Da Neresine a Milano. Memorie dell’imprenditore Fulvio Bracco

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Edizione Fondazione Bracco A cura di Giovanna Martinoli Selezione iconografica Primo Ferrari Caroline Elefante Concept e progetto grafico Andrea Lancellotti Francesca Melli Immagini Archivio della famiglia Bracco Archivio storico aziendale Bracco

Questo volume è stato realizzato in occasione di

Da Neresine a Milano. Memorie dell’imprenditore Fulvio Bracco A cura di Giovanna Martinoli Con un ricordo di Giorgio Squinzi Prefazione di Anna Maria Mori Selezione iconografica Primo Ferrari e Caroline Elefante

Stampato da Arti Grafiche Meroni - Lissone Da Neresine a Milano. Memorie dell’imprenditore Fulvio Bracco © ottobre 2012 Fondazione Bracco Tutti i diritti riservati


Negli ultimi anni, Fulvio Bracco ha ricostruito la sua vita d’azienda con la collezione delle sue mitiche agende e con le lunghe conversazioni con Giovanna Martinoli. Siamo certi che gli avrebbe fatto enorme piacere dedicare questo libro di memorie a tutti coloro che hanno lavorato e lavorano in Bracco, portando avanti nel tempo la visione di un successo tutto italiano, e alle nuove generazioni della famiglia, che scopriranno in questi ricordi le proprie radici, la nostra “storia�. Troveranno valori e affetti per mantenere sempre saldi i legami famigliari. Dall’archivio storico di famiglia e aziendale abbiamo tratto le immagini che accompagnano e sottolineano questo riandare della memoria. Diana Bracco


Un capitano d’azienda con l’Italia nel cuore Ho letto questo libro di ricordi di Fulvio Bracco con grande emozione. Da imprenditore di successo quale è stato, mi aspettavo una narrazione ricca di notizie e di dati sullo sviluppo costante nel tempo dell’azienda farmaceutica che il mondo ci invidia e che, quest’anno, celebra gli 85 anni della sua fondazione. Quella che ho letto tutta d’un fiato è una storia affascinante che sembra appartenere più al genere dei romanzi d’avventura che alla memorialistica. Insieme ai sacrifici e alla determinazione nel voler emergere nella propria attività, nella storia di ciascun imprenditore vi è infatti un aspetto avventuroso. Il dominio dell’avventura è l’avvenire e, proprio perché il futuro possiede tutta l’indeterminazione del mistero, siamo attratti da questo genere di narrazione e da chi ne è il protagonista. Ed è quello che emerge dalla vita di Fulvio. Da Neresine, la località istriana sull’isola di Lussino che evoca già nel nome una ninfa della mitologia greca, si dipana la storia di un uomo, di una famiglia e di 6

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un’azienda che hanno saputo attraversare con successo tutte le aspre vicissitudini del XX secolo. È un diario di bordo lucido e asciutto, nello stile di un esperto uomo di mare, ricco di aneddoti, di sano patriottismo e di tanta umanità. Dall’amatissima terra natia alle persecuzioni e all’internamento da parte del governo austriaco che allora dominava Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, racconta poi il duro lavoro a Milano e il forzato esodo dopo il secondo conflitto mondiale; il successo aziendale costruito passo dopo passo nel dopoguerra, per finire con il tanto agognato ritorno al mitico luogo di nascita. Una vicenda circolare e a lieto fine nella quale l’Azienda Bracco, e il suo capitano Fulvio, sono i protagonisti centrali. E il libro racconta i momenti decisivi della sua storia e di come la Bracco sia cresciuta in Italia e nel mondo puntando, fin dall’inizio, sulla ricerca, l’innovazione e l’internazionalizzazione. Ho conosciuto Fulvio nel 1997 quando fui eletto presidente di Federchimica e rimasi immediatamente colpito dall’uomo, dall’energia e dal carisma che sprigionava. La sua lucidità e la sua curiosità nel voler conoscere a fondo le persone che incontrava trovano conferma nelle pagine di questo volume. In quel primo incontro del ‘97 ebbi, tra l’altro, la sensazione che mi stesse analizzando per valutarmi come possibile Cavaliere del Lavoro, della cui Associazione era presidente regionale lombardo. La vita di Fulvio è straordinaria e la sua impresa continua il proprio sviluppo oggi con la figlia Diana, con la visione e le forti motivazioni di un’impresa familiare. Ed è un modello in cui mi riconosco profondamente come imprenditore. Un’altra sintonia con Fulvio e Diana è l’impegno associativo nel quale Fulvio si è dedicato intensamente, dando un esempio che sia Diana sia io abbiamo cercato di imitare. E nelle pagine del libro emerge nitidamente quale sia il filo rosso che lega tra loro i valori che sostengono l’impresa familiare e quelli fondanti dell’associazionismo. È il contatto diretto e costante con le persone e la conseguente capacità di individuare quale sia il “bene comune” che si alimenta di tutte le energie possibili per crescere. 8

Fulvio è stato un uomo d’industria all’antica, ma anche un grande innovatore capace di capire per tempo il valore della ricerca e l’importanza dell’internazionalizzazione. Un pioniere della nostra industria e di quel capitalismo familiare che ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più rispettati, avanzati e moderni del mondo. Un uomo straordinario che ho avuto la fortuna di incontrare tante volte e della cui coerenza e limpidezza di pensiero sono rimasto ammirato fino all’ultimo. Un esempio sempre vivo per tutti quegli imprenditori che credono nella ricerca e nei valori dell’impresa familiare capace di competere nel mercato globale. Giorgio Squinzi Presidente di Confindustria

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Prefazione

“Con la fine del conflitto mondiale, nel 1945, altre difficili prove ci attendevano. Sapremo superarle...” Fulvio Bracco, quando scriveva questa frase nel suo diario, nel 1945, aveva 36 anni. Da poco meno di vent’anni, con la sua famiglia, aveva lasciato Neresine, nell’isola di Lussino, dove era nato. E dalla firma del Trattato di Parigi, nel 1947, non ci sarebbe più tornato fino al 1970. Ormai anziano, ha lasciato scritto: “Oggi che i mei molti anni mi fanno compagnia con i loro ricordi, vivo ancora più intensamente i sentimenti che mi legano all’Istria. Il Trattato di Parigi del ‘47 aveva significato per la mia famiglia un taglio doloroso con Neresine. Nessuno di noi poteva rimettere piede su quelle terre, l’Istria, Fiume, la Dalmazia, consegnate a Tito.” Ma alla sua Neresine, chi sa fino a che punto ne era consapevole, mi ostino a pensare che non lo legassero solo la nostalgia e i ricordi – gli scogli bianchissimi, il mare verde e trasparente nel quale si specchiavano e continuano a specchiarsi, inginocchiandosi davanti a lui, i pini piantati dall’Austria – ma persino qualcosa di più e di più 11


profondo. C’è tanto di Neresine in quello che ha saputo costruire: è in quel “piccolo puntino bianco in mezzo al mare azzurro” che sicuramente si è formato il suo carattere, sono venuti anche da lì la forza, l’entusiasmo, la tenacia, il coraggio, la capacità di non arrendersi, quel suo bellissimo “sapremo superare le difficili prove che ci attendono”. Perché non è vero che, nascendo e poi crescendo, somigliamo solo a nostro padre e a nostra madre. Somigliamo anche inevitabilmente alla terra, ai sassi, al vento che ci hanno accolto nascendo: dell’Istria, i suoi figli, portano le stimmate persino nella fisionomia, nei tratti aperti ma decisi dei volti, quasi scavati dalla bora com’è per gli alberi di ulivo che nascono e crescono a fatica su quelle terre. A uno sguardo minimamente attento, li si riconoscono gli istriani, perché la loro terra arida e forte, il loro vento impetuoso, il loro mare bellissimo e insidioso, costruiscono non solo i loro volti, ma persino un certo modo d’essere delle mani, di tutto il corpo. Per non parlare del carattere: un insieme di audacia e riservatezza, di culto del lavoro, di sobrietà, di serietà, un radicato e fortissimo senso della morale, religiosa o laica che possa essere, ma anche un meraviglioso piacere del vivere e del ridere. Sono volti, corpi e caratteri che esprimono un impasto assolutamente speciale di forza e innocenza, e forse è proprio da quell’innocenza che viene poi la forza. Forse è la forza testarda delle capre, simbolo dell’Istria: animali frugali, abili nell’adattarsi alle difficoltà, ma insieme indomabili, testardi, incapaci e inadatti a piegarsi o tanto meno a trasformarsi in qualcosa di diverso da se stessi, adattandosi agli allevamenti intensivi. La capra istriana viene sempre rappresentata nella sua posizione naturale, in atto di sollevarsi, facendo forza sulle zampe di dietro per aggrapparsi davanti e più in alto: è il simbolo della fatica. E mentre penso e scrivo, guardo naturalmente le foto che ritraggono Fulvio Bracco, prima bambino, poi giovane, uomo maturo, e dopo ancora anziano, lo guardo quando nelle fotografie è serio e concentrato, o quando si apre in un bellissimo sorriso che mi sembra di poter leggere quasi disarmato, e mi succede di affiancare alla sua immagine quella di altri istriani o dalmati come lui. Ripasso con la memoria, un po’ a caso e in totale disordine, le immagini di Ottavio Misso12

ni (per carità non confondiamo i dalmati, come lui, con gli istriani...) e lo rivedo soprattutto ai tempi della sua giovinezza nello slancio felice della corsa alle Olimpiadi di Londra del ‘48, così come rivedo il volto di Sergio Endrigo, quello di Fulvio Tomizza, e li sovrappongo arbitrariamente alle foto dei componenti della famiglia di armatori lussignani, i Cosulich, ai Luzzatto Fegiz, ai Luxardo, ma anche a Mila Schön o Alida Valli, a grandi o grandissimi campioni sportivi come Nicolò Rode, Agostino Straulino e Nino Benvenuti... E sì, che in qualche modo tutti si somigliano tra di loro. C’è qualcosa che li accomuna. Le comuni radici. Rivedo tutti a memoria, uno a uno, i campioni d’industria, dello sport o della moda, gli artisti, gli scrittori, ripercorro i tratti comuni delle loro fisionomie, e dentro, lentamente, mi cresce una grande voglia di dire grazie: grazie a tutti questi uomini e queste donne che, provenendo dalla mia stessa terra e, in un modo o nell’altro, dalla mia stessa storia, hanno saputo restituire agli istriani come me, come ai dalmati, insieme alla nostalgia per i loro paradisi perduti, anche l’orgoglio della propria identità, che non è, e non è giusto che sia solo in uno statuto di vittime. Un’identità speciale, quella istriana e dalmata, (“sono un italiano speciale”, scriveva di sé con amarezza e ironia Quarantotti Gambini) che attraversa orizzontalmente tutto un popolo, persino senza distinzione tra ricchi e poveri, tra grandi personalità e gente comune: gente abituata a combattere, a non arrendersi, ad arrampicarsi, come le capre che ne sono il simbolo, per superare ostacoli e difficoltà. “Che la forza sia con noi”: “Altre difficili prove ci attendevano... Sapremo superarle”, come scriveva e diceva nel lontano 1947 Fulvio Bracco affrontando le Guerre Stellari che avrebbero portato l’azienda fondata dal padre Elio nell’empireo delle grandi imprese familiari italiane. La forza, ma non solo: anche la dignità, la fiducia in se stessi e più in generale nella vita, il coraggio, forse più istriano che italiano, del contare soltanto sulle proprie forze, il rispetto di se stessi e degli altri (i suoi lavoratori e ricercatori), l’umanità, il culto dei valori famigliari. E delle radici, mai dimenticate.

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Neresine. Fulvio Bracco. E Nadalina. Nadalina Massalin, la mia quasi mitica bisnonna, madre della mia nonna materna. Nata, appunto, a Neresine. Mitica perché è sempre e solo vissuta nella mia fantasia, dato che non l’ho conosciuta, e di lei non esistono neanche fotografie. Eppure mi è rimasta impressa: mi piace, mi è sempre piaciuto pensarla. Non so perché, mi regala un sorriso, la voglia e il piacere di vivere: mi racconta il luogo delle origini senza però la violenza, l’ingiustizia, la paura, il buio, le lacrime (soprattutto di mia madre) cui sono costretta ogni volta ad associare il mio luogo delle origini. Lei, Nadalina, mi racconta invece, con innocenza e felice inconsapevolezza, della sua “isola del vento” con il suo bellissimo mare, le sue campagne, gli olivi, gli alberi di mele cotogne, le aiuole strappate ai sassi e coltivate a radicchio, da mangiare, poi, secondo la tradizione neresinotta (ma io lo faccio ancora oggi), con le patate lesse. Mi racconta del suo rapporto di assoluta fraternità con la sua capra, vissuto poi tale e quale da sua figlia, mia nonna, e, dopo ancora, da mia madre, che ha sempre avuto, nella sua giovinezza, “una capra per amica”. Mi viene incontro nell’immaginazione così come me la raccontava mia madre: “Contadina, povera, analfabeta, i capelli raccolti in cima alla testa, oggi diremmo in un piccolo chignon, e chi sa come lei lo definiva nel suo dialetto, vestita, come tutte le contadine, con la lunga gonna nera di cotone arricciata in vita sotto il corpetto stretto, sopra la gonna un grembiule, nero anche quello, o tutt’al più, mi diceva mia madre, a fiorellini chiari su fondo nero, 14

e sempre la civetteria, o forse sarebbe meglio dire l’allegria, di un garofano fresco e profumatissimo del suo orto, in vita, a raccogliere, drappeggiandola intorno alla cintura, una cocca del grembiule...”. Persone come Fulvio Bracco fanno parte della storia: la storia bella, grande, del nostro Paese, storia di istriani che fanno onore all’intero nostro Paese. Persone come la mia bisnonna, Nadalina Massalin: più che della storia, fanno parte della geografia, della natura di un luogo. La mia Nadalina io la penso, la so, come gli olivi snelli e forti della sua isola, come i garofani profumati del suo orto, come il suo mare così intensamente verde e azzurro, come le sue capre. E se sono fiera di una persona grande come Fulvio Bracco, lo sono però anche della mia bisnonna che è cresciuta guardando il suo stesso mare, riparandosi dal suo stesso vento. Sono fiera di lei e di quello che, senza troppi sforzi di immaginazione, intuisco sia stato il coraggio semplice della sua vita, l’inesausta capacità di lavorare che le è servita nella quotidiana battaglia per mettere insieme i pranzi con le cene, l’allegria con la quale ha partecipato alle feste del suo paese, l’innocenza entusiasta e priva di invidia con la quale ha guardato alle fortune di quelli che, nati lì, come lei, dentro il suo stesso, bellissimo, panorama, sono poi diventati ricchi e famosi e hanno esportato l’intraprendenza neresinotta in tutto il mondo. Me lo chiedo, certo: chi sa se si sono mai conosciuti, incontrati su un sentiero di Neresine, quella mia Nadalina povera e allegra e, magari, per mano al padre Elio, quel Fulvio allora bambino, che poi sarebbe diventato un capitano d’industria che tutto il mondo ha ammirato e giustamente onorato. In fondo, in una comunità che all’epoca contava meno di duemila abitanti, non è impossibile immaginarlo. Chi sa se si sono scambiati un sorriso, o magari da parte di lei, che già allora aveva molti più anni di lui, una carezza. È un pensiero, o quanto meno una fantasia, che mi piace. Mia nonna, nel ‘47, è scappata dalla sua Lussino senza tornarci mai più. E io, quando torno a Lussino, nella sua piccola casa di pietra davanti al porto, guardo dalle sue finestre lo stesso spicchio di mare che vedevano i suoi occhi azzurrissimi. 15


Della bisnonna Nadalina non so, non mi è rimasto niente, nessun segno concreto della sua esistenza: forse, al momento della tragedia istriana, nel ‘47, non c’era già più, e nessuno, poi, mi ha indicato quella che era la sua casa, l’orto che coltivava o i sentieri che era abituata a percorrere. Appartiene a un “prima” fiducioso e integro, al quale, nella mia fantasia, continua ad appartenere tutta la sua isola e Neresine, della quale, proprio per questo, mi piace pensare, per quanto improbabile, che il nome voglia significare “l’isola, l’insenatura di Nereo, dio del mare”. Perché mi piace l’idea di consegnare al mito e alla poesia, tutte e due insieme, anzi, forse improvvidamente, tutti e tre, Fulvio, Nadalina e la loro bellissima Neresine. Il resto, che riguarda il “dopo” della vita di Fulvio Bracco, è Milano, l’Italia, dopo l’Italia, l’America e il mondo intero: appartiene alla realtà, ed è una realtà di cui andare orgogliosi. Ma chi sa, se non ci fosse stato “quel puntino bianco in mezzo al mare azzurro”: la sua Neresine... Anna Maria Mori

Giornalista e scrittrice è nata a Pola, ai tempi in cui la città era italiana. Nell’infanzia ha preso la via dell’esodo, trasferendosi a Firenze. Tra i fondatori de “la Repubblica”, giornale per cui ha fatto l’inviato speciale per tanti anni, ha lavorato anche per la RAI realizzando fra l’altro documentari sulla propria terra d’origine. È autrice di diversi best seller sull’Istria (Bora 1999, Nata in Istria 2006, L’anima altrove 2012) per i quali ha ricevuto importanti premi letterari. Nel 2009 le è stato conferito dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia il “Premio Internazionale del Giorno del Ricordo”.

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Introduzione

Un puntino bianco in mezzo al mare azzurro. Così lo ricordano le figlie quando, d’estate, il padre spariva con la sua barca a vela e loro lo guardavano da lontano. Da buon istriano, Fulvio Bracco era un uomo di mare. La famiglia Bracco era legata al mare, alle navi e, più in generale, al meraviglioso, ma anche un po’ misterioso mondo dei commerci dei naviganti. Originaria dell’isola di Lussino (Fulvio Bracco era nato a Neresine, un paesino di poche centinaia di anime), ha conservato nel cuore il ricordo del mare limpido e azzurro, delle rocce pungenti a strapiombo, del verde degli arbusti e delle pinete che sfiorano la risacca, dei fiori selvaggi dai profumi più diversi. A quella terra di frontiera apparteneva dunque Fulvio Bracco, che è stato uno dei grandi capitani d’industria italiani capaci – a cavallo della Seconda Guerra Mondiale – di ricostruire un tessuto economico e civile dalle macerie e di proiettare l’Italia nella modernità e nell’età del benessere. Questo volume è una testimonianza preziosa, un documento straordinario perché a narrare la propria storia, in prima persona, è il protagonista stesso, Fulvio Bracco; ma anche perché rappresenta un’occa17


sione importante per recuperare la saggezza di quei “padri fondatori”, soprattutto in un momento difficile per il nostro Paese e per l’Europa intera. Quando Fulvio “sbarca” (in senso non figurato) a Milano ha poco meno di 18 anni; viene da Trieste dove suo padre, Elio, si era trasferito qualche anno prima. Per guadagnare la terraferma, la famiglia Bracco aveva dovuto abbandonare un’isola dove la popolazione era composta soprattutto da naviganti, marinai o proprietari di velieri che facevano la spola tra Venezia e il Veneto, trasportando legname da riscaldamento di cui l’Istria e la Dalmazia abbondavano. La famiglia d’origine di Fulvio Bracco aveva avuto un ruolo non marginale nelle lotte irredentiste dell’inizio del Novecento; la madre, Nina Salata, era sorella di Francesco Salata, senatore del Regno, storico insigne e strenuo difensore dell’italianità della Venezia Giulia. Il padre, Elio, aveva pagato con due anni di prigione le sue idee antiasburgiche. L’impatto con Milano fu duro e niente affatto facile per un ragazzo come Fulvio che veniva da una realtà di frontiera e di mare. Con gli anni, però, imparò ad amarla, fino a sentirla come la sua “casa”: “Milano è da me molto amata: è la mia ‘casa’. La città ha accolto la mia famiglia nel lontano 1927 con quella sua disponibilità e capacità di aprirsi a chi ha volontà di fare, di crescere, di affermarsi. L’azienda è nata a Milano e ‘con’ Milano è cresciuta, condividendone gli anni difficili e gli anni di ripresa e di sviluppo”. Col tempo Fulvio Bracco matura nei confronti di Milano un forte sentimento di gratitudine e un desiderio di “restituzione”. Un sentimento che si imprime nel codice genetico dell’azienda, che si impegna sul territorio con numerose iniziative di responsabilità sociale, a iniziare da quelle per la cultura e, in particolare, per il Teatro alla Scala. Un luogo magico che il giovane Fulvio aveva a lungo sognato, e di cui divenne poi un assiduo frequentatore, come racconta lui stesso. Terminate le superiori a Milano, Fulvio si iscrive a Chimica e Farmacia all’Università di Pavia. Durante il periodo universitario, oltre a praticare sport amati come il canottaggio, trascorre le sue estati in Germania come praticante nei laboratori di ricerca della Merck, la nota società farmaceutica. Rinuncia più volte alle vacanze: un’esperienza dura e non senza sacrifici, che gli consente tuttavia di approfondire ciò che 18

apprende all’università. Impara alla perfezione il tedesco e si impadronisce degli strumenti di lavoro che gli saranno utilissimi in futuro. Alla Merck, dietro sua richiesta, lavora anche come operaio, per riuscire a capire come funziona la produzione e per poter tornare in Italia con un bagaglio di informazioni, di esperienze e di abilità manuali tali da poter insegnare qualcosa agli altri e anche a suo padre. Sono esperienze come queste che appartengono a quella generazione di grandi pionieri dell’industria italiana a cui Fulvio Bracco appartiene a pieno titolo: uomini forti, visionari e tenaci che hanno avuto il coraggio di scelte difficili, sempre alla ricerca di nuovi traguardi e di una costante crescita personale. Conseguita la laurea nel 1933 e terminato il servizio militare, nel 1934 il dottor Bracco viene assunto nella ditta di famiglia, fondata a Milano nel 1927 dal padre. E, coincidenza fortunata, nello stesso anno viene lanciato sul mercato un prodotto destinato a diventare famoso: il Cebion. Il 1937 è un anno davvero “storico”: l’Azienda festeggia i suoi primi 10 anni di attività, e Fulvio si sposa con la donna della sua vita, Anita Coppini. Una storia, quella con Anita, che il libro racconta con dovizia di particolari anche intimi, che ci svelano alcuni tratti importanti del carattere di Fulvio e del suo rapporto col padre Elio. Questi, infatti, aveva in mente altri progetti: voleva che Fulvio sposasse la figlia di un ricco profumiere. A Fulvio e Anita non rimase che sposarsi di nascosto, con conseguente scandalo familiare ricomposto, qualche tempo dopo, dall’amorevole intervento della madre e dello zio Francesco Salata. A testimonianza del fatto che il matrimonio contestato non aveva lasciato strascichi tra padre e figlio c’è una lettera spedita molti anni dopo da Elio, in cui parla della realizzazione della nuova sede del Gruppo a Lambrate (una decisione di Fulvio cui all’epoca si era opposto). Elio scrive: “Il cuore del padre non può che gioire ed essere ammirato di questo fantasioso progresso del figliolo… Tu passerai alla storia non solo come il creatore della tua industria, ma anche per essere stato in Italia contemporaneo dell’architettura industriale moderna”. Infatti, per la realizzazione dello stabilimento Fulvio si era rivolto all’architetto Giordano Forti, professore del Politecnico di Milano, figura prestigiosa dell’architettura italiana. 19


Ma facciamo un passo indietro. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale coincise con anni molto duri per Bracco. C’è un passaggio emozionante nel libro in cui Fulvio rievoca la prima incursione aerea su Milano, nel 1942. Durante la guerra la mancanza di approvvigionamenti impedisce di fatto la produzione, ma la direzione aziendale riesce a garantire il salario alle famiglie dei dipendenti chiamati alle armi. Alla fine del conflitto la produzione è praticamente ferma. La riorganizzazione, il rilancio e l’espansione dell’azienda saranno il capolavoro di Fulvio Bracco. “I tempi più duri della mia vita – così ricordava – sono stati gli anni della ricostruzione, nell’immediato dopoguerra. Era necessario partire da zero e non si capiva bene a chi ci si doveva rivolgere: mancava un punto di riferimento. Pareva si fosse perso l’orientamento, poi però ho trovato una bussola e sono partito sulla strada giusta”. Nel primo dopoguerra i contatti con la Merck sono interrotti anche per le difficoltà in cui si dibatte la Germania. Urge quindi procurarsi materie prime e completare la trasformazione della società da commerciale a industriale, cominciando a produrre direttamente i principi attivi. Quello che si deve difendere è il patrimonio morale più che quello materiale dell’azienda. Fulvio Bracco non si perde d’animo Nel 1949 dà il via al nuovo stabilimento di produzione a Lambrate su una superficie di 50 mila metri quadrati. I lavori proseguono a pieno ritmo e man mano che gli edifici vengono ultimati sono subito utilizzati. Fulvio conserva una memoria molto positiva di quegli anni eroici: “Ricordo di quel periodo il momento più bello. Era la primavera del 1951 e mi consegnarono il primo chilogrammo di Diazil, finalmente prodotto nel nostro stabilimento. Devo dire che mi commossi non poco”. Fatto lo stabilimento di Lambrate, Fulvio realizza il primo punto del programma che si era prefisso: produrre. Il passo immediatamente successivo è stato puntare sulla ricerca, una vera e propria “ossessione” personale, un autentico credo imprenditoriale: “Desiderio di conoscere, attenzione ai nuovi indirizzi scientifici, volontà di costruire hanno sempre guidato tutti i miei passi. La ricerca è il campo che più mi ha attratto e stimolato. Ero un imprenditore innamorato della ricerca perché ritenevo che la ricerca portasse senz’altro un vantaggio 20

all’azienda e ai malati. Questo convincimento ha motivato le mie scelte di politica aziendale: dalla costituzione del Centro di ricerche Eprova in Svizzera, alla realizzazione del Centro ricerche Bracco di Milano, alla decisione di puntare sui mezzi di contrasto. “È stato un impegno di studio e di ricerca di anni e anni. I miei collaboratori sui mezzi di contrasto hanno lavorato davvero una vita. Più di trent’anni di ricerca per arrivare a Iopamidolo”. Iopamidolo: a questa rivoluzionaria molecola Bracco deve gran parte delle sue fortune iniziali. Frutto di una ricerca condotta dal leggendario professor Ernst Felder, assunto in azienda nel 1950, lo Iopamidolo conosce un successo straordinario e costringe l’azienda a raddoppiare i ritmi di produzione per soddisfare la domanda altissima. In questo frangente emerge un altro tratto saliente della personalità di Fulvio Bracco: la costante attenzione per i dipendenti e per il loro lavoro: “I lavoratori sono stati bravissimi. Hanno fatto tutto quello che abbiamo chiesto. Siamo riusciti ad arrivare fino alle mitiche 400 tonnellate. Per noi è stata una grandissima soddisfazione”. Da quel momento il Gruppo Bracco è lanciato nell’empireo delle grandi aziende familiari italiane. Nel 1963 il presidente della Repubblica Antonio Segni conferisce a Fulvio Bracco il titolo di Cavaliere del lavoro per i suoi meriti d’imprenditore. Viene premiata così l’intelligenza industriale espressa in scelte coraggiose e in capacità come quella di investire in azienda senza ricorrere a finanziamenti statali, contando solo sui propri mezzi. Ma viene premiato anche il forte impegno a favore dei giovani e della comunità. Un impegno che si è espresso anche in onore alle proprie indimenticate origini istriane: nel 1952, ad esempio, furono istituite borse di studio intitolate alla madre Nina Bracco Salata da assegnare a neolaureati giuliano-dalmati delle Facoltà scientifiche. Lo stesso Fulvio lo ricorda nel libro: “Le borse di studio intitolate a mia madre sono state la prima di varie iniziative da me sostenute negli anni per contribuire a tenere vive la cultura, la storia, le tradizioni della terra di origine della mia famiglia”. Nel 1969 per il cavalier Bracco è pronto un altro riconoscimento anche se costituirà ulteriore motivo di impegno: è nominato presidente 21


dell’Associazione Italiana dell’Industria Chimica. Bracco è stato presidente di varie società di diversa natura; a questo proposito racconta un fatto curioso: “La prima presidenza, e questo parrà strano, la ebbi a Trieste a sedici anni: assieme a qualche decina di ragazzi fondammo una società sportiva di calcio e in quella occasione decisero di affidarmene la presidenza”. Lo sport lo appassionava già da allora. Nella sua vita ha praticato un po’ di tutto, ma il suo cuore è rimasto legato più che mai al mare. Quel mare azzurro nel quale si confondeva come un puntino bianco all’orizzonte, mentre le sue figlie lo guardavano da lontano. Questa è la sua storia: la storia di un Uomo, di una Famiglia e di un’Azienda che hanno fatto grande l’Italia. I curatori

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12. Lambrate

1. Neresine

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13. Il Centro ricerche Eprova

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2. Trieste

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14. Un legame ideale sempre forte

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3. Katowice

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15. Il palco alla Scala

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4. Milano. Primi anni e liceo

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16. Viaggiatore instancabile

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5. L’Università a Pavia

17. La morte di mio padre

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6. Anita

18. Cavaliere del Lavoro

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7. “Lehrling” a Darmstadt

19. Non solo Lambrate

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8. Inizio in azienda 1934-1940

20. Gli incarichi associativi

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21. La ricerca

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9. Il matrimonio con Anita

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22. Iopamidolo

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10. Gli anni 1940-1945 La seconda guerra mondiale

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23. Ritorno a Neresine

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11. Il dopoguerra e la ripresa

24. Diana

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Un viaggio nella memoria


Un viaggio nella memoria

Neresine

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Questa non è la storia della Bracco. È un viaggio nella memoria. In un dedalo di ricordi, in cui il filo di Arianna è il legame ideale con le mie origini istriane e mi riconduce sempre alla mia amata Neresine, nell’isola di Lussino. Mi accompagnano mio padre e mia madre, che rivedo nella casa di famiglia a Neresine, poi a Trieste, e infine a Milano. E Nonna Anta, severa e un po’ incombente negli anni della mia giovinezza. Ma ero il suo prediletto. Non è lo scandirsi ordinato di giorni, di anni. Piuttosto, a volte, è un incalzare di avvenimenti; a volte, è un tornare a ritroso per riprendere un pensiero, un’emozione. Mi sono ascoltato e anche interrogato, raccontando di persone care, di amici, di luoghi amati, di lavoro, di momenti felici, e di momenti molto duri. A chi avrà avuto la pazienza – mi piacerebbe dire curiosità – di seguirmi in questo “viaggio”, vorrei essere riuscito a trasmettere i valori in cui credo e per i quali mi sono impegnato come Cittadino Italiano e imprenditore. 27


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Neresine

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Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, Sì come a Pola presso del Carnaro, Ch’Italia chiude e suoi termini bagna Fanno i sepolcri tutto il loco varo... Inferno, LX 112-115

Neresine, nell’isola di Lussino che si affaccia sul golfo del Quarnaro, in Istria. Lì sono le mie radici. Lì viveva la mia famiglia. Lì sono nato il 15 novembre 1909. Mio padre, Elio, era segretario comunale di Neresine e di Ossero, che si trova nell’isola di Cherso. 28

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

1.

Il porto di Neresine

Un ponte girevole collegava i due Comuni e le due isole, Lussino e Cherso, separate da un braccio di mare di soli 7 metri di larghezza, chiamato Cavanella. Della mia lontana infanzia un ricordo su tutti: un’emozione forte che ha lasciato in me un segno profondo e indelebile. È il ricordo di un fatto che è all’origine, anche, delle vicende che hanno portato la mia famiglia da Neresine a Milano. L’Europa stava precipitando nella tragedia della prima guerra mondiale. Ricordo ancora con nitidezza l’episodio, anche nelle voci. Una notte – saranno state le 2 o le 3 – fui svegliato da un insistente bussare alla porta di casa e sentii chiamare mio padre: “Elio, Elio!”. Era la voce del commissario di Pubblica sicurezza dell’isola di Lussino. Un po’ spaventato, udii mio padre chiedere: “Perché ti me vol arestar?”, e la risposta: “Elio, per alto tradimento”. Non c’era ostilità nella voce: il commissario e mio padre erano amici, ma il primo era un funzionario austriaco, l’altro uno tra i più impegnati irredentisti che si battevano per affermare l’italianità dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, terre allora sotto la dominazione dell’Austria. Tutta la mia famiglia si sentiva, “era” italiana e l’irredentismo si respirava intensamente in casa nostra, permeava la nostra vita. L’accusa di alto tradimento era stata mossa contro mio padre per i 30

Nonna Antonia “Anta” e nonno Marco

Elio Bracco nel 1907

suoi stretti rapporti con il cognato Francesco Salata. Fratello maggiore di mia madre – i Salata erano di Ossero –, era stato eletto deputato alla Dieta provinciale dell’Istria. Fervido e attivo irredentista, prima della guerra mondiale era riuscito a riparare in Italia, lasciando la moglie e la figlioletta a Trieste. Allo scoppio della guerra si metterà subito al servizio dell’Italia e verrà assegnato al Segretariato generale per gli affari civili presso il Comando supremo per la sua esperienza e conoscenza dei territori che si affacciavano all’Adriatico, della storia e dei costumi di quelle popolazioni. Lo zio Francesco Salata era dunque considerato dalle autorità austriache un traditore ed era ricercato. Con lui mio padre si teneva in costante collegamento. Da lui riceveva le notizie e le informazioni che riferiva poi agli irredentisti istriani, dalmati e fiumani. Che erano tanti: una intera popolazione, circa 400 mila persone. Da qui l’accusa di alto tradimento. Mio padre venne arrestato e portato nelle prigioni di Graz dove farà due anni di carcere duro e imparerà il tedesco e il russo. E iniziarono anche le vicissitudini della mia famiglia. Ma, prima di affrontarle, una parentesi: un richiamo, simpatico, alla mia nascita. “Fulvio è nato alle ore 15”: così è segnato in un cassetto nella nostra cucina a Neresine. Ci dovrebbe essere ancora, se non è stato distrutto tutto. Questo segnale era opera di zia Maria, sorella di mio padre, che considerava l’evento importante per la famiglia: mia nonna aveva avuto 14 figli, con me era nato il primo nipote. Il secondo è stato mio fratello Tullio. Il mio nome completo è Fulvio Marco Antonio, dal nome dei nonni paterni: Marco e Antonia. Essere il primo nipote era un titolo d’onore: a tavola mi toccava il posto alla destra di nonno Marco; poi venivano i figli: oltre a mio padre Eliodoro chiamato Elio, Marco, Maria, Nicola, Eugenio, Nunzia, Concetta, Nives, Aronne, Leone, Roberto, Ezio, Antonio, Lino. Mio padre era il figlio maggiore. Nonno Marco aveva iniziato la carriera di capitano di lungo corso, ma vi dovette rinunciare: nel naufragio del suo veliero durante una 31

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spaventosa tempesta, perse quasi la vista. Non poté più dedicarsi ai viaggi di mare ed ebbe in alternativa la possibilità di fare l’ufficiale postale a Neresine. Una vita ben diversa. L’ufficio postale gli venne affidato dal padre Giovanni, primo sindaco di Neresine, che molto si spese per il Comune: promosse, fra l’altro, l’istituzione della scuola elementare e dell’ufficio postale, che trovò collocazione al pianterreno della nostra casa. Nonno Marco era molto serio e molto religioso; non aveva però spirito d’iniziativa: lasciava fare alla moglie, la nonna Antonia, detta nonna Anta. Ritorno a mio padre Elio. Nelle carceri di Graz passerà due anni durissimi, ma non confesserà mai di essere irredentista: sarebbe stato come firmare la condanna all’impiccagione. Abbiamo avuto l’esempio di Nazario Sauro. Circa una settimana dopo l’arresto di mio padre, nel piccolo porto di Neresine arrivò un grosso rimorchiatore. A bordo soldati e poliziotti che arrestarono la mia famiglia e tutti i nostri parenti, proprio tutti, bambini compresi, per internarci in un lager in Austria. Da Neresine ci condussero a Fiume. Caricati su carri bestiame, fummo portati a Mittergrabern in Austria. Lì trovammo anche la moglie dello zio Francesco Salata, Ilda Mizan, con la figlioletta Maria. Come internati politici, e quindi sotto il completo controllo della polizia, vi rimanemmo due anni. L’internamento a Mittergrabern finì quando mio padre venne rilasciato dopo essere stato processato e giudicato non colpevole: non riuscirono a portare prove del suo “tradimento”. Mi raccontò poi che uscì dal processo con molta fortuna. Subito dopo la scarcerazione, gli misero la divisa militare austriaca: la destinazione era il fronte. “Se va al fronte, però, passa dall’altra parte” era la convinzione delle autorità austriache. “Visto che c’è qui anche la sua famiglia, lo mandiamo come aiutante nella lavanderia militare di Feldbach” vicino a Mittergrabern. Così fecero. E in quel momento noi diventammo confinati politici: dovevamo stare dove lavorava mio padre. A Feldbach, insieme a noi, c’erano quasi un migliaio di italiani. Liberi professionisti, medici, insegnanti, commercianti, impiegati. Tutti 32

1.

A sinstra: la cucina di Feldbach nel 1915 Un pensiero di Elio Bracco dal carcere di Graz ai figli Fulvio e Tullio, 1916

“Ai miei piccoli tesori Fulvio e Tullio con un mare di carezze soavi e coll’augurio vivissimo che giustizia si compia e ci sia presto ridata la perduta felicità!” Aff.mo papà Elio

A destra: il gruppo famigliare Bracco nel campo di prigionia in Austria. Seduti al centro Fulvio e Tullio

irredentisti. Che dimostrarono in mille modi la loro capacità organizzativa, il senso di solidarietà, la forza di tenere profondamente coesa la comunità. Così, ad esempio, venne organizzata una scuola interna italiana con insegnanti italiani. Le prime classi delle elementari io le feci a Feldbach, e molto bene. Tanto che, quando tornammo a Neresine alla fine della guerra, il direttore della scuola assegnò me e mio fratello rispettivamente alla terza e alla seconda classe, riconoscendo la buona preparazione avuta durante il confino. Gli anni a Mittergrabern e a Feldbach furono veramente difficili per tutti. A Mittergrabern mia madre diede prova di un coraggio straordinario. Come quando, in seguito a un incidente e a una conseguente infezione, dovette sopportare l’asportazione di una costola senza alcuna anestesia. Fu un’eroina. A operarla fu un chirurgo italiano internato, il dottor Cleva, che era di Lussinpiccolo. Aspettando la vittoria, che col passar del tempo vedevamo sempre più vicina, tutti noi per manifestare il nostro entusiasmo gridavamo “Viva Verdi!” (Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia), come facevano i patrioti italiani del Risorgimento. La guerra finì e fummo liberati. Era il novembre 1918. Rimessi su carri bestiame, iniziammo il viaggio verso casa: ciascuno tornava finalmente alla sua vita, al suo lavoro. Ma fu un viaggio compiuto in condizioni disastrose. Durò quasi dieci giorni, con molti rischi di finire in mezzo a scontri a fuoco, lunghissime fermate, anche di una giornata, senza poter scendere dal treno, perché in quei giorni quella che poi sarà la Jugoslavia si stava dila-

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niando nella guerra civile fra boemi, croati, serbi. Poi arriverà Tito e metterà tutti d’accordo… Quando ci sentimmo veramente liberi? Quando a Lubiana, scendendo dai carri bestiame, incontrammo il primo militare italiano: era un ufficiale. Fu il momento più commovente per tutti noi: mi metto anch’io coi grandi che vissero quella forte emozione. Ero un bambino, ma mi ricordo che tutti piangevano e abbracciavano l’ufficiale. Anche adesso, rivivendo quel giorno, provo la stessa forte emozione. “Viva l’Italia! Viva l’Italia!” era il grido di tutti. Tornati in Istria, mio padre fu nominato Commissario a Lussinpiccolo, che è più grande di Lussingrande. Gli altri paesi dell’isola erano Neresine, Chiusi, San Giacomo. Papà riprese anche la sua attività nell’impegno a ingrandire una grossa cooperativa di navi a vela: facevano la spola Lussino-Venezia trasportando legna da ardere e ritornando cariche di verdura e altre merci per la popolazione dell’isola. Andò avanti così fino al giorno in cui un professore della Scuola nautica pronunciò una frase offensiva – che non ricordo – nei confronti di mio padre. Come reazione, mio padre, incontrandolo per strada, lo colpì con un bastone e lo ferì. Conseguente manifestazione di protesta contro mio padre da parte degli studenti, compresi i miei zii. Sì, c’erano anche loro, perché tutti gli zii, per volere di mio padre, hanno frequentato la Scuola Nautica di Lussino, che con quella di Genova era la più importante d’Europa. Mio padre era un uomo molto intelligente, avveduto, sapeva che cosa era il sacrificio. Fece in modo che gli zii potessero avere una prospettiva di lavoro e di vita. Con il professore della Scuola nautica mio padre fece un grande sbaglio. E venne trasferito a Trieste. Degli anni trascorsi a Neresine subito dopo la guerra del 1915-18, i miei ricordi sono quelli di un ragazzino che frequentava la scuola e studiava, ma che appena poteva se ne andava per mare in barca a vela. La vela fu la mia prima grande passione. Noi avevamo una barchetta di 4 metri e mezzo, ma eravamo in sei a usarla: io e i miei zii. Io ero il suo più piccolo utilizzatore; mio fratello invece non era affatto amante del mare. Gli zii erano dei veri patiti della vela: dedicavano grandissime attenzioni alla nostra barca, le stavano 34

1.

La “Monella”

In barca a Neresine nel 1919

sempre intorno e la miglioravano continuamente. Quando c’erano loro io non potevo usarla. E nemmeno mi portavano con loro: “Tu sei piccolo, stai a casa”. Mi ricordo che per la rabbia tiravo dei sassi verso la barca che si allontanava, mentre gli zii per canzonarmi mi gridavano: “miss, miss” (“gatto” nel dialetto di Neresine). Così, dovevo approfittare dei momenti in cui gli zii erano a scuola o lontani per impegni. Tiravo su il fiocco e la vela e me ne andavo con la mia barchetta: si chiamava “Monella”. Un ricordo sempre mi accompagna. Tra l’isola di Lussino e l’isola di Cherso c’è il famoso tratto di mare: sembra quasi un lago. Lì andavo a bordeggiare e qualche volta mi è capitato, quando la vela proiettava la sua ombra sull’acqua, di vedere un pescecane nuotare stando in quell’ombra. Ma non mi impaurivo: picchiavo con un legno sul fondo della barca e il pescecane si allontanava. Non dimenticherò mai anche un episodio rimasto vivissimo in me per lo spavento che provai. Un giorno, vestiti alla marinara, io e mio fratello Tullio accompagnammo mio padre in una visita al convalescenziario Hajos di Cigale. Quella località era meravigliosa. Nessuna barca poteva entrare con il motore acceso, si arrivava solo a remi. Era una vista spettacolosa: acqua di tutti i colori, pini e pini a perdita d’occhio, ville bellissime. Per raggiungere Cigale usammo un sidecar: io e mio fratello nel carrozzino, mio padre sulla moto dietro al guidatore, che era un militare. Lungo la strada, che correva a filo del mare senza ripari, all’improvviso – e non ho mai capito perché è successo – finimmo in mare. Io e mio fratello eravamo bloccati dentro il sidecar capovolto, senza possibilità di uscirne. Per fortuna l’acqua in quel punto era bassa – circa mezzo metro – e il sidecar venne quasi subito sollevato. Ma passammo un momento di grande pericolo e di spavento generale. Abbiamo fatto ritorno a casa bagnati fradici e di motocarrozzino non si parlò più. 35

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Trieste

2 Il trasferimento a Trieste segnò una svolta nella vita di mio padre. Anche qui zio Francesco Salata ebbe un ruolo importante. Salata era una personalità di rilievo nazionale. Per l’opera da lui svolta al Segretariato generale per gli Affari civili presso il Comando Supremo venne nominato Prefetto del Regno.

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Alla fine della guerra partecipò alla Conferenza di pace di Parigi come addetto alla delegazione italiana. Il contributo della sua competenza sulle questioni adriatiche fu importante nelle trattative per la definizione dei confini tra l’Italia e lo Stato jugoslavo. Un episodio è stato spesso citato nella nostra famiglia in relazione a questo impegno dello zio. Le delegazioni americana e inglese, non sapendo che tra Lussino e Cherso ci sono solo 7 metri di mare, avevano deciso di far passare il confine proprio in quel braccio tra le due isole, convinte che la distanza fosse di qualche chilometro. Francesco Salata intervenne tempestivamente segnalando la reale ampiezza. Il confine fu così spostato e anche l’isola di Cherso venne a far parte dell’Italia. Con l’istituzione presso il Consiglio dei ministri dell’Ufficio centrale per le nuove province, a Francesco Salata fu affidata l’opera di coordinamento dei numerosi problemi collegati all’annessione delle terre adriatiche. Un compito particolarmente impegnativo e delicato, svolto in momenti politici molto difficili. Per l’impegno e le capacità dimostrati, Francesco Salata fu nominato Senatore del Regno. È con il suo appoggio che mio padre nel 1921 divenne Sottoprefetto di Trieste, che corrisponde al Viceprefetto di oggi. Durante questo incarico fu chiamato, come civile e per la sua conoscenza del tedesco e del russo, a far parte di due Commissioni interalleate incaricate della definizione dei confini tra gli Stati dopo la fine della prima guerra mondiale. Negli anni di Trieste mia madre divenne per me e per mio fratello Tullio la figura di assoluta preminenza. Ero un ragazzo, ma mi rendevo conto di quanto lei contasse nella vita di tutti noi. Per i suoi nuovi incarichi mio padre poteva tornare a Trieste soltanto per alcuni giorni durante l’anno. Lo vedevamo, sì e no, una volta al mese. La famiglia era così sulle spalle di mia madre. 38

2.

Giovanna “Nina” Salata nel 1907

La Commissione interalleata

Ci seguiva e ci guidava in tutto. Il ricordo che ancora oggi ho di lei è tenuto vivissimo da un affetto, da un amore “al di là del solito”, come amo definire questo mio sentimento. Mia madre si era sposata giovanissima. Si chiamava Giovanna, ma per tutti era Nina, Ninetta per mio padre. Era l’ultima figlia dei Salata di Ossero, quindi la “bambina” della famiglia. Tanto che, prima del matrimonio, il fratello, lo zio Salata, volle che andasse da lui, a casa sua a Trieste, perché apprendesse bene i compiti della padrona di casa. Sono tutte cose che mia madre ha fatto poi con tanto amore, con tanta dedizione. Era di una bontà infinita, generosa nei rapporti umani, serena nei giudizi, sempre pronta ad aiutare il prossimo. Ma sapeva anche prendere decisioni, responsabilità che sarebbero dovute essere invece di mio padre. Non smetterei mai di parlare di mia madre. Per me era un angelo, che mi ha sempre protetto e continua a farlo. Ancora oggi, alla mia età, tutte le sere, prima di spegnere la luce, le rivolgo il mio pensiero. Non ci penso nemmeno a fare un confronto con mio padre. Lui era deciso, burbero, con molte qualità, sì, ma sapeva anche essere duro, a volte durissimo. Questo suo carattere è però stato positivo e importante per me: mi ha temprato, mi ha preparato ad affrontare i momenti difficili della vita e del lavoro. Però, ripeto, chi si occupava di me e di Tullio, seguendoci e spronandoci negli studi, era mia madre. E ci sopportava: eravamo due maschi che non era facile tenere, soprattutto Tullio, un po’ discolo e con poca voglia di studiare. 39

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A Trieste studio e sport hanno riempito la mia vita. Ho frequentato le scuole tecniche; poi l’esame di ammissione al liceo scientifico nel 1924, e l’iscrizione al “Guglielmo Oberdan”, dove ho fatto i primi tre anni. Le superiori le concluderò a Milano. Da bambino a Neresine sognavo di diventare capitano di lungo corso, ma arrivato a Trieste ci fu poco da fare. Mio padre, quando si trattò di frequentare il liceo, mi fece un discorso: “Fulvio, quando avrai finito il liceo farai il segretario d’albergo”. Testuale: “Ti farà un corso breve per segretario d’albergo e vai per quella professione lì”. “Mi in albergo? – dissi. – Ma mi no me sento de farlo”. “Ti te farà quel che voio mi. E basta, finito”. Le cose, poi, andarono diversamente. Come studente non ero il primo della classe, ma studiavo. Qualche volta provai anche l’emozione di marinare la scuola: mete preferite, mie e dei miei compagni, i bar dove si giocava a bigliardo e un cinemino di periferia per vedere i film sugli indiani o su Sandokan, che erano la mia passione. Naturalmente, queste assenze ingiustificate finivano sulla pagella ed erano guai, con grandi sgridate da parte di mio padre. Non ero particolarmente attratto dalle materie umanistiche, in latino qualche volta zoppicavo; prediligevo decisamente le materie scientifiche: sono sempre stato curioso di sapere il perché e il come. Studiavo con interesse matematica, geometria, scienze; il disegno invece non era proprio il mio forte. Lo sport occupava una buona parte delle mie giornate triestine. Giocavo a calcio: con le scuole e con l’Unione Sportiva Triestina. Nella Triestina facevo parte dei “boys”: disputavamo le partite subito prima degli incontri importanti; io ero mezzodestro, mio fratello ala destra. Il calcio, però, era per me di secondaria importanza. Ero un ragazzino quando il figlio del portiere di via Belpoggio 4, dove la mia famiglia era andata ad abitare a Trieste, incontrandomi un giorno mi domandò perché non frequentassi la Ginnastica Triestina. Questo fu il dialogo: “È qui vicino – mi disse.– Vieni, così impari a nuotare”. “Ma io so nuotare e andare a vela da solo”. “Sì, ma è ben diverso dire io so nuotare e saper nuotare veramente per le gare. Così è anche 40

2.

Tessera di Fulvio Bracco dell’Unione sportiva triestina

per la vela. Alla Ginnastica Triestina ti insegnano veramente tutto”. Non ci fu certo bisogno di spronarmi a seguire quel consiglio. Insomma, l’acqua mi ha dominato. Sempre. Era bellissimo la domenica, quando mio padre non c’era, e soprattutto d’estate. Ognuno portava il suo pacchettino con la colazione; prendevamo la yole della Ginnastica Triestina e vogavamo da Trieste all’Istria, ci fermavamo in qualche insenatura e lì facevamo il bagno. Giornate meravigliose! Poi il nuoto. Partecipai anche alla Coppa Scarioni (si disputava già allora): venivano selezionati i migliori in tutta Italia per portarli poi alla finale. Io nuotavo i 400 metri stile libero (non c’erano ancora i 100 sl) e una volta entrai anche in finale, arrivando 4° o 5°. Tanto che la Ginnastica Triestina mi acchiappò subito proponendomi di gareggiare per loro: “Con noi imparerai bene. Vedrai che con il nuoto farai carriera”. Un mio exploit fu per me motivo di grande orgoglio: in una gara feci la traversata del Golfo di Trieste, da Barcola a Sant’Andrea. Una maratona di nuoto durissima, ma che soddisfazione fu portarla a termine! A Trieste feci ancora vela, ma il canottaggio ebbe la preminenza.

A scuola a Trieste nel 1926 La squadra di foot-ball del liceo “G. Oberdan”, 1926

I partecipanti a una gara di nuoto al lido di Venezia

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TRIESTE


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2.

Avrei da raccontare tantissimo dei miei anni di studente triestino. Ancora sorrido riandando col pensiero ad alcuni momenti. Come il “rito” del primo giorno delle vacanze a Neresine, dopo la fine dell’anno scolastico. Si arrivava alla sera da Trieste – io, Tullio e gli zii Roberto, Antonio, Leone ed Ezio – e la mattina seguente nonna Anta, con una bottiglia di purgante Pagliano, che era un po’ forte, entrava nella stanza dove tutti e sei noi dormivamo, tirava via le lenzuola ed esaminava meticolosamente, centimetro per centimetro, i nostri corpi, poi, costatato che tutto era “in ordine”, ci propinava un’abbondante porzione. Subito dopo si finiva nelle mani del nonno, che, vicino al pozzo, all’ombra della casa, ci rapava a zero. Sempre in tema di vacanze, un’avventura sul mare fece correre un brutto rischio a me e a zio Ezio. Degli zii, soltanto Ezio vive ancora, in Brasile; è due anni maggiore di me. Io e lui ci eravamo messi in mente di fare un giro delle isole di Lussino, Cherso e Sansego. Di questa nostra “crociera” avevamo messo al corrente solo nonna Anta, la quale aveva però espresso tutta la sua contrarietà. Noi comunque non abbiamo avuto esitazioni.

Fulvio Bracco in gita a Sansego

In crociera con la “Monella” nel 1928

La “Santa Maria”

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Vestiti di tutto punto, giacca e pantaloni eleganti, abbiamo preso un gozzo – che ha fiocco, vela e remi – e siamo partiti trionfanti. Prima tappa a Cigale, dove abbiamo incontrato e fatto amicizia con sette sorelle di Bergamo trascorrendo con loro una bella serata. La mattina seguente abbiamo ripreso il mare. Eravamo in navigazione con un magnifico tempo, un sole splendente, la vela e il fiocco su. All’improvviso zio Ezio grida: “Giù la vela! Giù la vela!”. “Cosa c’è?” chiedo io stupito. “Giù la vela, non vedi?”. Mi volto e vedo là in fondo come un muro che si avvicinava. Era la bora: tutto schiuma, tutto nero. Il cielo si è coperto. E poi questo vento ci ha preso di poppa. Non avevamo nessun mezzo per difenderci, eravamo anche senza motore perché il gozzo è solo a vela. Io e lo zio tenevamo tutti e due il timone, tanto forte era il vento che ci portava. “Se riusciamo a passare a Sansego – dice lo zio – e a buttare una cima se ci vedono, siamo salvi; altrimenti andiamo dritti fino ad Ancona, se tutto ci va bene”. Significava attraversare l’Adriatico, con i grossi pericoli che comportava. Abbiamo visto da lontano il molo di Sansego, che è un’isola di sabbia dove, cosa eccezionale, cresce l’uva e fanno il vino bianco. Come siamo arrivati, a una velocità spaventosa, io, che avevo preso una cima, sono riuscito a lanciarla. Ci avevano infatti visto e tutta la gente era sul piccolo molo. La cima è stata afferrata e legata e noi siamo riusciti a cavarcela: sani e salvi. Siamo rimasti tre giorni a Sansego ad aspettare che la bora cessasse; dormivamo sottocoperta nel piccolo riparo offerto dal gozzo. Questa bravata ha avuto le sue conseguenze. Mio padre era arrivato nel frattempo da Trieste a Neresine e aveva chiesto dove eravamo io e lo zio. Saputo della “crociera”, si è preoccupato moltissimo: “Come! Con questa bora! 43

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Dove saranno? Saranno annegati!”. Così ha pregato la Guardia di Finanza di andare con il motoscafo alla ricerca di quei due “malvagi scapestrati” come ci ha definito. Ci hanno trovati che eravamo in navigazione, perché nel frattempo avevamo allegramente ripreso il mare. La lavata di capo che prendemmo è rimasta memorabile. Siamo stati rimorchiati con la barca a Neresine e per tutte le vacanze non abbiamo più osato fare niente. Per di più il gozzo non era nemmeno nostro: ce lo eravamo fatti prestare da un pescatore. Non avevamo infatti preso “Monella” perché troppo piccola e senza un riparo per riposare. Fu un’avventura indimenticabile. Sempre a Trieste risale la prima “presidenza” della mia vita. Per poter partecipare come squadra – i “Falchi azzurri” – a un torneo di calcio costituimmo una società. Eravamo tutti studenti e furono i miei compagni a nominarmi presidente con voto segreto. Poi, nella mia vita di presidenze ne ho fatte fin troppe! La squadra di calcio non brillò per i risultati e la società finì in niente. Ma ricordo bene i miei compagni. Tra loro c’era Nino Nutrizio: era dalmata, di Traù; divenne mitico direttore de “La Notte”, diffusissimo quotidiano milanese del pomeriggio. E durante il primo anno di liceo il pugno che tirai a un compagno mandandolo a sfondare con la testa un vetro. Meno male che ruppe solo il vetro e non anche la testa. Mi aveva detto: “Sta’ zitto croat!”. Dell’incidente venne informato il preside, che mi convocò e stigmatizzò la mia reazione. “Ma come! – esclamai – croat a me! Ma se più italiani di noi istriani non c’è nessuno!”. Non sapevo che “croat” era ormai entrato nel linguaggio comune per indicare una persona ostinata, di testa dura! Mi presi tre giorni di sospensione. Ho dovuto tornare a scuola accompagnato da mio padre, che per punirmi ha usato la cinghia. 44

2.

In gita con la famiglia

Momenti spensierati a Neresine

Quanti momenti felici, spensierati. Ma non posso dimenticare la profonda impressione e la preoccupazione con cui vissi la situazione politica che nel dopoguerra, come nel resto dell’Italia, si venne a creare anche a Trieste. A Trieste alla fine del conflitto mondiale ci fu un entusiasmo per l’Italia che non si può descrivere. Gli italiani occuparono subito la città, furono accolti con grandi manifestazioni di gioia. Il primo ad arrivare fu il cacciatorpediniere “Audace”. Il molo a cui attraccò gli fu dedicato e porta ancora oggi il suo nome. Poi – come in tutto il Paese – la situazione cominciò a deteriorarsi. I miei ricordi di quei giorni sono manifestazioni di piazza, gruppi di facinorosi che imperversavano, guardie regie che caricavano. Una situazione pericolosissima: divenne anche rischioso muoversi in città, fare una semplice passeggiata.

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TRIESTE


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Katowice

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Nelle due Commissioni interalleate mio padre venne chiamato poco tempo dopo la sua nomina a Sottoprefetto. Il suo primo impegno fu con la Commissione interalleata per i confini tra l’Italia e l’Austria e tra l’Italia e la Jugoslavia. Conobbe, in quella occasione, un maggiore di cavalleria italiano, Alberto Pisa. Concluso l’incarico, mantenne vivo il rapporto di amicizia con Pisa e con sua moglie, una ragazza austriaca, tanto che lo vorrà tra i sindaci della società costituita a Milano con la Merck. 46

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3.

Per le capacità di cui dette prova in quella prima Commissione, mio padre venne successivamente chiamato a far parte della Commissione interalleata per le questioni di confine tra Polonia e Germania. La Commissione aveva sede operativa a Katowice, allora città tedesca. A Katowice mio padre fece l’incontro decisivo per la sua vita e per quella della nostra famiglia. Fu infatti in questa città che si crearono i presupposti per l’avvio, in seguito, dell’iniziativa imprenditoriale sulla quale io ho poi costruito quella che diventerà la Bracco. Perché c’è sempre stata in me la volontà di raggiungere ben precisi obiettivi, con un ottimismo singolare che ancora oggi mi invidio.

Al centro in abiti civili Elio Bracco

Katowice: la Commissione interalleata per le questioni di confine tra Polonia e Germania

Anche nel suo nuovo incarico a Katovice mio padre si impegnò a fondo: era uno che non si tirava indietro; era intelligente, molto sveglio, spavaldo a volte. Ma era anche un grande distratto. Ad esempio, non riuscì mai a prendere la patente di guida. Tentò a Katowice e finì dentro un negozio. Tentò, anni dopo, a Milano, addirittura tre volte: non ci fu niente da fare. L’esame di guida si svolgeva nel Parco. Lì c’erano piccole salite e canaletti per convogliare le acque: mio padre, nel fare le manovre richieste dall’esaminatore, vi finiva regolarmente dentro. Nell’attività della Commissione interalleata a Katowice erano compresi i rapporti con le banche: c’erano infatti anche questioni e pra48

tiche finanziarie da trattare. Proprio in una banca, la Dresdner Bank, nacque l’amicizia che per mio padre contò moltissimo. Per il lavoro che svolgeva, conobbe infatti il direttore di questa banca, simpatizzò con lui. Tanto che, frequentandosi negli anni, essi divennero come fratelli. Il direttore si chiamava Bernhard Pfotenhauer. Era berlinese. Una persona molto severa. Nei due-tre anni in cui mio padre rimase a Katowice i rapporti si fecero via via più intensi, anche tra le nostre due famiglie: mia madre con la signora Hugo Pfotenhauer, io e mio fratello con le due figlie. Tra noi si creò un profondo legame. Che tale restò anche dopo che mio padre fece definitivamente ritorno a Trieste. Così, ad esempio, Pfotenhauer mandava moglie e figlie a trascorrere l’estate da noi a Trieste. Io ero sempre invitato tre-quattro giorni a San Remo ospite di Pfotenhauer: aveva per me una simpatia particolare; ero appena uno studente, ma lui vedeva in me un ragazzo di buone promesse e che perciò lo interessava. Mentre mio padre era ancora a Katowice, Bernhard Pfotenhauer lasciò la Dresdner Bank per diventare direttore generale della Merck: logico passaggio dalla finanza all’industria. La Merck già a quei tempi era una grande società farmaceutica, con sede a Darmstadt. Aveva a capo quattro Merck – due fratelli e due cugini dei due fratelli – : Wilhelm, Karl, Fritz e Louis. Nei nostri archivi c’è tutta la dinastia della famiglia Merck. Che cominciò da una farmacia: “Engel Apotheke”, “Farmacia dell’Angelo”, così si chiamava. In quella farmacia i Merck fecero il loro primo prodotto farmaceutico. Naturalmente parlo di alcuni secoli fa! Un giorno, in una delle sue visite a Trieste, a mio padre tornato a fare il Sottoprefetto, Pfotenhauer disse: “Tu cosa perdi tempo qui? Cosa fai lì, dietro quella scrivania?”. 49

KATOWICE


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3.

La farmacia Merck, XVII secolo

Il colloquio che seguì si svolse in questi termini: “Sai, io lavoro: polizia, tribunale…”. “Sono tutte perdite di tempo. Perché non prendi, invece, la nostra rappresentanza di Milano?”. “Di che cosa?”. “Dei farmaceutici”. “Ma io non so neanche che cosa è una specialità medicinale! Conosco una medicina solo quando me la fanno prendere. Non so assolutamente nulla del settore”. “Ma questo non vuol dire niente! Noi ti mandiamo la merce finita. Tu prendi 4-5 propagandisti (non 300 come è oggi), ti diremo noi quanti, laureati in farmacia, in chimica o in medicina, i quali – secondo uno schema che ti daremo noi – andranno dai medici a presentare le nostre specialità, che non sono conosciute in Italia. E comincerai a vendere. È così che devi iniziare! Per quanto ti conosco, sei capace di fare qualunque cosa. Quindi penso che potresti essere tu il nostro uomo di Milano che rappresenta la Merck in Italia”. I quattro Merck rappresentavano la famiglia che aveva fondato l’azien50

Il giovane Fulvio Bracco nel 1929

da di Darmstadt, ma era Pfotenhauer che faceva tutto, occupandosi come direttore generale in particolare della parte finanziaria. Pfotenhauer rimase alla Merck fino al 1945, cioè fino alla occupazione di Darmstadt da parte degli Alleati: americani, inglesi, francesi. La sua vita finì tragicamente con un suicidio. La Merck venne requisita dagli Alleati: l’azienda fu accusata di avere prodotto ossigeno, durante la guerra, per i sottomarini tedeschi. Era vero: però non lo aveva prodotto a Darmstadt, ma nella Selva Nera. Pfotenhauer si tolse la vita avvelenandosi con tutta la famiglia. Sopravvissero una figlia e un nipotino. Fu una tragedia. Per tornare alla proposta fatta da Pfotenhauer a Trieste, mio padre non ci pensò molto e nemmeno ne discusse con la mamma. Non era certo il tipo che consultava la moglie. Grande lavoratore, ci teneva a migliorare, ad andare sempre più avanti. Nella proposta di Pfotenhauer vide una nuova strada da percorrere, una opportunità da cogliere, e accettò. Era un rischio che poteva affrontare anche perché i finanziamenti erano garantiti dalla Merck. Così mio padre lasciò l’Amministrazione pubblica e diventò imprenditore. Ripensando all’esito di quel colloquio e alla rapidità e al coraggio di mio padre nelle decisioni, provo ancora oggi la grande ammirazione che ho sempre avuto per lui: perché quello che faceva era tutto giusto. Tranne in un caso: quando andò in Borsa e comprò delle azioni della Birra Dreher, che qualche mese dopo fallì e lui perse tutti i quattrini. E da quel momento mi disse: “Ricordati, in Borsa non andarci mai”. Mio padre si trasferì a Milano. Il 1° giugno 1927 venne costituita la Società Italiana Prodotti E. Merck. Da quel momento i rapporti con i Merck divennero sempre più stretti e interessanti.

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FULVIO BRACCO

Milano Primi anni e liceo

Per la sede dell’azienda mio padre trovò i locali in uno stabile di piazzale Susa – al numero 10 – e per la società con la Merck ricercò la collaborazione di avvocati ed economisti di altissimo livello professionale. Tra loro, il notaio Pietro Smiderle, l’avvocato Alfredo Amman e il dottor Guido Rossi, economista di fama internazionale amico di Amman. 52

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Smiderle, Amman e Rossi sono tre persone che non potrò mai dimenticare: professionisti di grande autorevolezza e correttezza, sono stati vicini a mio padre e a me anche dopo la guerra del 1940-1945. Lo stabile di piazzale Susa era una bella costruzione, lo è ancora adesso. Una parte confinava con il numero 46 di Viale Campania, dove, per ampliare l’azienda, vennero presi il seminterrato e lo scantinato. Mio padre iniziò l’attività organizzando innanzitutto la parte commerciale: con l’importazione di prodotti Merck, con la propaganda, con la vendita attraverso i grossisti. Tre anni dopo, nel dicembre 1930, la società decise di modificare la propria denominazione in Italmerck SpA; nello statuto venne inserito che l’attività sociale non era limitata ai soli prodotti della Merck. Un passaggio importante per la giovane azienda, che l’anno successivo, con l’acquisto di un stabile in via Renato Fucini 2 di proprietà delle Distillerie Italiane, si trasferì in una sede più ampia e adeguata ai piani di sviluppo. Nei primi anni l’attività produttiva era quasi niente, soltanto piccoli confezionamenti. Adagio adagio, dai 17 dipendenti dell’avvio dell’azienda si arrivò, in Renato Fucini, a 85, dopo che ero giunto io a insegnare bene agli operai la parte galenica, cioè come si facevano le

Fulvio Bracco sul Duomo di Milano nel 1930

Professori e compagni del liceo scientifico “Vittorio Veneto” di Milano, 1929 I dipendenti della società Italmerck nel 1931

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compresse e i confetti, come si riempivano le fiale e i flaconi e così via. Perché io lo avevo imparato in Germania, andando a “farmi le ossa” alla Merck prima da studente universitario, poi subito dopo la laurea. A Milano, la mia famiglia andò ad abitare in corso Plebisciti 3, in un palazzo di proprietà di Bonomi. Alcuni anni dopo ci trasferimmo nella nuova sede dell’azienda in via Renato Fucini, dove una parte dello stabile venne riservata a nostra abitazione. Al primo impatto con la città noi ragazzi, sradicati da Trieste e dal mare, rimanemmo impressionati, anzi un po’ spaventati, da Milano. In particolare dal traffico: a Trieste nemmeno ce lo immaginavamo fosse così. Piazza del Duomo fu per noi una sorpresa: non c’era il sagrato di oggi, tram e auto vi transitavano in continuazione. Comunque il contatto con Milano fu per me subito interessante. Un poco alla volta tutto divenne più semplice, i rapporti più facili. Bastava non essere timidi e avere buona volontà. Naturalmente io e mio fratello continuammo gli studi iniziati a Trieste. Io mi iscrissi al liceo scientifico “Vittorio Veneto”; Tullio al liceo classico “Manzoni”. La scuola, con i compagni e i professori, facilitò il mio inserimento nella vita milanese. Gli insegnanti si interessavano degli allievi credo più di adesso; il professore di ginnastica era il preferito: ci faceva fare cose bellissime. Per recarmi a scuola prendevo il tram numero 23, che attraversava mezza Milano: passava in piazza del Duomo, per andare a finire in via Lamarmora, da lì poi io raggiungevo via Commenda dov’era allora il liceo. Quante volte sono balzato sul predellino del tram e, stando aggrappato, sono andato a scuola senza pagare il biglietto! A ogni fermata saltavo a terra per poi risalire appena il tram si rimetteva in moto. Ma non lo facevo solo io: molti studenti adottavano questo sistema. Il bigliettaio o non vedeva o, più probabilmente, fingeva di non vedere. 55

MILANO


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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Fulvio Bernardini nel 1975

Fulvio e Tullio Bracco nella casa in Corso Plebisciti a Milano

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Ho avuto anche degli amici, che ho poi perso di vista. Al contrario delle mie figliole, che hanno mantenuto i contatti e anche l’amicizia con alcune compagne di scuola, io non ho più frequentato i colleghi di liceo. Anche perché le strade di ciascuno di noi, molto diverse, ci hanno allontanati. Ricominciai a fare sport: football e, con la ProPatria, società milanese di atletica leggera, lancio del peso. Con buoni risultati nel peso, tanto che l’allenatore mi disse: “Vedrai che diventi un campione”. Sennonché il campione si ammalò: paratifo. Un mese di letto: allora il paratifo era una malattia il cui decorso durava qualche settimana. La malattia mi debilitò talmente che mi impedì di continuare a fare sport. Mi limitai a un po’ di calcio a livello studentesco, cioè partite tra licei. A questo proposito mi fa sorridere ancora il ricordo di un episodio. Si stava giocando una partita di calcio tra licei: “passa la palla”, “passa di qua”, “passa di là”, “goal” e cose del genere si sentiva gridare. E tra le grida anche “forza Fulvio!”, “forza Fulvio!”. Io mi sentivo gasato per quegli incitamenti che ritenevo indirizzati a me. Ma mi ero illuso: l’oggetto di tanto entusiasmo era Fulvio Bernardini, che faceva il centromediano nella squadra di liceo avversaria. Bernardini divenne poi un campione del calcio italiano e un noto allenatore. A parte le parentesi sportive, conducevo una normale vita di studente. Aspettavo le vacanze estive, che trascorrevo sempre a Neresine. Passarono i due anni di liceo e arrivò la maturità: rimandato in latino, esame che a ottobre superai bene. Ma lì soffrii, avevo una paura matta di essere bocciato. Mio padre non mi disse niente: lui voleva solamente vedere i risultati. Partecipava poco ai nostri impegni di studio. Va però riconosciuto che papà era troppo impegnato nella sua nuova attività e doveva tenere stretti contatti con i Merck. Con Pfotenhauer c’era uno scambio continuo: papà andava spesso a Darmstadt per discutere i problemi; a volte era Pfotenhauer a venire a Milano. Anche il direttore amministrativo della Merck fece alcune visite alla nostra azienda in Renato Fucini e fu ospite a casa nostra. Per me e mio fratello la sua venuta era un evento molto atteso: mentre eravamo a tavola, ogni volta che nominava Louis Merck, il direttore scattava in piedi, quasi sull’attenti. Per me e Tullio era un vero divertimento! 57

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FULVIO BRACCO

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Italia con il bel tempo e il bel sole, che in Germania non è proprio che li vedano. Un’estate fu nostro ospite Karl Merck. Viaggiavamo con un marinaio-capitano, un sardo molto bravo. Una notte in coperta vicino a me venne a sedersi Karl Merck. Era una notte meravigliosa. La barca andava a vela lentamente, c’era appena una brezza. Guardavamo il cielo tutto stellato. “…Mi spiace che sono stanco e che il dire in stile bello non sia il mio forte, ma tutto intorno è così bello e così nuovo che per godere di più non si fa altro che tacere…”. A un certo momento mi volto verso Karl Merck e lo vedo con le lacrime agli occhi. Guardando il cielo, piangeva angosciato: era il pensiero del figlio, l’unico maschio, caduto nel 1945 con il suo aereo nei cieli italiani l’ultimo giorno di guerra. Provo ancora oggi la stretta al cuore e la commozione di quella notte. Dei miei primi anni a Milano c’è anche il ricordo di un episodio un po’ singolare: segnò il nascere di una fede sportiva che ha accompagnato tutta la mia vita. Una domenica, mentre ero in casa, udii un vociare che si faceva sempre più forte e incalzante. Incuriosito, uscii di casa e andai a vedere. Scoprii che era in corso una partita di football dell’Internazionale sul campo di via Goldoni: la squadra nerazzurra allora giocava lì. La domenica successiva – era il 30 giugno 1930 – andai a vedere la mia prima partita di calcio a Milano. Proprio durante quella partita crollò una tribunetta in legno; ci furono dei feriti. Quel giorno diventai un fedelissimo interista.

A sinistra: lo yacht “Cherie” A destra: Elio Bracco sullo “Cherie”

La nostra azienda continuò a crescere e assunse via via una certa importanza. E man mano che mio padre sviluppava il suo lavoro anche i rapporti con la famiglia Merck si facevano sempre più cordiali e amichevoli. Un’amicizia che è durata fino al 1999, cioè fino all’anno in cui abbiamo acquistato le azioni Bracco detenute dalla Merck. Ma gli azionisti tedeschi non erano più gli amici che io e mio padre avevamo conosciuto e frequentato. Il nostro interlocutore è stato infatti il professor Joachim Langmann, che aveva sposato una Merck. Laureato in fisica, era un esponente dell’industria tedesca, molto ascoltato a livello governativo. Intelligente, sempre molto convinto delle sue decisioni, nelle relazioni con la Bracco ha rappresentato e fatto gli interessi della Merck. Però fra noi i rapporti sono sempre stati di cordialità. Della lunga amicizia con i Merck conservo molti ricordi. Uno, in particolare, tra i più toccanti. Mio padre, dopo essersi trasferito a Roma nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale, aveva acquistato una grande barca a vela: cinque-sei posti letto, due alberi, due fiocchi. Era una bella barca, che mio padre teneva a Fiumicino. Su questa barca si andava in crociera d’estate. Veniva sempre invitato qualcuno dei Merck oppure i figli o i nipoti: chi di loro poteva trascorrere con noi qualche settimana in 58

L’Ambrosiana-Inter nel campionato 1933-34

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MILANO


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

L’Università a Pavia

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Dopo l’esame di maturità, ho scelto per l’Università la Facoltà di chimica e farmacia. Mia intenzione era di andare a Pavia. Sono rimasto invece per il primo anno a Milano alla Facoltà di chimica industriale perché gli esami erano i medesimi della Facoltà di chimica e farmacia di Pavia. 60

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Ho, tra l’altro, evitato in questo modo, almeno per il primo anno, i viaggi quotidiani in treno. Sono passato a Pavia nel secondo anno. Gli studi universitari vanno bene, anche perché mi appassiono alla chimica, tanto che sceglierò la tesi sperimentale invece di quella compilativa: cioè due anni di laboratorio per trovare il prodotto finito indicato dal professore. In parole semplici: seguiti anche da un assistente, si doveva arrivare alla sintesi e presentare il risultato al professore, il quale controllava se il prodotto era quello richiesto. Ricordo tutti i professori che ho avuto a Pavia. In particolare il professor Bernardo Oddo, preside della Facoltà di chimica e farmacia. Per la sua severità era molto temuto dagli studenti. Quando veniva in laboratorio, frequentemente controllava quanto si stava facendo. Un giorno – lui era forse di cattivo umore – guardò il mio lavoro poi, arrabbiatissimo, gettò a terra quello che avevo fatto dicendo che non andava per niente bene. Naturalmente non osai protestare, ma in cuor mio ero furibondo: “Ho lavorato dei mesi e lui guarda che cosa mi fa!”. Il professor Oddo mi riporta anche al mio esame di Stato. Dopo la laurea, nel 1933, ho subito affrontato l’esame di Stato, obbligatorio per esercitare le professioni di chimico e di farmacista. La domanda andava presentata presso la propria Università, ma la sede d’esame era esterna. Si aveva la possibilità di chiedere in alternativa due sedi. Io ho chiesto Roma e Torino; mi è stata assegnata Roma. A Roma sono capitato nelle mani del grande nemico-rivale del mio preside di facoltà a Pavia, appunto il professor Oddo. Il “nemico” era il professor Paolini. Io non ero al corrente di questa rivalità, altrimenti mi sarei ben guardato dal chiedere Roma come possibile sede d’esame. Quando ne sono venuto a conoscenza, mi sono preoccupato, temevo che l’inimicizia tra i due docenti potesse avere riflessi negativi sul mio esame. “Qui bisogna prepararsi molto bene” mi sono detto. Sono così rimasto due settimane a Roma chiuso in una stanza d’albergo vicino alla stazione a studiare senza concedermi una pausa. Ho studiato tanto intensamente e sapevo così bene le varie materie che a conclusione degli esami il professor Paolini, riuniti tutti coloro 62

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Fulvio Bracco in un momento di relax durante i suoi studi universitari

L’UNIVERSITÀ A PAVIA

che avevano sostenuto la prova, comunicando l’esito ha anche voluto fare una menzione speciale nei miei riguardi: “Il primo di tutti è il dottor Fulvio Bracco, allievo del mio collega e amico di Pavia, professor Oddo. Un allievo bravo e molto diligente”. È stata una grandissima soddisfazione per me. Paolini, poi, ha voluto incontrarmi per farmi i suoi personali complimenti. L’esame di Stato non era facile. Oltre al laboratorio, si faceva analitica, chimica-fisica e così via; c’era poi da affrontare il “tavolone dei professori”, ciascuno dei quali interrogava sulla propria materia. Era forse un esame ancora più difficile della laurea. A Pavia ho avuto modo di conoscere e di stimare un assistente del professor Oddo, il professor Filippo Ingraffia, che seguiva anche me nelle prove sperimentali per la laurea. Dopo il mio ingresso in azienda l’ho voluto con me e successivamente ho assunto anche suo figlio Piero come direttore tecnico del settore farmaceutico. Poi c’era il professor Mattei, farmacologo, molto bravo, da poco tempo in cattedra. Un bel giovane, molto ammirato dalle studentesse. Un docente tremendo era il professore di fisica, Campetti. Bocciava a tutto spiano; per di più, di fisica, c’erano due anni da fare. Lo studio è stato tanto, ma non sono mancati momenti di vita goliardica. Un anno, a Carnevale, per la sfilata dei carri abbiamo fatto il “car-

Fulvio Bracco, primo a destra, con alcuni compagni di corso

Le caricature dei professori al Carnevale

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FULVIO BRACCO

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L’UNIVERSITÀ A PAVIA

ro dei professori” della facoltà di chimica. Gli studenti che erano sul carro indossavano il camice e sul capo ciascuno aveva una grande testa in cartapesta e gesso, che era la caricatura di un professore. Io ero il professore di fisica Campetti e muovevo uno strumento che “mandava scintille” come il professore quando si arrabbiava. Abbiamo vinto a pari merito con un’altra facoltà. Premiazione e festeggiamenti al Teatro Frattini. Dal loggione gli studenti hanno bersagliato i professori in platea con oggetti di ogni genere. È stato un Carnevale bellissimo. I professori della facoltà, Mattei in testa, hanno addirittura voluto per ricordo le teste che li raffiguravano. Ci hanno dato un bel gruzzoletto. Abbiamo in tal modo recuperato quanto avevamo speso per le caricature, da me fatte appositamente preparare a Milano da un artigiano specializzato. Gli studi a Pavia mi hanno dato la possibilità di riprendere gli sport preferiti, soprattutto il canottaggio. L’occasione è venuta da una passeggiata lungo il Ticino. Ero in compagnia di alcuni colleghi di laboratorio, che come me preparavano la tesi sperimentale. A un certo momento vedo un outrigger (“otto con”) che si allena. Mi metto su un muretto lungo il fiume per segui-

Fulvio Bracco con i suoi “colleghi” in allenamento a Pavia

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I cannottieri durante un allenamento

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re meglio: “A Trieste vogavo – spiego ai miei colleghi un po’ stupiti. – Mi interessa vedere”. Osservo l’“otto” e dico: “Ma guarda un po’ come scappa di culo il numero 6” (cioè il carrello del numero 6 scappava e quindi non andava in perfetta sincronia con gli altri vogatori). C’è vicino a me un signore con cappello e occhiali che mi chiede: “Ma lei cos’è, uno studente?”. Alla mia risposta affermativa vuol sapere anche la facoltà, poi mi dice: “Ha perfettamente ragione su quello che ha detto”. “Meno male” rispondo. E lui: “Perché ha detto proprio così?”, “Perché ho vogato a Trieste con la Ginnastica Triestina“. Di rimando lui mi propone subito: “Farebbe una prova?”. “Dove?” chiedo. “Giù. Faccio scendere il numero 6 e metto lei. Vediamo”. Era l’allenatore dell’“otto con” del GUF di Pavia: “Adesso andiamo giù, le dò scarpe, calzoncini, tutto quanto serve”. Così mi sono trovato vestito e messo in barca. E ho ricominciato a praticare il mio sport prediletto: dal numero 6 sono finito, col tempo, al numero 2, che deve andare in perfetta sincronia con il capovoga. La prima regata in outrigger è stata a Torino contro l’Armida: eravamo indietro di mezza barca, poi abbiamo recuperato e vinto. Che emozione quella prima vittoria! Alcuni anni fa sono stato invitato all’incontro degli ex sportivi dell’Università di Pavia. A conclusione, il Magnifico Rettore ha voluto complimentarsi per i miei successi di imprenditore, chiedendomi anche di ricordare qualche episodio dei miei anni di università. Ho raccontato proprio il mio incontro con l’allenatore dell’“otto con”. È stato un successo personale. Dei protagonisti di quel tempo sono rimasto solo io. Con l’“otto con” del GUF abbiamo vinto più volte la “Coppa Curtatone e Montanara”, divenuta “Coppa del Duce”, tradizionale sfida tra l’Università di Pavia e l’Università di Pisa. Una gara durissima e avventurosa per le forti correnti, che si disputava alternativamente un anno sull’Arno, un anno sul Ticino. La prima volta – era il 1932 – il premio ci è stato consegnato personalmente da Mussolini. Per ritirarlo siamo andati in dieci a Roma (gli otto vogatori, il timoniere e il segretario del GUF di Pavia). 66

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L’UNIVERSITÀ A PAVIA

Ho partecipato a molte gare con il GUF di Pavia e molte regate ho fatto con la Canottieri Milano. L’allenatore del GUF di Pavia, un canadese, era stato campione del mondo nel singolo. Allenava anche l’“otto con” della Canottieri Milano. Quando io terminavo l’allenamento a Pavia, mi prendeva con sè sulla sua “Balilla” e mi portava alla Canottieri Milano dove proseguivo l’allenamento, in questo caso sul Naviglio, fino a quando non andammo all’Idroscalo. Con la Canottieri Milano ho fatto decine di regate, partecipando anche a campionati nazionali, con l’“otto con” o con altri equipaggi – “due con”, “quattro con” – o con lo skiff. Una regata indimenticabile è stata quella vinta proprio all’Idroscalo di Milano. In gara c’erano la Canottieri Milano, la Canottieri Adda, la Canottieri Livorno, la Canottieri Lecco e un altro “otto” che non ricordo. La Canottieri Livorno era reduce dalle Olimpiadi dove si era classificata seconda o terza. In una cornice di folla enorme ed entusiastica abbiamo fatto una gara fantastica, vincendola per un decimo di secondo. Ovazioni e giro d’onore. Abbiamo invece perso l’ultima gara che io ho disputato con la Canottieri Milano, a Intra. A Pavia ho partecipato alle gare organizzate dal GUF anche nel nuoto e nella vela.

A Torino, prima di una gara nel 1932

Gli otto vogatori del GUF di Pavia, ai Littoriali del 1932 a Roma

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Anita

6 Per andare a Pavia ogni mattina prima delle ore 8 dovevo essere in stazione a Milano. Si partiva dalla stazione vecchia, che si trovava dove ora c’è l’Hotel Palace. Quando racconto che la stazione ferroviaria era lì nessuno ci crede. Poi Piacentini farà la Stazione Centrale: un capolavoro.

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DA NERESINE A MILANO

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Nel 1945 hanno spaccato tutti i fasci littori per cancellare i simboli del fascismo. Con gli altri studenti universitari viaggiavo in 3a classe, in accelerato. Mio padre mi dava 5 lire al giorno: per pranzare e per quanto poteva essere necessario. Mangiavo, malissimo, in un ristorante per studenti. Questo andare e venire col treno ha favorito un incontro che per me conterà enormemente. In quei viaggi ho infatti conosciuto una studentessa: Anita Coppini. Anche lei era iscritta alla facoltà di chimica e farmacia a Pavia. Era la più bella ragazza dell’università. Anita però viaggiava in 2a classe. Facendo finta di nulla, io stavo in piedi nel corridoio della carrozza di 2a per poterla vedere. Poi, facendo laboratorio di chimica organica all’università – si entrava alle ore 9 e si usciva alle 13 – lei, alcune volte, mi ha chiesto un consiglio, un aiuto, su qualche suo problema. Era comunque un rapporto tra studenti che finiva lì, in laboratorio. Anita nel 1927

Anita con la sorella Merope

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Poi, un giorno perdiamo tutti e due il treno per Pavia. Lei mi vede e mi riconosce. “Cosa facciamo?” le chiedo. “Cosa vuol fare? Andiamo in sala d’aspetto”. È stata l’occasione per conoscerci un po’ di più. Il mio desiderio, ogni mattina, era di incontrarla in treno; non sapevo se lei condividesse questo mio sentimento – in seguito mi ha detto di sì –. Tutte le scuse erano buone per parlarle. Per esempio, sapevo che fumava come un turco. Così un giorno vado nel suo scompartimento di 2a classe e vedo che cerca le sigarette. Io, pronto, gliene offro una; non ero assolutamente un fumatore, ma avevo appositamente comperato un pacchetto di Camel e lo tenevo sempre con me. Anita mi ringrazia e mi dice: “E lei non fuma?”. “Sì, come no?” rispondo disinvolto. Accendo la sigaretta e subito comincio a tossire: “Lei non ha mai fumato!” mi dice. “Ha ragione” le confesso sincero. Così è cominciato un rapporto amichevole, fatto però solo di simpatia. Anita aveva la mia età, ma si è laureata un anno prima di me, con una tesi compilativa. Anche lei ha fatto successivamente l’esame di Stato, a Torino, superandolo brillantemente. Dopo la laurea, ci siamo persi di vista. 71

ANITA


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

“Lehrling” a Darmstadt

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Gli anni di università sono stati anni di sacrifici, non soltanto per l’impegno negli studi. Sono di quel periodo anche il servizio militare di leva, che ho potuto anticipare, e, successivamente, l’“apprendistato” alla Merck di Darmstadt. Per me, in quei cinque anni, non sono esistite le vacanze estive. 72

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FULVIO BRACCO

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Dopo essermi iscritto all’Università, ho aderito alla Milizia universitaria. L’ho fatto perché già appartenevo, per lo sport, al GUF di Pavia, ma soprattutto per l’innegabile vantaggio che quella adesione offriva. Si poteva infatti anticipare il servizio militare, continuando nel frattempo a frequentare l’Università. A quei tempi era impensabile che chi era uscito dal liceo non si iscrivesse ai corsi di allievo ufficiale; poteva, sì, fare il soldato semplice, ma questa scelta non era considerata consona agli studi fatti. Così, anch’io ho optato per la scuola allievi ufficiali. In breve, i dieci mesi di allievo ufficiale venivano svolti in due anni, divisi a loro volta in due periodi. Durante l’anno accademico, con la Milizia universitaria si seguivano lezioni teoriche ed esercitazioni di carattere militare. Tutte le domeniche mattina gli universitari della Milizia, divisi in manipoli, frequentavano l’Autocentro di via Arimondi, dove si facevano le esercitazioni. La parte teorica veniva svolta invece all’università, nel Rettorato, allora in via Roma. Le lezioni erano tenute di sera da ufficiali, due o tre volte alla settimana. Tutto questo avveniva a Milano, perché a Pavia non c’era un’analoga possibilità. D’estate, chiusi i corsi universitari, si indossava la divisa con le stellette e si andava per quattro mesi alla scuola allievi ufficiali. Al termine del secondo anno c’erano gli esami di sottotenente. Gli universitari che partecipavano a questi corsi, e che di conseguenza non potevano prepararsi per la sessione autunnale d’esami, avevano a disposizione, esclusivamente per loro, una sessione in febbraio. Inoltre per i successivi obbligatori sette mesi da sottotenente si aveva la possibilità di scegliere quando farli. Come corpo militare, avevo optato per l’artiglieria a cavallo, la cui scuola allievi ufficiali si trovava a Lucca. Così, per due anni ho trascorso le estati nella città toscana, facendo anche un mese e mezzo sotto le tende di campagna. Con i cannoni trainati dai cavalli si finiva per percorrere in lungo e in largo la Toscana. Ogni cannone aveva sei cavalli; quelli da tiro, che erano due, erano i più vicini al fusto. I primi quattro cavalli avevano abbastanza libertà di movimento; ero io, con i miei due cavalli da tiro, a condurre praticamente il cannone. Io avevo due cavalli da tiro tremendi. Una volta, mentre facevo brusca e 74

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striglia, uno dei due ha afferrato coi denti la bandoliera che portavo a tracolla e mi ha sollevato in aria. Le strade a quei tempi erano strette: con il cannone e i sei cavalli da condurre, ogni manovra diventava difficile; i danni a volte erano inevitabili. Diventato sottotenente, ho ripreso la solita vita di studente universitario, rinviando a dopo la laurea i sei mesi di servizio militare come ufficiale Ho però accolto la proposta di fare, ma solo la domenica, il capomanipolo istruttore all’Autocentro di via Arimondi. E sotto il mio comando di capomanipolo per le esercitazioni militari è capitato mio fratello Tullio, di due anni minore di me. Anch’egli aveva deciso di fare quanto avevo fatto io: Università-Milizia-scuola allievi ufficiali. Si laureerà poi in medicina.

Il sottotenente Fulvio Bracco in alta uniforme nel 1934

A sinistra: Fulvio Bracco con un commilitone A destra: con i compagni di esercitazione a Lucca

A cavallo durante un’esercitazione

“LEHRLING” A DARMSTADT

Tullio era però un ritardatario inguaribile. A casa dormivamo nella stessa camera. La domenica mattina sveglia presto, ma mio fratello si guardava bene dall’uscire con me: “Va’ avanti – diceva – che poi ti raggiungo”. Così si è sempre verificato: io puntuale all’Autocentro, lui sistematicamente in ritardo. E io, per punizione, comandavo all’“allievo Bracco” tre, quattro, cinque giri di corsa del campo. Siamo andati avanti così finché il centurione – che corrisponderebbe al capitano di oggi – non è intervenuto: “Ma Bracco cosa fai? È tuo fratello!”. E io di rimando: “Non tollero una cosa del genere!”. Allora il centurione mi ha fatto una proposta: “Senti, permettimi che io lo trasferisca a un altro manipolo”. Così è avvenuto. Comunque Tullio ha 75


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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Con la famiglia Merck a Darmstadt nel 1929

continuato ad arrivare in ritardo, e poiché era il fratello del “collega” il suo nuovo capomanipolo ha regolarmente chiuso un occhio. Gli anni di chimica e farmacia erano cinque. Se i primi due mi hanno visto impegnato nel corso di allievo ufficiale, gli altri tre hanno voluto dire vacanze estive passate in Germania alla Merck di Darmstadt come “Lehrling”, come “apprendista”, per conoscere tutti i cicli della produzione in una grande industria chimico-farmaceutica. Darmstadt è stata una scuola fantastica. Bisogna ritenersi fortunati ad avere avuto una scuola del genere. Veramente lì ho visto come vanno fatte le cose in una azienda, lì ho imparato tanto e bene. Poiché mio padre era amico di Pfotenhauer e conosceva i vari direttori, mi era stato preparato un programma ben preciso di passaggi nelle diverse funzioni. Iniziando proprio da operaio nel settore farmaceutico – facevo confetti –, dopo un paio di settimane sono passato capo-operaio, cioè sono stato messo a fianco del capo-operaio per imparare. Ogni quindicina ricevevo il cedolino con le ore di lavoro fatte e la paga. Sono salito pian piano a impiegato nei diversi settori: propaganda, parte commerciale, parte amministrativa. Tutto questo ha richiesto mesi. L’ultimo gradino è stato il laboratorio di ricerche, dove fra l’altro ho preparato e pubblicato, con l’assistenza del direttore del laboratorio, un lavoro sulla tropacaina. Questo mi è poi servito come te76

Darmstadt, 1929

“LEHRLING” A DARMSTADT

sina per la laurea. Insieme alla tesi sperimentale bisognava infatti presentare anche due tesine, per una delle quali mi è stato riconosciuto il lavoro fatto in Germania. A Darmstadt ogni venerdì dovevo presentare una relazione scritta sul mio lavoro settimanale al direttore scientifico, al quale facevano capo la ricerca e la propaganda: il dottor Loew. Il lunedì successivo lui mi chiamava, stava con me un paio d’ore, mi faceva domande, chiedeva spiegazioni e mi dava un suo giudizio su quanto avevo fatto. Poi chiudeva sempre il colloquio dicendo: “Lei però domenica non è venuto a Messa!”. Era una brava persona, molto religiosa, e si mostrava dispiaciuto che io non frequentassi la chiesa. Qualche volta, soprattutto nei primi tempi del mio lavoro alla Merck, l’ho accontentato e sono andato a Messa. Poi ho preferito dedicare la domenica a conoscere i dintorni di Darmstadt: piccole città, dove andavo in compagnia di ragazze, magari anche della Merck. A questo proposito non dimenticherò mai un episodio che mi ha molto scosso. Era appunto una domenica e di notte in compagnia di una ragazza stavo tornando a casa in auto percorrendo una strada tra i boschi. Era molto buio, quando all’improvviso davanti all’auto è comparso un cervo: al riflesso dei fari sembrava enorme, un elefante. Non sono riuscito a evitarlo e l’ho investito in pieno. Sconvolto, non mi sono fermato. La mattina seguente, andando alla Merck, ho fatto la consueta sosta al distributore di benzina. “Dottore, che cosa ha fatto, lei, ieri? Guardi, ci sono delle macchie di sangue” mi ha detto il benzinaio. Io avevo cercato di togliere i segni lasciati dall’incidente, ma le tracce erano rimaste. Ho allora raccontato quanto mi era successo, e lui: “Non dica niente a nessuno di un fatto del genere, lei sa come sono i tedeschi per gli animali!”. Era davvero una brava persona. L’ho incontrato dopo molti anni e ci siamo abbracciati. Nel secondo anno alla Merck mi hanno mandato in missione a Berlino per un mese. “Hai imparato il tedesco – mi hanno detto - conosci i nostri prodotti. Adesso vai nella filiale di Berlino dove conoscerai il direttore, tutti i vari dirigenti e assieme a un nostro informatore scientifico, laureato, andrai con lui a presentare i prodotti”. Così ho fatto, 77


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DA NERESINE A MILANO

e devo dire che potevo anche intervenire nella presentazione del prodotto al medico; ma me ne guardavo bene dal farlo: il tedesco lo sapevo, lo avevo anche studiato al liceo, ma certe sottigliezze non erano ancora nelle mie possibilità. Ripenso con piacere, ma anche con nostalgia, alla Berlino di allora: era un paradiso terrestre, pieno di verde; c’era da godere la natura e, come gioventù, molto da divertirsi. Al mattino stavo con l’informatore scientifico della Merck, poi a mezzogiorno e mezzo: ”ti saluto, ci vediamo domani”. E avevo tutto il mio bel tempo per godermi Berlino. Il lavoro alla Merck è stato anche l’occasione che ha favorito il nascere di una grande amicizia: quella fra me e Hans Harms. Harms era già impiegato alla Merck; come me stava imparando il lavoro in azienda. Ho fatto la sua conoscenza in tram. Alla Merck il lavoro terminava alle 16,15 e io prendevo regolarmente il tram, che era sempre affollato. Un pomeriggio, sul tram, vedo Harms che parla con alcune persone. Mi indica e sento che dice: “Quello lì è l’italiano protetto dal direttore generale”. Allora io lo guardo fisso e, in un tedesco che non sapevo ancora molto bene, gli dico: “Lei sta parlando di me!”. Harms accenna un “Ah, mi scusi” e io di rimando: “Guardi che io non sono qui per portarvi via un posto di lavoro. Sono qui perché devo imparare da voi come si lavora”. “Anch’io sono Lehrling!” esclama Harms. “Allora – io dico – possiamo diventare amici!”. In quel momento è iniziata la lunga amicizia che è durata fino alla morte di Harms. Lo consideravo un fratello. Tanto che lui mi ha nominato suo esecutore testamentario. Harms per la Merck è andato poi in Cina, a Pechino; tutti i suoi figli sono nati là. Alla fine della seconda guerra mondiale, quando si è ripresentato al suo posto di lavoro alla Merck, gli Alleati lo hanno incaricato della ripresa dell’azienda. Harms ha lavorato tanto bene e con tale capacità che, quando la situazione si è normalizzata e gli Alleati se ne sono andati dall’azienda, lui è emerso presso gli stessi Merck come l’ideale successore di Pfotenhauer. Da allora Harms ha sempre rappresentato l’azienda e la famiglia Merck. Insieme, abbiamo passato giorni bellissimi. Della familiarità e della 78

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Il laboratorio di ricerche Merck a Darmstadt

Hans Harms

Cartoline pubblicitarie del Cebion, anni Trenta

“LEHRLING” A DARMSTADT

confidenza che c’era tra noi ricordo un episodio avvenuto a Rapallo. Harms era nostro ospite al Grand Hotel. Io avevo un piccolo motoscafo – 5 metri sì e no – con un motore fuoribordo. Harms, che era un appassionato, quando poteva guidarlo era felicissimo, e io lo lasciavo fare. Un giorno andiamo fuori in mare, Harms è alla guida del motoscafo. All’improvviso si ferma il motore. C’è un forte vento, che continua ad aumentare e spinge verso sud-est. Fatico, sudo per far ripartire il motore, ma invano. Harms, imperturbabile, sta a guardare. “Scusa – gli dico, stanchissimo, a un certo momento – non potresti adesso provarci tu?”. “Ah no, sono tuo ospite, devi pensarci tu!” è la sua risposta. “Scherzi? Ma sai dove andiamo a finire? In Mediterraneo!”. Lo avrei ammazzato: non mi ha dato assolutamente aiuto. Per fortuna, alla fine, sono riuscito a far ripartire il motoscafo. Per tornare al mio impegno come “Lehrling” alla Merck, devo ricordare un fatto importante: posso davvero dire di aver assistito alla “anteprima” europea della vitamina C. È stato il direttore scientifico Loew a farmi partecipare a questo evento: aveva stima e simpatia per me, pur rammaricandosi che non andassi a messa. A presentare per la prima volta la vitamina C è stato lo stesso scopritore: un professore ungherese, Szent-Györgyi. Aveva ottenuto la vitamina C per estrazione da piante e ne aveva poi fatto la sintesi chimica per la produzione. Con questa sua scoperta Szent-Györgyi ha interpellato le aziende impegnate in modo particolare nel campo delle vitamine e ne ha scelte due: la Merck e la Roche. Quindi due sono state le presentazioni: una alla Merck a Darmstadt e l’altra alla Roche a Basilea. Nella riunione alla Merck, Szent-Györgyi, insieme alla formula, ha esposto anche l’azione che la vitamina C svolgeva sullo scorbuto. Come aveva voluto Loew, seduto a un tavolino in disparte, io ho assistito alla discussione fra Szent-Györgyi e i chimici, tutti grandi professori. Loro discutevano e io ascoltavo. Si vedeva che era un prodotto che poteva essere portato nel campo medico umano con grandi risultati. Ecco, la vitamina C è partita così. La sintesi la fecero poi Merck e Roche. Pochissimi anni dopo, nel 1934, il Cebion, vitamina C, veniva messo in commercio in Italia dalla Italmerck. 79


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Inizio in azienda

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1934 –1940

Mi sono laureato nel 1933. Nell’estate, durante il periodo di lavoro a Darmstadt, ho collaborato con il dott. W. Kussner, nella sezione ricerche degli alcaloidi, alla realizzazione di un metodo nuovo per la titolazione della segala cornuta dal punto di vista farmacologico, data la spiccata variabilità della sua attività. 80

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

Poi, pur avendo diritto a una nuova aspettativa, ho voluto togliermi il pensiero dei sette mesi di sottotenente che avevo rinviato. Ho presentato dunque la domanda, sapendo anche che c’erano buone possibilità che venisse accolta la mia richiesta, inoltrata a suo tempo, di essere assegnato a un reggimento vicino alla sede degli studi. E così è avvenuto. Sono stato infatti assegnato al 27° Reggimento di artiglieria da campagna con sede a Milano, a Baggio. Nei sette mesi da sottotenente c’è stata una parentesi che in seguito si è rivelata di una certa importanza per la mia vita: essendo laureato in chimica, sono stato mandato per un mese e mezzo a seguire un corso per gas tossici a Civitavecchia. Durante il servizio militare scrivevo frequentemente a mio padre mettendolo al corrente di quanto facevo e cominciando anche a parlargli del mio futuro. “Cosa farò quando avrò finito il militare?” gli chiedevo. “Vieni in azienda” era la sua risposta. Quando è arrivato il congedo, il problema del mio ingresso in azienda si è posto concretamente. E non è stato un problema facile. Sul mio nome si è svolta davvero una lotta. I Merck hanno subito sollevato obiezioni e avanzato difficoltà: “Sono troppi i Bracco qua dentro!”. In azienda c’erano infatti già cinque miei zii, che mio padre da convinto familiarista aveva assunto dopo l’avvio dell’attività. Erano direttori delle filiali di Torino, Trieste, Firenze, Roma e Catania. Le filiali, allora, erano indispensabili: i trasporti non erano così rapidi e agevoli come oggi. “Noi ti finanziamo, noi ti diamo i prodotti – era questa la motivazione su cui insistevano i Merck con mio padre – e poi tu metti tutta la tua famiglia in azienda! Quindi il dottor Fulvio non può entrare”. E con i vertici della Merck su questo “caso speciale”si è aperta una vera e propria discussione, accompagnata da un intenso scambio epistolare – una trentina di lettere in perfetto tedesco, che conservo ancora – tra mio padre e i responsabili dell’azienda di Darmstadt. In Germania è stata condotta quasi un’istruttoria sulla mia persona. Al direttore scientifico, Loew, che mi aveva visto al lavoro e mi conosceva bene, è stato chiesto un giudizio “su questo signore che era stato qui a lavorare”. Informazioni e valutazioni sul mio conto sono sta82

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INIZIO IN AZIENDA

I Bracco della Bracco, fine anni Trenta

Durante un’esercitazione con i gas tossici

te raccolte nei vari settori dell’azienda tedesca in cui io avevo svolto l’“apprendistato”. Ma c’erano sempre molte resistenze. Tanto che mio padre a un certo momento mi ha fatto questa proposta: “Compriamo una farmacia e vai lì”. Io, pur con tutte le riserve, gli ho risposto: “In fondo, mi stanno rompendo le scatole: sono stato a Darmstadt tutti quegli anni, ho imparato certe cose. Per adesso accetto una farmacia, poi vedremo”. In particolare, le obiezioni più forti venivano da Louis Merck. Su di lui c’è stato poi l’intervento di Pfotenhauer e di Karl Merck, che hanno appoggiato la mia candidatura. Pfotenhauer ha scritto a mio padre una lettera straordinaria per la forza con cui sosteneva la mia causa: “Non è giusta una posizione del genere – affermava. – Tuo figlio ha tutte le qualità per diventare un imprenditore. Ha capito che cosa si deve fare per lavorare, come si deve lavorare, come ci si deve comportare. E loro non lo vogliono! Tutti e quattro. Uno soprattutto. Ma quell’uno purtroppo – scriveva Pfotenhauer – ha il pacchetto azionario più grosso”. Anche Loew ha scritto una lettera a mio padre in favore della mia assunzione; mio padre ne ha mandata una copia ai Merck. 83


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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Poi, un po’ alla volta, nelle lettere dei Merck l’opposizione nei miei confronti si è attenuata e infine è caduta. Ha contato molto l’appoggio di Karl Merck. Sono stato assunto il 1° ottobre 1934; l’anno successivo sono diventato direttore tecnico. Nella lettera di assunzione – che conservo ancora – mio padre mi dava del Lei e così ha poi sempre fatto in tutte le comunicazioni ufficiali. Entrando in azienda, il mio pensiero era di svilupparla quanto più possibile: cosa del tutto naturale, anzi doverosa per un imprenditore. Ma questo mio impegno lo intendevo soprattutto finalizzato a realizzare qualcosa che era più di un sogno. Era un progetto che avevo in mente già dall’università: avere uno stabilimento mio e produrre. Quindi per me era importante vendere i farmaci per poter arrivare a una riserva di bilancio tale da consentire l’acquisto di un terreno e costruirvi poi lo stabilimento. E nel frattempo cominciare anche la ricerca, partendo a piccoli passi. Perché nella ricerca io ho sempre creduto. Mio padre sul lavoro, all’inizio, mi ha tenuto d’occhio. Poi, constatata la preparazione che avevo acquisito a Darmstadt sotto tutti gli aspet-

A sinistra: Planimetria dello stabilimento in via Fucini A destra: logo dell’Italmerck con al centro l’Erborista

Opuscolo pubblicitario dell’Italmerck, fine anni Trenta

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INIZIO IN AZIENDA

ti – imprenditoriale, industriale, tecnico, e anche per la propaganda – mi ha lasciato fare, affidandomi completamente l’azienda. Che nel 1936 ha modificato la denominazione sociale Italmerck SA in Società Anonima Bracco già Italmerck. Come direttore tecnico mi competeva la parte industriale galenica, e quindi l’addestramento delle operaie e degli operai. In Germania avevo imparato moltissimo e nella nostra azienda ho portato novità che ancora non erano arrivate nella farmaceutica italiana. La galenica era però solo una parte del mio lavoro. Nello stesso tempo ero infatti anche direttore scientifico. Che significava allora essere responsabile della propaganda, mentre oggi al direttore scientifico fanno esclusivamente capo i laboratori di ricerca. Questo incarico ha comportato anche l’organizzazione di convegni e i contatti con medici di chiara fama, presentando sempre prodotti nuovi. Certo, gli informatori scientifici facevano bene il loro lavoro, ma quando era necessario un impegno speciale, per un prodotto importante che doveva uscire, mi muovevo io. Andavo io dal direttore della clinica medica di Milano oppure di Pavia oppure di Roma: io aprivo la strada; poi andava avanti l’informatore scientifico. Anche per quanto riguarda la parte commerciale ero io a girare tutta l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte, ad andare dai clienti, che sono i grossisti di medicinali. Tenevo io i rapporti con tutti: l’ho fatto sempre di persona, non l’ho delegato ad altri. 85


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Il matrimonio con Anita

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I primi anni in azienda sono stati importanti per la mia esperienza di imprenditore. E il 1937 è stato davvero “storico”: per la società e, soprattutto, per la mia vita personale. L’azienda ha festeggiato i suoi primi dieci anni di attività: i dipendenti erano diventati 110 e lo stabilimento in Renato Fucini era stato definitivamente sistemato nei laboratori galenici e nei reparti di fabbricazione. 86

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

Per quanto riguarda me, nel calendario del 1937 c’è una data di grande importanza: è il giorno del mio matrimonio. Che non è stato certamente un avvenimento secondo tradizione. Faccio un passo indietro. Un giorno – ero ormai direttore tecnico e scientifico – mi trovavo nel mio ufficio in Renato Fucini quando mi annunciano che in portineria c’è una dottoressa Coppini che vuole parlare con me. La faccio accompagnare nel mio ufficio. Anita arriva e mi racconta la sua storia. Suo padre è morto e lei ha bisogno di lavorare. Ha una sorella, Merope, che è pellicciaia, e un fratello, Tomaso, impegnato nella pellicceria Arcaini di proprietà di una loro zia, Maria. Poiché non le piaceva il lavoro come farmacista in una farmacia, ricordando che ci eravamo conosciuti all’Università di Pavia, aveva pensato che magari la nostra azienda aveva bisogno di un laureato che avesse fatto l’esame di Stato. L’ho assunta proprio per questo obbligo di legge che tutti i laboratori dovevano osservare. Mio padre si era detto d’accordo perché era una nostra necessità. Anita diventerà direttore tecnico dopo la mia nomina a direttore generale. Lavorando insieme, ci siamo innamorati. Di mezzo però c’era l’ostacolo di mio padre: voleva che io sposassi la figlia di un ricco profumiere, ma io non condividevo affatto questa sua intenzione. L’unica soluzione per me e Anita è stata di sposarci in segreto. Così, senza dire niente a nessuno, un sabato mattina ci siamo sposati con rito civile in Comune. Era il 17 luglio 1937. Come viaggio di nozze siamo andati a Lugano, a Locarno e un po’ in giro per la Svizzera. La domenica sera siamo tornati a Milano, andando ciascuno a casa sua. Mio padre il lunedì leggeva di abitudine il “Popolo d’Italia”. Così ha fatto anche il lunedì dopo il nostro matrimonio. Scorrendo il giornale, nella rubrica dedicata ai “matrimoni” vede: Fulvio Bracco-Anita Coppini. È successo il finimondo. Mio padre mi chiama, me ne dice di tutti i colori e licenzia in tronco mia moglie. Insomma, una tragedia. Papà si impunta e io, naturalmente, rimango fermo nelle mie intenzioni: “Ho fatto un matrimonio e me lo tengo. Cercheremo un appartamento, verrò via di casa e andrò con mia mo88

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Fulvio Bracco nella casa di Corso Plebisciti a Milano

Carta d’identità di Anita Coppini

IL MATRIMONIO CON ANITA

glie”. E così ho fatto. Ho trovato un appartamento al settimo piano in via Battistotti Sassi 13. La sistemazione per il momento ci bastava: una stanza da letto, un bagno, una cucina abitabile, un salottino e un piccolo bagno di servizio. Siamo andati avanti così parecchi mesi. Naturalmente i rapporti tra me e mio padre non erano dei più sereni, mentre mia madre tentava di mettere pace fra di noi. “È impossibile che lui stia via”, diceva, “Fulvio mi manca”, “Lei è una brava ragazza”. Perché mia madre conosceva bene Anita. Anche mio padre l’aveva in grande simpatia prima del “fattaccio”; l’aveva persino invitata a passare un paio di settimane a Neresine, mentre io ero a Milano. Infine mia mamma ha preso una iniziativa meravigliosa: ha telefonato a suo fratello Francesco Salata raccontandogli quanto era successo: “Dovresti venire e vedere se riesci a convincere Elio a perdonare lo sgarbo patito”. E lo zio è venuto a Milano. Io non ne sapevo niente. Poi, una sera è squillato il telefono a casa. Sono andato a rispondere: “C’è Fulvio?”, “Sì, sono io”. Era la mamma. “Vieni con Anita, ti aspettiamo”. Ancora adesso mi commuovo profondamente ripensando a quanto ha fatto mia madre. Siamo dunque andati a casa dei miei e da quel momento mia moglie è diventata la persona più amata da mio padre. Per non parlare dell’affetto di mia madre. Abbiamo avuto tre figlie, che sono tutte e tre nate durante la guerra: Diana, Adriana, Gemma detta Pucci. Al matrimonio religioso siamo arrivati dopo qualche anno. Abbiamo dovuto farlo per le insistenti pressioni, da una parte, di mia madre e, dall’altra, di padre Alfonso Orlini, grande amico di mio padre e della nostra famiglia. Il lavoro mi assorbiva molto, ma, poiché mi piaceva fare tutto quello che si poteva fare, ho trovato sempre il tempo per dedicarmi ad altri interessi. 89


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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IL MATRIMONIO CON ANITA

Adriana, Gemma, Fulvio e Diana Bracco

Così all’Università degli Studi di Milano ho preso la specializzazione in farmacia industriale e successivamente il diploma di ufficiale sanitario. E mi sono anche impegnato in una attività che mi ha dato delle soddisfazioni: insegnante nelle scuole tecniche serali del Comune di Milano. Tenevo lezioni di chimica analitica due o tre volte la settimana, iniziando alle ore 21. Gli studenti erano bravissimi. Erano giovani lavoratori – operai, impiegati – che si dedicavano allo studio con grande volontà e serietà. Avevo delegato il Comune a devolvere in beneficenza il mio stipendio: facevo l’insegnante soltanto per aiutare quei giovani. Avevo in azienda operai che frequentavano le scuole serali e sapevo che facevano molti sacrifici. Ho insegnato per qualche anno, fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. L’azienda intanto si ingrandiva. Vederla crescere rafforzava in me la determinazione di realizzare il mio stabilimento. Ma sui miei progetti stava arrivando la seconda guerra mondiale.

A Ca’ dei Polli con la mamma Anita

Al mare con i nonni

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Gli anni 1940 –1945

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La seconda guerra mondiale

Il 5 settembre 1939 – l’Italia non era ancora entrata in guerra – sono stato richiamato alle armi nel 9° Reggimento Artiglieria del Brennero, I Gruppo, in Piemonte, a Brunzolo di Susa. Richiamato non come sottotenente comandante di una batteria, ma come ufficiale chimico, perché – come ho detto – avevo fatto a Civitavecchia il corso sui gas tossici. 92

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

Quando sono arrivato al Reggimento ho visto subito come stavano realmente le cose e mi sono domandato: “Qui cosa faccio? Non c’è una maschera antigas, non c’è una istruzione, non c’è niente di quanto riguarda la mia specializzazione. Niente di quello che dovrebbe esserci”. Da questa situazione sono uscito quando mio padre, con l’interessamento di mio zio il senatore Salata, ha presentato al Ministero della Guerra la richiesta per il mio esonero, potendo io, quale direttore tecnico, essere ritenuto indispensabile per l’attività dell’azienda. Ho potuto così tornare al mio lavoro e alla mia famiglia a Milano. Ma il 4 novembre 1939, una cartolina precetto mi ordinava che in caso di dichiarazione di guerra avrei dovuto presentarmi a Verona, assegnato alla Divisione Pasubio come ufficiale chimico. L’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, mi ha colto a Rimini in vacanza con mia moglie, mio cognato Tomaso e sua moglie Nena, di origine argentina. Io e Tomaso eravamo molto legati. Mi sono dunque presentato a Verona, dove mi sono ritrovato nella medesima situazione di Brunzolo di Susa, con il 9° Reggimento Artiglieria del Brennero. Anche alla Divisione Pasubio non c’era assolutamente nulla che riguardasse la mia specializzazione. Vedevo che la mia presenza era proprio inutile; nessuna possibilità anche come sottotenente di artiglieria: le batterie avevano già tutte i loro comandanti. Io avevo un cavallo e basta: quello me lo avevano dato, ed era anche un bel cavallo. Ho scritto a mio padre informandolo della condizione in cui mi trovavo. Non sapevo ancora che la Divisione Pasubio sarebbe stata mandata in Russia: nella lettera chiedevo solo se non era il caso di vedere presso il Ministero della Guerra, e con zio Salata, se era possibile il trasferimento a una attività consona al mio grado e alla mia specializzazione di ufficiale chimico. Non ho dubbi che questa mia richiesta mi ha salvato la vita. Il mio caso è stato infatti preso in considerazione e io sono stato mandato a Firenze, allo Stabilimento chimico-farmaceutico militare, dove si producevano i medicinali e si tenevano corsi per medici e farmacisti. Poco dopo il mio trasferimento a Firenze, la Divisione Pasubio è partita per la Russia. In pochi sono tornati. 94

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Ca’ dei Polli

GLI ANNI 1940–1945

Da Firenze sono poi stato distaccato – come appartenente a Fabbriguerra, che comprendeva le imprese considerate indispensabili per la produzione – presso la mia azienda, a Milano, per produrre, per quel poco che si poteva, medicinali per l’esercito. In azienda, tra il 1940 e il 1945 sono stati anni molto duri. Per tante ragioni, non ultima quella che non c’erano materie prime per produrre le specialità. La guerra aveva completamente assorbito l’attività della Merck, che aveva anch’essa enormi difficoltà nel lavoro. L’azienda di Darmstadt è stata bombardata e quasi distrutta; non è stata però colpita la sua centrale termica, cosa molto importante per poter continuare nella produzione. In Renato Fucini i problemi erano enormi. Nella quasi impossibilità di rifornirci di materie prime, eravamo solamente in grado di produrre poche cose e semplici. Siamo stati anche bombardati: nell’agosto del 1943 un’ala dell’azienda è stata colpita e distrutta. I dipendenti si sono ridotti a una ventina, un po’ perché richiamati alle armi, un po’ perché non avevamo lavoro. Per i dipendenti sotto le armi ci siamo impegnati a mantenere loro i diritti e a corrispondere alle loro famiglie le retribuzioni come se fossero presenti. Anni difficili per l’azienda e anni difficili anche per la mia famiglia. Nel 1939 da via Battistotti Sassi io e mia moglie ci eravamo trasferiti in via Vittorio Veneto 24, dove siamo rimasti fino al 1952, anno in cui abbiamo preso casa in via Cappuccini 11. Quando nel 1942 c’è stata credo la prima incursione aerea su Milano – era un tramonto e mia moglie con la mia prima bambina, Diana, stava tornando dai Giardini pubblici – non ci ho pensato nemmeno un momento: ho portato la famiglia nella nostra casa in campagna, Ca’ dei Polli, a Romanengo, vicino a Crema. Non sono mai riuscito a sapere se la casa avesse quel nome per i polli o se portasse invece il cognome di precedenti proprietari. L’aveva acquistata mio padre nel 1927. Nella zona, Ca’ dei Polli era anche chiamata “Ca’ de la fam” perché era completamente brulla, non c’era un filo d’erba. Noi, con un impianto e con canali di irriga95


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

zione, abbiamo col tempo rifatto tutta la tenuta. A Ca’ dei Polli, dove la mia famiglia è rimasta sino alla fine della guerra, è arrivata anche nonna Anta con zia Concetta. Era l’aprile del 1943. In gennaio si era spento nonno Marco. Papà era stato avvertito che il padre era grave ed era andato a Neresine. La guerra stava sconvolgendo l’Europa. In una lettera scritta in febbraio ai famigliari mio padre li informa della morte di nonno Marco: “È vissuto come un santo per la famiglia e per la Patria. Morì povero e lavorò tutta la sua vita”. Negli ultimi giorni di vita, scrive mio padre, il nonno gli “raccomandò i fratelli: che li sorvegliasse con pazienza”. Nella lettera papà annuncia anche che entro l’aprile avrebbe portato la mamma e le zie Concetta e Maria a Ca’ dei Polli: “Ho già tutto predisposto. Voi sapete come si vive a Neresine e come a Ca’dei Polli: è mio desiderio che voi tutti concordi esprimiate a mamma e Concetta il desiderio che si rifugino da me per il periodo della guerra. A guerra finita ritorneranno a Neresine”. Nonna Anta è venuta così in Italia, ma non ha più potuto rivedere Neresine. È vissuta anche lei di nostalgia della sua terra: l’Istria era stata consegnata alla Jugoslavia di Tito. A Ca’ dei Polli durante il periodo di sfollamento abbiamo avuto con noi una ragazza emiliana, Tina, che aiutava mia moglie soprattutto per le bambine. Io facevo la spola Milano-Ca’ dei Polli quasi tutti i giorni. Avevo un’auto, una Lancia Artena 6 cilindri. Andava a carbonella: il focolaio era dietro. Poi, con la benzina, l’auto è stata trasformata in camioncino per l’azienda. Con 6 cilindri, la potenza del motore era proprio scarsa. Con l’Artena, per una mia imprudenza, ho corso il rischio di morire. Che cosa è successo? Da Ca’ dei Polli partivo ogni giorno verso le 6,30 per essere prima delle 8 in Renato Fucini. Un mattino vado in garage e, come altre volte era già successo, ho difficoltà a far partire l’auto. Apro il cofano per vedere che cosa succede al filtro e alle candele, perché il gas – l’ossido di carbonio – che si formava nel focolaio col carbone di legna passava attraverso un filtro di acqua e arrivava alle candele. Accendo e spengo il motore, accendo e spengo, ma vedo che l’auto non tiene il ritmo. Mi metto allora proprio sopra il motore dove praticamente arrivava il gas. Non mi rendo conto che sto respi96

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Nonna Anta a Ca’ dei Polli

Il nonno Elio con la piccola Diana

GLI ANNI 1940–1945

rando ossido di carbonio, un gas che sull’uomo inizialmente provoca euforia, poi perdita dei sensi e quindi la morte. Continuo nei miei tentativi chino sul motore, e a un certo momento cado a terra svenuto: il garage era ormai completamente saturo di ossido di carbonio. Tina, che non mi aveva sentito avviare l’auto e aspettava per andare ad aprirmi il cancello di ingresso, viene a controllare perché ritardo. Quando mi vede a terra privo di sensi e si accorge dell’ossido di carbonio, con grande presenza di spirito non corre a chiedere aiuto, ma subito mi afferra per i piedi e mi trascina fuori dal garage all’aria aperta. Poi grida al soccorso. Accorre mia moglie e con Tina cerca di farmi respirare profondamente, mi porta in giardino, dove in mezzo agli alberi c’è più ossigeno, e chiama il medico che mi fa due iniezioni e poi, vistomi fuori pericolo, mi raccomanda di stare tutto quel giorno e quello successivo sempre in giardino sotto gli alberi. È stato questo – dopo aver evitato la Russia con la Divisione Pasubio – un secondo pericoloso momento della mia vita: poco c’è mancato che me ne andassi. Per portarmi da Ca’ dei Polli a Milano avevo anche una motocicletta, una piccola DKW 98 cl, che mi ha fatto ammattire tante volte: partiva e non partiva, si fermava all’improvviso in mezzo alla strada, spesso con gli aerei che ti passavano sopra. Perché l’obiettivo era il ponte ferroviario sul fiume Serio a Crema: non l’hanno mai centrato, ma tutto intorno gli aerei hanno fatto tabula rasa. Anche l’appartamento in via Vittorio Veneto è stato colpito durante un bombardamento: una bomba è finita in cucina e ha sfasciato tutto, ma non è esplosa. Per fortuna noi eravamo a Ca’ dei Polli. Mi hanno avvertito e sono subito tornato a Milano per rendermi conto di quanto era accaduto.

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Il dopoguerra e la ripresa

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Abbiamo fatto grandissimi sforzi e tanti sacrifici per tenere in piedi l’azienda nei cinque anni di guerra. Ma con la fine del conflitto mondiale, nel 1945, altre difficili prove ci attendevano. Sapremo superarle e trovare la via per un futuro di crescita dell’azienda. 98

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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C’è una lettera del giugno 1945, scritta all’amico dottor Guido Rossi, nella quale mio padre annuncia la decisione di trasferirsi a Roma e parla di me quale suo “predestinato – d’accordo con la Merck – successore” nell’azienda. “Lei è l’amico che conosce la situazione – scrive mio padre –, sono quindi certo che Lei continuerà a interessarsi e ad aiutare Fulvio, ove un giorno fosse possibile riprendere con tranquillità il lavoro. Il problema sarà molto arduo e io non vedo altra strada che quella di tentare, in un secondo tempo, di mettersi in relazione con il signor Giorgio Merck di New York, che forse potrebbe avere interesse di servirsi della ditta per l’introduzione dei suoi prodotti”. Mio padre con la mamma a fine estate ha lasciato definitivamente Milano per Roma, dove ha preso casa stabilendo l’ufficio presso la nostra sede in via Fornovo. Io sono rimasto solo ad affrontare una situazione difficilissima. Eravamo infatti ridotti molto male e la ripresa si presentava durissima, come per tutti dopo la guerra. Il grande problema che subito ho dovuto affrontare perché in Renato Fucini si potesse riavviare il lavoro è stata la mancanza di materie prime e di prodotti.

Tullio e Fulvio Bracco negli anni Trenta

Elio Bracco nella sua casa romana

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IL DOPOGUERRA E LA RIPRESA

La Merck, anch’essa in grosse difficoltà e sotto controllo degli Alleati, non poteva inviarci alcun rifornimento. Impraticabile è risultata anche la strada, a cui già mio padre aveva pensato, di un rapporto con la Merck di New York. Tra le maggiori aziende farmaceutiche americane, la Merck avrebbe indiscutibilmente rappresentato il salvataggio per noi: ci avrebbe infatti assicurato rifornimenti di materie prime e licenze. Invece, in un incontro alla Stazione Centrale di Milano, dove era di passaggio con la moglie per recarsi a Venezia, Giorgio Merck è stato esplicito: non poteva fare niente per noi. Tedesco diventato cittadino americano, aveva le mani legate dalla legge USA che proibiva i rapporti con i tedeschi o con ditte tedesche. E nella Bracco già Italmerck c’erano azioni e prodotti della Merck di Darmstadt. Ad aprirmi una via d’uscita per la ripresa produttiva è però arrivata quella intelligentissima decisione del ministro per il Commercio con l’Estero italiano che ha ammesso gli scambi di merci, le cosiddette compensazioni private: io potevo esportare vino o altri prodotti alimentari in cambio di materie prime chimico-farmaceutiche e di prodotti farmaceutici per lo stesso importo. Su questa strada mi sono buttato con decisione e coraggio. Così, attraverso la segnalazione delle aziende commerciali svizzere con le quali intrattenevo i rapporti – scambiando il vino con i prodotti chimici che loro trattavano e mi mandavano – sono arrivato ad avere un contatto con la Cilag di Sciaffusa, una delle società svizzere fornitrici di materie prime chimico-farmaceutiche. La nostra azienda ha potuto in tal modo ricominciare la produzione di un buon gruppo di specialità, riassumere personale e riorganizzare tutti i reparti. Nel 1946 in azienda ho portato anche mio fratello Tullio. Dalla fine della guerra, alla quale aveva partecipato come ufficiale medico, lavorava in una ditta di cui io ero socio e che faceva capo a una farmacia di Cusano Milanino di proprietà del dottor Moretti, un amico mio fraterno. Era una piccola azienda; faceva – su istruzione nostra – e vendeva fiale di prodotti generici. A mio fratello ho affidato la Direzione scientifica, che non comprendeva però la ricerca, l’organizzazione e la propaganda. Tullio è stato 101


FULVIO BRACCO

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anche direttore responsabile del “Notiziario Bracco” – il periodico di informazione sociale rivolto al personale dell’azienda – pubblicato dal marzo 1962 al settembre 1969. Poi, si è ammalato seriamente e ha dovuto lasciare l’azienda. Se la ripresa produttiva in Renato Fucini era al centro dei miei pensieri, non ho però lasciato cadere altre opportunità che ho ritenuto interessanti. Come le tre farmacie che ho acquistato tra il 1946 e il 1949. La prima è stata la Farmacia Bracco, in via Boccaccio 26. Notissima direi. L’ho acquistata nel gennaio del 1946. È seguita la Farmacia Centrale, in via Santa Margherita, una delle poche farmacie società anonime, poi scomparsa perché questo tipo di farmacie è stato proibito per legge. Infine l’acquisto a Roma, nel giugno 1949, della Farmacia di via Crescenzio. Titolare era mia moglie Anita. Ma lei non poteva quasi mai essere presente. Abbiamo allora preso un socio e gli abbiamo affidato, come titolare, la farmacia. Gliel’abbiamo poi venduta nell’aprile 2001.

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IL DOPOGUERRA E LA RIPRESA

Copertina del Notiziario Bracco

Pianta generale della farmacia Bracco in via Boccaccio Pagina seguente: particolari degli interni della farmacia

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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guardava la farmaceutica. Il suo Presidente, Bernardo Joos, era un po’ uno spericolato, ma era intelligente e aveva delle idee buone. Della Cilag era, ad esempio, il Diazil, un sulfamidico. Messo sul mercato nel 1948, il Diazil è andato subito benissimo, tanto che ho dovuto raddoppiare gli informatori scientifici da un giorno all’altro. Quell’anno si è anche verificata una stagione di forte influenza, con conseguente altissima richiesta di Diazil, che fra l’altro non aveva effetti secondari. Il Diazil, con il suo successo – in Italia non c’erano gli antibiotici –, mi ha dato ancora più forza e ha concorso, con il risultato economico che ha portato, alla realizzazione dello stabilimento di Milano Lambrate. Intanto, anche la Merck stava riprendendo a produrre e noi abbiamo potuto riallacciare i rapporti con Darmstadt.

Logo della farmacia Bracco

La farmacia di via Boccaccio ci ha dato grandi soddisfazioni. Era stato un amico a informarmi che in uno stabile raso al suolo dai bombardamenti c’era anche una farmacia. Il palazzo era in via di ricostruzione e prevedeva alcuni negozi, compresa la farmacia preesistente. Il titolare era morto, ma la figlia, iscritta a farmacia a Pavia, aveva diritto di riprendere l’attività. Ho preso allora contatto con lei e con la madre prospettando loro il mio interesse per la farmacia. La mia proposta è stata accolta. Entrato nella società che realizzava lo stabile, a costruzione ultimata, sciolta la società mi sono tenuto tutti i negozi. Il più grande era la farmacia, con l’ingresso principale in piazza Giovane Italia. La prima sera di apertura ho voluto essere presente per rendermi conto di come la farmacia veniva accolta: ha iniziato subito fortissimo. I locali erano molto spaziosi, accoglienti e ben arredati, su progetto dell’architetto Giordano Forti, che sarà per me un prezioso collaboratore. Ho venduto la farmacia nel 1980. Torno alla Cilag. Il rapporto avviato con Sciaffusa è stato importante. Una data significativa: il 23 aprile 1946 come Fulvio Bracco ho costituito la Cilag Italiana SpA, con la partecipazione al 50% della Cilag di Sciaffusa. Questa mia iniziativa è stata il punto di partenza per realizzare il progetto accantonato a causa della guerra: fare lo stabilimento e avviare la mia attività industriale. Perché ho puntato sulla Cilag di Sciaffusa, entrando anche nella società con un buon pacchetto di azioni? Perché avevo visto che era una azienda giovane, con collaboratori di primissimo ordine, con una produzione moderna e un programma molto chiaro per quanto ri104

IL DOPOGUERRA E LA RIPRESA

Cartolina pubblicitaria del Diazil, anni Cinquanta

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Lambrate

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Da nessuna parte è stato scritto che quando ho comperato a Milano il terreno di Lambrate l’ho fatto come Fulvio Bracco, non come Società Bracco già Italmerck. La Bracco già Italmerck non aveva il programma che io avevo in mente. Erano dunque due le linee di attività, ben precise e separate: una con mio padre e mio fratello, cioè la Bracco già Italmerck; l’altra da solo, con Lambrate. 106

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

Ho realizzato lo stabilimento con la mia società, la Cilag Italiana, e con il contributo della Cilag di Sciaffusa che partecipava al 50% nella società e mi dava specialità nuove e molto avanzate. Il 14 ottobre 1946 ho acquistato il terreno dai nobili Thellung De Courtelary. Me lo avevano venduto per poter ricostruire la casa in centro a Milano distrutta dai bombardamenti. Un’area di trentamila metri quadrati, che agli inizi degli anni Sessanta si amplierà fino a raggiungere i cinquantamila metri quadrati. Mio padre non era per niente d’accordo con questa mia iniziativa: ero pazzo a comperare quel terreno, mi diceva. Dieci anni dopo, in una sua lettera mi scriverà: “Il cuore del padre non può che gioire ed essere ammirato di questo fantasioso progresso del figliolo… Tu passerai alla storia non solo come il creatore della tua industria, ma anche di essere stato in Italia contemporaneo dell’architettura industriale moderna”. Infatti per la realizzazione dello stabilimento mi ero rivolto all’architetto Giordano Forti, professore del Politecnico di Milano, figura prestigiosa dell’architettura italiana. Mio padre era rimasto molto colpito dall’articolo dedicato da “Architettura” al lavoro fatto da Forti per Lambrate ed era questo il motivo della sua lettera. “Tu sai – scriveva – che io sono un uomo che nella vita non ha dormito, ma la mia era altra ambizione, erano altre necessità e lo slogan era: un gradino alla volta. “Fulvio, qualche volta mi fai paura. Ti prego di non fraintendermi, io non posso essere, come lo sono, che fiero di questo figlio, posso però, è vero, anche riscontrarti che bisogna anche andare cauti anche nei voli verso l’infinito perché non sei solo al mondo e hai dei doveri ben precisi: quando tu mi scrivi che sei preoccupato, come lo facesti giorni addietro, mi chiedevo se la tua ascesa così rapida non sia troppo forzata dalla tua forte volontà per far salire sempre più in alto le tue ambizioni”. Mio padre mi ha dato una grande soddisfazione con quella lettera, nella quale concludeva: “Come vedi, non solo ho letto con attenzione “Architettura”, ma vi ho anche molto riflettuto, confessato in esordio la mia ignoranza, ho capito poco, tanto però quanto basta per rallegrarmi con te con il cuore”. 108

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Per Lambrate il professor Giordano Forti è stato veramente un importante collaboratore. Era un uomo di impressionante correttezza, molto esigente, preciso, di una grandissima severità. Mi fidavo completamente di lui. Era un uomo di una trasparenza incredibile. Quando gli ho affidato il progetto per Lambrate gli ho solamente detto: “Qui bisogna fare uno stabilimento con una previsione per il futuro di mille persone”. E lui lo ha realizzato secondo le più avanzate concezioni, su quel tracciato interno lungo il quale sono stati costruiti nel tempo i vari edifici. Perché noi abbiamo sempre seguito quello che Forti ha proposto con il suo progetto per costruire e poi ampliare lo stabilimento: un padiglione dopo l’altro. L’unica difficoltà, superata poi con il pagamento di una multa, è venuta dal piano in più costruito nel palazzo degli uffici. Tutto naturalmente è avvenuto per gradi. Il nucleo “storico” dello stabilimento, la cui costruzione è iniziata il 10 maggio 1949, è stato pronto nell’aprile del 1951. Dove è l’attuale portineria c’era l’ingresso dello stabilimento: un unico locale ospitava la portineria, proprio un bugigattolo, e, per il resto, alcuni uffici amministrativi.

Un particolare della costruzione dello stabilimento di Lambrate

Copertina di un articolo di Giordano Forti sul progetto Bracco a Lambrate

Il sito produttivo Bracco negli anni Cinquanta

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FULVIO BRACCO

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Non bisogna dimenticare che c’era sempre Renato Fucini. Il fabbricato 6, pluripiano con un interrato, era per la produzione. Il fabbricato 7 era dedicato al magazzino sia per le materie prime che per i prodotti finiti. Il padiglione per la produzione poteva al momento apparire in sovrabbondanza: due terzi in più rispetto alla produzione prevista. Tutti hanno detto che avevo sbagliato perché era troppo grande. Invece nel tempo si è rivelato addirittura troppo piccolo. Alcuni altri fabbricati erano ad uso servizi: il numero 11 per trasformatori e distributori di energia elettrica, pozzo dell’acqua e caldaia a vapore; il numero 9 per l’officina meccanica. Adagio adagio, mentre l’azienda cresceva, ho aggiunto altri edifici, il laboratorio di ricerca chimica e farmacologia, nuovi reparti di produzione, gli uffici. Così, un paio d’anni dopo, ecco il fabbricato 13. Lì, al primo piano, avevo il mio ufficio; c’erano inoltre la sala riunioni e un altro locale dove eventualmente, in caso di necessità, potevo dormire. Il pianterreno era destinato agli uffici. Nel seminterrato è venuto un primo nucleo da via Renato Fucini per il confezionamento. Un’altra ala del fabbricato 13 è stata riservata al laboratorio di ricerche. Mentre procedevano i lavori per il nuovo stabilimento, io mi sono diviso tra Lambrate e via Renato Fucini, dove si continuava a produrre. Mi sono

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Fulvio Bracco osserva i lavori di costruzione dello stabilimento

Vista frontale e laterale dell’edificio per la fabbricazione dei medicinali Pagina seguente: piantina del sito produttivo di Lambrate

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FULVIO BRACCO

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trasferito definitivamente nella mia nuova azienda quando ho venduto lo stabile di via Renato Fucini alla Rinascente, a quei tempi di proprietà della Famiglia Borletti. Era il 1954: il nuovo palazzo degli uffici, con la sede della Direzione e della Presidenza, era pronto. Con lo stabilimento di Lambrate inizia la storia della Bracco quale oggi è conosciuta. La chiamerei: la storia istituzionale. A margine di questa storia, ma nient’affatto marginali, ci sono però tanti avvenimenti, tanti episodi, che considero punti fermi nella mia vita di imprenditore e di cittadino. A questi momenti dedico il mio ricordo. Anni, dunque, in quel lontano dopoguerra, di intenso lavoro per me, tutto proteso ad avviare la mia attività industriale. E anche anni di preoccupazioni e di situazioni difficili. Come nel luglio del 1948, quando ho visto nuovamente in pericolo la mia vita. Per la terza volta: avevo già rischiato durante la guerra di finire sul fronte russo e, poi, a Ca’ dei Polli di morire avvelenato dall’ossido di carbonio. L’episodio è collegato all’attentato a Palmiro Togliatti. Dopo l’attentato – il 14 luglio – viene proclamato lo sciopero generale. Anche a Milano sciopero e manifestazioni di protesta, di cui una organizzata in piazza Piola, cioè a pochi passi da via Renato Fucini. Sul palco si alternano i vari oratori. C’è molta tensione, gli animi sono accesi. In Renato Fucini siamo in pochi: il custode e la moglie, la dottoressa Marchelli, che è il direttore tecnico dell’azienda, la ragioniera Maria Giordana e io. Con la Giordana sono nel mio studio a esaminare dei conti, quando sento un baccano tremendo giù in portineria. Dopo di che silenzio. Poi, per telefono, il custode mi avverte che un gruppo di manifestanti di piazza Piola vuole entrare per controllare se qualcuno lavora perché si deve assolutamente interrompere qualsiasi attività. “Va bene – gli rispondo – tanto tu hai chiuso il portone d’ingresso”. Così il custode non apre ai manifestanti che insistono per entrare. Tutto finito? No, perché il gruppo non recede dal suo intento. E ci 112

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Manifestanti davanti alla portineria della Bracco

Copertina di una brochure degli anni Sessanta In alto: la palazzina della Presidenza e della Direzione generale

riesce: passando dal numero 4 di via Renato Fucini – un pianterreno e basta – dove erano gli spogliatoi degli operai. Bastava una spallata per aprire ed entrare; poi c’era una finestra che dava sul locale dove venivano tenuti tutti gli schedari dei medici. Con una scaletta che era lì appoggiata i manifestanti raggiungono la finestra, rompono il vetro e il gioco è fatto. C’è una donna molto decisa in testa al codazzo di una ventina di persone. La prima cosa che fanno scendono dal custode e lo pestano a sangue; poi gli chiedono se in azienda c’è qualcuno. “Andate a vedere” è la risposta del custode, che non vuole dire niente. Il gruppo sale le scale che portano agli uffici, incontra la dottoressa Marchelli – che mi era molto fedele e fra l’altro era stata anche mia compagna di università – e si sente offeso dalla sua risposta: “Io lavoro quando voglio lavorare, non faccio sciopero!”. La picchiano e la lasciano lì, in terra, sanguinante. Poi i manifestanti si dirigono alle scale in marmo che portano alla direzione. “Guardi che vengono da lei” mi avverte il custode. Anch’io sento il vociare dei manifestanti e dico alla Giordana: “Adesso arrivano. Mah! Io ho la mia rivoltella”. Apro il cassetto e metto sul tavolo l’arma. Il vociare si fa più vicino. Loro stanno per arrivare. Istintivamente, rimetto la rivoltella nel cassetto. Come entrano, chiedono: “Dov’è il dottor Bracco?”. E io con tono scherzoso: “Eh, il dottor Bracco…! Quando ha sentito che tutta l’Italia e tutta Milano facevano sciopero, se ne è andato in Liguria, a Santa Margherita o a Portofino”. “Ah sì? Bravo! E tu cosa fai?”, perché mi hanno dato subito del tu. “Sto guardando con la ragioniera certi conti”. “Un’ora di tempo vi diamo. Poi passiamo a vedere se siete ancora qui”. E se ne vanno. Non torneranno più. È stato, questo, un episodio che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze. 113

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Quelli erano degli scalmanati, armati di spranghe e di bastoni; se mi avessero riconosciuto, non so come sarebbe andata a finire per me. Riporre l’arma nel cassetto e dare quella risposta con prontezza e disinvoltura credo proprio sia stata un’ispirazione venuta dal Cielo. Dopo l’irruzione ho chiamato zio Leone e con lui ho passato tutta la notte di guardia in una stanza sopra l’entrata. Non è venuto nessuno. Comunque, a coloro che hanno fatto irruzione il suggerimento di passare dal fabbricato al numero 4 è venuto da qualcuno che conosceva bene l’azienda; loro non potevano sapere che più avanti c’era lo spogliatoio e quella finestra con la scaletta. Anche a Lambrate, nello stabilimento, ho vissuto momenti difficili. A crearmeli, subito, è stato il Lambro. Nel 1951. Lo stabilimento era ancora costituito da pochissimi reparti. In autunno la pioggia ha flagellato il Nord Italia e ha provocato la grande alluvione del Polesine. Si è gonfiato anche il Lambro, che è esondato e ha sommerso il ponte di via Folli. Per andare in fabbrica attraversavo il ponte a bordo di un camion. Nello stabilimento, per la pressione delle acque si è sollevato il pavimento del seminterrato del fabbricato 6. I danni non sono stati gravi, ma questa mia prima esperienza fatta con il Lambro mi ha messo di fronte a un problema che – ero consapevole – si sarebbe potuto ripresentare, magari con conseguenze più serie. Mi sono subito attivato per porre le indispensabili protezioni dello stabilimento. Anche il Genio civile è intervenuto con dei lavori nell’alveo a ridosso del ponte al fine di frenare la violenza del fiume in piena. Ma nel 1957 nuova esondazione del Lambro, in seguito alla quale ho ulteriormente rafforzato i sistemi di fognature con l’installazione di potenti idrovore. Dopo di allora di pericoli seri non ne abbiamo più corsi, anche se il Lambro non ha mancato di darmi qualche preoccupazione. Però a me il Lambro piaceva: era un bel fiume, acque pulite, lungo le sue rive si pescavano i gamberi. E “Il Gambero” era chiamata l’antica osteria che oggi fa parte del sito di Lambrate: l’abbiamo restaurata conservandone la struttura architettonica originale. Il Lambro e il suo ponte fanno parte della mia vita e della storia dell’azienda. Al Lambro è stato dedicato uno dei nostri primi importanti interventi volti alla 114

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tutela dell’ambiente: negli anni ‘70 abbiamo attivato un impianto di depurazione delle acque. Il sistema era della Ciba Geigy. Siamo stati i primi tra le aziende milanesi. Anzi, io allora avevo avanzato la proposta a coloro che operavano lungo il fiume di costituire un consorzio per la depurazione delle acque di scarico. La proposta è però caduta nel vuoto: hanno continuato a buttare dentro di tutto. Fatto lo stabilimento di Lambrate mi sono posto un nuovo obiettivo: partire, sì, facendo i prodotti che la Cilag mi dava in concessione, ma in seguito lasciare perdere la Cilag stessa. C’era però il problema che

L’Impianto di depurazione delle acque della Bracco A destra: la portineria della Bracco

L’antica osteria “Il gambero” dopo il restauro

Sciaffusa, attraverso il suo 50% nella Cilag Italiana, era partecipe di Lambrate. Sono riuscito a risolverlo nel 1955 con la proposta, accolta da Sciaffusa, di acquisire quel 50%, ottenendo in tal modo la totale proprietà della Cilag Italiana. Che poi ha cambiato la ragione sociale in Industria Chimica Dr. Fulvio Bracco SpA. Nel 1957 la Bracco già Italmerck è stata incorporata nella Dottor Fulvio Bracco SpA. Ed è esatto parlare di incorporazione: la Dottor Fulvio Bracco SpA era infatti la parte patrimoniale più forte, con il suo stabilimento e le varie specialità. Dal 1° gennaio 1958 la nuova ragione sociale della società sarà Bracco Industria Chimica SpA.

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Il Centro ricerche Eprova

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Con lo stabilimento di Lambrate ho realizzato il primo punto del programma che mi ero prefisso: produrre. La ricerca è stata il passo immediatamente successivo. 116

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Devo riandare a una data: 1 ottobre 1950. Segna l’assunzione in azienda – siamo ancora in Renato Fucini – del professor Ernst Felder. Anzi, il dottor Ernst Felder. Si era infatti laureto in chimica a Zurigo, ma il suo titolo non era riconosciuto in Italia. Ha dovuto perciò prendere la laurea italiana. Così, con un esame, è stato ammesso all’ultimo anno di chimica all’Università di Pavia. Alla discussione della tesi Felder ha tenuto una lezione di altissimo livello, subissando letteralmente i professori con la vastità e la profondità della sua cultura. Il titolo di professore gli verrà poi conferito per le sue pubblicazioni scientifiche e per le sue ricerche sui mezzi di contrasto. Ricordando con lui questi fatti, mi sento rispondere con estrema semplicità: “Ma sa che oggi quando parlo di chimica con i miei due figli, due ricercatori, comincio a zoppicare? Mi parlano di certe cose che non ho mai sentito”. Il professor Felder è sempre stato un uomo di grande modestia. Devo riconoscere che oggi la chimica fa progressi impressionanti; adesso, quando mi trovo davanti una relazione di uno scienziato, sono tentato di rinunciare a leggerla perché so quanto sia difficile capirla. Del professor Felder dico soltanto che lui ha creato la ricerca in Bracco. In quegli anni la Cilag di Sciaffusa, direttamente o indirettamente, ha avuto parte nella mia “avventura” di imprenditore. Il professor Ernst Felder è arrivato dalla Cilag. E sempre dalla Cilag sono venuti i ricercatori dell’Eprova, il Centro di ricerche che ho fondato nel 1952 a Sciaffusa. A una iniziativa di questo tipo stavo pensando da tempo. Ritenevo interessante avere un laboratorio di ricerche in Svizzera soprattutto perché questo Paese aveva la legge brevettuale sui farmaci, che in Italia non esisteva: con un centro ricerche a Sciaffusa avrei potuto esportare i miei prodotti brevettati nei Paesi in cui vigeva il brevetto. Anche per quanto riguardava i ricercatori, sapevo che là c’era la gente giusta. Sin dai tempi delle compensazioni avevo infatti avuto l’occasione di conoscere e apprezzare i collaboratori della Cilag, tra i quali c’erano il professor Felder e il dottor Suter, direttore della ricerca. Nel 1952 la Cilag stava attraversando un momento non molto favorevole. Per questo ritenevo che, oltre al dottor Suter, diversi collaboratori della Cilag mi avrebbero volentieri seguito nella mia ini118

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IL CENTRO RICERCHE EPROVA

ziativa. Erano molto validi e preparati in farmaceutica e in chimica: era indiscutibilmente un vantaggio avere già in partenza queste persone per fare ricerca. Prima di decidere di creare l’Eprova ho però pensato a lungo. Infine, una sera a Zurigo, in una trattoria alla periferia della città, mentre fuori imperversava una fitta nevicata, ho tenuto la riunione decisiva. Con me a definire il progetto e il programma di lavoro c’erano il dottor Suter per la ricerca, Walker per la parte commerciale, Dermond per la parte contabile. Nella stessa riunione abbiamo discusso del personale che si doveva assumere e che faceva parte della ricerca Cilag. Abbiamo subito predisposto la costruzione di un primo edificio. In un anno hanno fatto tutto, non come da noi in Italia, dove troppi ostacoli e lentezze burocratiche fanno da freno. Anche per il nostro Centro ricerche di Ginevra, nel 1997, hanno detto che si faceva in 11 mesi e puntualmente l’hanno consegnato. Pronto il Centro ricerche, insieme a Suter, ho portato con me dalla Cilag i migliori uomini – chimici, biologi, farmacologi – in modo da costituire un gruppo affiatato che poteva cominciare subito a lavora-

Il professor Ernst Felder

Fulvio Bracco con il dottor Hans Suter

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FULVIO BRACCO

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IL CENTRO RICERCHE EPROVA

re. E anche a collaborare con il Laboratorio di ricerche di Milano che era in cima ai miei pensieri e che sotto la direzione del professor Felder stava avviando l’attività. È stata una collaborazione costante e importante: dall’Eprova sono venuti segnalazioni, consigli, spunti molto utili per la ricerca a Milano. A Milano avevamo Felder, a Sciaffusa Suter. Tra loro c’è stato un rapporto di cordiale collaborazione, mai incrinato da – diciamo così – motivi di gelosia professionale, che pure, qualche volta, ci sono stati. Felder e Suter erano due chimici con una mente straordinaria. Certo, Felder era un vero fenomeno. Quando si mettevano a discutere loro due, io dicevo: “Scusate, io vado a bere un caffè, voi andate pure avanti”. Era bellissima l’Eprova. Il Centro ricerche aveva laboratori moderni e una attrezzatura completa dal lato chimico-fisico e biologico: tutto, quindi, a beneficio dei risultati. La ricerca era orientata sui chemioterapici, gli antitubercolari e i mezzi di contrasto. Iniziata l’attività, ben presto al primo edificio ho dovuto affiancarne un altro poiché la ricerca si sviluppava sempre di più. L’Eprova lavorava anche per terzi. Alcune iniziative infatti non interessavano soltanto Bracco, ma anche altre aziende farmaceutiche o chimiche. La stessa Merck ha cominciato a servirsi dell’Eprova per alcuni studi. All’Eprova ha lavorato un gruppo veramente meraviglioso. È andato subito d’accordo con Milano. Tutto ha funzionato molto bene. Ho tenuto l’Eprova fino al 1973, quando ho deciso di venderla alla Merck.

Il Centro ricerche Eprova Pagina seguente: particolari dei laboratori di ricerca Eprova

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Un legame ideale sempre forte

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Il 1952 è stato l’anno dell’Eprova. Ed è stato il venticinquennale di fondazione della nostra azienda. Un anniversario importante perché abbiamo festeggiato, con la ripresa del dopoguerra, il nostro rilancio. 122

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Tessera di Fulvio Bracco della Famiglia istriana, 1958 Pagina precedente: avviso per una borsa di studio intitolata a “Nina Bracco Salata”, 1956

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UN LEGAME IDEALE SEMPRE FORTE

Io ho pensato di celebrarlo con una iniziativa speciale. Quell’anno, infatti, ho vissuto anche un momento di immenso dolore per la scomparsa di mia madre. Il venticinquennale è stato l’occasione ideale per ricordarla in un modo che lei, istriana, avrebbe senz’altro apprezzato: l’istituzione di borse di studio intitolate a Nina Bracco Salata da assegnare a neolaureati giuliano-dalmati delle Facoltà di Scienze naturali, Chimica, Chimica industriale, Farmacia e Medicina che si erano distinti nella tesi di laurea. Col tempo, è stata fatta una modifica interessante nella destinazione delle borse di studio: venendo man mano a mancare gli studenti giuliano-dalmati, abbiamo pensato di assegnarle a neolaureati figli di farmacisti rurali, a riconoscimento dei meriti di questa categoria che operava quasi sempre in condizioni molto precarie. Le borse di studio intitolate a mia madre sono state la prima di varie iniziative da me sostenute negli anni per contribuire a tenere vive la cultura, la storia, le tradizioni della terra di origine della mia famiglia. Lo sentivo più che un dovere: era la volontà di riaffermare il legame ideale con quelle terre molto amate, ma tanto disgraziate. Per promuovere attività culturali e sportive, ad esempio, ho fondato nel 1952, e ne sono stato presidente fino al 2001, il Circolo giulianodalmata; ho patrocinato e sostenuto la collana di monografie “Histria Nobilissima” dedicate alle città istriane; alla Scuola di musica di Zara, bombardata nel 1991 durante la tragica guerra di quegli anni nei Balcani, ho donato un pianoforte. La collana “Histria Nobilissima” mi riporta all’amicizia con due religiosi che mi è stata particolarmente cara. Ho già accennato a Padre Alfonso Orlini per il mio matrimonio con Anita. Era istriano, dell’isola di Cherso. Frate francescano, poi diventato Generale dei conventuali, era grande amico di mio padre e mio. Mi voleva molto bene. Quando mi recavo a Roma andavo sempre a fargli visita. Credo che l’idea delle monografie dedicate alle città istriane sia proprio nata da un colloquio tra mio padre e Orlini. Poi Orlini si è fatto concretamente promotore dell’iniziativa parlandone con me. Gli ho dato la mia adesione e il mio sostegno con grande entusiasmo. Il comitato editoriale era composto da Padre Orlini, fondatore della collana, da Melchiorre Dechigi, professore di Igiene 125


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UN LEGAME IDEALE SEMPRE FORTE

Padre Alfonso Orlini con Fulvio Bracco Pagina seguente: Fulvio Bracco al Circolo Giuliano Dalmata di Milano

all’Università di Padova, da Marino Gentile e Sergio Cella. Alla morte di Orlini, la collana è stata curata dal professor Dechigi. Significativa la data di stampa del primo volume, intitolato a Cherso: 2 agosto 1961, l’anno centenario dell’Unità d’Italia. Orlini l’ha voluto dedicare, con una intensa prefazione, alla memoria di due irredentisti istriani: a mio padre Elio, scomparso da pochi mesi, e a Nicolò Lemessi. Istriano era anche il segretario di Padre Orlini: Padre Flaminio Rocchi. Era di Neresine. Con lui c’è stata una lunga, profonda amicizia: è mancato nel 2003. Per cinquant’anni ha dedicato tutto se stesso ai problemi degli esuli, dei profughi istriani, fiumani, dalmati; instancabile il suo impegno per difendere ed affermare i loro diritti; importante il suo contributo per conservare alla storia le drammatiche e tragiche vicende dell’esodo.

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DA NERESINE A MILANO

FULVIO BRACCO

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FULVIO BRACCO

Il palco alla Scala

IL DOPOGUERRA E LA RIPRESA

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Gli anni Cinquanta sono stati molto intensi, faticosi. Lo stabilimento che si ingrandiva, lo sviluppo della ricerca, la produzione sia delle specialitĂ su licenza sia delle materie prime per vendere a terzi. Tutto questo per me significava seguire il lavoro ora per ora. Non avevo quasi un momento di svago. 128

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FULVIO BRACCO

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La settimana era tutta piena, compresa la domenica mattina. Sono però sempre riuscito a ritagliarmi uno spazio da dedicare insieme ad Anita a una comune grande passione: la musica, soprattutto l’opera lirica. Non ho mai voluto rinunciare agli appuntamenti con la Scala. Il mio amore per la musica e in particolare per la lirica viene da lontano. L’ho coltivato sin da ragazzo: con le lezioni di violino che prendevo, ancora studente delle medie, a Trieste. Sarebbe stato meglio il pianoforte, era il mio preferito, ma non lo avevamo a casa. Ho così studiato musica e sapevo leggere uno spartito. Quando sono arrivato, studente liceale, a Milano, la Scala era il mio sogno e ne sono diventato un assiduo frequentatore. Avevo avuto dai miei genitori il permesso di andare in loggione: mi mettevo in coda un paio d’ore prima dello spettacolo per poter andare nel secondo loggione, dove si sentiva molto bene. Per me era uno spettacolo impressionante vedere i loggionisti concentratissimi ad ascoltare la musica con lo spartito tra le mani e una pila per poterlo leggere e, finito l’atto, sentire i loro commenti: “qui è andato fuori riga”, “il direttore ha modificato questo pezzo”… Incredibile la loro competenza, sapevano tutto, non gli sfuggiva una nota. Con il passare degli anni, anche dal palco che ormai frequentavo, il loggione ha sempre avuto un fascino su di me. Ai tempi della Callas rivedo ancora Meneghini andare su e giù sempre in loggione a controllarne gli umori. E quello che è successo alla prima della “Traviata” diretta da Carlo Maria Giulini nel 1956. A una nota presa male dalla Callas sono venuti giù, dall’alto, rapanelli e ogni genere di verdura e lei mostrava al pubblico che cosa le tiravano dal loggione! Anche il modo, del tutto insolito, con cui sono arrivato ad avere il palco alla Scala credo meriti di essere raccontato. Era difficilissimo ottenerlo. Io devo dire grazie a un carissimo amico di mio padre e mio: il dottor Evaristo Calvi, un industriale produttore di olio e di glicerina; a ottant’anni guidava ancora l’auto. 130

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IL PALCO ALLA SCALA

Anita Coppini a una “prima” alla Scala Pagina seguente: Fulvio e Diana Bracco nel foyer della Scala

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FULVIO BRACCO

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Diana Bracco a una “prima” Scaligera Pagina precedente: Fulvio Bracco e la moglie Anita

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IL PALCO ALLA SCALA

Mi aveva invitato una volta nel suo palco e aveva notato quanto la lirica mi avvincesse. Un bel giorno Calvi mi dice: “Io ho il palco alla Scala, ma adesso lo lascio: non posso più andarci, sono in difficoltà anche a camminare. Perché non lo prendi tu?”. “Come no! Quanto ti devo pagare?” . “Ma sei matto? Cosa vuoi pagare! Andiamo dal Sovrintendente Ghiringhelli”. Andiamo da Ghiringhelli e Calvi lo informa: “Sai, io rinuncio al palco a favore del dottor Bracco. Puoi fare così?”. “Senz’altro” risponde Ghiringhelli e aggiunge: “Non prendi niente per la cessione?”. “Ma cosa dici?!” “Signori miei – esclama Ghiringhelli – è l’unico caso di un palco alla Scala ceduto senza che ci sia un passaggio di denaro!”. Quanti ricordi legati al palco alla Scala. L’apertura della stagione a Sant’Ambrogio, le “prime” con mia moglie e poi, appena diventate grandicelle, anche con le mie tre figlie. E la fioraia nel foyer, Amalia Zampicelli, una istituzione: il suo garbato gesto di omaggio, il grazie discreto di mia moglie. E, insieme alla Scala, l’altro grande appuntamento: Bayreuth. Vi andavo con Karl Merck. Parsifal, tutta la Tetralogia: L’oro del Reno, La valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei. Una grande musica! Però bisogna essere preparati, conoscere prima lo spartito per poter seguire e capire l’opera. E ci vuole grande concentrazione. Allora, in teatro a Bayreuth, i sedili erano di legno: così – dicevano scherzosamente i tedeschi – si era costretti a stare attenti e non c’era il rischio che qualcuno patisse colpi di sonno. E che impressione, sempre, quando calava il sipario su Parsifal: un silenzio assoluto nella sala, ammaliata dallo straordinario misticismo di questa opera di Wagner. Le serate alla Scala hanno rappresentato per me una meravigliosa pausa nelle mie giornate fatte di lavoro, di tante preoccupazioni, di decisioni che richiedevano anche coraggio.

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Viaggiatore instancabile

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Il buon avvio dell’attività a Lambrate mi ha dato sicurezza e mi ha fatto pensare alla possibilità di allargare gli orizzonti dell’azienda oltre i confini nazionali. 134

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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VIAGGIATORE INSTANCABILE

Il passaporto di Fulvio Bracco

Ho fatto viaggi in tutto l’Est europeo: in Ungheria, in Romania, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Russia allora Unione Sovietica, Paesi che la “Cortina di ferro” rendeva praticamente impenetrabili anche al commercio. Lì ho venduto moltissimo perché grandi erano le carenze nel campo dei farmaci e dei mezzi di contrasto per radiologia. Lavorare con l’Est Europa era un piacere: quando davano una parola, la mantenevano. Dopo l’Europa, l’India, il Brasile, il Venezuela, la Colombia, il Messico, gli Stati Uniti, la Cina. Sono stato dappertutto. Un viaggiatore instancabile. Per questa mia attività un punto cardine di partenza è stata la collaborazione di due persone molto care, due commercianti svizzeri, che mi hanno indicato e anche aperto le strade, in particolare verso l’Est: Ernst Wohlgemuth e Marcel Leclerc. Avevano una grossa azienda commerciale per l’acquisto e la vendita di prodotti chimico-farmaceutici che operava in tutto il mondo. Anche con loro l’approccio è partito dalle compensazioni private: alla Cilag avevo infatti conosciuto Wohlgemuth, che già si occupava dell’Est europeo. 136

Marcel Leclerc, Fulvio Bracco e Ernst Felder durante un viaggio in India nel 1964

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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Cartolina pubblicitaria del Piridacil, anni Sessanta

VIAGGIATORE INSTANCABILE

Leclerc e Wohlgemuth mi avevano preso a benvolere. La simpatia era reciproca. Ma io indubbiamente rappresentavo un ottimo affare per loro con le provvigioni che assicuravo dopo gli importanti contratti ottenuti. Hanno cercato di starmi vicino il più a lungo possibile perché vedevano che la mia azienda si sviluppava. Leclerc e Wohlgemuth conoscevano bene i mercati esteri, soprattutto Oltrecortina. Era gente che sapeva fare il suo mestiere. Loro sono stati il mio contatto: erano conosciuti, avevano un nome; erano talmente ben introdotti Oltrecortina – essere svizzeri voleva dire molto – che in tutti i Paesi il rapporto con le autorità era sempre al più alto livello. Di solito andavo con loro e venivo da loro presentato, poi la volta successiva andavo anche solo. Ad esempio, in Ungheria mi avevano creato la possibilità di contattare direttamente il direttore generale della Sanità. In India, nel 1964, siamo andati in tre: io e Felder per la Ricerca, Leclerc a rappresentare la sua azienda commerciale. Anche in questo Paese gli incontri si sono svolti ad alto livello: esponenti del governo, a iniziare dal Ministro della Sanità, personalità scientifiche, industriali. Bombay, New Delhy, Hyderabad sono state le nostre mete. Ad Hyderabad abbiamo festeggiato i primi dieci anni di licenza Bracco della produzione di Piridacil alla locale azienda farmaceutica. I miei due amici svizzeri mi hanno sempre indicato la strada giusta.

Fulvio Bracco in Russia Pagina precedente: Fulvio Bracco in Messico nel 1963, con due sue collaboratrici

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

La morte di mio padre

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Nel 1961, mentre stavo occupandomi delle mie due nuove aziende costituite una in Brasile, a San Paolo (la Bracco Novotheràpica Laboràtories), l’altra a Città del Messico (la Bracco de Mexico), ho perso mio padre. Viveva una vita sua a Roma, ma i nostri rapporti erano rimasti molto stretti e intensi. 140

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

A differenza di me, papà non era assolutamente un melomane. La musica proprio non gli diceva niente. Lui amava solo il mare, le barche e Neresine. Fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, appena poteva tornava a Lussino, tanto forte era il legame con la sua isola e con il paese in cui era nato. A Neresine ha voluto recarsi anche per una lunga convalescenza dopo aver superato un bruttissimo momento. Gli era venuta una inspiegabile febbre e non riusciva a star bene. Lo abbiamo allora ricoverato in clinica medica della Facoltà di medicina dove c’era il professor Cesa Bianchi. Lì, all’improvviso, preso da un conato di vomito ha espulso una specie di blocco carnoso a forma d’uovo che, esaminato, è risultato essere un echinococco, verme parassita che vive nell’intestino di pecore e cani. Mio padre ha sempre avuto tanti cani ed è nato tra le pecore. A Neresine più che pecore e capre non c’erano. Noi, la prima mucca, l’abbiamo vista non so in che anno. A Trieste e a Milano, ovunque, mangiavamo carne bovina; quando si arrivava in isola niente da fare: pecora o capra. Anche il latte era di capra, salato; io non l’ho mai bevuto: come mio padre, non posso assolutamente bere latte. In che modo papà avesse preso l’echinococco si poteva perciò anche supporre, ma non si è mai capito come questo parassita sia poi passato nello stomaco. Tutti gli esami fatti, anche radiologici, non hanno spiegato questo fatto dell’“uovo” vomitato. Papà avrebbe potuto restarne soffocato. È stato una specie di miracolo. Il caso di mio padre è stato anche oggetto di un lavoro scientifico del professor Arrigoni, “aiuto” del professor Cesa Bianchi. Per la convalescenza, papà ha voluto andare a Neresine, dove è rimasto insieme a mia madre per un paio di mesi, tornando poi a Milano completamente ripreso e brillantissimo. Le barche hanno accompagnato la sua vita: senza barca non sapeva stare. Tanto da affrontare un complicato e avventuroso itinerario per portare in Italia una barca a vela acquistata in Olanda. È andato lui a prendersela, con il marinaio della sua barca, e sempre navigando per fiumi, canali e canaletti in due settimane ha portato la vela dall’Olanda al mare, a Imperia. L’unico problema è stato l’albero: non passava sotto i ponti. Così è stato smontato e sistemato sulla 142

17. LA MORTE DI MIO PADRE

barca. Anche a Roma papà ha sempre avuto la sua bella barca a vela, che teneva ormeggiata a Fiumicino. Mio padre è morto in aprile a Roma. Sei mesi prima si era sposato in seconde nozze con una insegnante di musica che dava lezioni di piano. È stato operato dal professor Valdoni nella Clinica Sanatrix per un tumore al fegato. Gli hanno però fatto credere che si trattava ancora dell’echinocco. Mi ricordo che durante l’operazione c’è stata un’eclisse di sole, e io e mia moglie l’abbiamo osservata dal giardino della clinica dove eravamo in attesa dell’esito dell’intervento. Un mese dopo papà è morto in clinica. Poco prima di spirare, ha voluto vicino mia moglie e le ha detto: “Anita, perdonami!”. Nel suo cuore era rimasta la pena per quella sua dura reazione al nostro matrimonio segreto. In Brasile e in Messico andavo una volta all’anno per una visita alle mie due aziende. Erano dirette da persone di fiducia. Soprattutto quella di San Paolo, che era la più importante. A capo di questa azienda ho messo zio Ezio, che vive tuttora in Brasile. Ha due anni più di me. Era un grosso lavoratore e aveva rappresentato la Bracco in particolare a Roma, dove la nostra società aveva la filiale più importante in Italia. Ezio ha dato un bello sviluppo all’impresa brasiliana. L’ho

La Bracco de Mexico

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

17. LA MORTE DI MIO PADRE

Gli ultimi giorni del mio lungo viaggio nelle Americhe li ho dedicati a New York. È stato il mio primo incontro con la Grande Mela: ne sono rimasto impressionato e affascinato. Sono sbarcato all’aeroporto La Guardia in una giornata bellissima. Era mattino presto. Ad attendermi c’era il professor Felder. In taxi, ho visto, stagliati nel cielo, i grattacieli: una immagine di grande potenza. Mi è venuto spontaneo esclamare: “Che forza hanno questi americani!”. Con Felder avevo in programma incontri con alcune grandi aziende, la Squibb, la Mallinckrodt, la Schering americana. Erano società che avevano prodotti propri per uso diagnostico. Conoscevano la Bracco attraverso i lavori pubblicati dalla nostra ricerca; nello stesso modo noi sapevamo delle loro ricerche. Con il viaggio a New York, noi avremmo presentato i risultati della nostra ricerca, ma molto volentieri avremmo anche preso da queste grandi aziende dei prodotti che ci potevano interessare. Mentre avviavo questi contatti, ho approfittato per informarmi su altre società delle quali avevo sentito che si stavano organizzando nei mezzi di contrasto: ero infatti interessato a conoscere la realtà della ricerca americana in questo campo, che sapevo molto avanzata.

La Bracco Novotheràpica di San Paolo

venduta nel 1978, e nel 1986 ho ceduto l’azienda di Città del Messico. È in uno di quei miei viaggi Oltreoceano che per la prima volta ho visto New York. Era il 1962. Tra ottobre e novembre, in un mese, mi sono fatto Argentina con tappa a Buenos Aires, Brasile a San Paolo, Venezuela a Caracas, Colombia a Bogotà, poi Città del Messico, infine New York. Del tutto imprevisto il fuoriprogramma dopo l’arrivo a Bogotà, una domenica mattina. Ero solo e ho deciso di visitare la città. Il portiere dell’albergo mi ha però fermato chiedendomi dove stavo andando. Un po’ stupito ho risposto: “Vado in città”. “No, lei non va in città. Ci sono squadroni che arrivano a cavallo, prendono le persone nelle strade e le portano via”. Io ho naturalmente rinunciato alla visita, ma mi sono chiesto che cosa potevo fare in alternativa. Poi, incuriosito da un vociare come da stadio che arrivava fino all’albergo, ho chiesto al portiere che cosa fosse. “Ecco, vada a vedere la corrida” è stata la sua risposta. E così ho fatto. Uno spettacolo tremendo: era la prima volta che vi assistevo. E mi sono chiesto come facessero gli spagnoli a parteciparvi con tale passione. Però ho ammirato il coraggio dei toreri. 144

La sede della Bracco Research a Princeton, anni Novanta

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DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Cavaliere del Lavoro

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All’avvio degli anni Sessanta, il punto della mia attività di imprenditore può essere fatto con questo sintetico quadro: il complesso industriale di Lambrate, nove filiali in Italia, 50 rappresentanze in tutto il mondo, gli stabilimenti in Brasile e in Messico, il Centro di ricerche a Sciaffusa. 146

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Avevo dunque già un po’ di storia dietro di me quando nel 1963 sono stato nominato Cavaliere del Lavoro. La prestigiosa onorificenza conferitami dal Presidente della Repubblica sen. Antonio Segni è stata il coronamento di anni in cui la Bracco ha cominciato a diventare internazionale, ha cominciato a essere importante. Non amo compiacermene, ma devo dire che è stata una bella soddisfazione vedere che il Paese riconosceva il mio lavoro. La nomina mi è stata in un certo qual modo anticipata dall’allora Ministro dell’Industria, on. Emilio Colombo, che mi ha ricevuto il 1° giugno a Roma. Per gli incarichi che ricoprivo andavo frequentemente a Roma. Dopo aver discusso alcuni problemi sui quali il ministro si è detto d’accordo con me, l’ho salutato e preso congedo. Mentre percorrevo il grande salone dove si era svolto il colloquio, l’on. Colombo mi ha richiamato: “Devo dirle che nella mia cassaforte ho una cosa che la riguarda. Arrivederci! Arrivederci!” e non ha aggiunto altro. Nella cassaforte c’era la mia nomina a Cavaliere del Lavoro. Mentre tornavo a Milano in aereo, ho ripensato alle parole del ministro e ho sospettato che alludesse proprio alla nomina. D’altra parte era logico pensarlo: Tessera di Fulvio Bracco della Federazione nazionale Cavalieri del Lavoro

Anita Coppini si congratula con il marito, neocavaliere del Lavoro , 1963

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CAVALIERE DEL LAVORO

tempo prima dalla Prefettura mi erano stati chiesti i dati personali. Vent’anni dopo viene in visita a Milano Papa Giovanni Paolo II e con una cerimonia in Fiera incontra anche gli imprenditori lombardi. Seduti in seconda fila con me ci sono Giovanni Calì e Rina Brion Vega, entrambi Cavalieri del Lavoro. Con Calì ero abbastanza in confidenza: industriale elettromeccanico, ogni estate mi invitava un giorno a casa sua per gustare le ciliegie dei suoi possedimenti calabresi. A un certo momento Calì mi dice: “Tu hai lasciato la presidenza Aschimici. Non accetteresti adesso la presidenza del Gruppo lombardo dei Cavalieri del Lavoro?”. La proposta mi coglie di sorpresa e rispondo subito con un no. Calì non si dà per vinto e anche la Brion Vega insiste. Alla fine dico: “Lasciatemi pensare”. Avevo infatti delle perplessità. Ricordavo ad esempio come fossi rimasto impressionato la prima volta in cui avevo partecipato alla riunione del Consiglio dei Cavalieri del Lavoro lombardi convocata per proporre le nuove nomine. Era presieduta da Eugenio Radice Fossati. Una riunione? Un mercato! Una confusione! “Dove sono capitato!” mi dicevo. “È possibile che dei Cavalieri del Lavoro facciano una tale confusione?”. E non avevo dimenticato l’altra poco simpatica “esperienza” a una colazione – sempre per la prima volta – dei Cavalieri del lavoro, peraltro molto poco partecipata. Al termine, a ciascuno dei partecipanti erano state chieste cinquemila lire per il pasto consumato! Ho riflettuto dunque alcuni giorni sulle linee alle quali avrei voluto ispirare la mia presidenza e alla fine ho detto sì. È così che ho cominciato. Era il 1983. Sono stato eletto Presidente e sono rimasto lì 18 anni. Nel contempo ero anche Vicepresidente della Federazione nazionale dei Cavalieri del Lavoro. Al Gruppo lombardo ho cambiato tutto. A cominciare dalle propo149


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Fulvio Bracco con il Presidente del Senato Giovanni Spadolini

ste di nomina a Cavaliere del Lavoro. Ho fatto leva su un metodo rigoroso e trasparente. Ho introdotto, ad esempio, la pratica dei moduli sui quali dovevano essere riportati tutti i dati – compreso il reddito personale e delle rispettive aziende – degli imprenditori che si volevano proporre per la nomina. Soprattutto, ho tenuto molto al rapporto con il Prefetto di Milano. Per le nomine, andavo sempre da lui qualche mese prima per informarlo e avere il suo assenso, per poi recarmi dal Ministro dell’Industria. Altrettanto facevo con i Prefetti dei capoluoghi delle province lombarde: li contattavo personalmente o scrivevo loro. Non trascurando, naturalmente, l’importante Assolombarda. Ho lavorato molto per il Gruppo, trovando nel segretario Giorgio Sinatti il più prezioso dei collaboratori sia a Milano che a Roma. Ho cominciato pian piano a far crescere l’immagine e la presenza attiva nella realtà milanese e lombarda dei Cavalieri del Lavoro. Un bella tradizione da me avviata sono stati i “martedì”: in quella giornata il Gruppo invitava una personalità o della politica o delle scienze o dell’economia. Il primo a parteciparvi è stato Renato Altissimo, che era Ministro dell’Industria; Giovanni Spadolini, Presidente del Senato, è venuto da 150

CAVALIERE DEL LAVORO

Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferisce a Fulvio Bracco l’onorificenza di Decano dell’Ordine dei Cavalieri del Lavoro, 2001

Fulvio Bracco con Benito Benedini

noi tre volte. A questi nostri incontri la partecipazione dei Cavalieri del Lavoro è sempre stata altissima. Come Gruppo, abbiamo anche organizzato vari convegni per dare un nostro contributo di idee e di proposte su temi di grande attualità e che interessavano non soltanto la Lombardia ma il Paese. Insomma, ho fatto funzionare la Presidenza come si deve. Nel 2001 ho passato il testimone a Benito Benedini. Due i Presidenti della Repubblica ai quali sono legati i miei anni di Cavaliere del Lavoro: Antonio Segni, che mi ha nominato nel 1963; Carlo Azeglio Ciampi, che nel 2001 mi ha conferito l’onorificenza di Decano dell’Ordine dei Cavalieri del Lavoro. Decano non per età, ma per data di nomina. È stato il riconoscimento più bello per i miei tanti anni dedicati al Gruppo Lombardo e alla Federazione nazionale. 151


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Non solo Lambrate

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Se dei “miei” anni Sessanta ho voluto porre l’accento sulla nomina a Cavaliere del Lavoro, non mi dispiace riservare un po’ di spazio anche al mio impegno di imprenditore che ricerca sempre nuove strade per crescere. La Sircai è stata una di queste. 152

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Se si oltrepassa il ponte sul Lambro, sulla destra, lungo la cancellata della Bracco, si notano ancora i segni di un ingresso: di lì, e solo di lì, si entrava alla Sircai perché produceva derivati dalla lavorazione dell’oppio. La Sircai era una delle quattro aziende italiane che avevano l’autorizzazione per produrre oppiacei. Mi è stata proposta nel 1957 e l’ho comprata. Producevo morfina, etilmorfina, codeina ecc. Le condizioni per produrre erano tassative e severissime. Innanzitutto ho dovuto realizzare un padiglione nettamente separato: per arrivarvi non si poteva passare dalla portineria dello stabilimento, ma da un ingresso e da una strada di accesso a sé stanti. Tutto era sotto il controllo della Guardia di Finanza. Era un finanziere a togliere al mattino i sigilli; era un finanziere a rimetterli alla sera; ed era sempre un finanziere ad essere presente a tutte le lavorazioni e a controllare uscita ed entrata delle merci. Io importavo i pani di oppio; non so più attraverso quanti controlli i pani dovevano passare prima di arrivare a Lambrate. La produzione andava al Ministero, allora Alto Commissariato della Sanità, che poi provvedeva alla distribuzione a ospedali, industrie farmaceutiche, farmacie ecc. Oppure era l’Alto Commissariato stesso a

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Fulvio Bracco parla ai dipendenti riuniti nella mensa di Lambrate

NON SOLO LAMBRATE

indicarci – meglio dire: a ordinarci – a quali ospedali, industrie o altri destinatari dovevamo mandare direttamente i prodotti. La Sircai era molto interessante, ma il lavoro estremamente delicato e rischioso. Alla fine, nel 1984, ho deciso di venderla. E poi avevo bisogno di un padiglione perché l’azienda si stava ingrandendo. Un simpatico ricordo legato alla Sircai. Nei controlli sono, per così dire, incappato anch’io. C’era un ragazzo, bravissimo – Verri si chiamava –, faceva il fotografo e lavorava appunto alla Sircai. Non mi aveva mai visto. Un giorno io arrivo, faccio per entrare e lui mi blocca con decisione. “Guarda che è il Presidente” lo avvertono gli altri dipendenti; mortificato, non finiva più di scusarsi. Da quel momento è diventato il fotografo “istituzionale” della Bracco. C’è una fotografia in cui io parlo ai dipendenti in piedi su un tavolo: l’ha scattata lui. Tutte le fotografie a Lambrate le ha fatte lui. C’è poi l’esperienza da me fatta nel campo del termalismo, che si spiega con la mia attenzione, e anche curiosità – naturalmente da imprenditore –, per iniziative che comunque rientrano nel vasto campo della salute. Mi riferisco alle Terme di Bacedasco, in provincia di Piacenza. L’iniziativa è nata da un’idea del professor Carlo Bianchi, direttore

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della Clinica medica dell’Università di Parma. Il professor Bianchi era anche un amico; d’estate veniva sempre con me in crociera, per una vacanza di due settimane. Un giorno mi accenna a queste Terme, dicendomi che una cosa del genere poteva anche interessarmi. Io chiedo di vedere, vado lì e constato che non c’è praticamente niente. C’erano le acque termali e soltanto una baracchetta dove si facevano i bagni. Insomma, una cosa primitiva. Però, guardandomi intorno, rimango colpito dalla bellezza del luogo: le terme sono immerse nel verde, con un bosco meraviglioso. Allora dico a Bianchi: “Ma sì, me ne occupo”. La società c’era già: la Società Terme di Bacedasco S.p.A. Il Consiglio di amministrazione era composto tutto da comunisti, tanto che le Terme erano chiamate le “Terme rosse”. L’eccezione siamo stati io e il professor Bianchi. Ho presentato il programma e sono stato nominato presidente. Era il 1964. Che cosa abbiamo fatto? Innanzitutto abbiamo acquistato come società quel bosco stupendo, dove non era entrato mai nessuno. Ma acquistarlo è stata davvero un’impresa, perché il terreno era proprietà della Curia di Piacenza e il vescovo non voleva assolutamente sentir parlare di vendita alle “Terme rosse”. Dopo un tira e mollamolla e tira, alla fine sono riuscito a convincere il vescovo a venderci il terreno. Dove noi, però, non abbiamo assolutamente toccato il bosco – era troppo bello! – nella realizzazione del nostro progetto. Abbiamo fatto tutto ex novo. Devo dire che tutti si sono rimboccati le maniche e si sono messi a lavorare. A ciascun consigliere avevo assegnato un incarico: bisognava seguire tutto molto bene perché le critiche alla gestione e al funzionamento delle Terme erano facili. I soci erano tantissimi, migliaia, magari con una sola azione. Un’assemblea della società si è dovuta persino tenere in un teatro, a Fiorenzuola, a causa dell’alto numero dei partecipanti . Abbiamo anche realizzato un trenino: dall’ingresso alle Terme portava alle sedi delle cure. L’inaugurazione è stata fatta dal vescovo di Piacenza assieme a me. C’è anche una nostra fotografia: eravamo sulla prima carrozza e le carrozze erano tutte scoperte. Mi dicono che il trenino c’è ancora. Le Terme all’inizio dell’attività hanno reso perdite, ma poi si sono sistemate. 156

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NON SOLO LAMBRATE

Pagina seguente: dépliant pubblicitario dei liofilizzati Bracco, anni Settanta

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Nel 1973 ho venduto il mio pacchetto di azioni. Mi hanno però voluto ancora una volta nel Consiglio di amministrazione perché ritenevano giusto che chi era stato presidente fosse presente alle decisioni sui programmi per il futuro. Mi ricordo che all’ultimo C.d.A. a cui ho partecipato come consigliere c’era anche Romano Prodi. Dopo le Terme di Bacedasco, nel 1969 è stata la volta della Lioprodotti S.p.A. di Pomezia, nella quale la partecipazione azionaria era al 50% Bracco e al 50% Caffè Haag (Crippa e Berger). Agli inizi di quell’anno è entrato in attività lo stabilimento per la produzione di sostanze alimentari liofilizzate, in particolare liofilizzati per bambini. Nel 1977 ho acquisito la totale proprietà della Lioprodotti, che ho poi venduto nel 1983. Altra iniziativa nel 1973, quando ho acquistato la Costruzioni Elettromeccaniche Montarioso di Siena. L’ho venduta nel 1991. L’unica esperienza da me fatta in un campo assolutamente estraneo alla mia attività di imprenditore come poteva essere l’informazione è stata l’Adn-Kronos, un’agenzia di notizie. L’ho rilevata nel 1967 per aiutare un amico in difficoltà. Con il mio intervento l’AdnKronos ha avviato una fase di sviluppo imponendosi in campo nazionale. L’ho ceduta nel 1978. Oggi l’Adn-Kronos è non solo un’autorevole agenzia di informazioni, ma anche un importante gruppo multimediale. E, nel 1975, il CDI – Centro Diagnostico Italiano. Ancora oggi mi meraviglio di avere fatto così tante cose. Il CDI lo definirei proprio una mia idea fissa. Perché corrisponde all’attenzione da me sempre dedicata alla prevenzione. E il fulcro della prevenzione, la via più giusta è quella di “esaminare la gente”. Dopo che avevo realizzato una buona parte del complesso di Lambrate, la Ricerca Eprova, la Ricerca a Milano, il Brasile, il Messico, un bel giorno è venuto da me il Professor Sergio Chiappa, primario di Radiologia all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. “Dottore – mi dice – io ho un’idea. Ho portato qui una documentazione; però, se non 158

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La società Lioprodotti di Pomezia

Il Centro Diagnostico Italiano di Milano

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le interessa può non guardarla”. E mi parla di un centro diagnostico realizzato in Germania, a Colonia. L’iniziativa era però fallita perché il progetto aveva affiancato al centro diagnostico due alberghi dove, secondo le previsioni dei promotori, la clientela avrebbe dovuto trattenersi una settimana per sottoporsi ai vari esami. “Noi invece in un giorno facciamo tutto ambulatorialmente – mi dice il professor Chiappa. E siccome io credo che si possa fare, dobbiamo documentarci bene, soprattutto attraverso i contatti con l’America, dove c’è il più grande laboratorio di diagnostica del mondo. Il nostro sarà il più grande d’Europa” e mi fa vedere le piantine. Aveva anche preparato una relazione. “Ma è bellissimo – gli dico. – Lei mi lasci tutto qui. Io devo andare in Cina, quando ritorno ne parliamo”. Al mio rientro in Italia il professor Chiappa torna da me e mi informa che ci sono degli amici suoi, imprenditori lombardi, che volentieri farebbero qualcosa con me. “Allora, cominciamo a riunirci” è la mia risposta. Così ci vediamo in una decina di persone: tutte si dicono d’accordo con la mia proposta: “Ci vuole un esame di fattibilità per una cosa di questo genere. Vediamo quindi quanto costa, poi decidiamo se fare la società o meno”. Allora io mi sono rivolto a una società specializzata americana, la quale ha fatto il preventivo, che era, allora, di 20 milioni di lire. Ci abbiamo ragionato su, e poi tutti d’accordo abbiamo costituito la società anonima con 20 milioni di lire di capitale. Il CDI è cominciato così. Ne sono tuttora il Presidente. Mia figlia Diana ne è, dal 1985, Amministratore delegato. 159


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Gli incarichi associativi

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La mia attività sia in Italia che all’estero mi ha portato, giorno dopo giorno, ad approfondire la conoscenza dei vari campi in cui il settore farmaceutico e quello chimico operavano, dei problemi che ne condizionavano la crescita. Mi sono fatto un’esperienza che ho potuto mettere a disposizione per dare un mio contributo allo sviluppo del sistema industriale del Paese. 160

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È questo il senso del mio lungo impegno – trentacinque anni – nell’associazionismo imprenditoriale e di settore, che ho portato avanti con sacrifici personali, ma anche con entusiasmo, nonostante i momenti di grande delusione e di arrabbiatura, che non sono certamente mancati. La prima carica a cui sono stato chiamato è stata, nel 1959, quella di Presidente dell’UNIF, l’Unione nazionale delle industrie farmaceutiche. Raggruppava tutti i produttori del settore: un insieme, una mescolanza la definirei oggi, di aziende le cui posizioni e i cui interessi erano a volte nettamente contrapposti. Ed è sulla contrapposizione fra le aziende che volevano il brevetto farmaceutico e quelle che volevano restare senza brevetto, come era in Italia, che nel 1964 si è arrivati alla spaccatura. Da una parte si è costituita Assofarma con l’adesione delle imprese favorevoli al brevetto (che è stato poi introdotto in Italia nel 1978): era un gruppo significativo di aziende, le più grandi e solide del Paese, come Lepetit, Carlo Erba, Zambon, Zambeletti. Dall’altra parte c’era Farmunione con le imprese quasi tutte di Firenze e di Roma, guidate da Alberto Aleotti. Chiamato alla guida della Menarini, Aleotti diventerà poi un sostenitore del brevetto e nel 1978 assumerà la presidenza di Farmindustria, nata dalla fusione tra Assofarma e Farmunione. Anche per Assofarma mi è stata proposta la Presidenza, che ho accettato e ho mantenuto fino al 1969. Sono stato un Presidente stimato e ascoltato e ho vissuto momenti molto importanti. Sia nell’UNIF che in Assofarma ho sempre voluto collocare i problemi del settore in una dimensione non esclusivamente nazionale ma europea, nella convinzione che molti di questi problemi dovevano trovare soluzione soltanto in un ambito comunitario. Per questo motivo nel 1959 sono stato tra i fondatori del Groupement International de l’Industrie Pharmacetique des Pais de la Communauté Economique Européenne (GIIP). È così che ho partecipato per l’Italia alla prima riunione – tenutasi in via Fatebenefratelli 10, allora sede di Aschimici – del Comitato in cui erano rappresentati i sei Paesi fondatori della Comunità europea: Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia. 162

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GLI INCARICHI ASSOCIATIVI

Poi, nel tempo, le adesioni hanno continuato ad aumentare. Nei sei Paesi della Comunità europea le legislazioni che disciplinavano la produzione farmaceutica erano estremamente diverse. Nel Trattato di Roma del 1957 che istituiva la Comunità economica europea era prevista una armonizzazione legislativa, indispensabile per dare concretezza all’integrazione economica. Le industrie farmaceutiche dei sei Paesi della Comunità europea erano consapevoli che la strada verso questo obiettivo era irta di ostacoli e che proprio per questo bisognava mettersi al più presto a lavorare sul problema. Da qui la decisione di fondare il GIIP, la cui sede è stata posta a Bruxelles. Nel GIIP, il Comitato dei Presidenti, di cui facevo parte, mi ha successivamente nominato Presidente Generale per il biennio 19631965. Annualmente si teneva un’assemblea, ogni volta in un Paese diverso, mentre le varie commissioni in cui il GIIP articolava il proprio lavoro riferivano sull’attività svolta al Presidente di turno. Era poi l’Assemblea a fare valutazioni e osservazioni su quanto veniva discusso e sviluppato nelle commissioni.

Fulvio Bracco con il genero Roberto De Silva, marito di Diana, durante una riunione in Prefettura a Milano

Una pausa dei lavori della 3a Assemblea generale del Gruppo internazionale delle industrie farmaceutiche, 1960

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FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

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Fulvio Bracco nel suo ufficio a Lambrate

In Assofarma, durante la mia presidenza, abbiamo lavorato molto per lo sviluppo del settore. Fino al giorno in cui in una riunione io ho esposto al Comitato di Presidenza un programma di politica industriale che avevo personalmente preparato. Nel programma era previsto un impegnativo onere finanziario, indispensabile per realizzare iniziative importanti e di lungo respiro. Era un programma che poteva dare nuovo slancio all’Associazione nel suo impegno su problemi vitali per l’industria farmaceutica. La votazione, segreta, sul programma ha dato un risultato di parità: 4 a 4. Il no di alcune grandi aziende aveva un solo significato per me: senza il voto unanime il programma perdeva la sua forza. E mi sono dimesso immediatamente. 164

GLI INCARICHI ASSOCIATIVI

Ho lasciato la Presidenza Assofarma l’11 giugno 1969. Undici giorni dopo, il 22 giugno, sono stato eletto Presidente dell’Associazione Nazionale Industria Chimica – Aschimici, della cui Giunta già facevo parte come Presidente di Assofarma. Le mie dimissioni da Assofarma avevano infatti avuto enorme eco nel settore chimico, tanto che pochi giorni dopo alcune grandi aziende, come Montecatini, Max Meyer, Solvay, hanno voluto incontrarmi e mi hanno proposto la Presidenza dell’Aschimici, oggi Federchimica. “Non ho nessuna idea di una Associazione come quella chimica – è stata la mia obiezione. – Ho fatto il Presidente per la farmaceutica, ma la chimica è molto più pesante”. “Tu puoi avere quello che vuoi – hanno insistito le aziende. – Ti mettiamo a disposizione le persone”. Mi sono preso qualche giorno per riflettere. Alla fine ho accettato. E sono partito anche lì, trovando nel direttore di Aschimici, il dottor Coco, un eccellente collaboratore. Come Presidente Aschimici sono entrato nel Consiglio dei Presidenti del Conseil Européen des Fedérations des Industries Chimiques. Era luogo d’elezione per tessere rapporti, per creare accordi, per promuovere iniziative presso la Comunità europea. Se ripenso alle vicende e alle esperienze vissute in quel periodo nell’associazionismo a livello europeo, devo dire che i nostri primi passi sono stati molto piccoli e faticosi. Ci si scontrava innanzitutto con gli egoismi nazionali: ogni Paese voleva riservare a se stesso quel qualcosa che invece poteva essere di tutti. Da qui ostruzionismi, riunioni abbandonate per dissensi, passi indietro. Però, sui problemi che interessavano poco o tanto ma tutti, alla lunga era anche possibile che si arrivasse a una conclusione e a documenti condivisi da portare all’attenzione della Comunità europea. Uno dei problemi più sentiti erano le barriere doganali. Per gli incarichi ricoperti a livello europeo ho dovuto viaggiare molto e alcune volte ho portato con me una delle mie figlie: Adriana a Parigi, Diana ad Amsterdam, Pucci a Istanbul. Durante la presidenza Aschmici, ho anche vissuto da “protagonista” un momento importante per l’industria farmaceutica italiana: ho fatto da garante nella fusione tra Assofarma e Farmunione. 165


FULVIO BRACCO

DA NERESINE A MILANO

È stato un ruolo delicato, che ho svolto su precisa richiesta delle due Associazioni. Contavano su di me perché innanzitutto ero Presidente della ben più importante Aschimici e poi perchè riscuotevo la loro fiducia: le due Associazioni mi riconoscevano esperienza, autorevolezza, imparzialità. Davanti a me a Milano sono dunque venuti a discutere i due Presidenti di Assofarma e Farmunione. La discussione è andata avanti qualche mese. Arrivare alla fusione significava definire lo statuto della nuova Associazione. La funzione del garante era appunto mediare nella stesura, nella “costruzione” dello statuto, perché le due Associazioni avevano posizioni diverse. Come nel caso del brevetto, dove – l’ho già ricordato – Assofarma era a favore, Farmunione contro. Lo statuto è stato discusso nei minimi particolari, punto dopo punto, sempre davanti a me, dai due Presidenti e rispettivi direttori. Io mediavo per portare le due Associazioni a una posizione comune sulle varie questioni sulle quali non c’era convergenza e magari c’erano anche motivi di scontro. Alla fine la fusione c’è stata ed è stata fondata Farmindustria. Era il 1978. Di Farmindustria sono Presidente onorario. Sono stato nominato – a riconoscimento dell’azione da me svolta – non subito, ma tre anni dopo, perché così ho voluto io, anche se lo statuto prevedeva tale carica con l’assemblea successiva a quella costituente. La Presidenza Aschimici non mi ha distolto dal seguire con attenzione la vita milanese. Un punto di osservazione importante per avere il polso della situazione è il sistema bancario. Poiché detenevo un pacchetto di azioni interessante della Banca Agricola Milanese – in seguito assorbita dalla Banca Popolare – ed ero perciò nel Consiglio di amministrazione dell’istituto, il suo presidente, Vittadini, mi ha invitato a far parte della Commissione ristretta che fissava e assegnava i crediti alle imprese e ai privati, interveniva nelle criticità delle aziende e così via. Ho accettato molto volentieri la proposta poiché mi dava la possibilità di avere un po’ il quadro generale dell’economia almeno per quanto riguardava Milano e la Lombardia. Così dal 1973 al 1985 ogni giovedì mi recavo alla banca e stavo in riunione dalle 16 alle 21 con gli 166

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Fulvio Bracco, Presidente della Camera di Commercio italo-germanica

GLI INCARICHI ASSOCIATIVI

altri consiglieri, tre o quattro, che facevano parte della Commissione. Tra loro vi era l’ingegner Virgilio Floriani, promotore della benemerita Fondazione. Di lui ho avuto modo di conoscere e apprezzare l’intelligenza, l’umanità, la serenità d’animo. L’incarico nella Commissione ristretta è stato un impegno interessantissimo. Altra carica ricoperta dal 1969 al 1983 è stata la Presidenza della Camera di Commercio italo-germanica, di cui sono oggi Presidente onorario. Una carica certamente formale, ma anche in questa sede ho potuto impegnarmi per dare voce sempre più forte alla volontà europeista che accomunava l’Italia e la Repubblica Federale di Germania, e per contribuire allo sviluppo della cooperazione economica fra i due Paesi. E non sono mancate soddisfazioni personali. Ad esempio, la Gran Croce al Merito con Stella – la più alta onorificenza della Repubblica federale per uno straniero – che a nome del Presidente Karl Carstens mi è stata conferita nel 1972 a Milano dall’ambasciatore tedesco Ralf Lahr in occasione del Cinquantesimo della Camera di Commercio italo-germanica. Nel 1983 ho lasciato la Presidenza Aschimici e sono oggi Presidente onorario di Federchimica. Al mio impegno in Aschimici si sono affiancati gli incarichi da me ricoperti in Confindustria: dal 1970 al 1978 membro del Consiglio direttivo e della Giunta e, dal 1970 al 1972, Vicepresidente; poi, dal 1980 al 1994, nel Collegio dei probiviri. La Vicepresidenza di Confindustria mi è stata proposta come Presidente di Aschimici; se accettavo, la scelta era tra la delega per le relazioni industriali e la delega per i rapporti interni, cioè con le Associazioni. Ho scelto la prima. E forse ho sbagliato: erano anni difficili e tormentati per il nostro Paese, momenti di forte tensione, di relazioni sindacali aspre, di scioperi duri. 167


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La sede di Confindustria allora non era in viale dell’Astronomia, ma in piazza Venezia, nel Palazzo delle Assicurazioni. Avevo un bellissimo studio. Dopo il primo biennio ho detto basta e mi sono dimesso: non ne potevo più, sia perché in azienda, anche per gli incarichi associativi che ricoprivo, le relazioni sindacali si erano fatte pesanti, sia perché non legavo molto con il Presidente di Confindustria, Renato Lombardi. Era un uomo intelligente, ma un po’ troppo accentratore; volendo sapere e seguire ogni cosa, rallentava tutto. In quegli anni nella mia azienda non sono mancate situazioni molto critiche, a volte di duro scontro. Una su tutte. Per il rinnovo del contratto integrativo aziendale le maestranze hanno attuato uno sciopero che ci ha messo a dura prova: loro producevano e mettevano in magazzino; quando questo era colmo noi eravamo costretti a coprire tutto molto bene per proteggere i prodotti. Perché io, Bracco, non potevo uscire nemmeno con un tubetto dall’azienda: blocco delle merci; anche di notte c’era un’auto con dentro quattro “di picchetto” a controllare che non uscisse niente. Questa situazione è andata avanti quasi due mesi, facendosi alla fine

Un momento degli scioperi alla Bracco

Corteo di manifestanti durante uno sciopero, anni Settanta

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intollerabile perché quelli erano sempre lì, di giorno, di notte, anche la domenica. Sempre lì! A dar loro man forte si erano messi gruppetti di studenti, di operai della Innocenti, che arrivavano e stavano lì fuori, ai cancelli, con certe spranghe di ferro… Le filiali e i grossisti cominciavano ormai a non avere più i miei prodotti; continuavo a fare la propaganda, però in alcune città non avevo i prodotti da dare ai farmacisti. Allora mi sono rivolto al professor Giandomenico Pisapia chiedendogli che cosa potevo fare. La risposta del professore: “Facciamo denuncia alla magistratura”. E ha fatto un esposto alla Procura generale allegando la documentazione (fotografie ecc.). Da qui l’ordinanza del magistrato al questore di provvedere a far cessare il blocco. Il questore mi chiama e mi prospetta le difficoltà: non è in grado di attuare l’ordinanza, perché ci sono altre 5-6 aziende nella nostra stessa situazione. “Avrei però un’idea, se sei d’accordo” mi dice il questore da amico qual è. “Ti faccio la proposta e poi tu decidi. Tu ordina 10-14 Tir, quanti ne avrai bisogno? Copri le targhe con dei teli. I Tir passano da Segrate ed entrano in azienda. Chiudete e caricate. Dopo di che i poliziotti e i carabinieri scorteranno la merce e chi l’ha caricata”. “Proviamo. Io non ho paura di nessuno” dico io. Così un sabato, di sera – erano le 20 passate e il sole era calato –, a un segnale convenuto i Tir si avviano verso lo stabilimento: nessuno se ne accorge e i Tir entrano. Ci sono anche cento tra poliziotti e carabinieri, che per prima cosa fanno sgomberare quelli che stanno “di guardia” davanti allo stabilimento. Il finimondo! Quelli “di guardia” danno l’allarme a Lambrate, a tutto il quartiere, e la gente arriva fino al ponte sul Lambro, ma lì c’è il blocco della polizia. Dentro lo stabilimento non c’è nessuno perché è sabato: per questo avevamo volutamente scelto quel giorno della settimana. Io, mio genero Roberto De Silva, mia figlia Diana, un direttore, il dottor Alfredo Mantica, guidiamo gli uomini che devono caricare: sono molti, non so da dove sono venuti; sono arrivati alla spicciolata passando at169


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traverso il varco in una rete che avevamo preparato. A mezzanotte il Maggiore dei carabinieri mi dice: “Dottor Bracco, adesso basta, avete caricato tutto. Fra mezz’ora usciamo”. “Usciamo, e come?” chiedo io. “Lei con la sua auto si mette dietro l’ultimo Tir. Ci pensiamo noi a proteggerla”. La gente era ancora là fuori, si sentivano urla e fischi. Usciamo sotto una pioggia di sassi e oggetti vari. L’ultimo sono io con la Mercedes di mia moglie, non blindata: guida mio genero Roberto, io sono al suo fianco, dietro Diana e Mantica. Ci tirano sassi, sputi! Passato il ponte, ancora un’iradiddio. Poi i Tir prendono velocità e iniziano a correre. Arrivati sull’autostrada, togliamo la copertura alle targhe e partiamo per Torino, dove io avevo organizzato la distribuzione per tutta l’Italia. Il sabato finisce in questo modo. La domenica sciopero. Lunedì sciopero interno. Chiamo l’autista e gli dico: “Andiamo in stabilimento”. “Come in stabilimento? Guardi che….” Non lo lascio proseguire: “Tu ci sei andato? Allora andiamo!”. Arriviamo in via Folli: gli operai sono sdraiati per terra per impedire il passaggio. Grida, fischi, ma niente sputi o sassi. “Avanti, Pino, un centimetro per volta – dico all’autista. – Non metterli sotto però”. Più di un’ora per fare neanche 10 metri, ed entro in stabilimento, tra grandi clamori là fuori. Lunedì, dunque, sciopero. Martedì tutti presenti al lavoro. Tutti, non ne mancava uno. Avevano capito di aver sbagliato. Bisogna anche dire che erano stati aizzati da alcuni sindacalisti scalmanati e da un gruppo di lavoratori della Innocenti. È un episodio fra i tanti di quegli anni tormentati. Lo racconto volentieri perché è una storia emblematica, ed è la verità. Se i due anni di Vicepresidente sono stati pesanti, non meno impegnativo e complicato è stato l’incarico ricoperto nel Collegio dei Probiviri di Confindustria. Un lungo periodo costellato da un numero infinito di grane e di problemi. Le vertenze difficili che non potevano essere risolte in sede di Associazione di categoria le mandavano a noi. Sarebbe più giusto dire che si preferiva delegare sempre le vertenze ai Probiviri di Confindustria non per le difficoltà che presentavano, 170

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Le sorelle Gemma, Adriana e Diana Bracco negli anni Cinquanta

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ma per un motivo molto più semplice: il presidente dell’Associazione che avrebbe dovuto occuparsi della questione non voleva far torto ad alcuno, così mandava tutto in Confindustria. Un susseguirsi di guai per i tre Probiviri. E molti di questi guai venivano dalle vertenze che riguardavano le Fiere, con al centro gli spazi fieristici. Mi spiego: c’era l’imprenditore che voleva assolutamente ottenere uno spazio, un altro che non voleva assolutamente rinunciare nemmeno a un metro quadrato, una società che esigeva più spazio di un’altra e così via. Le Fiere erano vertenze sempre difficili, anche perchè lì si trattava di interessi per miliardi di lire. Nell’incarico di Proboviro ho conosciuto un lato non positivo della nostra imprenditoria: intransigenze immotivate, chiusure ostinate, gelosie, egoismi. D’altra parte, ero lì per mettere d’accordo e trovare soluzioni eque e positive per tutti. Ho sempre preso una posizione chiara e ferma. Agli impegni associativi ho dedicato molto di me stesso, delle mie energie, del mio tempo. E c’era l’azienda da seguire, da far crescere. Ho fatto molti sacrifici e ho anche trascurato la famiglia. Trascurato nel senso che non ho avuto molto tempo da dedicare alle mie figlie, non ho potuto stare con loro, non ho potuto coccolarle. Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco mia moglie Anita. Una donna straordinaria. C’era però il mese di agosto che per alcuni giorni mi restituiva com-

L’inizio delle vacanze a Cà dei Polli

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pletamente alla mia famiglia. Le vacanze al mare rimangono vive nei miei ricordi: a Forte dei Marmi con le bambine ancora piccole, poi undici anni a Ischia, infine l’“approdo” a Capri. In quelle giornate di grande serenità, di sole, di vento, di mare, la barca, a motore o a vela, mi ha sempre accompagnato. Il “Tritone”, il motoscafo con motore Carniti che tenevo a Rapallo, mi ha seguito per anni nelle mie “avventure” marine. Le vacanze a Ischia hanno visto anche l’arrivo di “Lussin”: così ho chiamato il mio finn, una barca di sette metri con un albero e una vela. Ogni giorno andavo via con il finn dalle 11 alle 14. Per me era sempre una emozione. Con la vela piena di vento di poppa, “Lussin” andava velocissima: io tiravo su la “colomba” e filavo sulla cresta dell’onda spumeggiante; intorno, silenzio e solitudine: si sentiva solo il fruscio del mare sotto la barca che quasi volava. Era bellissimo! Una volta ho perso il timone: sono rimasto, lì, fermo in mezzo al mare, con giù la vela, fino a quando sono arrivate mia moglie e le mie figliole con il motoscafo: all’ora di pranzo venivano sempre a cercarmi. Risale alle vacanze a Ischia l’acquisto di un terreno nell’isola di Palmarola. Era l’agosto del 1959. In motoscafo andavamo in gita a Ponza da cui Palmarola dista 7 miglia. Quest’isola mi piaceva molto, era bellissima, ancora selvaggia, la sabbia fine; il porticciolo piccolo piccolo, la barca passava appena. Per questo ho colto l’occasione di un’offerta e ho comprato il pezzo di terra. Un colonnello in pensione mi ha addirittura proposto l’acquisto della sua casa, unica vera casa di Palmarola, le altre erano ricavate nelle grotte. Ho rifiutato l’offerta. Non ho mai più rivisto questa mia proprietà. Tempo fa ho letto che Palmarola potrebbe rientrare nel progetto di acquisizioni del Ministero dell’Ambiente volto a salvaguardare alcune tra le isole più significative per le bellezze naturalistiche. 172

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Dopo i motoscafi sono venute le barche a motore: la prima è stata il “Piccolo Quarnaro”; l’ultima, il “Grande Quarnaro”. Con queste due barche ho rivisto l’amato mare dell’Istria. Infine, per le vacanze a Capri due i motoscafi: “Uscocco”, un po’ grande, per andare al largo a fare il bagno, e “Scojch” – in croato vuol dire scoglio –, che era un poco più piccolo. Mi piace ricordare tutte le barche che ho avuto. Le sento parte di me, della mia vita: dicono della mia grande passione nata con “Monella” nel meraviglioso mare di Lussino.

La famiglia Bracco in vacanza a Forti dei Marmi, anni Cinquanta

La barca a motore “Uscocco”

Fulvio Bracco durante una crociera in Sardegna

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La ricerca

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Desiderio di conoscere, attenzione ai nuovi indirizzi scientifici, volontà di costruire hanno sempre guidato tutti i miei passi. La ricerca è il campo che più mi ha attratto e stimolato. 174

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permesso di effettuare sistematici approfondimenti sulle caratteristiche di composti già noti e di iniziare a occuparsi dello studio di processi originali e di nuove molecole. Io seguivo questo incessante lavoro di ricerca con riunioni mensili, durante le quali sviluppavamo i temi della ricerca soprattutto sui mezzi di contrasto. A ogni riunione Felder presentava una memoria sul lavoro svolto. Su questa relazione veniva poi avviata una discussione. Alle riunioni della Ricerca partecipava anche il direttore delle specialità medicinali: anch’egli doveva essere messo a conoscenza di quanto si stava facendo e a sua volta eventualmente intervenire. Io ascoltavo, poi facevo domande o chiedevo spiegazioni. Mi tenevo sempre al corrente di tutto. È stato un impegno di studio e di ricerca di anni e anni. I miei collaboratori sui mezzi di contrasto hanno lavorato davvero una vita. Era naturale – mi dicevo – che da tutto questo impegno dovesse arrivare qualcosa di importante, non poteva mancare. Poi i primi risultati e alle riunioni mensili chiedevo a Felder: “Allora, cosa mi dice?”. “Sì, ottimo, Presidente, mi sembra veramente che abbiamo imboccato la strada giusta”. “Avanti, allora! Avanti!”.

Vista notturna degli stabilimenti Bracco a Lambrate

Quando ancora ero in via Renato Fucini ed ero già amministratore delegato, avevo il mio laboratorio personale. Naturalmente era una cosa da poco, ma mi permetteva di dare sfogo alla mia passione per la ricerca. Lì mi sentivo un chimico e mi davo da fare. Ero severo con me stesso; a volte capitava che mi rimproverassi: “Ma hai sbagliato tutto!”. Ho anche pubblicato un paio di lavori. Ero un imprenditore innamorato della ricerca perché ritenevo che la ricerca porta senz’altro un vantaggio all’azienda e ai malati. Questo convincimento ha motivato le mie scelte di politica aziendale: dalla costituzione di Eprova alla realizzazione del Centro Ricerche di Milano, alla decisione di puntare sui mezzi di contrasto. Mi sono concentrato su questo impegno, che è stato proprio mio, tutto personale. E sono riuscito a trasfonderlo nei miei collaboratori. Della mia idea sui mezzi di contrasto ho parlato con il professor Felder che l’ha subito condivisa. “Sì questa è la strada giusta” mi ha detto, proponendomi di seguire lui la ricerca come responsabile. E così è avvenuto. Felder è diventato Direttore di tutta la Ricerca Bracco. Oltre ad effettuare su licenza la sintesi di composti radiopachi già noti, l’azienda nei suoi laboratori ha avviato una attività di ricerca che ha 176

Vista della palazzina centrale della Bracco

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LA RICERCA


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Iopamidolo

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Più di trent’anni di ricerca per arrivare a Iopamidolo. È il professor Felder che dovrebbe raccontare di questa molecola: alla ricerca da lui condotta ne va il merito. Io conservo un suo discorso in cui ricorda le tappe più significative del “lungo iter” – dall’idea alla commercializzazione – di Iopamidolo. 178

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È un discorso che tengo particolarmente caro: ne spiegherò il motivo più avanti. Meriterebbe di essere riportato integralmente: vi è efficacemente sintetizzata la storia della ricerca Bracco. Cito soltanto la parte che è un po’ l’“atto di nascita” di questo nostro importante composto: “Dopo la sintesi di una quindicina di composti nel laboratorio organico, il prof. Pitrè, con il quale ho vissuto tutti gli alti e bassi di questa corsa, mi ha consegnato ai primi di luglio del 1974 la serie di barattoli e i fogli delle caratteristiche dei composti preparati nel trimestre precedente. Uno di questi, al quale è stata assegnata la sigla B 15000, appariva immediatamente promettente. Infatti lo screening farmaco-tossicologico ha dimostrato una tollerabilità che superava le nostre speranze più ottimistiche. Il completamento della serie con la preparazione di decine di composti simili non ha portato ad alcun miglioramento ulteriore. Alcuni mesi dopo il primo isolamento del composto, precisamente nel dicembre 1974, abbiamo depositato la domanda di brevetto. I risultati degli studi preclinici con Iopamidolo sono stati presentati in

La molecola di Iopamidolo

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occasione del 2° Congresso della Società Europea di Angiografia Cardiovascolare tenutosi a Upsala nel maggio 1977. L’inizio della sperimentazione clinica in Italia è stato ritardato di molti mesi dal cambiamento della procedura di autorizzazione ministeriale. Per questo motivo siamo stati costretti a rivolgerci a uno sperimentatore estero, il dottor Svoboda a Praga, che ha effettuato la prima iniezione nell’uomo il 14 febbraio 1977 e ha raccolto una prima casistica di 50 pazienti in urografia. In una comunicazione presentata a Rio de Janeiro al 14° Congresso internazionale di radiologia, nell’ottobre 1977, il prof. Bonati ha riassunto i primi risultati clinici. Quasi altri 4 anni sono passati sino alla registrazione di Iopamidolo in Italia. Il successo commerciale in Italia e all’estero ha superato tutte le previsioni iniziali e ha messo a dura prova i nostri reparti di produzione. Ci auguriamo che l’avviamento del nuovo stabilimento della Dibra (oggi Bracco Imaging) possa soddisfare la richieste tuttora crescente e ci auguriamo anche che questa crescita della domanda duri ancora a lungo”. Con in mano la nuova molecola, io ho offerto di dare tutti i mezzi di contrasto alla Merck per lo sviluppo all’estero. Era il momento in cui ero consapevole di avere in mano qualcosa di importante, ma non di così grande impatto come poi si è rivelato il nostro nuovo mezzo di contrasto. E a Darmstadt il direttore scientifico ha sbagliato in pieno. Per nostra fortuna. È andata così: i Merck e soprattutto Harms, all’inizio si sono dimostrati entusiasti e hanno quindi chiesto il parere del direttore scientifico dei laboratori di ricerca di Darmstadt, il professor Thesing. Thesing ha fatto alcune riunioni con i suoi collaboratori e, alla fine, ha concluso che i prodotti diagnostici non interessavano, non avevano futuro. Io ho sfogato la mia delusione con Harms. E lui: “Cosa vuoi! Ma io non posso imporre al direttore della ricerca di prendere il prodotto: se domani il prodotto va male la colpa è mia perché ho deciso contro il parere di Thesing. È vero, sono io che in ultima istanza devo decidere, ma non posso decidere per il sì davanti a un Consiglio di amministrazione con un parere negativo del professor Thesing. Il 181

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parere del direttore della ricerca è prevalente”. Quel professore non ha capito proprio niente: aveva tra le mani un diamante e non l’ha saputo riconoscere. Da quella volta di mezzi di contrasto io e la Merck non abbiamo più parlato. Messo in commercio, Iopamidolo ha avuto una risposta che davvero non ci aspettavamo: in realtà ha rivoluzionato il settore dei mezzi di contrasto. La richiesta del prodotto è stata subito tale da dover richiedere di aumentare in tempi velocissimi la produzione: non riuscivamo infatti a far fronte alla domanda, che era altissima. Abbiamo preso allora una decisione: abbiamo fatto lavorare Lambrate per tre mesi consecutivi – settembre, ottobre, novembre – 24 ore su 24, 8 ore per turno. La domenica non esisteva. I dipendenti – erano gli addetti alla sintesi – avevano accettato di fare gli straordinari e molti avevano annullato anche le ferie con le famiglie. Per avere questa disponibilità abbiamo esposto ai rappresentanti sindacali la situazione in cui ci trovavamo. I lavoratori sono stati bravissimi. Hanno fatto tutto quello che abbiamo chiesto. Siamo riusciti ad arrivare fino alle mitiche 400 tonnellate Per noi è stata una grandissima soddisfazione. Naturalmente, i lavoratori hanno avuto premi speciali. Ho sempre riconosciuto ai dipendenti questa disponibilità ad andare incontro alle esigenze dell’azienda. Era, però, anche nel loro interesse, al di là dei premi. Dico la verità: ho avuto sempre un rapporto particolare con tutto il personale, dall’operaio al dirigente Alle tradizionali cene con i dipendenti andati in pensione dopo 25 anni in Bracco, dovevo andare tavolo per tavolo a parlare con loro. Tutti ricordavano come io li avevo assunti. “Non è come oggi – rispondevo – che l’assunzione è diventata complicata”. Io facevo alla svelta. “Come ti chiami? Quanti bambini hai?”. Li guardavo, li facevo parlare, infine: “Adesso fai la visita medica, poi ti assumo”. Forse era un mio punto di debolezza: quando venivano a chiedermi prestiti, li concedevo se vedevo che c’erano ragioni valide. Per l’azienda passo importante è stato l’accordo con la Squibb per la vendita dei nostri mezzi di contrasto negli Stati Uniti. Lo ricordo perché mi consente di tornare a quel discorso del professor Felder che 182

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Consegna al professor Felder del modello in oro della molecola di Iopamidolo a Washington, 1981

Dépliant pubblicitario dei mezzi di contrasto Bracco, anni Novanta

mi sta molto a cuore e di spiegarne il motivo. Il terzo Simposio internazionale Iopamidolo, nel 1981, ha visto riuniti a Washington radiologi e ricercatori da tutto il mondo. Iopamidolo aveva già avuto un successo eccezionale. A conclusione delle tre giornate del Simposio, c’è stata la cena di gala. Al termine, il direttore dei mezzi di contrasto della Squibb ha fatto omaggio al professor Felder del modello molecolare di Iopamidolo in oro, sottolineando il valore scientifico e di mercato del prodotto della Bracco. Al rappresentante della Squibb ho riposto io, in breve, tracciando il lavoro fatto da Felder e dalla Ricerca Bracco per arrivare a quello straordinario risultato. Poiché non sapevo l’inglese, mi ha fatto da interprete mio nipote Elio Filippo Bracco, figlio di Tullio, che vive negli Stati Uniti. Tornato in Italia, Felder ha invitato tutti i suoi collaboratori e i dirigenti della Bracco a un aperitivo. E proprio in quella sede, iniziando il discorso da me in precedenza citato, ha detto: “In un foglio scritto a mano in matita rossa, di cui conservo tuttora copia, il Presidente ha dato al professor Bonati, allora Direttore medico, e a me come Direttore dei laboratori di ricerca delle direttive di politica aziendale di cui cito solo il primo e più importante punto: ‘Ricerca basata sui mezzi di 183

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contrasto. Sollecitare i tempi di esecuzione sia nella ricerca che nelle prove cliniche”. E il professore ha mostrato il famoso biglietto scritto da me – con matita amaranto, non rossa, mi piace precisare – e me lo ha consegnato. Sono rimasto stupefatto: non mi ricordavo assolutamente del biglietto. Quel mio appunto era del 1953. Felder l’aveva conservato: vi era tracciato il futuro della Bracco. Ho una grande ammirazione per Felder, per il suo genio di chimico, e nutro per lui un profondo affetto, cresciuto nei tanti anni di impegno che ci hanno uniti. È stato uno straordinario collaboratore, un fedele amico. Non so se sono stato fortunato o capace di scegliere i miei collaboratori: in Bracco ho sempre avuto con me bravissime persone e a tutti quelli che mi sono stati vicini ho sempre voluto bene. Oggi che ho passato i 90 anni li ricordo tutti: ottimi collaboratori, hanno avuto un grande rispetto per me e anche loro mi hanno voluto bene. Insieme a Iopamidolo, anche Milano ha dato il suo contributo nel rendere gli anni Ottanta e Novanta del tutto speciali per me come imprenditore e come cittadino. Nel 1988 mi è stato infatti conferito l’“Ambrogino”, la Medaglia d’oro che il Comune assegna ai cittadini benemeriti. Milano è da me molto amata: è la mia “casa”. La città ha accolto la mia famiglia nel lontano 1927 con quella disponibilità e capacità di aprirsi a chi ha volontà di fare, di crescere, di affermarsi. A Milano ho studiato, mi sono fatto la famiglia, ho svolto la mia attività di imprenditore. L’azienda è nata a Milano e “con” Milano è cresciuta, condividendone gli anni difficili e gli anni di ripresa e di sviluppo. Nel mio impegno di cittadino ho riaffermato i valori che da sempre guidano l’azienda e originano l’attenzione verso i dipendenti e verso la comunità: la responsabilità, il rispetto dell’ambiente, la collaborazione, la cultura. La retribuzione assicurata alle famiglie dei dipendenti chiamati alle armi durante la guerra, poi le prime vacanze per i 184

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figli dei nostri lavoratori, la realizzazione del depuratore delle acque: questi interventi hanno aperto la strada per un progetto che via via si è fatto molto articolato. Tutto questo ho visto riconosciuto con l’onorificenza dell’“Ambrogino d’oro”. Anni di bellissimi risultati e di soddisfazioni se penso alla mia azienda, ma nella mia vita personale anche giorni di grande tristezza. Nel 1989 è mancata mia moglie Anita. Non riesco a dimenticare l’angoscia che mi ha afferrato con il suo ricovero al San Raffaele in seguito a un infarto. Era la mattina di un sabato di luglio e come di consuetudine stavo giocando al Tennis Club quando sono stato avvertito che mia moglie si era sentita male. A casa c’era il professor Visconti accompagnato da un cardiologo: subito è stato deciso il ricovero in ospedale. Le condizioni di Anita erano molto gravi, ma la mia mente rifiutava di rinunciare alla speranza di riaverla a casa. Il 17 luglio le ho portato una rosa per ricordare l’anniversario del nostro matrimonio, i 52 anni passati insieme, il 19 luglio Anita non c’era più. Il giorno successivo, dopo due settimane di degenza, l’avrebbero dovuta dimettere: io e le mie figlie già pensavamo a una positiva convalescenza, il primario già ci parlava di riabilitazione.

Il sindaco di Milano Paolo Pillitteri conferisce l’Ambrogino d’oro 1988 a Fulvio Bracco

Fulvio Bracco con la moglie Anita ad Ischia

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Oggi che i miei molti anni mi fanno compagnia con i loro ricordi vivo ancora più intensamente i sentimenti che mi legano all’Istria. Il Trattato firmato a Parigi nel 1947 aveva significato per la mia famiglia un taglio doloroso con Neresine. Nessuno di noi poteva rimettere piede su quelle terre – l’Istria, Fiume, la Dalmazia – consegnate a Tito. 186

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Io e mio padre eravamo nelle liste di proscrizione; tornare a Neresine significava come minimo finire ai lavori forzati; tutte le proprietà della nostra famiglia, compresi una casa di cura, un cinematografo e una sala da ballo a Lussingrande, erano state confiscate. Solo la casa è stata poi restituita. Lontanissimi ormai erano i tempi delle vacanze in Istria. Nel mio cuore ho però continuato a coltivare il pensiero di rivedere la mia terra natale. E infine la proscrizione è stata cancellata. In Istria sono così tornato la prima volta con il “Quarnarino”, cioè il piccolo “Quarnaro”, una barca con quattro posti letto, ma senza cabine. Era l’estate del 1970. Che amarezza vedere che era Jugoslavia! Con me c’erano mio fratello Tullio, zio Leone e un’amica di famiglia, Francesca Bosse. Abbiamo anche avuto una disavventura. Prima di Rovigno siamo andati a finire su uno scoglio: era segnalato da una boa, ma Leone non aveva fatto in tempo a vederla e il “Quarnarino” andava come un fulmine. Nell’urto le eliche sono partite tutte e due; fortunatamente dei turisti tedeschi ci hanno gentilmente rimorchiati a Rovigno dove abbiamo atteso l’arrivo delle eliche nuove. Siamo andati quindi a Neresine, costeggiando l’isola di Lussino. Sentimenti intensi mi hanno afferrato mentre posavo di nuovo il piede sulla mia amata isola. Commozione per i tanti ricordi che si rincorrevano nella mia mente. Amarezza nel cuore, ancora incredulo che non era più Italia. Ma consapevolezza che quella era la nuova realtà da vivere. L’emozione era forte riascoltando il mio passo sui sentieri sassosi, indugiando lungo i viottoli tra gli odorosi orti, respirando il profumo delle siepi di rosmarino. Solo un breve giro per il paese, senza andare alla casa dei miei genitori, anche perché ero risentito per il comportamento dei famigliari di mio padre proprio in merito alla casa. A Neresine sono poi tornato con il “Quarnaro”, una barca abbastanza grande, con 8 posti letto, veloce; l’avevo comperata in America e poi armata nei cantieri di Rapallo. Questa volta in Istria sono venuti con me Tullio, il professor Bianchi, Harms e Starcich. 188

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Fulvio e Tullio Bracco a Neresine nel 1970

RITORNO A NERESINE

Arrivati a Rovigno, ci siamo messi accostati al molo. La barca issava la bandiera italiana. Un ragazzino, avrà avuto dieci anni, si è avvicinato, ci ha guardato, poi ha preso un lembo della bandiera di poppa all’altezza del molo e ha esclamato: “Come ti xe bela!” ed è scappato via. Ripensandoci oggi, fremo ancora: vedere quella nostra gente che doveva stare sotto la Jugoslavia. In 350.000 avevano scelto la via dell’esilio, ma altri italiani, molti, anche alcuni miei parenti, erano rimasti là. E mi ha fatto pena quel ragazzino che parlava in quel modo al Tricolore e poi se ne andava di corsa. Capivo che aveva paura. Mi sono commosso. A Neresine sono rimasto soltanto una giornata. Siamo stati ospiti dei Boni, i genitori di uno dei protagonisti dell’avventura narrata nel libro “Odissea con il mare”: fratello dell’autrice – Nori Boni-Zorovich –, aveva fatto la barca a vela, installandovi anche un motore dalla velocità massima di 6 miglia, sulla quale un gruppo di profughi istriani ha attraversato in modo avventuroso l’Oceano Atlantico. Harms è rimasto sbalordito dalla straordinaria ospitalità con cui siamo stati accolti: noi seduti a tavola e loro, padre, madre e figli, tutti intorno a noi a servirci; vani i nostri inviti a sedersi e a pranzare con noi: eravamo gli ospiti e loro volevano dedicarsi completamente a noi. Quel giorno mi sono trattenuto più a lungo a Neresine, mi sono aggirato per il paese, ho fatto visita ad alcuni parenti, e ancora una volta non ho voluto vedere la casa in cui ero nato. Sono andato invece alla scuola dove avevo frequentato gli ultimi anni delle elementari e al convento dei frati francescani, dove c’è il cimitero, per salutare nonno Marco lì sepolto. Ci ha accolto un frate slavo, unico rimasto di quella comunità di religiosi. Con il “Quarnaro” ho fatto anche una crociera lungo le coste della Dalmazia, senza però fermarmi a Neresine. L’ultima volta che ci sono stato – nel 1997 – ero ospite in barca del Cavaliere del Lavoro Giorgio Irneri, di Trieste. Avevo accolto volentieri il suo invito perché ero stato seriamente malato e non mi ero ancora completamente ripreso; era inoltre cominciato il problema delle gambe, che ancora oggi mi crea non poche difficoltà. Ho accolto quindi con piacere l’invito in barca di Irneri, anche se ho 189


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RITORNO A NERESINE

fatto fatica a salire e a scendere in cabina, ma c’era il corrimano e me la sono cavata bene. Sono stati giorni bellissimi. Abbiamo fatto l’Istria e un po’ di Dalmazia. È stato durante questa mia vacanza che ho pensato di fermarmi a Neresine e visitare la casa della mia famiglia. Siamo arrivati con la barca a Ossero, il paese natale di mia mamma, nell’isola di Cherso, e da lì con il gommone della barca guidato dal marinaio ci siamo portati a Neresine, passando dal famoso canale di 7 metri che separa l’isola di Cherso dall’isola di Lussino. Approdati a Neresine, mi sono trovato in difficoltà nell’individuare la casa della mia famiglia. Ho però incontrato un uomo che in dialetto ha chiesto: “Che cosa cercate?”. “La casa dei Bracco” è stata la mia risposta. E lui subito: “Lei è Fulvio? Mi sono anche Bracco”. Era un lontano parente del fratello di mio nonno, che si chiamava Gaetano. L’uomo mi ha indicato la casa, certamente difficile per me da riconoscere: era coperta dai rami di due o tre alberi. Sull’uscio è comparsa una donna: era la moglie, rimasta vedova, di zio Roberto. Mi ha fatto una brutta impressione tanto era trasandata. La casa era in condizioni disastrose. “Vorrei vedere la stanza dove sono nato”. La risposta è stata perentoria: “Non è possibile, perché adesso sta dormendo”. Non so a chi si riferisse. Così mi sono limitato a guardarmi un momento in giro. Ho trovato tutto così piccolo! Mi ricordavo la sala da pranzo col nonno a

La casa a Neresine con la famiglia Bracco al completo Pagina seguente: Elio Bracco con la famiglia a Neresine nel 1921

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FULVIO BRACCO

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La nonna Anta Pagina precedente: Fulvio Bracco in posa sul “Redentore” nel 1927

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capotavola; da bambino mi appariva enorme. Insomma, la casa è stata una grande delusione. Sembrava un rudere. Veramente inospitale. Inoltre, subito a ridosso, vi avevano costruito un supermercato. La sorte della casa di Neresine avrebbe potuto essere ben diversa. La nonna Anta, che dal 1943 stava a Ca’ dei Polli, spesso si rammaricava con papà: “Io non ti lascio niente, Elio”. “Ma perché vi preoccupate ?” rispondeva lui. “Ma sì, che figura faccio!”. Allora, per tranquillizzarla, papà le ha fatto una proposta: “Mamma, fate così: mi ve intesto la casa e voi nel testamento scrivé che xe mia”. L’accordo era che la nonna sarebbe stata usufruttuaria fino alla morte e poi la casa diventava di proprietà di mio padre. Questo accordo non fu perfezionato perché mio padre morì nel 1961, prima della nonna. Lei non lo ha mai saputo: io fingevo di ricevere delle lettere di papà da Roma che le leggevo. Lo potevo fare perchè lei ci vedeva poco. Fra me e mia nonna c’è sempre stato un rapporto del tutto speciale e quando arrivavo a Ca’ dei Polli mi accoglieva sempre con un affettuoso: “Fulvio mio!”. Quando la nonna è morta, nel 1966, a 98 anni, i parenti a Neresine si sono buttati sulla casa, facendo la spartizione: a me è spettato un ventiquattresimo, altrettanto a mio fratello e alla cugina Ines, figlia di zia Maria. Per la verità, ho fatto un iniziale tentativo di riferirmi all’accordo tra mia nonna e mio padre, proponendo ai parenti di mettere a posto la casa a mie spese per poi lasciarla a disposizione della famiglia. La casa era costruita in modo tale che, a suo tempo, una parte era stata riservata a mio padre e alla sua famiglia, la restante parte era per gli altri famigliari. A me interessava che venisse conservata la stanza in cui ero nato, e per questo ben volentieri avrei risistemato tutta la casa. Volevo fare qualcosa di speciale proprio per il legame che sentivo con il paese in cui ero nato. I parenti non hanno accettato. Eppure era una spesa che avrei fatto non per andarci io, ma per regalare a loro una bella casa. Non ho più voluto sapere niente: le lettere che ricevevo con le note spese per il mio ventiquattresimo di casa le ho respinte senza nemmeno aprirle. Neresine non l’ho più rivista. L’Istria, l’isola di Lussino sono ormai solo ricordi e nostalgia. 193


DA NERESINE A MILANO FULVIO BRACCO

Diana

24 Gli anni Novanta sono stati cruciali per lo sviluppo internazionale della Bracco, con, in particolare, la straordinaria combinazione della Squibb che abbiamo colto al volo, e con grande coraggio, acquisendo le attività della Squibb Diagnostics ed entrando così sul difficilissimo mercato americano. E, alla soglia del Duemila, nel 1999, una svolta importante: l’impegnativa operazione di buy-back da Merck.

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Nello stesso anno svolta altrettanto importante per la Bracco: mia figlia Diana è stata nominata Amministratore Delegato e Presidente della Bracco. Io ne sono diventato il Presidente onorario. Non solo. Ho festeggiato il mio novantesimo compleanno e i 65 anni del mio impegno di imprenditore. Due bei traguardi ai quali la Regione Lombardia e la Provincia di Trieste hanno voluto dare un particolare riconoscimento e risalto. A Milano in una festosa cerimonia al Conservatorio, con tutti i miei dipendenti, mi è stata consegnata dal Presidente della Giunta Roberto Formigoni la Medaglia d’oro della Regione Lombardia. A Trieste, con una cerimonia pubblica nella sala consiliare, l’Amministrazione provinciale mi ha conferito il “Sigillo della Provincia di Trieste”. A questo punto della “mia” storia è Diana che ne diventa protagonista assoluta. Come me e come mia moglie Anita, Diana si è laureata in chimica all’Università di Pavia. Subito dopo è entrata in azienda. Assunta il 1° gennaio del 1966 come impiegata di I categoria, ha fatto “un po’ di tutto”. Dapprima al controllo di gestione, poi all’organizzazione, per diventare, nel 1969, dirigente addetta alla Presidenza. Si è impadronita di tutti gli aspetti dell’attività dell’azienda e questo non in breve tempo ma in alcuni anni. Le ho fatto fare tutto quello

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Fulvio Bracco riceve il Sigillo della Provincia di Trieste, 1999

Fulvio Bracco con il ritratto opera del pittore J. Bascones Pagina seguente: Università degli studi di Pavia, Laurea Honoris Causa in Farmacia a Diana Bracco, 2001

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DIANA


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Università del Sacro Cuore di Roma, Laurea Honoris Causa in Medicina e Chirurgia a Diana Bracco, 2004 Pagina precedente: Diana con il papà Fulvio durante una cerimonia dei Cavalieri del Lavoro

che doveva fare: l’essere mia figlia non ha voluto assolutamente dire rapidi passaggi di incarico, tutto è avvenuto per gradi. Fino a che ho ritenuto che era venuto il momento di dirle: “Adesso vai!”. Naturalmente non le ho detto così: l’ho nominata Direttore generale. Era il 17 marzo 1977. Vicino a me Diana ha imparato a muoversi secondo quanto l’incarico da lei ricoperto richiedeva. Ha partecipato a tutta l’evoluzione della ricerca, alla vita, alla crescita dell’azienda. Altrimenti non sarebbe ciò che è oggi. Insieme abbiamo discusso e preso decisioni importanti e anche audaci. I rapporti con la Merck li tenevo io, ma era soprattutto mia figlia che li seguiva. Sarà una fatalità, non so, ma Diana ha fatto la mia stessa strada. Direttore generale, Amministratore delegato, Presidente della Bracco. Anche nell’associazionismo: Vicepresidente di Confindustria, Presidente di Federchimica, Presidente di Assolombarda. E, ancora, Cavaliere del Lavoro. Sembra quasi una copia. È invece un originale, straordinario. Oggi ho molto più tempo da dedicare a me stesso, ai miei ricordi. Ma continuo a interessarmi dell’azienda. Con il pensiero e con il consiglio sono sempre vicino a mia figlia. Con una certezza: Diana, come me, ha la “volontà di costruire”; la volontà di innovazione è il suo credo. Ho passato il testimone a mani sicure. Con lei la storia continua.

Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferisce a Diana Bracco l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro, 2002

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DIANA


Tutto su mio padre Intervista a Diana Bracco, Presidente del Gruppo Bracco

Dottoressa lei è entrata in Bracco a metà degli anni Sessanta. Ci regala qualche ricordo di quando lavorava al fianco di suo padre Fulvio? Quando mi chiedono di raccontare come fosse la Bracco negli anni Sessanta e Settanta, non riesco a non fare un confronto con la realtà di oggi. Allora l’azienda era una Società italocentrica con un laboratorio di ricerca in Svizzera a Sciaffusa – l’Istituto di ricerche Eprova – che poi cedemmo alla Merck nella seconda metà degli anni Settanta. Da Merck AG avevamo la licenza esclusiva per l’Italia e per i territori che ad essa facevano capo di tutti i prodotti etici, prodotti da banco, per il laboratorio. La Bracco aveva una precisa struttura d’azienda articolata, ma non aveva allora un “reparto estero”. Il Reparto estero è stato costituito verso la fine degli anni Settanta. Al dirigente che assunse per la responsabilità dell’internazionalizzazione mio padre disse: “La farò direttore quando raggiungerà 3 miliardi di lire di fatturato”. Noi adesso fatturiamo oltre un miliardo di euro, di cui 700 milioni solo nel settore Imaging, questo giusto per dare un’idea della crescita. 200

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Come furono i suoi primi passi in azienda? Sono stata accolta con grande disponibilità, ma mi è stata riservata una dura gavetta: dal controllo di gestione all’organizzazione; per non parlare delle esperienze estere. Il tutto seguito, nel 1977, dalla Direzione Generale. Ho sempre apprezzato che il gruppo di lavoro di mio padre fosse un gruppo coeso, perché bisogna dire che lui – ed è una cosa che però ritrovo anche nella mia vita lavorativa – riusciva ad avere dei collaboratori veramente uniti, devoti e impegnati. Secondo me per loro aveva un grande valore vedere come fosse lui il primo ad assumersi ogni responsabilità e a compiere sacrifici. Dunque allora siamo partiti con la voglia di crescere, di crescere anche all’estero. Mio padre aveva l’ambizione e l’aspirazione di fare di Bracco un’azienda di respiro internazionale (nei primi anni Sessanta aveva comprato due aziende, una in Brasile, la Bracco Novotheràpica Laboràtorios di San Paolo, e una in Messico, la Albamex Bracco, meglio nota come Bracco de Mexico). Proprio a me, entrata in azienda nel 1966, nel 1967 viene affidato, come primo incarico, la gestione delle consociate. La vocazione imprenditoriale comunque bisogna portarsela dentro. E io ho capito di averla grazie soprattutto a mio padre: è stato lui a guidarmi sulla strada giusta, insegnandomi moltissime cose e inserendomi gradualmente in ambienti e associazioni di categoria dove, a contatto con manager e imprenditori esperti, ho potuto imparare tanto. Quali episodi della crescita del Gruppo Bracco le sono rimasti più impressi nella memoria? I momenti importanti sono tantissimi, e tutti legati da un unico fil rouge: una grande passione per la ricerca e per la qualità. Sia mio padre sia io abbiamo sempre dato all’innovazione di prodotto e di processo un’importanza cruciale per l’evoluzione del Gruppo. Il nostro successo poggia essenzialmente su due prodotti, la Iodamide, il primo mezzo di contrasto frutto originale della ricerca Bracco del 1962, caratterizzato da una ridotta invasività e un’elevata tollerabilità generale, e Iopamidolo che, nei primi anni Settanta rappresentò il primo 202

INTERVISTA AL PRESIDENTE DEL GRUPPO BRACCO

mezzo di contrasto non ionico pronto all’uso. Sarà proprio questo prodotto a portare la Bracco nel giro di pochi anni a diventare leader mondiale nella produzione di mezzi di contrasto non ionici della seconda generazione. Grazie a Iopamidolo, che rappresentò un grande passo in avanti sia per il paziente sia per l’utilizzatore, ottenemmo tanti nuovi contatti. Alcune aziende multinazionali, come la Squibb, vennero a cercarci. Erano curiose di capire cosa fosse questa nuova molecola. Sull’onda di questo straordinario successo dovemmo affrontare il tema dello sviluppo della capacità produttiva. Me lo ricordo bene perché all’epoca avevamo una produzione che era di qualche centinaio di chili e improvvisamente abbiamo avuto un’esplosione di richieste del prodotto. Iniziammo con l’ingrandire lo stabilimento di Lambrate in modo da raggiungere 400 tonnellate di produzione rinunciando, però, a tutto il resto e dedicandoci unicamente a Iopamidolo. Mi ricordo i camion che lasciavano lo stabilimento: ne usciva uno alla settimana, ognuno di essi valeva un miliardo di lire di allora. La realizzazione del nuovo sito produttivo a Cesano Maderno è un’altra pietra miliare della storia di Bracco. Ci racconta qualche aneddoto? Cercavamo un sito dove crescere al di fuori di Milano perché la città espandendosi aveva accerchiato le nostre attività produttive a Lambrate. Attraverso un amico, il professor Renato Ugo, veniamo messi in contatto con il venditore del sito e andiamo a dare un’occhiata. Quando vidi questo enorme spazio, con tutti gli edifici fatiscenti, i vetri rotti, mi resi conto che l’intera fabbrica era in uno stato di completo abbandono: niente di più disarmante! Tuttavia, decidiamo di acquistare il sito e di iniziare a costruire. Grazie all’impegno dei nostri collaboratori ci dedichiamo inizialmente alla trasformazione di un grandissimo edificio che è tuttora il cuore della produzione di Iopadimolo. L’intera opera procede rimanendo costantemente in stretto contatto con le autorità regolatorie dei tempi. Non mancò certo qualche incidente di percorso. Ricordo, ad esempio, quando un camion, impegnato in uno scavo, s’imbatté casualmente in una discarica abusiva di rifiuti pericolosi. 203


FULVIO BRACCO

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In quel particolare frangente la sfida consistette nel tenere duro nonostante l’atteggiamento delle autorità di allora fosse piuttosto ostile nei nostri confronti, perché ci reputavano responsabili di uno smaltimento non corretto. In realtà non c’entravamo nulla e anzi ci siamo sempre battuti per il pieno rispetto dell’ambiente. Il tempo ci diede ragione e infatti ottenemmo l’autorizzazione a partire con i lavori nel 1988. Tutti i giorni andavo dal Vice Prefetto, che era Bruno Ferrante, destinato poi a diventare Prefetto di Milano, a supplicarlo per l’apertura dello stabilimento. Per farlo aprire dovette intervenire persino mio marito, Roberto De Silva, con l’appoggio dei sindacati. Insieme abbiamo fatto un sit-in davanti al comune di Cesano Maderno. Il Sindaco sembrava fermamente contrario a concedere il suo benestare all’apertura dello stabilimento, ma infine cedette, rendendosi conto che Bracco non solo ha il massimo rispetto del territorio che la ospita, ma ne favorisce il benessere attraverso molteplici iniziative. A quel tempo, tra l’altro, proprio io ero la promotrice in Italia del programma di sostenibilità ambientale Responsible Care. Incarico che in Federchimica mi aveva affidato Giorgio Porta, allora Presidente di Montedison. Qual è stato il passo successivo alla creazione dello stabilimento di Cesano Maderno? In quegli anni la nostra ricerca lavorava su una seconda molecola originale e innovativa: Iomeprolo. Avremmo potuto produrla anche a Cesano Maderno, ma io mi sono opposta. Non ho voluto correre il rischio di concentrare l’intera produzione in un unico sito. Pensate solo all’ipotesi di un eventuale fermo impianto, si sarebbe bloccato tutto. Così abbiamo pensato di creare un altro importante polo chimico a Torviscosa, in provincia di Udine, nel grande sito chimico che aveva ospitato la Snia e che aveva una lunga storia alle spalle. Un territorio davvero particolare in una zona bellissima. Arrivando in aereo si resta affascinati da questa laguna meravigliosa e in parte ancora incontaminata. Sono luoghi davvero splendidi. In meno di tre anni abbiamo reso quell’area industriale, gloriosa ma un po’ decaduta, in una sede produttiva tecnologicamente all’avan204

INTERVISTA AL PRESIDENTE DEL GRUPPO BRACCO

guardia. L’obiettivo tecnico del progetto era ricostruire gli edifici dall’interno, senza modificarne l’architettura esterna di grande valore storico. Ne è nato un moderno e avveniristico impianto di produzione inserito in una torre tagliata con un grandioso intervento strutturale e un nuovo laboratorio di ricerca. Sono convinta che il rapporto tra architettura, industria e territorio, può e deve essere “virtuoso”. Questo rapporto deve basarsi su un patto condiviso in cui le ragioni dello sviluppo economico dialogano con quelle del territorio, dell’ambiente e dell’architettura. Torviscosa rappresenta un caso esemplare. L’altra cosa importante di questa esperienza che voglio ricordare è la validità e l’impegno dei nostri collaboratori: grazie alla loro dedizione produciamo 7 giorni su 7. Nonostante i sacrifici, penso che coloro che lavorano per noi si sentano parte fondamentale di una realtà davvero importante. Un corpo vivo che continua a migliorarsi, a cambiare e a innovare grazie a tecnologie d’avanguardia sempre più sicure. Altre pietre miliari della Bracco riguardano il processo di internazionalizzazione dell’azienda. A questo riguardo i ricordi sono davvero tantissimi: dall’acquisizione della divisione imaging della Squibb alla nascita del Centro Bracco Research di Ginevra dove – grazie al lavoro straordinario di un piccolo gruppo di ricercatori provenienti dall’Istituto Battel di Ginevra – nel 2001 è stato lanciato il mezzo di contrasto SonoVue, commercializzato in tutto il mondo per diverse metodiche cliniche. Sempre in Europa abbiamo poi consolidato la nostra presenza, sia tramite società controllate appartenenti al Gruppo – come nel caso di Svizzera, Germania, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Benelux, Austria e Paesi Scandinavi – sia tramite accordi di distribuzione indiretta. Poi è venuta la crescita in Asia. In Giappone siamo presenti con Bracco Eisai, una joint venture da noi controllata al 51%, che si dedica allo sviluppo e alla produzione di mezzi di contrasto. In Cina, Bracco è presente dalla fine degli anni Novanta e dal 2002 ha dato vita alla joint venture Bracco Sine Pharmaceutical Corporation per la produzione e distribuzione di mezzi di contrasto. Negli ultimi anni, la Cina 205


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ha compiuto impressionanti progressi in ambito diagnostico, soprattutto nelle grandi città i cui ospedali hanno raggiunto livelli scientifici di standard mondiale con ampio utilizzo di apparecchiature e tecnologie innovative. Questo processo sta ora raggiungendo anche le aree rurali e costiere, finora meno coinvolte nel cambiamento. Infine, ricordo le ultime tappe del nostro processo di ampliamento sui mercati mondiali: la creazione di filiali in Brasile e in Corea del Sud (2009) e l’acquisizione di un’azienda operante nei Paesi Scandinavi e Baltici (2010). Nel 2011 abbiamo portato a termine altre due acquisizioni importanti: la Swiss Medical Care, società svizzera con sede a Losanna, impegnata nella ricerca, produzione e commercializzazione di sistemi automatici per la somministrazione dei mezzi di contrasto per l’imaging diagnostico; e soprattutto la Nycomed a Singen, vicino a Costanza (Baden-Württemberg). Questa acquisizione ha consentito a Bracco di internalizzare una parte considerevole della sua produzione, rinsaldando nel contempo la presenza del Gruppo in Germania. In entrambi i casi e come è già avvenuto in passato, la scelta ha seguito logiche ispirate alla ricerca delle migliori professionalità e dei mercati più adatti, e non il risparmio di costo della mano d’opera. Tutto ciò fa del Gruppo Bracco una delle società italiane a maggiore vocazione internazionale, con una quota del 30% del mercato mondiale delle procedure con mezzi di contrasto per radiologia. Un dato che rappresenta un grande motivo d’orgoglio per un’azienda familiare italiana e, credo, per l’intero Paese. Dottoressa, avviamoci a concludere questa intervista con qualche domanda inevitabilmente più personale: ci parli della sua famiglia. Sono cresciuta in una famiglia rigida e affettuosa al tempo stesso. Ero la maggiore di sei bambini fra sorelle e cugini e toccava sempre a me prendermi cura dei più piccoli. Sin da piccola ho sviluppato un forte senso della responsabilità, trasmesso anche da mia madre, una donna straordinaria e di grande personalità. Anche mio padre era severo: quando arrivava a casa la sera non si poteva disturbare il suo rientro tant’è che mangiavamo prima per lasciarlo tranquillo. Papà ci ha 206

INTERVISTA AL PRESIDENTE DEL GRUPPO BRACCO

fatto crescere con un forte senso del dovere, che vuol dire sacrificio, applicazione, educazione. Al tempo stesso, però, era anche una persona molto completa che mi ha insegnato ad avere tanti interessi e a coltivare il senso della bellezza. Per questo nelle mie giornate e nei viaggi di lavoro mantengo sempre vive la mia curiosità e la mia passione per la cultura – un libro, un concerto, una mostra. In chiusura ci vuole lasciare qualche ricordo più intimo di suo padre? Un bel ricordo l’abbiamo costruito insieme, in occasione dei festeggiamenti per il suo settantacinquesimo compleanno, coincideva anche con i 50 di lavoro in azienda. Si è trattato di un momento molto bello perché le cose andavano bene e abbiamo festeggiato con una cena a Villa d’Este con tutti i suoi amici e alla fine anche con dei fuochi artificiali silenziosi. Un altro ricordo che ho impresso nella mente è di quando ero molto giovane, ero ancora bambina. La fabbrica di Lambrate era stata allagata dalla piena del Lambro e ho in mente l’immagine di mio padre con indosso gli stivaloni... una cosa davvero singolare! E sempre quell’anno, era il 1951, c’era stata l’alluvione del Polesine, e io mi ricordo che mio padre mi aveva portato insieme alle mie sorelle in un posto dove raccoglievano gli aiuti per gli sfollati e anche noi avevamo consegnato dei nostri vestiti. E queste sono cose che poi rimangono. Di mio padre mi piace ricordare il grande attaccamento al lavoro, la sua dedizione rappresentata, per me ancora bambina, dalla borsa di lavoro che si portava a casa anche il sabato e la domenica e non si poteva fiatare. L’ho visto piangere solo due volte: per la morte di sua madre e per il suo cane Kir. A volte, quando ripenso a lui, mi viene in mente quando, d’estate, lo osservavo dalla riva, mentre lui girava con la sua barca a vela. Un puntino bianco in mezzo al mare azzurro. Un puntino che si faceva sempre più piccolo, e poi all’improvviso spariva all’orizzonte.

Intervista realizzata da Caroline Elefante e Primo Ferrari il 14 ottobre 2011

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FULVIO BRACCO

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La nostra storia 1927 Elio Bracco fonda a Milano la Società italiana prodotti E. Merck. 1930 La società diventa Italmerck S.p.A. 1931 Creazione di uno stabilimento in via Renato Fucini (Milano). 1934 Viene messo in commercio il Cebion. 1935 I dipendenti salgono a 82 dagli iniziali 17: 41 operai (di cui 30 donne), 26 impiegati, 12 tra chimici, tecnici, medici e 3 dirigenti. 1936 Nasce la Società Anonima Bracco già Italmerck. 1940 Scoppia la seconda guerra mondiale. L’azienda si impegna a conservare il posto di lavoro ai propri dipendenti sotto le armi e a corrispondere lo stipendio alle loro famiglie. 1946 L’azienda riprende l’attività produttiva. Viene costituita la Cilag Italiana Spa con la partecipazione al 50% della Cilag di Sciaffusa per garantire le materie prime alle produzioni, essendo difficile l’approvvigionamento da Merck Germania. 1949 L’assemblea dell’azienda approva il progetto per la costruzione di un nuovo impianto che sorgerà a Lambrate e che sarà ultimato nel 1953. 1958 Viene modificata la ragione sociale in Bracco Industria Chimica. 1963 Lo stabilimento di Lambrate occupa una superficie di 50.000 mq, di cui 30.000 coperti. anni ’70 Le aziende farmaceutiche italiane entrano in crisi, non potendo reggere la con-

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LA NOSTRA STORIA

correnza di americani, tedeschi e giapponesi, che investono fino al 10% del fatturato in ricerca (100 miliardi di lire per arrivare al brevetto di un nuovo farmaco). Bracco intensifica la ricerca e sviluppo nella diagnostica per immagini. Il processo di internalizzazione 1987 Viene acquistata la Svizzera Sintetica SA di Mendrisio, ora Bracco Suisse, filiale svizzera del Gruppo. 1989 Potenziamento delle attività di ricerca attraverso la costituzione a Ginevra di Bracco Research SA: seconda unità R&S Bracco, specializzata nei mezzi di contrasto per ecografia e sistemi di rilascio controllato di principi attivi. 1990 Costituzione di Bracco Eisai (51% Bracco - 49% Eisai) joint-venture con Eisai di Tokyo per lo sviluppo e la commercializzazione in Giappone di alcuni mezzi di contrasto Bracco. 1991 Costituzione di Bracco Holding e di Bracco International BV, per supportare le attività internazionali di promozione, formazione e marketing. 1993 Costituzione di Bracco-Byk Gulden, joint-venture con Byk Gulden di Costanza (51% Bracco - 49% Byk Gulden) per la copertura dei mercati dell’Europa Centrale. 1994 Acquisizione di Squibb Diagnostics (Princeton, NJ, USA) e costituzione di Bracco Diagnostics Inc. e Bracco Research USA: terza unità R&S Bracco, specializzata in risonanza magnetica e medicina nucleare. 1995 Ingresso di Bracco nel capitale sociale di Esaote, azienda leader nel settore bio-

medicale, di cui diventa oggi azionista di controllo. 1996 Costituzione di Bracco Diagnostics Inc. Canada, filiale di Bracco Diagnostics Inc. USA. 1997 Costituzione di Bracco Imaging BV con sede a Plan-les-Ouates (Ginevra), azienda attiva nel settore dei mezzi di contrasto per ecografia. 1999 Bracco ed Esaote fondano EbitS@nità, che fornisce soluzioni integrate per la comunicazione e la Information Technology in sanità. 2000 Costituzione di Bracco SA con sede a Manno (Lugano) per le attività commerciali rilevate da Sintetica SA. Bracco avvia un’alleanza strategica con Dyax, azienda biofarmaceutica statunitense. Bracco acquisisce Resolution Pharmaceuticals, azienda biotecnologica canadese specializzata nello sviluppo di prodotti radio-farmaceutici. Dibra S.p.A. modifica la ragione sociale in Bracco Imaging S.p.A. 2001 Costituzione di Bracco Far East Ltd. Con sede a Hong Kong per la commercializzazione dei prodotti Bracco a Hong Kong e Macao. Costituzione di Bracco UK Limited per le attività imaging nel Regno Unito e Irlanda. Acquisizione di Acist Medical Systems, società statunitense leader nel settore dei sistemi avanzati di gestione e somministrazione di mezzi di contrasto. 2002 Bracco acquisisce Volume Interaction (sistemi high tech per la diagnostica e la chirurgia). Volume Interaction è una società di Singapore specializzata nello sviluppo di software applicativi avanzati in campo medico. Nell’aprile 2002 viene inaugurata a Torviscosa (Udine) SPIN, seconda unità

produttiva per capacità dopo quella di Ceriano Laghetto (Milano). Il nuovo sito è dedicato alla produzione di mezzi di contrasto per Raggi X. 2003 Costituzione di Bracco Oesterreich GmbH per le attività commerciali in Austria. 2004 Inaugurazione del nuovo impianto produttivo Shangai Bracco Sine per la produzione di mezzi di contrasto. 2006 Bracco cede Esaote per puntare sullo sviluppo di nuove tecnologie proprietarie ad altissimo contenuto di innovazione nel settore della diagnostica e della terapia mirata e per accrescere ulteriormente le proprie capacità competitive sui mercati internazionali. 2007 Bracco Imaging apre nuovi laboratori e un impianto pilota all’interno del Parco Bioindustriale Canavese vicino ad Ivrea. Bracco ottiene presenze dirette in Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda. 2008 Acquisizione di E-Z-M una delle più grandi aziende produttrici di agenti di contrasto e di strumentazioni mediche per la radiologia gastrointestinale. 2011 Il Gruppo Bracco rileva dalla Nycomed il sito dedicato alla produzione dei mezzi di contrasto. Bracco Imaging acquisisce la società svizzera Swiss Medical Care con sede a Losanna impegnata nella ricerca, produzione e commercializzazione di sistemi automatici per la somministrazioni dei mezzi di contrasto per l’imaging diagnostico.

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Giovanni Bracco

Salata di Ossero

Rigoni

di Ossero

Salata

detta Nonna Anta

Rigoni Antonia Camalich 16.05.1866 (Neresine) † 22.01.1964 (Romanengo)

Marco Bracco 31.10.1853 † 1943

Ufficio Postale

Gaetano Bracco

Maria Bracco

detta Nonna Anta

Antonia Camalich 16.05.1866 (Neresine) † 22.01.1964 (Romanengo)

Marco Bracco 31.10.1853 † 1943

Ufficio Postale

Gaetano Bracco

Maria Bracco

25.06.1883

25.06.1883

Ilda Mizan di Trieste

Francesco Salata 1876 (Ossero)

† 1944 (Roma)

di Trieste

Ilda Mizan

Francesco Salata 1876 (Ossero) Irma Rigoni † 1944 (Roma)

† 25.12.1942

Gemma Rigoni

Ulisse/Olizio Coppini † 30.03.1934

detta Nina

25.06.1908

27.12.1889 (Ossero-Pola) † 25.02.1952 (Milano)

Giovanna Salata

Elio Bracco

3.04.1884 (Neresine) † 6.04.1961 (Roma)

Irma Rigoni

† 25.12.1942

Gemma Rigoni

† 30.03.1934

Ulisse/Olizio Coppini

Vittoria Carbone

detta Nina

Marco Bracco Giovanna Salata Trieste

25.06.1908

20.12.1885 27.12.1889 (Ossero-Pola) † 25.02.1952 (Milano)

Salata Maria Bracco Elio Bracco

12.09.1889 (Neresine) 3.04.1884 (Neresine) † 14.03.1983 (Crema) † 6.04.1961 (Roma)

Volosca

Nicola Bracco 7.12.1889

Eugenio Bracco in guerra

29.09.1891

Antonio Camali Annunziata Bracco detta Nunzia Vittoria Carbone 23.03.1894 (Neresine) Marco Bracco Concetta Trieste Maria Bracco 28.11.1897 (Neresine) 20.12.1885 † 30.12.1843 (Romanengo)

Salata Piero Battiston Maria Bracco Nives Bracco

12.09.1889 (Neresine) 21.06.1899 (S. Vito al(Crema) tagliamento) † 14.03.1983

7.12.1889

Volosca

Nicola Bracco Ida Tolloy Capitan Aronne Bracco 01.07.1896 (Trieste)

in guerra

Eugenio Bracco Pia29.09.1891 Odorizzi 01.07.1896 (Bologna)

Antonio Camali Capitan Leone Bracco Annunziata Bracco detta Nunzia Fernanda Longhi 23.03.1894 (Neresine) Capitan Roberto Bracco Concetta Maria Bracco 17.06.1905 (Milano) 28.11.1897 (Neresine) † 30.12.1843 (Romanengo)

Lilia Lero Piero Battiston Capitan Bracco NivesEzio Bracco 21.06.189917.02.1907 (S. Vito al tagliamento) † 25.08.2010 (Brasile)

di Padova

Annamaria Venzo Ida Tolloy

26.03.1903 (Roma)

CapitanAntonio Aronne Bracco Capitan Bracco 01.07.1896 (Trieste) Lino Bracco Pia Odorizzi

22.06.1908 (Neresine)

Maria Salata

Luigi De Silva Anita Margara

Maria Salata 27.01.1909 (Milano) † 19.07.1989

Anita Coppini 17 .07.1937

Fulvio Bracco 15.11.1909 (Neresine) † 21.04.2007 (Milano)

Luigi De Silva Anita Margara

Tommaso Coppini Nena Abad

Anita Coppini 27.01.1909 (Milano) † 19.07.1989

12.03.1911 (Neresine)

1946

1946

Tullio Bracco17 .07.1937 † 13.10.1992 (Milano) Fulvio Bracco 15.11.1909 (Neresine) † 21.04.2007 (Milano)

† 19.08.1996 (Milano)

Merope Coppini

Domenico Falchi Tommaso Coppini Ines Salata Nena Abad

29.12.1911 (Neresine) † 22.04.2002 (Romanengo)

12.03.1911 (Neresine) † 13.10.1992 (Milano)

Tullio Bracco

† 19.08.1996 (Milano)

Renzo Szathvary Merope Coppini Tullia Camali

Domenico Falchi

† 22.04.2002 (Romanengo)

Ines Salata 29.12.1911 (Neresine) Lucilla Battiston

Giuliana Bracco

Renzo Szathvary

Elio Bracco

Tullia Camali

Mara Bracco

Sergio Bracco Giorgio Bracco

Lucilla Battiston

Fulvio Bracco

Elio Bracco

Claudio Bracco

Giuliana Bracco

Fernanda Longhi

Mara Bracco

01.07.1896 (Bologna)

Capitan Leone Bracco

17.06.1905 (Milano)

Capitan Roberto Bracco

Sergio Bracco

Claudio Bracco

Fulvio Bracco

Giorgio Bracco

Lilia Lero Capitan Ezio Bracco 17.02.1907 † 25.08.2010 (Brasile)

di Padova

Annamaria Venzo

26.03.1903 (Roma)

Capitan Antonio Bracco Lino Bracco

22.06.1908 (Neresine)

Paolo Melzi

8.08.1934 (Milano)

Silvia De Silva

14.05.1938

10.05.1966

Roberto De Silva

3.07.1941

Diana Bracco

Costante Renoldi Paolo Melzi

† 09.2008 8.08.1934 (Milano)

Adriana Bracco 12 .11. 1942 Silvia De Silva

Alessandra Melzi

Antonella Melzi Laurent Thomas Carlo Melzi Rachel Moor

2009

Eleonore Thomas

12.2009 (Milano)

Davide Melzi

Andrea Renoldi Bracco

Amina Pedrazzini

12.2009 (Milano)

Davide Melzi

2003

Anya Adriana

2009

Ayana 27.04.1997 Eleonore Thomas

14.10.2002 (Segrate)

18.04.2000

Giuliana Caporale Marco Renoldi Bracco

24.06.1966

Alessandra Melzi Fulvio Renoldi Bracco Antonella Melzi Sara Davis Tomaso Renoldi Bracco 14.10.1970 Laurent Thomas

Paolo Baratta

Carlo Melzi Eva Baratta 16.01.1970

Rachel Moor

Gemma Bracco 16.04.1944

10.05.1966

Andrea Renoldi Bracco

Amina Pedrazzini

2003

Anya Adriana

27.04.1997

Ayana

14.10.2002 (Segrate)

18.04.2000

Giuliana Caporale Andrea Ciprandi Marco Renoldi Bracco

Tomaso Renoldi Bracco

16.01.1970

Andrea Ciprandi

Javier Pedrazzini

Eva Baratta

14.10.1970

Sara Davis

24.06.1966

Fulvio Renoldi Bracco

Javier Pedrazzini

detta Pucci

14.05.1938

Roberto De Silva

detta Cocca 3.07.1941

Laura DianaCoppini Bracco

Mino Ciprandi Costante Renoldi

† 09.2008 detto Lollo

Adriana Bracco 12 .11. 1942Bracco Elio Filippo

Rossella Bracco Paolo Baratta Gemma Bracco 16.04.1944

detta Pucci

detta Cocca

Laura Coppini Gaudenzia Falchi

Mino Ciprandi

detto Lollo

Elio Filippo Bracco

Rossella Bracco

Gaudenzia Falchi

211 210

Podestà di Neresine

Podestà di Neresine

Giovanni Bracco

Albero Genealogico


Ringraziamenti La Fondazione Bracco desidera ringraziare Caroline Elefante e Primo Ferrari per la paziente e intelligente opera di selezione delle immagini dallo sterminato fondo fotografico del Cavalier Fulvio Bracco, immagini che completano e arricchiscono con grande efficacia la narrazione della sua straordinaria avventura umana e imprenditoriale. Un ringraziamento speciale a Giuliano Faliva per la sua preziosa e appassionata collaborazione. Questo lavoro non avrebbe avuto una ricostruzione così minuziosa senza l’aiuto di Roberta Ballarini, Isabella Corno, Sara Gilomena. Ringraziamo inoltre Francesca Melli e Andrea Lancellotti per l’amorevole cura con la quale hanno seguito questo lavoro. Ringraziamo gli archivi che hanno concesso l’uso delle proprie immagini: Archivio del Lavoro (Sesto San Giovanni), F.C. Internazionale (Milano), Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea – ISEC (Sesto San Giovanni). Infine un ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume.


Finito di stampare da Arti Grafiche Meroni, Lissone


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