La Casta

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Seggi lasciati agli eredi come case o comò

to in Legge, e anche in Filosofia con Antonio Labriola, diventò il primo deputato socialista calabrese. Era il 1921. Giusto il tempo di pronunciare una durissima requisitol'ia sui torti romani verso la Calabria e, chiuso il Parlamento, venne mandato al confino. Due decenni di vuoto. E poi rieccoli, i Mancini. Raddoppiati: il figlio Giacomo, futuro ministro e segretario socialista alla Camera per la prima delle sue lO legislature, il vecchio Pietro al Senato. Ancora più forte e valente che pria. Al punto che, alla vigilia del 18 aprile, morì, fu pianto e risorse. Direte: possibile? Possibile. Stava facendo a Vibo Valentia un comizio torrenziale quando passò un frate con processione salmodiante di disturbo. Cosa disse Pietro non si sa. Ma il giornale diocesano «Parola di Vita» scrisse che il vecchio socialista, alla vista del pio corteo, aveva smoccolato contro il papa e i preti al punto che il buon Dio, di lassù, l'aveva fatto secco. Una balla. Ma sancita il giorno dopo dal vescovo di Crotone, che commemorò il morto additando la sua fine come esempio per tutti i rossi. Finché da Reggio Calabria, dove erano apparsi manifesti che ridimensionavano la cosa dicendo che comunque il peccatore era stato colpito da paralisi perpetua e perdita della parola, partì un telegramma che diceva: «Compagno Mancini, venga senza meno. Stop. Urgentissimo smentire punizione celeste». Mezzo secolo dopo, nell'autoaugurio di buon compleanno in cui si appellava ai «suoi» calabresi perché eleggessero il nipote, Giacomo «il Vecchio» benediva i parroci: «Il loro aiuto è stato di grande importanza, soprattutto nei quartieri popolari». Il mondo è cambiato, intorno. È cambiata la Calabria rossa che vide occupare le terre e nascere e morire in tre giorni la Repubblica popolare di Castrovillari. La Calabria fidelis secolarizzata da troppa assistenza, troppa tivù, troppe clientele. La Calabria dalle coste vergini sventrate dall'abusivismo. Solo i Mancini sono rimasti alloro posto. Saldi e immutabili attraverso trionfi, processi, riabilitazioni, declini e nuove resurrezioni. Senza imbarazzi, come spiegava prima di morire il vecchio Giacomo, che già aveva installato al Comune il figlio Pietro, «il migliore di tutti noi Mancini, costretto ad andarsene perché aveva tenta-

to di portare pulizia. Di che mi dovrei imbarazzare: che siamo una famiglia che s'impegna per la Calabria? Hai voglia di fare il nonno, se il nipote non vale!». Capiamoci: niente di nuovo sotto il sole. Lo ricordava già, ai suoi tempi, il cardinale Enea Silvio Piccolomini diventato papa col nome di Pio II: «Quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea / ora che sono Pio / tutti mi chiaman zio». Perfino l'uomo che era venuto fuori di prepotenza per rovesciare il mondo della politica e «fare piazza pulita di tutti i magna magna», cioè l'Umberto Bossi, non ha poi resistito alla tentazione di ipotizzare una successione «in famiglia» con la pubblica investitura del figlio, portato al balcone in pubblica astensione per la folla in delirio e benedetto con un'intervista al «Corriere»: «Dopo di me verrà mio figlio Renzo». Idea che la corte h;ghista, vergine di servo encomio, applaudì calorosamente: «E la cosa più naturale del mondo» disse Roberto Calderoli, «Renzo è la fotocopia del papà, se lo facciamo crescere, avremo un ottimo cavallo da corsa». «La Lega prima che un partito è un modo di essere, quindi è naturale che un padre voglia trasmettere i propri valori ai figli» confermò fervente Roberto Castelli, «conosco bene i figli di Bossi, Renzo è un ragazzo eccezionale e noi abbiamo bisogno di giovani in gamba.» Al che saltò su Riccardo Bossi: «E io?». C'è da capirlo. Lui, il primogenito che il Senatùr aveva avuto dal primo matrimonio si era dovuto accontentare di molto meno: un posto da «assistente accreditato» al Parlamento europeo, al seguito di uno dei più fedeli collaboratori del papà, Francesco Speroni, il controllore di volo promosso ministro per le Riforme istituzionali nel Berlusconi I e reso indimenticabile dalle cravattine texane e dalle giacche fucsia. Un posticino piuttosto buono: per gli attaché (possono essere uno o due) ogni deputato della Ue riceve infatti 12.750 euro. Pari a 24.687.000 di vecchie lire. Al mese. Ma vuoi mettere il ruolo di delfino designato a raccogliere l'eredità politica? Tanto più che un regalo uguale identico (questa volta come assistente di Matteo Salvini) il babbo non l'aveva fatto solo a lui ma anche allo zio, Franco Bossi, fratello del

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