Salvemini Brochure Alternanza Scuola Lavoro

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OBIETTIVO su FASANO



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Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. Franco Cassano, Il pensiero meridiano Laterza 1996

Vivere uno spazio non significa sempre conoscerlo. A volte si dà per scontata la presenza di un monumento o di un paesaggio, altre volte non si riesce neanche a scorgere nel proprio ambiente familiare o sociale l’importanza che riveste la “memoria”. Lo scopo di questo laboratorio didattico che abbiamo chiamato Obiettivo su Fasano è stato proprio quello di raccontare un luogo e al tempo stesso raccontarsi per dare un senso al proprio desiderio di identità e riconoscere un’appartenenza. Ogni ragazzo ha puntato l’obiettivo della propria macchina fotografica su qualcosa o qualcuno. C’è chi è partito dal monumento più noto, chi da quello meno significativo ma più frequentato, chi si è interrogato sulla toponomastica e ancora chi ha scelto di riconoscere i luoghi della memoria familiare e sociale. Narrazione storica e narrazione personale hanno portato all’elaborazione di alcuni testi senza alcuna pretesa argomentativa. In tutti i lavori emerge il desiderio di ritrovarsi, di conoscersi, di interrogarsi per riscoprire nel passato le tracce e le origini del nostro presente e per proiettarsi con consapevolezza verso il futuro. I ragazzi della 3°C dell’indirizzo Grafica e Comunicazione dell’ITEC “G. Salvemini” di Fasano hanno mostrato l’amore per il loro paese puntando il loro obiettivo fotografico su una immagine e riproducendone i luoghi dell’anima. Questo opuscolo rappresenta solo una parte del lavoro dei ragazzi, un saggio che invita alla versione completa cliccando sul link Obiettivo su Fasano presente sul sito della scuola www.salveminionline.gov.it . Il dirigente scolastico

Prof.ssa Rosa Anna Cirasino


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Piazza Ciaia Una piazza è un luogo che parla molto più di quello che sembra. Per molti è la parte più bella della città, per altri semplicemente un luogo di ritrovo. Un luogo dove la gente si incontra per raccontare le proprie vite e commentare quelle degli altri, uno spazio di passaggio, fulcro della vita politica e amministrativa. Fino ad oggi pensavo solo questo di Piazza Ciaia, la pensavo semplicemente una piazza. Poi un giorno ho cominciato a guardala con occhi diversi. Ho colto il fascino della complessità di questo luogo. Tranquilla e silenziosa di giorno, vivace e allegra nel pomeriggio, caotica e colma di gente in tarda serata. Quest’area, apparentemente squadrata e definita, ha cominciato ad assumere tanti volti e a misurarsi con le varie sfaccettature dell’umano e della storia.

Per indicare qualcosa di molto antico spesso si usa l’espressione: “Si ricorda le vigne in piazza”. Infatti il Cabreo del 1748 indica la prima intitolazione di questo spazio definendolo “piazza attaccata alla terra e al borgo” evidenziando che un tempo la piazza divideva il borgo nuovo dalla terra, ovvero il centro abitato ed era quindi collocata fuori dalle mura della città. I progetti di edificazione della Piazza del Popolo (antico nome di Piazza Ciaia) e del Palazzo di Città sono strettamente collegati. La progettazione del Palazzo di Città, a cura dell’ing. Sgobba, prevedeva due ipotesi: la prima proponeva un ampiamento del giardino del Palazzo del Balì, una Loggia che sporgeva sulla Piazza e sul Corso Vittorio Emanuele, riducendo quindi le dimensioni della piazza; la seconda, invece, prevedeva un ampiamento della piazza a discapito però del loggiato, motivando tale scelta con motivi di anti esteticità. Nel 1899 si decise di attuare la seconda ipotesi e di intitolare questo spazio al martire fasanese Ignazio Ciaia, nato a Fasano nella metà del ‘700 e morto a Napoli nel 1799, durante la rivoluzione

partenopea, riconoscendogli il merito di aver preso parte a questa rivoluzione. La Piazza, oggi austera e quadrata, era un tempo considerata il centro cittadino e probabilmente lo è tutt’ora. Era il centro della comunicazione e trasmissione di informazioni per eccellenza. Le signore del posto si incontravano per spettagolare sui fatti della città, colorando i racconti con commenti piccanti e originali. Ma la piazza era anche il centro politico ed economico. Da una parte il Municipio, dall’altra, sotto l’orologio, la Società Operaia, frequentata principalmente e artigiani, impiegati e professionisti. Di fronte a Corso Garibaldi la statua della Madonna del Pozzo, protettrice di Fasano assieme a San Giovanni Battista. Nella piazza erano concentrati vari servizi, quali l’ufficio postale, il corpo di guardia, l’ufficio di polizia urbana, il posto pubblico del telefono. Era il luogo in cui amici e conoscenti ci si ritrovavano, in gruppo o da soli, percorrevano la piazza per ore e parlando di tutto e di tutti. La piazza era soprattutto il luogo dell’informazione sulla vita della città e dei suoi abitanti. La Piazza, nell’era digitale, sembra aver perso quel fascino di un tempo. Eppure nell’immaginario collettivo resta il luogo del raduno per eccellenza, il luogo della memoria e della partecipazione. (Fonte- Maria Liuzzi, Mauro Scionti, Il Casale diventa città, Schena editore)


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raduno e di ritrovo per giovani e meno giovani, oltre che naturalmente per essere uno spazio commerciale. Accoglienti arcate accolgono botteghe ristorative e no, associazioni culturali, uffici comunali, consentendo riparo dalla pioggia e dal freddo e rendendo vivibile uno spazio per tanto tempo adibito al mercato della frutta e del pesce. Il luogo aveva il suo fascino nella prospettiva urbana dei tempi, tuttavia celava e rendeva irriconoscibili i segni storici più evidenti di quello che aveva rappresentato: il Convento delle Monache di clausura Teresiane.

I Portici delle Teresiane Luogo di raduno negli ultimi anni per i giovani fasanesi sono i Portici delle Teresiane. Il luogo appare accogliente, si presta all’organizzazione di eventi e offre occasioni per vivere momenti di

La sala dell’affresco Il 22 marzo 2013 è stato reso visibile a tutti, a seguito di un intervento di restauro l’affresco “Il Paradiso terrestre” ubicato su una delle pareti del locale n. 7 dei Portici delle Teresiane. La sala all’interno del convento, non consentiva l’accesso al pubblico, tuttavia si apriva alla comunicazione attraverso la ruota degli esposti. Attraverso questa ruota le monache passavano all’esterno oggetti e/o alimenti per i più bisognosi, la povera gente spesso lasciava lì neonati che non aveva la possibilità di crescere. L’affresco si trova sulla destra dell’attuale ingresso. I lavori di restauro sono avvenuti tra il 2005 e il 2006 portando alla luce una tempera, considerata di scarso valore artistico. Successivamente si è messa in evidenza la presenza di un affresco risalente al 1600 circa. Con l’autorizzazione della Sovraintendenza si è deciso di rimuovere la tempera che ricopriva l’affresco ed evidenziare il più possibile quello che è stato definita la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Alle spalle di Adamo ed Eva è ritratto un albero, al cui tronco è avvinghiato un


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serpente col volto umano. Purtroppo la parte inferiore dell’affresco è molto lacunosa e danneggiata. Non vi è stato possibile recuperarla perché negli anni Trenta del secolo scorso i locali dei Portici sono stati affittati a vari venditori di frutta e verdura che hanno continuato la propria attività accatastando cassette umide fino agli anni Sessanta del Novecento, ignorando cosa ci fosse al di sotto della parete attualmente visibile. Guardando sulla sinistra si intravede un’altra figura lacunosa, che dovrebbe essere quella di un Santo, una figura maschile che impugna un bastone infuocato. Accanto a questa si vede la presenza di una fiera, un animale che si pensa possa essere anche un leone. Pertanto si ipotizza, grazie all’iconografia, che si potrebbe trattare o di Sant’Elia oppure di San Gerolamo Anche la luna e il sole che sono presenti nell’affresco sono umanizzati. Si rappresenta principalmente la visione delle tenebre e della luce, con la tentazione che finisce sempre per essere punita. Il pavimento è di coccio pesto e ritrae in un punto uno scheletro incorniciato, quindi è probabile che al di sotto ci fossero delle tombe o camere rituali. Nella stanza si conserva anche una piastrella intatta della cucina ed una mappa del Convento delle Teresiane. (fonte – visita guidata dott. Sante Trisciuzzidott.ssa Cynthia Leone).

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intervista alla memoria familiare:

il laboratorio militare

I nostri nonni non sempre amano svelarci i ricordi del loro passato, forse per pudore legato alla diversità dei tempi o per pura reticenza. Quando la dott.ssa Cynthia Leone ci ha condotto in visita guidata nel centro antico della città, parlando dei Portici delle Teresiane ha rievocato in me ricordi di una storia familiare, quando ha affermato che una parte del convento per lungo tempo è stata utilizzata come laboratorio militare. Di questo luogo avevo sentito già parlare e precisamente in famiglia da mia nonna Maria, ormai oggi novantaduenne. Non ho resistito alla tentazione e presa dalla curiosità l’ho intervistata per saperne di più sul lavoro delle donne nel nostro paese e per conoscere storie e personaggi non sempre noti. Nonna Maria è contenta e un po’ spaventata per la mia intervista, ma ho deciso di provarci. Per quanto tempo hai lavorato presso il Laboratorio Militare? Per circa trentadue anni. Ho iniziato quando ero molto giovane, avevo poco più di 18 anni.


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Quante ore lavoravi al giorno e quali erano gli orari di lavoro? Lavoravo otto ore al giorno: cominciavo alle otto di mattina per staccare alle dodici e trenta per la pausa pranzo. Poi si riprendeva fino alle sedici e trenta, quando finalmente tornavamo tutti a casa. Quanti giorni a settimana lavoravi? All’inizio lavoravo sei giorni a settimana, poi il sabato venne ridotto a mezza giornata. Infine i giorni lavorativi diventarono cinque. All’interno del laboratorio erano impiegate soltanto donne? No, c’erano anche alcuni uomini. Mentre noi donne ci occupavamo delle divise dei militari, gli uomini erano per la maggior parte calzolai o fabbri. Come si lavorava? E tu, di cosa ti occupavi? Io lavoravo con la macchina da cucire elettrica. Il materiale arrivava da Bari. Erano divise e pantaloni smembrati e raccolti in pacchi. Avevamo il compito di ricucirli. Non se ne occupava una sola persona, ma per ricucire un capo servivano almeno sei persone. Nel Laboratorio Militare eravamo più o meno in trecento. Infatti l’ambiente era molto grande. Da chi eravate controllati? All’interno delle sale c’erano i capireparto, che controllavano il nostro lavoro e ci proibivano di parlare. Eravamo costrette a restare in silenzio per tutta la giornata, altrimenti ci avrebbero sgridato. Eravamo controllate anche da militari: marescialli, capitani, tenenti e comandanti. A proposito dei militari, c’è qualche situazione particolare legata al loro ricordo? Adesso che ci penso, c’era un maresciallo napoletano…(silenzio di riflessione). Una volta il maresciallo disse ad un’operaia: Firm accà!. L’operaia, per fargli un dispetto, firmò proprio con ‘accà’ sul registro. Per questo il maresciallo andò su tutte le furie, rimproverandola e denigrandola davanti a tutti .

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Come e quanto vi pagavano? Per ricevere lo stipendio bisognava firmare un registro, che noi puntualmente segnavamo con delle semplici crocette, visto che non sapevamo scrivere. È stato necessario iscriversi a scuola per imparare a scrivere una firma decente. In un primo periodo lo stipendio ci era consegnato ogni 15 giorni. Successivamente divenne mensile. Guadagnavo circa 5.000/6.000 Lire. Ho sentito parlare di un nido. C’era davvero? Sì, era molto comodo per noi mamme, anche perché eravamo quasi tutte molto giovani. Ho portato quattro dei miei figli al lavoro, fino all’età di un anno. Quando ho portato mio figlio Nicola c’erano circa quindici o venti neonati. Dopo lo svezzamento dei bambini, intorno ai 4-5 mesi, portavamo il cibo a turno. Il box era fatto di semplici lenzuola e cuscini sistemati per terra, circondato da un recinto di metallo. Per far addormentare i bambini, li mettevamo in culle collegate tra loro, cosicché bastasse una sola persona a cullarli. Riuscivano i bambini a stare tranquilli? Sì, e fin troppo! Noi mamme non riuscivamo a spiegarci come mai al nido dormivano tanto mentre a casa erano sempre attivi e piangevano. La risposta l’abbiamo avuta un po’ di tempo dopo, quando, aprendo la credenza che usavamo per conservare il cibo, trovammo della camomilla accompagnata da un fascio di papagna. Non abbiamo però scoperto quale delle tante madri, durante i turni per portare il cibo, avesse avuto la brillante idea di utilizzarla per calmare i bambini. Nonna dopo l’intervista appare stremata. Sarà stata il maresciallo, la rivocazione di ricordi lontani e la semplice rabbia per non aver potuto accudire e godersi i suoi figli come avrebbe voluto. E’ la prima volta che la vedo così. Per me è stato un bel momento. Un momento di crescita e al tempo stesso un percorso di appartenenza alle mie origini familiari e al mio paese.


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Le interviste impossibili: Giacinto Bianco e Maria Chieco Bianchi

Intervista con alcuni personaggi che hanno fatto la storia del nostro paese Passeggiando per le strade della mia città, a volte, mi capita di imbattermi in nomi di personaggi che sembrano illustri ma dei quali, purtroppo non conosco la storia. Così ho deciso di incontrarne qualcuno e di rivolgergli, in modo ironico, qualche domanda. Ho scelto un uomo, Giacinto Bianco e una donna, Maria Chieco Bianchi. Intervista impossibile a Giacinto Bianco Giacinto Bianco, persona onestissima e attenta ai nullatenenti, è stato uno scrittore fasanese vissuto nell’Ottocento. Amato e rispettato da tutti i fasanesi, si racconta che i suoi funerali videro un grande concorso di folla e davanti alla sua salma vennero tenuti numerosi discorsi raccolti nel libro In memoria di Giacinto Bianco. “Incontriamo un uomo illustre. Un uomo che, per noi e per il nostro paese, ha fatto tanto. Ho il piacere e l’onore di intervistare il signor Giacinto Bianco. Buongiorno.” “Buongiorno a lei. Cominciamo? Sono curioso di sapere cosa ha da chiedermi una ragazzina della sua età?” “Vorrei conoscere la sua vita. Cominci parlando un po’ dei suoi studi.” “Ho eseguito i miei studi letterari nel Seminario di Molfetta, per poi laurearmi in Giurisprudenza a Napoli il 14 settembre del 1833. In seguito sono stato ammesso alla carriera diplomatica, ma dopo la morte delle mie sorelle sono stato “costretto” a tornare a Fasano per stare vicino a mio padre.” “Si è mai sposato?” “Certo! Sposai Isabella Ghezzi ed ebbi due figli: Beniamino e Tommaso.” “Che tipo era sua moglie?” “Una donna eccezionale, d’altri tempi, una cera signora. L’ho amata immensamente e la sua morte mi ha accasciato in un muto di dolore.” “Sì ha ragione. Ma, andiamo avanti. Ho saputo che era molto amato in paese. Cosa ha fatto di così importante?” “Sono contento di quello che mi dice. Nessuno in vita riceve gli onori che merita. Che oggi mi si riconosca il merito mi rende felice. Dunque, sono stato fra i primi a patroci-

nare il progetto per una migliore funzionalità dell’Ospedale Civile. Nel 1855 sono stato eletto direttore di quell’Ente e subito ne ho intrapreso la vagheggiata riforma per quanto era possibile in quei tempi. Ho risanato gli ambienti e ho provveduto alla vigile assistenza degli infermi. Mi dicono che oggi tutto questo non trova più un senso. Che dispiacere…” “Oltre alla passione civile, la letteratura che ruolo ha avuto nella sua vita?” “Una delle cose che ho amato di più era il teatro. Infatti a Napoli, appena laureato, mi capitò fra le mani il noto romanzo “Il medico e la giovane emigrata”. Fu così che iniziai a scrivere. La scrittura mi prese a tal punto fino alla produzione di un primo Dramma. Ebbe molto successo e così decisi di scriverne altri.” “Può accennare qualche sua opera?” ”Ad esempio “Il fantasma” oppure “Il fallimento”. Ma ce ne fu una che feci rappresentare al Teatro Sociale di Fasano: “Teresa Senneval”.” “Sappia che è stato un cittadino esemplare, molto amato dal suo paese. La ringrazio per il suo esempio è di questo che abbiamo bisogno noi giovani. Vorrei poter condividere il mio presente con uomini come lei. Grazie.” “Grazie a lei per il garbo e la curiosità che ha mostrato nei miei confronti. Non è da tutti. ” Intervista impossibile a Maria Chieco Bianchi Donna Maria Chieco Bianchi ha una grande signorilità, con un modo di essere cordiale e confidenziale. Mantiene durante l’intervista un portamento regale che la rende distante da ogni volgarità. Emerge tuttavia in lei una certa generosità e magnanimità che mi rendono ancora più curiosa. “Lei è stato il primo sindaco donna a Fasano in carica dal 1949 al 1954. Perché il dott. Aquilino Giannaccari scelse proprio lei?” “Era convinto che io potessi assicurare il successo elettorale dei monarchici e costruire una risposta alla Democrazia Cristiana. Inizialmente non volevo prestare il mio nome alla lista, però, dopo l’insistenza del signor Giannaccari, divenni capolista della Stella e Corona nella consultazione elettorale amministrativa del 1949.”

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“Tutti riconoscono in lei una grande signorilità accompagnata da affabilità. Crede che fu questa la chiave del suo successo elettorale?” “Non so, penso di sì. So di aver avuto un certo consenso elettorale anche da parte del ceto sociale più povero. Probabilmente mi sentivano vicina a loro.” “Secondo Adamo Nardelli, nel libro Medaglioni Fasanesi, afferma che il suo non fu un sindacato, ma un vero e proprio regno. Cosa fece di così importante per il nostro paese?” “Devo ammettere che feci davvero tanto e il mio impegno fu continuo e costruttivo. Da un punto di vista urbanistico e strutturale, presi provvedimenti per le opere portuali a Savelletri; ampliai la rete idrica a Fasano, Selva, Laureto, Savelletri e Salamina e intrapresi le opere per l’elettrificazione di tutte le frazioni e del Canale di Pirro. Per il sostegno ai settori produttivi, artigianali e turistici del territorio istituii la Mostra per l’artigianato Fasanese e la gara automobilistica Fasano – Selva, attività che ancora oggi sono in vita. Che bella soddisfazione!” “Si sa che c’è un una data in particolare che né lei, né gli abitanti di Fasano dimenticheranno mai. La visita del grande Totò. Ci parli di quel giorno.” “Con piacere, come potrei non ricordarmelo. Venne a farci visita, durante un ricevimento ufficiale in municipio, il grande comico e signore della scena e della vita, Antonio De Curtis, in arte Totò. Quel giorno fu un colpo di teatro di grande valore propagandistico. In questa occasione, egli offrì al Comune di Fasano la somma di cinquantamila lire da destinare all’assistenza degli anziani.” “Mi scusi per l’audacia, ma voglio complimentarmi con lei per quello che ha fatto per il nostro paese. Posso assicurarle, che ancora oggi, lei è nel cuore di tutti…” “Per un paese che si ama si realizza anche l’impossibile. Grazie a lei per la sensibilità che ha mostrato nonostante la sua giocane età… Spero che un giorno possa essere il secondo sindaco donna di questo paese….” (Fonte- Secondo Adamo Nardelli, Medaglioni Fasanesi, Faso Editrice)


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intervista alla memoria familiare:

Masseria Maggi Il territorio fasanese è fortemente innervato di masserie, termine derivante da massae o massaricius, con cui si indicavano estensioni di terreno poste in proprietà privata, dotate di costruzioni, attraverso le quali si svolgono e si orientano i cicli di produzione e di organizzazione del lavoro agricolo e delle attività legate alla pastorizia o all’allevamento di bestiame di vario genere. Ogni masseria è da intendersi come un florido centro di coltivazione e allevamento perfettamente autosufficiente, costruito con modalità architettoniche utili a respingere tutti i tipi di attacchi. Gli elementi necessari alla difesa degli attacchi esterni erano: mura di cinta, torrioni angolari, camminamento lungo il parapetto di coronamento, scale a pioli interne, ponti levatoi e feritoie. Luogo identificativo della contrada Torre Spaccata è certamente Masseria Maggi, la masseria rossa. Per coloro che nella mia contrada ci sono nati e vissuti, quella grande struttura di colore rosso è una pietra miliare della loro storia. Per saperne di più, ho posto alcune domande ad un uomo che ha vissuto in quella contrada, che conosce i particolari e i segreti di Masseria Maggi, grazie ai ricordi della sua infanzia: mio padre. È poco incline al racconto, è un uomo schivo che dà per scontata la ricchezza di quel patrimonio. Papà cosa si produceva all’interno della Masseria Maggi? Nella masseria Maggi, un tempo, sia l’agricoltura che l’allevamento erano fiorenti. Si producevano grano, mandorle, olive e quindi olio, latte e quindi formaggi di vario tipo. Si allevavano ovini, bovini e animali di bassa corte. Quale è stata la sua particolarità? Era ritenuta una masseria ricca? È una masseria in stile spagnolo e presenta particolarità architettoniche un po’ diverse rispetto alle altre masserie del territorio, ma a livello pro-

duttivo si muoveva secondo i canoni di tutte le altre masserie. Quali famiglie fasanesi hanno abitato la masseria nel corso degli anni? Hanno abitato le famiglie Maggi, Guarini, Spalluto. Oggi la proprietà è della famiglia Serio. Da sempre ha avuto quel particolare colore? Da sempre, almeno a mia memoria ha avuto quel particolare colore tipico più che altro dei palazzi del centro della città. Le masserie solitamente erano bianche, tinteggiate con la calce. Solo poche masserie presentano quella colorazione. Probabilmente l’influenza spagnola o un vezzo dei primi proprietari. Perché si chiama Masseria Torre Spaccata e da qui che ha preso origine il nome della contrada? Si racconta che nell’attuale contrada fosse presente una torre divisa in due. Devono essere passati molti anni da allora. Neanche mio padre ricordava questa torre divisa. Probabilmente da qui prende il nome la contrada. Attorno alla masseria, nonostante l’interruzione della strada, ulivi, carrubi, muretti a secco e la lama. Disegni tipici di un territorio che mantiene inalterato il suo fascino nel tempo. (Fonte - Fasano: natura e cultura,

Faso Editrice)


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intervista alla memoria familiare:

Masseria Gianocchia “Nonno dove mi porti oggi?” “Volevo farti vedere la masseria di un mio vecchio amico”. Così mi risponde mentre si preoccupa di riempire le mie giornate in modo diverso, ogni giorno, fino all’arrivo dei miei genitori. Quel giorno nonno Andrea tenendomi per mano, mi accompagnava in una nuova esplorazione. All’ingresso di quella struttura monumentale ricordo una grande foggia dove un tempo, a detta di mio nonno, bevevano gli animali e le persone che lavoravano nella masseria. E poi ecco le stalle, la chiesetta collegata con un terrazzino alla grande casa “padronale”. Ad un tratto giunge verso di noi di noi il massaio Donato. Siamo a Masseria Gianocchia Signor Donato che differenze ci sono tra la masseria di ieri e la masseria di oggi? Un tempo tante famiglie lavoravano e abitavano qui in masseria. Oggi le trasformano tutti in B&B e non ci sono animali. Comunque io non ho nessuna intenzione di trasformarla. Quanta gente abita qui oggi e quanta gente ci abitava ieri? Abitavano tante famiglie, adesso solo una. La masseria racchiude il racconto anche di feste, balli e canti. Ne ricordi qualcuno in particolare? Nel passato si. Tutto si svolgeva in masseria, adesso non più, sono cambiate le generazioni. Si lavorava tutto il giorno, la sera si mangiava tutti insieme. Poi ci si riuniva nel grande piazzale della masseria per ballare e cantare.

C’erano animali all’interno della masseria? Come venivano utilizzati? Ci sono ancora animali? C’erano tanti animali 100 mucche, 50 asini, 100 pecore e capre, i maiali non si contavano. Attualmente ci sono 14 asini, 2 mucche, 50 fra pecore e capre, 6-7 maiali. Quanta gente lavorava nella masseria? Nel periodo della raccolta delle olive 70-80 donne, nel periodo estivo c’erano 10 operai che lavoravano stabilmente. Ci sono dei luoghi che sono rimasti così come erano? Certo le strutture sono sempre le stesse: la chiesa, il trappeto, il vecchio ovile delle pecore e l’agrumeto. Oltre all’attività agricola e alla pastorizia c’era la commercializzazione dei prodotti? Prima c’era più commercio. Era una conseguenza naturale legata alla produzione svariata e continua di prodotti. La Masseria era un supermercato di alta qualità di grano, farina olive, olio, mandorle, latte, formaggi, frutta. Quali sbocchi per il futuro di Masseria Gianocchia? Attualmente non c’è nessun programma, vorrei inventare qualcosa senza stravolgere il valore storico, agricolo e commerciale della masseria. Vedremo!


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intervista alla memoria familiare:

Masseria Fascianello La famiglia di mio padre, per anni, ha abitato in una Masseria del nostro territorio, tra le poche ancora non soggette a trasformazioni radicali legate all’espansione del turismo. Per non perderne la memoria e ripercorrere le tracce del mio passato, ho pensato di rivolgere qualche domanda a mio nonno. Nonno, come si chiama la nostra masseria? Si chiama Masseria Fascianello e prende nome dalla omonima contrada. La masseria ieri e la masseria oggi: mi racconti che differenze ci sono? Innanzitutto ieri era abitata, c’erano più animali da latte che da carne che si allevavano nel trappeto e si producevano prodotti genuini come vari tipi di formaggi. Oggi non è più abitata, non sono rimasti molti animali da latte e gli animali da carne sono liberi nella lama a pascolare. Quanta gente ci abita oggi e quanta gente ci abitava ieri? Oggi non abita più nessuno mentre ieri abitava tutta la nostra famiglia: i tuoi nonni, i tuoi sette zii comprese le mogli, come tua madre e anche i tuoi bisnonni cioè i miei genitori. Quanta gente lavorava nella masseria? Non c’era un operaio addetto perché dato che la famiglia era abbastanza numerosa si davano da fare un po’ tutti. Infatti c’era qualcuno che raccoglieva le olive, qualcuno che era occupato a fare il formaggio e qualcuno che si occupava degli animali.

Ci sono dei luoghi che sono rimasti così com’erano? Si, l’interno della casa dove abitavamo, la lama e il trappeto dove ci sono gli animali. La produzione era genuina? La vendita proficua? Si, si producevano prodotti come vari tipi di formaggi, ricotta e burro per uso famigliare, ma quello che veniva più utilizzato era il cacioricotta. La rivendita avveniva presso il negozio di ortofrutta di famiglia e in alcuni casi era proficua. Qual è il posto in cui si tenevano gli animali? Gli animali si tenevano nella lama a pascolare tutti insieme ma all’interno del trappeto. Si allevavano maggiormente gli animali da latte che venivano munti ogni mattina e anche quelli da carne che venivano fatti ingrassare tenendoli legati vicino le mangiatoie. Quali sono i progetti per il futuro della masseria? Pochi. Per il momento viene tenuta in vita con lo sforzo di tutti, ma non produce più come un tempo.


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Se mi tolgono il mare, mi tolgono la vita Intervista ad Angelo, il pescatore Sin da piccola, ho avuto la passione del mare. Amavo stare seduta sulla sabbia e perdermi tra un orizzonte infinito, guardare i pescatori che gettavano le reti, giocare con l’acqua. Ma non è solo il paesaggio a catturare la mia curiosità, anche i riti legati al mare mi affascinano e con essi coloro che li tramandano di generazione in generazione. Uno di questi è Angelo, il pescatore di Torre Canne. Ha quarantasei anni, la sua faccia mostra i segni del tempo, del sole e delle intemperie che lo hanno accompagnato nel suo faticoso lavoro. Le sue mani recano i segni rugosi della sua maestria, dell’ “ars” che pratica da molti anni. “Se mi tolgono il mare mi tolgono la vita”. Così ama ripetere di tanto in tanto a chi lo ascolta ma soprattutto a se stesso. Signor Angelo, come e quando ha cominciato a svolgere l’attività di pescatore? Faccio il pescatore dall’età di 8 anni. Lavoravo in principio solo con mio padre con una piccola imbarcazione di 7 metri. Mi svegliavo verso le quattro di notte per andare a ritirare le reti, nella zona di Villanova, per poi rientrare in tempo per prepararmi e andare a scuola. Nel tardo pomeriggio, tornavo in mare per calare le reti. Tornavo con il buio. Era dura alzarsi così presto, nel cuore della notte. Facevo fatica e iniziavo un po’ controvoglia, ma una volta in mare, tutto cambiava. Suo padre, quindi, era un pescatore? Si, era un pescatore che aveva anche bisogno di aiuto. Così, non potendo andare a pescare da solo iniziai a lavorare per necessità. Fui quasi obbligato dalle circostanze, ma ho continuato comunque ad andare a scuola, a volte addor-

mentandomi sul banco. Qual è il primo pesce che ha pescato, quello che le ha dato la prima grande soddisfazione? Lo ricordo ancora il primo pesce che ho pescato: un grosso dentice di 6 kg. Ero così emozionato che se mio padre non mi avesse afferrato in tempo sarei finito in mare. Non stavo più nella pelle dalla felicità. Quali tipi di pesca ha praticato e con quali strumenti? L’attrezzatura che veniva e viene usata tutt’ora, erano le reti da “posta”. Con la differenza che oggi le reti sono più resistenti di allora e possiamo usare reti di diverse tipologie. Quando ero libero da compiti o dai vari impegni di lavoro andavo a pescare i polpi con la polpara che mi preparava mio nonno, anche lui pescatore di Torre Canne. Mentre mio nonno paterno era sempre pescatore ma a La Forcatella. Lavora da solo oggi o ha qualche operaio con sé? Con questa nuova imbarcazione, munita anche di cucina, letti e servizi, lavoro con mio fratello.


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Questo mi permette anche di poter rimanere fuori, in mare aperto per più giorni e ottimizzare i tempi e le spese. Quanti giorni sta in mare? Quali sono i suoi orari di lavoro? Generalmente aprile, maggio, ottobre e novembre sono i mesi in cui rimango in mare sempre, ancorato vicino alla costa nelle ore in cui non mareggio le reti. Rientro in porto solo nel caso in cui ci siano in previsione mareggiate o forti venti. Durante i mesi invernali e estivi rientro giornalmente nel porto. Gli orari variano a seconda della stagione: in autunno-inverno le reti vengono calate in mare dopo le ore 15,00 circa per rientrare in porto verso le 20,00; in primavera-estate le reti vengono calate in mare dopo il tramonto per le temperature più calde, per rientrare verso le 21,00. Come è cambiato il modo di pescare e di vivere in Torre Canne negli anni? Con il passare del tempo con varie e nuove modifiche di leggi, ho dovuto far richiesta di molta documentazione oltre alla licenza di pesca: certificato sanitario, brevetto di navigazione, vari certificati di collaudo dell’imbarcazione e dei vari strumenti di bordo (razzi di segnalazione, estintori, giubbotti di salvataggio etc,…). Tutto questo una volta non era richiesto, non era necessario e molte cose non esistevano neanche. La pesca è un’attività in via di estinzione? Ci saranno altri pescatori tra 30 anni? Tra 30 anni, non credo che ci saranno altri pescatori. Negli ultimi 10 anni le cose sono cambiate drasticamente. Che io sappia nessuno ad oggi ha fatto domanda d’iscrizione al ruolino, che serve per richiedere la licenza di pesca. Non solo per la difficoltà del mestiere e la fatica del mare, ma per varie cause, come la diffusione delle vasche per il pesce d’allevamento. Penso sia superfluo dire he il pesce del mare rimane sempre il migliore, non è paragonabile. Tuttavia l’altro ha un prezzo più competitivo. Non sempre

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la qualità paga. Quali sono i ricordi della Torre Canne di un tempo, legati alla sua infanzia e alla sua vita da pescatore? Un tempo Torre Canne non era ancora un vero e proprio centro turistico, era più tranquillo vivervi anche d’estate. Le persone che lo popolavano erano pressoché sempre del territorio. La mia infanzia è stata spensierata, avventurosa, dura e anche faticosa ma ho sempre avuto la passione per il mare. Credo che se non fossi stato, diciamo costretto dagli eventi a fare il pescatore, avrei comunque svolto un lavoro vicino all’universo del mare.” Come è cambiato il modo di pescare a Torre Canne? Un tempo, con le piccole imbarcazioni, le reti venivano tirate a mano. Sicuramente erano pesanti e il lavoro piuttosto faticoso; con gli anni nuove strumentazioni hanno reso il lavoro più leggero. Tuttavia la quantità del pescato negli ultimi anni è diminuita enormemente, nonostante si abbiamo maggiori attrezzature sia come qualità che quantità. Perché? Inquinamento, riscaldamento della temperatura dell’acqua, fondali danneggiati da chi un tempo e ancora oggi pratica la traina nonostante sia severamente vietata o da chi va pescare senza requisiti e documentazione necessaria che attesti l’idoneità al lavoro, i cosi detti pescatori amatoriali. Quali pesci si trovano nel nostro mare? I pesci che si trovano nel nostro mare sono: scorfani, polipi, seppie, verdesche, calamari, aragoste, astici, granchi, aguglia, sarago, triglia, vope, sarde, orate, dentici, salpe, cefali, sgombri, tonni, lucerna, gallinella, tremolo, rana pescatrice, cicala greca, cicala pannocchia ecc.. E qui i suoi occhi si illuminano e ricominciano a sperare… Speriamo che qualcuno continui a percorrere la strada del mare perché si possa far tesoro di tutta questa maestria ed esperienza.


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Una piccola miniera d’oro: la Cava di pietra marmifera Filetto Rosso Jonico (Salamina Fasano)

Da bambina, nei pomeriggi freschi d’estate, trascorrevo il tempo in compagnia del mio papà. Tenendomi stretta per la mano passeggiavamo nei prati incolti di “Contrada Salamina” a pochi chilometri dalla mia abitazione. Tra i tanti odori e il fruscio del vento risuonava la possente voce di mio padre che, fiero, mi narrava le vicende di un grande uomo e della sua passione per il lavoro. Affascinata dai suoi racconti cominciai, come ogni bambina curiosa di esplorare il mondo, a porgli mille domande: “Una cava? Cos’è? E perché? Davvero?”. Con il passare degli anni capii che l’uomo di cui sempre sentivo parlare era seduto di fronte a me ogni domenica a pranzo: mio nonno.

Cominciai, da quel momento, a scorgere nei suoi occhi una luce diversa, che prima non avevo mai notato. Diventammo complici e lui, felice di rispondere ad ogni minima curiosità, in ogni parola che pronunciava non nascondeva il suo inspiegabile, a miei occhi, affetto per la contrada. Ho così cominciato a credere che nel suo piccolo mio nonno fosse davvero un grande uomo, un supereroe dotato di grandi poteri. A distanza di parecchi anni ho compreso che Giorgio Pentassuglia non era un supereroe come pensavo, ma soltanto un uomo umile che cercava di mantenere su una famiglia con il rispetto, il rigore e l’onestà degli uomini di un tempo.


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“Sono Giorgio Pentassuglia, un cittadino fasanese amante della sua terra. Ho dedicato gran parte della mia vita all’impegno e al lavoro. Ho vissuto una guerra, e combattuto per essa da vero soldato. Successivamente, dopo il ’45, come gran parte del popolo fasanese, mi sono adattato alle misere condizioni di vita che il mio territorio, anche se ricco, offriva. Per venti anni mi sono dedicato all’appezzamento di terreno in contrada Salamina, ereditato dai miei genitori. Ricordo ancora quando i miei nonni mi prendevano per mano e mi mostravano le mille bellezze naturali di quella contrada. Dopo aver constatato che nel sottosuolo del mio terreno giaceva materiale di pietra marmifera, mi fornii dell’attrezzatura necessaria per l’estrazione di esso. Ingaggiai alcuni operai del mestiere e cominciarono a scavare. Ogni giorno da un autotreno partiva un frammento della mia Salamina con la bolletta di accompagnamento della “DITTA GIORGIO PENTASSUGLIA CAVA DI PIETRA MARMIFERA FILETTO ROSSO JONICO SALAMINA FASANO (BR)”, e questo mi si riempiva il cuore d’orgoglio. Da lì a poco proprietari di segherie passando si fermavano per l’acquisto di materiale di quel tipo, ed in poco tempo la nostra cava divenne una piccola miniera d’oro. Di quei vent’anni passati in fretta, ho ancora ricordi nitidi e memorabili. I miei operai non erano del posto e dovettero affittare delle camere da letto nel fasanese per avere un tetto sicuro su cui dormire. Solo nel fine settimana tornavano dalle loro famiglie. Non avevamo un rapporto di subalternità, tra di noi si instaurò una vera amicizia. All’ora di pranzo ci

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accasciavamo sotto un grande albero di pino e consumavamo il nostro povero pasto: pane e pomodoro. A turno, uno di noi, si recava a piedi alla fontana, distante quasi cinque chilometri, ubicata di fronte la chiesetta di contrada Pezze Vicine. Lì riempiva il “ciccinato”, una grande anfora, da cui avrebbero attinto tutti. All’epoca bastava poco per accontentarci. Dopo lunghi anni passati nella mia cara cava capii che era il momento di abbandonare quella che era stata la mia fonte di ricchezza fino a quel giorno. A malincuore scelsi di chiudere i battenti per dedicarmi alla mia grande famiglia. Ma tutto questo non avvenne: preferii restare in quell’appezzamento di terreno per continuare a coltivare i miei sogni e le mie passioni. Ogni qual volta che, nonostante i miei quasi 96 anni, mi reco nella mia contrada mi pare ancora di sentire, come un leggero soffio di vento primaverile, il piacevole caos racchiuso in quella cava che mai dimenticherò.”


Laboratorio didattico realizzato dagli alunni della classe IIIC Grafica e Comunicazione Anno scolastico 2015 - 2016 IISS “G. SALVEMINI”


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