al palinsesto di gennaio e febbraio. Il direttore generale Masi l’ha consegnata ai consiglieri: programma informativo – c’è scritto – lunedì in prima serata su RaiDue, conduce Belpietro. Nessun titolo, nessun contratto. Il vice Antonio Marano segna una data: “L’abbiamo inserito a febbraio. È un’indicazione. Al massimo potrebbe slittare di una, due settimane”.

dio previsto è assolutamente incongruo. La fine automatica dei processi che superano il tempo fissato più che un rimedio è la vanificazione della funzione cui il processo è destinato. Inoltre ne è evidente la sproporzione rispetto al risultato: per ridurre i tempi, si distruggono i processi. Che dire del lavoro svolto inutilmente, delle energie e delle risorse sprecate, delle lunghe indagini condotte, talora, in condizioni difficilissime? Tutto sparito. Non so quanto in concreto queste norme incideranno sui processi; i numeri forniti non concordano : forse non molto sui processi dove la colpevolezza o l’innocenza è più facile da accertare; molto su quelli complessi. Proprio quelli dove la pericolosità e il danno sociale causato dall’estinzione è più

grave. E’ vero che l'emendamento stabilisce un aumento dei termini in relazione ai reati puniti con pene particolarmente elevate, che “ richiedono un'attività dibattimentale complessa”; e prevede che, “qualora la pena detentiva sia pari o superiore nel massimo a dieci anni di reclusione, detto termine sia aumentato di un terzo”. Ma l’aumento previsto sarà sufficiente? Infine, va segnalato che la “ragionevole durata” viene perseguita anche per il giudizio di responsabilità contabile : decorsi i tempi fissati, nel giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei conti il processo è estinto! Un bell’incoraggiamento per i ‘virtuosi’, un passo avanti nella questione morale, una riaffermazione sicura dell’etica repubblicana.


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Caltanisetta, il Csm propone Scarpinato alla Procura generale

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AD PERSONAM

na carriera tutta vissuta negli uffici della procura, grande conoscitore di Cosa Nostra, tra i primi a teorizzare l’esistenza dei rapporti tra la mafia e la politica e a indagare sulla zona grigia rappresentata dalla cosiddetta borghesia mafiosa: questi alcuni dei tratti distintivi del pm di Palermo Roberto Scarpinato, proposto ieri dalla commissione per gli incarichi direttivi del Csm per la

poltrona di procuratore generale di Caltanissetta. Nato proprio a Caltanissetta, 58 anni - una curiosa coincidenza vuole che il suo compleanno cada il 14 gennaio, lo stesso giorno di quello del suo più noto imputato, il senatore Giulio Andreotti - Scarpinato è entrato in magistratura nel 1977. Il lungo lavoro in Procura ha avuto due brevi parentesi: una alla Pretura di Nicosia, l’altra alla commissione antimafia del Csm,

cooptato dall’area di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Padre magistrato a Caltanissetta, sposato con una sua collega, Maria Teresa Principato, padre di un figlio, Scarpinato è arrivato alla Procura del capoluogo siciliano nel 1989. Dopo la strage di Capaci ha guidato la “rivolta” dei sostituti palermitani contro l’allora capo della Procura Pietro Giammanco, poi trasferito dal Csm.

“NUOVO AMMAZZASENTENZE”: L’OMBRA DEL DECRETO. E FINI SI INFURIA Mills e Mediaset congelati per 9 mesi. Caos al Senato di Sara Nicoli

DAL COLLE

lfano e Ghedini a rapporto da Berlusconi. Ieri pomeriggio da palazzo Grazioli è uscita l'ennesima misura salva Berlusconi che inchioderà il processo Mills contemporaneamente all'entrata in vigore del processo breve, in odore di approvazione definitiva - se i tempi verranno rispettati - entro la fine di gennaio. “Decreto legge già domattina” rilanciavano ieri diverse fonti - Ansa compresa - . Il Guardasigilli ha provato a cavarsela con un “non so”, ma avrebbe portato addirittura un testo direttamente al capo. Solo Gianni Letta alla fine avrebbe stoppato i falchi dall’aprire un nuovo fronte con il Quirinale. I boatos comunque in serata hanno infiammato l’aula del Senato, con Pd e Idv che hanno preso a tamburellare le mani sui banchi in segno di protesta e con Schifani che ha sospeso la seduta per cinque minuti. Dunque, la battaglia è cominciata. Si tratta di assicurare un doppia blindatura per il premier in attesa dell'approvazione dell'altro provvedimento, quello sul legittimo impedimento che, invece, concluderà l'iter parlamentare entro la metà di febbraio. Che bisogno c'era? Nessuno. Ma Berlusconi, come ha avuto modo di ribadire ieri aa Alfano, non vuole correre rischi. Ecco, dunque, piovere sul processo breve un'ennesima forzatura che il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, ha comunque giustificato come "assolutamente necessaria". La norma sospenderà fino a 90 giorni quei processi per i quali non è stato concesso di chiedere il rito abbreviato nono-

A

TERMOPOLITICA ualche appassionato di gialli e mistica potrebbe immaginare una stazione meteorologica nascosta in un angolo del Quirinale: termometri, barometri, pluviometri. Perché a ogni incontro tra Silvio Berlusconi e il presidente Napolitano corrisponde un bollettino (ecco, che ci ricaschiamo) di previsioni. Titoli di ieri: l’incontro del disgelo (Corriere della Sera), fredda cortesia (Stampa), clima sereno (Repubblica). E pure il Fatto va sul classico: “Incontro-disgelo”. La politica e le istituzioni sono fatte di temperature, a volte rigide a volte miti. Il Quirinale è un colle, c’è un bel panorama. Ma possiamo tranquillizzare i lettori - e pure gli appassionati di gialli e mistica - al Quirinale non c’è alcun Mario Giuliacci con cartina geografica e bacchetta magica. Forse le riunioni al Quirinale incentivano la pigrizia di chi scrive. Anche la banalità si scioglierà come neve al sole. Pure la nostra.

Q

Gianfranco Fini, in alto Niccolò Ghedini (FOTO GUARDARCHIVIO)

Alfano porta al capo il testo Gianni Letta avverte: no a frizioni con il Capo dello Stato stante ci sia stata una nuova contestazione da parte del pm a dibattimento aperto. Guarda caso, proprio quello che è accaduto nei processi Mills e Mediaset. Un'altra misura ad per-

sonam? Ovvio. Com'è ovvio che gli estensori lo neghino con fermezza: ''C'è una sentenza della Corte Costituzionale del 14 dicembre - afferma Caliendo - che impone l'obbligo di un intervento immediato''. La sentenza è quella della Consulta firmata da Giuseppe Frigo che ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 517 del codice di procedura penale. E che viene ora forzata dal Pdl in modo da calzare alle necessità di Berlusconi, con la scusa che si è creato un vulnus, che bisogna garantire gli imputati e che, dunque, l'intervento legislativo non può attendere. Ma Caliendo, alla fine, ha svelato anche l'importanza strategica di questo nuovo espediente:

"Capirete - ha spiegato - che se ne frattempo qualcosa sfuggisse di mano e finisse un procedimento con sentenza definitiva, sarebbe irrimediabilmente viziato". Inutile dire che la notizia di quest'ennesimo provvedimento ad personam ha fatto saltare i nervi al presidente della Camera. Qualcuno giura di averlo sentito sibilare ad uno stretto collaboratore: "Questa non gliela faccio proprio passare...". È facile pensare che la calendarizzazione del processo breve alla Camera potrebbe incorrere in complicazioni, ma si vedrà. Di fatto ieri, assieme alle voci sull’ennesimo decreto in arrivo, Fini aveva nuovamente dato il pro-

prio stop al ritenere "che la funzione di governo si traduca automaticamente in un'agenda legislativa predefinita a senso unico''. Sotto tiro, come sempre, l'uso disinvolto degli strumenti legislativi da parte del governo (decreti legge e ricorsi abnormi alla fiducia) solo per perseguire lo scopo di salvare dal giudizio un premier con troppi guai. Monito, anche questo, rimasto inascoltato. Ma che ha inevitabilmente accelerato il redde rationem tra i due co-fondatori del Pdl. Ormai o la va o la spacca, la misura è colma. "E non si può andare avanti così, a strappi - dicono gli uomini di Fini - senza un chiarimento". Così, ecco Italo Bocchino, il più fedele tra

Dalla mafia a Telecom alla Corte dei Conti: uno tsunami INGROIA: CONDANNA A MORTE DEI PROCEDIMENTI SU COSA NOSTRA. CASSON: UN FAVORE ALLE SOCIETÀ e la legge “processi brevi” ci Sbattimento fosse stata ai tempi del didi primo grado a Marcello Dell’Utri, accusato dalla Procura di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa, probabilmente il senatore del Pdl sarebbe

Gli effetti della norma: così Dell’Utri non sarebbe stato condannato in primo grado

di Carlo Tecce

scampato alla condanna a 9 anni oggi non rischierebbe la conferma della pena in appello. In base al ddl, un processo di mafia in primo grado deve durare, a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio, 5 anni o al massimo 6 anni e 8 mesi, se il giudice ritiene che sia particolarmente complesso o con troppi imputati. Il processo di primo grado a carico di Dell’Utri, secondo i calcoli previsti da questa legge, ha superato il tetto massimo: quasi 8 anni. Il pm è stato l’attuale procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Il magistrato non entra nel merito del suo processo, ma spiega: “Non è fissando termini massimi per la chiusura del processo che si smaltiscono i procedimenti. La giustizia funzio-

nerà quando i tribunali saranno dotati di uomini e mezzi adeguati. Invece così si condanno a morte i processi senza che ci sia stata una sentenza di merito”. Anche se i tempi utili per i processi di mafia sarebbero più lunghi, rispetto ad altri, Ingroia è preoccupato comunque: “Questo tipo di pericolo di condanna a morte a maggior ragione è alto per i processi più complessi come quelli per mafia, che in media durano di più rispetto ai 5 o ai 6 anni e 8 mesi previsti dal disegno di legge. Se non si fa una vera riforma i processi non possono essere più veloci come vorremmo”. È “sconcertato” invece Angelo Buscema, il presidente dell'associazione nazionale magistrati della Corte dei Conti,

messa al guinzaglio dal ddl che riduce i tempi dei processi contabili in corso, in primo grado e in appello, pena l’estinzione: “Intervenire nella giurisdizione con un ddl significa alterare l'applicazione delle norme durante il giudizio di responsabilità contabile e, dunque, creare difficoltà ai pm o ai giudici. La pubblica amministrazione ha bisogno di garanzie, mentre un intervento del genere le rende più oscure, anche perché in questo modo si verifica una incentivazione delle forme deviate”. D’accordo con il magistrato contabile, l’ex pm Felice Casson, oggi vice presidente dei senatori del Pd: “Sarà sempre più difficile per le pubbliche amministrazioni essere risarcite per il danno erariale su-

bito”. Casson non salva neppure una virgola della proposta di legge: “Questo ddl sfascia il sistema processuale penale. Aiuterà sicuramente i delinquenti e renderà molto più difficile la tutela delle vittime del reato. Il maxi emendamento è addirittura peggiorativo rispetto al disegno di legge originario. Non solo il premier non si è dimenticato di farsi un favore, perché saranno estinti i suoi processi in corso, ma ha fatto un regalo alle società perché i tempi per perseguirle si dimezzano”. Un pensiero va a Telecom, tra gli imputati del processo per i dossier illegali della Security targata Tavaroli, o a Impregilo, coinvolta nel processo per lo smaltimenti illecito dei rifiuti in Campania. a.masc .

i finiani, annunciare - complice una scherzosa intervista radiofonica - che Fini e Berlusconi si vedranno forse giovedì prossimo. L'annuncio è stato accompagnato da parole di distensione ("sono come marito e moglie, che possono litigare ma devono trovare il modo di stare insieme") che non hanno affatto convinto i falchi del Pdl. "Il rapporto tra i due è ormai logorato - sostiene un ascoltato spin doctor del Cavaliere come Giorgio Stracquadanio - e Berlusconi continua a non capire cosa vuole mai Fini e perchè continua a mettersi di traverso ogni momento; non vediamo anche noi l'ora che ci sia il colloquio. Che, comunque, un risultato lo produrrà". Quanto positivo è dunque tutta da vedersi. Intanto, ieri il processo breve è approdato nell'aula di palazzo Madama, dove è stato accolto dal fuoco di fila dell'opposizione, un copione già studiato dal governo che, se sarà necessario, porrà la questione di fiducia. "Non abbiamo tempo da perdere - ha chiosato Filippo Berselli, presidente della Commissione Giustizia del Senato il processo breve deve essere approvato entro la prossima settimana".

Il presidente della Camera non ci sta: il governo non detti l’agenda al Parlamento


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Mercoledì 13 gennaio 2010

Nazionalità agli stranieri: ecco come funziona in Europa

I

IMMIGRAZIONE

n Francia, per ottenere la cittadinanza, uno straniero maggiorenne deve dimostrare la propria residenza abituale nei 5 anni che precedono la domanda. Il periodo può essere ridotto a 2 anni se lo straniero ha compiuto e ultimato studi biennali in un’Università francese o se ha reso importanti servizi allo Stato. Nel Regno Unito

servono 5 anni di residenza legale. Nel 2009, però, è stato introdotto un periodo aggiuntivo di prova, nel quale gli immigrati debbono mostrare d’essere degni dell’attribuzione, anche sostenendo un esame di lingua inglese. Il periodo di prova dura un anno se l’immigrato è impegnato nel volontariato, tre negli altri casi. In Germania servono otto anni di residenza

legale e un esame scritto e orale di lingua tedesca. Il periodo viene ridotto a 7 anni per gli stranieri che hanno superato un corso di integrazione e a 6 per coloro che hanno compiuto “grandi sforzi” (ottenendo ad esempio all’esame di lingua il livello B1). Obbligatoria la conoscenza dell’ordinamento tedesco.

CITTADINI IN SALITA

Le mille fatiche degli extracomunitari per diventare italiani e una riforma civile che la Camera non riesce a discutere di Vittorio d’Almaviva

redici anni di attesa. Un record europeo, se non addirittura mondiale. Lo straniero che aspiri a diventare cittadino italiano è costretto a passare sotto queste scandalose forche caudine. Perché ai dieci anni di residenza legale obbligatoria per poter fare domanda di naturalizzazione, rispetto ai cinque degli Stati Uniti, della Francia, dell'Inghilterra, dei Paesi Bassi, della Svezia e della Finlandia, si aggiungono i tre anni di tempo medio burocratico per lavorare la pratica sino all'esito finale. Per questa ragione era ed è assolutamente urgente cambiare la legge 91 del 1992 che regola la cittadinanza, inviando così anche un segnale di distensione ai 4 milioni e mezzo di immigrati regolari, costretti oggi a vivere in un pesante clima di diffidenza. La Camera tuttavia ha deciso ieri sera, su proposta di Donato Bruno, presidente della Commissione Affari costituzionali (Pdl), di riportare il provvedimento dall'aula in commissione “per un ulteriore approfondimento”, rinviando così il confronto finale a dopo le elezioni. La maggioranza l’ha spuntata per 32 voti: l’opposizione si è schierata contro. Ma non è detto che il rinvio sia in assoluto una disgrazia. “Adesso gli animi sono troppo accesi e la Lega non cederà mai. Ad aprile il Pdl non avrà più alibi”, commen-

T

ta l’on. Andrea Sarubbi (Pd). “E’ molto meglio così, per non bruciare una grande opportunità che con pazienza si può costruire”, puntualizza il finiano Fabio Granata. Granata e Sarubbi sono i firmatari della proposta bipartisan per ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale, con tanto di verifica linguistica e giuramento sulla Costituzione. E soprattutto per concedere la cittadinanza alla nascita ai bimbi nati in Italia da famiglie straniere già integrate e ai minori nati all’estero ma che abbiano conseguito un titolo di studio in Italia: per sostenere la causa dello “jus soli” ieri è scesa in campo anche la Cei. Dopo le elezioni c’è la speranza di riportare alla ragionevolezza la componente “Forza Italia” del Pdl, che oggi è impegnata a gareggiare in xenofobia con il partito di Bossi. Tutto questo, naturalmente, a patto che la Lega non stravinca le regionali, altrimenti si rischierebbe di tornare al punto di partenza. Gli stranieri che sono regolarmente in Italia e pagano le imposte (in totale, secondo il Dossier Caritas 2009, versano 5,6

miliardi di euro fra tasse e contributi, una somma superiore agli introiti ottenuti con lo scudo fiscale) non avendo la cittadinanza italiana, si vedono esclusi da svariati benefici: non possono ad esempio accedere alla “social card” per le famiglie meno abbienti, né all’assegno sociale, e neppure ottenere il rimborso per l’acquisto di latte artificiale e di pannolini. Oltre a non

LE ALTRE ROSARNO

LAVORANO COME BESTIE, VIVONO COME BESTIE di Elisa Battistini

una rivolta come quella di Rosarno per acSpioerve cendere i riflettori su un fenomeno legato a dopfilo, da sempre, alla condizione degli immigrati stagionali. Soprattutto nel settore agricolo, soprattutto al sud. Secondo il rapporto “Una stagione all’inferno” realizzato da Medici Senza Frontiere il 72% degli immigrati impiegati in agricoltura è privo del permesso di soggiorno. La gran parte della “manovalanza”, quindi, è composta da lavoratori ricattabili per la loro posizione irregolare, quindi più facilmente sottoposti a condizioni di lavoro e vita disumane. Alessandra Tramontano, responsabile dei progetti di Msf per l’Italia, afferma che in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria ha visto situazioni paragonabili solo ai campi profughi nelle zone di guerra africane. E non da ieri, ma dal 1999. Quando l’onlus ha avviato i programmi d’azione sanitaria per gli immigrati nelle regioni meridionali del nostro paese. Distribuendo kit di primo soccorso e contribuendo all’assistenza sanitaria di base. Di recente, Msf era passata proprio per Rosarno. Dove aveva distribuito anche coperte e saponi ai circa 2 mila stagionali nella Piana di Gioia Tauro. Gli stagionali, spiega la responsabile, sono come una popolazione “nomade” che si sposta dalla Sicilia dove raccoglie patate, alla Calabria per le arance alla Puglia per i pomodori alla Campania per le fragole. Si seguono le necessità delle coltivazioni. E nel frat-

tempo si vive come animali. Il 65% degli immigrati stagionali vive in strutture abbandonate, il 53% dorme per terra e solo il 20% in spazi regolarmente affittati. Con compensi che, come abbiamo “scoperto” nell’ultima settimana, arrivano a 25 euro al giorno quando va bene. Il 64% degli immigrati non ha accesso all’acqua potabile, il 62% non dispone di servizi igienici. Le condizioni di vita sono “al di sotto degli standard minimi di sopravvivenza– dice la Tramontano – quindi proliferano le malattie”. Sfatando un luogo comune decisamente errato, che immagina gli immigrati (soprattutto africani) come portatori di malattie, i rilevamenti di Msf raccontano l’opposto. Gli immigrati si ammalano qui. Il 76% di loro ha meno di 30 anni e arriva in Italia in salute. Nella più totale mancanza di igiene contrae infezioni all’apparato respiratorio (13%), che se cronicizzate portano a gravi complicazioni polmonari, malattie osteomuscolari (22%), pesanti gastriti (12%). Fino ad arrivare a casi si scabbia e tubercolosi. Il 75% degli stranieri non accede ai servizi sanitari di base, neppure a quelli pensati (ai tempi della Turco-Napolitano) per gli irregolari, ovvero gli ambulatori Stp (per Stranieri temporaneamente presenti). Il 71% risulta privo di tessera sanitaria. Ma ci sono altre ragioni che spingono uno stagionale a non cercare assistenza: la paura di essere denunciati, l’assenza di ambulatori che applichino il codice Stp in molte regioni (ma la Puglia, lo scorso

godere, ovviamente, del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni politiche. Tutti i principali paesi europei usano la naturalizzazione come uno strumento di integrazione. La stessa Germania, che per decenni ha pensato agli immigrati come a semplici “lavoratori ospiti”, ha ridotto a 8 anni il periodo di residenza obbligatoria per la cittadinanza: beninteso, senza poi costringere ad ulteriori attese burocratiche. Vero che il Regno Unito dopo i cinque anni di legge ora propone un “periodo di prova” da 1 a 3 anni, ma è altrettanto vero che persino la Grecia sta discutendo una riforma che dimezza a cinque anni la residenza obbligatoria, assieme a norme per contrastare severamente l’immigrazione clandestina. Un numero di anni un po’ più alto di cinque e più basso di dieci sarebbe un buon compromesso finale, secondo la professoressa

Giovanna Zincone, studiosa di fama e autrice di numerosi libri sulla cittadinanza. Anche in Italia, comunque, negli ultimi anni è aumentato il numero delle naturalizzazioni. Nel 2004 ne erano state concesse appena 11 mila, nel 2008 siamo passati ad oltre 39 mila e nel primo semestre del 2009 abbiamo sfiorato quota 21 mila, che lascia prevedere un record di 42 mila nell’arco dei dodici mesi. Ciononostante, per naturalizzazioni restiamo soltanto al settimo posto in Europa, stigmatizza la Caritas: una classifica sproporzionata rispetto allo stock di immigrati regolari, che ci colloca già al terzo posto del continente dopo Germania e Spagna. Francia e Regno Unito hanno oggi meno stranieri, proprio perché questi diventano più agevolmente cittadini. C’è poi la vergogna dei tempi burocratici. In svariati casi i tre anni della media vengono sforati. E’ un dovere migliorare l’efficienza del servizio. Soprattutto dopo che, col pacchetto si-

LA STORIA

QUEL DOCUMENTO SFUMATO PER ERRORE

T

utto era pronto perché le concedessero la cittadinanza. La cerimonia era iniziata, davanti al sindaco di Corciano, ai funzionari comunali e ai parenti, e lei era lì in piedi, emozionata ed orgogliosa. Non aveva diciannove anni, Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia da un papà medico di origine giordano-palestinese, e sempre vissuta in Italia, fino alla maggiore età. Ma all’improvviso arrivano delle carte. Contrordine, cara signorina: abbiamo scoperto un buco di quattro mesi nella sua residenza. Ci dispiace, niente da fare. Incredulità, panico. La naturalizzazione che svanisce all’improvviso. Com’è possibile? Che cos’era successo? “Semplicemente questo – racconta Sumaya – Avevamo cambiato casa, ma mio padre si era dimenticato di comunicare la nuova residenza. In realtà in tutto quel periodo ero rimasta in Italia, tranne una breve vacanza all’estero”. Una meticolosità a scoppio ritardato sbalorditiva,

anno, ha preso provvedimenti in materia) e la necessità di non perdere la paga giornaliera. Per quanto misera. “In Italia – chiosa il responsabile di Msf, Loris De Filippi – ci sono tante Rosarno. La crisi esiste da ormai dieci anni. Msf lavora nei contesti di guerra e molte zone del sud Italia, per gli stranieri, sono contesti di guerra. O di schiavismo. Perché quello che vediamo non è tanto dissimile alla realtà raccontata nel primo rapporto sui lavoratori agricoli al sud, del 1884. Sono cose che denunciamo da tempo. Fa riflettere che serva una Rosarno per parlare delle latrine a cielo aperto, delle tende igloo in cui si ammassano quattro o cinque persone, della barbarie a cui siamo arrivati”. Il rapporto di Msf, infatti, è precedente alla tragedia calabrese. E basta aprirne una

curezza, si è deciso di far pagare 200 euro la domanda di cittadinanza. “Sarà dura fare grandi progressi – sospira una fonte del ministero dell’Interno –. L’intoppo sta nei pareri sul candidato cittadino da parte dei servizi segreti esterni (Aise, ex Sismi) e della polizia di prevenzione: non ce la fanno ad essere più veloci. E se scattano emergenze come la bomba di Reggio Calabria, le priorità diventano altre”.

La proposta Sarubbi-Granata ritorna in Commisione: si attendono le regionali e il risultato della Lega.

quasi sospetta, quella esibita nell’occasione dagli uffici anagrafici comunali. Così Sumaya è potuta diventare italiana soltanto a 31 anni scoccati: sfumato il percorso di cittadinanza riservato ai diciottenni nati e vissuti in Italia, ha dovuto battere la via della naturalizzazione, prestando giuramento alla Repubblica il 14 dicembre del 2009. Nella “homepage” del suo blog ha riprodotto la corona a cinque stelle circondata dal ramo d’olivo e da quello di quercia, emblema della Repubblica italiana, assieme al decreto di conferimento. Quasi a sincerarsi che sia tutto vero, questa volta, e a garantirlo anche agli altri. Ha una laurea in Biologia, Sumaya Abdel Qader, e ne sta conseguendo una seconda, in Lingue e culture straniere, campo di studi che la porta già a lavorare a progetto in alcune scuole dell’Italia del nord. Oggi è sposata, ha due bambine e non rinuncia a proclamare e ad esibire la sua fede musulmana. Nel 2008 ha scritto un libro “Porto il velo, adoro i Queen” in cui con ironia ripercorre tutta la sua storia. (V.d’A.)

pagina a caso, per esempio quella relativa alla Campania, per leggere: “La Piana del Sele rivela un quadro scioccante, che mostra con crudezza il dramma di individui che, pur contribuendo all’economia locale, vivono in condizioni disumane”. Per non vederle, dopo la raccolta, spesso si sgombera. Accade a Rosarno. Ma è successo anche nel giugno del 2006 a Cassibile, nel siracusano. Dove dopo la raccolta delle patate un misterioso incendio rase al suolo l’accampamento degli stagionali. Che scappano. Impauriti dalla loro condizione di clandestinità. Con il risultato che, Rosarno a parte (la raccolta non è ancora finita), ci si assicura il “Pil” della stagione poi si fanno sparire le tracce di quella schiavitù contemporanea necessaria alla sua creazione. Un’ipocrisia che si commenta da sola.


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Maroni ammette: “I clandestini erano una minoranza”

“L

GUERRIGLIA A ROSARNO

a maggioranza degli immigrati coinvolti nei fatti di Rosarno risulta in regola con il permesso di soggiorno, ma non con il contratto di lavoro”. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, è stato costretto ad ammetterlo riferendo ieri al Senato sui fatti di Rosarno. Sei persone su dieci circa tra quelle impiegate nella piana di Gioia Tauro

avevano documenti: permessi di soggiorno (molti temporanei, di tre o sei mesi), forme di protezione umanitaria, ricorsi in atto contro un diniego dello status di rifugiato; oppure procedure di emersione legate all’ultima sanatoria per colf e badanti, o tagliandi degli uffici immigrazione di varie questure che stanno portando avanti le loro pratiche. Maroni ha poi puntato il dito contro il presidente

della Calabria, Agazio Loiero, e ha lodato la gestione dell’integrazione dei lavoratori stranieri stagionali al Nord. Il titolare del Viminale ha aggiunto che il governo sta “monitorando situazioni analoghe a quelle di Rosarno, in particolare in Campania e Puglia, per prevenire che possa verificarsi quanto accaduto in Calabria”.

“ROSARNO DEVE RESTARE NOSTRA” 17 ARRESTI TRA IL CLAN CHE COMANDA SULLA CITTÀ

Un’immagine delle barricate della scorsa settimana a Rosarno dove, ieri, sono state eseguite 17 ordinanze di custodia cautelare per mafia: in manette anche il nipote del boss Bellocco (FOTO ANSA) di Enrico

Fierro

osarno è nostro e deve essere per sempre nostro. Sennò non è di nessuno”. Con parole chiare, più chiare di un saggio sulla Calabria e sulla mafia, Umberto Bellocco spiega chi comanda nella città dove è vietato esporre striscioni contro la 'ndrangheta. Perché qui, in questa Repubblica dei boss, il potere non è dello Stato e delle sue leggi. Comandano loro: i Bellocco e i Pesce. Da sempre. Umberto all'alba di ieri è finito in galera insieme ad altre quindici persone, con la mamma, il padre e un altro fratello. L'inchiesta della Procura di Reggio Calabria, “Vento del Nord”, ci illumina sulla ricchezza, sul potere, sulle regole e le gerarchie, sulla cultura e sulla enorme capacità di controllo del territorio della sua famiglia, a Rosarno ma anche nei Palazzi di Giustizia a Reggio. Lo racconta il colloquio in carcere tra il fi-

R

glio di un mafioso e il padre. “L'avvocato deve parlare con un suo amico per spiegargli la situazione in cui si è venuto a trovare Rocco. L'amico è un giudice. La stessa sera che sono andato allo studio, i due (l'avvocato e il giudice, ndr) dovevano andare a cenare insieme per parlarne. L'avvocato aveva telefonato davanti a me, ma non sappiamo come è andata a finire”. Questa parte dell'inchiesta è finita ai giudici di Catanzaro, gli stessi che stanno indagando sulla bomba alla Procura generale per chiarire se davvero qualche toga ha stretto patti scellerati con i boss. Un equivoco rischia di compromettere la storica alleanza con i Pesce, l'altro “casato” della 'ndrangheta di Rosarno. Bisogna correre ai ripari ed essere decisi. “Con i Pesce c'erano degli accordi, bisogna arrivare ad un chiarimento”. Carmelo Bellocco, 55 anni, da Granarolo, dove è affidato ai servizi sociali, continua a dirigere gli affari

della famiglia. Ai figli fa un discorso chiarissimo: “Andate a parlare con Ciccio 'u testuni (Francesco Pesce, reggente della cosca) per un chiarimento. Perché se è così sono cazzi di tutti”. Insomma se scoppia una guerra a Rosarno “i problemi saranno di tutti”. Dei mafiosi e della brava, anche di quelli che hanno impedito alle ragazze del liceo di dire il loro no alla mafia. E se guerra sarà non bisognerà risparmiare nessuno. Perché “noi siamo forti, possiamo uccidere anche cento persone al giorno”. Dispongono di arsenali i Bellocco, di bunker sotterranei per nascondersi. Sono pronti a tutto e senza pietà per i nemici. “Una volta che partiamo partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati ci inguaiamo tutti. Dopo o loro o noi, vediamo chi vince la guerra. Dopo pure ai minorenni”. Maria Teresa D'Agostino è la moglie di Carmelo Bellocco. E' una donna di 'ndrangheta, un capo vero. Il

marito cerca di calmarla. Lei è spietata. “Bisogna colpire anche le donne, pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente...'e fimmine”. Anche Umberto, il figlio, ha dei dubbi: “Le fimmine no”. La madre li zittisce: “Non mi interessa: pari pari”. Questo è il tallone di ferro che schiaccia Rosarno, lembo d'Italia, questa è la mafia che ha fatto quello che la Lega, Maroni, le Bossi-Fini non sono riuscite a fare: cacciare i negri. In una notte sola, caricarli sugli autobus e spingerli fuori dalla Repubblica dei boss. Dove Carmelo Bellocco non deve temere fastidi quando, anche grazie ai prestanome, la sua famiglia acquista supermarket, pompe di benzina, agenzie di viaggio e imprese. “Rosarno è quello che è, la Calabria è quello che è, ognuno ci conosce bene. Lo sa tutto il mondo”. Nella “famiglia” i ruoli sono ben definiti. A Domenico Bellocco, trent'anni, il padre ha affidato il compito di gestire il ramo im-

Un’inchiesta della Procura di Reggio fa luce sul controllo del territorio e dei Tribunali

I DUE VOLTI DELLA CALABRIA

ROBERTA, LA FIGLIA DEL BOSS CHE AMA LA LEGALITÀ di Cinzia

Guadagnuolo

e Antonio sono due volti della Rla suaoberta stessa Calabria, con le sue connivenze e voglia di riscatto. Roberta e Antonio sono le contraddizioni di Rosarno, di una terra che ha accolto per vent’anni gli stranieri e poi li ha cancellati in poche ore, di un paese sceso in piazza a manifestare, in cui tuttavia pregiudicati e figli di boss della ‘Ndrangheta hanno curato la regia degli scontri. Roberta e Antonio Bellocco sono figli di due fratelli, Gregorio e Giuseppe, capi di una delle più potenti cosche nella Piana di Gioia Tauro. Roberta ha 18 anni e il suo tema ha vinto il progetto “Legalità” del Liceo scientifico Piria. Il procuratore aggiunto di Reggio

Calabria, Michele Prestipino, quando le ha consegnato il premio, ha parlato di Roberta come della “Piana del cambiamento”. Suo cugino Antonio, 29 anni, è uno dei cinque rosarnesi arrestati nella guerriglia urbana per aver aggredito un immigrato e un carabiniere. Stesso paese, stesso cognome “ingombrante”. I Bellocco, con i Pesce e i Piromalli-Molè, hanno gestito per decenni i traffici illeciti del territorio, fin dagli appalti per realizzare il porto-container più importante del Mediterraneo. I fatti di Rosarno segnano un’altra netta spaccatura nella vita dei due cugini. Antonio ora si trova in carcere, dopo che il gip di Palmi ha convalidato l’arresto per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Ieri mattina gli è stata notificata un nuova ordinanza di custodia cautelare per associazio-

Suo cugino Antonio, figlio dell’altro boss, è stato arrestato durante la guerriglia

prenditoriale. “Io i soldi mica li tengo a casa – dice il giovane imprenditore-mafioso – io li riciclo, li reinvesto”. Di ammazzatine e altro non si deve interessare. E quando si tratta di dare una lezione a un nemico impone alla moglie di “non mandare Micu, altrimenti si guasta l'immagine come imprenditore. Io devo guardare anche a queste cose”. Dare lezioni tocca a Ciccio, Francesco, l'altro figlio al tempo in carcere. Che se c'era lui “a quello l'avrei fatto menare, l'avrei fatto spaccare di palate da mandarlo in ospedale per due mesi”. Quando i Bellocco sono interessati all'acquisto di un terreno (5mila metri appena), Carmelo convoca uno dei figli per spiegargli come deve regolarsi con i proprietari: “Papà vi vuole

bene, vi rispetta, tra noi c'è sempre stato rispetto, ma questa terra non ti devi sognare di venderla a nessuno perché interessa a noi. Se vedi che si annaca (che resiste, ndr) gli devi dire che ha detto mio padre che ti ammazza a te, a tuo fratello e a tuo papà”. Hanno potere di vita e di morte su tutti i Bellocco, e forse ha ragione il boss Carmelo, quando dice che “se volete sapere chi sono i Bellocco basta fare un clic sul computer”. La mafia e Google. Carmelo Bellocco era a Granarolo, affidato ai servizi sociali, e, dal paese patria del parmigiano, dirigeva la cosca affidando la leva del comando a Rosarno e nella Piana alle giovani generazioni di mafia. Ora è in galera. Ma i Bellocco a Rosarno comandano sempre.

ACCUSE DI RAZZISMO

PERSINO L’EGITTO CI ACCUSA

T

racimano sul terreno diplomatico le polemiche sulla guerriglia di Rosarno, con il ministero degli Esteri egiziano che usa parole insolitamente ruvide contro l’Italia per condannare “le violenze” e “la campagna di aggressione” contro “le minoranze arabe e musulmane” e chiedere al governo di Roma di tutelare gli immigrati. Accuse alle quali il ministro degli Esteri Franco Frattini, in missione in Africa, ha scelto di replicare diplomaticamente, ricordando che in Calabria ci si è limitati a far rispettare le leggi di fronte a “violenze inaccettabili”, che nulla hanno a che fare con “motivazioni religiose” o etniche, riferimento indiretto alla recente strage di cristiani di rito copto in Egitto, alla quale si è riferito direttamente Bossi affermando: “Guardate come trattano i cristiani loro. Li fanno fuori tutti”. Sabato Frattini sarà al Cairo. Argomenti sul fuoco ce ne sono.

ne mafiosa; così pure ad altri parenti. Per Roberta sembra lontano quel giorno di maggio, quando le compagne di classe la guardavano con occhi bagnati dalla commozione. Nel tema descrive il dolore di non aver mai avuto accanto un padre, di essere nata quando lui era latitante, di averlo conosciuto dai racconti degli altri. “Non ho avuto la gioia di crescere assieme a lui, di farmi coccolare, di condividere le mie conquiste, le mie tristezze, le glorie. Papà è lontano da qui, non dorme a casa con mamma. Posso vederlo solo una volta al mese, posso parlargli solo tramite carta e penna”. Le poesie che Gregorio compone per lei dal carcere sono “una piccola fessura tramite la quale conosco a fondo il mio papà”. Roberta non ha grilli per la testa, va bene a scuola, è timida e riservata. A chi la circonda chiede di essere considerata per quello che è, e non per l’eredità pesante che si porta dietro. Come in un chiaroscuro, in un gioco di luci e ombre, ha capito attraverso la vita rocambolesca del padre

che cosa sia la legalità: “Non so dare di essa una definizione, ma so che è tutto quello che non ti limita i valori, i sentimenti, le dimostrazioni d’affetto, la vita familiare. Ho conosciuto la legalità tramite le conseguenze dell’illegalità. Dalla storia di papà ho capito che, quando si sbaglia o si frequentano brutte compagnie, redimersi e immettersi nella giusta via è una cosa che deve essere fatta prima che sia troppo tardi, prima che tutto sia perduto”. Le parole di Roberta, in tutta la loro semplicità, sono più efficaci di ogni lezione d’educazione civica in una scuola del sud: “Non ci sono soldi, case, macchine lussuose che possono compensare un Natale senza un papà, un compleanno nella solitudine, qualsiasi festività senza una famiglia riunita”. Se questo volto della Calabria prevarrà, se Roberta non sarà più “la figlia di Bellocco”, ma la compagna di classe più “giusta”, quella per cui le sue coetanee stravedono, allora ci sarà un futuro possibile per tutta Rosarno.


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Mercoledì 13 gennaio 2010

REGIONALI

IL FATTO POLITICO

Le due Polverini: la giacca rossa e le camicie nere

dc

Il giorno della giustizia di Stefano Feltri

era prevedibile, ma Cdelome non scontato nel clima partito dell’amore e del

LE TESSERE UGL, LA DESTRA RADICALE E GLI AMICI DI FONDI di Luca Telese

ra partita bipartisan e in giacca rossa. I suoi manifesti erano apparsi sui muri di Roma senza simbolo (né di partito né di coalizione), interpretando una grande aura di simpatia mediatica conquistata esibendo buon senso nei talk show. L’ultimo tassello della campagna “diversa” di Renata Polverini, candidata di destra con simpatie a sinistra, era stato l’arruolamento di uno spin doctor cresciuto a sinistra, come Claudio Velardi. Il Giornale di Vittorio Feltri aveva salutato il suo esordio sparandole addosso un giorno sì e un altro pure al grido: “E’ una Epifani in gonnella”. E la sua probabile avversaria, Emma Bonino, aveva iniziato a farle (ricambiata) complimenti pubblici. L’Unità aveva pubblicato la lettera di un lettore (evidentemente non isolato) che aveva scritto al quotidiano del Pd: “Potrei votarla”. Persino un attore storicamente schierato con la sinistra radicale, Claudio Amendola, si era sbilanciato: “Quasi quasi la voto”. Adesso è in dubbio: “Dopo la candidatura della Bonino sono in difficoltà”. Nuovi ingredienti. Insomma, il consenso è come una grande marea che si allunga sulla sabbia, e poi si ritrae. Anche perché, in queste ore, la Polverini ha iniziato a modificare qualcuno degli ingredienti della sua ricetta di partenza. Mentre la sua coalizione prende corpo, infatti, alla giacca rossa si stanno affiancando anche anche alcune camicie nere. Ad esempio quella di Adriano Tilgher, storico dirigente di Avanguardia Nazionale, anima

E

gemella di Stefano Delle Chiaie (detto “er caccola” o “primula nera”). Tilgher e il nazismo. Di Tilgher si conosce non solo il lungo viaggio nella destra radicale, dal 1968 ai giorni nostri, fino alla fondazione del Fronte Nazionale (un movimento che non a caso prendeva il nome da quello di Jean Marie Le Pen) e alla recentissima candidatura nella lista (apparentata) della destra di Storace. Al contrario di Storace, che ha un classico profilo post-missino, Tilgher non nasconde le sue storiche simpatie neonaziste, e nemmeno le sue idee (para-revisioniste) sull’Olocausto. A Goffredo Buiccini, del Corriere della Sera, ha detto: “Se lei studia il nazismo scopre riforme sociali che ancora oggi la Germania utilizza. Solo che la storiografia ufficiale non può essere discussa, è reato”. Il trifoglio. Un altro movimento della destra radicale romana che sicuramente sarà nella coalizione della Polverini – o nella lista del presidente, o con il suo simbolo – sarà il Trifoglio, di Alfredo Iorio. E’ un movimento che nasce nella Capitale, nel quartiere Prati di Roma, intorno alla storica sezione di via Ottaviano. Molto attivo, capace di ritagliarsi visibilità mediatica con campagne choc, a partire dalla serie di manifesti che rivisitavano i dieci comandamenti in chiave contemporanea e provocatoria, per finire con quel “Uomo-fobia” che (con questo titolo) accostava il tema della differenza sessuale alla foto dei gorilla del pianeta delle scimmie. Il Trifoglio è un movimento locale, ma dotato della forza per eleggere un consigliere:

“Dobbiamo ancora decidere – spiega Iorio – se correremo nella lista o da soli. Di sicuro a sostegno di Renata: una tosta e anticonformista”. Insomma, agli elettori di sinistra tentati dal “quasi-quasi Polverini”, la Bonino ricorderà di certo questi camerati. Quante tessere figliola? E forse, più di tutti, batterà sulle due notizie su cui in questi giorni sta mar-

Velardi: ”Si apparenta con Storace e Tilgher Lo impone la legge”. Dagospia: “Fazzone sarà assessore” tellando Roberto D’Agostino con il suo sito, Dagospia. La prima è la campagna di Europa, quotidiano della Margherita sulle tessere “gonfiate” dall’Ugl, il sindacato di destra, nel periodo della segreteria Polverini. Secondo i dati raccolti da Gianni Del Vecchio, infatti, i due milioni di iscritti dichiarati dalla segretaria uscente sarebbe addirittura maggiorati del 90%. L’inchiesta parte da uno studio della Cgil sui rilevamenti delle quote trattenute sulle buste paga. Incredibilmente elusiva la risposta della stessa Polverini: “Non intendo rispondere a queste domande nell'interesse dei lavoratori italiani, dovrei dire cose che non posso rivelare”. Il caso Fazzone. Infine – secondo

MASSIMO DONADI/IDV

“IN VENETO PRONTO A CORRERE CONTRO ZAIA, NO AL CANDIDATO UDC” di Wanda Marra

rompe gli indugi e chiede al caL’nadiIdv pogruppo alla Camera, Massimo Do(veneziano) di candidarsi. Una sorta di aut aut al Pd, finora incerto xse appoggiare il candidato centrista, Antonio De Poli (attuale Assessore delle Giunta Galan) o proporre un proprio candidato. Grandi manovre in corso sulle Regionali. Ieri Antonio Di Pietro ha incontrato Bersani. E successivamente anche Vendola, togliendo ufficialmente ogni pregiudiziale alla sua candidatura e chiarendo che

chiodo di D’Agostino – la Polverini avrebbe designato nel ruolo di assessore alla sanità Claudio Fazzone, il polista più votato nel Lazio, ma anche il difensore strenuo della giunta di Fondi, sciolta da Maroni per infiltrazioni mafiose. Realpolitik? Legami politici antichi? Necessità di salvaguardare equilibri di coalizione, dopo una candidatura che

si deve lavorare per un candidato unico del centrosinistra in Puglia. Anche se questo significa rompere con l’Udc, che non è disposta ad appoggiare né il governatore uscente, né un’ipotesi di coalizione con la sinistra radicale: la scelta delle primarie, dunque, in ogni modo farebbe saltare l’accordo con i centristi. Ed è per questo che ieri Francesco Boccia, che sembrava a questo punto il più probabile candidato del Pd, ha dichiarato che in caso di primarie si farà indietro. Onorevole, dunque sarà candidato in Veneto? Ieri il coordinamento regionale dell’Idv ha deciso di sospendere la partecipazione al tavolo del centrosinistra e in caso si arrivi alla corsa solitaria di candidarmi. Come mai? Faccio una premessa. Dalla caduta del governo Prodi una coalizione di centrosinistra di fatto non esiste più. Ma il nodo delle candidature in vista delle regionali è uno strazio perché non c'è condivisione di valori e obiettivi, ma solo il tentativo di mettere insieme le cose nella maniera più apparentemente conveniente. In Veneto, in particolare, il Pd sta affidando la leadership della Regione a un esponente dell'Udc, che ancora oggi sta nella

APPOGGI

molti azzurri rivendicavano? Le risposte di Velardi. Se provi a sentire Velardi, lo spin doctor polveriniano distingue, e getta acqua sul fuoco. “Di cosa parliamo? Degli apparentamenti con la destra radicale? Sì – spiega Velardi – ci sono: sono obbligati, imposti da una legge elettorale a turno unico”. Poi, dopo un sospiro Velardi aggiunge: “Del resto anche a sinistra ci sono, di segno uguale e contrario”. Diversa, invece, la risposta su Fazzone: “Non mi risulta che sia stato designato ad alcunchè. La squadra verrà presentata molto più in là”.

di Lorenzo Allegrini

LA SQUADRA DELLA BONINO I

l Lazio è quasi pronto per il fischio d’inizio: il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha dato l'ok alla “fuoriclasse” Emma Bonino. Che ha risposto: “Ce la metterò tutta”. I due si sono incontrati ieri a Roma. E sono arrivati all'accordo: sparita l'ipotesi primarie, la candidata che sfiderà la Polverini sarà la leader radicale. Il lancio della Bonino è un prepartita entusiasta: “C'è grande voglia di vincere”. Mentre sbuffa il tridente teodem del Pd (Renzo Lusetti, Enzo Carra e Paola Binetti) per cui “non si può schierare una radicale nel Lazio, c'è troppo malumore tra i cattolici”. Ma la Binetti ha fatto sapere che per ora rimarrà in campo con i democrat. Intanto: nella squadra Bonino-Bersani sta per entrare anche l'Idv di Antonio Di Pietro, che ha visto il segretario del Pd ieri; e, pronta a indossare la stessa divisa, c’è anche l’esordiente Sel, che però avrebbe preferito che non fossero lasciate in tribuna le primarie.

Giunta Galan: la mattina va alle riunioni di giunta e il pomeriggio fa campagna elettorale. Dunque, lei è pronto a scendere in campo? Ho chiesto una settimana di tempo per pensarci. Bisogna verificare innanzitutto la disponibilità del Pd a ragionare non sui nomi, ma su una logica di coalizione prima di tutto. Ma in Veneto comunque andrebbe a perdere... Perdere bene o perdere male non è la stessa cosa...Questa può essere un’occasione per costruire una vera alleanza di centrosinistra. Il punto è che De Poli non deve passare... De Poli è una scelta suicida per De Poli per primo. Ho parlato con lui spiegandogli che questa scelta farebbe male all'Udc per prima perché nemmeno il suo elettorato vedrebbe bene il passaggio da un governo con il centrodestra alla leadership del centrosinistra. E se il Pd scegliesse di sostenerlo nonostante la vostra opposizione? Sarebbe il modo per far vincere il cupio dissolvi. Ma in quel caso verificheremo la possibilità di mettere insieme un’altra

coalizione. Il vostro sembra anche un modo per contrastare la politica dei due forni dell’Udc ed evitare che i centristi facciano l’ago della bilancia. O no? Siamo disponibili ad appoggiare una coalizione anche con l’Udc, e che vada in Veneto dai Verdi all’Idv, passando per Sl. Ma si parte dai contenuti. Ieri Bersani e Di Pietro si sono visti. Cosa si sono detti? Hanno cominciato a parlare della possibilità che nasca una coalizione vera alternativa a Berlusconi. Dobbiamo metterci intorno a un tavolo col Pd e stabilire un’alleanza, tenendo conto del diverso peso elettorale dei partiti ma su basi paritarie. Ieri Di Pietro ha anche incontrato Vendola e ha tolto le pregiudiziali alla sua candidatura. Anche in questo caso sareste alternativi all’Udc... Se il Pd convince Vendola a ritirare la sua candidatura, noi sosterremo il candidato del Pd, se invece il Pd va alle primarie sosterremo il vincitore delle primarie, se il Pd prende atto che Vendola non si ritira e decide di sostenere Vendola, sosterremo Vendola. Deve prevalere una logica di coalizione.

dialogo, ieri i toni intorno alla giustizia sono saliti. “Faremo ostruzionismo”, minaccia la capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, dopo aver richiesto che la norma sul processo breve torni in commissione Giustizia. L’Associazione nazionale magistrati dice che il processo breve “rischia di mettere in ginocchio la già disastrata macchina della giustizia”. Ma Silvio Berlusconi, quasi a ostentare la serenità riguardo alle discussioni in corso, non interviene e si milita a farsi notare intento allo shopping romano, dichiarando di essere ancora più amato dopo l’aggressione. Il lavorio sulla giustizia e sulle norme che Berlusconi definisce “ad libertatem” e l’opposizione “ad personam” è proseguito anche in commissione Giustizia dove si discuteva di legittimo impedimento. E continuerà, forse, oggi in Consiglio dei ministri dove potrebbe essere annunciato un decreto legge che per sospendere tre mesi i processi durante i quali non sia stata data la possibilità all’imputato di chiedere il rito abbreviato. Quando la notizia viene battuta dalle agenzie di stampa, in Senato la seduta viene sospesa quando il Pd inizia a protestare e chiedere spiegazioni. empre al Senato procede Scommissione è iniziata in Affari costituzionali la discussione del cosiddetto decreto milleproroghe, un provvedimento che raccoglie molteplici interventi di politica economica. Tra questi la proroga dello scudo fiscale fino ad aprile e il rinnovo degli incentivi per il settore auto, tema delicato in queste ore in cui l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne contribuisce con le sue dichiarazioni a tenere alta la tensione per la chiusura della fabbrica di Termini Imerese, proprio alla vigilia dello sciopero degli operai. Nessuna novità sul taglio delle tasse, la notizia economica del giorno per il governo è che la domanda per i Bot resta così alta che il loro rendimento è negativo. Sospiro di sollievo del ministro dell’Economia Giulio Tremonti. n vista delle regionali nel Ila tattica Pd si è ormai consolidata formulata dal segretario Pier Luigi Bersani: dove c’è già un candidato del centrodestra si sceglie subito un nome, senza passare dalle primarie. Primi effetti: nel Lazio da ieri è ufficiale, o quasi, il sostegno del Pd alla candidatura di Emma Bonino. Nell’ennesimo rivolgimento pugliese, sembra delinearsi un’investitura del governatore uscente Nichi Vendola ma senza primarie.


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CRONACHE

DETENUTI AMMASSATI NELLE CELLE, PERSINO ALFANO SE N’È RESO CONTO Oggi in Cdm piano carceri e stato di emergenza di Silvia

D’Onghia

lla fine se n’è accorto persino il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: la situazione delle carceri richiede provvedimenti di emergenza. Tanto che oggi il Guardasigilli porterà in Consiglio dei ministri il suo “piano”, “confidando” che i colleghi comprendano la gravità del momento. Un piano, per la verità più volte annunciato, che dovrebbe vertere su tre punti: un incremento dell’edilizia penitenziaria che porti la capienza a 80 mila posti (dagli attuali 43 mila disponibili); riforme di accompagnamento, che “atterranno il sistema sanzionatorio e riguarderanno coloro che devono scontare un piccolo residuo di pena” (possibile ricorso a misure alternative come gli arresti domiciliari); un aumento di organico di “oltre duemila unità” nella polizia penitenziaria. “Dobbiamo immaginare – ha annunciato Alfano – una strada diversa rispetto a quella percorsa in questi 60 anni di storia repubblicana che ha sempre fatto i conti con l’emergenza nelle carceri, con il sovraffollamento individuando sempre la stessa risposta: provvedimenti di amnistia e indulto”. Tanto per rispondere ai Radicali che, per bocca di Rita Bernardini, continua-

A

no a chiedere un’amnistia come base per risolvere il problema della giustizia. Bernardini ha però ieri incassato un risultato importante: la Camera ha approvato 12 dei 20 punti della mozione, presentata assieme ad altri 92 deputati, che impegna il governo ad un’ampia riforma del sistema carcerario. Via libera, per esempio, alla riduzione dei tempi di custodia cautelare per i reati meno gravi, ad una reale protezione del detenuto, al rafforzamento delle misure alternative, all’attuazione del principio di territorialità della pena, all’adeguamento degli organici del personale penitenziario. “Sappiamo che quando si strappa un contratto, poi bisogna lottare per farlo attuare

Reparti nuovi sono chiusi per mancanza di personale Perchè costruirne altri?

– commenta la deputata radicale – dobbiamo fare la stessa cosa con quanto abbiamo strappato oggi. Quanto al piano carceri, il governo continua a non rispondere su questioni fondamentali. Il personale è già carente con l’attuale numero dei detenuti, figuriamoci per un numero superiore. Inoltre, girando per le carceri, ho visto io stessa interi reparti nuovissimi chiusi per mancanza di personale penitenziario. Poi non capiamo perché si devono costruire nuovi istituti se si pensa a misure alternative”. Oltre tutto i duemila agenti in più annunciati da Alfano, che si è guardato bene dallo specificare i tempi di questi ingressi, sono già meno di quanti ne occorrerebbero oggi.

“Siamo sotto di 6.000 persone – commenta il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece – speriamo che il Consiglio dei ministri licenzi un provvedimento che vada ben oltre il numero annunciato dal Guardasigilli, di cui comunque apprezziamo la volontà”. Giudizio cautamente positivo dalla Uilpa Penitenziari: “E’ un impegno politico concreto che va nella direzione che avevamo chiesto – afferma il segretario generale, Eugenio Sarno – ora ci aspettiamo di poter scrivere insieme, come lo stesso ministro aveva annunciato tempo fa, il piano carceri”. L’annuncio della costruzione di nuovi istituti però non convince molti, a cominciare dall’ex segretario del Pd Da-

rio Franceschini, che in aula ha chiesto al governo di “non abusare dello strumento d’ordinanza al posto dei normali provvedimenti legislativi”. Più duro ancora Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Se l’emergenza significa secretare le gare d’appalto, affidandole al capo del Dap come commissario straordinario, non seguire le regole pubbliche, ma andare in trattativa privata, allora è meglio non fare il piano carceri. Il ministro ha poi sparato numeri a caso: se è bravissimo, entro un anno con le risorse a disposizione riesce al massimo ad avere 5 mila posti in più”. Un solo elemento positivo: la presa di coscienza”. Che speriamo non diventi uno spot elettorale.

Insulti al ristorante: “Con un figlio mongolo è bene stare a casa” di Benny Calasanzio

uando si hanno dei figli mongoli è be“Q ne starsene a casa”. Lo hanno detto in faccia ad una bambina disabile, colpevole di aver disturbato i vicini di tavolo di un ristorante di Treviso in cui, con i genitori, domenica scorsa stava mangiando una pizza. “Mongola” perché, con una delle cameriere del locale, stava facendo un gioco con dei pezzettini di carta. Ma uno di questi è finito sul tavolo accanto, dove c’erano otto adulti rimasti indifferenti alle parole del loro commensale. Tra loro c’era anche la moglie con un neonato che, alle parole del marito, non ha fatto una piega. A quel punto la famiglia della piccola disabile ha deciso di lasciare il ristorante e il padre si è limitato a dire, a voce alta, solamente: “Ce ne andiamo, purtroppo ci sono persone infastidite dai bambini”. A dare voce al genitore umiliato e mortificato è stato il giornale di Treviso, “La Tribuna”, che ha pubblicato la sua lettera. Ora il padre della piccola, Luca F., non vuole alimentare lo scandalo suscitato dall’accaduto e preferisce affidarsi alle parole della sua lettera senza aggiungere nulla: “Spero che di tali individui ne rimangano pochi, spero possano riflettere sulle loro miserie, e su come migliorarsi in tempo per dare ai propri figli dei valori che non li costringano alla paura, alla diffidenza, al deserto”. Indignazione condivisa dal gestore del ristorante: “Cose del genere non devono suc-

cedere. Se avessi assistito a quella scena, avrei personalmente allontanato quel cliente arrogante e cattivo. Di clienti così facciamo volentieri a meno”. Il sindaco di Treviso, Giampaolo Gobbo, ha minimizzato l’accaduto: “Tutto quello che accade qui viene amplificato dai media, e se si va a scavare poi magari viene fuori che tutto è da ridimensionare. Non intendo perdere tempo con queste cose” ha detto infastidito. Durissimo invece il commento del vicepresidente della regione Veneto Franco Manzato: “Quanto accaduto ha dell’incredibile e non ci sono parole per commentare un episodio ben lontano dalla cultura della Marca. I diversi, i veri minorati, sono proprio quelli che denigrano”. Non fa sconti nemmeno Ivano Pillon, presidente del Coordinamento provinciale associazione handicappati: “Quell’uomo ha detto quel che ha detto perché non sa quel che dice. Per fortuna a Treviso casi del genere sono assai rari. Inviterei quel signore a far visita ad una delle tante associazioni che sono disseminate sul territorio. Le sue scuse non servirebbero a nulla”. Questa storia di miseria umana mista a ignoranza e razzismo si conclude con l’ultima frase che il padre ha scritto nella sua missiva, che è insieme una lezione di civiltà e di amore paterno più forti e più efficaci di urla e insulti: “Siamo usciti e come sempre ho abbracciato forte mia figlia, a me il suo handicap riempie il cuore”.

Dimagrito, invecchiato: il nuovo volto dell’ex governatore MARRAZZO INTERROGATO DAL PM. SVOLTA NELL’INCHIESTA SUL PUSHER CAFASSO: OMICIDIO VOLONTARIO di Rita Di Giovacchino

rima foto di Piero Marrazzo dopo lo Pdimettersi scandalo che tre mesi fa lo ha portato a da presidente della regione Lazio. Dimagrito, i capelli più bianchi, spinge il carrello della spesa in un supermercato sulla via Tiberina, nei pressi della villa dove ancora abita con la moglie. Ma di Marrazzo si torna a parlare, dopo l’audizione segreta sui suoi rapporti con il trans Paloma, anche per i clamorosi sviluppi sulla morte improvvisa di Gianguarino Cafasso, avvenuta il 12 settembre scorso, prima che la vicenda deflagrasse sui giornali. Non ci sarebbero più dubbi, il pusher dei trans è stato ucciso. Non più “morte come conseguenza di altro reato” (questa finora l’iscrizione del reato) ma omicidio volontario. Chi lo ha ucciso? Ad opera di ignoti, è scritto nel fascicolo. Quella che Cafasso fosse stato ucciso è un’ipotesi che il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo insegue fin dall’inizio. A confortare la sua tesi sareb-

bero stati i risultati di una perizia affidata a nuovi consulenti, ma ci sono anche delle intercettazioni dalle quali si deduce la volontà di eliminare il pusher. Un personaggio che nel caso Marrazzo ha avuto un ruolo di primo piano. Non solo segnalò ai carabinieri infedeli la sua presenza nell’appartamento in via Gradoli, ma avrebbe anche fornito il quantitativo di cocaina che ha incastrato l’ex governatore nel primo video che in seguito, lui stesso, tentò di vendere ad alcuni giornali. Il pusher era un personaggio scomodo, il tramite tra il mondo della prostituzione maschile della Cassia e i carabinieri infedeli che avrebbero tentato di ricattare l’ex presidente della regione Lazio. Era amico di Natalì ma anche di Brenda, l’altro trans morto in circostanze poco chiare. Qualcuno ha voluto metterlo a tacere per sempre? In procura è ormai una certezza. Certezza non condivisa da tutti gli investigatori. La prima perizia chimica tossicologica, compiuta dai patologi dell’Umberto I, aveva escluso che

la cocaina fosse stata tagliata con stricnina. Non sembra che la seconda perizia abbia dato esito diverso. Il trans Jennifer, che era in compagnia di Cafasso la sera della sua morte, avrebbe sniffato la stessa sostanza, sia pure in quantitativo minore, senza riportare alcun danno. Una striscia contro le tre assunte dal pusher. Insomma divergenze e malumori attraversano in modo sotterraneo la conduzione di questa inchiesta difficile, che soffre anche del fatto di essere divisa tra il Ros, che indaga sui Cc infedeli e la Mobile che si occupa soltanto della morte di Brenda. Cosa che consente a Capaldo di essere l’unico ad avere un quadro completo. I malumori investono anche l’ultimo interrogatorio di Marrazzo, che nell’audizione segreta ha ammesso di conoscere Pa-

N TERREMOTO

Serie di scosse nelle Marche

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na serie di scosse di terremoto ha colpito le Marche ieri mattina fino al primo pomeriggio. Lo sciame sismico è andato crescendo, fino a raggiungere la magnitudo 4.1 della scala Richter alle 14.35. La scossa più forte è stata avvertita anche nell’aquilano. L’epicentro è stato tra Macerata e Fermo. Ma è dal 7 gennaio che le Marche sono colpite da ondate di terremoto. Il 10 si è registrato un sisma di magnitudo 3.9. La profondità delle scosse pare sia di circa 25 km.

“LADY ABELLI”

Patteggiamento: due anni

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osanna Gariboldi, moglie del deputato Pdl Giancarlo Abelli ed ex assessore della giunta provinciale di Pavia, arrestata il 20 ottobre scorso con l’accusa di riciclaggio e presunte irregolarità verrà scarcerata. Lo ha stabilito il gip milanese Zamagni accogliendo la richiesta di patteggiamento a due anni di reclusione avanzata dai legali della Gariboldi, che ha anche messo a disposizione a titolo di risarcimento 1,2 milioni di euro.

INTIMIDAZIONI

Un proiettile al magistrato Ardita

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na busta contenente un proiettile e una lettera di minacce è stata inviata al magistrato Sebastiano Ardita, responsabile della gestione dei detenuti 41-bis. La missiva è arrivata alla sede del quotidiano “La Sicilia” di Catania nelle scorse settimane, anche se la notizia si è appresa solo ieri. La Procura di Catania ha aperto un’inchiesta contro ignoti. Nella lettera il magistrato (attualmente direttore generale area detenuti del Dap) viene “invitato” ad essere meno intransigente nell’applicazione del regime di carcere duro.

MILANO

Ennesimo scontro fra tram

A loma, ma negato di averla mai incontrata nel suo ufficio alla regione o di aver consumato in quella sede cocaina. Chi dei due ha mentito, lui o Paloma? Non si esclude un confronto, al momento l’unica ammissione del procuratore Capaldo è che il trans sarà presto riascoltato.

ncora uno scontro fra tram a Milano. Ieri pomeriggio due convogli delle linee 1 e 14 si sono scontrati in piazza Firenze. Dieci persone sono rimaste ferite in modo lieve. Uno dei mezzi è deragliato ed è finito contro l’altro. Si tratta dell’ennesimo episodio negli ultimi due anni.


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Mercoledì 13 gennaio 2010

Le scatole societarie per liberarsi di costi e dipendenti

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ECONOMIA

è una pratica semplice e diffusa che permette alle società che vanno male di risollevarsi e di liberarsi dei costi a prezzo zero. E’ successo con lo scandalo di Eutelia e anche con Omnia Network, due società – entrambe quotate in Borsa – che hanno utilizzato il medesimo espediente. La procedura è sempre uguale: se ci si vuole liberare dei dipendenti (e magari anche dei debiti), ma i con-

tratti degli impiegati, spesso a tempo indeterminato non lo consentono, non bisogna disperare. Basta svuotare una società che già esiste, oppure crearne una nuova, e spostarvi dentro tutto ciò che non si vuole più. Il personale in eccesso, per esempio. Dopodiché si vende la scatola (vuota) ora riempita a una terza società amica che se ne fa carico. La terza società (per esempio Omega, che ha acquisito Agile, con dipen-

denti e debiti, da Eutelia), nuova proprietaria, si accolla anche le liquidazioni che l’azienda madre avrebbe dovuto pagare agli impiegati se li avesse licenziati. Si tratta di molti milioni di euro (nel caso di Eutelia, 54). Questo sistema, che di fatto aggira la legge ma non è illegale di per sé, potrebbe avere risvolti penali qualora la società acquirente non rilevasse il ramo d’azienda per farlo funzionare, ma bensì per farlo fallire.

IL CALL CENTER E LA RIVOLUZIONE Ecco chi sono i telefonisti di Voicity che sequestrano i manager e non si fidano dei sindacati

di Corrado Formigli*

uando Billy coi baffoni da funzionario di partito e la faccia da bambino prende il megafono, è fatta. Grida “Omnia network ce lo ha insegnato, bloccare un dirigente non è reato” e cinquant’anni di sindacato sono inghiottiti. E’ arrivato sotto la sede di vetro del Sole 24 Ore per protestare: da tre mesi quelli di Voicity non pagano lo stipendio a lui e agli altri 800 del call center di Milano. Per questo oggi è qui, rivendica il diritto a sbarrare le uscite della sua azienda e aspettare al varco i manager spilorci. Con lui ci sono una sessantina di telefonisti incazzati come belve. Quelli del sindacato se ne stanno un po’ in disparte, l’unico che si associa al grido è Denis, rappresentante di base della Wind, piombato qui per solidarietà. Lo slogan di Billy è uno sparo d’inizio anno, l’urlo di una nuova generazione X che si fa largo fra proteste e presidi che rabbuiano Milano.

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LA RIVOLUZIONE. La sera stessa arrivo alla sede di Voicity col cuore in gola, per incontrare Billy e gli altri e chiedergli perché. Già vedo la diretta di Annozero, tutti seduti alle loro postazioni, centinaia di cuffie e microfoni e neanche una chiamata: sono in sciopero, sede bloccata. Niente stipendio, niente servizio. Al telefono chiedo ai dirigenti se ci fanno mettere dentro le telecamere ma non si può. Sono cortesi e impauriti, hanno abbandonato la sede di via Breda al suo declino, alla rabbia dei telefonisti muti. A Milano piove che sembra Seven di David Fincher, la diretta si fa lo stesso, io fuori loro dentro. Un montacarichi mi porta al piano, loro incollati alla vetrata che dà sulla strada, prigionieri dell’azienda che hanno occupa-

Una recente assemblea dei lavoratori del call center Voicity (FOTO ANSA)

to. Ci parliamo attraverso un vetro appannato da duecento fiati mentre le luci dei quarzi tagliano oblique il grande open space. Accusano i manager di Wind e Omnia, loro precedenti datori di lavoro, di averli svenduti a Voicity per alleggerirsi del peso insostenibile delle persone. Descrivono il gioco delle good e bad company, delle scatole cinesi, delle fiduciarie in Lussemburgo. Mentre

“Milleduecento euro al mese, dei figli e una famiglia, ecco tutto quello che desidero”

TERMINI IMERESE

Perché sta salendo la tensione

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ggi i sindacati degli operai Fiat scioperano contro la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese (Palermo). E questo lo sa anche Sergio Marchionne, l’amministratore delegato del gruppo, che non sembra interessato a ridurre la tensione intorno alla fabbrica siciliana. Nel caso qualcuno non avesse recepito il messaggio, ieri ha ribadito che “riabilitare Termini è da pazzi”. Mentre spunta qualche piano (del finanziere Simone Cimino) e qualche proposta (come quella dell’IdV) per salvare la fabbrica, Marchionne vuol far capire a tutti che è spacciata, inutile e senza speranza. Eppure i sindacati hanno alcuni mesi prima della fine della produzione per trovare una soluzione al fatto che la Fiat, ora “multinazionale”, come dice Marchionne, è sempre meno interessata all’Italia. E soprattutto alla Sicilia.

Fabio fa la cronaca del sequestro dei dirigenti di lunedì 4 gennaio, il silenzio è totale. “Volevamo chiedere ai nostri capi se c’erano novità sugli stipendi e le tredicesime, hanno bloccato porte e ascensori per non farci salire. Allora abbiamo chiuso l’uscita coi cassonetti dell’immondizia e loro hanno ceduto. Gli stipendi non li abbiamo visti, un po’ più di rispetto sì”. “Se domani riaccade, li blocchiamo di nuovo”, entra secco Billy. A quel punto il collegamento è andato e io rimango solo con loro, a guardarli in faccia uno ad uno. Tutti d’accordo, nessuno escluso: “Faremo più casino ancora, è come la Rivoluzione francese: se hanno tagliato la testa a qualcuno è perché avevano fame” mi fa Roberto. LA POLITICA. Ecco, quando dico che cinquant’anni di sindacato sono andati, mi riferisco al nuovo disordine che regna qui, sul set di questa diretta: i trenten-

ni del call center parlano dritto e chiaro il politicamente scorretto. Pochi minuti prima che Annozero inizi, i rappresentanti sindacali provano a piazzare uno dei loro per un intervento. Ma qui di spazio per trattative sindacali non ce n’è, quelli che parlano non hanno tessere. Denis, che ha capito l’aria che tira, lo dice chiaro: “Lasciate fare il lavoro al giornalista”. I sindacalisti abbozzano, la frattura c’è. Dopo la trasmissione ho attraversato il vetro. Sono andato dentro mentre i vigilantes fingevano di guardare altrove. Serviva capire meglio chi sono i “sequestratori”. E se Billy si è dileguato in fretta, ho parlato a lungo con Alessio, Fabio, Roberto. Il primo ha trent’anni, è di Sesto San Giovanni e risponde alle chiamate degli utenti del digitale terrestre Mediaset. “Papà operaio, mamma faceva le pulizie, laureato in Filosofia teoretica, ho una moglie che lavora qui con me e una bimba di due

anni, Aria. Forse ti chiederai a cosa serve una laurea in Filosofia dentro questo call center. Quando rispondo al telefono dico salve sono Mario di Mediaset perché qui è una prassi cambiarsi il nome. Dall’altra parte del filo c’è uno che non sa che lavoro per una società esterna e crede che sia davvero di Mediaset e in fondo questa doppia identità non è poi così male per un artistoide come me”. Ognuno sopravvive come può dentro Voicity, anticamera della strada se qualcuno non ci mette presto dei soldi. “Dietro 70 milioni di debiti c’è sempre qualcuno che ha rubato: a quelli che mi dicono attento ai gesti d’odio rispondo che è troppo di più quello che hanno i dirigenti rispetto a noi”. Alessio ama Berlinguer, non voterà Pd e considera i sindacati “troppo istituzionalizzati e controllati dall’alto”. La tv la guarda poco ma ha un debole per X Factor e per Morgan, suo quasi sosia “per via del comune glam monzese”. Di questa rabbiosa generazione Voicity fa parte anche Roberto – quello della Rivoluzione francese – frequentatore dei sabato notte brianzoli ma capace in diretta di tener testa a Castelli: “Mi ha fatto proprio incazzare. Se rappresenti l’istituzione, alle mie richieste devi offrire risposte concrete, non puoi venirmi a fare la morale raccontando di quando andavi in giro con la macchina gibollata (ammaccata, ndr)”. La concretezza Roberto l’aveva vista in Berlusconi: “Nel 2007, quando ci hanno esternalizzato, c’era Prodi al governo. Secondo te ha fatto qualcosa? Hai sentito uno straccio di interpellanza? I politici di sinistra vanno nei talk show a parlar di niente, ecco perché ho votato il Cavaliere”. E oggi, berlusconiano deluso? “Dormiente piuttosto, ma voterei anche Bersani se si desse una mossa. Avevo la tessera Cisl, l’ho strappa-

ta perché le sigle sono troppo schierate politicamente e non sanno rispondere alla domanda più semplice e banale che c’è: contro chi smette di pagarti, che linea hai?”. LE BANDIERE. Occhio alle bandiere, poi. A Fabio, durante una manifestazione nazionale ne hanno passata una rossa della Cgil: “Ho detto potete tenervela, francamente preferisco un buon avvocato a un sindacalista. Almeno finché Cgil, Cisl e Uil non faranno meno parate nazionali e più iniziative sul territorio”. Non è berlusconiano, e anche se molte volte ha votato a sinistra, stavolta no: “Come si fa a candidare in Lombardia Penati che ha perso secco alle ultime provinciali?”. Ecco, dietro la grande vetrata di Voicity cresce questo strano movimento, Robespierre e Lapalisse, Berlinguer e la De Filippi, Beppe Grillo, la Costituzione, la Brianza e il karaoke. A diretta finita, quando l’ultima lama di luce si smorza, il papà di Roberto gli telefona in lacrime, commosso. Lui di solito guarda Emilio Fede e Santoro proprio non lo può soffrire, ma stavolta spera che a qualcosa servirà. Il papà di Fabio invece è venuto sul set, rannicchiato dietro l’ultimo quarzo, berlusconiano anche lui: “Però quando ha saputo che parlavo ad Annozero è arrivato qui, emozionato: stavolta voglio combattere con te”. Così gli ottocento di Voicity sperano e si abbracciano, piangono e si danno nuovi appuntamenti, incontrollati, incontrollabili. “Milleduecento euro al mese, dei figli e una famiglia, ecco tutto quello che desidero – Fabio ora è perfettamente calmo – Non è la rivoluzione, non è un sogno impossibile. Ma se mi tolgono anche questo la mia rabbia non si ferma, un altro sequestro è possibile”. *inviato di Annozero

OMNIA E VOICITY

LE PROMESSE DI SALVATAGGIO NON MANTENUTE di Beatrice Borromeo

anno sequestrato i loro manager già HConoscono due volte e minacciano di andare oltre. perfettamente la storia della loro società e sanno che, affinché qualcosa cambi, devono renderla pubblica. Per questo vanno in televisione, sui giornali, fanno picchetti e manifestazioni: sono gli impiegati di Voicity, il call center esternalizzato da Omnia Netrwork quattro mesi fa, che da ottobre non ricevono lo stipendio. E quando parlano raccontano una storia di promesse non mantenute, di risposte che non arrivano. Il primo imprenditore che si è proposto come salvatore di Omnia Network è Sebastiano Liori, nominato vicepresidente del gruppo il 6 maggio dell’anno scorso. Liori è ormai famoso per essere ai vertici di Omega, la “società killer”, come la chiamano i dipendenti, che è stata commissariata a dicembre ed è oggetto di un’indagine da parte della Procura di Milano.

Liori è entrato in Omnia tramite Ti- Cam, un’azienda austriaca che si occupa di servizi integrati. Al suo arrivo Liori, il cui nome è stato legato anche in passato a vari fallimenti societari, si è impegnato a versare 12 milioni di euro che sarebbero serviti a ricapitalizzare l’azienda. Ma l’imprenditore di Nuoro (suo fratello, Antonangelo Liori, è stato il direttore dell’Unione Sarda, prima di essere condannato per bancarotta) sembra preferire una strategia a costo zero: acquisire società senza pagarle e cercare di ricavarne il massimo profitto. Così ha fatto con Agile, il ramo specializzato in information technology che Omega ha acquisito da Eutelia al prezzo simbolico di 1 euro. Ma il costo di Omnia, cioè i 12 milioni, non era affatto simbolico: dopo aver fallito nel tentativo di fondere le due società (Omega e Omnia), Liori ha deciso che non ne valeva la pena e si è dimesso. Siamo nell’agosto 2009. Nel frattempo la Consob ha sospeso Omnia dalle quotazioni azionarie dopo aver

bocciato per due volte consecutive il suo bilancio. Ad agosto Liori lascia dunque un società in agonia, pronta ad avviare le procedure concorsuali. Ma Omnia può ancora contare su clienti importanti, da Mediaset Premium a UniCredit, e gli amministratori (alcuni dei quali portati da Liori) trovano, tramite la società veicolo Albarental, un fondo libanese che si dice pronto a versare 20 milioni di euro: Gulf Investment Fund. In cambio però Omnia deve liberarsi delle sue passività: quindi trasferisce servizi e costi indesiderati (tra cui 2.400 lavoratori e 40 milioni di euro di debiti) in Voicity e contestualmente la vende. Di nuovo leggera, pronta a riaprire le sue quotazioni in Borsa, Omnia aspetta ancora che il fondo libanese versi effettivamente l’importo promesso. Ma ai lavoratori esternalizzati, lasciati senza nemmeno le promesse, viene il dubbio che Voicity sia stata creata solo per liberarsi di loro. E questo non sarebbe proprio legale.


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La bad company di Alitalia e le dismissioni

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ECONOMIA

opo due tentativi di privatizzazione falliti, il governo e la compagnia affidano un ruolo di consulente a Intesa Sanpaolo. Il progetto della banca prevede il ricorso al commissariamento e la successiva fusione con AirOne. La vecchia compagnia, poi, passa in amministrazione straordinaria: Augusto

Fantozzi viene nominato commissario della compagnia. Il 12 dicembre 2008 Cai sottoscrive con il commissario straordinario Augusto Fantozzi il contratto per l’acquisto degli asset di volo Alitalia-Linee Aeree Italiane S.p.A. Al prezzo di 1,052 miliardi con versamento di 100 milioni di euro. Dal 12 dicembre 2008 al 12 gennaio 2009 tutti gli

oneri e i ricavi connessi al servizio di trasporto aereo sono a carico di Cai. Il 12 gennaio 2009 il commissario straordinario Fantozzi insieme con i vertici dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile) e Alitalia-Compagnia Aerea Italiana hanno iniziato a trasferire l’attività alla nuova Alitalia.

IL MOTORE IMMOBILE Alcuni lavoratori bloccano la vendita dei pezzi di Alitalia di Damiano Zito

uesta volta a finire sotto “sequestro” non è un manager, bensì un motore di un aereo di proprietà della nuova Alitalia-Cai, che era pronto per essere spedito in Svizzera. La storia è quella della protesta dei lavoratori di Alitalia Maintenance Systems (Ams), stremati da una cassa integrazione a rotazione che va avanti da più di un anno e da una situazione aziendale in condizioni di stallo da qualche mese, così per difendere il loro lavoro hanno organizzato un presidio permanente per controllare giorno e notte il motore sequestrato.

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BAD COMPANY. La Ams è una società che opera nel settore della manutenzione e revisione di motori aerei, il 60 per cento di essa è detenuto da Alitalia Servizi, la bad company, in commissione straordinaria e gestita da Augusto Fantozzi, mentre la parte restante è posseduta da Lufthansa Technik che però ha già manifestato l’interesse ad uscire dalla società. Tra i suoi clienti appunto Lufthansa, che non fornisce nessuna commessa di lavoro, poi la “vecchia” Alitalia e la nuova, la Alitalia-Cai, che rappresenta l’unico potenziale cliente grazie al quale la Ams può restare in vita. I lavoratori avevano riscontrato le prime avvisaglie quando un motore non era stato commissionato alla loro azienda ma spedito all’estero, in

quell’occasione però fu promesso che sarebbe stato il primo e l’ultimo motore a partire. Quando però Cai, cioè Alitalia, ha emesso un nuovo ordine di lavoro a favore dell’azienda svizzera Sr Technics, i lavoratori hanno bloccato il motore MF56 nel piazzale creando un presidio permanente impedendo di fatto la partenza del propulsore. La Ams a dicembre aveva raggiunto un’intesa con Alitalia dopo un incontro avvenuto con il governo. A fare da garante è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che ha chiesto all’amministratore delegato di Alitalia Rocco Sabelli di rispettare l’accordo che vige tra

I lavoratori di Fiumicino che nei giorni scorsi hanno impedito la spedizione di un motore (FOTO ANSA)

Ams e Alitalia secondo cui prevale il diritto di prelazione da parte di Ams sulla manutenzione dei motori della nuova compagnia di bandiera. Mentre l’amministratore delegato dell’azienda manutentrice, l’ingegner Maurizio Paolo Bianchi, è stato invitato da Letta, a consegnare i motori già lavorati per Alitalia e giacenti in officina poiché i pagamenti sa-

LE FATTURE. Le cose però non sono andate come dovevano e ad oggi le fatture insolute ammontano a sei milioni di euro, Alitalia sembra non voler rispettare l’accordo e lo fa inviando i motori presso l’azienda svizzera, ovvero la SR Technics. La Ams

rappresenta al momento l’unica azienda del settore nel nostro paese, la cessazione di attività ricadrebbe sul destino di circa 360 famiglie e favorirebbe altri concorrenti stranieri pronti ad aggiudicarsi questa fetta di mercato che “per l’Italia rappresenta un polo di eccellenza” rivendicano i dipendenti che protestano e lamentano il silenzio del com-

Tutti i trucchi dell’inflazione zero ANCHE I REDDITI FISSI, POCO COLPITI DALLA CRISI, CONTINUANO A PERDERE POTERE D’ACQUISTO di Giovanni Pasimeni

ietro a un costo della vita Dto dall’Istat basso come quello accertaper il 2009 – non si vedeva da cinquant’anni: 0,8 per cento – si cela una riduzione del potere d’acquisto e del reddito per milioni di famiglie. Questa recessione ha colpito gli italiani in modo eterogeneo: chi ha perso il lavoro ha avuto un tracollo del reddito e ha dovuto adattare il proprio stile di vita di conseguenza; i redditi fissi, invece, han-

NON C’È UN SOLDO

no beneficiato di prezzi bassi, guadagnando addirittura potere d’acquisto, un’occasione preziosa per recuperare gli effetti mai smaltiti dell’introduzione dell’euro. Dal 2001 a oggi, centinaia di prodotti – i conti li ha fatti ieri Milano Finanza – hanno subito enormi rincari: dal 5 per cento (250 grammi di burro, rincaro più basso) al 290 per cento (cono gelato, massimo rialzo). Almeno questa è la teoria. Nella pratica si osserva che nonostante l’inflazione a zero il potere

overo Tremonti, lui le parole “riduzione delle tasse” proprio non le voleva pronunciare. E come avrebbe potuto? Lo sa benissimo che ha aumentato il debito pubblico al livello più alto mai raggiunto. Sa anche che il prossimo anno spenderà 85 miliardi di euro in più di quelli che incasserà e che la previsione di una crescita del Pil del 2 per cento nel 2011 è paragonabile al calendario di Frate Indovino. Piuttosto, pensava a una riforma che, pasticciando con le aliquote e con le detrazioni, potesse fargli recuperare del gettito fiscale aggiuntivo (più soldi) senza dare nell’occhio. Strizzando pure un occhio ai campioni della spesa pubblica che si annidano nel centrosinistra. Non a caso sotto Natale si erano intensificati gli incontri familiari dei due Letta, fino a farne confondere i partiti di appar tenenza. La riforma fiscale rientrava così nel pacchetto delle “riforme dell’amore”

d’acquisto delle famiglie italiane ha continuato a ridursi, come ha certificato l’Istat: nel periodo ottobre 2008-settembre 2009 il reddito disponibile in termini reali è diminuito dell’1,6 per cento rispetto a un anno prima. Come si spiega questo mistero, prezzi bassi e potere d’acquisto in calo? La risposta si trova guardando quelli che sono gli unici prezzi a salire in tempo di recessione. Per esempio tariffe e pedaggi: le Ferrovie dello Stato a dicem-

di Superbonus

TASSE: VI SIETE SCORDATI IL DEBITO?

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rebbero stati eseguiti nei giorni a venire.

missario Fantozzi che è intervenuto solo prima di questo inverno, per dichiarare che a fronte della proposta di acquisto da parte della società Impresa Prima, la Ams potrebbe essere venduta. La Impresa Prima, che continua a trattare è rappresentata e controllata all’88 per cento da Maurizio Tucci, ex dirigente di Finmeccanica, divenuto presidente dell’istituto Banca Impresa Lazio nel marzo scorso. La proposta di rilevazione della Ams è anche appoggiata da Sviluppo Lazio, società della stessa regione che già nella primavera passata aveva avanzato l’ipotesi di un’iniziativa per salvare l’azienda di Fiumicino. I lavoratori comunque protestano “perché Fantozzi”, dicono, “ha il ruolo di vendere l’azienda sotto le migliori condizioni patrimoniali” e nonostante tali condizioni fossero predisposte anche dal governo affinché Ams avesse i bilanci in attivo, “il commissario straordinario sembra non essersi avvalso di tali condizioni”, e la loro forte preoccupazione è che l’azienda non venga venduta a queste condizioni. La notte di lunedì Cai facendo intervenire la polizia si è ripresa il motore. Il governo avrà un incontro con i sindacati venerdì, “un appuntamento che non sarà certo definitivo”, dice Massimo Celletti della Cgil.

che avrebbero dovuto mettere al riparo il Cavaliere dalla giustizia e a confondere l’elettorato sulle reali condizioni della finanza pubblica. Ma B, rinsavito dalla botta in testa, ha fatto subito saltare il tavolo sulla giustizia e continua ad alimentare la favola della diminuzione delle tasse. Una favola raccontata con molta prudenza, perché Tremonti ha paura che ci credano anche gli investitori e le agenzie di rating. Entrambi fanno affidamento sul fatto che l’Italia mantenga un gettito fiscale costante nei prossimi anni e, se necessario, le tasse le alzi. Ora, pochi ricordano che il ministero delle Finanze deve collocare quest’anno 240 miliardi di Btp, di cui circa 100 in campagna elettorale. Se gli investitori credessero veramente all’abbassamento delle tasse sarebbe un disastro per il ministro e per la campagna elettorale. Se ne parlerà quindi dopo, ma quando? Nel 2011 la differenza fra entrate è uscite sarà

ancora troppo ampia. Allora il 2012 sarà l’anno buono? Per carità, mancano ancora 55 miliardi di entrate per pareggiare le uscite (stime del governo, non delle opposizioni bolsceviche). Nel 2013, quindi? Oggi il governo prevede di chiudere alla grande, immaginando che nell’ultimo anno di legislatura il Pil crescerà del 2 per cento per il terzo anno consecutivo (cosa mai successa nei decenni passati) alle casse pubbliche mancheranno solo 35 miliardi di euro e il debito pubblico sarà “solo” di 1997 miliardi di euro. Non solo: pagheremo ben 110 miliardi di euro di interessi e non volete che Berlusconi non trovi spazio per diminuire le tasse, e magari dare finalmente una sforbiciata all’Irap? A fine legislatura il ministro Tremonti avrà avuto la responsabilità dei conti pubblici (e delle tasse) per 9 anni sui 13 che ci separano da inizio secolo. E allora, quando parlerà di tasse troppo alte e debito pubblico enorme, potrà soltanto guardarsi allo specchio e vedere la propria immagine riflessa.

bre hanno rivisto al rialzo i prezzi dei biglietti, con punte del 20 per cento. Nel 2010 Autostrade per l’Italia ha aumentato i pedaggi del 2,4 per cento. E questi sono aumenti che colpiscono tutti e che contribuiscono a innescarne altri: “In un paese dove l’80 per cento dei trasporti avviene su gomma – dice la Coldiretti – l’aumento dei pedaggi pesa sui costi della logistica che incidono per quasi un terzo sui prezzi di frutta e verdura”. Da marzo anche gli scali aeropor-

Rincari da 660 euro anche con la recessione e 500 euro in meno per cassa integrazione tuali potranno applicare rincari compresi fra uno e tre euro, in base al volume degli investimenti e al numero di passeggeri di ogni scalo. Ma non finisce qui. Dopo un anno di ribassi (-185 euro nel 2009), sono salite le tariffe del gas (26 euro in più all’anno), aumento contrastato solo in parte da bollette della luce più leggere (-2,2 per cento). Si è adeguato il canone Rai: 1,5 euro in più rispetto al 2009. L’assicurazione auto obbligatoria (Rca) a ogni famiglia in media costerà 130 euro in più; il ricorso al giudice di pace 55 euro; la bolletta dell’acqua 18 euro; la Tarsu (Tassa sui rifiuti solidi urba-

ni) 35 euro; i servizi bancari 30 euro e le rate dei mutui per l’aumento dello spread applicato dalle banche 80 euro, annullando, o quasi, il beneficio di bassi tassi d'interesse a livello europeo. Poi c’è la benzina: nel 2010 costerà almeno 96 euro in più. Secondo Adusbef e Federconsumatori, il totale dei rincari è di “660 euro annui”. Gli aumenti non dipendono dall’andamento della domanda ma da decisioni quasi sempre di tipo amministrativo, come le tasse, o da rigide condizioni di mercato (come la Rca) o da quello del credito. Il parametro per calcolare le rate dei mutui a tasso variabile, l’Euribor, è ai minimi storici, ma i benefici si avvertono poco perché le banche rincarano altri servizi. Il Codacons ha presentato al Tribunale di Roma e di Torino una class action contro UniCredit e Intesa Sanpaolo dopo le rilevazioni dell’Antitrust secondo cui le banche avrebbero compensato l’eliminazione della commissione di massimo scoperto sui conti correnti con nuove e più costose commissioni, anche di 15 volte più care. Conseguenza: chi ha un reddito fisso non riuscirà a sostenere l’economia approfittando dei prezzi bassi, perché il suo “bonus da inflazione zero” finisce nella Tarsu e nel canone Rai, mentre chi avrebbe bisogno di un po’ di respiro riceve il colpo finale. Secondo Federconsumatori e Adusbef, “ogni famiglia sarà colpita nel suo potere d’acquisto per mancati introiti dovuti a cassa integrazione guadagni e disoccupazione di 565 euro”. Che sommati ai 660 di rincari significa, a spanne, 1.000 euro in meno all’anno. E se riparte l’inf lazione sarà molto peggio.


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Mercoledì 13 gennaio 2010

DAL MONDO

MR E MRS GOSSIP

I Robinson hanno trasformato la cattolica Irlanda nel regno di voci e bugie di Gianni

Marsilli

na donna l’ha scalzato, un’altra lo rimpiazza. Da ieri, per sei settimane, gli affari correnti nord-irlandesi sono gestiti dalla volitiva Arlene Foster, ministro del governo presieduto da Peter Robinson. Il tempo (anche se pare assai stretto) di un’indagine sulla vicenda coniugale che ha travolto il premier. Lui, Peter Robinson, spera di uscirne pulito e di risollevarsi dalla polvere. Lei, Iris Robinson, sua moglie, non si capisce se stia sciando a Chamonix o se sia ricoverata da qualche parte nell’Ulster. È a Belfast, giura il suo avvocato, e cura la sua depressione. È in Svizzera, assicura radio gossip, e discende felice le piste del Monte Bianco. Il feuilleton dunque continua, meno sanguinoso ma altrettanto deflagrante di una serie di bombe a Londonderry. Storia di corna, sì, ma non solo. Il fatto è che Iris Robinson, 60 anni piuttosto gagliardamente portati, predicava bene e razzolava male. I parrucconi unionisti sono sicuramente rimasti scossi, anzi basiti nell’apprendere, mercoledì scorso, che la moglie del primo ministro, oltretutto deputata lei stessa, si trastullava con un toy boy diciannovenne. Ma fin qui niente di irreversibile: il ragazzo gio-

U

cattolo ce l’hanno Madonna e tante altre fortunate signore, perché non Iris Robinson? Che il marito divorzi, o che metta tutto in archivio perché l’ama ancora, come ha pubblicamente annunciato, e si torni agli affari di governo. Non sarà l’infedeltà di una moglie a interrompere il dialogo con i cattolici del Sinn Fein, o il negoziato sulle trasferte di competenze all’esecutivo di Belfast. Quindi tutto bene, o quasi, se Iris Robinson non si fosse rivelata tutt’altra persona da quella che dava ad intendere di essere. Inalberava pubblicamente il suo impegno nella Chiesa metodista, teneva discorsi di morale fondamentalista. Alla House of Commons di Stormont ricordano ancora le sue prediche. Contro l’omosessualità “disgustosa, nauseabonda... un vero abominio”. Per non parlare dell’abuso di minori, “l’atto peggiore, a parte l’omosessualità e la sodomia”. Salvo poi avviare una relazione con un ragazzo che poteva essere suo nipote. La denuncia di Satana, per poi cedergli in esaltata trasgressione. Incuranti di così tipica e sperimentata con-

traddizione, gli amici unionisti, eredi politici del celebre reverendo Ian Paisley, che fu tutto fuoco fiamme e tonaca, puntano però il dito e l’attenzione anche giudiziaria su un altro aspetto della vicenda, molto meno erotica e molto più pedestre. Come racconta una dettagliata inchiesta del Sunday Times, la storia ebbe inizio nel febbraio del 2008, quando morì, ucciso da un tumore, un vecchio amico di Iris, Billy McCambley. Sul letto di morte le fece promettere di prendersi cura del suo figliolo Kirk, l’aitante diciannovenne di cui sopra. L’eccesso di zelo di Iris non le impedì di esaudire il desiderio di Kirk: aprire un caffé in riva al fiume Lagan nella parte meridionale di Belfast. La moglie del premier trovò il denaro necessario, circa 50mila sterline, ricorrendo al prestito di due promotori immobiliari. Generosa, si potrebbe pensare. Non fosse che al ragazzo chiese una tangente sul prestito: 5mila sterline

per il suo ruolo di mediatrice. In liquidi, né assegni né bonifici. Il dettaglio fa il paio con un’altro episodio, scoperto dagli occhiuti uffici amministrativi della House of Commons. Era capitato ad Iris di comprarsi una preziosa penna Mont Blanc per 200 sterline, che aveva disinvoltamente inserito in una nota spese. Peccato che avrebbe potuto considerarsi veniale, se non fosse stato illuminato di nuova luce all’esplodere dello scandalo. Fu così che lo scorso diPeter Robinson e, nel tondo, la moglie Iris

cembre, nel salotto della loro casa di Miami, Florida, inseguita dal tam-tam delle dicerie e da un’inchiesta della Bbc, Iris confessò le sue picaresche malefatte al marito primo ministro (omettendo tuttavia, la fedifraga, di citare la “parcella” di 5mila sterline estorta al giovane Kirk). Il brav’uomo ha pensato di cavarsela con una pubblica confessione in apposita conferenza stampa: è vero, sono stato tradito, come dice la Bbc, ma sono cose che capitano. Amo mia moglie, resteremo insieme. Eh no, troppo facile hanno giudicato i suoi pari, attizzati da tutte quelle storie di

soldi. L’ultima parola toccherà ad un’apposita commissione parlamentare. Può darsi che Peter Robinson ne esca immacolato, ma nessuno scommette più un penny sul suo futuro politico.

(FOTO ANSA)

Tradito dalla moglie il premier ha scelto una donna per sostituirlo nella carica mentre lui cercherà di discolparsi

LA STRATEGA DEL TERRORISMO GREENBERG

“SULLO YEMEN OBAMA IMPARI DA BUSH. E FACCIA IL CONTRARIO” di Leo

Sisti

e l’America manderà truppe nello YeSnulla, men? Spero di no, non posso escludere grazie a dio non sono il presidente degli Stati Uniti. Verranno impiegati missili? Possibile. Credo però che nella penisola araba si farà ricorso a droni e intelligence”. Parla Karen Greenberg, esperta di terrorismo, direttrice del Center on Law and Security, un “pensatoio” progressista della New York University. In questa intervista a Il Fatto Quotidiano, espone il suo pensiero su Yemen e Al Qaeda, sul fallito attentato di Natale del nigeriano Umar Mutallab e sulle contromisure da prendere

per evitare nuovi attacchi. Barack Obama ha parlato chiaro su ciò che “è andato storto”, sulle falle del sistema sicurezza negli Usa. Chi ne farà le spese? Cadranno delle teste? Per l’amministrazione Obama i fatti del 25 dicembre sono stati un richiamo e un allarme. Sì, è necessario che qualcuno paghi, anche se non so chi, perché non conosco bene le cose dall’interno. È circolato il nome del consigliere per la sicurezza di Barack Obama, Brennan… Potrebbe essere, ma penso che sia abbastanza protetto.

LA GUERRA NASCOSTA

IL SANGUE DEI RIBELLI YEMENITI S i dice Yemen e si pensa ad Al Qaeda, ai terroristi che attaccano e vogliono uccidere occidentali. Intanto centinaia di “ribelli” yemeniti sono stati uccisi dalle truppe dell’Arabia Saudita, terra d’origine del capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden. Ryadh ha annunciato di aver ucciso centinaia di ribelli sciiti, mentre altre decine di loro sono stati eliminati dalle forze di sicurezza yemenite nella città settentrionale di Saada. Il vice ministro della difesa saudita Khaled bin Sultan ha riferito che “centinaia di infiltrati (yemeniti) si sono inflitti la mor te” dopo che gli era stato concesso un

ultimatum di 48 ore per “abbandonare il territorio saudita”, nella regione frontaliera di Jabri. “Purtroppo non hanno rispettato l'ultimatum”, ha aggiunto il responsabile saudita, che ha ammesso l’uccisione di 4 soldati di Ryadh. Dall’autunno scorso sono stati uccisi 82 soldati sauditi, ovvero da quando artiglieria e aviazione di Ryadh sono intervenuti nel conflitto in corso tra forze governative yemenite e ribelli sciiti, in quella che da Sanaa viene definita la "Sesta guerra” (dal 2004) contro i seguaci del predicatore sciita al Houti, arroccati sulle montagne di confine.

Forse Janet Napolitano, capo di Homeland Security, il segretario dell’Interno? Non mi pare. No, Homeland Security non è mai stata un grande attore nelle vicende di terrorismo. È una grande organizzazione, complessa, responsabile per l’emergenza all’interno dei confini nazionali. Bisogna guardare a quali sono le nostre priorità: provvedimenti sulla sicurezza. Non si può più andare avanti con i vecchi metodi, e cioè privilegiando la quantità delle informazioni rispetto alla qualità. Infatti alcuni opinionisti hanno criticato l’eccesso di burocrazia entrata in scena. Hanno sostenuto che le varie agenzie preposte alla raccolta delle informazioni non sono state in grado di “unire i punti”, secondo un’espressione americana… Questa è una fesseria. Mi spiace, non è vero. Si può anche avere tanta burocrazia. Ma il vero problema è che bisogna farla funzionare, organizzarla, stimolarla. E questo è compito di chi ne è al vertice, di chi la guida. Non si vuole capire che le cose sono cambiate. Porto un esempio. Un anno fa, al“Center on Law and Security”, c’è stata una conferenza sulla nuova Al Qaeda, che cosa è diventata, insomma qual è il nuovo scenario nel quale opera. Ma lo sa quante persone hanno detto ha detto che non c’è una nuova Al Qaeda? I body scanner negli aeroporti saranno sicuri al 100 per cento? Rigetto questa idea. Non esiste una cosa sicura al 100 per cento. Vivo a New York. Qui abbiamo avuto l’11 settembre. Se volessimo essere sicuri al 100 per cento, nessun camion entrerebbe in questa città senza essere controllato, nessun container potrebbe essere scaricato senza esser an-

ch’esso controllato. Ma non avremmo nessun commercio. New York sarebbe solo una piccola città in un luogo inesistente. Il vero modo di esser sicuri non è quello di avere tante macchine costose, da piazzare negli aeroporti, per controllare tutti. Per essere più sicuri occorre una grande operazione diplomatica a livello mondiale e una eccezionale cooperazione di intelligence. Che accadrà in Yemen? Ci sarà un’altra guerra come Afghanistan? Mi auguro di no. Lo Yemen è una società tribale, ricorda molto il Pakistan, stessa fragilità stesse divisioni. Allo Yemen possiamo dare consigli, finanziamenti purché il terrorismo venga monitorato. Ma lo Yemen non potrebbe diventare un altro pantano, proprio come l’Afghanistan? Non penso. In Afghanistan siamo andati per stanare Al Qaeda, con qualche successo: l’abbiamo certo danneggiata. Ma non abbiamo finito il lavoro. Il problema è calcolare in che modo contenere un’offensiva contro Al Qaeda senza cercare di coinvolgere il mondo. In Yemen gli americani ci resteranno per anni? Ma lo siamo già da tempo. L’assalto alla nave USS Cole è del 2000, un anno prima dell’11 settembre. Non abbiamo mai fatto rappresaglie, mai nessuno è stato processato. Qualcuno sarà processato ora, con qualcuno dei detenuti di Guantanamo. Alcuni di Guantanamo però l’ha fatta franca. Liberati, hanno seguito il “programma di riabilitazione” in Arabia Saudita, di cui ha parlato a Il Fatto Quotidiano il princicpe Turki… Già, e si sono rifugiati in Yemen, dove ora sono i nuovi leader di Al Qaeda.


Mercoledì 13 gennaio 2010

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DAL MONDO

N

Quando l’Africa era davvero nera non moriva di fame IL COLONIALISMO ECONOMICO HA AFFAMATO IL CONTINENTE di Massimo Fini

ui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati (“Hanno ragione i negri”, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all'osso per i famosi lavori che “gli italiani non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri. Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, no c'è immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l'immigrato, è l'ultima ruota del carro. Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa

S

sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall'Africa nera ci dà l'opportunità di spiegarlo. L'opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l'Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via. Cos'è successo? L'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli

CUBA

Tra i Castro polemiche sui gay

M

ariela Castro, direttrice del Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba, si scontra con i “pregiudizi” del governo del padre Raul nella lotta per i diritti del mondo omosessuale e transessuale: “Ci sono contraddizioni nel prendere le decisioni”, ha dichiarato Mariela.

Immigrati clandestini provenienti dall’Africa. Sotto, Augusto Pinochet (FOTO ANSA)

e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbri-

Fino agli anni 60 erano autosufficienti, poi la spinta all’omologazione ha distrutto gli equilibri

IL GIUDICE DELLA MORTE PORTA A ROMA L’OMBRA DI PINOCHET di Elisa Battistini

udienza oggi, davanti alla Corte d’AsNfonsouova sise di Roma, per il processo a carico di AlPodlech, ex procuratore militare del dittatore cileno Augusto Pinochet (morto il 10 dicembre 2006). Podlech, 74 anni, era stato arrestato in Spagna nell’estate del 2008, bloccato dal “nemico numero uno” della dittatura cilena, il giudice Baltasar Garzòn. Pochi giorni dopo era stato trasferito a Roma, in esecuzione del mandato di cattura che pendeva sulla testa sua testa. Podlech, infatti, deve rispondere di strage, sequestro di persona e omicidio aggravato per l’assassinio del cittadino cileno di origine italiana Omar Venturelli. La vicenda ha origine in quell’11 settembre 1973, quando Pinochet ha appena consumato il suo colpo di stato. L’ex sacerdote Venturelli e la moglie Fresia Cea vengono convocati dai militari come molti intellettuali, professori e studenti, ritenuti fin dalla prima ora pericolosi oppositori del golpe ancora caldo. Venturelli era infatti noto per le battaglie in favore degli indios, era dirigente dei Cristiani per il Socialismo, e insegnava all’Università cattolica di Temuco. Il perfetto identikit del dissidente da elminare. La moglie si reca al Commissariato e, intuendo che non si tratterà di un “confronto” pacifico, scappa. Venturelli, che non riesce più a mettersi in contatto con la moglie, si nasconde. La radio lo indica come un ricercato del regime. E alla fine l’ex sacerdote, originario del modenese, si consegna. Su consiglio del padre. Un uomo di destra, inconsapevole della ferocia degli uomini che hanno preso il potere, to-

che così ben descritte da Marx ed Engels). Oggi, nell'integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame. Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto meno devastante dell'attuale colonialismo economico. Fra i due c'è una differenza sostan-

gliendolo al socialista Allende. Venturelli diventa così uno dei desaparecidos della dittatura. Podlech è invece uno di quelli che davano gli ordini. Di torturare, di legare agli arti i prigionieri e di spezzarli, di uccidere. Un inquisitore del carcere di Temuco e della caserma Tucapel. I luoghi in cui passò anche lo scrittore Luis Sepúlveda. Ieri a Roma hanno deposto quattro testimoni giunti dal Cile che hanno riconosciuto Podlech come l’uomo che ordinava le terribili sevizie. Sono un campesino arrestato all’età di 17 anni, il fratello di un giovane ucciso durante la detenzione, un collega di Venturelli e la moglie Fresia. Sopravvissuta a quegli anni cupi. “Fui arrestato il 2 ottobre del 1973 insieme ad altri 50 campesinos a Temuco – ha raccontato ieri Mario Carril Huenoman – fui picchiato e torturato. Ero seduto ad una sedia, nudo con la corrente elettrica che mi fece poi svenire. E c'era anche un uomo in abiti civili. Era il procuratore. E ora é li, seduto in aula” ha affermato indicando Alfonso Podlech. “Mio fratello fu arrestato dopo il golpe – ha detto Victor Fuandes Bustos, un altro testimone – era uno studente e mia madre non seppe più nulla di lui. Ma grazie alle confidenze di un militare venimmo poi a sapere che il suo cadavere era all’obitorio di Temuco. Mia madre, che è ancora viva e ha 91 anni, andò li e lo vide su quel tavolo: aveva il corpo segnato dalle torture, e un foro di proiettile sul torace”. E vide anche Alfonso Podlech. Che, secondo il testimone, rispose alla madre (che chiedeva disperatamente spiegazioni per quell'omicidio), che si era trattato di “un lamentevole errore”. Oggi testimonieranno altri quattro cileni arrestati durante la dittatura.

ziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia. Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei

BUONE NOTIZIE

Paesi ricchi (dato Fao). E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell'Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l'invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell'angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001). E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l'hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c'era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.

FRANCIA

Ps: “Diamo il voto agli stranieri”

L

a segretaria del Partito socialista, Martine Aubry (nella foto), riaccende il dibattito in Francia sul diritto di voto agli immigrati nelle elezioni locali. La Aubry depositerà all’Assemblea nazionale una proposta di legge in merito. L’iniziativa, giunta a poche settimane dalle elezioni regionali di marzo, ha preso di contropiede il governo Sarkozy. Il presidente, come ha ricordato Aubry, in passato ha detto di essere favorevole all’idea “che la faccia votare”. Ma il ministro dell’immigrazione Besson ha già bollato come “controproducente” l'iniziativa.

AFGHANISTAN

Dieci morti per il Corano

È

di 10 morti e 25 feriti il bilancio delle vittime civili durante una manifestazione di protesta in Afghanistan per la profanazione di un Corano nella provincia di Helmand attribuita dalla popolazione locale alle truppe internazionali e afghane. A Kabul un responsabile della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) ha negato l'accaduto, sostenendo che però bisognerà attendere il risultato di un’inchiesta indipendente.

a cura della redazione di Cacaonline

RADIO E VENTO Radio 100 passi Il 5 gennaio a Cinisi (Palermo) sono iniziate ufficialmente le trasmissioni di Radio 100 passi, il microfono dei siciliani onesti. Curata dall'Associazione 100 Passi Network e dalla Rete 100 Passi, la web radio (www.radio100passi.net) nasce come prosieguo di Radio Aut, fondata nel 1976 da Peppino Impastato. Oltre alla trasmissione di ottima musica il palinsesto prevede anche spazi di informazione libera e di cultura della legalità. Per ora la radio trasmette esclusivamente sul web ma a breve si spera di poterla ascoltare anche in FM. L'Italia parla il ventoso

Record storico per l'energia eolica in Italia. Nel 2009 sono stati installati 1.114 MW di aerogeneratori, il 30% in più rispetto al 2008 e l'equivalente di una centrale nucleare. Attualmente la potenza eolica installata nel nostro Paese è pari a circa 4.850 MW, con una produzione elettrica di 6,7 Twh (il fabbisogno energetico per 7 milioni di italiani). Grazie ai dati 2009, l'Italia si piazza al terzo posto in Europa per energia eolica prodotta e al sesto nel mondo. Il potenziale eolico stimato in tutto il territorio è di circa 16.000 MW. (di Jacopo Fo, Simone Canova, Maria Cristina Dalbosco, Gabriella Canova)


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Mercoledì 13 gennaio 2010

SECONDOTEMPO SPETTACOLI,SPORT,IDEE in & out

MEMORIA / IL LIBRO

L’uomo che salvò oltre cinquemila ebrei

Sandra Milo Sono pronta per l’Isola (ma la signora non sa nuotare)

Amori Emanuele Filiberto: flirt di sei mesi con Kate Moss

Buzzanca Roberts Lando Julia ritrova sciupafemmine Tom Hanks “Con me ci sul set provò anche di Larry una suora” Crowne

PERLASCA IL SILENZIO DI DE GASPERI di Carlotta Zavattiero

n destino, quello di Giorgio Perlasca, segnato dai tempi lunghi della memoria. Ne ricorre quest’anno il centenario della nascita. Perlasca, sebbene nato a Como il 31 gennaio 1910, appartiene di più a Padova, città dove si trasferì e visse per gran parte della sua vita. Giovanissimo, Perlasca combatté prima in Etiopia e poi come volontario in Spagna a fianco dei falangisti di Franco. Per lavoro viaggiò nell’Europa in guerra. A Zagabria e a Belgrado assistette ai primi massacri fatti dai nazisti. Oltre quattro sono i decenni trascorsi dal 1945 prima di vedere riconosciuto il valore delle sue imprese “lampo” a Budapest nell’inverno 1944-45, quando, in soli tre mesi, Perlasca si adoperò con ogni mezzo in favore degli ebrei salvandone circa 5.200. Tornato in Italia a guerra conclusa non salì sul carro del trionfatore: fu assillato anzi per decenni da pesanti difficoltà economiche, adattandosi ai mestieri più diversi. I primi riconoscimenti pubblici arrivano solo nel 1990, lui ormai settantenne: anche l’Italia, di poco preceduta da Ungheria, Israele, Spagna e Stati Uniti, si accorge di questo italiano anomalo, anticlericale, ex fascista, protettore degli ebrei. Dopo 13 anni dall’ultima pubblicazione, esce il terzo libro a lui dedicato, Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo (edito da Chiarelettere, autori Dalbert Hallenstein e chi scrive). Il libro illumina aspetti inediti e mai affrontati della vicenda del fascista che da solo salvò migliaia di ebrei: gli anni difficili del

IL TESTO A disposizione del ministro

U

Milano, 13 ottobre 1945 All’onorevole Alcide De Gasperi Ministro degli Affari esteri - Roma

dopoguerra neppure sfiorati dal fortunato sceneggiato televisivo della Rai (Perlasca un eroe italiano, con Luca Zingaretti) trasmesso nel 2002. L’Italia come ha trattato questo italiano “scomodo”? Il libro aiuta a capirlo attraverso una coralità di voci: testimonianze inedite sui molteplici aspetti di una storia deformata da manipolazioni ideologiche e storiche che hanno relegato nell’ombra e nell’oblio azioni eroiche. Spicca, fra tutte, la voce dello stesso Perlasca, intervistato per l’ultima volta poche

ANNA FRANK Morta la donna che custodì i diari morta a 100 anni Miep Gies, la donna che custodì il diaÈgruppo rio di Anna Frank. La donna era l’ultima sopravvissuta del che per due anni, tra il 1942 e il 1944, aiutò Anna, la sorella, i suoi genitori e altri quattro ebrei a fuggire dalla furia nazista, nascondendoli al numero 263 di Prisengracht. Ad Amsterdam la donna trascorreva i suoi ultimi anni in una casa di riposo. Nel ‘42 Miep lavorava come segretaria di Otto Frank, il padre di Anna, quando lui le confidò che voleva trovare un rifugio per proteggere la famiglia. Quando i nazisti scoprirono il rifugio e arrestarono la famiglia Frank e gli altri fuggitivi, Miep Gies si incaricò di custodire il diario di Anna, su cui la ragazza aveva raccontato i due anni in cui era rimasta nascosta. E nel 1945, quando la giovane era ormai morta di tifo nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, lo consegnò al padre, l’unico sopravvissuto della famiglia e lo aiutò a collazionare le carte.

settimane prima della sua morte, avvenuta il 15 agosto 1992. Dalle sue parole, emerge un affresco drammatico e vivo della guerra, della tragedia degli ebrei, ma anche una testimonianza, che ha il sapore amaro della conferma, di alcuni “vizi” di una parte dell’Italia, tenace, allora come oggi, nell’ostacolare le personalità, come quella di Perlasca, di uomini (e donne) che non rinnegano le proprie idee, né si piegano alla voce del potente di turno. “All’interno delle istituzioni la mia storia era conosciuta da tutti: dall’ultimo impiegato fino ai livelli più alti della scala gerarchica; eppure nessuno ha ‘salvato’ me, quando mi sono trovato in estrema difficoltà”. (Dal capitolo “La congiura del silenzio”, p. 24). Documenti inediti permettono finalmente di capire le ragioni della “congiura del silenzio” di cui fu vittima Giorgio Perlasca. Una responsabilità prima di tutto politica (la stampa già dal 1961, aveva iniziato a scrivere sulla vicenda), come testimonia la lettera indirizzata da Perlasca ad Alcide De Gasperi. La lettera non ottenne alcuna risposta. Responsabilità non solo politiche, ma anche diplomatiche: prima fra tutte quella del principale antagonista di Giorgio Perlasca, l’ambiguo e ambizioso incaricato d’affari spagnolo Ángel Sanz Briz, che si fece affiancare dall’energico e intraprendente italiano nell’opera di salvatag-

In alto Luca Zingaretti nella fiction su Perlasca. Qui a fianco la copertina del libro e l’annullo postale, disponibile in 4 milioni di esemplari dal 31 gennaio

gio degli ebrei a Budapest. Sanz Briz, una sorta di eroe nazionale in patria, ebbe poi una carriera diplomatica brillantissima, e non fece nulla per “il caro amico” a cui scrisse una inquietante lettera (anche questa inedita) spedita il 4 dicembre 1945 da San Francisco, dove era console: “Caro amico, […] prima di tutto le mie congratulazioni per essere uscito sano e salvo dalla colossale avventura degli ultimi giorni immediatamente anteriori alla resa di Budapest. Questo è quello che lei voleva e anche per questo fine io ho fatto il possibile per aiutarla. […] Non sapevo che lei avesse assunto la direzione della legazione. Conoscendola come la conosco, sono sicuro che la sua azione sarà stata ispirata sempre dal suo affetto verso la mia patria. Accetti le mie più sincere congratulazioni; non si aspetti niente da nessuno. Né il suo governo, né qualche altro riconosceranno i suoi meriti. Si accontenti della soddisfazione di avere fatto un’opera buona e di aver potuto superare il terribile temporale di cui tutti fummo vittime in-

Signor ministro, ho l’onore di comunicarle copia di un rapporto da me preparato e presentato all’ambasciatore di Spagna a Roma, perché lo trasmetta al ministro degli Affari esteri del suo paese, sull’attività da me svolta presso la legazione di Spagna a Budapest nel periodo dicembre 1944-gennaio 1945. Intorno al mio operato durante quel periodo avevo già avuto occasione di informare verbalmente il R. console generale d’Italia a Istanbul, commendator Calisse. Quanto è contenuto nella predetta relazione è soltanto una breve e succinta rassegna di quanto io ebbi occasione di compiere e di osservare. Il salvataggio di migliaia di ebrei da me compiuto, valendomi dell’egida della Spagna, che io potei utilizzare per un seguito singolare e fortunato di circostanze, è, nel rapporto, delineato soltanto nelle sue linee essenziali. Resto perciò ben volentieri a sua disposizione per quelle delucidazioni che ella eventualmente ritenesse opportune. Mi permetto di aggiungere qui soltanto che, date le mie conoscenze in Spagna e quelle, particolarmente numerose e importanti, in Ungheria, sarei ben lieto e onorato di tenermi a disposizione di questo ministero. Nell’eventualità che il ministero stesso avesse necessità di servirsi, nelle circostanze attuali, di una persona come il sottoscritto per qualche incarico in uno dei due paesi sopra indicati, sarei felice di poter mettere a servizio del mio paese le mie capacità, quel prestigio e quell’ascendente che, specie in Ungheria, mi vengono dall’aver in non trascurabile misura contribuito decisivamente a salvare un gran numero di persone, oggi fra le più cospicue del loro paese. D’altra parte, quello che ho fatto, se ha avuto formalmente l’usbergo spagnolo, l’ho fatto anche per conto della mia patria; e gli interessati, coloro che vissero con me quelle tragiche giornate, lo sanno. Voglia credere, signor ministro, ai sensi della mia più alta considerazione.

nocenti”. (Dal capitolo “La memoria tradita”, pp. 194-195). Sono le parole premonitrici di una storia simile ad una avventura, bella, ma alla fine triste: sottrazioni arbitrarie di documenti chiave negli archivi dei ministeri, l’amarezza e la rassegnazione di Perlasca. Il libro contiene anche i pareri di autorevoli studiosi e storici dell’Olocausto, e i frutti raccolti dall’omonima fondazione presieduta dal figlio di Perlasca, Franco compresa l’emissione di un francobollo con il volto di Giorgio Perlasca. “Giorgio Perlasca […] possedeva una notevole sicurezza interiore […] che non gli derivava da una famiglia potente, dalla ricchezza o da una solida cultura accademica, ma dalle sue qualità personali: “Credo che chiunque l’abbia conosciuto sia rimasto affascinato da come si comportava: lui era sempre uguale, sia che si ri-

volgesse all’ambasciatore, sia che parlasse con l’usciere. Era sempre se stesso, fedele al suo modo di essere, che nessuno riusciva a cambiare”. (Dal capitolo “La memoria tradita”, p. 213). Chi è stato Giorgio Perlasca? Un fascista buono? Un anticlericale con un profondo senso del rispetto della vita umana? Un partigiano della Shoah? Così lo ricorda la nuora, Luciana Amadio: “Non poteva essere inquadrato; non si poteva dire, per esempio, che fosse un liberale, o qualcos’altro. Il punto è che lui aveva la sua dirittura morale. Non seguiva una linea religiosa: era la sua coscienza a indicargli quali erano le cose giuste, e in base a quella faceva le proprie scelte ed era irremovibile. Non era il tipo da adeguarsi alle direttive di un partito o di una religione”. (Dal capitolo “La memoria tradita”, p. 214).


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SECONDO TEMPO

ANIME NER E

CANTANT LA MANTIDE

Si è suicidata l’ultima compagna del rocker che nel 2003 ammazzò Marie Trintignant di Malcom

Pagani

a corda tesa, il nodo alla gola, il destino che prende il giro largo e stringe il suo disegno legando passato e presente, violenza e rimpianto. Al centro della scena, in una casa di Bordeaux, tra le case del borgo antico patrimonio dell’umanità, c’è un corpo inanimato. Appesa a una scelta definitiva, Kristine Rady non è tornata indietro. Aveva quarantuno anni. Origini ungheresi, fili invisibili tra l’adorato mestiere di traduttrice e il teatro. Bella, bionda senza averne l’aria, madre di due figli avuti, quando ogni cosa pareva migliore, da Bertrand Cantat, voce ribelle dei Noir Désir, gruppo rock della scena francese orfana da troppo tempo di Edith Piaf, Jacques Brel e Aznavour. Cantat ha sempre albergato a gauche della gauche. Nel 2001, con Le vent nous portera, copertine, gloria effimera e fan a pioggia sulle invisibili reti telematiche. Prima di rimanere impigliato nelle contraddizioni, Cantat smosse le acque. Sputava sui manifesti di Le Pen e torturava la chitarra. Predicava l’amore libero e la fratellanza. Denunciava le politiche razziste. Sognava, a parole, una Francia in cui egalité non fosse solo uno slogan devitalizzato. Non celava il malessere interiore, compagno di viaggio, ospite sgradito. Con Kristine, raccontano, stava sbocciando nuovamente la stagione dell’amore. A volte viene, più spesso va. A quelli tra palco e realtà, capita così. Nessuna distinzione tra i piani, difficoltà di orientamento. Suonava per platee arrabbiate. Oggi, qui, un altro copione. Un cappio al collo. Il silenzio. Il niente che fa rima col nulla. Lui afferma di non conoscere nessi e cause del suicidio di Kri-

L

stine. Piange, qualcuno teme ripeta il gesto. Per Cantat, non sarebbe una premiere. Nessun Olimpia, neanche lo straccio di un bistrot all’orizzonte, stavolta. Solo una storia che parte da lontano e declama il brutale linguaggio della gelosia. Dei pugni dal suono sordo. Rady e Cantat si erano sposati nel ‘97 e conosciuti nel ‘93 a Budapest. Europa dell’est. Coincidenze. Marie Trintignant, attrice, morì senza melodia in un impersonale albergo di Vilnius, Lituania. Era l’estate del 2003. Aveva 40 anni. Si trovava lì per essere diretta dalla madre Nadine in Colette. Era abituata alle roulotte senza patria. Al set. Al circo che nulla si chiede perché niente gli si domandi, fin dall’età di quattro anni. “Mon amour, mon amour”, 1966. Nadine e Marie insieme, le foto, la tenerezza. I modelli. Poi il mutismo, la timidezza battuta grazie alla recitazione, il peso del nome paterno, un mazzo di matrimoni naufragati, un’anima fragile, presa a cazzotti sulla curva conclusiva. A Vilnius, nella triste Vilnius, nel caldo senza requie, con l’aria immobile e le mosche in volo perpetuo, girava un film tv. Soldi e lavoro. Pezzi facili che diventarono schegge di vetro. Un luglio crudele che confuse memoria e desiderio, gelosia e buon senso. Una lite, le urla, i bicchieri rotti, i colpi sul volto della figlia di Jean-Louise, la testa che batte, la corsa in ospedale. Per terra medicine. Intorno soffiate credibili sullo stato di alterazione della coppia. Avevano litigato a causa di un sms. Lo aveva spedito l’ex marito di Marie. Parole gen-

tili. Ragionevoli. Scotch sulle ferite pregresse, promessa di amicizia, di un futuro senza filo spinato. Inganno della modernità, che ti insegue, senza piccioni viaggiatori con l’inquietante puntualità del delitto. Nel reparto di neurochirurgia, per salvare Marie, provarono l’impossibile. Non ci riuscirono. Uno dei quattro figli avuti dall’erede di Jean-Louis (che nella finzione recitava da puttana e alcolizzata e nella realtà, rimaneva sul ciglio del possibile precipizio), Romen, assistette la madre fin dal prìncipio della fine. Non riuscì a fer-

volarono le leggi lituane (colme di attenuanti nel caso di uccisione del congiunto) le confuse indagini di un poliziotto dal cognome planato direttamente dalle irrisolutezze kunderiane, Kandze Zauskas e gli avvocati dell’aggressore. Famosi. Senza limiti di onorario né remore professionali. Un cliente è un cliente. Tentarono di far derubricare il capo di accusa da omicidio a omicidio passionale, fecero mentire Cantat: “Non mi sono accorto che Marie stesse male”, lo convinsero a intonare una canzone stonata: “Le ho dato un solo pugno” ma la chia-

mata di soccorso partì solo alle prime luci dell’alba e l’autopsia, dimostrò ecchimosi in tutto il corpo. Fallirono, in parte. Otto anni. Il pm ne aveva chiesti nove perché Cantat, quella notte: “Sapeva esattamente ciò che stava facendo”. Semplice farli diventare quattro una volta varcata la frontiera, elementare se l’oblìo fa il suo sporco dovere e non ci sono giudici a Berlino. Quello dell’applicazione della pena, Philippe Laflaquiere, dimezzò la stessa nonostante titoli e dubbi del garantista Libération: “Quale vita, dopo la morte?” e la riprovazione delle associazioni

Fu rimesso in libertà nel 2007. Della morte della ex moglie dice: non so come sia potuto succedere Stavo dormendo mare Bertrand. Da allora, non è più stato lo stesso. Dal coma soporoso, provocato dai colpi del compagno in preda all’abusato cocktail droga e alcool, curriculum di ogni pseudo poeta maledetto, anche di retroguardia, Marie passò senza coscienza alcuna all’addio. La trasferirono a Parigi. La seppellirono nella città deserta. Gli altri in vacanza. I Trintignant all’inferno. Oggi, non senza stolide polemiche degli ecologisti, il sindaco Delanoe, omonimo di Cantat, le ha dedicato un giardino nel IV Arrondissement. Il compagno, tradotto in carcere, venne condannato a soli otto anni di prigione. Lo ageBertrand Cantat, durante il processo a Vilnius (FOTO ANSA)

femministe. “Cantat merita questa possibilità per gli sforzi di reinserimento sociale compiuti dal soggetto e anche per le sue prospettive di reinserimento professionale”. La legge non è uguale per tutti. Nel 2007, per Cantat giunse la libertà condizionata. Allora Nadine Trintignant, parlò con voce rotta. Sforzo supremo, grido antigoneo. “Temo che la sua liberazione appaia tristemente significativa per tutti quelli che lottano affinché le violenze alle donne siano giustamente punite”. Aveva ragione. Dopo il carcere, Cantat assecondò l’inattesa piega degli eventi. Incassò l’insperato aiuto di Kristina Rady: “Voglio mantenere Bertrand in vita. Non mi hai mai picchiata ed è un non violento. Gli uccelli non cantano in gabbia e sono certo che fuori dalla contenzione, saprà rinascere”. Non è accaduto. Aguzzini e carnefici sfumano nei contorni del giallo. Ma qui, mentre un bambino di dodici anni trova il corpo della madre ed è impossibile non ripensare agli choc adolescenziali di Haneke, non c’è afrore di Dürrenmatt. Non c’è Simenon. E non sostano sulla scena del suicidio, mentre il cantante dorme nella stanza accanto, in uno stordimento che gli impedisce di avvertire alcunché, commissari con pipa e baffi, soluzione in tasca e la morale a portata di mano. Non c’è niente da nascondere né da spiegare, in questa sottotrama da tragedia greca, in cui l’innocenza svanisce nel gelido inverno, la speranza preferisce aspettare l’elaborazione del lutto e la maledizione sembra ammantare ogni respiro. Jimi Hendrix, Jim Morrison, Elvis Presley, Bertrand Cantat. Stanze chiuse, vasche piene, leggende metropolitane, reincarnazioni improvvise, avvistamenti. Torto, ragione, filosofie d’accatto. La storia non si ferma davanti a un portone.

Virzì, viva la famiglia incasinata Stefania Sandrelli: “Si ride, si piange Dnellaicee simigliore ha la l’impressione di volare. come tradizione della commedia all’italiana”. E’ vero. Lei la conosceva bene e guardando La prima cosa bella di Paolo Virzì, darle torto è impossibile. Arrivi a fine film in uno strano terremoto emotivo: piangi e ridi, un po’ assisti stupito, un po’ ti identifichi, come si fa con i personaggi che si amano, come se fosse la tua storia (anche

se non è vero). Paolo Virzì ci ha regalato un film prodigioso che scorre felice, per disegnare il miglior affresco sulla famiglia italiana da molti anni a questa parte, reinventando il filone più felice del nostro cinema. Al centro della trama c’è la storia turbinosa di Anna Nigiotti in Michelucci: due figli nella sua famiglia (e uno fuori), un marito (e un plotone di amanti), una voglia di vivere che sfiora l’autolesionismo ma che conosce un entusiasmo incontenibile: la vita, la morte, amori colti distrattamente sull’albero delle circostanze e sull’onda delle emozioni. “Sei una ninfomane!”, grida un giorno il figlio alla madre. La sua è una famiglia asimmetrica: socialmente non presentabile, povera, tormentata, amata nel disordine cangiante, contro il conformismo del pregiudizio altrui. La prima cosa bella (titolo rubato alla canzone di Nicola di Bari) è un come eravamo picaresco della famiglia italiana, ma quella vera, quella che rompe l’iconografia fissa stabilita dai canoni uffi-

ciali. Anna - un unico personaggio diviso fra un’ottima Micaela Ramazzotti e una strepitosa Stefania Sandrelli è una di quelle figure che quando si esce dalla sala non si dimenticano. Sono tre contro tutti: lei, i suoi due figli, Valerio Mastandrea (Bruno) e Claudia Pandolfi (Valeria). Bruno ama e detesta la madre. Claudia ama e detesta il fratello, che è il suo puntello, ma che l’ha anche abbandonata andandosene di casa, nel cuore di un’infanzia turbolenta. C’è un padre che ama ma se ne va, un amante che c’è, ma non può essere padre. La trama è tutta qui, ma da sola non vuol dire nulla: è il nastro della vita che ci scorre dentro. E se, come sostiene l’erede di Monicelli, “La nostalgìa non è un sentimento che amo”, la sovversione prodotta dal viaggio sentimentale del nucleo allargato riporta lì, negli anni settanta dove i colori erano sgranati, le biografie imperfette e - anche nelle divergenze o nelle menzogne - si intravedeva verità nei rapporti. Virzì torna nel suo guscio livornese molti anni dopo

La bella vita e Ovosodo e come per magia, supera i precedenti, senza paura di mostrare l’anima in bilico (marina e terrigna) della sua città. In mezzo, una squadra di attori fantastici: dai non professionisti livornesi, ai volti famosi, dal vigile ipernevrotico e logorroico (Sergio Albelli) al cammeo esilarante dell’avvocato faccia-d’angelo (Paolo Ruffini) che scopre la verità su sua madre a 26 anni: che prima si vergogna, e poi - in un giorno in cui succede tutto - diventa uno di casa. Weddings & funerals in salsa toscana. “Mentre giravamo le scene più drammatiche ridevamo perchè ci eravamo ubriacati con la grappa” racconta Virzì (dev’essere vero). Ma intanto plasma un coro in cui non si disperdono le fisionomie dei tanti personaggi, le specificità, i caratteri, i tic, in una metafora corale. I Michelucci sono una famiglia divisa ma unita, afasica ma parlante, silente eppure chiassosa, bacata ma sana. Mastandrea, cerca negli psicofarmaci la soluzione al dilemma della sua infanzia: “Mamma, perchè sono così

infelice?”, La Ramazzotti (bellissima) si avventura senza eresìa sulle tracce della Sandrelli e Stefania l’icona (che la incarna nella maturità), illumina il cielo con una prova gigantesca: nessuna altra attrice italiana può apparire bella e solare recitando su un letto da malata terminale. Il resto è un omaggio divertito alle vette più alte della nostra età perduta (c’è anche un finto Dino Risi che dirige Mastroianni ne La moglie del prete), al circo itinerante del set, alle figure minori (fantastico Marco Messeri amante fedele di una vita, all’altezza delle interpretazioni morettiane). “Non c’è autobiografia”, giura Virzì. Forse mente. La fotografia psichedelica di Pecorini (che non a caso lavora con Terry Gilliam), le musiche del fratello Carlo, l’umanità che non fa distinzioni, sotto la campana di una bontà non buonista. Mastandrea è un antieroe che dice di se: “Sono povero e ignoto”. E però, malgrado tutto, scintilla. Come chi vede il film. (Ma . Pa. Lutel)


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SECONDO TEMPO

+

TELE COMANDO TG PAPI

Autorizzazioni mancate di Paolo

Ojetti

g1 T Dopo settimane di propaganda a premier fuori combattimento, ecco che al Tg1 tocca prendere atto che qualcosa non va: le “grandi riforme condivise” esistevano solo nelle dichiarazioni dei soliti noti, ora impallidiscono, ma ancora non possiamo raccontarvela tutta, non siamo autorizzati. Nemmeno ieri, quindi, il Tg1 ha osato (che verbo inadatto) dire come stanno realmente le cose: sì, è vero, la maggioranza prova a mettere qualche pezza qua e là, ma sono pezze così mal cucite che non sarebbero riciclabili neanche nei saldi di quart’ordine. Tre processi “brevi”, uno brevissimo, uno così così e un terzo appena più lungo. Cartelli, statistiche, il verbo di Capezzone, Bricolo, Quagliariello, ma non uno straccio di gior-

nalista che spieghi: i processi di Berlusconi ricadono tutti nella categoria dei “brevissimi”, quindi, caro telespettatore, non è cambiato niente, sempre di leggi ad personam si tratta e se Bersani abbocca vuol dire che è proprio un merluzzo. Ma stiamo parlando del Tg1, mica di un telegiornale normale. g2 T Il governo Berlusconi si occupa del bene dei cittadini? Dalle scelte del Tg2 di ieri sera, si direbbe proprio di no. Infatti, ecco apparire il ministro Alfano, tutto trafelato che grida: aiuto, le carceri sono strapiene, dichiaro lo stato d’emergenza. Chissà dov’era questo ministro e di cosa si occupava (forse dei processi di Berlusconi?) fino all’altro giorno. Secondo atto, Rosarno. Siamo fra due fuochi, stretti fra il Vaticano che ci randella e

Moubarak, che si allea a papa Ratzinger: italiani razzisti. Passano nel Tg le voci di Frattini e di Maroni: il primo è tanto elegante quanto lontano da tutto, Calabria compresa. Il secondo distribuisce legnate e statistiche, ma è pur sempre un ministro leghista e quando parla di tolleranza dovrebbe – per prima cosa – tappare la bocca ai suoi amici di partito. g3 T Ci crede, il telegiornale che guarda a sinistra ci crede: Bersani non abboccherà, non cadrà nella tonnara, anzi si “metterà di traverso”. A questa certezza, il Tg3 dà corpo annettendo alla pagina politica la reazione dell’Anm, reazione fra il politico e il tecnico: la macchina della giustizia si sfracellerà, nelle condizioni attuali solo pochissimi processi rientreranno nei termini immaginati dall’avvocato Ghedini (il progetto è tutto suo). E poi c’è Fini, un’altra volta “di traverso”, più e meglio di Bersani: si governa non solo per il numero dei voti e per i sondaggi fatti in casa e (non detto, ma questo è il senso vero dell’intervento) se qualcuno vuole azzerare i processi per decreto, la presidenza della Camera glielo respingerà.

di Luigi

Galella

IL PEGGIO DELLA DIRETTA

Mezzobusto in pista

a quando Carmelo Bene apparve alla la categoria dell’apparire ha DpostoMadonna, fine alla classica dicotomia fra l’essere e l’avere. Molto meglio rendersi visibili: alla Madonna o preferibilmente a milioni di telespettatori. Tuttavia non basta mai. Soprattutto per chi lo fa quotidianamente, non sembrando mai saziarsene. Di apparire ci si ammala. Impossibile resistere alle sue nuove, polimorfe tentazioni. Ad esempio, se si svolge la nobile funzione del giornalista televisivo si è popolari, certo, ma a che scopo? La propria immagine è come ingabbiata nelle ragioni della postura, e il sorriso tristemente misurato e adeguato alla circostanza. La voce, poi, è modulata secondo gli insegnamenti dei maestri di dizione. E il corpo non c’è se non a metà. Che pena il conduttore del tg. Negli anni pionieristici della critica televisiva, Sergio Saviane aveva coniato l’espressione di “mezzobusto”. E in effetti cos’è quella del telegiornalista se non una rigida, imbarazzata mezza immagine? Perché non proiettarla quindi verso nuovi approMaria Concetta Mattei, di? giornalista Ultima ad attraversadel Tg2 re la soglia dell’apparire, da telegiornalista a ballerina, è stata Maria Concetta Mattei, “Ballando con le stelle” (sabato, RaiUno, 21.30). Il programma è collaudato: un talent show per gente nota che si accompagna a professionisti del

ballo. E in effetti la Mattei è nota. La vediamo condurre l’edizione maggiore del Tg2 da anni: quanta popolarità rinchiusa dentro il bozzolo impacciato del “professionally correct”, perché dunque non liberare la crisalide, perché non volare via? Ed eccola, la crisalide Mattei, che danza felice e appagata con un giovanotto, che la stringe premuroso, mentre un’altra telegiornalista pentita, che solo pochi giorni fa avevamo visto inviata in Libano, Tiziana Ferrario del Tg1, osserva, commenta e medita presto di subentrarle. Scherzano e ridono, fra i giurati, altri due volti del giornalismo televisivo, Ivan Zazzaroni e Alberto Sposini. Quest’ultimo da tempo ha abbandonato la vecchia informazione per la nuova, quella dell’infotainment: “La vita in diretta”, (RaiUno, 16.15). Nella surreale puntata di lunedì c’era un supponente Pierluigi Diaco che dava lezioni di teologia a un prete e Sandra Milo, la leggendaria attrice felliniana, devotissima, che accusava la Chiesa di crudeltà, perché essendo lei divorziata, non poteva accedere al sacramento dell’eucaristia. C’è una frenesia dionisiaca irresistibile, un’ansia non solo di apparire ma di essere con il proprio corpo in gioco. Un fenomeno di transustanziazione mediatica in cui l’immagine si fa corpo e viceversa. Senza rendersi conto che si cammina sul filo del rasoio. Che si rischia il grottesco, o meglio, sapendo che è proprio questo, come la categoria della “mostruosità”, a nutrire la ricchezza della nuova mitologia televisiva. Quella che ti consente di far nuovamente danzare la tua immagine nelle mille riprese di “Blob” e di “Striscia la notizia”. Mostruosi. E quindi perfettamente televisivi.


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MONDO

WEB

Il senso di Bahati per la Rete una bella storia quella che arriva dal Congo. Una favola moderna dove ci sono un ragazzino di otto anni patito del Web, un re decaduto, un professore partito per l’Africa e un centro con 18 computer vicino al vulcano di Nyiragongo. Tutto comincia quando Bahati Kahindo, il figlio di un re di Walikale, villaggio nell’hinterland di Goma (la zona orientale del Congo) decide, nonostante la giovane età, di imparare ad ogni costo come si naviga in Internet. Forse ne ha sentito parlare, forse vuole provare qualche incredibile gioco: non è dato saperlo. Di sicuro Bahati lascia il suo villaggio per andare a scuola al Centro sociale Don Bosco di Ngangi con sede vicino al Nyiragongo, uno dei vulcani più attivi del mondo. Nel centro salesiano c’è l’aula informatica con i 18 computer e Bahati viene accolto con affetto: “Ho capito subito che era un piccolo genio” dice Massimo Cimicchi, un docente universitario di Informatica che da due anni

E’

si è spostato in Africa da Orvieto per fare il volontariato. Il piccolo informatico impara ben presto a navigare su Internet ma, come tutte le favole, anche la sua storia prevede ostacoli e un lieto fine. I fondi a disposizione dei Salesiani stanno per finire e rischia di andare a monte il progetto della scuola che in 12 anni di attività ha formato 35.000 giovani congolesi. E’ allora che il professor Cimicchi si fa venire un’idea: mette in piedi un team di assistenza tecnica informatica nella regione del Kivu. Non solo. I Salesiani stringono un accordo con l’azienda del Vaticano che fornisce ai Salesiani le connessioni per realizzare dei ponti satellitari in tutto il Congo. La scuola si potrà autofinanziare. E la favola di Bahati può continuare.

è “ROM C'È UN CAMPO X VOI: AUSCHWITZ” UN VERGOGNOSO GRUPPO SU FACEBOOK

Un altro vergognoso gruppo su Facebook. Questa volta a scovarlo è stato l’Osservatorio Antiplagio. Il gruppo si chiama: “Cari rom c’è un campo che va bene solo per voi: Auschwitz” raccoglie quasi duecento iscritti e nelle info inserisce informazioni di chiaro carattere nazista: di Federico Mello “Perché sprecare questo meraviglioso posto e tenerlo vuoto? Offre riscaldamento interno a forno, docce tecnologiche a gas e soprattutto entrata gratuita”. Sul gruppo non manca chi si ribella: “Il mio sangue è rosso come il tuo” scrive è MEDIASET VA ONLINE Anna. Ma “non sono persone sono bestie” VISIBILI IN STREAMING PROGRAMMI E TG ribatte Matteo. Un gruppo come questo si Anche i programmi Mediaset sbarcano sul può segnalare a Facebook per razzismo Web. Per i 18 anni del Tg5 fondato da Enrico attraverso il pulsante “segnala”. Mentana, che cadono oggi, Mediaset inaugura la nuova sezione video all’indirizzo www.video.mediaset.it. Sul portale si potranno rivedere i video di numerosi programmi e tutte le edizioni dei Tg. Sarà GRILLO DOCET inoltre possibile condividere i video con altri BALOTELLI IN SERIE A utenti sui maggiori social network. Da Come accoglieranno in Mediaset promettono che il nuovo player Sudafrica, la patria dei fieri consente una migliore qualità video e una Zulu, l’unica Nazionale visione fluida del contenuto senza europea che rifiuta giocatori interruzioni dovute alla connettività. di colore tra le sue fila? E’ un fatto, non un’opinione. Quando gli Azzurri giocano contro Olanda, Francia, Inghilterra, Germania, persino Svezia, incontrano anche avversari neri, ma loro sono sempre rigorosamente bianchi come l’allenatore. Mario Balotelli è il miglior attaccante giovane in circolazione, parla bresciano meglio di un leghista, ma rimane sempre un diverso. Nei civili stadi italiani gli tirano le banane, lo acclamano come: “Sporco negro” o gli fanno l’imitazione della scimmia. Sui muri scrivono: “Negro di merda” e in Rete: “Balotelli crepa!”. Se il ragazzo (ha solo 19 anni) si ribella in campo con un semplice applauso viene multato per 7.000 euro dal giudice sportivo. Balotelli è l’esempio del fallimento dell’integrazione di un Paese destinato alla violenza razziale perché razzista. Perché Mario non è ancora in Nazionale A? Ecco, questa è una bella domanda.

feedback$ è ANTEFATTO SU FACEBOOK Commenti allo status: “Anche Bersani se ne è accorto. Il partito dell’amore è l’ennesimo imbroglio di B. per continuare a farsi gli affari suoi” Non ci resta che piangere... (Dario) Non ci posso credere... si è svegliato dal lungo letargo? (Teresa) Meglio tardi che mai! Sì ma ora che farà? Secondo me lo chiama e gli dice: “con te non gioco più” (Giuseppe) Non penso se ne sia accorto adesso, l’ha sempre saputo... è ovvio che Bersani/Max D'Alema desiderino che Berlusconi ottenga il salvacondotto/immunità ... questa apertura al dialogo degli ultimi giorni è stata soltanto l'ennesima presa in giro verso i loro elettori (Eva) Lo sapevano già al Pd solo che ormai la cosa è diventata talmente palese da non poter essere nascosta... (Narno) Macché amore è solo sesso... a pagamento (Marco)

Il gruppo razzista su Fb; il No Mafia Day; il No Sarkozy Day; il sito GrNet

DAGOSPIA

RIOTTA LOST (BERLUSCA) IN TRANSLATION

1) L’editoriale liberista-tabagista di Alberto Mingardi sul Wall Street Journal è stato opportunamente ripubblicato domenica scorsa, una volta tradotto, sul Sole 24 Ore di Gianni Riotta. Solo che il direttore, nella traduzione, s’è perso un passaggio dell’originale di Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. Lo traduciamo noi: “E una donna è soltanto una donna, mentre un sigaro è una bella fumata, è il celebre aforisma di Rudyard Kipling. Quali siano le preferenze del primo ministro Silvio Berlusconi è fuori di ogni dubbio. Di conseguenza un governo di centrodestra ha potuto imbarcarsi allegramente in una battaglia politicamente corretta per eccellenza, come è la crociata contro il fumo”. 2) La possibile diaspora di Fini attraversa come un fiume carsico soprattutto gli assetti dei giornalisti Rai. Tra viale Mazzini e Saxa Rubra le file dei fedelissimi del presidente della Camera subiscono continui aggiornamenti, come le quotazioni in Borsa. Fra i finiani irriducibili vengono annoverati soltanto Mauro Mazza, Guido Paglia, Bruno Socillo, Gianni Scipione Rossi e Angelo Mellone. Tutti gli altri, dal consigliere di amministrazione Guglielmo Rositani ai vicedirettori è FLOP PER IL “NO SARKOZY DAY” Sangiuliano, I BLOG FRANCESI SONO CONTRARI Corsini, In Italia è ancora ampia l’eco per il No Buonocore, Berlusconi Day. Per la manifestazione nata Mensurati per finire su Facebook si radunarono in piazza San è “LE CARCERI CI SONO GIÀ” a Zurzolo e Giovanni, lo scorso 5 dicembre, migliaia di LA DENUNCIA SU GRNET.IT Scaramucci fanno persone: anche partiti ed esponenti politici Per risolvere il gravissimo riferimento a furono costretti a rincorrere i blogger. sovraffollamento delle carceri italiane Gasparri. Sulla scia del No B. Day altre iniziative simili la soluzione esiste già. Senza sono state lanciate in Rete: continuano a costruire nuove carceri, basterebbe crescere le adesioni per “Lo sciopero utilizzare 40 istituti penitenziari già nazionale dei migranti” e per il “No Mafia pronti che sono inutilizzati e versano in un totale stato di Day”. Anche in Francia, come informa il abbandono. A scriverlo è il blog GrNet, portale blogger italiano Daniele Sensi, su Facebook d’informazione indipendente per il comparto sicurezza e è nato un appello per un No Sarkozy Day difesa. Quella che Grnet chiama “la scandalosa lista dello proposto per il prossimo 27 marzo. Ma spreco del denaro pubblico” viene attribuita dal sito agli recentemente ventotto blogger francesi (e “operatori per la sicurezza e la difesa”. Tra i casi più tra questi i primi undici blogger del paese) clamorosi c’è Gela, sede di un penitenziario nuovissimo e hanno dichiarato la loro contrarietà a tale mai aperto. Anche a Morcone, in provincia di Benevento, iniziativa: “L’’antisarkozysmo non porterà un istituto appena ristrutturato è stato abbandonato dopo mai a nulla” dicono. Eppure le adesioni un periodo di vigilanza. Ad Arghilla (Rc), manca solo la volano: sono oltre 350.000. Bisseranno il strada d’accesso ad una struttura d’avanguardia. successo italiano? E’ presto per dirlo. Anche perché il No B. Day italiano aveva più un carattere civile (“fatti processare” lo slogan) che politico.

Bersani l'ha sempre saputo, ci ha provato, come si dice a Napoli, ma non ci è riuscito e, adesso per non perdere consensi, prova a ritornare sui suoi passi almeno pubblicamente! (Elsa) Sì, ma l'Italia quando si sveglia? (Annalisa) Gli sarà venuta una larva di dubbio dopo le esternazioni in latino del nano, in risposta alle accuse sulle leggi ad personam (Hetti) Non ci vuole certo molto per capirlo!!! Dopo la botta tutti pretendono la redenzione! Ma veramente si pensa che cambino le sue mire “espansionistiche”? Ma dai, scherziamo!? (Manuela) Berlusconi discepolo di Moana e Cicciolina! W il Partito dell'Amore!!!!! (Alessio) Che Bersani se ne sia accorto, può darsi; che continui con politiche suicide, mi pare altrettanto vero, al momento (Fabrizio) Meglio tardi che mai (Davide) Ogni tanto una cosa di sinistra (Toni) Il Pd se ne accorge sempre con quel poco di ritardo che basta a giustificare il fatto che non abbiano fatto un niente… (Luca) Alla buon’ora, ma adesso ci pensa D’Alemino a giustificare l'ennesimo inciucio. Sveglia sinistra! Con tutta la sinistra e senza bandiere! (Aulo) E poi dicono che Di Pietro è solo un giustizialista!!! in Questo momento è l'unico che dice che di B. non ci si deve fidare, perché pensa solo agli affari suoi (Carla)


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Mercoledì 13 gennaio 2010

SECONDO TEMPO

PIAZZA GRANDE Due Craxi, il leader e l’imputato di Giuseppe Tamburrano

o letto sui giornali molti articoli su Craxi: non tutti perché è una inondazione. Quanti lo hanno rimesso sugli altari, che l’avevano buttato nella polvere! E non solo a sinistra (qui la revisione è cominciata da un pezzo) ma anche a destra. Ricordo la campagna di quel settore contro il leader socialista: oggi invece si propongono strade, piazze, giardini dedicati a lui. Craxi sarebbe lieto del paragone con Garibaldi – che era il suo vate – meno di quello con Giordano Bruno – lui era laico! – paragoni fatti con scarso rispetto della storia da Letizia Moratti. Ma di tutti, il giudizio che mi ha lasciato esterrefatto è stato quello di Ripa di Meana. Poiché io non ho cambiato opinione rispetto al libro scritto con il direttore di questo giornale vorrei ripeterla con qualche aggiornamento. Il personaggio va discusso come leader politico o come caso giudiziario? Questo secondo aspetto si presta a poche discussioni poiché le sentenze sono definitive e non è in corso alcun processo di revisione. Però le sentenze non sono la verità: i giureconsulti romani dicevano del giudicato “pro veritate habetur”. Ma sull’aspetto giudiziario del ca-

H

Ecco alcuni suoi titoli di merito: avvia l’Europa verso quello che sarà il Trattato di Maastricht, aiuta con i fondi “illeciti” i socialisti cileni, i palestinesi di Arafat, il “dissenso” russo so Craxi vi è un altro argomento che vale soprattutto oggi, poiché col tempo molti e autorevoli personaggi hanno visto quanta “politica” (o persecuzione) è entrata in quella vicenda giudiziaria e hanno denunciato “l'uso politico della giustizia” che ha trasformato episodi di finanziamento illecito del partito (ammessi pubblicamente da Craxi nelle aule dei tribunali e nell’aula della Camera) in reati ben più gravi. Oggi credo che l’opinione pubblica si ribellerebbe a una incriminazione con l’argomento “non poteva non sapere”, argomento che è un’offesa

al principio della responsabilità personale dell’inquisito. E poiché, in proposito, su questo giornale, è stato sollevato il caso dell’Enimont cito dalla sentenza di condanna di Craxi: “Si può anche dar atto a Craxi che in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza – che forse potrebbe avere un qualche valore dal punto di vista per così dire estetico – nulla significa ai fini dell’accertamento della responsabilità penale” (Massimo Pini, “Craxi”, Mondadori, p. 640). E faccio solo tre nomi di autorevoli personaggi che hanno scritto recentissimamente sull’uso politico della giustizia: Oscar L. Scalfaro (“Quel tintinnar di vendette”), Luciano Violante (“Magistrati”) e Sergio Romano sul Corriere della Sera del 7 gennaio 2010. Ma io volevo intrattenermi soprattutto sul leader politico il quale interessa la vita pubblica perché con la sua azione ha contribuito in bene o in male alla storia del paese e dell’Europa. Craxi è stato un politico di alto livello e intelligenza. Un leader dotato di carisma, uno “strong man” (Economist), molto popolare (65% dei consensi come capo del governo). Non dimentichiamo la “grande riforma” balbettata ancora og-

No, resta solo il Craxi peggiore di Antonio

Padellaro

vero. Con Giuseppe Tamburrano firmammo insieme un libro dal titolo “Processo a Craxi”, piuttosto burrascoso in quanto, nell’esaminare l’ascesa e il declino dell’ex leader del garofano, lui ed io pur essendo amici da una vita non ci trovammo praticamente d’accordo su nulla. Sono passati 17 anni e il nostro dissenso mi sembra immutato, tranne che su un punto. Nel considerare con identico disgusto i tanti saltimbanchi che dopo aver leccato gli stivali del “cinghialone” (come lo chiamava e non lo chiama più Vittorio Feltri) lo lapidarono allegramente, salvo oggi recarsi in pellegrinaggio ad Hammamet per fare cosa gradita a Berlusconi, il grande erede del grande latitante. Anch’io un tempo pensai che forse Craxi poteva essere una novità positiva per la politica italiana. Era il ‘76, l’anno del Midas e della sua elezione alla segreteria del Psi. Ero un giovane cronista del Corriere della Sera e non posso dimenticare quegli anni di grande conformismo nei quali la borghesia italiana sembrava letteralmente ammaliata dall’avanzata comunista. Un esempio di quella sorta di preventiva sottomissione si può cogliere in una foto forse ancora conservata negli archivi dei giornali. Il grande maestro Severino Gazzelloni che suona il flauto per Enrico Berlinguer e la nomenklatura del partito sotto il grande palco rosso innalzato in una gremitissima piazza San Giovanni. Davanti, per

È

A che serve cercare qualche merito sparso quando a causa di una politica rapace e attenta solo agli interessi del proprio clan si sono buttati a mare i valori di tanti socialisti per bene? esempio, a un Amendola che teorizzava l’assorbimento da parte del Pci di quanto c’era di buono nella storia del Psi, l’irruzione di un irregolare come si presentava allora Craxi apparve sicuramente come una salutare scossa per la sinistra italiana. Peccato che quasi subito il nuovo leader evitò perfino di pronunciarla quella parola, “sinistra”: come se fosse una bestemmia. Comportamento abbastanza simile a quanti oggi nel Pd sembrano provare la stessa ripulsa davanti alla parola opposizione. Dopodiché di Craxi conservo solo ricordi sgradevoli. Non posso dimenticare la vera e propria aggressione condotta da lui e dai suoi sodali contro Alberto Cavallari che aveva salvato l’onore del Corriere della Sera trascinato nel fango piduista. Cavallari è stato un grande e coraggioso direttore che non arretrò mai, neppure davanti a una guerra civile interna al

gi dalla classe politica. Ecco alcuni titoli di merito. In contrasto con la Thatcher ottiene di avviare l’Europa verso quello che sarà il Trattato di Maastricht e riesce a far entrare l’Italia nel club dei paesi più industrializzati. Aiuta con i fondi “illeciti” i socialisti cileni, i palestinesi di Arafat, il “dissenso” russo. Contribuisce con lo spiegamento dei missili della Nato sul territorio italiano all’equilibrio nucleare e alla difesa dell’Europa; difende la sovranità italiana in contrasto con gli Stati Uniti a Sigonella; si batte per la salvezza della vita di Aldo Moro; riduce l’inflazione col taglio della scala mobile.

IL FATTO di ENZO

l

Vedo che nel programma di Silvio Berlusconi c’è la “Casa della libertà”. Esiste già: ed è proprio ad Arcore. Lì vive un signore che, in questa Repubblica dittatoriale, è costretto a possedere solo tre reti televisive (e gli diede una mano il compianto onorevole Craxi), la Mondadori, il Giornale e Panorama. Bettino Craxi (FOTO GUARDARCHIVIO)

giornale scatenatagli contro dalle quinte colonne craxiane. A lui dovrebbe dedicare una strada il sindaco di Milano e non a chi lo fece cacciare da via Solferino e lo trascinò in giudizio solo perché in un editoriale dedicato alle tante ruberie di socialisti che già venivano a galla, Cavallari osò scrivere che tra i ladri e i carabinieri il Corriere sarebbe sempre stato dalla parte dei carabinieri. Ma non è certo per fatto personale (e di fatti personali ne avrei da raccontare sulle pressioni dell’allora presidente del Consiglio sulle proprietà dei giornali per mettere in riga i cronisti poco in linea) se allora come oggi considero inaccettabile l’interrogativo se Craxi vada discusso come leader politico o come caso giudiziario. Ma che razza di leader politico può essere un caso giudiziario? Quanto poi alla tesi del povero Bettino “perseguitato” su storie di finanziamento illecito del partito, unico pollo a farsi incastrare tra i tanti che razzolavano male, bè lasciamo perdere. Craxi ha intascato fior di tangenti miliardarie come dimostrano le te-

stimonianze di chi gli portava direttamente il malloppo a casa (Silvano Larini). Soldi che poi finivano sui conti svizzeri del perseguitato. Altro che accuse basate sul “non poteva non sapere”. Veniamo infine ai presunti meriti politici di Craxi. Mi sembra di tornare a tanto tempo fa, alla mia adolescenza, quando sentivo parlare del Mussolini “buono” da qualche mio compagno di scuola che regolarmente se ne usciva con la tiritera della bonifica delle pianure pontine per giustificare i presunti meriti della dittatura. Grande consolazione, le bonifiche, per un paese poi raso al suolo dalla follia del suo duce. Craxi non è Mussolini ma a che serve cercare qualche merito sparso quando a causa di una politica rapace e attenta solo agli interessi del proprio clan si sono buttati a mare gli ideali di tanti socialisti perbene? Come Giuseppe Tamburrano a cui tuttavia forse mi unisce la consapevolezza che se, allora, la politica non avesse lasciato dietro di sé malcostume e tangenti il nostro Paese non sarebbe caduto nelle mani di chi sappiamo.

Ma non voglio tacere le critiche al suo operato: quelle che gli ho fatto spesso (e una volta mi ha zittito e apostrofato in direzione e io ne sono uscito) e che sono quelle che gli faccio oggi in sede storiografica. Ha fatto tre errori fondamentali. Sin dall’inizio della sua segreteria avrebbe dovuto porre alla Dc e al paese il problema di un adeguato finanziamento della vita dei partiti insieme con un penetrante controllo esterno dei bilanci. Gliel’ho proposto più volte, con l’argomento che i cittadini avrebbero accettato il finanziamento dei partiti se accompagnato da severi controlli. Lui mi ha risposto che gli altri partiti rifiutavano controlli seri. Era vero: sia Piccoli che soprattutto Cossutta li esclusero categoricamente. Ma Craxi poteva fare una grande campagna sull’argomento. Non la fece, anzi lasciò il Psi nelle mani di boiardi e vice boiardi di Stato, di assessori, di portaborse e... altro. Ha conquistato e mantenuto a lungo la guida del governo ottenendo, dopo la breve presidenza Spadolini, l’effettiva pari dignità con la Dc. Cosa molto importante. Ma al go-

Il badante

verno ha fatto grandi iniziative e poche riforme significative: a differenza del centrosinistra con Nenni solo vicepresidente. Arroccato nel recinto del potere non ha avvertito l’ondata referendaria (defluita peraltro – eterogenesi dei fini della storia – sui lidi berlusconiani). L’errore più grave fu la cosiddetta “unità socialista” che non fu una politica convinta di unità della sinistra. Non posso dire se il Pci di Occhetto – che vi si dichiarava ostile – sarebbe stato alla fine indotto – nella crisi del comunismo – ad accettare l’unità col Psi nel nome di quei valori socialisti che emergevano vincenti dalle rovine del Muro di Berlino, e con la finalità di costruire l’alternativa alla Dc. Posso però dire che Craxi non ha perseguito seriamente questa strategia. Ovviamente sono soddisfatto se oggi si rivaluta l’eredità di Craxi. Ma mi duole che la beatificazione sia opera soprattutto di coloro che lo hanno lapidato da destra con pietre grosse come quelle scagliate da sinistra. E’ un’offesa a Craxi che non aveva nulla a che fare con quel mondo perché era socialista.

É

di Oliviero Beha

QUE STIONI CICLICHE A

ssistendo alla ripresa della politica 2010, possono cadere le braccia. Berlusconi ha ripreso ovviamente da dove ha lasciato, cioè dai suoi escamotage anti-processi, l’opposizione è alle prese con un Partito democratico eufemisticamente almeno precario, Casini politicamente avveduto riscuote proprio come Bossi sia pur in territori differenti, Fini ondeggia tra il potere legislativo e quello esecutivo, tra la Camera e il Pdl, Di Pietro recalcitra ma a scartamento ridotto. E in molti si chiedono: che cosa può accadere nella palude del disagio italiano? E’ un’Italia senza futuro, destinata a questo galleggiamento/sprofondamento infinito, condannata a regredire senza prospettive di reale cambiamento? “Reale” e “cambiamento”, due parole. Il cambiamento non verrà, temo, dalla politica di qualunque livello, in un paese che ha smarrito la bussola della politica per regolarsi soltanto sul sestante degli affari, contrapposti o complementari. Se verrà, verrà dalla realtà. E qual è il segnale più forte che manda la realtà in questi giorni, quasi ammutinandosi contro se stessa? Quello di Rosarno, come l’altroieri quello di Castel Volturno, degli immigrati africani palleggiati tra la ’Ndrangheta e la Camorra. Quello della questione più urgente e più profondamente incisiva che ci sia sotto i nostri occhi, di noi italiani ma anche di noi contemporanei distribuiti sul globo. L’immigrazione ti cambia comunque, di dentro e di fuori, ti cambia come “ospite” nei due sensi, di chi arriva specie se di colore e di chi ti accoglie/subisce e ha a che fare con te. Cambia il tuo modo di sentire, e di ragionare, nel bene come nel male. Non ti lascia mai indifferente, ti costringe a conoscerti di più o a rimuoverti di più. E’ ovviamente una questione storicamente ciclica, ed epocale in questo momento. Rosarno è solo un evidenziatore, per braccianti a 2 euro lordi l’ora che secondo il leghista di turno “fanno male ad accettare tanto poco”. E infatti forse stanno smettendo di accettarlo… Ed è un problema, l’immigrato men che povero, misero, miserrimo che non ce la fa più o non serve più. C’è chi nota che la storia italiana è sempre cambiata solo dall’esterno, noi che non abbiamo avuto neppure una rivoluzioncina piccola così. Stando al Novecento, è cambiata con la Seconda guerra mondiale, ma persa, altrimenti saremmo ancora fascisti. E’ cambiata con il crollo del Muro di Berlino sotto i cui mattoni ancora sbuca qualcuno, tra di noi… mentre la Res berlusconiana i mattoni li commercia. E allora forza: non sarà l’immigrazione, una falange di gente che viene da fuori, a cambiarci comunque, a modificare la realtà? Dunque per sperare in un’altra chance generazionale dobbiamo confidare in loro, in tutto ciò che con la loro venuta ci può arricchire culturalmente, psicologicamente, spiritualmente e non solo economicamente con lo sfruttamento di Rosarno & company? Forse il futuro balena nel sentirsi un po’ “neri dentro” anche noi? P.s. Per cortesia, in un paese come il nostro ad altissima densità mafiosa, niente obiezioni sui delinquenti che arrivano. Certo che non li vogliamo, come non vorremmo neppure la delinquenza stanziale ormai infiltrata ovunque, anche in alto. E neppure si eccepisca sul “buonismo”, la “solidarietà poco realistica” ecc., concetti all’incanto di chi vuol parlare e non fare. Per inciso, da trent’anni per questioni direttamente personali, di affidamenti e adozioni non “a distanza” ma “a vicinanza” se non “ad aderenza”, conosco la questione occhi negli occhi con persone di un altro colore di pelle. Se in condizioni di decente normalità esse non mi avessero arricchito ampliando i miei orizzonti, sarebbe dipeso da me e dalla mia cecità. Non da loro.


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SECONDO TEMPO

MAIL I ministeri proliferano, altro che governo Prodi!

BOX A DOMANDA RISPONDO VEDI ALLA PAROLA NEGRO

Furio Colombo

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Uno dei proclami dell’attuale governo è stato quello di aver diminuito il numero di ministeri rispetto al precedente governo Prodi. Con grande enfasi si è battuto sul risparmio che ciò avrebbe comportato (tralasciando il discorso sul codazzo di viceministri e/o sottosegretari di cui poco viene detto all’opinione pubblica). Poi, in corso d’opera, ecco che il giochetto viene smascherato: vengono ricreati e nominati il ministro del Turismo (per la Brambilla) e il ministro della Salute (Fazio). Inoltre, ora si vocifera che addirittura la Santanchè diventerà nuovo sottosegretario all’Interno. E adesso, come intendono giustificare queste scelte? Daranno la colpa a Prodi? Questi personaggi sono stati promossi per meriti sul campo? Quelli della Brambilla sono noti solo a Berlusconi. E Fazio è stato forse premiato per la mirabile “operazione Novartis”? E la Santanchè per il contributo alla causa leghista? In Italia, piuttosto che di meritocrazia, si potrebbe parlare di ministrocrazia.

C

aro Colombo, ma negro è davvero un insulto? E perché? Donatella

RIAS SUNTO delle puntate

precedenti. Prima non c’era la democrazia e ogni definizione dell’altro era arbitraria e padronale. Qualcuno con fantasia o con capriccio, decideva in che modo definire gli indigeni, i selvaggi, i pellerossa, i meticci, i mulatti. L’espandersi di un certo grado di democrazia favorisce un diverso modo di definire gruppi e persone. Il capolavoro è l’Inghilterra coloniale che inquadra differenze etniche e culturali in corpi militari (i Gurka). La storia del rapporto americano fra bianchi e neri è unico perché l’America è subito democratica ma la democrazia è nelle mani dei bianchi e tollera la schiavitù. Si spacca, con una dura guerra civile sul tema libertà-uguaglianza. E concepisce fin dall’origine il principio: tutti gli uomini sono creati uguali. Ma poiché è uno Stato federale, i poteri si separano. Quelli locali sono razzisti, perché in essi prevalgono gli interessi della maggioranza bianca sul posto. Quelli federali, lontani dalla convenienza locale e vicini alla Costituzione e al Bill of Rights che ha fondato

il paese, indicano come principio l’uguaglianza. Lo scontro esplode con il Movimento dei diritti civili. Sia un presidente di destra (Eisenhower, contro il governatore Faubus dell’Arkansas) sia un presidente di sinistra (John Kennedy contro il governatore Wallace dell’Alabama) si schierano per l’uguaglianza. E usano anche le Forze armate americane per difendere i neri, protetti anche dai tribunali federali. Siamo negli anni Sessanta. Nasce e si radica in quel periodo un principio che nessuna destra penserà mai di sconfessare negli Stati Uniti. Il principio è: ciascun gruppo ha diritto di scegliere la propria definizione. Negro era stato per quasi due secoli un insulto in America. La nuova parola è black. E’ la parola usata tutt’ora, tranne che da bande e gruppi di razzisti militanti. In Italia la Lega (che infatti invoca la supremazia dei poteri locali) è restata ai tempi squallidi di Faubus e Wallace. Ma almeno l’Italia dei media potrebbe ispirarsi a Kennedy e a Martin Luther King. La parola è NERO. Negro è un deliberato insulto. Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano 00193 Roma, via Orazio n. 10 lettere@ilfattoquotidiano.it

Fulvio Genova

LA VIGNETTA

pubblica, intervenendo da Fabio Fazio, ha parlato di P2, dando per scontato che tutti sappiano di cosa si tratta; basta chiedere a qualcuno in giro e ci accorgiamo che non è così. Troppa acqua è passata sotto i ponti. Oppure troppa omertà ci sta passando ora. Mi permetto di suggerire la necessità di un ripasso generale. Luca Magherini

Manca un dibattito serio sull’asilo politico in Italia

L’inadeguatezza di chi ci comanda (e la P2) Ormai ci siamo abituati: con una cadenza quasi quotidiana, i vari esponenti politici del gruppo di potere che governa (meglio: comanda) il nostro paese, catturano l’attenzione dei media con esternazioni assurde e irrealizzabili, che poi, nel giro di pochi giorni, tutti gli elettori dimenticano, per seguire altre sciocchezze provenienti dai soliti noti. Nell’anno appena iniziato è stato messo in dubbio l’articolo 1 della Costituzione; e abbiamo la penosa idea di un tetto per il numero degli alunni stranieri; e non poteva certo mancare la superba, im-

mancabile, promessa di riduzione delle tasse, la smentita a mezzo portavoce (figura lavorativa da abolire), e la successiva ipotesi di portare a due le aliquote Irpef (già usata anni addietro). E’ dall’inizio di questa legislatura che qualcuno cerca di distrarre la nostra attenzione dalla sua inadeguatezza e dai veri problemi del nostro paese e purtroppo sarà così anche in futuro: la crisi non c’è, la crisi è finita, ci dice la voce del Grande Fratello. Ma intanto, anche chi lavora nel gruppo televisivo privato di Berlusconi, il più grosso in Italia, teme di perdere il proprio posto di lavoro. E non dimentichiamo, per favore: il direttore di Re-

Vorrei parlare del diritto all’asilo politico in un paese che continua a ignorare la questione per ragioni di comodo. Partiamo dal fatto che gli “immigrati regolari”, che perdono il lavoro e sono senza un regolare contratto, secondo la legge Bossi-Fini possono ottenere un rinnovo straordinario del soggiorno per un massimo di 6 mesi; poi, in assenza di nuovo contratto, sono costretti a lasciare il paese. Sulla carta diventano “irregolari” e magari dopo vent’anni di lavoro serio in Italia (e pagando le tasse), vengono sradicati dalla loro casa, carcerati in Centri di identificazione ed espulsione e rimpatriati in un paese in cui, se va bene, sono tornati ogni tanto a trovare i parenti, ma che non rappresenta più la propria casa. Ancor più grave è il caso di molti immigrati in questa situazione, che sono in realtà rifugiati “de facto”, che si erano regolarizzati in Italia come lavoratori immi-

grati in mancanza di una legge chiara e organica sull’asilo politico, e che vengono rispediti nei paesi da cui sono fuggiti rischiando nuove persecuzioni. La mia ricerca sulla condizione dei richiedenti asilo in Italia aveva già sottolineato questo pericolo alcuni anni fa. I rifugiati con i quali ho lavorato, sostenevano di preferire la dignità del lavoro al sussidio minimo previsto per i richiedenti asilo e all’impossibilità di lavorare imposta dal sistema. La legge Bossi-Fini li ha colti di sorpresa, ma molti erano fiduciosi che il lavoro per le persone di buona volontà in Italia non sarebbe mai mancato. Poi è arrivata la recessione e i fantasmi del passato sono ritornati a colpirli, nell’indifferenza generale del paese. Insomma: sarebbe il caso di aprire un dibattito serio sul diritto all’asilo politico in Italia. Katia Amore

Figli che stavano coi bimbi stranieri Non sono una mamma “buonista” perché insegno la tolleranza verso gli altri ai miei figli. Discutevo con mio marito sul fatto che viviamo in una società razzista. Altro che “buonismo”. Ci siamo stabiliti da poco in una cittadina dove tra i pochi abitanti i figli degli immigrati si contano sulle dita di una mano e rimpiango la vecchia abitazione, in una grande città a sud-ovest di Milano, dove, invece, i miei figli frequentavano scuole con bambini che il ministro dell’Istruzione Gelmini ridur-

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IL FATTO di ieri13 Gennaio 1928 “Un capolavoro inutile”. Uno dei più grandi fallimenti militari, legato agli ossessivi disegni di grandeur, tipici della mentalità francese. Così è passata ai posteri la Linea Maginot, kolossal difensivo secondo solo alla Grande Muraglia, messo in cantiere il 13 gennaio ’28. Semplificata e ridicolizzata, la storia della Maginot, ci racconta però anche altre cose. Al di là del flop della strategia di trincea, vincente durante il Primo conflitto mondiale ma inadeguata alla nuova guerra di movimento e al di là della presunzione di inviolabilità dell’enorme baluardo, aggirato e poi espugnato nei fatti, dalle divisioni tedesche nel celebre blitz di Sedan del ‘40, quella cattedrale sotterranea lunga 400 chilometri, costata 5 miliardi di franchi e 10 anni di lavori e munita di 108 fortificazioni, bunker e ostacoli anti-carro, servì anche ad altro. A controllare militarmente le forti spinte autonomiste di Alsazia e Lorena, ricche regioni abitate da oltre un milione di cittadini germanofoni, riprese ai tedeschi dopo il Trattato di Versailles e a impiegare centinaia di migliaia di lavoratori durante la crisi del ’29. Ridando fiato all’economia e ritardando di fatto la caduta della Terza Repubblica. Giovanna Gabrielli

L’abbonato del giorno ROBERTO BALSARIN “Mi chiamo Roberto, abbonato e sostenitore della prima ora, e fortunatamente vi posso leggere quotidianamente sul mio Mac in formato Pdf. Se dovessi aspettare il cartaceo per leggervi, con il pessimo servizio postale di cui disponiamo in Italia, sarebbe impossibile seguirvi. Rimango anche otto giorni senza vedere il postino! State facendo un buon lavoro, continuate così che non ci deluderete mai. Ciao!” Raccontati e manda una foto a: abbonatodelgiorno@ ilfattoquotidiano.it

rebbe a un 30 per cento per classe. E’ banale, forse, ma a me sembra significativo ricordare che erano bellissimi i disegni della materna, con i bambini colorati e mio figlio più grande che mi diceva: “Guarda mamma, questo è il bambino marrone, vedi, io sono quello rosa”. Una frase assolutamente non razzista, ma mista di innocenza e affetto. Come avrei fatto a spiegargli che il “bambino marrone” non avrebbe più giocato con lui perché trasferito in una scuola vicina? Devo for-

se, adesso, rallegrarmi di frequentare una società di bambini e adulti del colore “giusto”? Purtroppo non riesco a farlo. Il nostro paese sta sprofondando in un passato che sembrava lontano, e so che a breve non troverò più risposte o spiegazioni da dare ai miei figli. Maria Luisa Belloni

Diritto di Replica Caro direttore, ho letto con ritardo l’articolo di Marco Lillo di domenica scorsa (“Prime prove di inciucio telefonico”) e vorrei tranquillizzare i lettori del Fatto sulla decisa opposizione da parte mia e del Pd ai progetti di Mediaset sulla rete Telecom. Nell’intervista citata - e che il Riformista ha titolato sul “no a Telecom spagnola” essendo quello il fatto del giorno - ho segnalato quanto per Mediaset sia ovviamente strategico il rapporto con la rete (passo evidenziato da Lillo), ma non certo per avallare le conseguenti mire di Mediaset sulla rete Telecom. Il mio No è totale, e – come ricordavonell’intervista - riguarda anche i diversi possibili “mascheramenti” dei progetti Mediaset: dalle cordate di volenterosi stile Alitalia agli scorpori modello Terna. Grazie per l’attenzione e buon lavoro Paolo Gentiloni

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