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APRILE MAGGIO GIUGNO 2015

Magazine di arte contemporanea / Anno IV N. 14 / Trimestrale free press

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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS

ISSN 2283-9771

MADDALENA AMBROSIO

Massimiliano Alioto - Alice Zanin - Maddalena Ambrosio Nadia Brodbeck - Paola Angelini - Giulio Frigo Matteo Fato - Chiara Seghene - Angelo Crespi Il paesaggio contemporaneo


TALENT TALENT

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LA SCHIUMA DEI RICORDI Maddalena Ambrosio

aesaggi post-umani, oggetti rivestiti da una natura ansiosa di cannibalizzare il mondo artificiale, fossili postmoderni testimoni del day-after. Sono questi alcuni degli elementi caratteristici della produzione di Maddalena Ambrosio, artista napoletana che nelle sue opere trascrive, avvalendosi di un linguaggio ampio e multidisciplinare, gli scenari ipotetici di un’evoluzione bruscamente interrotta. Come posto di fronte ad uno specchio deformato che accoglie tanto il riflesso dell’agire ambientalista di Beuys, quanto quello della visionaria drammaticità dell’arte Post Human, il lavoro della Ambrosio si colloca un passo dopo il caos, dove un equilibrio - al tempo stesso nuovo e originario - compone i contorni di un futuro ancestrale, in cui la forma sopravvive all’uomo e la storia si avvita su se stessa tracciando le direttrici di un eterno ritorno. Sorge spontaneo, al cospetto di una simile poetica, pensare ad un nuovo rapporto col mondo, rivedere le dinamiche che muovono al consumo e spingono alla creazione, rileggere con approccio critico i secoli di storia che ci hanno condotto all’oggi con la reiterata speranza di un domani unto dal progresso. Perché nel lavoro di Maddalena Ambrosio convergono in maniera inattesa

- Gregorio Raspa

le immagini di un presente oramai logoro e i presagi di un futuro già stanco. Nell’opera ambientale I remember, ad esempio, l’interno di uno studio inabitabile veste una seconda pelle di terra e muschio divenendo il simulacro dell’inesorabile obsolescenza dell’artefatto umano, la bandiera di una conciliazione impossibile tra i tempi storici e quelli biologici. Il ciclo di sculture in terracotta di laptop, joystick, e altri dispositivi contemporanei - come lo scafandro di Guardami - raccontano, invece, la potenziale archeologia del domani. Per mezzo di installazioni come Attention please!, poi, la Ambrosio descrive, con sottile e poetica intelligenza, la condizione attuale di una società alle prese con un generico allarmismo e quasi rassegnata ad un epilogo apocalittico. A tratti, al cospetto di simili opere, si ha la sensazione di scorgere l’ombra di un’umanità pronta a rovinare lungo la china di un inesorabile oblio, come nella trama fosca e minacciosa di una funesta profezia. Una sensazione, quella appena accennata, che nella sosta prolungata davanti al lavoro lentamente diluisce nella speranza. A ben guardare, infatti, sono le stesse opere a svelare, durante la fruizione, una spiccata attitudine alla “resistenza” 2

elevandosi - per dirla con le parole di Thomas Hirschhorn - ad “affermazione e movimento, intensità e credo”. Il lavoro di Maddalena Ambrosio, infatti, rievoca l’immagine di un tempo sospeso e pregno di memoria in cui l’oggetto, un po’ relitto, un po’ reliquia, insiste con la sua ingombrante fisicità, trasfigurato nella sua essenza e dotato di una funzionalità nuova e imprevista: quella del ricordo. Come schiuma formata da una corrente che agita il reflusso di un passato mai estinto, le opere ritrovano la riva di un’esistenza precocemente invecchiata, inesorabilmente depauperata da un tempo che uccide e invita alla dimenticanza. Esse spingono il pensiero oltre le illusioni dell’Uomo, sempre pronto a collocarsi “sul promontorio estremo dei secoli” e puntualmente sconfitto dall’inarrestabile incedere delle ore. UNTITLED, 2012. Tecnica mista, dimensioni variabili. Courtesy Mimmo Scognamiglio artecontemporanea.


TALENT TALENT

LA PITTURA PER MEZZO DELLA PITTURA Paola Angelini

- Valentina Tebala

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ata a San Benedetto del Tronto trentadue anni fa, Paola è una Pittrice: due ‘P’ maiuscole e due nomi propri, nel suo caso, per conferirle un’unica identità. Quando la incontrai per la prima volta a Venezia negli Atelier della Bevilacqua La Masa – era di ritorno da un periodo di residenza tra i fiordi norvegesi, presso il Nordic Artists Center – e un po’ intimidita raccontava delle sue grandi tele, avvertii qualcosa di diverso e di terribilmente autentico, facendo la spola con lo sguardo tra i dipinti e i suoi occhi che scrutavano la reazione di noi ascoltatori mentre confessava di dipingere, appunto semplicemente e visceralmente. Il ché mi affascinò molto, in un’epoca in cui sentir parlare un giovane artista di profonda necessità pittorica, di ricerca “sulla pittura e per mezzo della pittura”, è raro e a dir poco demodé. Per lei, “la materia della pittura è la descrizione che darebbe un cieco di un buio visivo”: ovvero è l’unica possibilità. Quella pittura che Paola riesce a fare, si compie con un’urgenza ritmica che impressiona te che la guardi e, credo, anche lei nel momento stesso in cui la crea, quasi in maniera performativa: strati e strati di colore a olio sulla tela – blu, rossi e verdi in primis – fin quando il quadro non appare sotto gli occhi, la visione è completa, il processo e la ricerca pittorica ed esistenziale può arrestarsi. Al suo interno non abita mai un centro perché ogni elemento nel vortice è importante, ogni pennellata è vibrante ma ponderata poiché è frutto di una lotta e di una scelta – conscia o non; il suo è uno spazio-tempo pittorico immaginifico anche quando rimane ancorato alla citazione della realtà. Mi accorsi che quei dipinti mi erano familiari, che mi ricordavano qualcosa. Si poteva provare come un sentore tra il déjà vu e quel sentimento che Freud definì unheimlich (perturbante): il congenito, il conosciuto da sempre divenuto estraneo per via di un processo di rimozione, che si ripropone all’improvviso sotto nuove spoglie. Sembra quasi passarti davanti, con forza sotterranea, la storia dell’arte pittorica occidentale: le sue evoluzioni formali e concettuali, la sua sacralità, i suoi umori, le iconografie,

fino ai temperamenti più contemporanei. El Greco, Previati, Boccioni, Chagall, dichiaratamente Savinio, Bacon, Lassnig; dal manierismo al simbolismo, da un vorace espressionismo al neon, pulviscolare e fibroso, al surrealismo, fino all’ultimo naturalismo di stampo post-impressionista e alla transavanguardia. Si scorge un ritorno – un appiglio? – al rimosso (pittorico) con motivi classici, ancestrali, mitologici o religiosi: la Tentazione di Sant’Antonio, San Giorgio e il drago, banchetti apparecchiati, cavalieri, ninfee, uomini alati o arpie, ma anche volatili e animali studiati dal vero come tra le pagine degli antichi bestiari. Dal canto suo, per la pittrice tali “pretesti” figurativi – il cui studio formale è fine e meticoloso – possono essere retaggio di una vita psichica in costante presenza/essenza: così, la tradizione storico-artistica si imbeve della sensibilità e del vissuto personale e ne esce esteticamente rinvigorita. Beninteso, nonostante le contaminazioni, il talento e il linguaggio pittorico della Angelini possiedono un’identità forte e crescente; ed è, allo stesso modo, un linguaggio tanto originario quanto contemporaneo. Talvolta l’energia della pittura si fa incontenibile, allora Paola tenta di assecondarla preparando lei stessa spazi che sappiano accoglierla, installazioni ed allestimenti per le sue mostre, che non imbrigliano quella libertà creativa e scalpitante. Da sinistra: UN FUTURO LUMINOSO, 2014. Olio su lino, 210x170 cm. DRAWING OF ST. GEORGE, 2014. Olio su lino, 210x170 cm. Per entrambe courtesy dell’artista e Galleria Massimo De Carlo.

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L’(IN)UTILE MONDO DELL’ARTE Angelo Crespi

- Loredana Barillaro Loredana Barillaro/ Nel tuo libro dal titolo Ars Attack, si consuma parte di una controversia in corso già da molto tempo, e cioè quella sulla validità o meno di una fetta dell’arte contemporanea. Emerge ciò che probabilmente molti non hanno il coraggio di dire, e cioè che siamo di fronte ad un grande bluff? Angelo Crespi/ Credo di aver dato una risposta definitiva alla questione, non certo per merito mio, semplicemente elencando le tesi e traendone le giuste deduzioni come molti prima di me hanno fatto, addirittura con più determinazione. Nessuno che spacci una merda per arte è in grado di rispondere ai dubbi di chi continua a vedere semplice merda seppur d’artista: quando lo fa, è costretto a utilizzare magniloquenti circonlocuzioni che manifestano più l’intento di mistificare che quello di chiarire. Di fatto, la teoria – come scrivo nel libro – ha sopravanzato l’arte e non esiste arte se non ha alle spalle una buona teoria. Certo il mio ragionamento di buon senso si scontra con la resistenza fattuale del contemporaneo: cioè l’arte oggi è questa, e se è questa, è questa. I laudatores della coprofilia non hanno bisogno di ulteriori prove, e dietro questa apparente verità si nascondono ben pasciuti. LB/ Dunque una buona dose di marketing e di pubbliche relazioni sembrano essere fondamentali per il successo di un artista, questo vuol dire forse che, a tirare le somme, tutto, o quasi, potrebbe sgretolarsi, e che è già parecchio consumato e digerito? AC/ Al contrario dei laudatores, sono convinto che non esista nell’arte alcun progresso e dunque non credo che un artista contemporaneo sia meglio di quello che lo ha preceduto né che quello che verrà dopo potrà e dovrà spingersi un po’ oltre e aderire ancor più al suo presente per essere migliore del predecessore. Questa idea del progresso è una sonora stupidata, un’ideologia, per giustificare il macabro del contemporaneo e l’esigenza di sempre nuove orrende trovate. Al contrario credo che l’arte proceda per stili che si avvicendano e tornano: essendo lo stile contemporaneo - che dura da settant’anni - improntato al brutto, potrebbe essere sostituito presto con altro; al di là del marketing o delle pubbliche relazioni che tengono in piedi, per ora, così com’è, il sistema, obbedendo a stretti motivi economici e speculativi. LB/ Mi viene da pensare alla recente questione del presunto plagio compiuto da Maurizio Cattelan sulla copertina del New York Times Magazine del mese di febbraio scorso, in cui la vicinanza ad un’opera del 2004 di Francesco De Molfetta pare inequivocabile. Può, anche questo aspetto, costituire un tassello della tua analisi?

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o sgunz è neologismo che mi vanto di aver coniato per rappresentare l’opera d’arte contemporanea... ha un effetto catartico perché la definizione dell’opera contemporanea in termini di sgunz ne depotenzia il connaturato carattere ideologico, mettendone alla berlina le pretese modaiole e vippistiche.”

AC/ Ovviamente sì. In generale, la questione del plagio, della scopiazzatura, è molto divertente e paradossale. Un tempo i temi erano sempre gli stessi, diversi i modi con cui affrontarli: per cui non aveva senso parlare di plagio o copiatura quando un pittore trattava la medesima scena, che so una crocifissione, già affrontata da un suo predecessore. Anzi, il talento si misurava proprio nella ripetizione del contenuto affrontato però con stili e linguaggio diversi. Poiché l’opera d’arte contemporanea invece si basa sull’idea – così almeno ci hanno insegnato – e non sul modo di realizzarla, all’artista non è neppure chiesto di intervenire materialmente, né sul risultato che può essere perfino brutto; sembrerebbe quindi che la primogenitura dell’idea sia cosa fondamentale. 4


E invece no, scopriamo che anche l’idea può essere scopiazzata e il risultato non cambia. Allora ne deduco che se l’opera d’arte contemporanea può prescindere dall’idea e dalla realizzazione, quello che resta è la griffe, il marchio impresso dal cosiddetto artista che può firmare a piacere qualsiasi idea anche di altri, espropriandola. LB/ Cos’è sgunz, è forse un nuovo imprescindibile strumento verbale per riportare tutto nell’ordine delle cose? AC/ Lo sgunz è neologismo che mi vanto di aver coniato per rappresentare l’opera d’arte contemporanea. Tra onomatopea, derivazione fumettistica, e fonetica, il termine evoca bene lo stupore e la sorpresa schifata davanti a un manufatto del contemporaneo. Inoltre ha un effetto catartico perché la definizione dell’opera contemporanea in termini di sgunz ne depotenzia il connaturato carattere ideologico, mettendone alla berlina le pretese modaiole e vippistiche. LB/ Per finire, ha ancora significato l’arte, serve ancora a qualcosa? Quanto sono cambiati i canoni estetici, i parametri con cui rapportarsi ad essa? AC/ L’arte serve certo. È una delle espressioni massime dell’umanità. L’arte vera, quella che ancora aveva un legame con la bellezza, serviva a restituirci l’assoluto in un frammento. Serviva a farci sperare che qualcosa di noi si prolungasse oltre la nostra morte. Era una sorta di religione laica in cui trovare il senso dell’esistere. Quella contemporanea, avendo spezzato ogni legame con l’estetica, afferisce più al campo del logos (del misurabile) che a quello del mitos, è una sorta di scienza per non scienziati in cui le teorie non possono essere in alcun modo dimostrate, una sorta di ragionamento il cui fine non è la verità delle cose bensì la loro dissacrazione.

A sinistra e in basso: Angelo Crespi. In alto la copertina del libro Ars Attack. Courtesy Angelo Crespi.

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INTERVIEWS

IL FASCINO DELLA NOSTALGIA Massimiliano Alioto

“Qui, da questa altezza, si vedono cose che l’uomo comune ignora, brillano luci misteriose e provenienti da altri cieli: questa follia strana d’amore si rivela largitrice di doni stupendi”. (Platone, I dialoghi sull’amore)

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l duro lavoro del critico prevede spesso di rimanere al di fuori degli affetti, delle amicizie e delle simpatie mostrando un giudizio per quanto possibile distaccato e in linea con i nostri gusti, ma non sempre risulta facile. Quando sono entrata nello studio di Massimiliano Alioto per la prima volta ho subito percepito che sarebbe stato difficile rimanere impassibile nel giudizio nei suoi confronti. Ci sono artisti di cui il lavoro non si può non amare, di cui la qualità è indiscutibile ed elevata ma ci sono anche loro, gli artisti che possiedono anche altro, loro, gli artisti che ci segnano dentro, che scavano goccia dopo goccia un solco profondo nella roccia, che con il loro lavoro formano un segno imperturbabile nel tempo e nella nostra esperienza di ciò che è la vita. 6

- Martina Adamuccio


MA/ Certo, anche la nostalgia spesso rientra nei miei paesaggi, che diventano luoghi interiori. MAd/ Quanto la tua vita affettiva ha influenzato la tua pittura? MA/ La mia vita affettiva è un casino che ha determinato i miei innumerevoli traslochi in giro per l’Italia influenzando in tal modo la mia pittura. Questo perchè ho sempre dipinto il luogo in cui ero, quello che facevo e quello che vivevo. Partendo per esempio dall’Accademia dove dipingevo i nudi perchè avevo a che fare tutto il giorno con le modelle nude, quindi quell’esperienza ha determinato il soggetto della mia pittura. Lasciando l’Accademia ho iniziato a girare per l’Italia per esplorare il mio paese e per trovare posti e luoghi di ispirazione, e non ho fatto altro che riprendere i miei spostamenti, che erano dei paesaggi di periferia tratti dall’osservazione dal finestrino del treno, quindi paesaggi in velocità senza dettagli dove c’erano solo giochi cromatici o atmosferici. Campagne come città all’orizzonte che ci appartengono. Ho dipinto quello. Poi sono entrato nelle cittè e ho dipinto le città ma sempre con lo sguardo di chi voleva vedere questo paesaggio come paesaggio interiore, per cui, sempre privo di presenza umana. Erano paesaggi solo architettonici, anche quelli in velocità perchè vedevo queste città di sfuggita e in modo trasfigurato, in modo sognato. Praticamente la mia pittura è stata la mia vita quotidiana, quello che vedevo, quello che vivevo. MAd/ In una passata intervista hai detto che Milano ti ha conquistato. Cosa ne pensi della Milano di oggi? MA/ Milano migliora di anno in anno. È la capitale artistica italiana. L’arte contemporanea è a Milano e da Milano passa tutta l’arte contemporanea. Forse sarà la vicinanza all’Europa ma ruota tutto intorno a questa città. La città dà spazio a ogni generazione di artisti di esprimersi, in cui ci sono tanti luoghi espositivi e tanta gente che frequenta il mondo delle mostre. Se poi ci pensi è lì che si crea l’arte, non è solo l’arte appesa ai muri ma è proprio la frequentazione, e quindi la presenza del fermento, di mecenati giusti, persone giuste e sponsor che fanno funzionare quello che è il mercato dell’arte a Milano. La città di Milano diventa, pertanto, il terreno più florido per l’arte contemporanea. MAd/ Una poesia secondo te in grado di definire il tuo lavoro. MA/ La poesia che trasmette il vigore e la passione per tutte le cose che faccio è Fiesta di Jacques Prévert. E i bicchieri erano vuoti / e la bottiglia infranta. / E il letto spalancato / e l’uscio era sprangato. / E tutte le stelle di vetro / della felicità e della bellezza / lucevano nella polvere / della stanza mal spazzata. / Ed ero ubriaco morto / ed ero fuoco di gioia / ed eri ebbra vivente / nuda tra le mie braccia. MAd/ Cosa consigli ai giovani artisti? MA/ C’è da avere l’umiltà di osservare come ci guardano dall’estero. Se si va nelle Accademie americane, ad esempio, si studia il Rinascimento, cosa che nelle Accademie italiane si fa sempre meno perché si guarda sempre di più agli autori contemporanei stranieri. Per me studiare la storia dell’arte italiana può portare soltanto ispirazione e motivazioni. Ecco, secondo me ci vuole solo un po’ più di rispetto ed umiltà... e dopo si può guardare anche all’arte contemporanea straniera.

Martina Adamuccio/ Per i pochi che ancora non conoscono Massimiliano Alioto raccontaci chi sei. Massimiliano Alioto/ Massimiliano Alioto (Brindisi 1972) inizia a disegnare da bambino, studiando poi al liceo artistico e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1994 inizia ad esporre le proprie opere in giro per l’Italia e nel 1999, seguito dal critico d’arte Maurizio Sciaccaluga, intraprende un percorso pittorico che lo vede impegnato in diverse esposizioni in musei e spazi istituzionali. Oggi i suoi lavori si trovano in numerose collezioni private importanti in Italia e all’estero.

MAd/ Cosa vedremo in futuro? MA/ Il potere della poesia ritornare in vita. Da sinistra in senso orario: PECORE, 2012. Olio su tela, 190x150 cm. BIOHAZARD, 2012. Olio su tela, 100x120 cm. CODEX CORRUPTIONIS, 2013. Olio su tela, 30x40 cm. Per tutte courtesy dell’artista.

MAd/ Indipendentemente dai tempi e dai soggetti da te dipinti, che sia una città, un paesaggio o qualcosa in fiamme, ritrovo la presenza di un forte elogio alla nostalgia. 7


INTERVIEWS

L’UNIVERSO SI ESPANDE IN UNA STANZA Giulio Frigo

Gregorio Raspa/ Giulio, nei tuoi dipinti atmosfere immobili e capziosi silenzi sembrano fare da cornice ad una debordante inquietudine. Spesso, al loro cospetto, mi sembra di rileggere alcuni dei caratteri tipici dell'esistenzialismo moderno già apprezzati negli scritti di Sartre e Camus, Kafka e Moravia. Le mie suggestioni trovano un effettivo riscontro nell’intenzionalità del tuo operare? Giulio Frigo/ Tra gli autori che hai citato soltanto Kafka in qualche modo ha a che fare con le atmosfere che ricerco. In questi ultimi anni mi sono concentrato sul’idea di dipinto inteso come “cubo d’atmosfera” secondo un’efficace definizione di Berenson sulla spazialità implicita dei dipinti rinascimentali. Radicalizzando questo concetto ho pensato al dipinto come ad una stanza singola. La stanza mi affascina perché è un involucro intimo, minimale con una forte identità, che circonda e contiene solo poche persone per volta. Spesso essa è il luogo in cui ci si apparta dagli altri. Mi piace l’idea di tradurre la mia sensibilità in una serie di interni che vanno ad aggiungersi a quelli esistenti nella realtà. Penso all’intero ciclo di questi luoghi come ad un contorto corridoio, quasi labirintico, di una specie di hotel che esiste esclusiva-

- Gregorio Raspa

mente nella mia mente, in cui lo sguardo altrui può sostare, ma di cui solo io possiedo la chiave. GR/ Allucinati e un po’ grotteschi, eleganti e severi: chi sono e come nascono i personaggi che popolano i tuoi lavori? GF/ Sono sempre a caccia di volti in grado di colpirmi. Li cerco dappertutto: nella storia dell’arte, nei film, nella rete, nei giornali o nella vita di tutti i giorni. Ogni fonte va bene, poi ci lavoro sopra disegnando e apportando leggere modifiche sino a che l’espressione diventa incomprensibile al punto giusto. Spesso cerco anche di scoordinare le espressioni reciproche dei vari personaggi in modo da rendere improbabile una comunicazione lineare. Molti di loro sono intellettuali, poeti e pensatori che mi hanno affascinato. GR/ So che il tuo personale linguaggio artistico è figlio di uno scrupoloso e attento lavoro di ricerca che insiste tanto sui contenuti quanto sulla tecnica. Che rapporto hai con la materia, la forma e i processi di lavorazione del colore? GF/ La tecnica è importantissima, anche da un punto di vista concettuale. È semplicistico e sbagliato associarla ad un vuoto

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accademismo. Più affascinante è sapere di cosa è fatto un pigmento e magari produrselo da soli. Non bisognerebbe pensare al colore come a qualcosa di astratto, di bello e pronto in un tubetto con un nome arbitrario che lo etichetti, un qualcosa di distante dalla materia da cui proviene. È necessario capire che la tecnica è sempre stata - e sempre sarà - importante perché, alla fine, anche se non sapremo mai cosa esattamente è stata l’arte, sapremo che ci saranno state le opere. Ed esse, in fondo, sono fatte di materia.

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ome diceva Magritte il mondo non è un enigma, quanto un mistero. La differenza è che se nell’enigma è ipotizzabile una soluzione, lo stesso non si può dire per il mistero. Esso è, ecco tutto.”


GR/ In tutti questi anni, pur variando le modalità e i contesti di rappresentazione del tuo lavoro, hai sempre posto al centro di quest’ultimo la volontà di sorprendere e destabilizzare offrendo allo spettatore solo tracce minime di comprensione della storia o del fenomeno rappresentato. In tal senso, quanto conta - soprattutto nella tua pittura - l’aspetto narrativo? GF/ Poco o niente, mi interessa molto di più l’aspetto simbolico ed evocativo. Ad essere sorprendente e destabilizzante è l’esperienza stessa del mondo. Come diceva Magritte il mondo non è un enigma, quanto un mistero. La differenza è che se nell’enigma è ipotizzabile una soluzione, lo stesso non si può dire per il mistero. Esso è, ecco tutto. GR/ Anche nelle tue installazioni sembri studiare e manipolare lo spazio come se fosse una tela. La disposizione prospettica degli oggetti, l’utilizzo quasi maniacale della geometria e delle sue regole, l’esasperato bilanciamento delle distanze, sembrano evidenziare una tua predilezione per il medium pittorico...

GF/ Concordo pienamente. Questo accade perché la visione è sempre una costruzione. Trasferire la tridimensionalità dell’esperienza sulla superficie di una tela è un esercizio di astrazione, non importa quale sia lo stile impiegato. Penso che la pittura - quella autentica - contenga sempre una riflessione sullo “spazio pittorico”. In arte forma e contenuto dovrebbero coincidere così da rendere impossibile la modifica del “come” senza la corrispettiva modifica del “cosa”. Questo dovrebbe distinguere l’arte da altre forme di comunicazione più dirette. GR/ La performance, da te già utilizzata in passato, che spazio trova, oggi, nella tua ricerca? Pensi di riutilizzarla anche in futuro? GF/ La performance mi interessa non più come puro comportamentismo, bensì come modificazione delle condizioni espositive che da stabili, se manipolate, possono divenire dinamiche. Con il tempo sto mettendo a fuoco il mio interesse su “l’accadere” dell’immagine nel campo visivo dello spettatore. Ciò è successo, ad 9

esempio, nella mia ultima mostra personale “Chora” in cui l’emergere dell’immagine dal buio avveniva quasi impercettibilmente nel giro di pochi secondi. Credo che in futuro esplorerò le potenzialità espressive della luce in relazione al colore che, di per sé, non è mai un dato di fatto, ma un evento dinamico che accade nel tempo. In questo senso il colore è una performance. È questo approccio più fenomenologico che vorrei esplorare. A tal proposito, continua a sembrarmi perfetta la considerazione di Cézanne: “ il colore è il luogo in cui il nostro cervello e l’universo si incontrano”. Da sinistra: STANZA 4 (INTERNO IN UN INTERNO IN UN INTERNO), 2012. Olio su tela, fili, 100x150 cm. NOTTURNO MILANESE (VIA BEATO ANGELICO, ANGOLO HOTEL SUNSET), 2014. Olio su tela, 60x80cm. Per entrambe courtesy Francesca Minini.


SPECIAL

IL PAESAGGIO CONTEMPORANEO Loredana Barillaro

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l paesaggio è un “genere” che non è mai tramontato e ogni epoca ha conosciuto i suoi paesaggisti. Argomento affrontato da architetti, artisti, designer nelle cui riflessioni e creazioni si realizza una lettura che si lega, inevitabilmente, al quotidiano transitare di ognuno. La dimensione interiore si “riscopre” nella descrizione di un ambiente, di un luogo, il cui significato si manifesta mediante più chiavi di lettura. Si è passati, nel corso del tempo, da una visione estetizzante ad un modo di osservare le contraddizioni e i cambiamenti, vi è stato insomma un diverso approccio culturale e materiale. Un’indagine in cui affrontare il rapporto fra l’essere umano e la natura, fra la natura e il costruito, fra ciò che è reale e ciò che ne diventa rilettura attraverso la creazione o registrazione di immagini. Punti di vista che ci confermano come anche i cambiamenti climatici siano il risultato di azioni insensate sul nostro pianeta. L’approccio al paesaggio porta in sé molteplici aspetti, dunque. Abbiamo chiesto a sette artisti di raccontarci il loro punto di vista… E allora cosa narra il paesaggio, appare ancora come una piacevole “cartolina” o risulta sempre più spesso specchio dei mutamenti della società, della metamorfosi continua di luoghi e oggetti? Come si è evoluta la sua trattazione, pur rimanendo talora nella sfera della più tradizionale e cosiddetta “pittura di paesaggio” e in virtù dei nuovi media a disposizione…?

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redo che la “pittura” di paesaggio, nella contemporaneità di ogni epoca, non sia mai stata interpretata solo come semplice cartolina di un luogo, né tantomeno utilizzata come rappresentazione del bello fine a se stesso. Come suggerisce la domanda, nella totalità dei casi è sempre lo specchio dei mutamenti sociali o anche solo dei luoghi e degli oggetti. Forse è più da chiedersi in quale misura l’artista decida di calibrare il proprio lavoro, propendendo più verso l’utilizzo dell’estetica e della composizione o verso l’utilizzo della pura narrazione, oppure creando un equilibrio tra i due. Mi viene spontaneo fare delle citazioni per similitudine cronologica tra i pittori di paesaggio Constable, Turner, Friedrich, Bierstadt, non a caso presi da un epoca (inizio Ottocento) in cui i mutamenti sociali stavano diventando significativi e l’esigenza di raccontare il paesaggio “da cartolina” era direttamente correlata a questi eventi. Forse un po’ come per congelare questi scenari in un’immagine che da lì a poco sarebbe stata velocemente trasformata dall’azione dell’uomo, così come in effetti è poi avvenuto. Mettendoli a confronto, con gli occhi dei loro contemporanei si nota quanto questi differiscano l’uno dall’altro per scelte estetiche e/o narrative, ma non solo! Forse è ancora più interessante fermarsi ad osservare anche la diversità delle scelte tecniche, per capire quanto ognuno di loro abbia voluto cavalcare l’onda di quegli enormi cambiamenti che li stava investendo. Scelte che, peraltro, influenzeranno tutta la pittura del secolo successivo. Il contenuto di un’opera, anche se di paesaggio, è direttamente correlato ad un fattore imprescindibile, quello “umano”. Inevitabilmente l’artista nella propria opera parla di se stesso e della propria esistenza. Possono cambiare i mezzi e le tecniche ma il moto interno che ci spinge a raccontare di qualcosa che abbiamo nella testa, è rimasto immutato da sempre. Non credo che ci sia una reale “evoluzione” della trattazione dell’arte in genere, piuttosto un “adattamento” alla propria contemporaneità. Concludo dicendo che sono fermamente convinto che la “pittura di paesaggio” è viva, vegeta e gode di ottima salute. Andrea Marcoccia 10

In questa pagina: Andrea Marcoccia, EXTERNAL VIEW, 2015. Olio e nastro di carta su carta, 60x80 cm. A destra dall’alto: Luca Prestia, dalla serie Confine di S[s]tato, 2014. Valentina D’Amaro, SENZA TITOLO, dalla serie VESPRO, 2015. Olio su tela, 30x40 cm. Per tutte courtesy degli artisti.


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n generale direi che il paesaggio rappresenta ancora oggi un “soggetto” attuale per molte espressioni artistiche, pur avendo inevitabilmente risentito, nei risultati, dei profondi mutamenti verificatisi nelle categorie estetiche e culturali della società contemporanea. La fotografia è un medium che fin dai suoi esordi si è occupato di ritrarre in maniera più o meno articolata l’ambiente intorno all’uomo e sono molti oggi i fotografi che si dedicano alla realizzazione di progetti – in alcuni casi molto interessanti e approfonditi – in questo senso, sebbene partendo da premesse differenti e giungendo a risultati altrettanto diversificati. Tuttavia, l’approccio contemporaneo al paesaggio si discosta rispetto al passato sotto molti punti di vista, a una visione fortemente estetizzante, da “cartolina” per intenderci, ha finito per sostituirsi progressivamente una diversa lettura dell’ambiente circostante (sia esso quello naturale o quello dei grandi centri urbani), e ciò è anche il frutto di una maggior consapevolezza culturale, più attenta alle numerose trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi. Ciò non significa naturalmente che sia scomparso l’approccio oleografico al paesaggio, utilizzato per creare immagini caratterizzate da un valore estetizzante fine a se stesso, ma credo che esso sia oggi perlopiù presente nell’ambito della cosiddetta fotografia amatoriale. Personalmente ritengo invece che la fotografia sia uno strumento privilegiato di analisi di quello che ci circonda, pur nella sua soggettività, essa ci permette infatti di indagare il paesaggio (mostrando le molte contraddizioni presenti al suo interno) e di spingerci a riflettere sulle sue continue e profonde trasformazioni, purtroppo in molti casi tutt’altro che positive. Luca Prestia

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enso che nell’arte contemporanea nessun “genere” possa sottrarsi alle riflessioni sui cambiamenti dell’ambiente e della società, partendo proprio dal “paesaggio”, che si confronta con il territorio, la natura e, più in generale, con il “senso di appartenenza” dell’uomo, e ne registra i segni dei mutamenti. Quello che ho potuto rilevare, osservando gli artisti pittori che trattano il paesaggio, e che vale anche nel mio caso è, a parer mio, la tendenza a rappresentare visioni interiorizzate dei luoghi naturali (e non), più che restituire in modo mimetico e didascalico i fenomeni visibili delle alterazioni del territorio; quasi fosse la proiezione della risposta esistenziale indotta negli artisti dalle modificazioni stesse. Insomma il paesaggio, nella pittura contemporanea, credo sia un “pretesto” che innesca una catena di rimandi e di indagini sul “Sé” in rapporto col proprio tempo, più che un soggetto in senso stretto da documentare. Riferendomi alla mia ricerca personale, la riflessione uomo-natura è fondamentale, e cerco di favorirla invitando attraverso un certo impianto compositivo, particolari vibrazioni cromatiche e un generale senso di atemporalità, a lasciarsi andare ad uno stato meditativo, che è ciò che si produce anche al cospetto delle vere manifestazioni naturali. Nei miei intenti vorrei si realizzasse quanto la vita nel quotidiano spesso ci distragga e disorienti, mentre esistono dimensioni intime che ci possono mettere in comunicazione profonda con noi stessi e con gli altri, facendoci sentire parte di un “Tutto”. È importante per me anche restituire dignità alla Natura e il senso del rispetto che le dobbiamo. Valentina D’Amaro 11


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l paesaggio che ci circonda è quasi sempre creato dall’uomo e pertanto ha in sé una componente metaforica importantissima: la capacità di raccontarci proprio quell’uomo che l’ha creato. I miei paesaggi non esistono come luoghi reali ma sono paesaggi della mia mente, sono il modo in cui immagino potrebbe diventare il nostro pianeta a causa dell’impatto sull’ambiente dei modelli di sviluppo non sostenibili che stiamo seguendo. Al di là del mio personale modo di raccontare il nostro pianeta, noto che sempre più il tema del paesaggio viene affrontato in una chiave sociale e non estetizzante o quanto meno seguendo un’estetica meno tesa a far trasparire la bellezza fine a se stessa ma piuttosto la bellezza come specchio della condizione umana. Ne è esempio mirabile il lavoro di Salgado, di Basilico, di Gursky, di Ghirri e di tanti altri che ci raccontano il paesaggio ponendo al centro l’uomo. Il mezzo fotografico ha contribuito fortemente allo sviluppo di questa chiave di lettura grazie a quel senso di realismo che è insito nel suo linguaggio visivo e che permette la documentazione dei luoghi in maniera cruda e asciutta. Le nuove tecnologie di manipolazione dell’immagine aggiungono la possibilità di creare luoghi inesistenti conservando la forza e l’immediatezza dell’immagine fotografica, prescindendo dunque dalla realtà e utilizzando il paesaggio come puro racconto. Giacomo Costa

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e per paesaggio possiamo intendere “un album di ricordi”, composto da sguardi e da esperienze individuali, dalla propria formazione culturale e ambientale, dai luoghi dove siamo nati e cresciuti e quelli che abbiamo visitato o che abbiamo sognato e se per la sua “rappresentazione” miriamo alla trasfigurazione di realtà conosciute in nuovi mondi da esplorare, definiamo codici e linguaggi basati su una ricerca formale originale e del tutto personale (poco importa se ci avvaliamo di un pennello o imbastiamo un ordito, se usiamo una videocamera o un programma del computer); allora, fatte queste veloci considerazioni, posso ritenere di far parte di quella nutrita schiera di artisti che da sempre indagano, e trovano ispirazione, dall’ambiente e dai luoghi in continua e sempre più veloce trasformazione, in cui ci troviamo, agiamo, viviamo e che probabilmente non smetteranno mai di farlo. Ma forse il quesito non è tanto quello di definire o riaffermare un “genere” che incaselli e fissi un’espressione artistica: dopotutto, un dettaglio di edificio estrapolato dal contesto originale con un “triangolino” di cielo rosso va ancora considerato “paesaggio urbano”, o è invece più puntualmente etichettabile come “composizione geometrica”? Inoltre, data la promiscuità di linguaggi, la complessità e al tempo stesso la facilità di accesso alla comunicazione, l’irruzione di professionisti “creativi” nel mondo dell’arte e sempre più spesso “l’inversione dei ruoli” – l’architetto fa lo scultore, la rockstar dipinge, il pittore gira film, lo stilista costruisce – è sempre più complesso e delicato il riconoscimento e l’appartenenza a questo o quel modo di fare arte. Marco Petrus

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o scopo del mio lavoro è quello di rappresentare le complesse e continue trasformazioni dei luoghi, il rapporto tra il costruito e il naturale che dà forma al nostro mondo contemporaneo. Il progetto Landscapes ad esempio consiste in una serie di fotografie realizzate dal mare che raffigurano ampie zone della costa. Viste nel loro insieme le immagini suggeriscono una visione continua della costa come un unico paesaggio esteso, solo apparentemente reale, le riprese fotografiche infatti non sono consecutive ma distanti tra loro e diverse come luoghi e soggetti: muri, alberi, città, boschi, spiagge, zone industriali, ma tutte collegate dalla stessa altezza dell’orizzonte e dallo stesso punto di vista frontale. Le immagini risultano “modulari”, in quanto potrebbero essere spostate e riorganizzate in diverse sequenze visive per formare infiniti paesaggi. Si possono in tal modo ottenere costruzioni e architetture immaginarie di luoghi reali, dove spazio e tempo creano nuovi orizzonti e dunque nuove visioni. Luca Lupi

SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

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ll’interno della pittura di paesaggio esiste una sorta di sottoinsieme che possiamo considerare una moda inflazionata così come un’esigenza profonda, quella del racconto del paesaggio urbano. Siccome il paesaggio urbano cambia, e spesso in peggio, la pittura cambia ma talvolta in meglio. Questo paradosso è forse uno dei temi più specifici dell’arte in genere, cercare cioè la bellezza (una nuova forma di bellezza) dove si è persa. Molti osservano come durante le più violente guerre tra Comuni e Signorie rinascimentali fiorissero le arti, mentre in Svizzera, in secoli di pace, si fosse partorito solo qualche affidabile orologio. Questo severo giudizio nasconde però una verità: l’arte deriva da una tensione profonda che elabora i dati di verità contingente e li trasforma, passando dal reale all’ideale. Comunque la pittura di paesaggio non è morta, esisterà sempre perché la pittura stessa è il modo di raccontare sempre le stesse cose ma in maniera diversa e questo vale per la natura morta come per la scultura, per il romanzo come per la forma canzone. Chi dice il contrario si è arenato in qualche questione di linguaggio o non è in grado di osservare cosa possono partorire gli artisti contemporanei intorno a lui. Finché la mattina apriremo la finestra e vedremo qualcosa là fuori, esisterà la pittura di paesaggio. Alessandro Busci

Direttore Responsabile: Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione e Grafica: Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore Civico115 Edizioni Redazione: Via della Repubblica, 115 - 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 25456 del 02/04/2015 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info: 3298223494 - 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Gregorio Raspa, Martina Adamuccio, Pasquale De Sensi, Cristina Abbruzzese © 2015 Civico115 Edizioni È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore.

Dall’alto a sinistra in senso antiorario: Giacomo Costa, PLANT N. 5, 2011. Marco Petrus, MARSEILLE, 2014. Olio su tela, 100x80 cm. Alessandro Busci, SAN SIRO BLU, 2014. Smalto su acciaio corten, 40x40 cm. Luca Lupi, LANDSCAPE VII. Per tutte courtesy degli artisti.

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In copertina: Maddalena Ambrosio, ATTENTION PLEASE! 2009. Uova e scultura, dimensioni variabili. Veduta parziale dell’installazione, Napoli. Courtesy Mimmo Scognamiglio artecontemporanea Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.


UN RAGIONEVOLE AMORE PER L’ARTE Nadia Brodbeck

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i occupo della Fondazione dal 2009, anno in cui abbiamo inaugurato gli spazi e, contemporaneamente, l’inizio delle attività. Da allora abbiamo ospitato numerosi artisti nella nostra foresteria, abbiamo attivato programmi di residenza, abbiamo realizzato tre mostre sulla collezione privata, abbiamo portato avanti con entusiasmo progetti didattici destinati all’Università, alle Accademie, alle scuole. La Fondazione Brodbeck è uno spazio di 6000 mq (circa un quarto utilizzati come spazi espositivi) dedicato all’arte contemporanea. Ci troviamo a Catania, nella zona degli Angeli Custodi, a due passi dal Castello Ursino. Vecchia circonvallazione di Catania e vecchia zona industriale, in questo quartiere si possono trovare grandi capannoni

ormai in disuso e cortili nascosti circondati da case terrane. Siamo in pieno centro, pur non facendo parte del centro storico. Non siamo proprio, per così dire, di passaggio; le persone che vengono qui, non ci capitano per caso. Io sono Nadia Brodbeck e sono la vicepresidente della Fondazione Brodbeck. La Fondazione è entrata inaspettatamente nella mia vita mentre terminavo gli studi di specializzazione per l’insegnamento del tedesco. Mio padre già collezionava da anni, ma la sua era una passione alquanto privata e intima anche se negli ultimi tempi, quando ci si incontrava in giro per l’Europa (allora studiavo in Germania), l’appuntamento era sempre presso questo o quel museo di arte contemporanea. Avrei dovuto forse immaginare… invece la pro14

PEOPLE ART

posta di occuparmi della collezione e della Fondazione, mi stupì molto. D’altronde io non avevo fatto degli studi “pertinenti”. Ma avevo vissuto a lungo fuori dall’Italia, avevo imparato le lingue, avevo conosciuto realtà diverse. Tutto questo, unito al desiderio e alla curiosità di imparare qualcosa di nuovo, mi hanno fatto dire di sì. Sì, sì, certo che mi sarei occupata della collezione, certo che avrei accolto e seguito gli artisti nella loro ricerca e produzione, certo che avrei frequentato questo mondo così ricco di spunti.


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idea iniziale fu quella di acquisire uno spazio per trovare una collocazione alla collezione; ma poi si fece strada in noi il piacere di poter partecipare in modo attivo del mondo dell’arte. Così la Fondazione fu fin da subito luogo di produzione, attiva nello scambio, nella promozione, nella divulgazione dell’arte contemporanea. All’inizio abbiamo attivato due progetti Fortino1 e Cretto. Entrambi prevedevano delle residenze d’artista al termine delle quali seguiva una mostra personale, frutto del lavoro dell’artista in situ. L’artista, durante la sua residenza aveva la possibilità di dialogare con la città, con le nostre maestranze, con le nostre materie prime, insomma, con le nostre risorse. Inoltre incontrava gli studenti dell’Accademia, i nostri artisti e partecipava anche se per un periodo breve, alla vita culturale della città. Negli anni abbiamo ospitato con questa modalità diversi artisti provenienti da tutto il mondo. Contemporaneamente a questi progetti, sono state realizzate mostre selezionando opere dalla collezione privata e sono state attivate collaborazioni con le istituzioni locali. Anche il programma didattico è stato finora per noi di grande importanza. Dai workshop con l’Accademia ai laboratori per i più piccoli. Ogni visita per noi è partecipata, attiva. La Fondazione Brodbeck è insomma il luogo in cui ci si incontra, in cui l’artista può dialogare con il territorio, è il luogo in cui adolescenti e bambini possono allenare lo sguardo, passeggiare tra lavori di artisti che hanno incontrato tra le pagine dei loro libri o che non hanno mai conosciuto, è il luogo in cui tutti sono chiamati a fare un’esperienza estetica. Io per prima. Per me la Fondazione è un’occasione di crescita e di conoscenza; la possibilità di guardare le cose con occhi nuovi, diversi, mai annoiati, sempre stupiti.

Da sinistra in senso orario: Nadia e Paolo Brodbeck. Urs Luethi, incontro con le scuole. Paolo Parisi, COMMONPLACE (UNITÉ D’HABITATION), 2011. La Fondazione Brodbeck, visione notturna. Per tutte courtesy Nadia Brodbeck.

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SHOWCASE

CHIARA SEGHENE | a cura di Pasquale De Sensi

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di Stefano Serusi

hiara Seghene per raccontare gli eventi sceglie la chiave del sacro, la sua capacità, attraverso mitopoiesi ed abbandono, di trasformare la realtà per gli occhi più predisposti. Le sue opere appaiono, nell’accezione più semplice, come la registrazione di eventi trasformativi, riportando il tema del mito e del miracolo ad una dimensione concettualmente simile a quella rigenerativa dell’eredità orale. Gli oggetti, contrassegnati da simboli, e i video (amatoriali come quelli dei dischi volanti), predispongono nella loro misura scabra ed essenziale una narrazione verace, con una ricerca di ripetitività già tipica degli ex-voto. Il rifiuto sempre più evidente di un’estetica ricca e ricercata, in Chiara Seghene, può ricollegarsi al suo interesse per la cultura materiale arcaica e contadina, dove minimi segni distinguono il tempio dall’abitazione e l’uomo di fede dall’uomo di fatica, concorrendo a trasferire con mezzi moderni il ricordo di una religione essenziale. Dall’alto: ARO, 2013. Incisione su maschera da sub, 15x8 cm. MUTA, 2011. Muta da sub con ricamo in filo dorato, 45x30 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

UNA LIBERA ASSOCIAZIONE DI IDEE Alice Zanin

Cristina Abbruzzese/ Alice, come nasce la scelta di utilizzare la cartapesta per la realizzazione delle tue opere? Alice Zanin/ La cartapesta era il materiale più congeniale al mio desiderio di creare lavori che trasmettessero un senso di leggerezza. Di fatto le forme di questi animali in senso propriamente fisico sono articolate in fil di ferro ingabbiando una porzione d’aria, o di nulla. Mi affascinano poi le possibilità di sospensione delle opere nello spazio senza l’ausilio di strutture portanti. La loro povertà in termini di peso le fa ruotare alla minima corrente, contribuendo a dare un’idea insieme di movimento e di “rarefazione”. CA/ I corpi delle tue sculture sono ricoperti di “parole”, forse perché la fisicità tangibile e concreta si accompagna ad una componente mutevole e variabile quale è, in sostanza, la parola? AZ/ Nella prima parte della mia produzione la componente verbale era proprio riconducibile all’idea di effimero, transitorio e mutevole appunto. L’animale poi rimanda tradizionalmente al senso della

- Cristina Abbruzzese

fiaba, dell’onirico o dell’esotico, comunque, in qualche modo, ad una dimensione poco concreta. Un animale di parole è come dire “X=coniglio”, per citare Meret Oppenheim… si può dire qualunque cosa senza un necessario riscontro con il reale; a parole si sogna, si affabula, si mente. In seguito ho iniziato ad eliminare le parti testuali dei quotidiani per ottenere superfici più lievi, giocate su accordi cromatici tra le carte. Sto comunque sperimentando sulle coperture dei pezzi. CA/ Nella tua recente personale dal titolo “Circus Circes”, allestita negli spazi della Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter a Milano, hai unito i tuoi animali a oggetti di uso quotidiano… AZ/ Il mio lavoro resta scultoreo, ma tende all’installazione soprattutto in termini espositivi. Costruire un dialogo tra opere e oggetti risponde all’esigenza di inscenare una situazione, nel caso citato ho concepito la galleria come una sorta di teatro dove proporre un circo inteso più nell’accezione di assurdo immaginifico che propriamente circense. In effetti l’unico animale pertinente allo spettacolo era un elefante,

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sospeso a centro sala come un lampadario sopra ad un’iperbolica piramide di arachidi. Il registro dialogico prescelto è quello dell’ironia o dell’incongruenza o ancora dell’associazione di idee. Spesso si tratta di scelte che definirei “automatiche”: vedendo un’ingombrante lampada a stelo in un mercatino ne ho ad esempio immaginato il paralume volante e così l’ho utilizzato (Magritte del resto non era proprio d’accordo sul fatto che il pensiero si potesse situare in una qualche parte del corpo umano…). L’oggetto ha catalizzato l’attenzione di molta parte dell’arte del Novecento, dal Dadaismo in poi. È evidentemente una presenza scenica dal forte appeal, un’icona. E dal mio punto di vista, anche l’animale lo è. Se dunque se ne travisa la convenzionale destinazione d’uso, si ottiene una relazione oscillante tra il reciproco imbarazzo e una galante ironia. CIRCUS CIRCES, 2014. Veduta parziale della mostra, Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter, Milano. Courtesy dell’artista.


SMALL TALK

UN TEMPO PER L’ARTE Matteo Fato

Loredana Barillaro/ Matteo, sembra che il tuo lavoro si componga per “cicli” e non per singole tappe. Ovvero, ogni opera fa sempre parte di un insieme unico in cui gli elementi sono chiamati ad “incastrarsi” reciprocamente…? Matteo Fato/ Credo di non essere mai riuscito a pensare alla pittura come ad una singola tappa, raggiunta o meno; ogni “progetto” rappresenta un ciclo di lavoro che riflette sul precedente in parte contraddicendolo, ed in parte negandolo. La pittura è per me un linguaggio che va continuamente messo in discussione, che non ha e non deve avere mai l’opportunità di un punto di arrivo. L’unica certezza è il dover dimenticare le proprie certezze. Vincenzo Agnetti ha scritto: “la cultura è l’apprendimento del dimenticare”. Penso che sia una bellissima metafora del fare pittura. LB/ La tua pittura appare essenzialmente “pura”, lontana da virtuosismi e per questo estremamente interessante… c’è in essa un qualche riferimento colto? MF/ Lo studio di Ludwig Wittgenstein iniziato alcuni anni fa mi ha aiutato a rileggere le “parole” scritte durante il mio percorso che avevo lasciato tra parentesi e a rivalutarle: per trovare una nuova dimensione “rallentata” nell’osservazione

- Loredana Barillaro

delle “cose” e dello spazio, cercando di inserire i naturali segni di interpunzione di cui il mio linguaggio aveva bisogno: “Con i miei numerosi segni d’interpunzione, ciò che in realtà vorrei è rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente. (Come leggo io stesso).”1 Questo mi ha aiutato a capire che i linguaggi dell’arte rappresentano in un certo senso, la punteggiatura della vita, e ci aiutano a rallentarne “la lettura”, quindi a riflettere meglio su di essa. LB/ Qual è il carattere delle esposizioni che sei chiamato a progettare? Forse quello di un’unica grande installazione in cui “catapultarsi”, penso ad esempio a (SECRèTA) …. MF/ Questo dipende sempre dalla tipologia di spazio con cui mi trovo a dialogare; negli ultimi anni per me è divenuto fondamentale ragionare sullo spazio che ospiterà la pittura e credo che questo dipenda molto dall’esperienza fatta in passato con la pittura calligrafica cinese, dove il mio interesse era rivolto principalmente al bilanciamento tra parola e immagine. La ricerca di un bilico della “rappresentazione”. L’esperienza del vuoto e del pieno su carta mi ha donato la disciplina del voler controllare lo spazio in tutte le sue forme, fino ad arrivare alla mostra di cui parli, (SECRèTA), negli spazi di TRA a Ca’

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dei Ricchi, conclusa di recente. Qui per la prima volta mi sono trovato a modificare la funzionalità dello spazio espositivo ragionando sul suo uso e sulla sua storia. Ca’ dei Ricchi non è soltanto uno spazio espositivo, la molteplicità di funzioni mi interessava e ho voluto lavorare proprio su questo aspetto. Ho progettato quindi un sistema di pannelli che hanno la possibilità di chiudersi, come una grande “cassa”. Viene negata in tal modo la possibilità di vedere la mostra quando lo spazio perde temporaneamente la funzione espositiva, e tuttavia rimane una presenza: resta visibile l’impossibilità di vedere i lavori. Quando un lavoro esce dallo studio è come un segreto che dev’essere dimenticato; per far ciò, sento il bisogno di ricreare un ambiente che gli si addica e lo possa accogliere. Questo è quindi un tentativo di creazione di uno spazio per “ospitare” la pittura. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus.

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SENZA TITOLO (CAPRICCIO), 2014. Olio su lino, 160x200 cm, cassa da trasporto in multistrato, n° 4 monocromi, preparazione a pigmento su lino, 24x30 cm ognuno, cassa da trasporto in multistrato. Courtesy Galleria Bianconi, Milano. Foto Matteo Fato.


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