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PERSONE

Autore: Bruno Damini

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Quando la vite va in sposa all’acero

La resistenza al cambiamento climatico col recupero di antiche tradizioni agricole

Appassionato al vino nella parte di chi lo beve, Andrea Polidoro non avrebbe mai pensato che la vita l’avrebbe condotto a lavorare sul versante della vigna e in cantina. Dopo gli studi universitari in relazioni internazionali, si trasferisce a Bordeaux per un semestre ma finisce per rimanerci tre anni. Si affina come assaggiatore, poi si avvicina alla produzione, suo desiderio segreto, quando conosce Lionel Cousin dell’azienda agricola biologica Cupano, a Montalcino, di cui oggi è direttore. Dieci anni fa, quando ne ha venticinque, gli monta dentro il desiderio di fare il vino nel territorio del nonno, in quel di Sarnano, Macerata, a ridosso dei Monti Sibillini. Il nonno Sante

era un mezzadro, non poteva lasciargli terra, quindi lui inizia dei sopralluoghi alla ricerca di appezzamenti adatti alla viticoltura. Non vede tracce di vigneti ma scopre che la viticoltura tradizionale in questa zona “maritava” le viti facendole arrampicare su alberi campestri. Questa pratica, che si fa risalire al tempo degli etruschi, diffusa nell’Italia centrale fino al primo dopoguerra, era stata completamente abbandonata. Fortuitamente finisce per imbattersi in un campo in stato d’abbandono da trent’anni, completamente imboschito, con viti centenarie che si erano allungate fino a otto, dieci metri di altezza lungo gli aceri, generando grappoli bellissimi nei punti meglio esposti. Così fa una prima raccolta, stupito dal fatto che dopo tanti anni di abbandono quelle viti fossero sorprendentemente produttive con uva sanissima nonostante non avessero mai subito potature e trattamenti. Così fa la seconda scoperta: la loro capacità di resistenza era dovuta al fatto che erano “franco di piede”, avevano cioè il piede originario della vitis vinifera europea pre-fillosserica. La traccia genetica di queste viti le rivela come varietà autoctona di Malvasia Bianca di Candia, forse Malvasia di Sarnano come risulta dal registro vitivinicolo della regione Marche. È fatta: Polidoro finisce per prender casa e terreni nel paese del nonno, e comincia a fare il vino nella neonata azienda agricola Contrada Contro. Alla scoperta del mondo “franco di piede” lo conduce un altro incontro fortunato, quello con l’enologo e produttore bordolese Loïc Pasquet. “Al di là delle mode, al di là del tempo” è il motto di questo visionario che a Landiras, zona a sud del Graves, ha voluto ricreare il gusto del Bordeaux all’epoca del primo classement di Napoleone III nel 1855, ricostruendo la mappa del bordolese pre-fillossera piantando 20.000 viti franco di piede per ettaro, da ciascuna delle quali oggi ricava un piccolo grappolo, e inizia a produrre il Liber Pater, vino che in pochi anni è diventato una mitica rarità. Grazie a lui Polidoro, in rappresentanza di Contrada Contro (Marche)e Cupano (Montalcino), entra a far parte dell’Associazione Francs de Pied (Ungrafted Vines) nella veste di segretario. Si tratta di un drappello in via d’espansione di vignerons resistenti europei, custodi di vigneti di varietà autoctone non innestati su piede americano, che vogliono difendere e promuovere la tradizione e il gusto dei vini ottenuti da viti a piede franco tramite la creazione di un marchio e chiedendo il riconoscimento da parte dell’UNESCO come patrimonio di 8.000 anni di storia della vite, impedendo ogni futuro espianto di vitigni franchi perché ritenuti poco produttivi. Oltre a lui e al presidente Pasquet, aderiscono all’associazione Egon Müller (Mosel), vicepresidente, Gocha Chkhaidze della principale azienda vinicola georgiana, Askaneli; Thibault Liger-Belair (Borgogna); Chartogne-Taillet (Champagne); Feudi di San Gregorio (Campania); Tenuta San Francesco (Tramonti, Costiera Amalfitana); Vida Peter (Ungheria); Gio. Jos. Prüm (Germania); Dominio de Es (Spagna); Artemis Karamolegos (Grecia); St. Jodern Kellerei (Svizzera); Filipa Pato (Portogallo).

La viticoltura arcaica

Andrea Polidoro dunque riscopre e rivaluta la viticoltura arcaica del nonno, così intelligente perché nata dalla necessità dei contadini di avere colture promiscue

con tutto ciò di cui c’era bisogno nello stesso campo. Per questo piantavano la vite in maniera sparsa “maritandola” agli aceri, mantenendo al centro mais, grano, segale, che apportano azoto al terreno. Così potevano contare su alimenti di base che includevano anche il vino, così importante dell’alimentazione dei contadini a quei tempi. Era un sistema funzionale a una agricoltura che si rivolgeva più all’autoconsumo che al mercato. Questa viticoltura era legata anche al contesto climatico. Le viti di Contrada Contro sono tutte oltre i 600 metri con i monti Sibillini alle spalle e ci sono anni in cui si fa la vendemmia della Malvasia mentre i monti presentano uno scenario innevato che mozza il fiato. Questa forte escursione termica, pur mitigata dall’acero-tutore, è importantissima perché consente la fissazione dei sapori, aromi e colori. La resistenza al cambiamento climatico ci porterà verso evidenze che già oggi sono chiare perché ad esempio le fasi fenoliche delle viti franche rispettano sempre un ciclo regolare nella vendemmia mentre la vita innestata ha la tendenza ad accorciare i tempi dove il clima è molto caldo. Per le potature annuali ha adottato una modalità di rispetto, di accompagnamento della pianta con tagli molto lunghi perché queste viti hanno bisogno di spazio per trovare loro il proprio equilibrio, adottando gli insegnamenti di Marco Simonit e Pier Paolo Sirch (grandi maestri potatori di viti). Tutte accortezze che consentono di avere delle longevità straordinarie. Quest’anno Andrea è arrivata alla quarta vendemmia, la più bella che gli sia capitato di fare a Contrada Contro arrivando a raccogliere anche 100-120 kg di uva da una singola pianta, acini che sono un miracolo di complessità aromatica e di colori, a fronte di una stagione estremamente torrida. Con la vite a piede franco maritata la qualità organolettica dell’uva cambia tantissimo, il vino che se ne ricava necessita di più tempo per esprimersi ma, garantisce il nostro vigneron, ha una “vibrazione” inconfondibile. Dalla sua coltivazione biologica con alcune ispirazioni biodinamiche, nel 2020, prima vera annata, ha prodotto solo 450 bottiglie, stesso discorso per la seconda, mentre quest’anno ne dovrebbero risultare circa 800. Anche se aumenteranno negli anni con nuovi impianti, sempre a piede franco, rimane un progetto piccolo ma ambizioso ed esemplare per il lavoro di recupero messo in atto. Il Vino di Sante lo vende al mondo della ristorazione e a raffinati appassionati, centellinandolo per riuscire a farlo assaggiare a più persone possibile, inclusa la clientela all’estero, dall’Austria agli Stati Uniti al Regno Unito, con richieste da Danimarca, Canada e dalla Catalogna. Questa storia è la realizzazione di un sogno. Quando nel 2016 c’è stato il terremoto la comunità ha molto sofferto, tuttora molte case sono abbandonate, i centri storici non sono ancora tornati alla vitalità del passato, complice anche l’invecchiamento della popolazione perché tutti si sono spostati verso la costa o le città. Questo sogno è nato anche con l’auspicio di ridare nuova centralità a un’agricoltura a torto considerata superata, con un omaggio alla memoria di nonno Sante che non gli ha lasciato terra ma un segno della memoria capace di concretizzare sogni.

Contrada Contro

Azienda Agricola Biologica dei Monti Sibillini andrea@contradacontro.it