SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno VII N. 28 / Trimestrale free press

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Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE 2018


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SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

OMMARIO

TALENT TALENT 3

NEL TEMPO RIFLESSO Giorgio Andreotta Calò - Gregorio Raspa

INTERVIEWS 4

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L’EMISFERO EMOZIONALE DEI LUOGHI Anton James - Annacaterina Piras LE IDENTITÀ FRAMMENTATE Donatella Izzo - Loredana Barillaro SENZA SEGUIRE LA TRAMA Iva Lulashi - Gregorio Raspa

SPECIAL 10

CONTEMPORANEO E RESTAURO con Antonio Rava, Eugénie Knight - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 12

COMMITTENZA PUBBLICA E PRODUZIONE Valentina Gensini

SHOWCASE 14

AZADEH ARDALAN a cura di Pasquale De Sensi

SMALL TALK 15

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PITTURA VIVA Lorenza Boisi - Valentina Tebala LE FORME DELL’AFFETTO Vittoria Starinieri - Federica Noemi Comoretto PROSPETTIVE DIFFERITE Gianni Moretti - Davide Silvioli URBAN NATURE Petra Polli - Maria Chiara Wang

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Maria Chiara Wang, Annacaterina Piras, Gregorio Raspa, Federica Noemi Comoretto, Davide Silvioli, Pasquale De Sensi Con il contributo di: Valentina Gensini © 2018 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Lorenza Boisi, IN THE STUDIO N. 4, 2016. Olio su tela, 40x30 cm. Courtesy dellʼartista e RIBOT.


TALENT TALENT

NEL TEMPO RIFLESSO Giorgio Andreotta Calò

I

- Gregorio Raspa si ribalta in un mimetico specchio d’acqua, perdendosi nella prospettiva infinita di un “doppio” connotato da evidenti proprietà oniriche e immaginifiche. L’opera appena citata esprime tutto il potenziale - lirico e trasformativo - del lavoro di Andreotta Calò, abile nel dimostrare come un semplice riflesso può assumere - nella sua costituzione palindroma - un’aurea magica e attivare reazioni psichiche ed emotive inattese, stimolare lo stupore introspettivo e indurre il piacere della ri-congiunzione al senso. Lo smarrimento che consegue all’osservazione dell’opera è solo l’esito di una rinnovata consapevolezza acquisita evocando passaggi mnemonici custoditi nell’inconscio. In fondo, tutto il lavoro di questo artista può essere vissuto come un ciclico viaggio condotto a ritroso verso un luogo (Ritorno, 2010); un evento (22 luglio1911 - 22 luglio 2011, 2011); un’immagine (Medusa, 2014); una suggestione (Anastasis / άνάστασις, 2018). In esso agiscono i simboli che invitano alla scoperta del primario e dell’ancestrale, gli eventi di una fenomenologia attenta al mondo sensibile, basata sulla contemplazione prolungata e la ri-appropriazione del Sé. Attraverso l’attivazione delle dinamiche appena descritte, l’indagine di Andreotta Calò esibisce la propria valenza cognitiva e semantica, elaborata sfruttando un insieme di elementi concettuali che, già dotato di un significato autonomo, attende solo di essere ricombinato per acquisire una gamma folgorante di nuove possibilità e di inattese implicazioni.

l lavoro di Giorgio Andreotta Calò custodisce in sé la malinconia indolente e salmastra dei paesaggi veneziani. In esso risiede la matrice di un immaginario autobiografico costruito sublimando sostanze familiari in archetipi di un pensiero filosofico e talvolta sociale. La sua attività artistica può essere interpretata come una continua ricerca di elementi di raccordo tra l’idea e la visione; come un costante esercizio di verifica condotto sulla percezione e teso al raggiungimento di una sua compiuta integrità. In quest’ottica, le opere di Andreotta Calò sembrano suggerire una lettura metafisica della realtà, in cui il tempo non solo misura o fraziona le parti di un tutto, ma diviene prova eraclitea dell’esistente. Si pensi, a tal proposito, alla serie Carotaggio (2014-16) o a ciascuna delle sculture intitolate Clessidra (2010-16) in cui la temporalità assume un’inattesa concretezza materiale testimoniando, attraverso i segni della processualità, gli effetti del divenire. Nell’ambito di un simile contesto operativo - in cui la disparità dei materiali impiegati esprime la cifra caratteristica di un multiforme approccio linguistico - anche lo spazio diviene elemento in grado di assecondare il proliferare delle illusioni e il germogliare delle possibilità. Ed è proprio nella dialettica tra l’opera e lo spazio, l’architettura e il paesaggio, che l’azione di Andreotta Calò trova piena e totale efficacia. I suoi interventi installativi - sempre concepiti in situ - perseguono un codice estetico basato sul compimento di un ordine rispettoso del preesistente, in cui memoria e identità preservano l’essenza del luogo e attivano il contenuto simbolico dell’opera stessa. Esemplare, a tal proposito, appare Senza titolo (La fine del mondo), il monumentale intervento presentato a Venezia in occasione della Biennale del 2017. Si tratta di un ambiente - caratterizzato dall’imponente presenza di una complessa struttura sopraelevata - in cui l’architettura del Padiglione

SENZA TITOLO (LA FINE DEL MONDO), 2017. Installation view at Padiglione Italia. 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. © Nuvola Ravera. Courtesy Padiglione Italia, Biennale di Venezia.

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INTERVIEWS

L’EMISFERO EMOZIONALE DEI LUOGHI Anton James

- Annacaterina Piras AJ/ Sì, e per scoprire cose che non avresti realizzato altrimenti. Io penso che l’arte sia un modo per farsi domande sul mondo e su se stessi. È un ottimo strumento per riflettere su ciò che sta là fuori.

Annacaterina Piras/ Come nasce la tua relazione con l’arte e quali le influenze artistiche nella tua formazione? Anton James/ Ho sempre voluto studiare arte. L’arte è qualcosa a cui sono sempre stato interessato, in particolare pittura e scultura. All’inizio ero molto più affascinato dal produrre sculture, argilla e gesso, successivamente mentre studiavo architettura del paesaggio mi sono interessato all’arte ambientale, Land art e installazioni artistiche, tanto che ho basato la mia tesi di laurea in Architettura del Paesaggio sull’arte ambientale. È stato probabilmente quando lavoravo a Londra con Will Alsop che ho maturato l’idea che fosse possibile combinare la propria pratica artistica, disegno e pittura, con la fase di indagine in ambito progettuale. Amo l’arte e quella sua forte componente emozionale senza necessariamente definire le cose troppo chiaramente. Piuttosto che l’essere troppo empirico, è la bellezza della suggestione che mi interessa, la bellezza di ciò che manca che rende l’arte così interessante per me. È stato attraverso il completamento del mio PhD che mi sono focalizzato su quella parte della mia pratica che avevo lasciato nel mio trascorso (70 taccuini di schizzi). Attraverso il mio dottorato ho capito che disegnare e produrre cose è il mio modo di esplorare, esprimere il mondo, per cercare di capire cosa succede al suo interno e tentare di palesare la sua complessità e il piacere (senso) di un luogo. Si prova piacere nel definire il mondo attraverso il disegnare, il dipingere, realizzando cose, che non è il tentare di risolvere problemi ma riguarda l’emisfero emozionale.

AP/ Cosa mi dici riguardo ai tuoi mentors, quali sono i maggiori artisti e movimenti che ti hanno influenzato e ti influenzano? AJ/ Sono alquanto interessato alla collisione dei diversi modi di comprendere la realtà, dunque apprezzo artisti come Jasper Jones, Robert Rauschenberg o Michel Heizer. Alcune delle persone che lavorano nel paesaggio, ovviamente, alcuni artisti australiani, come Imants Tillers, poi dipende, mi ispiro ad artisti differenti a seconda del periodo. L’altra cosa che adoro sono i disegni degli artisti, il contrasto tra le linee, le forme e i colori. C’è un autore che vive a New York, si chiama Jonathan Lasker, a cui ugualmente mi sono ispirato. Mi piace lo scontro nell’astratto, ma non totalmente astratto, né totalmente rappresentazione, ma la tensione tra l’espressione, l’espressione sistematica, la suggestione e distorsione. C’è qualcosa di tecnicamente stimolante nel disegnare in maniera estremamente realistica, ma è altrettanto interessante enfatizzare alcuni tratti delle cose, o anche, attraverso il disegno, scoprire cosa potrebbe piacerti o interessarti nell’enfatizzarle. Perché non possiamo rappresentare il tutto, facciamo una scelta di ciò che decidiamo di non rappresentare. AP/ L’arte nella tua pratica professionale. AJ/ I disegni vengono prodotti in contemporanea alla creazione e realizzazione del progetto, registrano l’evoluzione del lavoro, sono un universo parallelo, un diario di bordo che racconta la storia del progetto.

AP/ Dunque è un modo per capire e un modo per esprimere, per rappresentare agli atri come tu vedi la realtà circostante, e rivelare la complessità delle cose…

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AP/ Dunque è un modo per capire, scoprire e poi scegliere quello che ti piace mostrare. È una metodologia che passa attraverso un looping, la scoperta, il riportarla mediante la rappresentazione e la scelta di ciò che vuoi rappresentare, il progetto...

rappresentazione artistica del mondo ideale o la realtà alla fine risulta molto più complessa? AJ/ In un certo senso è come se tu capissi cosa volesse qualcun altro progettando attraverso la tua personale esperienza, quindi devi essere convinto che quell’esperienza potrà piacerti non solo come esperienza cerebrale, ma anche come esperienza fisica che ti procura un senso di piacere, ed è abbastanza aperta per essere interpretata in maniera differente. Io posso capire ciò che agli altri piace, ma quello che è il sentimento del pubblico è difficile da cogliere ed esprimere, quindi spero che il progetto rimanga abbastanza aperto e flessibile quanto i disegni. Essi occupano un universo parallelo che illustra un modo di riflettere intorno all’idea, continuano ad evolversi, hanno vita durante e lungo la fase progettuale. Ne realizzo molti, cambiano spesso, ripensando altri modi per cogliere il senso del luogo si nutrono l’uno con l’altro ed evolvono in molteplici direzioni. Non farei mai il progetto nello stesso modo due volte, esso ha una linea, si ferma, va documentato per poi passare alla fase di costruzione. In ogni modo si verificano dei cambiamenti lungo il processo, e mi piace risolvere i problemi quando si presentano, pensare sul posto se qualcosa va storto e trovare una soluzione diversa. Non mi preoccupo di realizzare il lavoro esattamente com’è il disegno, esso sviluppa una vita propria.

AJ/ Sì, e penso che ci sia l’idea che il lavoro artistico sia in grado di tirar fuori alcune cose che sono un po’ strane o bizzarre, perché noi diamo il mondo per scontato. Ciò che mi piace è il demenziale, le cose che apparentemente non hanno senso, che cozzano insieme in un modo particolare e forse, in qualche modo, è questo per me il senso del luogo, quelle cose veramente singolari, quel tipo di bizzarria del luogo piuttosto che ciò che ci si aspetta. Ciò che potrebbe essere particolare del mio modo di rappresentare, potrebbe risultare qualcosa di peculiare ma non necessariamente dal punto di vista progettuale, forse quello che può essere ritenuto interessante nel mio lavoro è il fatto di disegnare senza mostrare il progetto finito, bensì il non finito. Se il progettare consiste nel risolvere problemi e fare in modo che tutto fili liscio o funzioni correttamente, a me piace l’incertezza di alcune cose che non sono necessariamente tutte in linea, che funzionano correttamente come ci si aspetta. AP/ Un’altra cosa che mi viene in mente a questo punto è che io conosco i tuoi progetti realizzati, per esempio the Reservoir (Paddington Reservoir, Sydney), e guardando i tuoi bellissimi disegni, noto la discrepanza. I progetti realizzati sono molto misurati, dialogano perfettamente con il contesto circostante, mentre il tuo modo di rappresentare la realtà, attraverso i tuoi disegni, è molto più enfatizzato.

AP/ Qual è e quanto è importante il ruolo degli utilizzatori finali all’interno del progetto? AJ/ Oh, è davvero importante, alla fine della giornata è tutto basato sull’abitare e rivelare la magia alle persone, portare il piacere del posto a qualcuno, per enfatizzare il piacere dello stare in quel luogo. Vedi, i disegni sono uno strumento per creare, comporre ed esplorare, e per pensare, per fermare nel pensare, certe cose. E poi c’è sempre la mano e la mente, e il fatto che la mano non sa cosa la mente vuole. Ma la mano alcune volte scopre delle cose di cui non avevi pensato l’esistenza. Pertanto mi piace non disegnare in maniera esatta perché permette errori che ti svelano altre cose, se tu rappresenti perfettamente la realtà, perdi qualcosa. Per me è sempre stato un modo di lavorare che si è sviluppato in un modo di pensare.

AJ/ Sì, i disegni sono probabilmente più estremi e forse il rischio di costruire cose estreme è che diventano troppo reali; vedi, i disegni rimangono aperti a più interpretazioni. Nei disegni l’estremo rimane sul piano della suggestione, ma suppongo che quando tu vada a realizzare qualcosa, la questione fondamentalmente sia come costruire qualcosa che semplicemente non stia giusto in piedi, ma risulti anche una sorpresa, una delizia; l’inaspettato anche nelle piccole cose. In Glabe (Glabe Foreshore Walk, Sydney), la questione ruota tutta intorno alle piccole cose, non riguarda qualcosa di grande, ma le piccole cose che potresti non notare normalmente. Il mio disegnare è un sistema per riflettere intorno a qualcosa che non puoi manipolare. Come paesaggista non puoi maneggiare direttamente il suolo, non lavori direttamente con il terreno, quindi credo che, probabilmente, costruire questo sistema di astrazione sia una metodologia, un modo di lavorare.

Anton James è Condirettore dello Studio di Architettura del Paesaggio di Sydney “James Mather Delaney Design” e Professore di Architettura del Paesaggio.

Per entrambe: TRAMSHED GARDEN, 2014. Acqurello e inchiostro su carta, 520x210 mm. Courtesy Anton James, JMD design.

AP/ Il progetto reale e il ruolo delle persone, il risultato finale, il progetto realizzato è simile in qualche modo alla tua 5


INTERVIEWS

LE IDENTITÀ FRAMMENTATE Donatella Izzo

Loredana Barillaro/ Donatella, hai lavorato sino ad oggi prevalentemente con la fotografia, di recente invece ti sei spostata sull’installazione, mi parli di questo cambiamento? Donatella Izzo/ Gli ultimi lavori rappresentano una sorta di svuotamento e di graduale consapevolezza ossia, dell’esigenza di andare a toccare quelli che sono per me i territori più dolorosi del mondo contemporaneo e della mia esistenza, attraverso un’esplorazione di forme linguistiche quanto mai variegate, che nella loro unione e cruda presenza, siano in grado di generare tensione con un’amplificazione potente nello spazio. Credo che questa necessità derivi da un’emergente esigenza di dare voce a tematiche di interesse sociale che si mischino naturalmente ad esperienze personali, creando una rete di

- Loredana Barillaro

allusioni di tipo comunicativo e non solo più evocativo. Per esempio nella mia ultima mostra alla Kunsthalle di Lana ho affrontato due tematiche per me importanti: quella del rapporto tra l’idea di “peccato” e la “pazzia” intesa come malattia psichiatrica. L’installazione Say only one word and I will Be saved nasce dal ritrovamento in un ex-manicomio psichiatrico - abbandonato dopo la Legge Basaglia del 1978 - di cartelle cliniche e di appunti sullo stato dei ricoverati e delle procedure fisiche e maccaniche da mettere in atto dagli operatori sanitari sui pazienti. Nel caso invece dell’installazione Venus affronto il drammatico tema delle donne sfregiate dall’acido. Numeri impressionanti di episodi nei Paesi come Bangladesh, Pakistan o India, e dati preoccuppanti in Europa con un aumento dei casi pari al 120% negli ultimi quattro anni. 6


“L

a manipolazione di tipo meccanico che effettuo sui ritratti fotografici è certamente una forma di violenza, ma atta a “grattare via” la superficie esteriore, affinché affiori la personalità e si mostri nella sua essenza”.

LB/ IL tuo lavoro appare intimista, fatto di volti che guardano e si guardano, su cui peraltro operi anche una certa manipolazione… DI/ La consistenza fisica di ogni mio lavoro accoglie la personale - amara - percezione di una frammentazione dell’identità individuale e collettiva, ormai privata del senso di appartenenza al lato mistico e trascendentale della vita stessa. Volti deturpati e sguardi ciechi, dall’apparenza impassibile, eppure penetranti, con occhi spesso velati coperti da tratti incisivi, ammutoliti e svuotati, presenze silenziose quanto incombenti, sono il monito chiaro di una generale forma di declino, certamente la vana ed effimera certezza di una vanitosa e inutile messa in posa del lato fisico delle cose a dispetto di quello proprio dello spirito. La manipolazione di tipo meccanico che effettuo sui ritratti fotografici è certamente una forma di violenza, ma atta a “grattare via” la superficie esteriore, affinché affiori la personalità e si mostri nella sua essenza. LB/ La ricerca di spiritualità sembra essere terreno privilegiato delle tue riflessioni, che cosa cerchi? E che cosa vogliono comunicarci i tuoi lavori? DI/ La spiritualità è per me la creazione di uno scenario rarefatto, ingannevole, frutto di continue commistioni di simboli che causano destabilizzazione nel processo di percezione. Spirituale è ciò che si raggiunge allorché si superano i confini del “conosciuto” in quanto

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tale e ci si addentra in una dimensione simbolica e surreale dove ognuno di noi cerca di mettere insieme le tessere di un puzzle che non si comporrà mai. È in questa dimensione - nella contraddittorietà del vero, nel superamento della comprensione razionale - che si svela il soprannaturale. Credo nell’aspetto sacrale dell’arte nel senso più ampio del termine, dismesso però dagli stereotipi e dalle congetture egoiste delle religioni, soprattutto di derivazione cristiana. In un mondo frastornato dalla comunicazione e dai suoi tecnologici mezzi, vorrei solo generare un po’ di silenzio… LB/ In virtù anche degli strumenti linguistici che stai adottando - così come hai detto poc’anzi - dove credi ti condurrà il tuo lavoro? DI/ Credo che il mio lavoro si stia quanto più liberando da qualsiasi etichettatura, e mi stia conducendo a una libertà espressiva che prima non conoscevo. Sintetizzando direi che non mi interessa più il lato estetico in quello che realizzo e che al momento… odio terribilmente le cornici! Da sinistra: SAY ONLY ONE WORD AND I WILL BE SAVED, 2018. Sedia, sale, stampa diretta su dibond, reperti in carta, dimensioni variabili. VENUS, 2018. Veduta dell’installazione presso Kunsthalle Eurocenter Lana, settembre 2018. Stampa su carta fotografica montata su dibond, corda, cotone, riso, dimensioni variabili. Per entrambe courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

...attraverso la rielaborazione pittorica, creo un cortocircuito di significati, sezionando le anatomie ed eliminando tutti gli aspetti retorici della scena, che assurge in tal modo a “concerto” di frammenti corporei al limite del ridicolo.”

SENZA SEGUIRE LA TRAMA Iva Lulashi

- Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ Iva, il tuo modus operandi prevede sempre un preliminare lavoro di selezione effettuato su immagini prelevate da film, documentari e altri supporti video. Poi, cosa succede? Iva Lulashi/ Una volta selezionati i frame di mio interesse da video di varia natura, li suddivido e raccolgo in cartelle, donando loro un ordine. Da quel momento in poi parte il mio vero lavoro. Riguardo le immagini che ho raccolto cercando di comprendere “cosa” realmente mi ha colpita nel momento in cui ho deciso di “catturarle”. Il meccanismo che si innesca costituisce una testimonianza del processo della mia crescita ed è, quindi, il risultato dell’unione di due momenti distinti: uno di riflessione sorto durante la fase di ricerca - più preciso e definito - e uno di casualità e incertezza intimamente legato al materiale che esamino. GR/ Più volte al cospetto dei tuoi dipinti mi è sembrato di riconoscere gli elementi propri di una sensibilità umana e linguistica già sperimentata, ad esempio, da Pasolini nelle sue pellicole; o il fascino dell’iconografia voluttuosa e nostalgica costruita da Guadagnino nelle sue opere. Quanto, in realtà, i riferimenti citati ti appartengono? Quali, invece, si ricollegano con maggiore aderenza al tuo lavoro? IL/ Gli autori che citi, come le opere di altri registi che apprezzo, non hanno un legame diretto con il mio lavoro ma arricchiscono il mio bagaglio cinematografico e mi aiutano a raffinare il mio gusto all’immagine. In realtà, i film da cui traggo i frame da trasporre nelle opere sono solitamente sconosciuti e svaniscono nella mia memoria. Per scelta, infatti, li guardo con il maggior distacco emotivo possibile, senza audio e senza seguirne la trama. 8


GR/ Dell’aspetto cinematografico, il tuo lavoro custodisce anche una naturale propensione alla narrazione. Se letta nel suo complesso, in fondo, la tua produzione sembra il frutto di un unico, monumentale, esercizio di found footage. In quest’ottica, quanta parte della storia originale, cristallizzata nel singolo frame, “resiste” alla tua opera di trasfigurazione pittorica?

La scelta di determinate immagini per realizzare il ciclo di lavori tuttora in corso non è dunque un puro vezzo formale o contenutistico, ma una sorta di rivendicazione del libero arbitrio connesso all’individualità. GR/ Le esperienze e i temi appena citati sono posti al centro del tuo ciclo pittorico Eroticommunism. In esso il repressivo e autoritario clima politico instaurato da Hoxha in Albania viene ri-letto da una prospettiva inedita e spiazzante. Questo ciclo dona anche il titolo alla tua ultima personale milanese. Me ne parli?

IL/ Le immagini su cui si basano i miei dipinti sono estratte da filmati in origine analogici, e solo successivamente riversati in digitale e caricati in bassa risoluzione su siti come YouTube. A quel punto molti dettagli sono già scomparsi… L’approssimazione delle immagini è quindi dovuta alla qualità del materiale messo a disposizione dalla rete, mentre la mia elaborazione è guidata dalla voglia di riappropriarmi di immagini appartenenti ad una memoria culturale collettiva. Integro le immagini e le personalizzo aggiungendo elementi estranei o togliendo loghi e sottotitoli. Poi, attraverso la rielaborazione pittorica, creo un cortocircuito di significati, sezionando le anatomie ed eliminando tutti gli aspetti retorici della scena, che assurge in tal modo a “concerto” di frammenti corporei al limite del ridicolo. Grazie ai miei interventi, tra l’opera finale e i video di partenza vi è dunque una distanza che annulla ogni componente narrativa.

IL/ In molti casi l’allestimento di una mostra diventa la creazione di un unicum dato dalla composizione di dipinti di diverse dimensioni. Eroticommunism inizialmente era un “progetto-opera” composto da nove dipinti che nel tempo, grazie a nuove riflessioni, è arrivato a comprenderne più di quaranta, tutti riuniti in questa mia personale. Eroticommunism è anche il primo lavoro in cui coesistono, trovando pieno compimento, le mie ricerche legate al periodo comunista albanese e l’erotismo che stava naturalmente emergendo nel mio lavoro. GR/ Negli ultimi anni hai sperimentato nuove condizioni pittoriche, utilizzando come supporti per i tuoi lavori vassoi, semplici tessuti, piastre e altri elementi di natura oggettuale. Dove può condurre questa ricerca sui materiali?

GR/ Nel tuo lavoro ricorrono con frequenza immagini erotiche o legate ad un allusivo e subliminale immaginario di sensualità. In molti dipinti tali elementi confluiscono all’interno di un’atmosfera surreale, in cui la dissolvenza delle figure crea ambiguità visive e concettuali. Come è nata l’idea di orientare il tuo lavoro verso simili contenuti e coniugarli a temi più articolati e compositi, come quelli - ad esempio - di carattere storico?

IL/ Se le fonti utilizzate per i dipinti rappresentano un richiamo indiretto all’esperienza personale, è altresì vero che oggetti come un centrino ricamato da un familiare, un vecchio macinino per il caffè o una stoffa color porpora non possono che rimandare ad una memoria concreta/tangibile. Tutti questi sono, ad esempio, elementi che ho prelevato dal reale per incorporarli nelle tele o impiegarli come supporto stesso per la pittura, allo scopo di rendere evidente il legame inscindibile tra le vicende individuali e la storia collettiva e per rileggere quest’ultima in chiave esistenziale.

IL/ La presenza di queste atmosfere nasce dalla necessità di liberare il mio ciclo pittorico sul periodo comunista albanese dalla censura dell’erotismo, riflettendo contemporaneamente su due prospettive narrative: da un lato la dimensione pubblica della “corretta” vita socialista, dall’altro la dimensione privata, di cui fa parte, appunto, il desiderio sessuale.

Da sinistra: È INVISIBILE E NON SI SENTE L’ODORE, 2016. Olio su tela, 25x30 cm. Courtesy of Collezione Giuseppe Iannaccone. VIZI MINORI, 2018. Olio su tela, 70x80 cm. Courtesy of Prometeogallery.

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SPECIAL

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CONTEMPORANEO E RESTAURO

hi decide la durata di un’opera d’arte? Il suo artefice, chi l’ha creata o chi, invece, talora la “riceve”? Se progettare un restauro ci sembra scontato per le opere d’arte dei secoli passati, diverso è il caso quando si tratta di arte contemporanea, quella di oggi, quella recentissima, sperimentale e per questo spesso in balìa del tempo e dei suoi effetti. Come bisogna agire dunque?

Loredana Barillaro Quand’è che appare necessario un intervento di restauro? E se la vita di certe opere si esaurisse con il loro normale “ciclo vitale” spesso condizionato dall’impiego di materiali facilmente deperibili? E se l’opera fosse la sua “documentazione”? È possibile stabilire quando e se ne valga la pena…?

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ono stati da più punti sollevati dubbi sulla recente pratica di restauro dell’arte contemporanea, per la presunta volontà di mantenere una condizione di “evergreen” per opere a cui non si concede un invecchiamento coerente col passaggio del tempo, nel malinteso intento di preservare il messaggio cristallizzato in una condizione di perfezione formale antistorica, in aperto contrasto con la teoria del restauro come si è sviluppata attraverso generazioni di restauratori da più di mezzo secolo. Si può arrivare a stigmatizzare questo approccio quale azione di ripristino che non si praticherebbe mai sulle opere d’arte antiche e tradizionali. Eppure mi pare importante interpretare queste prassi di intervento che a più riprese e in diversi contesti sono state attivate nel restauro del contemporaneo, con una serie di distinzioni e delimitazioni, interpretandole come una fase di adeguamento ad una nuova percezione del rapporto dell’arte contemporanea con il mondo. È ormai opinione corrente che la preservazione delle tracce manuali dell’artista nell’opera sia un aspetto da cui non si possa prescindere nel restauro, rispettando quella stesura sensibile che reca memoria della sua espressività. In questi casi, come ad esempio per le campiture monocrome, l’unico possibile intervento è rigorosamente conservativo, attivando puliture ed eventuali reintegrazioni delle lacune, ma non procedendo mai con una ridipintura completa, come era invece stato ipotizzato anni fa dai professionisti che per primi avevano affrontato questo problema, con il risultato di annullamento e perdita del messaggio artistico. Voglio porre però l’accento sulla prassi che sembra più contrastare con il criterio tradizionale della conservazione imboccando nuove strade inedite che non sappiamo ancora dove porteranno. Proprio gli artisti hanno avviato questa nuova prassi, operando in sinergia con i restauratori durante la loro vita, lasciando un percorso tracciato per il futuro. Assimilare alla vita biologica l’arte, per capire la quale è opportuno riferirsi a tendenze e direzioni specifiche, tipiche dei diversi processi, è una prassi che gli artisti hanno impostato come una via d’uscita indispensabile. La possibilità di sostituzione dei materiali seriali, impermanenti, non elaborati manualmente dall’artista, permette la rinascita dell’oggetto innescando un nuovo rapporto tra tempo e durata. Il progetto di restauro non si basa solo sulla necessità di mantenere il significato che è incarnato nella materia da conservare, potenzialmente inespresso se manca la sua forma espressiva compiuta. Tante esperienze sul campo dimostrano che non si può ottemperare a questo scopo soltanto conservando la materia, quando non permetta più di trasmettere il proprio messaggio. Dove quindi le forme espressive, attraverso modifiche e lacune sono carenti, la scelta non può essere quella di una acritica conservazione dello stato di fatto. La possibilità di sostituzione di elementi seriali ammalorati, sulla scorta di un approccio di conoscenza precisa e ben documentata, può risultare una soluzione 10

appropriata ben definita dall’artista Michelangelo Pistoletto che in una intervista del 1986, afferma: “per quanto riguarda le mie opere rappresentano proprio il cambiamento delle cose, cioè uno slittare. È come la candela che si consuma ma che si sostituisce. C’è una modificazione che è molto vicina alla natura; è la possibilità di sostituzione continua che ha la natura stessa. C’è proprio in questi lavori la volontà del rinnovamento e del cambiamento; è come l’immagine dello specchio che ha una sua vita che sempre si rinnova. C’è nel mio lavoro una evidente partecipazione del processo vitale e direi che l’arte povera stessa segue questa logica”. Antonio Rava

Antonio Rava è Fondatore di Società Rava E C S.r.l. di Torino, Vice Presidente della sede italiana dell’International Institute for Conservation, Docente presso il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.


EUGÉNIE KNIGHT ANTONIO RAVA

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’opera d’arte contemporanea è quella che viene creata e che vive nello stesso tempo di chi la osserva. La contemporaneità appartiene quindi a tutte le epoche. È sempre esistita. Dal compimento di un’opera d’arte, o poco dopo, termina la sua contemporaneità e inizia il suo degrado e la sua storicizzazione. L’osservatore di un’opera a lui contemporanea ha spesso difficoltà ad accettarne i segni del passaggio del tempo; così come non si amano le rughe sul proprio corpo, sono recepite quale inevitabile e naturale invecchiamento quelle sul volto della bisnonna, ormai storicizzata. È questo il motivo che rende difficile l’applicazione della teoria brandiana nel restauro delle opere contemporanee. Si ridipingono pertanto i monocromi, si sostituiscono i pezzi usurati, non c’è rispetto per l’insorgere di una patina. Esistono due quesiti fondamentali che necessitano di approfondimento, che sono frequentemente all’origine delle accese dispute in questo ambito: a chi spetta il potere decisionale sull’opera e quanto pesa la relazione con il suo valore commerciale? Non ci sono dubbi: il potere decisionale è di chi possiede l’opera. Può purtroppo farne quello che vuole, fino ad arrivare alla sua distruzione, come avvenne nel 1934 quando Nelson Rockefeller fece distruggere il murales di Diego Rivera nel Rockefeller Center perché

carico di riferimenti contrari al regime capitalista. È quindi il proprietario che decide se restaurare un’opera che l’artista ha volutamente scelto come creazione effimera o deperibile, nata per non durare. Ed è sempre lui, il proprietario, che sceglie se contrastare la volontà dell’artista che talvolta crea opere con una specifica volontà di farle vivere, integrandole con la natura, permettendo che con l’invecchiamento esse possano variare di colore o di forma, per poi scomparire. I restauratori sono i medici dell’arte e, in quanto tali, non possono rifiutarsi di salvare una vita a meno che non ci sia una precisa volontà scritta dell’artista, come un testamento biologico. È moralmente corretto, quando si deve eseguire un intervento conservativo, contattare l’artista quando possibile, coinvolgerlo, informarlo di un eventuale restauro e ottenere informazioni tecniche, stilistiche e filosofiche riguardanti il suo pensiero, al fine di procedere nel miglior modo possibile al restauro. Poiché è il restauratore che dovrà mettere le mani sull’opera finita. Quando l’artista interviene personalmente con un restauro, rischia di rielaborare l’opera, cambiandone la testimonianza di un preciso periodo storico, e talvolta, non essendo un restauratore, non è altrettanto abile nel riparare danni. Infine, non è possibile non tenere in

Eugénie Knight è restauratoreconservatore, libero professionista con sede a Roma.

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considerazione il valore economico dell’opera d’arte contemporanea, cosa assolutamente non trascurabile viste le altissime cifre a cui esse vengono oggi vendute e che giustifica talvolta “l’accanimento terapeutico” perseguito. Le opere destinate ad una fruizione fugace sono sempre esistite - per eventi, esposizioni, processioni - ma come Cesare Brandi stesso sottolinea, ci deve essere innanzitutto il riconoscimento dell’opera d’arte in quanto tale, una definizione che distingueva la decorazione dal capolavoro, e che forse oggi ci aiuta a distinguere la “provocazione” dall’opera d’arte. Con la storicizzazione dell’opera, possono considerarsi ancora valide le regole definite nella sua Teoria del Restauro, fondamentali linee guida per il restauratore, ma come diceva Giovanni Urbani, non si può sperare di prolungare ad oltranza la vita di un’opera d’arte. C’è un limite di fronte al quale ci si deve arrendere. L’odierna arte contemporanea presenta spesso, forse più di quella del passato, una fase di “criticità” di fronte alla quale siamo costretti ad arrenderci. Eugénie Knight


COMMITTENZA PUBBLICA E PRODUZIONE Valentina Gensini

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’arte non è evento, i musei non sono location. L’arte è mezzo di emancipazione potente per la cittadinanza, i musei sono dispositivi del pensiero capaci di agire sulla società. L’arte regala visioni e consapevolezze perchè ha uno sguardo obliquo sulla realtà.”

presupposti di una pratica convintamente indipendente e responsabile non sono semplici da raccontare. Anzitutto ci vuole formazione, un aspetto imprescindibile per il nostro mestiere.
Laurea in storia dell’arte contemporanea a Firenze con Maria Grazia Messina. Scuola di specializzazione triennale a Siena con Enrico Crispolti. Corso specialistico all’Ecole du Louvre in museologia, estate 2004. Un percorso coerente e serrato tra arte contemporanea e museologia, due grandi passioni cui ne va unita una terza: l’insegnamento, praticato fin dall’inizio nelle collaborazioni seminariali con l’Università di Siena, quindi con corsi annuali all’Istituto Europeo di Design e il coordinamento scientifico di un Master in Arts Management, nonché attraverso la docenza in corsi di formazione insegnanti. Negli anni della Scuola di Specializzazione già lavoravo a un gruppo di ricerca presso la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti diretta da Carlo Sisi, un grande maestro di pensiero e metodo, con cui abbiamo realizzato il catalogo generale del museo oltre a numerose pubblicazioni sull’Ottocento e il primo Novecento. Frequentare a lungo i depositi, i restauratori, gli archivi in cui si 12

PEOPLE ART

ricostruisce la storia di un’opera è stata un’esperienza fondamentale che mi sono ritrovata negli anni successivi, quando ho fondato e diretto il Museo Novecento di Firenze, nato come polo fortemente sperimentale in campo museologico. La formazione è tutto, e nel nostro lavoro non finisce mai. Gli anni trascorsi prima come consulente e poi curatrice alla Fondazione Palazzo Strozzi mi hanno insegnato come si organizza una grande mostra (presso la fondazione ho curato Green Platform. Arte Ecologia e Sostenibilità, 2008), nonché l’importanza della mediazione culturale, per cui mostre e musei sono anzitutto dispositivi di pensiero, non di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori.


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o lasciato Strozzi per iniziare la collaborazione con il Comune di Firenze, per aprire due nuove istituzioni: il Museo Novecento, che ho fondato e inaugurato nel 2013 per riscattare oltre cinquant’anni di oblio per le collezioni novecentesche raccolte da Carlo Ludovico Ragghianti; Le Murate Progetti Arte Contemporanea, centro di arte contemporanea dedicato a residenze e nuove produzioni gestito da Mus.e, di cui oggi ho la direzione artistica. Le Murate è l’ex carcere cittadino, un quartiere recentemente restituito alla città con case popolari e luoghi dedicati alla cultura contemporanea, tra cui il nostro spazio, dove ogni anno centinaia di artisti trascorrono periodi di residenza o formazione producendo opere inedite. Sono una storica dell’arte, ed esercito la curatela con un approccio metodologicamente rigoroso e con una determinazione etica fondamentale: l’arte non è evento, i musei non sono location. L’arte è mezzo di emancipazione potente per la cittadinanza, i musei sono dispositivi del pensiero capaci di agire sulla società. L’arte regala visioni e consapevolezze perchè ha uno sguardo obliquo sulla realtà. La scarsa consapevolezza di certa società porta a intendere erroneamente i musei come locations e i centri di produzione come luoghi di eventi, magari gestiti da curatori non adeguatamente formati. Mai

quanto oggi le istituzioni pubbliche devono riscoprire la responsabilità della committenza e avocare a sé il ruolo di epicentri sperimentali per strategie di emancipazione e responsabilizzazione di una società complessa, aperta all’inclusività e alla pluralità di culture e linguaggi. Il Progetto RIVA, che ho fondato e diretto dal 2012 raccogliendo la sfida di fare arte pubblica in Italia, lavora ad un’indagine artistica e ambientale nell’ottica di un approccio ecosofico al paesaggio. Dal 2016 è realizzato in co-progettazione e con il sostegno del programma Sensi Contemporanei nell’ambito dell’accordo di programma quadro tra Regione Toscana, Mibac Direzione Generale Cinema e Agenzia per la Coesione Territoriale. La riappropriazione di aree pubbliche abbandonate e la risignificazione del paesaggio naturale e antropico in termini di sostenibilità comportano pratiche necessariamente complesse e impegnate. L’interpretazione e la comprensione del parco fluviale quale metafora dell’intera comunità coinvolta intorno alle economie del fiume ha visto coinvolti, tra gli altri, percorsi sonori prodotti da Radio Papesse, soundscape di Bernard Fort e Katrinem in collaborazione con Tempo Reale, “ritratti” del paesaggio intorno al fiume e della comunità che lo abita realizzati dai fotografi Massimo Vitali, Arno Minkkinen, Jay Wolke, Davide Virdis, Giuseppe Toscano, Martino Marangoni, Paolo Woods, Edoardo Delille in collaborazione con Fondazione Studio Marangoni; installazioni e nuove produzioni degli artisti Adrian Paci, Paolo Masi, Studio ++,

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Yuval Avital; incontri pubblici e talk internazionali in collaborazione con LWCircus. Si tratta di un percorso tra partecipazione, analisi del territorio, esperienze sonore ed installative. Un racconto dell’ambiente e delle comunità attorno ai fiumi Arno, Sieve e Pesa, sostenuto da riflessioni e azioni consapevoli; una ricerca all’insegna di sostenibilità ambientale, memoria collettiva, tutela del paesaggio, inclusione e identità.

Valentina Gensini è Storica dell’arte e Curatrice, Direttore Artistico Le Murate Progetti Arte Contemporanea, Mus.e, Firenze.

Da sinistra: Valentina Gensini, 2018. Arno Rafael Minkkinen, Progetto RIVA, Arno. Per entrambe courtesy Le Murate Progetti Arte Contemporanea.


SHOWCASE

AZADEH ARDALAN | a cura di Pasquale De Sensi

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a mia pittura è basata su una ricerca personale che parte dalla visualizzazione dei sogni e di singole immagini oniriche. I sogni per me creano un mondo senza tempo nel quale i colori e le figure si identificano e sostituiscono senza proporzioni logiche. In questa dimensione estetica, le forme combaciano con i significati creando una surrealtà perfettamente autonoma.

HOPEFUL PAINTER, 2018. Tecnica mista (digitale, acrilico e olio su tela), 50x70 cm. Courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

PITTURA VIVA Lorenza Boisi

- Valentina Tebala Valentina Tebala/ Molti pittori con cui ho avuto l’occasione di confrontarmi dichiarano la natura intima e autobiografica della propria ricerca, così che la pittura mi sembra poter funzionare meglio di altri linguaggi dell’arte visiva come specchio del vissuto dell’artista… Questo credo valga anche nel tuo caso. Cosa ne pensi? Lorenza Boisi/ Ho sempre sperato di potermi incorporare nella mia pittura. Il mio lavoro è profondamente auto-riferito e intrinsecamente autobiografico. Ogni immagine, ogni decisione e motivo sono espressione diretta della mia indole, della mia esistenza, della mia storia, del mio vissuto e del mio sistema. La mia pittura, anche nelle forme più astratte, è elezione d’identità, è significante di paradigma riferito e, nel suo complesso, attraverso gli anni, palinsesto demiagiografico. Si parla di me, con me, senza di me, attraverso me, in mia compagnia, in mia cospicua assenza… si indaga Lorenza, attraverso la pittura, in quanto narrazione narrata e narratologia manifestata. Tutto questo è il motore, non è il Fine. La mia pittura esprime soprattutto, in sé e per sé, una vista sopra la Pittura medesima, è suo oggetto e soggetto… io non sono che pretesto, strumento, ortografia e calligrafia… VT/ Un forte carico psicologico ed emotivo, una certa vicinanza con le espressioni dell’Art Brut e del disegno infantile. Delicatezza e sofferenza. Per te la pittura ha un ruolo anche curativo? LB/ Sicuramente la pittura, l’Arte, ha un potere taumaturgico, ma io sono un’artista professionista, non posso evitare di entrare nel merito di una storicità critica e di una funzione di lettura e partecipazione diacronica consapevole. Ammesso io sia matta più di altri, resto completamente lucida nel mio posizionamento storico. VT/ Tra il figurativo e l’astratto, come scegli o traduci visivamente - e cromaticamente - gli elementi delle scene che dipingi? LB/ Non esistono parole per descrivere compiutamente il sentimento del Divino, identicamente non si dice dell’Indicibile, non si spiega in nessun modo, la Grazia del galleggiamento dei corpi e non si racconta, giacché impraticabile, come ci si conduca nello studio. Se mi fosse possibile verbalizzare un protocollo decisionale, un modello di condotta, un sistema orientato nella pittura… sarei un altro tipo di artista. VT/ Secondo te in che cosa si caratterizza la pittura contemporanea in Italia rispetto, per esempio, a cento anni fa? LB/ Non posso entrare nel merito della Pittura, posso descrivere un atteggiamento comune tra i pittori: esistono, in Italia, parecchi pittori che si sentono tali prima di sentirsi artisti. Anche tra i giovani, un desiderio comune spinge verso una re-definizione della pratica artistica: pittori in quanto, precisamente, Pittori e non pittori in quanto artisti dediti (anche/forse/talvolta) alla pittura… In questo senso, in un’ellisse che comprenda buona parte dei cento anni pregressi, considero che non vi sia sostanziale cesura tra il 1918 e il 2018. I pittori italiani di oggi sono molto vicini ai pittori italiani di cento anni orsono, diversamente lontanissimi dai colleghi di vent’anni fa. Vi sono oggi, ventenni e trentenni che avrebbero felicemente percorso il secolo passato, addirittura il secolo prima, senza destare sospetto di venire da un altroquando, alieni, invece, a ritroso di uno smilzo decennio. I pittori italiani più belli sono i più lontani dal loro presente, i meno contemporanei, i meno compresi, i meno furbi, i meno sociali…

Dall’alto: COLAZIONE SULL’ERBA, 2018. Olio su tela, 240x200 cm. NEW STUDIO, 2016. Olio su tela, 70x60 cm. Per entrambe courtesy dell’artista e RIBOT.

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SMALL TALK

LE FORME DELL’AFFETTO Vittoria Starinieri

- Federica Noemi Comoretto

Federica Noemi Comoretto/ La tua ultima produzione, o almeno quella degli ultimi anni, gira in maniera piuttosto costante intorno a questo stile che sembra parlare molto di te. Come è nata questa tua forma così caratteristica e, soprattutto, c’è qualcuno a cui ti ispiri?

rimangono aperte. Spesso mi viene detto che questa mia visione mi rende una persona incredibilmente romantica, ma ogni volta mi stupisco di quest’affermazione; quel che vedo è egoismo, piuttosto che romanticismo. Del resto i miei personaggi sono bloccati all’interno di un recipiente e solo delle volte hanno la possibilità di scappare e di avere un contatto con l’esterno tramite l’espediente del mare, o delle piante, anche quelle una mia grande passione.

Vittoria Starinieri/ L’idea nasce in seguito a una discussione che ho avuto con una persona a me molto cara. La mia difficoltà nell’accettare il fatto di non poter fare nulla per impedirle di andarsene mi ha trasmesso una sensazione di malessere che si è poi tramutata in un disegno. La misi dentro ad una bottiglia, e a livello illustrativo questa soluzione mi piacque subito. Iniziai quindi a vederlo come un modo per dimostrare ai miei amici che, pur essendo consapevole di essere una persona difficile, io voglio loro molto bene, e che non voglio che se ne vadano per nessun motivo e in nessun modo. Parlando invece dell’aspetto più puramente tecnico ho sentito il bisogno di creare uno stile semplice, grafico, più efficace per esprimere dei sentimenti e delle sensazioni che ritenevo troppo complesse e che, attraverso questo espediente, sapevo sarebbero state più immediate e di facile compressione.

FNC/ Un altro elemento molto caratteristico di tutti i tuoi disegni è l’utilizzo di pochi colori e l’annessione, come accennavi, di elementi naturali come l’edera, o i fiori, assieme alle figure chiuse nelle bottiglie: l’insistenza su questi ornamenti è puramente estetica o esiste un motivo più preciso per il loro utilizzo? VS/ Come dicevo già prima, le piante sono una mia grande passione. Sono molto ricorrenti nelle mie illustrazioni e le scelte non sono affatto casuali. Quel che cerco di fare è di abbinare ad ogni persona la pianta giusta, questa diventerà la sua, specificatamente pensata per lei. Inoltre, le piante che scelgo sono piante che posseggo realmente e che, a loro volta, hanno un nome che solitamente è quello di una persona a me cara. Per concludere, quindi, è come se avessi consegnato a questa persona una guida e, in un certo senso, una parte del mio mondo.

FNC/ È interessante il fatto che alcuni dei tuoi personaggi siano riconducibili proprio ai tuoi affetti, ai tuoi amici. Sono sempre loro i tuoi soggetti? E per quale motivo questa scelta così intimista? VS/ Sì, nella maggior parte dei casi i personaggi delle mie illustrazioni sono direttamente riconducibili ai miei affetti, e credo che sia proprio questo il motivo per cui è nata l’idea delle bottiglie o, più in generale, quella dei contenitori. È un modo di tenerli con me e in questa maniera so che nel mio mondo loro sono lì, non possono uscirne e, infatti, raramente le mie bottiglie

Da sinistra: ALE E LOLITA, 2017. Digitale. DEAD SEA, 2017. Digitale. Per entrambe courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

PROSPETTIVE DIFFERITE Gianni Moretti

- Davide Silvioli

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naugurato il 25 aprile 2018, il progetto Anna - Monumento all’Attenzione di Gianni Moretti, in memoria dell’eccidio nazifascista consumatosi a Sant’Anna di Stazzema nel 1944, è un’installazione ambientale dalla natura partecipativa, ad oggi composta da circa 27mila elementi e tutt’ora in espansione. Davide Silvioli/ Come credi stia cambiando, sia nelle forme che nei contenuti, l’attuale accezione di monumento? Gianni Moretti/ Se in passato il monumento ha avuto lo scopo di fornire modelli di riferimento attorno ai quali stringersi e ai quali doversi ispirare, nel contemporaneo si assiste a una frantumazione, inversione della direzione di lettura, riduzione della distanza. In molti casi si ha a che fare con forme effimere, minime, laterali e discrete di cui spesso rimane memoria solo attraverso la documentazione. Sono interventi capaci di incunearsi nel tessuto urbano (e nello sguardo), sapendo opporre una sottile ma tenace resistenza all’attuale dominio dell’iper-visibile e del sovraesposto. Sono forme che registrano e traducono la comparsa di oscillazioni, movimenti e liquefazioni di strutture politiche e sociali considerate, fino a un recente passato, stabili e sicure. Spesso sono monumenti in cui sembrano risuonare le parole pronunciate da Ana Mendieta nel 1982 al New Museum of Contemporary Art di New York: “hard times are coming, but I believe we who are artists will continue making our work. We will be ignored but will be here”. DS/ In che modo questo intervento va a lavorare nella memoria del tragico fatto storico e a superarlo? GM/ Anna - Monumento all’Attenzione è un’installazione ambientale realizzata grazie al Piano per l’Arte Contemporanea 2016 del MiBAC. È dedicato ad Anna Pardini, la più giovane vittima dell’eccidio del 12 agosto 1944. Si sviluppa lungo una delle mulattiere che seguirono i nazisti, ripercorrendone il tragitto ma invertendone la direzione: dal paese di S. Anna di Stazzema scende fino a Valdicastello e oltre. Questo intervento sul territorio è pensato come riparazione, in termini simbolici, di una ferita aperta 74 anni fa. Una sutura che avviene attraverso l’azione delle persone che di volta in volta prendono parte alla sua costruzione, decidendone l’andamento, che scivola come una danza lungo il sentiero. Attraverso questo progetto ho cercato di stimolare nel fruitore un’osservazione attiva, fisicamente ed emotivamente, inducendolo a ricordare e immaginare. DS/ Quanta “attenzione” hai riscontrato da parte del pubblico, della comunità locale e dei centri educativi coinvolti? GM/ C’è stata una partecipazione ben al di sopra delle mie aspettative. È stato emozionante porgere i primi “cardi” ad Adele e Siria Pardini, sorelle di Anna, lo scorso 25 aprile. Sono state loro a piantarli a terra seguite da altri sopravvissuti alla strage, i sindaci dei comuni di Stazzema, Camaiore e Pietrasanta, che fin da subito hanno sostenuto il progetto, e molte delle persone presenti per le celebrazioni di quel giorno. È stato bellissimo alzare lo sguardo e vedere quella mulattiera vivificata dalla presenza umana, percependone la forte energia. Dopo cinque incontri il monumento ha iniziato a prendere forma e con il sole che ne illumina il percorso, è possibile vedere questa scia dorata e luminosa affiorare e immergersi nella vegetazione. In questi mesi ho attivato laboratori sulla memoria con le scuole del territorio e al momento si sta definendo una collaborazione con il Museo Storico della Resistenza di S. Anna così come con molte associazioni, comunità e gruppi provenienti da diversi territori, in Italia e all’Estero. La costruzione condivisa del monumento andrà avanti per molto tempo, è libera e aperta a chiunque vorrà partecipare. ANNA - MONUMENTO ALL’ATTENZIONE, 2017. Costruzione condivisa del monumento. Foto © Fosca Piccinelli. Courtesy dell’artista e MiBAC.

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SMALL TALK

URBAN NATURE Petra Polli

Maria Chiara Wang/ In tutti i tuoi lavori le parole rivestono un ruolo essenziale, siano queste impiegate nei titoli o siano esse stesse il soggetto dell’opera. Da dove deriva la fascinazione per la psicologia del linguaggio? Petra Polli/ La fascinazione per la psicologia del linguaggio deriva dalla mia passione per la street art, nata a Berlino nel 2003. Nella capitale tedesca, spostandomi a piedi da un museo all’altro, la mia attenzione veniva catturata dai graffiti lasciati sui muri, sulle impalcature, sui cassonetti, sui segnali stradali. Tutta la città era scritta e sovrascritta. Nella serie Fragmente (2009) ho lavorato sull’estetica delle tags - le firme dei graffiti writers - strappandole dal loro contesto urbano e ricollocandole in un nuovo campo magnetico. L’interesse per questo linguaggio criptico è stato poi approfondito nella serie successiva Code X=3 (2010-2012), con la quale sono entrata nell’ambito della decifrazione dei codici. Il titolo, che deriva dalla cronaca, fa riferimento al cifrario di Cesare, uno dei più antichi algoritmi crittografici. Si tratta di un cifrario a scorrimento, nel quale ad ogni singola lettera del messaggio in chiaro corrisponde la terza

- Maria Chiara Wang

lettera successiva dell’ordine alfabetico, ovvero: se scrivo A, intendo D. Con la serie Power Words (2015) ho spinto la mia ricerca sul linguaggio e sul potere delle parole ancora più in profondità. Gli psicologi e i neuroscienziati sono concordi nel sostenere che le parole, soprattutto gli aggettivi, influiscono sul pensiero, sull’azione, sulla percezione e perfino sui ricordi. Il pericolo di farsi manipolare dalle parole è un rischio che tutti noi corriamo quotidianamente e del quale ci accorgiamo raramente. Successivamente, dal 2015, ho utilizzato le power words nei titoli della serie Urban Nature e nelle scritte di cemento. MCW/ La città e la natura sono i due tipi di paesaggio ritratti nei tuoi lavori, a volte in compresenza altre in alternanza. Quale contesto ti rispecchia di più? Quali aspetti ti piace rappresentare e raccontare? PP/ La città e la natura sono per me soggetti molto importanti dal punto di vista artistico. Dal 2006 l’interesse per l’urbanità ha attirato la mia attenzione e l’ho rielaborato in diversi strati nei miei quadri. Il fascino della natura, specialmente quello per il sottobosco, si palesa dal 2013 nella serie Tracks. Da

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quel periodo ho incominciato a vivere in due luoghi diversi, Lipsia e Bolzano. Due città, due interessi artistici differenti: il mondo urbano e la natura. Attribuisco uguale importanza a questi due ambienti ed è per questo che mi dedico contemporaneamente a entrambi. Con la serie Tracks sono entrata profondamente nel fitto del bosco selvatico. A differenza delle altre serie dedicate alle superfici urbane e caratterizzate da pastose applicazioni di colore stratificato e da linee perfettamente dritte, qui ho utilizzato pennello e china con tocchi agili e leggeri su carta o tela. MCW/ Verso quali nuovi orizzonti si evolverà la tua ricerca? Ovvero verso quali temi e mezzi espressivi pensi di indirizzare la tua prossima produzione artistica? PP/ Ho in mente tante idee per evolvermi. Cercherò di approfondire le due linee che mi interessano, linguaggio e paesaggio, introducendo nuovi mezzi espressivi come le installazioni e i video. FESSELND (FASCINATING), 2017. Serigrafia e acrilico su tela, 72x96 cm. Courtesy dell’artista.


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