Il Vangelo morto sulla croce

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UNIVERSITÀ DI PISA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia

IL VANGELO MORTO SULLA CROCE Lettura de L’Anticristo di Friedrich Nietzsche

Candidato:

Relatore:

Valentina Ducceschi

Giovanni Paoletti

Anno Scolastico 2007/2008


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INDICE

Introduzione

1. Morale e religione: prima de L’Anticristo……………………………………......4 1.1. Le opere giovanili 1.2. Il periodo «illuministico» 1.3. Gli scritti del tramonto 2. Perché L’Anticristo………………………………………..……………………..28 3. Critica ai concetti fondamentali della morale e della religione cristiana…...31 3.1. Uguaglianza e principio di selezione naturale 3.2. Sul libero arbitrio 3.3. La scelta tra fede e verità 3.4. L’«ordinamento morale» del mondo e il concetto di «peccato» 3.5. Il senso del «tempo»: linearità, circolarità ed eterno ritorno 3.6. Il concetto cristiano di Dio 4. Confronti………………………………………………………...........................55 4.1. Buddismo e cristianesimo 4.1.1. I punti in comune 4.1.2. Il Buddismo e la lotta contro il dolore 4.2. Paganesimo e cristianesimo 4.2.1. Dioniso contro il crocifisso 4.2.2. Pagano e spirito libero


3 5. Nietzsche psicologo……………………………………………………………63 5.1. Il «tipo cristiano» 5.1.1. Proiezione, alienazione, fraintendimenti e menzogne 5.1.2. Un caso particolare: psicologia del prete 5.2. Paolo di Tarso 5.2.1. Il «primo cristiano»: un’apparente contraddizione alla tesi 5.2.2. L’errore più grande 6. «Il tipo Gesù» e la morte del cristianesimo………………………………....…75 6.1. Alla ricerca del Gesù autentico 6.2. Gesù contro la Chiesa 6.2.1. Gesù contro la Chiesa ebraica 6.2.2. La Chiesa cristiana contro Gesù 6.3. Gesù spirito libero 7. Dalla critica del Cristianesimo alla trasvalutazione di tutti i valori…………..85

Bibliografia…………………………………………...……………………………90


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Introduzione

«Che cos’è buono? – Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa dell’uomo. Che cos’è cattivo? – Tutto ciò che ha origine dalla debolezza. Che cos’è felicità? – Sentire che la potenza sta crescendo, che una resistenza viene superata. Non appagamento, ma maggior potenza; non pace sovra ogni altra cosa, ma guerra; non virtù, ma gagliardia (virtù nello stile del Rinascimento, virtù libera dall’ipocrisia morale). I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro d’aiuto. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? – Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli – il cristianesimo…».1

Questa tesi si è sviluppata a partire dall’attenta analisi del concetto di cristianesimo presente nella riflessione nietzscheana e, in particolare, ne L’Anticristo. Si tratta di mostrare l’atteggiamento del filosofo nei riguardi della religione e della morale cristiana. Per fare questo è necessario dimostrare alcune tesi fondamentali. Ovvero: 1. che con L’Anticristo, Nietzsche si propone non tanto la condanna del

cristianesimo, quanto quella di tutti i valori e le ideologie in cui si riconosce l’uomo moderno e di cui per millenni il cristianesimo si è fatto portavoce.

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Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi, Milano 2004, § 2, pp. 4-5 (corsivo nel testo).


5 2. che Nietzsche non combatte il cristianesimo da una prospettiva teorico-

morale, ma piuttosto da un punto di vista «fisiologico», sociale e politico. L’odio di Nietzsche nei confronti della morale è giustificato da una preferenza per la salute e la forza. Il dualismo buono-cattivo, che ormai perde ogni significato, è sostituito dall’opposizione sano-malato. 3. che Nietzsche non intende annientare in toto il cristianesimo, ma

esclusivamente la sua degenerazione, la mistificazione operata a suo danno dalla Chiesa in seguito alla morte di Cristo. Il filosofo escogita i concetti antitetici di «cristianesimo» e «cristianità» allo scopo di sottolineare il profondo abisso che divide il primo cristianesimo da tutto ciò che è venuto dopo. 4. che dalla condanna si salva la figura di Gesù, del Gesù storico, quale

emerge da un’attenta analisi filologica dei Vangeli. Questo ci porta direttamente alla tesi principale: per Nietzsche è esistito un solo cristiano, il quale con la sua condotta di vita e il suo insegnamento, ha lottato contro quei principi su cui successivamente è stata edificata la Chiesa. Il cristianesimo, insomma, è morto sulla croce, insieme al suo fondatore. Tutto quello che in seguito ha preso a prestito il suo nome, è in realtà anticristiano. Per sostenere tale tesi occorre: 1. in primo luogo chiarire il ruolo che L’Anticristo ha all’interno dell’opera e

del pensiero di Nietzsche e quale percezione ne ebbe l’autore stesso. 2. interessarsi in maniera accurata alla critica che Nietzsche rivolge ai

concetti e ai valori che sono alla base della morale cristiana, mostrando


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le sue numerose conoscenze in ambito filologico, storico, psicologico, religioso e sociale. 3. mettere in evidenza l’antitesi fra l’ideale dello spirito libero propugnato da

Nietzsche e i valori della morale cristiana. 4. dimostrare che la critica del cristianesimo, che in altre opere ha soltanto

carattere negativo, «distruttivo», ne L’Anticristo assume una forma costruttiva, che avrebbe dovuto portare Nietzsche alla tanto vagheggiata trasvalutazione di tutti i valori.

Per quanto riguarda la metodologia utilizzata nella realizzazione della tesi, è doveroso fare una puntualizzazione. La scelta di spiegare Nietzsche con Nietzsche è forse rischiosa, ma anche consapevole e fortemente voluta: una scelta rischiosa, perché limitata alla sola prospettiva del filosofo; ma cosciente del fatto che anche i limiti possono essere sfruttati a proprio vantaggio. Il voler capire Nietzsche attraverso Nietzsche, insomma, racchiude in sé ostacoli e opportunità; si tratta di una scelta pericolosa, ma che offre, se non la certezza, almeno l’illusione e la speranza di poter comprendere il pensiero di Nietzsche solo in virtù di ciò che ha scritto. Tutto sta nel trasformare un limite evidente in una preziosa occasione. E si sa, la strada verso la conoscenza passa sempre per la via più tortuosa.


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CAPITOLO 1 Morale e religione: prima de L’anticristo Chi si dedica allo studio di Nietzsche sa bene che la sua opera non si presta a suddivisioni convenzionali e a riassunti sommari. Questo in parte è dovuto al modo stesso in cui il filosofo si esprime nei suoi scritti. Del resto, la composizione è il fedele riflesso del suo atteggiamento asistematico nei confronti della filosofia. Lo stesso Nietzsche dichiara di essere diffidente verso ogni sistema in generale, e di non essere abbastanza ottuso per fondarne uno tutto suo. Lui, «lo scriba del caos»2, predilige la forma aforistica al saggio, il «pensiero nomade» e le «verità provvisorie» alle dottrine e ai dogmi. Ma l’opera di Nietzsche non si presta neppure a facili interpretazioni o classificazioni. Il suo pensiero, i concetti che esprime, non evolvono secondo un percorso lineare e progressivo: il suo è un «pensiero in divenire», discontinuo, irregolare, che porta in sé rottura e continuità. Le stesse tematiche, dopo esser state abbandonate, vengono riprese e rielaborate in un’ottica totalmente nuova. Perché la verità non è una sola e Nietzsche non vuole offrire al lettore un’unica interpretazione, ma ipotesi, tracce quasi impalpabili della realtà. L’Anticristo, pur presentando riflessioni già contenute in altre opere precedenti del filosofo, è molto più di una raccolta priva di originalità. È un’opera profonda e matura che rielabora e porta avanti il pensiero di Nietzsche. L’Anticristo rappresenta in qualche modo l’atto conclusivo di un lungo e tormentato iter filosofico e interiore che vede come protagonisti la religione, l’etica e l’uomo moderno in generale. Ed è per questo che diviene essenziale esaminare brevemente le tappe che hanno scandito questo percorso; perché

È la definizione che ne dà F. Masini nel suo libro omonimo. Vedi Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Il Mulino, Bologna 1983. 2


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sono queste che conducono al pensiero maturo di Nietzsche; sono queste che ci aiutano a capire la genesi, il senso e la portata de L’Anticristo. Prima di iniziare questo breve excursus, sono doverose due precisazioni: una riguarda i contenuti de L’Anticristo e la critica della morale; l’altra concerne l’aspetto formale con cui verranno proposte le opere del filosofo. Innanzitutto va detto che la critica di Nietzsche non intende colpire il cristianesimo come religione, ma piuttosto il cristianesimo in quanto morale, in quanto dottrina che pretende di fornire verità assolute e dogmi incontestabili e che quindi cerca di «incastrare» la realtà in orizzonti chiusi e definiti. Per Nietzsche, infatti quelle che vengono spacciate per solide verità, non sono che prospettive, punti di vista e, in quanto tali, mutevoli e soggettivi. La realtà «scorre» incessantemente, e, alla stregua del fiume eracliteo, non è mai la stessa; essa muta in ogni momento e a seconda dell’osservatore e della sua ottica. Nel mondo non domina affatto la certezza, ma il caos e il caso, e la verità lascia il posto a una serie infinita di interpretazioni di essa. In quest’ottica, la morale e il cristianesimo hanno molto in comune: innanzitutto il fatto di voler arrogarsi il diritto di unici depositari della verità. Entrambi pretendono di imprigionare la realtà in schemi fissi o di assoggettarla a concetti astratti e a valori trascendenti. Entrambi credono nell’esistenza di un «mondo vero», di un mondo dietro al mondo: ma per Nietzsche non c’è nessun «mondo vero», e solo con questa «scoperta», la filosofia può divenire matura e autocosciente. L’altra precisazione è di carattere formale: riguarda il modo con cui s’intende procedere alla presentazione delle opere. Perché, se il pensiero di Nietzsche è libero, aperto, allora descrivere e analizzare la sua opera potrebbe diventare un’operazione arida e contraria alla sua filosofia. Qui non si tratta di dimostrare,


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ma soltanto di mostrare: mostrare il filosofo attraverso quello che scrive. E allora il nostro sarà un viaggio ideale per esplorare cronologicamente le opere di Nietzsche e per capire, attraverso noti aforismi che riguardano la morale religiosa, come si arrivi alla stesura de L’Anticristo.

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Le opere giovanili

«Il cristianesimo è stato, fin dall’inizio, essenzialmente e profondamente, disgusto e sazietà della vita per la vita, che si travestiva, si occultava, si mascherava solamente della fede in un’“altra” e “migliore” vita. L’odio per il “mondo”, la maledizione degli affetti, la paura della bellezza e della sensualità, un “al di là” inventato per meglio calunniare l’“al di qua”, un desiderio che infondo tende al nulla, alla fine, al riposo, fino al “sabbato dei sabati”».3

Già in questo passo de La nascita della tragedia, un’opera giovanile del 1872, si possono intravedere tutti i principali motivi che portano Nietzsche alla critica del cristianesimo, inteso come morale che degrada la vita e il mondo; come morale che tende all’annientamento delle passioni; che aspira alla fine, che vede nella morte l’unico accesso ad un mondo dietro il mondo, ma che per questo, conduce al nichilismo. Del resto, la problematica centrale dell’opera non è ancora il cristianesimo, come nota lo stesso Nietzsche molti anni dopo:

«Sul cristianesimo si mantiene invece un silenzio profondo, ostile, che pervade tutto il libro: esso non è né apollineo, né dionisiaco, nega tutti i valori estetici, e gli unici valori importanti per la Nascita della tragedia; la sua dottrina è nichilista nel più ampio significato della parola, mentre nel simbolo dionisiaco si raggiunge il 3

Nietzsche, La nascita della tragedia, Longanesi&C., Milano 1976, §5, p.10.


10 limite estremo dell’affermazione. In un punto si accenna ai sacerdoti come ad una “specie di nani”, di “esseri sotterranei”».4

In effetti il motivo centrale dell’opera è l’opposizione fra spirito «dionisiaco» e spirito «apollineo», ovvero fra i due impulsi di base dell’arte greca.5 Ma ciò che più ci interessa di questo scritto è la celebrazione dello spirito tragico che coincide con la celebrazione della vita nella sua totalità. Perché la vita è anche lotta, caos, distruzione, morte, ma lo spirito tragico, anziché scappare da essa, la accetta per tutto quello che è. Non solo. La ama. Esalta ogni suo aspetto e, anziché eliminare le contraddizioni dell’esistenza, le fa sue, le assume su di sé con gioia ed entusiasmo. E chi meglio di Dioniso potrebbe incarnare tutto questo? Chi meglio del dio dell’ebbrezza, della gioia, il dio delle passioni? Chi meglio del dio fatto a pezzi che, con la sua morte, ridà la vita? Dioniso incarna quella «fedeltà alla terra» sempre cara a Nietzsche. Egli diviene il simbolo del «sì» totale all’esistenza e al mondo ed è proprio lui che diverrà il «rivale» del «Dio in croce».

«Una religione che di tutte le ore di una vita umana ritiene l’ultima la più importante, che predice una fine della vita sulla terra e condanna tutti i vivi a vivere nel quinto atto della tragedia, stimola certamente le forze più profonde e nobili, ma è ostile a ogni nuova coltivazione, ogni ardito esperimento, ogni libero desiderio; si oppone a ogni volo nell’ignoto, poiché là non c’è amore né speranza per lei; solo controvoglia essa si lascia imporre ciò che diviene, per scartarlo o sacrificarlo al tempo giusto come qualcosa che seduce all’esistenza, come qualcosa che mente sul valore dell’esistenza».6 Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni” in Ecce Homo, Rusconi, Rimini 2005, p. 40. Abbagnano N. – Fornero G., Protagonisti e Testi della Filosofia, Mondadori, Milano 2000, Volume D Tomo 1, p. 10. 6 Nietzsche, “Utilità e danno della storia” in Considerazioni inattuali, Einaudi, Torino 1981, pp. 133-134. 4 5


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Anche nella Seconda Inattuale, Nietzsche ribadisce uno dei motivi che lo spingono a rifiutare la morale religiosa. Per lui si tratta di accettare questa vita e non di deprezzarla in vista di una vita futura dopo la vita come fa il cristianesimo il quale considera «l’ultima ora» come la più importante e, in questo modo, dimentica la fedeltà alla terra e all’unica esistenza che sia veramente data. Senza contare l’ostilità che la Chiesa nutre nei confronti dell’esperimento, della ricerca: essa è contraria a tutto ciò che può minacciarne l’autorità e la credibilità. Per questo, la Chiesa diviene un freno per tutto ciò che è nuovo, che si trasforma, per tutto ciò che viene avvertito in contrasto con le verità eterne della morale che essa propina da secoli. A questo tipo di considerazioni a carattere storico, se ne aggiungono altre di ordine etico che riguardano soprattutto il successo del cristianesimo nella Storia. Nietzsche nega il rapporto successo-grandezza, affermando che il trionfo di qualcosa non sempre è conseguenza della sua eccellenza. Anzi. «Le cose nobili ed elevate non agiscono affatto sulle masse»7, e il fatto che il cristianesimo abbia preso piede proprio tra i ceti più umili e incolti, è già una prova del suo scarso valore.

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Il periodo «illuministico»

«Umano troppo umano è il monumento commemorativo di una crisi. Potrebbe essere intitolato anche libro per spiriti liberi; quasi ogni sua frase esprime una vittoria: grazie ad esso, infatti, io mi liberai da ciò che era estraneo alla mia natura. L’idealismo non mi appartiene; il titolo dice: “Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane, ah! Troppo umane…”. Io conosco meglio di voi l’uomo… […] Gli errori

7

Ivi, p. 148.


12 vengono posti uno dopo l’altro sul ghiaccio, senza fatica; l’Ideale non viene confutato, esso congela…».8

Umano troppo umano segna certamente una nuova fase del pensiero e della vita di Nietzsche. È l’abbandono di Wagner e Schopenhauer ed è l’inizio del «periodo illuministico». Con quest’opera comincia la ricerca dello spirito libero e la contestazione delle «verità assolute» della morale che, in realtà, sono soltanto creazioni umane, troppo umane. Anche qui non mancano i motivi per la critica del cristianesimo. Nell’aforisma 989 viene denunciata l’ipocrisia e la mendacità di una Chiesa che si limita a predicare il messaggio evangelico senza avere la volontà di metterlo in pratica. La fede cieca nell’autorità della Bibbia non è sufficiente ed è insensata: perché ciò che conta sono le azioni; perché sono i gesti che dovrebbero in ogni istante vivificare il messaggio del Libro. Il comportamento scorretto del clero, però, non esclude la possibilità di un cristianesimo diverso. L’aforisma 9610 affronta proprio questa tematica. Nietzsche avverte che il cristianesimo, così come fu pensato e voluto da Gesù, e non come viene predicato dai sacerdoti, è ancora realizzabile. Non solo. Esso è anche auspicabile. Perché il cristianesimo originario induce ad amare anche il nemico, insegna agli uomini che la virtù e la vicinanza a Dio sono attuabili; fa credere che una perfezione quasi celeste sia possibile anche per l’uomo. Poco importa che quell’amore o quella perfezione siano reali: ciò che conta è che vengano ritenuti tali. Ciò che conta è l’esito positivo: e il cristianesimo, per mezzo della credenza, può effettivamente donare agli uomini una vita beata. «L’errore quindi può dunque trasformare in verità la promessa di Cristo».11 Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni” in Ecce Homo, op. cit. pp. 48-49. Nietzsche, “Istrionismo e sincerità degli increduli” in Umano, troppo umano, Vol. II, Adelphi, Milano 2003, pp. 39-41. 10 Nietzsche, “Il cristianesimo adempiuto” in Umano Troppo umano, II, op. cit. pp. 38-39. 11 Ivi, p. 39 (corsivo nel testo). 8 9


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Interessante, infine è l’aforisma 22512 in cui Nietzsche descrive la religione come un meccanismo astuto e calcolatore, capace di inventare spiegazioni e scappatoie per giustificare l’ingiustificabile assenza di Dio. La verità è che l’individuo stesso, con la credenza, con la speranza, crea gli oggetti della sua fede. La verità è che «la fede non ha potuto ancora spostare nessuna vera montagna, benché qualcuno – non so chi – l’abbia asserito; ma essa può mettere delle montagne dove non ce ne sono».13

«[…] Questo libro non è che un’affermazione, che spande la sua luce, il suo amore, la sua tenerezza sulle cose cattive, rendendo loro “l’anima”, la buona coscienza, l’alto diritto e il privilegio di esistere. La morale non viene solo combattuta, non è nemmeno presa in considerazione…[…]».14

Qui Nietzsche descrive Aurora, l’opera con cui inaugura la sua vera e propria battaglia contro i valori etici. Si tratta di una questione vitale, di una «guerra ai pregiudizi» dal cui esito dipende «il futuro dell’umanità».15 Gli uomini infatti, hanno finora vissuto seguendo una morale contraria alla verità, calunniatrice del corpo e della vita; una morale che trova la sua realizzazione nella fine; una morale della rinuncia, una morale fisiologicamente errata. È chiaro che, in un tale contesto, la religione ha avuto un peso molto rilevante: i sacerdoti hanno fatto credere all’umanità che la morale da loro proposta fosse la morale per eccellenza e, in questo modo, hanno portato l’intera umanità verso la rovina. Con quest’opera, Nietzsche vuole dimostrare l’infondatezza di tutti quei valori etici che l’uomo ha sempre accettato acriticamente. Vuole Ivi, “La fede rende beati e dannati”, pp. 89-90. Ivi, p. 90. 14 Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni in Ecce homo, op. cit., p. 55. 15 Ivi, p. 56. 12 13


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dimostrare che i concetti di «spirito», di «libero arbitrio», di «Dio» sono soltanto concetti vuoti dietro cui si nasconde la volontà dei sacerdoti di mortificare i sensi, la natura, il corpo e di rendere malati gli uomini. Ancora una volta Nietzsche sostiene l’origine puramente umana non solo della religione, ma dell’intera morale coi suoi falsi valori. Del resto, il filosofo dichiara nella prefazione che anche lui, spirito libero, deve avvalersi di un ultimo «Tu devi», di un’ultima morale: ma si tratta di una morale che nega, una morale che ormai diffida di tutti i valori trascendenti, di tutti gli antichi ideali. Una morale che alla fine non ha timore di negare neppure se stessa e che finisce per configurarsi come autosoppressione della morale. A questo proposito è molto interessante l’aforisma che riguarda «il sacrificio necessario».16 Nietzsche qui si indirizza a «quegli uomini seri, forti, giusti, profondamente sensibili, che ancor oggi sono cristiani di cuore»17, a coloro che, ancora attaccati alle loro piccole certezze, odiano chi fa loro intendere che «al di là della zolla c’è ancora appunto il mondo, il mondo tutto».18 Questi cristiani hanno il dovere di prender congedo almeno una volta dalla loro fede; hanno il dovere di lasciare per un po’ il loro angolino cristiano per recarsi nel mondo, nel mondo nella sua totalità. Solo così potranno pronunciarsi in un discorso obiettivo sul cristianesimo; solo così potranno provare a se stessi che il cristianesimo è necessario, indispensabile. Fino ad allora la loro testimonianza non ha alcun valore: perché chi non ha vissuto ogni tipo di valore insieme al suo opposto, non ha il diritto di esprimersi a riguardo. Si deve provare tutto e il contrario di tutto: solo allora il mondo, lungi dall’essere un minuscolo cantuccio, diventa il mondo tutto.

Nietzsche, Aurora. Adelphi, Milano 1994, aforisma 61, pp. 46-47. Ivi, p. 46. 18 Ivi, p. 47. 16 17


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Per la prima volta viene anche evocato il detestato Paolo, il «primo cristiano»19, una delle «anime più ambiziose e più moleste».20 Nietzsche dichiara che senza l’intervento di Paolo non sarebbe mai esistita una cristianità. Torneremo più avanti su quest’argomento e sulla stridente opposizione tra la figura di Paolo e quella di Gesù. Interessante è poi l’aforisma 78 che riguarda la giustizia punitiva.21 Per Nietzsche solo la Chiesa cristiana ritiene che esista un nesso logico tra infelicità e colpa; solo il cristiano è convinto che ogni disgrazia, ogni catastrofe sia la diretta conseguenza di una colpa, grave quanto invisibile. Nietzsche qui effettua un confronto tra pagani e cristiani, mettendo in luce il fatto che solo con i secondi è nata una giustizia divina che giudica e condanna sulla base di un peccato commesso. Nell’antichità classica, al contrario, «esisteva

realmente

ancora

infelicità,

pura

innocente

infelicità».22

Col

cristianesimo fa il suo ingresso nel mondo il peccato e «tutto diventa punizione, punizione ben meritata».23 Un lungo aforisma24 tratta anche della totale mancanza di senso filologico nel cristiano che, lungi dallo studiare e interpretare la Scrittura, ne distorce il messaggio, lo strumentalizza, lo altera in vista dei propri fini: per colpire gli avversari, per far credere che in ogni passo dell’Antico Testamento siano già presagiti l’avvento di Cristo e la sua crocifissione.

«Quanto poco il cristianesimo educhi il senso dell’onestà e della giustizia, lo si può valutare abbastanza bene dal carattere degli scritti dei suoi dotti: essi espongono

Ivi, aforisma 68, pp. 49-52. Ivi, p. 49. 21 Ivi, p. 60. 22 Ivi. 23 Ivi. 24 Ivi, aforisma 84, pp. 62-63. 19 20


16 con tale sicumera le loro congetture, come fossero dogmi, e di rado si trovano in un onesto imbarazzo riguardo all’interpretazione di un passo biblico».25

Tra gli aforismi più rilevanti è il 95 che riguarda la confutazione storica del cristianesimo.26 È qui che traspare il reale obiettivo di Nietzsche, un obiettivo che non consiste semplicemente nel dimostrare che non c’è alcun Dio; limitandosi a questo, infatti, resterebbe sempre la possibilità di trovare altre e migliori prove per sostenerne l’esistenza. Si tratta di altro: si tratta di mostrare «come ha potuto avere origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua».27 Si tratta di rivelare gli impulsi nascosti che sono alla base del sentimento della fede; si tratta di una confutazione che va ad abbattere la credenza alla sua origine e che quindi non può più in alcun modo venir confutata. La gaia scienza riprende molte delle tematiche di Aurora, ne porta avanti il pensiero, lo approfondisce e per certi versi prepara l’avvento dello Zarathustra. Nell’ultra citato aforisma 125 compare il primo annuncio della «morte di Dio». Il protagonista dell’aforisma è un insolito personaggio, un «folle» in cui si identifica l’autore stesso che fa il suo ingresso plateale nella piazza di un mercato. Questo Diogene moderno, tenendo in mano una lanterna in pieno giorno, vaga disperato alla ricerca di Dio. Nonostante lo scherno e lo scetticismo che lo circondano, il pazzo si rivolge ai presenti e a gran voce denuncia l’assassinio di Dio compiuto dall’uomo:

Ivi, p. 62. Ivi, p. 68. 27 Ivi. 25 26


17 «Cerco Dio! Cerco Dio! […] Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! […] Dio è morto! Dio continua ad essere morto! E noi lo abbiamo ucciso! […]».28

Del resto il folle è ben consapevole che la sua comparsa e il suo annuncio sono prematuri, egli sa che gli uomini non sono ancora pronti a rinunciare a Dio.

«[…] Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini […]».29

Ma il folle non si arrende; diffonde il suo annuncio, ed intona il suo Requiem æternam Deo perfino in molte chiese dove, una volta interrogato e cacciato, si limita a rispondere: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».30 Nell’aforisma 13531 Nietzsche accusa i Giudei di aver inventato il senso del peccato anche se, solo con la Chiesa cattolica, esso giunge al suo culmine e si diffonde a livello mondiale. Da questa riflessione nasce di nuovo il confronto tra cristianesimo e antichità greca. Nella visione greca il peccato è del tutto assente; i Greci «si avvicinarono al pensiero che anche il crimine potesse avere una sua dignità […] nella loro esigenza di attribuire una dignità al delitto e di incavarvela,

essi

hanno

inventato

la

tragedia

[…]».32

Ecco

l’antitesi

fondamentale: non solo nell’antichità esisteva ancora la pura infelicità, ma dal delitto poteva sgorgare l’arte; nel cristianesimo invece dal delitto nasce solo il Nietzsche F.W., La gaia scienza, Einaudi, Torino 1979, aforisma 125, pp. 123-124 (corsivo nel testo). Ivi, p. 124. 30 Ivi. 31 Ivi, pp. 128-129. 32 Ivi, p. 129 (corsivo nel testo). 28 29


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castigo e l’infelicità. Questa antitetica visione nei confronti della felicità e della vita viene esplicitata anche nell’aforisma 13933, dove l’ostilità di Paolo nei confronti delle passioni viene contrapposta alla divinizzazione delle passioni da parte dei Greci. Mentre Paolo vuole purificarsi dalle passioni, vedendo in esse qualcosa di «sudicio, deformante e straziante», i Greci trovano la loro purezza proprio in esse. Non manca neppure una seria trattazione sul valore e la funzione della preghiera.34 In realtà Nietzsche ritiene che la preghiera sia stata inventata dai sacerdoti per quegli uomini privi della facoltà di pensare e poveri di spirito. La preghiera è soltanto un orpello, un astuto espediente perché quegli individui «non rechino disturbo».35 Gli uomini davvero religiosi – del resto molto rari –, ovvero quegli uomini devoti che sanno pensare autonomamente e hanno la capacità di elevarsi spiritualmente, non hanno affatto bisogno della preghiera. Per gli altri invece, per i poveri di spirito, essere privati di questo gesto puramente esteriore e decorativo significherebbe essere spogliati anche della loro religione.

«La religione vuole appunto da questi tali nulla più che il loro starsene quieti, con occhi,

mani,

gambe

e

organi

di

ogni

specie:

con

temporaneamente resi più belli – e più simili agli uomini!».36

Ivi, aforisma 139, p. 130. Cfr. ivi, “Il valore della preghiera”, aforisma 128, p. 126-127. 35 Ivi, p. 128. 36 Ivi, p. 129. 33 34

ciò

essi

vengono


19

Infine, è da sottolineare la critica che Nietzsche rivolge al Dio cristiano: un Dio in ultima analisi, «troppo ebreo»37, un Dio che non può fare a meno di giudicare, un Dio «Troppo orientale»38:

«Come? Un Dio che ama gli uomini a condizione che abbiano fede in lui, e che fulmina con sguardi terribili e minacce chi non crede in questo amore! Come? Un amore messo in clausole sarebbe il sentimento di un Dio onnipotente! Un amore che neppure è riuscito a padroneggiare il senso dell’onore e l’eccitata sete di vendetta! Com’è orientale tutto questo! “Se io ti amo, a te che importa?” è già una critica bastante di tutto il cristianesimo».39

Viene inoltre ripreso il proposito già dichiarato in Aurora di abbattere la religione attraverso la confutazione dei suoi fondamenti40. Infatti, anche se Dio è ormai morto, gli uomini continuano a percepirne la presenza, e a seguire le regole morali imposte dalla religione. Dio è morto, ma resta la sua ombra, un’ombra che incombe ancora su tutta l’Europa e che Nietzsche si propone di annientare. Solo così potranno sorgere nuovi valori. Nel Libro Quarto, infine si trova la formulazione di un altro concetto fondamentale della filosofia di Nietzsche: l’eterno ritorno. In realtà nell’aforisma 341, Nietzsche non utilizza ancora questa terminologia, ma già si intravedono tutti i principi fondanti della teoria: l’idea di una vita che si ripete infinite volte, la decisione dell’uomo di sopportare la portata di una tale concezione, l’accettazione

dell’eterno

ritorno

come

dell’esistenza. Ivi, aforisma 140, p. 131. Ivi, aforisma 141, p. 131. 39 Ivi (corsivo nel testo). 40 Vedi Nietzsche, Aurora, op. cit., aforisma 95, p. 68. 37 38

accettazione

ed

esaltazione


20

1..3

Gli scritti del tramonto

Al di là del bene e del male è «nell’essenza, una critica alla modernità, comprese le scienze moderne, le arti moderne, e perfino la politica moderna con accenni al tipo opposto, tutt’altro che moderno, un elemento distinto e affermativo […] Se si pensa che il libro segue la pubblicazione del Zarathustra, è facile indovinare il regime dietetico a cui deve la sua origine. L’occhio abituato (da un’immensa costrizione) a guardare lontano, Zarathustra vede più lontano dello zar, è costretto qui a gettare uno sguardo acuto sulle cose più vicine, al tempo, a ciò che gli sta attorno […]».41 In effetti Nietzsche in Al di là del bene e del male, così come ne La genealogia della morale si propone di risalire all’origine dei comportamenti morali. Il filosofo adesso vuole abbattere definitivamente l’intero complesso di valori etici, perché solo così sarà poi possibile una trasvalutazione di tutti i valori. Nella parte terza dell’opera, dal titolo Lo spirito religioso, viene ribadito il giudizio negativo sulla fede cristiana. Il cristianesimo è criticato in quanto morale scaturita dal risentimento e dall’odio degli «schiavi», dei deboli, dei «malati». Ne deriva una morale contraria alla vita, agli istinti, ai «signori»; una morale che giudica, che condanna, che sacrifica la salute e disprezza le passioni.

«La fede cristiana è fin dal principio sacrificio: sacrificio di ogni libertà, di ogni orgoglio, di ogni consapevolezza di sé dello spirito; e contemporaneamente asservimento e dileggio di sé, automutilazione».42

41 42

Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni” in Ecce homo, op. cit., p. 70. Nietzsche F.W., Al di là del bene e del male, Rizzoli, Milano 2003, aforisma 46, pp. 89-90.


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Non manca il riferimento al «Dio in croce»43, simbolo che si oppone a tutti i valori dell’antichità classica. Ritorna infatti il confronto con i Greci, con la loro gioia di vivere, con il loro amore per la natura, il corpo, gli istinti, la salute:

«Ciò che fa meraviglia, nella religiosità degli antichi Greci, è la strabocchevole pienezza di gratitudine che ne prorompe: è un tipo d’uomo nobilissimo, quello che si pone così di fronte alla natura e alla vita! Più tardi, quando in Grecia la plebe prese il sopravvento, la paura lussureggiò anche nella religione: si andava preparando il cristianesimo».44

Un'altra problematica di rilievo che verrà ripresa anche in opere successive, riguarda la svalutazione non soltanto morale, ma anche letteraria del Nuovo Testamento, il «libro della grazia»45 dal «tanfo dolciastro».46 Per Nietzsche è un’eresia anche solo accostarlo all’Antico Testamento, «il libro della giustizia divina»47 col suo stile grandioso e le «immense reliquie di ciò che una volta fu l’uomo».48 Tant’è che per Nietzsche avere incollato insieme i due Libri in un’unica «Bibbia» costituisce «forse la maggiore temerarietà e il maggior “peccato contro lo spirito” che l’Europa letteraria abbia sulla coscienza».49 È qui che emerge non solo il Nietzsche immoralista, ma anche il Nietzsche filologo e storico. Il cristianesimo e il buddismo, più volte contrapposti a svantaggio del primo, vengono posti sullo stesso piano nell’aforisma 61.50 Entrambi vengono a configurarsi come «religioni della sofferenza», come culti che sfruttano il dolore Ivi, p. 90. Ivi, aforisma 49, p. 93 (corsivo nel testo). 45 Ivi, aforisma 52, p. 95. 46 Ivi. 47 Ivi. 48 Ivi. 49 Ivi. 50 Ivi, aforisma 61, pp. 102-104. 43 44


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e che, anche se in modi diversi, lo giustificano: da questo dipende il loro valore consolatorio. Ma cristianesimo e buddismo sono accomunati anche sotto un altro aspetto, più sociale che morale; entrambi, infatti, portano l’individuo ad accettare il posto che gli è stato assegnato all’interno della gerarchia sociale e a sopportare con umiltà l’ordine effettivo delle cose, dandogli l’illusione che si tratti della volontà di un ordine superiore. Tra i più interessanti è infine l’aforisma 6251, in cui Nietzsche denuncia la deformazione e la degradazione a cui l’uomo e il mondo sono stati sottoposti ad opera del cristianesimo.

«Capovolgere tutti i giudizi di valore – ecco cosa dovettero fare! E spezzare i forti, ammorbare le grandi speranze, rendere sospetta la felicità nella bellezza, fiaccare ogni senso di sovranità, di virilità, di conquista, di avidità di potere, tutti gli istinti che sono propri del tipo “uomo” più alto e riuscito, trasformando tutto ciò in insicurezza, tormento di coscienza e autodistruzione, anzi tramutando tutto l’amore per ciò che è terrestre e per il dominio sulla terra in odio contro la terra e le cose terrene – questo si prefisse e dovette prefiggersi la Chiesa come suo compito […] Non sembra, infatti, che per diciotto secoli abbia dominato in Europa questa sola volontà di fare dell’uomo un sublime aborto?».52

Lo scopo di Nietzsche consiste, invece, nel capovolgere nuovamente tutti i valori proposti e imposti dalla Chiesa. Il suo scopo è una morale aristocratica, intesa nel senso umanistico-rinascimentale; è una morale che privilegia la forza e la salute; una morale che vuole mettere in luce gli istinti e le qualità superiori

51 52

Ivi, aforisma 61, pp. 104-106. Ivi (corsivo nel testo).


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dell’uomo; una morale che predilige l’egoismo e l’individualità, che rifiuta la pietà, che esalta la bellezza e l’amore per la vita e il mondo. La genealogia della morale, è un’opera profondamente polemica che si compone di tre distinte dissertazioni riguardanti la critica dei valori etici. Nella prima sono messi in questione i concetti di «buono» e «cattivo» che mutano al cambiare del contesto in cui sono espressi, ovvero se inseriti in una «morale degli schiavi» o in una «morale dei signori». Tant’è che il «cattivo» descritto nella morale degli schiavi, coincide col «buono» dell’altra morale e viceversa. Ma la «morale del gregge»53 non può che corrispondere alla morale cristiana.

«La verità della prima dissertazione è la psicologia del cristianesimo: l’origine del cristianesimo dallo spirito del risentimento e non, come si crede generalmente, dallo “spirito”; esso è stato, per sua natura, un movimento di reazione, una grande sollevazione contro il dominio dei valori nobili».54

I giudizi di valore aristocratici implicano la salute del corpo, la libertà di pensiero, implicano una certa prestanza fisica in grado di garantire un agire forte, determinato, esultante. Ma i valori aristocratici sono l’esatto opposto di quelli cristiani. Per questo i sacerdoti, incapaci di raggiungere l’ideale aristocratico, decidono di vendicarsi, capovolgendo tutti i valori in modo da incarnare il modello per eccellenza di una nuova scala di valori. Lo spirito di vendetta, il sordo risentimento sono all’origine della morale cristiana; i preti divengono «i massimi odiatori nella storia del mondo», gli acerrimi avversari dell’uomo forte e della natura.

La «morale degli schiavi» e la «morale del gregge», nella terminologia nietzscheana, sono concetti affini. 54 Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni” in Ecce homo, op. cit. p. 71. 53


24 «I sacerdoti com’è noto sono i nemici più malvagi – e perché mai? Perché sono i più impotenti. È a causa dell’impotenza che l’odio cresce in loro fino ad assumere proporzioni mostruose e sinistre […]».55

La seconda dissertazione riguarda invece la genealogia del senso di colpa, della «cattiva coscienza» che nasce nel momento in cui gli istinti più malati, non trovando sfogo all’esterno, si rifugiano all’interno dell’uomo, producendo esiti drammatici. Qui sembra quasi che Nietzsche abbia anticipato Freud e la psicanalisi: egli intuisce che le pulsioni non possono essere eliminate, ma soltanto «spostate», «rimosse» nell’inconscio. Naturalmente tali impulsi, se non possono esprimersi in maniera sana, naturale, se vengono rifiutati, si palesano in modi morbosi, alterati e perversi. Sono queste brillanti considerazioni che portano Nietzsche a formulare una precisa e dettagliata psicologia del «tipo cristiano». La terza dissertazione, infine, riguarda il valore e il potere dell’ideale ascetico, e contiene «la prima psicologia del sacerdote».56

«L’appellativo “idoli” riportato nel titolo sta a significare quello che finora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli, in altre parole, vuol dire che la vecchia verità si sta avvicinando alla sua fine… Non esiste idealità che non venga toccata da questo libro (toccata è un prudente eufemismo!... Non solo gli idoli eterni, ma anche i più recenti, e quindi i più vacillanti: come per esempio le “idee moderne” […]».57

Il Crepuscolo degli idoli, per certi versi, è l’opera che conclude il percorso «distruttivo» di Nietzsche: infatti, solo dopo aver abbattuto tutti gli «idoli», dopo Nietzsche F.W., Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2006, § 7, pp. 21-23 (corsivo nel testo). Nietzsche, “Perché scrivo libri così buoni” in Ecce homo, op. cit., p. 71. 57 Ivi, p. 72. 55 56


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aver dimostrato che in realtà la «verità» è menzogna, ci si può dedicare alla trasvalutazione di tutti i valori. Quest’opera è l’atto finale di un lungo iter condotto contro i principi e i valori della morale. Nel Crepuscolo degli idoli, Nietzsche si scaglia ancora più violentemente contro la morale cristiana, una morale «contronatura»58, che si oppone alla «terra» e agli istinti più genuini e sani dell’uomo. Uno dei più grandi errori del cristianesimo è stato quello di voler a tutti i costi sradicare le passioni. Ma per riuscire nel suo intento, per vanificare il potere di tali impulsi, la Chiesa non ha trovato altra soluzione che quella di estirpare ogni istinto: «la sua pratica, la sua “terapia” è il castratismo».59 Ma questo è il crimine più nefando; perché attaccare le passioni significa attaccare la vita nella sua interezza: la Chiesa, quindi, è nemica dei sensi e ostile all’esistenza. Ma se la vita e la natura sono valori che la morale cristiana si prefigge di annichilire, quest’ultima, per farlo, deve servirsi necessariamente di anti-valori. Si assiste allora alla contrapposizione fra una morale sana e la morale malata proposta dal cristianesimo:

«Riduco in formula un principio. Ogni naturalismo nella morale, vale a dire ogni morale sana è dominata da un istinto della vita […] La morale avversa alla natura, vale a dire quasi ogni morale che sia stata insegnata, venerata e predicata fino a oggi, si volge viceversa proprio contro gli istinti della vita – è una condanna ora segreta, ora aperta e sfrontata, di quegli istinti […]».60

Vedi l’omonimo capitolo: Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1975, p. 77. Nietzsche, “Morale come contronatura” in Crepuscolo degli idoli, op. cit., p. 77. 60 Ivi, p. 81 (corsivo nel testo). 58 59


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Il cristianesimo è, in ultima analisi, la contronatura che diventa morale. Alla fine del capitolo dedicato ai «quattro grandi errori»61, Nietzsche annuncia quella che può essere considerata la «nostra tesi»62, l’unica dottrina possibile. In sintesi essa consiste nel purificare la storia, la natura e le istituzioni dal concetto di «colpa» e «castigo»; nel ritenere che l’uomo e il mondo siano indestinati e irresponsabili del loro essere ed esistere; che lo scopo sia assente, che sia solo un’invenzione umana, che non esista nessuna causa prima, ma che tutto sia determinato dal fato.

«Noi neghiamo Dio, neghiamo in Dio la responsabilità: soltanto in questo modo noi redimiamo il mondo».63

Con L’Anticristo, per certi versi, si apre una nuova fase, non soltanto negativa, ma anche propositiva. Con quest’opera sono gli intenti a modificarsi: non si tratta più solamente di obiettivi morali, ma soprattutto «fisiologici» e politici; non si tratta più di «purificare» il mondo dai valori della morale cristiana, ma di fondarne di nuovi e di proporre nuove «leggi» per uomini liberati dal peso dell’etica. Nuovi valori e una nuova regola di vita fondata sulla salute, sulla naturalità degli istinti e sulla forza; nuove regole per un uomo che potremmo definire postmoderno: questo è il proposito dichiarato de L’Anticristo.

Nietzsche, “I quattro grandi errori” in Crepuscolo degli idoli, op. cit. pp. 84-93. Ivi, 92. 63 Ivi, p. 93. 61 62


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CAPITOLO 2 Perché L’Anticristo «Si compie un nuovo passo verso l’indipendenza, quando si osa manifestare opinioni che sono considerate vergognose per colui che le nutre: allora anche gli amici e i conoscenti sogliono spaventarsi. La natura dotata deve passare anche attraverso questo fuoco; in seguito apparterrà ancor di più a se stessa».64

Se l’unico atteggiamento possibile nei confronti della vita è l’accettazione incondizionata e totale; se gli istinti sono più importanti delle convinzioni; se l’uguaglianza fra gli uomini e la pietà sono delitti contro la natura; se il libero arbitrio e un ordinamento etico del mondo sono soltanto invenzioni; se tutto ciò che conta alla fine, è la fedeltà alla terra e la volontà di verità, allora l’attacco sferrato da Nietzsche al cristianesimo evade dai confini di una critica eticoreligiosa; allora si percepisce che il termine «cristiano» qui allude anche a qualcos’altro. Quella di Nietzsche è una critica impietosa e totale che intende disfarsi di tutti gli ideali, valori e convinzioni che sono stati per duemila anni il fondamento non di un culto, ma dell’umanità intera. Quello di Nietzsche è un attacco all’uomo moderno, all’uomo della morale, all’«ultimo uomo». Senza mai dimenticare che il termine cristiano non è che un fraintendimento, dal momento che per Nietzsche è esistito un solo cristiano, morto sulla croce per i suoi peccati e non per quelli di altri: con lui finì anche la «buona novella», con lui morì il cristianesimo.

Nietzsche, Umano troppo umano, I. Frammenti postumi (1876-1878) in: Opere, Vol. IV, tomo II, Adelphi, Milano 1978, p. 293. 64


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Ne L’Anticristo sono confluiti i risultati di numerose letture di storia delle origini cristiane e di storia dell’Islam; ma anche di psicologia, di filologia, di storia della morale e di antropologia. Tuttavia, quando Nietzsche si trova a dover scegliere le sue fonti privilegiate, non va a cercarle tra gli storici, né tra i filosofi, ma tra i massimi esponenti della letteratura russa. Sono Dostoevskij e Tolstoj65 a ispirargli alcune delle sue idee chiave: il primo gli fornisce importanti elementi per la storia del concetto di Dio, il secondo gli suggerisce un abbozzo della psicologia del redentore; dall’uno eredita il concetto di idiotismo, dall’altro prende a prestito l’idea dell’anarchismo di Gesù. Ma ogni idea, ogni spunto, ogni lettura, nella mente di Nietzsche subiscono trasformazioni originali: L’Anticristo non si limita a riproporre concetti e opinioni già noti, ma li fa propri e li rielabora, dà loro nuove forme e interpretazioni. L’Anticristo riflette e, per certi versi riassume il pensiero maturo di Nietzsche: in esso si ritrovano convinzioni già elaborate in altri scritti capitali, ma i propositi sono ormai mutati. Con quest’opera il filosofo non vuole limitarsi ad abbattere e distruggere, ma intende anche edificare: intende fondare una nuova regola di vita, una nuova scala di valori per uomini diversi, per oltre-uomini che devono ancora nascere, che devono sorgere dai resti dell’uomo moderno, del cristiano. E allora, perché L’Anticristo? Perché per lo stesso Nietzsche questo scritto assume un valore molto particolare: esso diviene il manifesto di un nuovo modo di pensare, di vedere, di percepire la realtà; diviene l’annuncio di una nuova era, diviene il simbolo della verità svelata, del ritorno alla terra.

Dagli appunti di Nietzsche risulta che il filosofo aveva letto la traduzione in francese di Ma religion di Tolstoj da cui aveva ereditato la concezione del cristianesimo primitivo inteso come movimento anarchico e rivoluzionario. Dostoevskij è una lettura decisiva: L’idiota diviene un’opera risolutiva, perché fornisce a Nietzsche gli strumenti per interpretare il suo Gesù come un «idiota», mentre I demoni sono rilevanti per ciò che concerne l’idea di Dio come incarnazione di un intero popolo. 65


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L’Anticristo è il manifesto della distruzione del cristianesimo e della trasvalutazione di tutti i valori e la data, 30 settembre 1888, posta alla fine dell’opera, non è soltanto una data: essa segna la fine di una menzogna millenaria, la fine del cristianesimo, la fine dell’uomo; ma essa segna anche il primo giorno di una nuova epoca, il giorno della rinascita, il primo giorno per una nuova umanità.


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CAPITOLO 3 Critica ai concetti fondamentali della morale e della religione cristiana

3.1.

Uguaglianza e principio di selezione naturale

I presupposti fondamentali che permettono alla morale degli schiavi di imporsi su quella dei signori sono due: l’uguaglianza tra gli uomini e l’esistenza del libero arbitrio. Cominciamo ad analizzare il primo concetto.

«L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare; ma la specie sussiste soltanto mediante sacrifici umani… […]».66

In questo passo, cronologicamente successivo all’Anticristo, si riassume uno dei concetti cardine attorno a cui ruota la critica di Nietzsche: una critica di tipo «fisiologico» prima ancora che una lotta condotta contro la morale. Per il filosofo infatti, supporre un’uguaglianza fra tutti gli individui, significa mettere in pericolo il genere, compromettere la specie. La pietà, frutto dell’uguaglianza, lungi dall’essere una virtù, è piuttosto un segno di decadenza e un ostacolo al principio della selezione naturale, al principio che permette solo ai più forti, ai più sani, ai più vigorosi di sopravvivere, condannando tutti gli altri a soccombere. Per contrastare il principio di selezione, il cristianesimo ha fatto suoi gli ideali della pietà e dell’altruismo, mezzi che in realtà permettono l’aggregazione dei più deboli e promuovono la conservazione dell’individuo a danno del genere. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889 in: Opere, Vol. VIII, tomo III, Adelphi, Milano 1979, aforisma 15[110], p. 257 (corsivo nel testo). 66


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L’altruismo per Nietzsche è soltanto una maschera dietro cui si nasconde «l’egoismo di massa dei deboli», mentre la compassione diviene il più dannoso degli istinti perché porta l’uomo a desiderare il nulla, conducendolo al nichilismo.

«[…]Questo istinto deprimente e contagioso intralcia quegli istinti che tendono alla conservazione della vita e al suo potenziamento di valore: sia come moltiplicatore della miseria che come conservatore di tutti i miserabili, esso è un essenziale strumento per l’incremento della décadence – la compassione persuade al nulla! […]».67

Per Nietzsche, il più grande atto d’amore verso gli uomini consiste nel volere che i più deboli periscano. Nessuna solidarietà, nessuna pietà nei loro confronti: la selezione è una legge dura, feroce, crudele, ma se il suo scopo è quello di perpetuare la specie, essa ha il dovere di eliminare tutto ciò che non è in grado di sopravvivere, prosperare e rafforzarsi. Senza il principio di selezione verrebbe a mancare quel filtro naturale che garantisce il progresso e lo sviluppo dell’umanità. Esso è la norma e il principio di ogni morale aristocratica. Ma la riflessione di Nietzsche va ben oltre. Dopo aver affermato la pericolosità dell’uguaglianza da un punto di vista fisiologico e naturale, Nietzsche mostra anche quanto essa possa essere dannosa a livello sociale. Gli uomini, difatti, non soltanto sono diversi già dalla nascita, per istinto, indole, forza; questa loro diversità naturale si riflette anche sul posto che essi occupano all’interno della società in cui vivono ed operano.

67

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., §7, pp. 8-9 (corsivo nel testo).


32

A questo punto Nietzsche, avvalendosi dell’esempio fornitogli dal Codice di Manu68, illustra il suo ideale di organizzazione politica e sociale. Secondo questo modello, è la natura che in primo luogo distingue e divide gli individui in diverse categorie, a seconda del loro grado di forza spirituale. Questi, successivamente, a seconda delle loro inclinazioni innate e delle loro capacità, vengono a disporsi sui diversi gradini della scala gerarchica. Ogni gradino, ogni casta si differenzia dalle altre per compiti e privilegi, ma per l’economia totale della struttura, ogni categoria è vitale per la sussistenza delle altre. Nell’immaginaria

piramide

descritta

da

Nietzsche

i

«mediocri»

hanno

un’importanza diversa, ma non minore rispetto agli spiriti più elevati, in quanto i primi costituiscono una base salda su cui i secondi possono poggiare. Del resto «i pochissimi», gli «iperborei», devono farsi carico di tutte quelle responsabilità di cui gli altri, «i più» non potrebbero tollerare il peso. «Quanto più la vita cresce in

altezza tanto più aumenta la responsabilità»69

afferma Nietzsche,

consapevole del peso che ogni grande incarico porta con sé. D’altra parte gli spiriti superiori «dominano non perché vogliono, ma perché sono; non hanno la libertà di essere secondi»70, in quanto la natura ha già scelto per loro. Questo non significa che essi siano infelici, perché la felicità consiste proprio nel fare quello per cui si è nati. Si deve inoltre notare che una simile gerarchia non sancisce la diversità fra gli individui in maniera arbitraria e illegittima: essa si limita semplicemente a formulare «la legge suprema della vita».71 La diversità fra gli uomini non è soltanto un principio naturale necessario al mantenimento del genere, ma è anche ciò che permette la conservazione e l’armonia della società: perché ci siano uomini superiori, è necessario che sussistano anche Vedi ivi, § 57, pp. 83-87. Ivi, p. 87. 70 Ivi (corsivo nel testo), p. 86. 71 Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit. aforisma 23[10], p. 376. 68 69


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tipi mediocri. La mediocrità anzi, è condizione necessaria perché possano esserci eccezioni. Si è detto che alla diversità degli uomini, corrisponde anche una disuguaglianza di privilegi: questo, tuttavia non significa che un privilegio abbia maggior valore rispetto ad un altro. Per Nietzsche infatti «il torto non sta mai in diritti ineguali, sta nel pretendere uguali diritti».72 Da questo punto di vista, il cristianesimo è sullo stesso piano dell’anarchismo, del femminismo e del socialismo: tutti, infatti, esigono l’uguaglianza fra gli uomini e un’eguale distribuzione dei diritti. Ma questo porta loro a configurarsi, da un punto di vista politico, come la rovina della società; da un punto di vista fisiologico li fa essere contronatura. Il cristianesimo mira alla conservazione dei più, in altre parole: al degrado dell’umanità.

«Avere pietà per i decadenti, sarebbe la più profonda immoralità, la contronatura stessa fatta morale».73

Dietro la maschera dell’altruismo, il cristianesimo non fa altro che rafforzare all’estremo l’egoismo individuale. Si fa del singolo, soprattutto di quello più debole, un essere prezioso e intoccabile. Ma questo «trattamento preferenziale per tutti i sofferenti»74, i derelitti, gli aborti della società, porta a un indebolimento generale della specie. Per Nietzsche invece è soltanto l’individuo più forte che deve crescere e prosperare contro tutti gli altri, anche a scapito degli altri: perché il sacrificio dei più deboli è un vero e proprio dovere, un dovere supremo quanto necessario. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 57, p. 87 Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 23[10], pp.376-377. 74 Ivi, aforisma 15[10]. 72 73


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Questo significa amare davvero l’umanità.

3.2.

Sul libero arbitrio

Se l’uguaglianza è una menzogna, un errore, un’invenzione cristiana, lo stesso dicasi del libero arbitrio. Quest’ultimo è soltanto «il più malfamato trucco dei teologi, mirante a rendere l’umanità “responsabile” nel senso loro, ossia renderla ad essi soggetta».75 È chiaro che, chi cerca delle responsabilità, cerca anche un colpevole, qualcuno da giudicare o punire. Quindi la dottrina del libero arbitrio per Nietzsche è stata inventata in funzione della pena, allo scopo di provare una colpa. Infatti, basandosi sulla presunta verità del libero arbitrio, non si può che affermare che l’uomo sia totalmente libero di essere e agire. Questa sua libertà, ovviamente può condurlo al bene o al male. Ne consegue che ogni individuo, con la sua condotta e le sue azioni, diviene l’unico responsabile del male commesso, e quindi l’unico ad essere giudicabile e punibile secondo criteri morali. Ma punibile da chi? Dal prete, è ovvio. In un passo del Crepuscolo degli idoli, Nietzsche spiega chiaramente in cosa consista il tanto decantato «libero arbitrio»:

«I sacerdoti posti al vertice delle antiche comunità vollero creare a se stessi il diritto di irrogare delle pene, - oppure vollero creare a Dio il diritto di irrogarle… Gli uomini vennero ritenuti “liberi” per poter essere giudicati e puniti – per poter essere colpevoli: si dovette pensare perciò ogni azione come voluta, e l’origine di ogni azione come situata nella coscienza […]».76

75 76

Nietzsche, “I quattro grandi errori” in Crepuscolo degli idoli, op. cit., § 7, p. 92. Ivi (corsivo nel testo).


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In questo modo, però, «il divenire è spogliato della sua innocenza»77 e ogni intenzione, ogni condizione finisce per essere imputata alla volontà del singolo. Ma per Nietzsche, nessuno è veramente responsabile delle proprie azioni: è la vita che decide per l’uomo e non viceversa: «nessuno attribuisce all'uomo – né Dio, né la società, né i suoi genitori e antenati, né lui stesso – le sue proprie caratteristiche».78 Questo significa che nessuno è responsabile per ciò che è; l'esistenza è un «frammento di fato»79, ovvero una condizione in cui si riflette il moto imprevedibile del divenire e del caso. Non vi è una legge morale metafisica, uno scopo che possa determinare nel bene e nel male la nostra vita: semplicemente esistiamo.

«Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto – non c'è nulla che possa giudicare, misurare, verificare, condannare il nostro essere, giacché questo equivarrebbe a giudicare, misurare, verificare, condannare il tutto... Ma fuori del tutto non c'è nulla!».80

Per Nietzsche l’uomo non agisce in base ad una particolare volontà, a un fantomatico «libero arbitrio»; non cerca di inseguire un preciso ideale di moralità o felicità; la sua esistenza e la sua natura non cercano di perseguire alcun tipo di scopo prestabilito. Anche perché il concetto di «scopo» è una creazione umana, troppo umana: «nella realtà lo scopo è assente».81 L’uomo, allora, si scopre irresponsabile e innocente, in quanto non libero, in quanto determinato e condizionato dalla necessità storica e naturale. La colpa, il peccato, il pentimento, sono concetti nati da un’illusione: dall’illusione Ivi. Ivi (corsivo nel testo). 79 Ivi, § 8, p. 93. 80 Ivi (corsivo nel testo). 81 Ivi (corsivo nel testo). 77 78


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dell’uomo che si ritiene libero quando in realtà non lo è, quando in realtà tutto quello che fa è necessario, fa parte della totalità, si inserisce nel piano naturale delle cose. È il cristianesimo che ancora una volta ha stravolto quest’ordine affermando l’esistenza del libero arbitrio; è il cristianesimo ad aver fatto credere all’uomo di essere libero e capace di determinare le proprie azioni in base alla propria volontà e indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Ed ancora una volta Nietzsche si trova a dover smascherare questa menzogna. La negazione del libero arbitrio porta alla negazione di qualsiasi giustificazione per il senso del peccato e per il senso di colpa, e porta al rifiuto delle morali dogmatiche. Di fronte alla negazione del libero arbitrio e quindi del concetto di colpa e di peccato, cadono ad uno ad uno tutti i pregiudizi su cui il potere religioso ha basato la repressione di innocui piaceri terreni. La negazione del libero arbitrio porta ad affermare che non si è, se non apparentemente, artefici di sé stessi. Dal momento che le caratteristiche dell’individuo non sono state scelte dall’individuo stesso, le sue azioni sono dettate da caratteristiche innate di cui si è trovato in possesso sin dall'origine dei tempi. In base a tali caratteristiche l’individuo agisce, giudica, pensa, ragiona, ma del suo modo di essere egli non è responsabile. Di conseguenza, se l’individuo non è dotato del libero arbitrio, allora non può essere a ragione lodato o biasimato, amato od odiato per quello che è o che fa, dato che il suo essere e il suo agire derivano da una situazione di necessità e non di libertà. La volontà stessa non è affatto libera, ma è condizionata dal periodo e dal luogo in cui viviamo, dal contesto sociale nel quale cresciamo, dal nostro patrimonio genetico, dalle nostre esperienze. Questo non significa negare l’esercizio della volontà, ma soltanto ridimensionarlo.


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Per Nietzsche, anche quando l’uomo si crede libero, di fatto le sue scelte, le sue azioni, le sue imprese sono frutto della fatalità e non di uno scopo preciso; esse sono condizionate dalla sua personalità, dalle sue inclinazioni, dalla sua natura, ovvero da dati che sono fuori dal suo controllo, in quanto nessuno può scegliere in anticipo quello che sarà. La verità di Nietzsche, che si contrappone all’illusione del libero arbitrio, è che ognuno è necessariamente quello che è: dopo questa «scoperta», nessun uomo può più essere ritenuto responsabile, nessuna azione può più essere ricondotta a una causa prima. «Tutto ciò è la grande liberazione».82

3.3.

La scelta tra fede e verità

«È in sé completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma è estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta. In questo modo il cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero».83

Tra le cosiddette «virtù cristiane», quella che viene attaccata con maggior impeto da Nietzsche è la fede. Già in Al di là del bene e del male egli motiva questa sua ostilità. Si legge infatti, che la religiosità e la fede, entrambe nate dalla paura della verità, non sono altro che una forma di arte che ha lo scopo di abbellire l’esistenza, per renderla sopportabile all’uomo. Per raggiungere un tale obiettivo la religione deve servirsi della menzogna, deve falsificare e capovolgere la realtà delle cose.84 Il cristianesimo non ha fatto che creare un mondo totalmente illusorio, un mondo di pure finzioni allo scopo di svalutare il vero e unico mondo; un mondo «inventato» e fasullo che però «si differenzia Ivi. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., pp. 17-18 (corsivo nel testo). 84 Nietzsche, Al di là del bene e del male, op. cit., aforisma 59, p.101. 82 83


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con suo notevole svantaggio, dal mondo del sogno, per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta, nega la realtà».85 Tramite una specie di genealogia della fede, Nietzsche risale al meccanismo che porta l’individuo a rifugiarsi in un mondo falso, immaginario: all’origine vi è un profondo scontento nei confronti del reale. Infatti, quando si è dotati di una natura difettosa, non si ha altra scelta che quella di forgiare un altro mondo, una realtà alternativa alla realtà. L’odio nei confronti della natura e del reale è all’origine della fede cristiana; il risentimento nei confronti del mondo sano è all’origine dell’universo malato creato dal cristiano. Si giunge così allo scontro aperto tra forze antitetiche. La religione, fondandosi sul concetto di fede e su quello di rivelazione, preclude la possibilità stessa di una conoscenza scientifica. La scienza, la sapienza, la filosofia, persino la semplice prudenza, sono denigrate, svilite, vietate, in quanto potrebbero smentire l’intera dottrina cristiana e smascherare la «santa menzogna». La Bibbia stessa per Nietzsche, altro non è che «la storia della maledetta paura di Dio davanti alla scienza».86 Dio avrebbe potuto anche concedere l’immortalità all’uomo, ma a condizione che esso rimanesse immortalmente stupido.87 L’uomo scientifico infatti, costituisce un pericolo mortale per preti e dei, in quanto la scienza ha il potere di rendere simili a Dio. La scienza diviene quindi il peccato più grande, il peccato originale, quello per cui Adamo viene cacciato dal paradiso terrestre. L’uomo non deve conoscere, non deve pensare, non deve porsi domande: per questo è necessario che egli sia infelice. Perché la felicità e l’ozio inducono l’individuo a ragionare, a interrogarsi, a meditare, tutte azioni che la religione vuole impedire, perché le sarebbero letali. Il lavoro, Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., §15, p. 17-18 (corsivo nel testo). Ivi, §48, p. 66. 87 Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888 in: Opere, Vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano 1979, aforisma (52) 9 [72], p. 33. 85 86


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il bisogno, la morte, le malattie, le guerre sono i mezzi di cui Dio si servì per difendersi dalla conoscenza; per dividere gli uomini, per annullarne la potenza, per tenere in basso i suoi rivali. Ma non bastò. Ecco allora intervenire anche il prete che, con la brillante ideazione di concetti quali peccato, colpa e punizione, riesce a contrastare la potenza della scienza. L’idea di una teleologia, il concetto di redenzione, di espiazione e la dottrina della grazia sono altrettante menzogne che il sacerdote concepisce perché l’individuo soffra, perché l’individuo abbia costantemente bisogno dei suoi servizi. La ragione perde importanza, diviene inutile, è disprezzata: s’impongono le passioni, i sentimenti di paura e speranza legati alla visione di un Dio che punisce e premia in base alla quantità di fede e devozione dimostrate. Ma dimostrate a chi? Al prete, naturalmente. La fede per Nietzsche consiste nel non voler accettare la realtà per quella che è, nel ritener vero quel che è falso e viceversa; è un non voler sapere, né vedere: un rinnegare, un falsificare, un travisare, uno stravolgere il mondo. Il filosofo critica anche l’affermazione secondo cui la fede è vera in quanto rende beati. Anche ammesso che la fede realizzi davvero la promessa di beatitudine, ciò non prova che essa sia veritiera. Anzi. Prova l’esatto opposto. Per Nietzsche difatti, la verità passa sempre per la via più tortuosa, dura, difficile; ogni briciola di verità richiede sforzo, temerarietà, audacia, fatica; e pretende uno spirito libero, libero da ogni tipo di pregiudizio e convinzione. Tutto ciò si scontra con la realtà della fede, la quale non fa che ostacolare con ogni mezzo proprio questo cammino; il cammino della conoscenza, il cammino della ricerca, il cammino che conduce alla verità.


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Avvalendosi di una presunta rivelazione e affermando che la «legge» è incontestabile in quanto proviene da Dio stesso, l’uomo di fede non ha alternativa: non può far altro che credere e venerare ciecamente la dottrina. In questo modo egli è necessariamente un uomo di parte, un fazioso, un uomo prigioniero delle sue convinzioni, un uomo che rifiuta categoricamente qualsiasi realtà diversa dalla sua. L’uomo di fede è per natura un mentitore in quanto pretende di conferire un valore determinato a ogni cosa: la sua mancanza di onestà gli impedisce di interpretare la realtà come esperienza irriducibile a qualsiasi schema. Mentre la realtà per Nietzsche è asistematica e non può essere ridotta a un complesso di valori parziali e immutabili. Le «convinzioni sono carceri»88, in quanto intrappolano l’individuo in una determinata prospettiva, prospettiva che nel caso del cristiano, è irrimediabilmente falsa e totalmente distorta. È vero, le convinzioni possono anche diventare dei mezzi utili; ma soltanto se messe al servizio della volontà di verità, soltanto se non si perde mai di vista questo scopo. Se, al contrario, è la convinzione che prende il sopravvento, se si impossessa dell’individuo, allora è quest’ultimo a diventare un mezzo, uno strumento in mano alla fede; si assiste alla spersonalizzazione, all’auto-alienazione dell’individuo. Ecco allora che l’attacco di Nietzsche non ha di mira soltanto il cristianesimo, ma anche qualunque altro tipo di dottrina: perché ogni dottrina si fonda su dei principi e i principi sono soltanto favole, menzogne mascherate, nel caso del cristianesimo, sotto i nomi di «Dio», «divina provvidenza», «divina rivelazione». D’altra parte, il mentire stesso può avere un valore diverso a seconda che lo si faccia con l’obiettivo di distruggere o con lo scopo di costruire, mantenere e tutelare. Nel caso del cristianesimo allora, non sono da biasimare soltanto i 88

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 54, p. 77.


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mezzi che esso utilizza, ma anche i fini: il cristianesimo, servendosi della fede, e dei concetti fasulli di «aldilà», «peccato», «remissione», ha commesso uno dei più grandi crimini contro l’umanità: esso ha distrutto l’imperium romanum. In un lungo paragrafo de L’Anticristo89, Nietzsche descrive la dissoluzione di uno degli imperi più grandiosi e importanti di tutti i tempi; racconta la storia funesta di un impero forte e dagli istinti sani, energico ed evoluto che, in un attimo, è stato spazzato via; e non da una guerra intestina, non a causa di un’invasione barbarica, non resistendo e lottando. Esso è stato lentamente avvelenato, è stato dissanguato da una specie malaticcia e subdola di uomini; è stato infiacchito dal cristianesimo, il quale si è impadronito poco alla volta, di nascosto, delle anime più nobili, per poi infettarle con il suo morbo, con le sue «idee cupe», con le sue menzogne sull’immortalità e la resurrezione. Dopo questo excursus storico, si viene catapultati nuovamente in epoca moderna. Ed è qui che Nietzsche lancia una delle accuse più gravi. Egli afferma che, al giorno d’oggi, un teologo, un prete, un papa, non errano più per ignoranza, per ingenuità: essi non si ingannano più, ma mentono, mentono in ogni loro affermazione, sapendo di mentire. Anche un prete sa che non esiste alcun «Dio», che l’«immortalità dell’anima» e la resurrezione sono soltanto promesse vane e irrealizzabili, che il peccato è soltanto un’invenzione e un’arma di cui servirsi per dominare. «Ognuno lo sa: e ciononostante tutto permane nell’antico stato».90 L’uomo moderno dovrebbe vergognarsi anche soltanto di chiamarsi cristiano, perché ormai sa che dietro a una tale definizione si nasconde in realtà la più grande mistificazione della storia. Ma gli individui ormai sono assoggettati

89 90

Ivi, § 58, pp. 87-90 Ivi, § 38, p. 49 (corsivo nel testo).


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alla fede, alla menzogna, alle finte virtù cristiane; ed è proprio questo atteggiamento che Nietzsche cerca di combattere con tutte le sue forze. Perché la fede non solo non si identifica con la verità, ma è ciò che più se ne allontana. La fede è un chiudere gli occhi di fronte alla realtà così come si presenta; è il rovesciamento dei criteri di verità; è la visione distorta del mondo e della natura. Nietzsche si propone allora di sostituire ai disvalori del cristianesimo un nuovo sistema di valori, una filosofia che permetta all’uomo di aprire nuovamente gli occhi di fronte alla realtà e di vedere il cristianesimo esattamente per quello che è ed è sempre stato. A tale scopo il concetto di fede deve essere abbattuto in nome della verità. Quest’ultima non è qualcosa che viene rivelato, ma qualcosa che si deve scoprire, con fatica, con coraggio, lottando e soffrendo. La verità fa capo a tutto ciò che innalza, potenzia, giustifica l’esistenza; è una scoperta, una lotta, un cammino in salita, che porta però, l’uomo a riconoscersi e ad accettarsi, che lo porta a dire il suo «sì» alla natura e agli istinti; che lo porta a capire che non vi è alcun ordine morale del mondo, alcuna teleologia. L’uomo così fatto, non soltanto accetta questa necessità, ma la vuole. La conoscenza costa sudore, è vero, ma fa dell’uomo quasi un dio, perché quella strada in salita è anche strada verso l’elevazione.

3.4.

L’«ordinamento morale» del mondo e il concetto di «peccato»

«Che cos’è la morale ebraica, che cos’è la morale cristiana? Il caso defraudato della sua innocenza; l’infelicità contaminata con il concetto di “peccato”; - lo stato di benessere come pericolo, come “tentazione”; il malessere fisiologico intossicato dal verme della coscienza…».91 91

Ivi, § 25, p. 32 (corsivo nel testo).


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Un altro principio del cristianesimo che Nietzsche intende abbattere è quello che concerne l’idea di un ordinamento morale del mondo; si tratta di una delle convinzioni più radicate nell’Europa moderna, anche a causa del sostegno che essa ha ricevuto dai filosofi stessi. «Ordinamento etico del mondo»92 significa, innanzitutto, che esiste una volontà divina che governa il cosmo. Ma significa anche che esistono leggi, valori e principi, stabiliti una volta per tutte, in base ai quali tale volontà si esprime. Questa visione è ovviamente carica di importanti conseguenze, conseguenze che sono ben note ai preti. Infatti, credere a un ordinamento etico del mondo equivale a voler stabilire il valore di un individuo unicamente sulla base di una maggiore o minore obbedienza a Dio. Ma non è tutto. Il cristiano si convince anche del fatto che ogni buona ventura, ogni evento positivo nella vita di un individuo sono il giusto premio per la sua aderenza alla volontà divina; viceversa, ogni sventura, ogni calamità o disastro sono interpretate come la punizione adeguata per il peccato commesso. È evidente che in questo modo la Chiesa capovolge l’ordine del mondo, eliminando la causalità naturale e i concetti di causa ed effetto. La volontà di Dio, così, risulta l’unica legge dominante, l’unico principio in grado di imperare nel mondo: si riduce tutto alla sterile formula del castigo e della ricompensa e gli uomini vengono grossolanamente divisi in peccatori e redenti. Questo ordinamento, del resto, non è che una menzogna, un’invenzione. La verità è che i sacerdoti, i preti, i teologi, abusano del nome di Dio e strumentalizzano il concetto di volontà divina per dominare nel mondo, per stabilire i propri criteri di verità e stravolgere l’ordine naturale delle cose. La 92

Ivi, § 26, p. 32.


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verità è che questa specie «parassitaria e subdola» di uomini misura cinicamente i popoli e le epoche a seconda che essi abbiano favorito o intralciato la potenza del clero. La realtà è che dietro la volontà divina si cela l’avidità di potere e ricchezza del prete stesso; e la disobbedienza verso Dio altro non è che resistenza a un sistema di valori stabilito dal sacerdote. Il ribellarsi all’ordine etico del mondo, il rifiuto di una legge fissata per sempre dalla Chiesa, ha finito per prendere il nome di «peccato». È chiaro allora come il peccato divenga indispensabile all’interno di ogni società sacerdotale: perché è attraverso quest’invenzione che il prete può mantenere l’ordine stabilito e rafforzare contemporaneamente la sua potenza e la dipendenza dell’uomo nei confronti di tutte le pratiche svolte dal clero.

«Il prete vive dei peccati […] Principio supremo: “Dio perdona chi fa penitenza” – o più chiaramente: a chi si sottomette al prete».93

A questo proposito è rilevante il confronto che Nietzsche effettua tra l’epoca moderna, ormai permeata dai valori cristiani, e l’antichità, a vantaggio della seconda. Nell’antichità, non ancora corrotta dal concetto di peccato, esisteva ancora la «pura innocente infelicità»94, ovvero un’infelicità non necessariamente connessa ad una colpa. Soltanto con l’avvento del cristianesimo l’infelicità si ritrova intrinsecamente connessa alla colpa e la sfortuna diviene la conseguenza «logica» del peccato; soltanto col cristianesimo «tutto diventa punizione, punizione ben meritata».95 Come se il decadere di una stirpe, di una famiglia, di un singolo fossero la giusta punizione per loro vizi, per la loro Ivi, § 26, p. 35 (corsivo nel testo). Nietzsche, Aurora, op. cit., aforisma 78, p. 60. 95 Ivi. 93 94


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mancanza di fede o per la loro eccessiva libertà di spirito. La verità è che solo il cristianesimo ha inventato una giustizia divina che punisce e premia; «solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo».96 La remissione dei peccati, la redenzione mediante la fede sono soltanto illusioni; in realtà nessuna cattiva azione svanisce perché viene perdonata o espiata. Soltanto il cristiano crede a una fantomatica potenza divina in grado di cancellare la colpa; solo il prete vuol convincere che attraverso il pentimento e la fede si possa lavare ogni macchia. Nietzsche, immoralista e spirito libero, preferisce di gran lunga eliminare il concetto stesso di peccato. Del resto, il filosofo fa notare che il Vangelo è del tutto privo delle nozioni di colpa e castigo: la «buona novella» consiste appunto nell’aver eliminato il peccato e tutto ciò che creava una distanza fra l’uomo e Dio. Il Vangelo, attraverso il racconto dell’esistenza di Cristo, insegna che a contraddistinguere il cristiano non è la fede, ma una nuova regola di vita, un modo di agire diverso. Ed è questa pratica evangelica, liberata dalla penitenza, dalla fede, dal peccato, l’unica che si salva dalla critica di Nietzsche; perché solo questa pratica porta a Dio; perché soltanto una simile prassi rende eterni in questo mondo. 3.5.

Il senso del «tempo»: linearità, circolarità ed eterno ritorno

«Se si trasferisce il centro di gravità della vita, non nella vita, ma nell’“aldilà” – nel nulla – si è tolto il centro di gravità alla vita in generale».97

. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello che riguarda la visione del tempo. Il cristianesimo interpreta il tempo come una linea; di conseguenza tende a vedere la vita dell’uomo protesa indefinitamente verso una meta, uno 96 97

Nietzsche, Il viandante e la sua ombra in: Umano, troppo umano, Vol. II, op. cit., aforisma 78, p. 174. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 43, p. 56.


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scopo, un fine. A questa visione, come vedremo, Nietzsche, erede del mondo greco e «seguace» di Eraclito, contrappone l’idea ciclica del tempo, l’idea di un tempo che scorre e che ritorna infinite volte. Vedere il tempo come una linea significa non soltanto distinguere e separare nettamente passato, presente e futuro; equivale anche a condannare ogni momento a svanire per sempre, senza possibilità che ritorni. Non soltanto i segmenti di tempo sono considerati qualitativamente differenti, ma l’avvenire, ciò che ancora non è, diviene il momento essenziale, il più importante, quello a cui deve tendere l’intera esistenza. Ma guardare soltanto a un futuro indefinito, all’aldilà, significa perdere di vista l’«ora» e «qui» e sacrificare l’esistenza per la promessa di una vita eterna. La fede nell’aldilà è soltanto un mezzo per svalutare il mondo e la natura; il concetto di immortalità dell’anima ha l’unico scopo di mortificare il corpo e i suoi istinti più genuini, più sani, più autentici. La vita allora perde ogni senso, ogni valore e il mondo vero è sostituito dalla speranza di un mondo soltanto immaginato. E così il cristiano finisce per concentrarsi esclusivamente su uno stato successivo alla morte; il tempo diviene tensione, tensione angosciosa verso un compimento sempre al di là da venire; tensione non tanto verso un fine, ma piuttosto verso la fine, il nulla. Ancora una volta emerge l’aspetto nichilistico del cristianesimo; l’aspetto che mira ad annientare la vita e che porta l’uomo a volere il niente piuttosto che niente; l’aspetto che avvilisce gli istinti più nobili, sani e forti dell’uomo. A tutto questo, Nietzsche oppone una visione circolare del tempo, alla quale è strettamente connesso il concetto di eterno ritorno dell’uguale. Anche questo aspetto è ereditato dagli antichi98, i quali erano convinti che il cosmo fosse Infatti, nel mondo antico, prima che la concezione lineare del tempo prendesse il sopravvento, l’idea della ciclicità del tempo e della storia era largamente diffusa. Tale pensiero si trova espresso tanto nel pensiero greco (orfismo), quanto in quello orientale (zoroastrismo, buddismo e taoismo). 98


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soggetto a distruzione ciclica dal fuoco e rinascesse ogni volta come era prima della deflagrazione stessa. Ne consegue che ogni singolo evento nella vita di un individuo, è già stato vissuto infinite volte in passato e si ripeterà infinitamente in futuro. Ogni esistenza è già accaduta ed è destinata a riproporsi ancora e ancora. Ma è chiaro che la dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno non è la semplice ripresa della concezione greca e non è neppure riconducibile ad una critica dello storicismo; ciò che il filosofo condanna nella visione lineare del tempo è soprattutto il fatto che in essa ogni momento non trovi il proprio senso in sé, ma in altro: nei momenti che lo precedono o lo seguono. Il tempo che Nietzsche propone è un tempo non più modellato sul conflitto tra passato, presente e futuro, ma è un tempo in cui si assiste ad un eterno ripetersi dell’attimo che si risolve in se stesso. Per comprendere ancor meglio la portata innovativa della dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno, non è sufficiente analizzarne l’aspetto per così dire teorico; vanno analizzate anche le implicazioni pratiche che quest’idea, una volta accolta, comporta nella vita dell’uomo e nella società. Perché Nietzsche non si limita a suggerire una diversa concezione del tempo; egli pretende che tale concezione si rifletta anche sulla realtà e che vada a plasmare un uomo nuovo, un oltre-uomo che sia in grado di tollerare il «peso più grande», la ripetizione eterna della propria esistenza. Il tempo lineare comporta il rifiuto del mondo e della vita in nome della fede in una vita dopo la morte; al contrario, il tempo ciclico e l’eterno ritorno, sono l’espressione più esemplare di adesione gioiosa all’esistenza. Nietzsche precisa che, all’annuncio dell’eterno ritorno, il soggetto cristiano, e più in generale,


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l’uomo moderno, si dispera99; l’uomo infatti si sente schiacciato da un peso enorme e intollerabile ed è invaso dal terrore e dall’angoscia. Solo l’oltre-uomo accoglie entusiasticamente questa prospettiva, poiché ha accettato totalmente la vita e ne gioisce come se non avesse mai udito cosa più divina. La reazione all’annuncio dell’eterno ritorno segna così una netta demarcazione tra l’uomo e l’oltre-uomo. Pertanto «l’eterno ritorno è il grande principio selettivo del’umanità, che permette di distinguere, tra umanità inferiore e umanità superiore in base alla capacità che gli uomini avranno di sopportarlo».100 La diversa concezione del tempo che l’eterno ritorno implica è connessa anche a un altro elemento sostanziale della filosofia nietzscheana, l’amor fati, il sì alla vita, l’accettazione dell’insensatezza del divenire. Amor fati significa non soltanto sopportare il proprio destino, ma anche amarlo, desiderare che la propria esistenza sia esattamente così com’è, e anzi, volere che si ripeta infinite volte. L’amor fati è anche un invito, un invito ad amare ogni istante e a «vivere in modo tale da voler vivere ancora una volta e voler vivere così per l’eternità!».101 Se il divenire è un eterno ritorno dell’uguale, cioè non ha una direzione né uno sviluppo come invece vorrebbe il cristianesimo, la decisione, per un verso, diventa un assoluto, per l’altro diviene determinante non di un solo punto dell’esistenza, ma dell’esistenza nella sua totalità. Ogni attimo diviene essenziale e significativo, ogni attimo è tutta la vita. Per concludere: il cristiano, per Nietzsche, non vive mai veramente: la sua esistenza è sempre proiettata, orientata verso un dopo, verso la promessa di Cfr. «Il peso più grande», Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., aforisma 341, p. 197. Vattimo G., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano 1974, pp. 190191. 101 Cfr. Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, Adelphi, Milano 1991, aforisma 11[161]: «Non mirare verso beatitudini, benedizioni, grazie, lontane e sconosciute, ma vivere in modo tale da voler vivere ancora una volta e voler vivere così per l’eternità! – il nostro compito ci si accosta in ogni momento». (Corsivo nel testo). 99

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eternità in un altro mondo. Al contrario, l’oltre-uomo vive nell’attimo, la coincidenza di divenire e di eternità. Il passato torna identico e non soltanto per necessità, ma perché è la volontà stessa a desiderarlo, è la volontà che vuole eternamente se stessa. Nel cristianesimo l’eternità è soltanto promessa, speranza, avvenire; per Nietzsche l’eternità si realizza in ogni istante.

3.6.

Il concetto cristiano di Dio

«Se si avesse nel petto una qualche misura, anche esigua, di religiosità, un Dio che cura al momento giusto il raffreddore o che ci fa salire in carrozza nel preciso istante in cui si scatena un acquazzone dovrebbe essere per noi tanto assurdo, che occorrerebbe eliminarlo anche nel caso in cui esistesse. Un Dio come domestico, portalettere, come venditore d’almanacchi – una sola parola, in fondo, per indicare la specie più stupida fra tutte le circostanze fortuite…».102

La critica al Dio cristiano, al Dio solo buono, passa attraverso la genealogia del concetto di Dio in generale. Influenzato in tal senso dalla concezione di Dostoevkij, Nietzsche ritiene che Dio rappresenti la personificazione sintetica di tutto un popolo. Si tratta di un Dio capace di riassumere in sé la totalità degli istinti e dei sentimenti umani: in esso il popolo proietta il proprio sentimento di potenza, il proprio orgoglio, le proprie virtù fino a farne un essere «superiore» e trascendente al quale poi rendere grazia per tutto questo. «Si è riconoscenti per se stessi: perciò si ha bisogno di un Dio».103 È quindi l’uomo stesso che crea Dio a sua immagine e somiglianza, che lo umanizza, e non viceversa. Chiaramente un tale Dio deve poter giovare e nuocere, deve essere crudele e spietato, quanto comprensivo e benevolo: lo si ammira, lo si rispetta nel bene e nel male. 102 103

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 52, p. 75. Ivi, § 16, p. 18.


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Ma quando i culti iniziano a generalizzarsi, quando si smette di difendere il proprio Dio contro tutti gli altri, allora anche la nazionalità è destinata a sgretolarsi, a dissolversi.

«Quando gli dei perdono il loro carattere individuale, essi muoiono, e con loro muoiono i popoli».104

Solo il Dio che riassume in sé tutti gli istinti, può dirsi ancora manifestazione della salute e vitalità del suo popolo. Gli dèi greci erano il simbolo della volontà di potenza, e anche il Dio degli Ebrei. Solo con il cristianesimo questa visione cambia e, capovolgendosi, porta a esiti disastrosi. Infatti, quando è il popolo stesso ad andare in rovina, allora anche il suo Dio deve trasformarsi. In questo caso, si trasforma in un Dio dell’amore e della pace universale; un Dio che non lotta, che non si adira, un Dio indulgente e timoroso. Il Dio degli Ebrei si modifica, diviene irriconoscibile e diventa il Dio buono, il dio dei cristiani. Dio viene mutilato dei suoi istinti virili e, più in generale, dei suoi istinti: non è più un «padre», ma diviene simbolo di tutto ciò che è malato, debole, infermo. È chiaro che una tale riduzione del divino produce notevoli conseguenze. Nel momento in cui il Dio cristiano diviene «bene in sé», tutti gli altri dèi vengono spogliati delle loro qualità positive e divengono il Male assoluto. Lo spirito di vendetta e il risentimento cristiani sono alla base di un tale dualismo: di un dualismo che porta ad attribuire al proprio Dio la somma bontà, e a trasformare il Dio degli avversari in un diavolo. C’è anche un’altra caratteristica peculiare al Dio cristiano che viene criticata aspramente. Nietzsche non tollera il fatto che il Dio dei cristiani abbia rinunciato 104

Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, op. cit., aforisma 11 [346], p. 355.


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a un legame privilegiato ed esclusivo col suo popolo per divenire un Dio universale, il Dio di ognuno e il Dio «del gran numero»; per trasformarsi in un Dio girovago e cosmopolita. Una volta Egli era espressione distintiva del suo popolo, del «popolo eletto». Ma successivamente il suo regno diviene mondiale: il Dio degli Ebrei, il Dio del «cantuccio», diventa un Dio democratico che accoglie tutti, che aiuta e sostiene i deboli, i sofferenti, i malati, ovvero quella categoria di uomini che sarebbe destinata a perire. Diviene un Dio decadente e il suo regno assomiglia sempre più a un ospedale, a un sanatorio, all’oltretomba. Il Cristianesimo e la fantasia dei filosofi hanno fatto del nuovo Dio un concetto astratto, un «in sé»: hanno trasformato il Dio-re in un ideale metafisico di bontà, giustizia e onniscenza. Il risultato è un Dio tutto spirito, un Dio solo buono, un Dio che ignora il male e gli istinti più bassi, Un Dio che non conosce l’ira, la vendetta, l’invidia. Ma un Dio simile non ha alcun senso:

«Un Dio simile non lo si comprenderebbe: a quale scopo dovremmo averlo?».105

Un Dio che non rappresenta più l’individuo nella sua totalità, che non esprime più la volontà di potenza e la forza del suo popolo, è un Dio assolutamente inutile, insensato, impossibile. Il Dio cristiano diviene simbolo che contraddice la vita, che disconosce la natura; diviene ideale che disprezza il corpo e gli istinti, ideale che svaluta il mondo. «In Dio viene divinizzato il nulla» e la volontà di potenza si trasforma in volontà del nulla.

105

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 16, p. 19.


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Per Nietzsche l’unico attributo accettabile per un Dio è la potenza in quanto caratteristica che riassume in sé anche tutte le altre. La bontà non soltanto è indegna di un Dio, ma anche perniciosa, in quanto, se unita alla potenza, potrebbe produrre le più funeste conseguenze, come l’abolizione del male. Ma per Nietzsche «si ha bisogno del Dio cattivo quanto di quello buono»106, senza contare che non si può giudicare una qualità in astratto, senza conoscere il fine a cui essa è diretta. La giustizia, la conoscenza, la magnanimità, possono diventare negative se usate per scopi dannosi. E poi basti pensare ai cristiani, che, in nome del «Dio dell’amore», in nome del bene, rovinano l’umanità e deprezzano l’esistenza. D’altra parte Nietzsche non si limita semplicemente a negare l’esistenza di Dio; egli vuole anche dimostrare che in realtà non c’è nulla di divino in quello che finora è stato venerato come tale. Il Dio cristiano si configura come negazione della vita, negazione stessa di Dio. È un Dio che fa la guerra agli istinti più nobili ed elevati; a tutto ciò che è ben riuscito, fiero, tracotante. Attraverso l’immagine del Dio in croce, si è voluto divinizzare tutto ciò che soffre, che è malato, infermo, impotente. Il Dio in croce, il Dio che si sacrifica, che sanguina, che muore, è la massima obiezione contro l’esistenza. E

allora

un

Dio

simile,

immediatamente eliminato.

106

Ivi, p.18.

anche

ammesso

che

esista,

andrebbe


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CAPITOLO 4 Confronti

4.1.

Buddismo e cristianesimo

Ne L’Anticristo – e altrove – il confronto fra il cristianesimo e le altre religioni diviene inevitabile. Nietzsche dimostra non soltanto una sorprendente competenza per tutto ciò che concerne l’origine della religione, ma anche un’ottima conoscenza di alcuni culti in particolare. Il buddismo è certamente quello su cui l’attenzione del filosofo si concentra maggiormente. Se è vero che in sporadiche occasioni, Nietzsche parifica il cristianesimo e il buddismo, è anche vero che il più delle volte, dal confronto esce vincente proprio quest’ultimo. Anche in questo caso non si tratta di un discorso etico: è un fatto di «igiene», di salute. Si tratta di prediligere il culto fisiologicamente più forte.

4.1.1. I punti in comune

Sebbene cristianesimo e buddismo siamo radicalmente diversi, Nietzsche in un passo de L’Anticristo107 e nei frammenti postumi sottolinea anche le caratteristiche che li accomunano. Innanzitutto entrambe le religioni sono considerate décadentes, perché lontane dall’atteggiamento tipico dello spirito libero, dello spirito forte, sano, lontane dalla «morale dei signori». Entrambe sono votate al nichilismo, entrambe, in modi diversi, aspirano al Nulla. In particolare, il buddismo considerando l’agire e l’esistenza stessa insensati, cerca con tutte le forze di raggiungere una via che porti al non essere.

Vedi Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 20, p. 22 (corsivo nel testo): «[…] Sono connesse tra loro in quanto religioni nichilistiche – sono religioni della décadence – […]». 107


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Senza contare che sia il cristianesimo che il buddismo commettono il gravissimo errore di anteporre alla verità la fede che qualcosa sia vero. La «santa menzogna» che per certi aspetti si trova già in Platone 108, accomuna entrambi; ma la menzogna, la credenza hanno anche risvolti positivi che non sfuggono certo all’occhio attento di Nietzsche. Infatti, attraverso l’inganno, anteponendo la fede alla realtà e servendosi di illusioni e favole, sia il cristianesimo che il buddismo insegnano agli uomini, anche ai più umili, a collocarsi devotamente in un apparente ordine superiore delle cose, mantenendo, al tempo stesso, l’accettazione dell’ordine effettivo.109

4.1.2. Il buddismo e la lotta contro il dolore

Nonostante alcuni aspetti in comune, per Nietzsche il buddismo resta cento volte più realistico e verace del cristianesimo: esso non combatte il «peccato»; ma dando ragione alla realtà, e in sintonia con la natura, conduce una tenace lotta contro il dolore. Il buddista non ha bisogno di rendere decorosa la sua sofferenza attraverso l’invenzione del peccato o utilizzando spiegazioni immaginarie come il diavolo. Egli semplicemente ammette tale afflizione e ne porta il peso, senza lamentarsi, senza incolpare nessuno, senza adirarsi. Il dolore, conferisce al buddista una grande capacità di soffrire; dallo stesso dolore, nel cristiano, si origina il desiderio di far male, il desiderio di vendetta. Ed è qui che Nietzsche rintraccia la differenza principale fra le due religioni. Egli fa notare come nel buddismo i desideri e le passioni vengano rifiutati e allontanati in quanto porterebbero l’uomo ad agire. Ma come si è notato precedentemente, l’agire non ha senso alcuno perché tiene ancorati Nella Repubblica e nelle Leggi, si legge che ai reggitori-filosofi, custodi e amanti della verità, è permesso anche mentire. Ma è una menzogna positiva che ha come unico fine il Bene dei sudditi. 109 Nietzsche, Al di là del bene e del male, op. cit., aforisma 61, p.104. 108


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all’esistenza e anch’essa, per il buddismo non ha senso. Tuttavia questa volontà del Nulla, che nel cristianesimo diviene risentimento e desiderio di vendetta, nel buddismo produce l’effetto contrario; quest’ultimo, per giungere al non essere, invita ad abbandonare tutti gli istinti e gli impulsi che provengono dalle passioni. Nessuna vendetta quindi, nessuna lotta contro coloro che la pensano diversamente; l’odio, l’amarezza, la preoccupazione di sé o degli altri non sono tollerati, perché considerati altrettanti legami con la vita e l’essere. Anche alle buone azioni non viene attribuita grande importanza: di esse si ha bisogno solo temporaneamente, solo se considerate come semplici strumenti per distaccarsi da ogni agire; ma anche le migliori azioni e intenzioni, alla fine, devono essere abbandonate. Ne deriva il distacco nei confronti della morale stessa. È forse questo il maggior punto di contatto che Nietzsche instaura fra la sua filosofia e il buddismo: entrambi mirano a superare le categorie create dalla morale – compresa la morale cristiana naturalmente –, entrambi sono «al di là del bene e del male». Del resto le differenze tra cristianesimo e buddismo sono ancora più accentuate se si osserva il clima in cui essi si sviluppano e fioriscono. Il buddismo è la conseguenza diretta di un movimento filosofico durato centinaia di anni. Esso fiorisce in un clima mite, pacato, tollerante e profondamente spirituale. Sono le classi superiori, colte che si rivolgono al buddismo e in esso trovano la loro pace. Il cristianesimo, al contrario, sorge e si diffonde tra i popoli più arretrati; in esso emergono gli istinti dei più deboli, dei sottomessi; in esso cercano la salvezza solo i ceti più bassi e privi di ogni cultura. Ne consegue che il cristianesimo, per regnare fra i barbari, ha dovuto avvalersi di valori e istinti barbarici; il buddismo, al contrario, «è una religione per uomini d’epoche


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avanzate, per razze divenute miti: è un ricondurre tali uomini alla pace e alla serenità».110 Ma ciò che divide maggiormente le due religioni esaminate, per Nietzsche, sta nel fatto che il buddismo non promette, ma mantiene, mentre il cristianesimo si limita a una serie di promesse, puntualmente inattese. Il buddismo conduce a un’effettiva, reale e tangibile felicità sulla terra; felicità che il cristianesimo promette in un’altra vita, in un altro mondo. Nel buddismo:

«[…] si vuole come meta suprema la serenità, la quiete, l’assenza di desideri, e si raggiunge questa meta. Il buddismo non è una religione in cui si aspiri semplicemente alla perfezione; il perfetto è il caso normale. […]».111

4.2.

Paganesimo e cristianesimo

4.2.1. Dioniso contro il crocifisso «[…] Dioniso contro il “crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio – solo esso ha un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento… Nell’altro caso il dolore, il “crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna […]».112

Ecco la grande antitesi: cristianesimo e paganesimo, incarnati rispettivamente nelle figure del Dio ellenico Dioniso e del Dio in croce. Confronto che si ritrova sempre più spesso nei frammenti postumi del filosofo e che fa la sua comparsa già ne L’anticristo. È necessario ripetere che tale antitesi non s’inserisce

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., §22, p. 26 (corsivo nel testo). Ivi, §21, p. 24 (corsivo nel testo). 112 Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 14 [89], p. 56 (corsivo nel testo). 110 111


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all’interno di un discorso esclusivamente morale: qui si parla di istinti vitali, si tratta di salute. «Pagano» è l’eterno sì alla vita e a tutto ciò che è naturale; pagano è anzi, il ritrovare un senso d’innocenza nella natura stessa. Al contrario, «cristiano» è un rinnegare tutto ciò che appartiene alla naturalità e agli istinti; cristiano è l’essere contro-natura per eccellenza; cristiano è la falsificazione, l’alterazione, il disprezzo della natura e della vita, laddove pagano è affermazione, celebrazione della natura e di questa esistenza. Del resto se il culto pagano nasce da una sovrabbondanza di salute, il cristianesimo ha necessità della malattia; se, per il paganesimo, la perfezione consiste nell’accogliere anche le contraddizioni e le problematicità dell’esistenza, il cristianesimo inventa per sé un nuovo concetto di perfezione che si realizza in una condizione malaticcia, indebolita, deforme. Ricompare l’antinomia fondamentale: Dioniso contro il crocifisso, l’uno espressione della sfrenata vitalità, l’altro simbolo del sacrificio crudele e immotivato. Dopo aver mostrato quale sia la percezione che il buddismo ha della sofferenza, Nietzsche passa ad esaminare la concezione che di questa hanno il cristianesimo e il paganesimo, e l’antitesi appare sempre più stridente. Si tratta del senso del dolore, un senso cristiano e un senso tragico:

«[…] nel primo caso sarebbe la via che porta a un essere beato, nel secondo l’essere è considerato abbastanza beato da giustificare anche un’immensità di dolore. […]».113

113

Nietzsche, Al di là del bene e del male, op. cit., aforisma 49, p. 93.


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Ecco l’antitesi fra i due culti: il cristianesimo ha necessità del dolore per il raggiungimento di una perfezione che in realtà denigra il corpo e offende la vita; il paganesimo, al contrario, ammette anche il dolore, il male come parte integrante dell’esistenza; il paganesimo crea uno spirito tanto forte, sano, «beato» da poter tollerare, accettare e riassumere in sé anche un’infinità di sofferenza. Dioniso contro il crocifisso: il simbolo affermativo della vita, della vita intera, totale, della verità accolta, si contrappone duramente al simbolo dell’esistenza dimezzata, dell’esistenza privata dei suoi istinti e della sua potenza. Il dionisismo come formula per il trionfo della vita e di tutto ciò che è elevato, «aristocratico», forte, temerario; come formula per tutti coloro che accettano la realtà senza alcuna riserva, accettandone anche gli aspetti più problematici, più dolorosi. Il Dio in croce come formula negatrice dell’esistenza, della natura; come formula che sacralizza la morte dell’uomo e disprezza questa vita e questo mondo; il Dio in croce come formula che innalza tutto ciò che debole e malato; come formula per tutti coloro che soffrono, per tutti coloro che negano la realtà e rifiutano anche il destino più felice in terra. Ecco perché lo stesso martirio assume un diverso significato:

«Il Dio in croce è una maledizione della vita, un’esortazione a liberarsene. Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione».114

114

Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 14 [89], p. 57 (corsivo nel testo).


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Nel paganesimo, Nietzsche ritrova alcuni temi chiave della sua filosofia: non soltanto il sì incondizionato e gioioso alla vita, ma l’amor fati, l’accettazione del destino e l’eterno ritorno dell’uguale. Per il cristianesimo la morte è soltanto un ponte, un mezzo per raggiungere un’altra e migliore esistenza; per il paganesimo, come per Nietzsche, la morte, la distruzione, il tramonto sono necessari per riappropriarsi nuovamente della vita, per affermarla ancora infinite volte.

4.2.2. Pagano e spirito libero

A questo punto è chiaro che il tipo pagano, inteso come massima espressione della vita e della naturalità delle cose, finisce col coincidere con il tipo «aristocratico», con lo spirito libero e ne L’Anticristo è proprio quest’ultimo a doversi confrontare con il tipo cristiano. Come il pagano, anche lo spirito libero ha necessità della salute e il coraggio della verità; per questo disprezza una religione come il cristianesimo che insegna a fraintendere la natura, che combatte la forza e la vitalità come nemici mortali; che innalza lo «spirito» solo per poter umiliare il corpo, che si fa portavoce di un concetto di santità completamente distorto. Ma per Nietzsche solo gli spiriti liberi sono divini115, solo gli spiriti liberi possono divenire il simbolo di una nuova umanità che, svincolata dalla morale religiosa, può aspirare a diventare ultraumana e divina. Se la differenza fondamentale tra cristianesimo e paganesimo consiste in un’antitetica visione del dolore, della salute, della vita e della morte, lo spirito libero si contrappone al cristiano soprattutto per ciò che concerne il rapporto con la verità. D’altra parte, per Nietzsche il cristiano non ha nessun rapporto 115

Cfr. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 51, p. 73: «Noi soltanto siamo divini».


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con la realtà, perché non è abbastanza sano, abbastanza forte e temerario per sopportarla. Il cristiano è l’«uomo della convinzione», l’uomo che si aggrappa alla fede: ed è proprio per questo motivo che egli non può intervenire in un discorso sulla verità o sul valore delle cose. La natura ha dimenticato, trascurato il cristiano ed egli, per vendicarsi, altera la natura stessa, travisa la realtà, se ne crea per sé una completamente falsa, illusoria e oppone ai valori aristocratici i suoi anti-valori; alla morale dei signori la morale degli schiavi. Al contrario, «i grandi spiriti sono degli scettici»116: gli spiriti liberi sono svincolati da ogni specie di convinzione: essi sono abbastanza forti e tanto coraggiosi da poter sopportare qualsiasi verità. Lo spirito libero in un certo senso è un «nobile traditore»117, perché abbandona ogni fede per lasciare che il proprio sguardo vaghi libero di fronte al mondo e alle cose; per percorrere intrepido il cammino della conoscenza. La verità, per lo spirito libero, non è una scelta, ma un destino, una fatalità: si deve essere abbastanza sani, abbastanza audaci per intraprendere la strada della verità, così come si deve essere sufficientemente malati per diventare cristiani.

116 117

Ivi, § 54, p. 77. Nietzsche, Umano troppo umano, I. Frammenti postumi (1876-1878), op. cit., aforisma 17[66], p. 326.


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CAPITOLO 5 Nietzsche psicologo Una volta analizzati i più importanti principi che stanno a fondamento della religione e della morale, è facile intravedere che questi si raccolgono e si concentrano tutti in un peculiare tipo di uomo: il cristiano. Per Nietzsche non si tratta semplicemente di dimostrare l’infondatezza di un dogma o di un concetto: si tratta di soppiantare il tipo di individuo voluto e creato dal cristianesimo, perché un nuovo tipo di uomo, con nuovi valori e dalle prospettive inconsuete possa finalmente trionfare. Il titolo del capitolo è stato scelto con l’intenzione di sottolineare la grande capacità

psicologica

con

cui

Nietzsche

costruisce

una

genealogia

dell’atteggiamento cristiano, e la sua profondità nell’esaminare gli istinti e le passioni più segrete che muovono i personaggi presi di volta in volta in considerazione.

5.1.

Il «tipo cristiano»

5.1.1. Proiezione, alienazione, fraintendimenti e menzogne «[…]“Non giudicate!” loro dicono, ma spediscono all’inferno tutti quelli che intralciano a essi il cammino. Facendo giudicare Dio, giudicano essi stessi; glorificando Dio, glorificano se stessi; esigendo le virtù di cui essi sono capaci […] fanno grande mostra di lottare per la virtù […]».118

In questo passo si riassume l’accusa che più volte Nietzsche lancia contro i rappresentanti della Chiesa cristiana e i loro ipocriti valori. Ma prima di fornire una psicologia del tipo cristiano, Nietzsche ritiene necessario spiegare come 118

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 44, p. 59 (corsivo nel testo).


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abbia origine l’uomo religioso e il concetto di Dio. Secondo la sua tesi, il cristiano altera e scompone la sua personalità in due distinte proiezioni: l’una meschina e debole, che chiama «uomo»; l’altra, a cui attribuisce tutti i caratteri positivi e che denomina «Dio», «Salvatore», «Messia». Le conseguenze sono chiare quanto gravi: tutto ciò che è buono, eccellente, retto, viene espulso dall’uomo, e finisce per essere considerato divino, sovrumano. Quanto vi è di più elevato, nobile ed eccellente viene ritenuto inattingibile, un dono, una grazia concessa da Dio all’uomo. L’uomo religioso eleva alla massima potenza tutte le sue qualità migliori e le proietta all’esterno: crea un Dio buono, amorevole, eterno, onnipotente, ma, al tempo stesso, si spoglia della sua parte migliore e riduce se stesso a un essere spregevole e bisognoso. Il tipo cristiano è un uomo dimezzato, un uomo privato di quella forza, di quella potenza, di quella sanità che ha rivolto irrimediabilmente verso l’esterno. Dio diviene una creazione umana, troppo umana: l’errore del cristiano è quello di riporre interamente la propria fede in una finzione che egli stesso ha creato, dimenticando se stesso e la propria esistenza. È così che si origina l’uomo di fede: un uomo sottomesso alla sue stesse convinzioni e perciò un uomo dipendente. Il tipo cristiano non si appartiene più, ma diviene un mezzo, uno strumento: è per questo che egli ha assoluta necessità che qualcuno lo usi. Anticipando Freud, Nietzsche affronta e descrive tematiche fondamentali a livello psicologico come la proiezione, la spersonalizzazione e l’alienazione dell’individuo. Del resto il cristiano, non è solo il parto di una proiezione e di uno sdoppiamento: è quel tipo di uomo che nasce dallo spirito di decadenza e dal ressentiment.


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Il «tipo cristiano» è il simbolo di tutto ciò che sta in basso, che è malato, infermo, debole e che perciò si rivolta contro i forti; è il segno della mortale inimicizia contro lo spirito, contro i sensi, contro il piacere. Il «tipo cristiano» è il simbolo di ciò che non potendo elevarsi, odia tutto ciò che è elevato, ben riuscito, nobile, vigoroso. Non potendo appropriarsi in alcun modo dei principi propri di una morale dei signori, il cristiano si è impadronito di ogni aspetto della morale, e ha rovesciato tutti i valori in direzione di sé, in modo tale da divenire il tipo supremo. Ma i valori del cristiano sono dannosi perché travisano la natura e mistificano il mondo. I valori cristiani sono, anzi, dei veri e propri anti-valori, inventati per vendicarsi della realtà e della terra: essi hanno lo scopo di far apparire gli uomini sani come «peccatori», e di trasformare gli uomini forti in esseri malati, miserabili, ricolmi di odio verso gli impulsi vitali e sospettosi nei confronti di tutto quanto è ancora ben saldo, elevato e felice. Ancora una volta, però, fra le critiche più dure che Nietzsche muove al cristiano, c’è quella legata al problema della verità. Per il filosofo, non si tratta di quantità, ovvero di una maggiore o minore aderenza alla verità. Si tratta di qualità, si tratta di accettare il mondo e l’esistenza così come sono. Ma il cristiano si sente talmente offeso e ferito dalla realtà delle cose da doverla rifuggire, da doverne ricreare una parallela; egli chiude gli occhi di fronte alla verità, e inventa un nuovo sistema di valori da imporre all’umanità. Il cristiano è guidato e condizionato soltanto dalla sua ottica, dalla sua visione distorta delle cose ed è per questo che egli è necessariamente un fazioso, un fanatico, «il tipo antitetico allo spirito forte divenuto libero».119

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 54, p. 79, (corsivo nel testo). Parlando di fanatici, Nietzsche utilizza come esempio personaggi come Savonarola, Lutero, Robespierre, Saint-Simon, Rousseau. Si noti che per il filosofo il fanatismo nasce quando l’uomo si appiglia a una convinzione e su questa fonda la sua vita: non fa distinzione tra il fanatismo politico e quello religioso perché entrambi producono gli stessi effetti. 119


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Essere condizionati da una visione ristretta delle cose significa non voler vedere la realtà nella sua interezza, nella sua totalità; significa aggrapparsi a una convinzione perché non si ha il coraggio di avventurarsi per la via che porta alla verità. Per Nietzsche è necessario scegliere. O la verità o la fede: l’una esclude necessariamente l’altra perché, se la prima si raggiunge solo attraverso una ricerca faticosa, la seconda vieta la conoscenza e il libero pensiero, entrambi indispensabili alla verità. Proprio in relazione alla volontà di verità, si crea fra Nietzsche e il tipo cristiano un abisso incolmabile. Il cristiano incarna il tipo di uomo che inganna se stesso perché incapace di vedere le cose così come appaiono; è il tipo di uomo incapace di volere la verità. Vi si contrappone Nietzsche, lo spirito libero, il «predestinato al labirinto», colui che non può fare a meno di ricercare la verità; colui che non soltanto spalanca gli occhi di fronte alla realtà, ma che intende aprirli anche al resto dell’umanità, abbattendo per sempre una morale falsa e dannosa. Per far questo, utilizza come criterio di verità proprio il «tipo cristiano»:

«Morale: ogni parola sulla bocca di un “primo cristiano” è una menzogna […] ma colui che lui odia, quel che lui odia, ha valore… Il cristiano, particolarmente il prete cristiano, è un criterio di valori… […] Essi attaccano, ma tutto quel che subisce i loro attacchi è per ciò stesso eccellente. Colui che è attaccato da uno dei “primi cristiani”, non resta insozzato… Viceversa è un onore avere contro di sé i “primi cristiani” […]».120

Ecco la soluzione: il cristianesimo ha capovolto tutti i valori per avere il sopravvento sui «signori»; adesso si tratta di rovesciare nuovamente quegli 120

Ivi, § 46, p. 65, (corsivo nel testo).


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stessi valori. Solo allora l’umanità potrà liberarsi dalla morale del gregge, degli schiavi, dei deboli, e impadronirsi nuovamente di se stessa.

5.1.2. Un caso particolare: psicologia del prete

Un discorso a parte merita la psicologia del prete. Quest’ultimo è certamente un cristiano, ma un cristiano particolare; un cristiano che sostiene l’uguaglianza fra tutti gli uomini, e che allo stesso tempo si pone al di sopra dell’umanità intera. Ma il prete è un cristiano particolare anche perché vuole imporsi come la potenza maggiore della comunità e rappresentare il tipo supremo di uomo. Per farlo, e per rendere assolutamente indispensabile e insostituibile la sua figura, il prete utilizza tre particolari accorgimenti. Il primo: «Lui solo sa».121 In altre parole, il prete deve far credere di essere l’unico uomo in possesso della «verità». La verità diviene qualcosa di semplicemente dato, di rivelato; è un dono, una grazia che Dio concede in modo esclusivo al prete. È chiaro che allo scopo di evitare che si scopra che la verità è, in realtà, menzogna e finzione, il prete combatte tutto ciò che potrebbe smascherarlo. Ne consegue un odio misto a paura nei confronti della scienza, della ricerca, della cultura in generale, nei confronti di tutto ciò che potrebbe intralciare in qualche modo la potenza del prete. Di qui, la nozione di colpa e quella di castigo, l’ideazione di un ordine morale del mondo e del libero arbitrio: tutti accorgimenti che servono a rendere l’uomo infelice e dipendente dalla dottrina e dalla tutela della Chiesa. Il prete ha compreso che, per mantenere la sua potenza, è necessario sostituire alla verità, la fede che qualcosa sia vero; ha inventato il peccato; ha insegnato il disprezzo della vita, dei sensi, del mondo: la «santa menzogna», il diritto di mentire per scopi pii, è la teoria di ogni 121

Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 14 [199], p. 171 (corsivo nel testo).


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clero. Per Nietzsche invece l’espressione «la verità esiste» non significa altro che «il sacerdote mente». Il secondo: «Lui solo è intermediario tra Dio e gli altri».122 Se il prete intende essere l’unico intercessore fra Dio e gli uomini, deve fare in modo che non esistano altri accessi diretti alla divinità: solo così può assicurarsi il dominio sull’umanità. L’uomo infatti sembra aver bisogno di qualcuno che gli dica cos’è giusto e sbagliato, buono e cattivo, perché da solo non potrebbe pronunciarsi su simili questioni. Allora ecco che Dio, attraverso il sacerdote, mostra agli uomini la sua volontà. In base a un tale ragionamento il prete non può in alcun modo mentire: innanzitutto perché per mentire dovrebbe saper correttamente discernere il vero dal falso; e il prete, essendo soltanto un uomo, non può appunto stabilirlo. Ma soprattutto, il sacerdote non può mentire in quanto egli è un semplice tramite, uno strumento attraverso cui si esprime la divinità: egli non fa altro che riferire la «legge» che gli proviene direttamente da Dio. Ma, per Nietzsche, la «legge», la «volontà del Libro» sono soltanto nomi sotto i quali, in realtà, si cela la bramosia del prete; sono i mezzi di cui egli si serve per assicurare la sua potenza e mantenere il dominio. Anche stavolta Nietzsche non nega l’esistenza della verità; egli semplicemente afferma che il prete non ha nessun diritto di pronunciarsi su di essa. Il prete mente, mente sapendo di mentire, mente allo scopo di dominare sull’intero genere umano. «Lui solo è virtuoso».123 Si tratta del terzo mezzo che il prete utilizza per signoreggiare sugli altri. «Il prete ha insegnato un solo tipo di morale per essere considerato il tipo supremo».124 Il sacerdote parte da sé per creare una scala di valori che sia applicabile a tutti gli uomini: solo in questo modo egli può Ivi, p. 172 (corsivo nel testo). Ivi (corsivo nel testo). 124 Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 14 [199], p.171 (corsivo nel testo). 122 123


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diventare il modello assoluto; solo in questo modo può essere considerato la fonte del bene; solo così può divenire un punto di riferimento per ciascuno, l’esempio a cui tutti devono guardare. Ma se il prete diviene il tipo supremo, questo può succedere solo a scapito dell’uomo forte, sano, dello spirito libero; se il prete diviene il miglior criterio di valore, ciò avviene soltanto perché tutti i valori sono stati capovolti: allora la forza è sostituita dalla viltà, gli istinti naturali dal disprezzo per i sensi e la vita; lo spirito di vendetta prende il posto della volontà di potenza; allora la menzogna si sostituisce alla verità.

5.1.

Paolo di Tarso

Come si è visto, il «tipo cristiano» commette l’errore di travisare la natura, l’esistenza, il mondo, e quello di svilire i sensi e l’uomo. Ma non è tutto: egli finisce per fraintendere persino il cristianesimo stesso. Il cristiano, infatti, si riappropria di tutto ciò che in origine negava, e riprende le attività che fino a poco prima aveva rinnegato, come il giuramento, l’autodifesa, il punire, la distinzione fra popolo e popolo, la vendetta. Alla fine la sua intera esistenza diviene esattamente quella vita da cui Gesù predicava il distacco. L’esempio più evidente di quanto il cristiano si sia allontanato dall’insegnamento del suo fondatore è costituito da Paolo di Tarso.

5.2.1. Il «primo cristiano»: un’apparente contraddizione alla tesi

In Aurora, Nietzsche afferma che, senza l’intervento di Paolo, non sarebbe mai esistita una cristianità: «avremmo avuto appena notizia di una piccola setta giudea, il maestro della quale morì sulla croce».125 E poco più avanti Nietzsche aggiunge: 125

Nietzsche, Aurora, op. cit., aforisma 68, p. 49.


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«È questo il primo cristiano, l’inventore della cristianità! Prima di lui non c’erano che alcuni ebrei settari».126

Ma se Nietzsche ne L’Anticristo, considera Gesù come il solo cristiano che sia mai esistito; se lo ritiene l’unico vero fondatore del movimento che poi prese il suo nome, come si giustifica questa affermazione di soli pochi anni anteriore? Nietzsche ha mutato parere alla luce dei nuovi studi? E con L’Anticristo, il filosofo prende le distanze dalle dichiarazioni fatte in precedenza? La confusione nasce quando, ne L’Anticristo, Gesù sembra prendere il posto di Paolo nella definizione di «primo cristiano»: è forse un errore? Si potrebbe credere che la tesi proposta allora, si trovi di fronte a una contraddizione. Ma è davvero così? In verità, a considerare bene il testo, e valutando la terminologia, si comprende che la contraddizione è soltanto apparente e che Nietzsche non ha mai cambiato opinione. La chiave della soluzione si trova in Aurora: Paolo non è definito fondatore del «cristianesimo», ma «inventore della cristianità»127 proprio per sottolineare la frattura incolmabile che esiste fra Gesù e tutto ciò che è venuto dopo. Gesù è il solo che, con la sua vita e la sua morte, ha insegnato, mostrato e diffuso i valori del cristianesimo; è lui ad aver creato, non una nuova religione, ma una nuova norma di vita. Dopo di lui, non c’è cristianesimo, ma cristianità. Tutto quello che ha seguito la morte di Gesù, è mistificazione e fraintendimento del messaggio originario: e Paolo ne è il maggiore responsabile. Se Gesù è il portatore di un modo di vivere, Paolo è Ivi, p. 52 (corsivo nel testo). Ivi. Il corsivo non è opera di Nietzsche, ma è stato utilizzato per evidenziare il differente valore che il filosofo attribuisce ai termini cristiano, cristianesimo e cristianità. 126 127


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l’iniziatore della Chiesa e il promotore di tutti quei principi che, in ultima analisi, sono l’esatto opposto degli ideali proclamati da Cristo. In questo senso, Paolo può essere considerato il «primo cristiano» perché incarna tutti quei valori che ancora oggi vengono spacciati per cristiani, ma che in realtà, non lo sono affatto. Per Nietzsche, Gesù fu soltanto un idiota, un idiota che in assoluta innocenza si faceva portatore di un messaggio universale di uguaglianza, amore, pietà e fratellanza; tutto il contrario di Paolo: egli «non era in nessun modo un idiota»128, in quanto strumentalizzò il messaggio originario del cristianesimo per dominare sugli uomini, per renderli dipendenti e schiavi, per sovvertire i principi naturali, per rendere deboli i forti e malati i sani: «Paolo non era in nessun modo un idiota! Da tutto ciò dipende la storia del cristianesimo».129 «Alla “buona novella” seguì immediatamente la peggiore fra tutte; quella di Paolo»130: se è vero che Nietzsche non perde occasione per criticare duramente il Vangelo e gli evangelisti131, è anche vero che il filosofo intende sottolineare la frattura che separa la «buona novella», quella di Gesù e dei primi evangelisti, da Paolo: Paolo il falsificatore, Paolo «il genio dell’odio» e del risentimento. Egli incarna il tipo antitetico a ogni istinto evangelico; egli finisce per considerare cristiano proprio tutto ciò che contrasta nel modo più profondo con l’insegnamento di Gesù:

Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit. aforisma 14[38], p. 29. Ivi. 130 Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 42, p. 55 (corsivo nel testo). 131 Ivi, § 44, p. 58: “I Vangeli sono inestimabili come testimonianza della corruzione, già intollerabile, all’interno delle prime comunità”. Vedi anche § 45, in cui Nietzsche riporta e commenta alcuni passi tratti dal Vangelo di Marco, Matteo, Luca, oltre che citazioni della lettera Ai Corinzi di Paolo. 128 129


70 «[…] Questo è il lato umoristico della cosa, un umorismo tragico: Paolo ha di nuovo edificato in grande stile proprio ciò che Cristo aveva annullato attraverso la sua vita […]».132

Se pur in termini diversi, anche i moderni studiosi del Nuovo Testamento sono generalmente concordi nell’affermare che il cristianesimo non risalga a Gesù, ma all’apostolo Paolo. Fu Paolo a creare una divergenza con la tradizione ebraica: Gesù invece non fondò mai una nuova religione.133

5.2.2. L’errore più grande «[…] Il tipo del redentore, la dottrina, la pratica della vita, la morte, il significato della morte, persino quello che seguirà alla morte – nulla restò intoccato, nulla mantenne anche la più piccola somiglianza con la realtà».134

Qui non si tratta soltanto di un’invenzione della Chiesa: qui si ha a che fare con l’errore più grande commesso da Paolo, quello da cui derivano tutti gli altri. Paolo, il disangelista del rancore e della vendetta, non soltanto erra, ma confonde, falsifica, altera; sacrifica ai propri scopi il redentore, lo inchioda alla sua croce. Questo significa che la vita di Gesù, in un momento è dimenticata; il suo esempio, i suoi insegnamenti, il significato della sua morte, tutto viene rivisto, manipolato o cancellato. Resta soltanto l’immagine di un Dio in croce, di un Dio che si è fatto uomo e che soffre per i peccati degli uomini. E non è tutto. Paolo fa in modo che il «Dio in croce» divenga il simbolo sotto cui raccogliere tutto quanto sta in basso, tutto Nietzsche, “Per la storia del cristianesimo” in La volontà di potenza, Bompiani, Milano 1995, aforisma 167. 133 Cfr. Den Heyer, C.J., La storicità di Gesù in Piccola biblioteca teologica, Claudiana, Torino 2000. 134 Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., Milano 2004, § 42, p. 55. 132


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ciò che è «segretamente in rivolta», per farne un’enorme potenza e un modello di perfezione per tutta l’umanità. Da questo momento anzi, la debolezza, la malattia, la miseria divengono motivo di vanto perché, per Paolo, è Dio stesso a scegliere gli emarginati, gli infermi, gli umili; è Dio che non ha pietà dei sani, dei forti, dei superbi. Dopo l’intervento di Paolo, Paolo il falsificatore, l’intera esistenza di Gesù viene messa da parte, diviene priva di valore: tutto si concentra sulla morte. Del resto, anche questa ormai acquista un senso nuovo; diviene redenzione e sacrificio dell’innocente. Per Paolo, difatti, Gesù sarebbe morto per i peccati degli altri, per redimere tutti gli uomini. Ma non è assurda l’idea di un uomo che con la sua vita, paga per le colpe di ciascuno? La risposta di Paolo è semplice: a causa di Adamo, tutta l’umanità viene contaminata dal peccato, ma in Gesù, tutta l’umanità si salva.135 Se un solo individuo ha potuto macchiare col suo peccato tutti gli uomini, allora non è poi così inverosimile l’idea di un uomo che da solo riscatta l’intero genere umano. Ma la risposta di Paolo è per Nietzsche soltanto una menzogna: Gesù non è morto per la colpa di altri, ma solo per la sua. Uno dei crimini più grandi commessi da Paolo è stato quello di tradurre i simboli del primo cristianesimo in qualcosa di concreto e per nulla allegorico: l’originario contrasto tra vita vera e vita falsa, degenera nel contrasto fra vita terrena e vita celeste. È questo il primo grande errore di Paolo, quello da cui derivano tutti gli altri: l’idea di una vita dopo la morte, i concetti di resurrezione e immortalità. Del resto, se egli fa suo il concetto di aldilà, non è forse per svalorizzare la terra? E se proclama con ardore il distacco da questo «mondo

135

Vedi San Paolo, I Lettera ai Romani, in I classici del pensiero, Rizzoli, Milano 2004.


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malvagio», non è per uccidere la vita? Senza contare poi che egli usa un’idea tanto anticristiana quanto antiebraica: l’idea di immortalità personale. Alla luce di queste considerazioni, anche il noto «attimo di Damasco» viene reinterpretato da Nietzsche: non si tratta affatto di illuminazione divina, di conversione, di fede in Cristo come affermano gli Atti. Piuttosto, Paolo comprende che c’è soltanto un modo per distruggere le passioni, per svilire la natura e il mondo: convincere gli uomini che ciò che conta deve ancora giungere, che ciò che conta è nell’aldilà. Egli insegna a rigettare questa vita, a vederla come un ostacolo alla «vera vita», quella celeste, quella dopo la morte. Ma per Nietzsche questa è aspirazione al Nulla e infedeltà alla terra, agli istinti, all’unico mondo veramente dato. La dottrina del giudizio e del ritorno, del premio e del castigo, il tono apocalittico con cui Paolo annuncia la ridiscesa del Signore, sono altrettanti mezzi per rendere gli uomini dipendenti dalla fede, considerata come l’unica via di salvezza, e per garantire a Paolo (e ai sacerdoti in generale) l’autorità suprema sul resto dell’umanità.


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CAPITOLO 6 Il «tipo Gesù» e la morte del cristianesimo Uno degli aspetti più interessanti de L’Anticristo, è certamente quello che riguarda il manifesto dissidio tra il cristianesimo e il suo fondatore. Dopo averci introdotti nel mondo cristiano, in un mondo di misfatti e tenebre, di menzogne e iniquità, ecco che, senza alcun preavviso, Nietzsche fa comparire una figura luminosa e positiva: si tratta di Gesù, il Gesù storico, la cui vita è stata offuscata e manipolata dal cristianesimo, ma che Nietzsche vuole riscoprire nella sua pienezza. Perché Gesù fu, prima di ogni altra cosa, un uomo, con i suoi sentimenti, le sue lotte; con le sue piccole conquiste e le sue sconfitte; con le sue fragilità e le sue convinzioni. È questo il Gesù che va ritrovato, il Gesù autentico.

6.1.

Alla ricerca del Gesù autentico

Per Nietzsche, il tipo psicologico del redentore «potrebbe essere contenuto nei Vangeli a dispetto dei Vangeli»136: e allora il filosofo con l’attenzione di uno storico e lo scrupolo del filologo, ricerca nei testi quei dettagli, spesso sottovalutati o trascurati dalla Chiesa, che invece possono essere utili a fornire un quadro puntuale dell’ambiente e della vita di Cristo. Attraverso le parole di Gesù, attraverso i suoi insegnamenti, ma ancor più attraverso il racconto dei gesti e della sua condotta quotidiana, si delinea una figura molto diversa rispetto a quella che il cristianesimo ha voluto tramandare. Del resto, i discepoli stessi hanno inavvertitamente deformato l’immagine autentica del loro maestro: perché ogni incondizionata venerazione, cancella nella persona amata i tratti più singolari e stravaganti. 136

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 29, p. 37 (corsivo nel testo).


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Dalla descrizione di Nietzsche emerge un personaggio affascinante e gentile; viene alla luce il suo lato fanciullesco, timido, votato all’altruismo e al sacrificio di sé: questo è Gesù, col suo fascino che scaturisce dall’insolita mescolanza di «sublimità, malattia e infantilismo».137 È come se in lui i tratti maturi e virili non si fossero mai sviluppati: è ritardato, turbato forse da una nevrosi di tipo epilettico. Eppure, sembra impossibile non sentirsi attratti da questa figura delicata nella sua malattia, dalla sua impalpabile grazia e dal garbo quasi femmineo che sprigiona. Il Gesù di Nietzsche diviene un simbolista138, un mistico. Egli rifiuta la realtà, quasi la teme, e ad essa predilige un mondo unicamente interiore, eterno, concettuale. La sua avversione nei confronti della realtà è la conseguenza diretta di una profonda capacità di sentire: ogni contatto è avvertito troppo violentemente, tanto da minacciarlo nel suo equilibrio, tanto da ferirlo. Ne deriva la «fuga nell’inafferrabile», nel pensiero, nel simbolo. Egli fonda la sua esistenza, il suo mondo e le sue verità su pochi concetti che ha udito e col tempo compreso; tutto il resto gli è ignoto. Anche le parole che pronuncia, quei vocaboli che per tutti gli altri uomini hanno un significato condiviso, in lui ne assumono un altro, intimo. Espressioni quali «regno di Dio», «vita vera», «padre» e «figlio» in lui diventano simboli, condizioni interiori: esse non hanno alcun rapporto con la realtà. Allo stesso modo, per lui, la «vita vera» non è qualcosa che deve giungere: essa esiste e si contrappone alla vita comune, ordinaria. Non è vita dopo la morte, ma è vita che si realizza in ogni momento nell’animo dell’uomo. La vita vera è la vita nella verità. E la verità, per questo «simbolista», non è altro che una realtà spirituale, interiore e profonda.

137 138

Ivi, § 31, p. 40. Il termine «simbolista» è utilizzato dallo stesso Nietzsche.


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In contrasto con Renan139 e la sua idealizzazione che fa di Gesù un guerriero e un genio, Nietzsche presenta il redentore come il personaggio di un romanzo dostoevskijano140:

«Egli è esattamente l’opposto di un eroe: è un idiota».141

In Gesù è assente ogni elemento di fanatismo: la fede, in lui, non è ottenuta lottando, non è imposta, né comandata; non inveisce, non condanna, non punisce, non vuole separare gli uomini; non si può dimostrare. Per Gesù la fede è una pratica di vita più che una norma; non ha bisogno di formule e riti perché essa è la formula di se stessa in ogni attimo, perché essa vive nel cuore di chi pratica l’esempio di Cristo. Gesù non è un guerriero, un eroe come vorrebbe Renan: egli non si batte mai, non si difende nemmeno quando è a rischio la sua Nietzsche è in netto disaccordo con la rappresentazione di Gesù proposta da Renan nel suo celebre scritto Vie de Jésus. In realtà, Renan fa di Gesù semplicemente un uomo: ne afferma l’esemplarità, ma nega categoricamente che Egli possa essere divino. Per Renan non si può in alcun modo ritenere che Cristo sia un’incarnazione di Dio: Cristo è piuttosto un inviato di Dio, un uomo protetto e favorito da Dio, un figlio di Dio. Renan, inoltre, descrive Gesù come un genio, come un modello esemplare dal punto di vista etico, ed è forse questa affermazione a provocare l’attacco di Nietzsche. Per entrambi Cristo fu soltanto un uomo: ma Renan ne fa un genio e un eroe, dimenticando i lati più stravaganti della sua figura; Nietzsche, al contrario, è proprio da quegli aspetti che decide di partire per descrivere il «tipo Gesù». Scrive Renan: «Non si può assolutamente affermare che Gesù si sia mai fatto credere un’incarnazione di Dio. Quest’idea era profondamente estranea all’intelligenza giudaica; non ce n’è traccia nei Vangeli sinottici […]. Anzi sembra che a volte Gesù prenda precauzioni per respingere una tale dottrina. L’accusa di farsi Dio, o l’uguale di Dio, è dipinta nello stesso Vangelo come una calunnia giudaica. Gesù dichiara che il Padre è maggiore di lui; confessa, inoltre, che il Padre non gli ha rivelata ogni cosa. Egli si crede più d’un uomo ordinario, ma infinitamente lontano da Dio. Egli è figlio di Dio […]». Vedi Renan, Vita di Gesù, Feltrinelli, Milano 1979, p. 108. 140 L’influenza di Dostoevskij sull’opera di Nietzsche è innegabile, soprattutto se si considera la descrizione psicologica di Cristo e si confronta la sua figura con quella di uno dei personaggi più belli che Dostoevkij abbia mai concepito: il principe Myškin, protagonista dell’Idiota. Myškin, il Principe Cristo, come lo definisce lo stesso Dostoevkij nei materiali preparatori, è un idiota, perchè solo con l’idiozia Dostoevkij poteva giustificare la sua bontà incondizionata e totale, la sua purezza, la sua semplicità, la sua infinita compassione. Questo moderno Cristo, è una creatura ingenua, puerile, sprovveduta di fronte alla malizia e alla perfidia degli uomini; una creatura mite e candida che si scontra con una società corrotta e crudele. Il principe Myškin rappresenta la luminosità della bellezza, una bellezza profonda e pura, una bellezza del cuore; egli incarna l’accettazione su di sé del dolore altrui: perché la pietà, in lui, è più forte di ogni altra cosa, più forte anche dell’amore. E come un Messia moderno, alla fine, anche Myškin è destinato a soccombere di fronte alla malizia e ai freddi meccanismi dell’ambiente in cui si muove. Alla fine egli rimane vittima della violenza altrui senza potersi difendere in alcun modo, se non rifugiandosi nella follia. Il principe di Dostoevkij è una creatura sublime, ma proprio questa sua superiorità spirituale è ciò che gli impedisce di affrontare la vita e il mondo come fanno tutti gli altri. Del resto, sono queste le caratteristiche che fanno del principe Myškin un nuovo Cristo; e sono questi tratti psicologici ad ispirare profondamente Nietzsche per la sua descrizione di Gesù. 141 Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, op. cit., aforisma 14[38], p. 28 (corsivo nel testo). 139


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stessa vita, anzi, porge l’altra guancia, e prega per i suoi aguzzini. Egli è libero da ogni risentimento: non prova rancore, non vuole neppure essere difeso dai suoi discepoli, non chiede vendetta: Gesù è l’anti-eroe par excellence. È un idiota: «un idiota in mezzo a un popolo avvedutissimo».142 Con la sua mitezza, con la sua totale e disinteressata pietà, con la sua sincerità disarmante e con la sua infinita capacità di perdono, egli si trova interamente esposto alle offese e all’ingiustizia della gente. Non solo non si offende, ma non tenta neppure di difendersi. È debole e malato nel corpo, inesperto dei rapporti umani e delle regole della società; eppure è forte, coraggioso e intelligente in un modo diverso. La sua forza è quella dell’anima, e il suo coraggio è il coraggio della verità; la sua intelligenza, se da una parte gli impedisce di rapportarsi al mondo di tutti, dall’altra, gli permette di penetrare nel cuore degli uomini e di inventare un mondo tutto suo. Per Nietzsche non si è compreso l’essenziale di questa insolita e straordinaria figura: non si è capito che proprio con la sua esistenza, Gesù ha voluto offrire il più chiaro esempio della sua dottrina; non si è capito che la sua condotta di fronte alla morte rappresenta la vittoria più grande del bene sul male.

«[…] Egli non aveva più bisogno di nessuna formula e di nessun rito per il suo commercio con Dio – e neppure della preghiera. Egli ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione: egli sa che soltanto con la pratica della vita ci si può sentire “divini”, “beati”, “evangelici”, “figli di Dio” in qualsiasi momento».143

142 143

Ivi, p. 29 (corsivo nel testo). Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 33, p. 44.


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Gesù dimostra che il paradiso non è in un altro mondo, ma nel cuore dell’uomo, nel cuore di chi combatte il male con il perdono e la comprensione. Del resto, il «regno dei cieli» non è un qualcosa che si attende, ma un’esperienza interiore, intima; il «regno dei cieli» esiste ovunque e in nessun luogo. E quella di Gesù è una «religione dell’amore», una religione che come unico principio ha la compassione e che vede nell’amore l’unica, l’ultima possibilità di riscatto e di salvezza.

6.2.

Gesù contro la Chiesa

«Il “primo cristiano” – e temo anche “l’ultimo cristiano”, che io forse arriverò a conoscere – è per profondissimo istinto un ribelle contro tutto quanto è privilegiato – egli vive, combatte per “diritti uguali”».144

Come può sposarsi la ripugnanza verso tutto ciò che è stabile e immutabile con la fondazione di una dottrina o con l’accettazione di dogmi, regole, istituzioni? Non può. Nietzsche fa notare che Gesù, lungi dall’aver edificato una nuova religione, ha lottato contro ogni forma di rito, contro ogni formula, contro la gerarchia stessa della società. Come avrebbe potuto volere la Chiesa cristiana, se si è battuto per abolire anche quella ebraica? Gesù è per Nietzsche un ribelle, un sovversivo, «un santo anarchico» che viene punito per aver messo in pericolo la casta sacerdotale e l’ordine pubblico. Ecco perché viene condannato, ecco perché è messo in croce: non per immaginari peccati dell’umanità, ma per aver sfidato l’autorità ebraica e quella romana.

144

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 46, p. 65 (corsivo nel testo).


78 6.2.1. Gesù contro la Chiesa ebraica

Lo scopo di Gesù è quello di creare la condizione del regno dei cieli sulla terra: ma per far questo non si avvale di dogmi e riti; non ha bisogno della Chiesa o delle false verità di un sacerdote. La verità si trova nel cuore degli uomini e l’incontro con Dio non avviene attraverso il prete, ma per mezzo della fede, dell’amore e della compassione. Ecco il «crimine» di Gesù: l’aver messo in pericolo la Chiesa ebraica mettendone in discussione i principi; l’aver attentato alla casta, alla gerarchia, ai privilegi di sacerdoti e teologi; l’aver messo in discussione l’intero fondamento su cui si era sempre retto il popolo ebraico stesso. Il suo fu un attacco non soltanto contro la religione, ma anche contro le istituzioni, la società e di conseguenza «contro il più profondo istinto nazionale, contro l’impulso ebraico di conservazione».145 Gesù indirizzava i suoi discorsi agli emarginati, agli umili, agli esclusi: si rivolgeva al popolo perché si opponesse alla classe dominante, perché chiedesse eguali diritti. Ma questo atteggiamento fece di lui un vero e proprio criminale, «un delinquente politico».146

6.2.2. La Chiesa cristiana contro Gesù «Ciò che nel cristianesimo non torna, è l’astensione da tutto quanto Cristo ordinò di fare».147

La lotta per la fratellanza, per il trionfo della compassione, dell’amore, del Bene; la sfida alla Chiesa ebraica, ai privilegi, alla casta, all’intera società: questo rappresentò Gesù con la sua vita; questo lo condusse alla morte. Per Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, op. cit. aforisma 11[280], p. 312. Ivi. 147 Ivi, aforisma 11[261], p. 304 (corsivo nel testo). 145 146


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tutta la sua esistenza, Gesù lottò contro una Chiesa che giudicava e che faceva distinzione fra popolo e popolo: come avrebbe potuto volere una Chiesa che divide, che odia, che condanna? Egli professava un regola di comportamento, una prassi di vita: come avrebbe potuto auspicare all’avvento di un nuovo culto, di una teologia? Era contrario a ogni istituzione stabile, a ogni dogma e rito: come avrebbe potuto desiderare l’edificazione di una nuova Chiesa? E invece, dopo la sua morte, sorse e si sviluppò la Chiesa cristiana, una chiesa che mantenne il nome del suo fondatore, senza rispettarne i principi. La Chiesa cristiana, infatti, non ebbe né il coraggio, né la volontà di praticare le azioni che Gesù aveva insegnato. La Chiesa cristiana è esattamente l’opposto di ciò che determinò l’inizio del movimento cristiano. Quello che in Gesù era simbolo, nel cristianesimo diviene realtà; ciò che per Gesù era prassi di vita, per la Chiesa diviene formula, rito e dogma. La Chiesa cristiana commette il grave errore di dimenticare ciò che il suo fondatore rappresentava: travisa la sua morte, distorce il suo messaggio: la Chiesa inventa concetti falsi come quelli di aldilà, peccato, castigo, sacrificio e remissione, concetti assolutamente estranei a Gesù. Egli non parla mai di un altro mondo: per lui, l’incontro con Dio è possibile in ogni momento. Ciò che conta non è il cerimoniale di preghiere, non è l’asservimento a un prete e ai suoi dogmi: ciò che conta è la disposizione dell’animo. Con Gesù si assiste al trionfo dell’ottimismo: la «buona novella» si realizza in questa vita, e fra Dio e l’uomo non vi è un abisso incolmabile, ma contatto; vi è un legame fondato sull’amore, sulla pietà, sulla volontà di creare un mondo di pace e felicità. Solo con la Chiesa cristiana Dio si allontana irrimediabilmente; solo con la Chiesa cristiana si ha bisogno di preti e cerimoniali, di comportamenti esteriori,


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piuttosto che condizioni interiori; solo la Chiesa cristiana ha reso malato e rozzo il cristianesimo per poterlo adattare poi a popoli corrotti e barbari; solo con la Chiesa cristiana trionfa il pessimismo, quel pessimismo che si addice a uomini oppressi e colmi di risentimento, uomini che cercano una ricompensa nell’aldilà per le sofferenze patite in questo mondo. Ma Gesù non ha mai promesso premi in un presunto altro mondo: perché la vita retta, la vita beata, la «vita vera» è già ricompensa di se stessa su questa terra.

«La Chiesa non è solo la caricatura del cristianesimo, ma la guerra organizzata contro il cristianesimo».148

La Chiesa cristiana è nata in contrasto con il Vangelo: essa non rappresenta affatto il suo fondatore, ma, dimenticandone l’insegnamento, lo disonora. Gesù muore lottando contro le istituzioni, muore lasciando il suo esempio e il ricordo di un’esistenza all’insegna dell’uguaglianza e della pietà. La Chiesa cristiana però, dimentica la vita del suo fondatore e lo appende a una croce. Dimentica il suo ottimismo, il suo messaggio di pace e diviene una Chiesa che si vendica, che giudica, che punisce. Il suo fondatore voleva la fratellanza e l’amore verso il prossimo, e dopo la sua morte sorge una Chiesa che divide e persegue chi è diverso. È questo il vero aspetto tragico del cristianesimo: l’essere divenuto l’Anticristo.

6.3.

148

Gesù spirito libero

Ivi, aforisma 11[276], p. 309 (corsivo nel testo).


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La figura di Gesù, ne L’Anticristo, è separata da tutto ciò che si spaccia per cristiano, e si salva dalla condanna. Dopo aver descritto, esaminato, esplorato e descritto la vita, l’esempio e l’atteggiamento di Gesù, Nietzsche si accorge che questo personaggio tanto originale, tanto audace nella sua ingenuità, tanto eccezionale nella sua battaglia contro le autorità, non è poi così diverso da lui, spirito libero; si accorge che la vita cristiana, così com’è voluta da Cristo non è poi così differente da quella che egli vorrebbe per sé, per questo mondo, per il superuomo. E allora, la vita di Gesù deve essere recuperata, riportata alla luce, dopo che la Chiesa l’ha seppellita sotto una coltre di menzogne, alterazioni e false verità. Gesù deve lasciare la croce a cui la Chiesa l’ha inchiodato per millenni, e tornare ad essere prima di tutto un uomo: solo così il messaggio cristiano può essere recuperato nella sua autenticità. Il Gesù di Nietzsche è uno spirito libero in quanto rifiuta tutto ciò che è stabile, invariabile, tutto ciò che è istituzione e legge fissata una volta per tutte, e si rifugia nel simbolo. In lui la realtà, la natura, il mondo non sono che segni: egli sostituisce alla parola il concetto, perché la parola, come tutto ciò che è convenzione, «uccide»; mentre il concetto è fluido ed è più consono ad esprimere la realtà interiore. Gesù non interpreta il mondo come fa la maggior parte degli uomini: la sua intelligenza non è quella razionale, ma quella del cuore, quella che non ha bisogno di libri, né di regole e preghiere, ma che è capace di penetrare sotto la superficie della realtà. Egli non vede il mondo, ma lo sente e in questo modo, lo conosce. È proprio questo tipo di intelligenza che lo pone al di sopra di ogni dottrina, di ogni culto, di ogni teologia. Gesù non ha bisogno di formule e riti per avvicinarsi a Dio: perché è la pratica evangelica a rendere beati, e soltanto essa porta a Dio. Gesù non proclama una nuova fede,


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ma una nuova regola di vita: nessun miracolo quindi, nessuna grazia, ma soltanto un modo diverso di agire e di affrontare il mondo. È questa la «vita vera»: una vita come la visse Gesù; una vita nell’umiltà e nell’amore, nel rispetto e nella rinuncia a difendersi o ad attaccare; nella ricerca di una beatitudine terrena; nel perdono e nella riconciliazione; nell’abbandono di ogni sentimento di collera o di disprezzo. L’esistenza di Cristo non è altro che il realizzarsi della sua dottrina. E così la sua morte.

«Questo “lieto messaggero” morì come visse, come aveva insegnato – non per redimere gli uomini, ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini […]».149

Un’eredità che può ancora essere accolta. Del resto per Nietzsche, il cristianesimo autentico è possibile in ogni istante: un cristianesimo inteso non come credenza, ma come un modo diverso di agire e di essere; come desiderio di pace, felicità e amore non in un altro mondo, ma qui, sulla terra. Un cristianesimo che annulla il peccato e, così facendo, riavvicina Dio all’uomo, e fa dell’uomo un essere divino.

149

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 35, p. 46 (corsivo nel testo).


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CAPITOLO 7 Dalla critica del Cristianesimo alla trasvalutazione di tutti i valori «Già la parola “cristianesimo” è un equivoco -, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce. Ciò che a cominciare da quel momento è chiamato Vangelo era già l’antitesi di quel che lui aveva vissuto: una “cattiva novella”, un Dysangelium».150

Siamo tornati alla tesi di partenza: per Nietzsche il cristianesimo è iniziato con Gesù, e con Gesù è morto. I vuoti dogmi della Chiesa, i suoi riti, le sue regole, non soltanto non rispettano il messaggio evangelico originario, ma se ne allontanano e lo travisano, lo contrastano. «In realtà non sono esistiti affatto dei cristiani»151: ne è esistito soltanto uno. Ciò che successivamente è stato definito «cristiano» non ha nulla a che fare con Gesù: è soltanto il frutto di una menzogna, di un’errata e distorta visione della realtà effettiva delle cose; è il risultato di un «auto-fraintendimento psicologico».152 Si comprende che la critica di Nietzsche non coinvolge affatto il movimento cristiano primitivo, né tanto meno il messaggio evangelico quale fu proclamato da Gesù. La maledizione è scagliata contro tutto ciò che si è definito «cristiano», ma che in realtà non lo è; contro tutto ciò che camuffa gli istinti peggiori sotto il nome di «fede»; contro la Chiesa, istituita in contrasto a Cristo, e contro il clero, con la sua sete di vendetta e le sue false verità; contro il «tipo cristiano», contro l’uomo moderno. L’Anticristo, allora, è la Chiesa stessa che ha costruito la sua potenza in contrapposizione all’unico, vero cristiano che sia mai esistito. L’Anticristo è tutto

Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., § 39, p. 50 (corsivo nel testo). Ivi, p. 40 (corsivo nel testo). 152 Ivi. 150 151


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ciò che prospera, tanto ai danni del suo fondatore, quanto a spese dell’umanità; L’Anticristo è il cosiddetto «uomo buono», l’altruista, che vive a spese della verità e del futuro; L’Anticristo è il prete, che con la sua falsa morale, disprezza gli istinti, travisa la natura, svaluta il mondo e così, uccide la vita. Anticristiano è il non avere la forza, il coraggio, la volontà di seguire l’esempio di Gesù. Anticristiana è la speranza nell’aldilà, la promessa di una ricompensa, la minaccia del castigo in un altro mondo. Anticristiana è la menzogna che si spaccia per verità e, che così facendo, indebolisce e corrompe tutto ciò che tocca. Nietzsche non condanna il cristianesimo «autentico», ma tutto ciò che si è impossessato di questo nome per poi diventarne l’antagonista par excelence. La parte conclusiva de L’Anticristo è decisiva per distinguere quest’opera da tutti gli scritti precedenti: adesso lo scopo dichiarato di Nietzsche non è soltanto morale, ma politico e prescrittivo. Al filosofo non interessa più dimostrare l’infondatezza del cristianesimo da un punto di vista teorico, o la sua pericolosità da un punto di vista etico: l’ha già fatto. Ora, alla condanna morale, deve aggiungersi un vero e proprio sistema di leggi. Ora si tratta di stabilire una nuova gerarchia di valori, una nuova regola di vita che sia valida per l’uomo di domani, l’oltre-uomo. E la legge contro il cristianesimo153 è un manifesto contro quell’universo di valori che viene spacciato come l’unico possibile e contro l’uomo moderno, cresciuto regolando la propria esistenza sull’etica cristiana. Ma segna anche l’inizio di una nuovo impegno del filosofo, il quale non è più soltanto un immoralista, ma è anche legislatore. Per far questo non ha bisogno di un’altra morale, ma di una diversa interpretazione del mondo che riconosca gli istinti naturali, e che ridia valore alla vita e alla «terra». Un modo diverso di agire e di 153

Ivi, p. 98.


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vedere le cose: così come aveva insegnato il primo cristiano, infondo uno spirito libero, come Nietzsche. Ecco perché il filosofo non esclude la possibilità di un ritorno al cristianesimo originario. Anzi.

«Il cristianesimo è ancora possibile a ogni istante. Non è legato a nessuno degli spudorati dogmi che si sono ornati del suo nome: non ha bisogno né della dottrina di un Dio personale, né del peccato, né dell’immortalità, né della redenzione, né della fede; non ha assolutamente bisogno di una metafisica, men che mai dell’ascetismo, ancor meno di una “scienza cristiana”. Il cristianesimo è una prassi, non una dottrina di fede. Ci dice come dobbiamo agire, non cosa dobbiamo credere […]».154

La pratica evangelica, lungi dall’inficiare la validità della concezione di Nietzsche, può, al contrario, sposarla e rendere l’esistenza umana davvero beata, divina. Si tratta di abbandonare definitivamente la fede in favore di una prassi, di lasciare da parte la morale in favore degli istinti. E così, anche le cosiddette «verità eterne» mostrano tutta la loro fallacia e inconsistenza. La «menzogna bimillenaria» è giunta ormai alla fine, e la sua fine coincide con la scomparsa di un tipo d’uomo, il tipo cristiano appunto: al suo posto sorgerà una nuova umanità. È questo lo scopo della trasvalutazione di tutti i valori. Distruggere e dimenticare gli antichi valori per fondare le basi di un mondo diverso. Accettare il tramonto dell’umanità perché possa giungerne un’altra, del tutto nuova, immemore del fallace passato. Riportare l’uomo sulla terra per poi farne un essere divino. Nietzsche, “Per la storia del cristianesimo” in La volontà di potenza, op. cit., aforisma 212. Cfr. Nietzsche, L’Anticristo, op. cit., p.50 (corsivo nel testo): «[…] L’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi… Non una credenza, sibbene un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere… […]». 154


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«[…] Il cristianesimo è essenzialmente un fatto di cuore; soltanto quando si è incarnato in noi, quando è diventato in noi anima, solo allora l’uomo è un vero cristiano. […] Giungere alla beatitudine attraverso la fede non significa altro che una vecchia verità: che solo il cuore, e non il sapere, può rendere felici. Il fatto che Dio è diventato uomo non fa che ricordarci che l’uomo non deve ricercare la sua beatitudine nell’infinito, bensì deve fondare sulla terra il suo paradiso. […] L’umanità acquista la sua virilità attraverso gravosi dubbi e ardue battaglie: essa riconosce in sé l’inizio, il centro e la fine della religione».155

Nietzsche non ha bisogno di abbattere il cristianesimo in toto per poi fondare nuovi valori. Anzi. Il cristianesimo può divenire un alleato e uno strumento prezioso per condurre gli uomini alla pace e alla felicità. Ma si tratta del cristianesimo originario, di quello che, attraverso l’esempio di Gesù, insegna l’amore per la terra e mostra che il paradiso è in questo mondo. La nuova umanità allora, potrà sorgere sui detriti della Chiesa e sui residui dell’uomo moderno; la nuova umanità, lungi dall’eliminare la religione, la ricondurrà a sé e riporterà il «regno dei cieli» nel cuore dell’uomo. Abbiamo affermato inizialmente che L’Anticristo annuncia una nuova fase del pensiero di Nietzsche. In parte è così. In quest’opera si trovano elementi originali e propositivi che, certamente, accennano all’inizio di un nuovo periodo creativo dell’autore e danno inizio a un diverso modo di pensare e di agire consono a un’epoca futura, agli uomini dell’avvenire. Ma L’Anticristo, che avrebbe dovuto soltanto dare l’avvio alla sognata Trasvalutazione di tutti i valori156, in realtà finisce per identificarsi e coincidere con essa. E, forse, è per Nietzsche, Scritti giovanili 1865-1869 in: Opere, Vol. I, Adelphi, Milano 1998, pp. 212-213. Con questo termine s’intende sia il proposito di Nietzsche di capovolgere nuovamente tutti i valori, sia la grande opera sistematica che egli aveva intenzione di creare. 155 156


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questo che Nietzsche decide di non portare avanti quell’opera grandiosa, quel proposito tanto vagheggiato e voluto: perché con L’Anticristo ritiene di aver realizzato pienamente il suo progetto, la trasvalutazione di tutti i valori. Del resto, L’Anticristo, lungi dall’essere una semplice critica del cristianesimo, non è forse la demolizione di tutti i principi etici e religiosi? Dietro l’attacco spietato nei confronti della Chiesa e dei suoi rappresentanti, non si cela forse una dissacrante critica a tutti i valori dell’uomo moderno? Se sembra che Nietzsche, dopo L’Anticristo, non abbia portato avanti una fase costruttiva, è perché in realtà il filosofo credette di averlo già fatto, di aver concluso il suo compito, di aver offerto tutti gli strumenti per la realizzazione di una nuova umanità. L’Anticristo finisce per divenire l’inizio e il compimento della fase costruttiva di Nietzsche: esso incarna la Trasvalutazione di tutti i valori.


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