Il Secolo d'Italia

Page 1

E

DOMENICA 25.5.2008

D I Z I O N E

D

O M E N I C A L E

QUOTIDIANO DI AN - ANNO LVII N.124 - SPED. ABB. POST. 45% LEGGE 662/96 ART.2 COMMA 20/B F.LE DI ROMA

€ 1,00

f01 foto

QUELL’ONDA LUNGA DELLA POLITICA NOVECENTESCA ❯ 7 Pierluigi Battista: Almirante come

❯ 10 Ma cosa è rimasto dell’almirantismo

❯ 8 Stenio Solinas e Lando Buzzanca:

❯ 12 Così a Napoli, nelle elezioni dell’80,

Togliatti, protagonista democratico ritratti controcorrente dei due leader

nella destra contemporanea?

il Msi scoprì le sue potenzialità


2

[

SECOLO D’ITALIA

]

VENT’ANNI DOPO

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

f01 foto

box foto

SU “AUTOBIOGRAFIA DI UN FUCILATORE” UNA SPIEGAZIONE SORPRENDENTEMENTE MODERNA DEL SUCCESSO DELLA DESTRA POSTBELLICA

DIALOGO, POPOLO, TV: COSA VI RICORDA LA RICETTA DI GIORGIO? Dal capitolo “La mia democrazia” di «Autobiografia di un fucilatore» (Edizioni del Borghese, settembre 1973 - pp. 243).

◆ Giorgio Almirante

N

on so se io meriti di essere definito democratico dagli altri, e in particolare da coloro che si arrogano il diritto esclusivo di pronunciare giudizi in merito. So soltanto, e vi confesso che ci tengo, che questa mia democrazia me la sono conquistata a caro prezzo. Voglio sinteticamente raccontarvi come è andata sin qui. [... ] Ecco: gli amici che il 26 dicembre 1946 come segretario del partito scelsero proprio me, se per avventura non sbagliarono, non sbagliarono perché, istintivamente, non scelsero in me l’uomo politico ma l’uomo libero. Ero tra i più giovani, non avevo vincoli tassativi con un passato personale, perché la mia carriera politica in regime fascista non si era spinta più in là del Guf-Lettere di Roma, non avevo legami di ambiente, non avevo impegni professionali assorbenti perché, abbandonate le poco lucrose rappresentanze commerciali, mi arrangiavo quale professore in Lettere, sia presso un istituto privato sia attraverso qualche ripetizione che davo (latino e greco) nei locali stessi del partito, non disponendo di un ufficio e neanche di una dimora che mi permettesse di ricevere. In simili condizioni, mi sentìì libero e fui effettivamente libero di scegliere, per me quale segretario del partito e quindi per il partito, il metodo a me più congeniale. Scelsi il colloquio; e da tale scelta iniziale e di fondo non mi sono mai distaccato e non mi distaccherò mai. Scelsi il colloquio verso l’esterno, così come tanti anni dopo, ridiventato segretario del partito nel 1969, scelsi prima il colloquio verso l’interno e subito dopo la ripre-

sa, non a titolo personale, del largo colloquio con gli italiani. Intendo dire che io sono probabilmente un pessimo politico; ma che non so far politica che in un modo: conversando con il mio prossimo, cercando di capirlo attraverso le domande che mi pone e cercando di farmi capire attraverso le risposte che gli do. Non capisco, anzi non conosco, programmi politici che nascano negli alambicchi. Sono sempre stato pronto, e lo sono tuttora, per la discussione più aperta, più schietta, più spregiudicata, dei contenuti di tutto il mio impegno politico. Ecco perché, istintivamente, cominciai nel modo che precedentemente vi ho descritto, affiggendo un avviso e invitando gente per a discutere. Ecco perché l’esperimento ebbe tanto successo;

«Scelsi il colloquio verso l’esterno come metodo politico, la discussione più aperta, schietta, spregiudicata, libera, non capisco e non conosco programmi nati negli alambicchi» tanto, che nel giro di tre settimane passammo dalla sessantina di intervenuti in sede alle molte centinaia che stiparono un cinema di Roma: molte centinaia di liberi cittadini, tra cui emerse, per chiedere e per parlare, Roberto Mieville; Mieville che il giorno dopo, invitatolo in sede, io nominavo nostro segretario nazionale giovanile; e la scelta non era davvero sbagliata. Folle, assurdo, non è vero, un partito che inventa il segretario nazionale giovanile nel corso di un libero dibattito, aperto a tutti? Eppure, le nostre origini furono proprio

queste; e ben presto la logica del metodo da noi prescelto ci portò verso più vasti contatti, all’aria aperta, in piazza. Nacquero i nostri comizi. A questo punto la fortuna mi diede una mano. In parecchi sensi. Mi diede una mano perché qualcuno mi suggerì di utilizzare, per i comizi, le camionette che allora largamente sostituivano, a Roma, i mezzi pubblici non ancora rientrati in servizio. La camionetta era economica (tremila lire di affitto), si trasformava in palchetto comiziale, si spostava rapidamente, in arrivo e soprattutto in partenza, con risultati che potei immediatamente apprezzare. La fortuna mi diede una mano anche perché inviò sulla mia strada avversari che non potrei definire intelligenti, i quali, aggredendo ogni giorno, letteralmente ogni giorno, me e i miei pochi amici, e impedendo con la forza i nostri comizi per un mese di seguito, nel settembre-ottobre 1947 in Roma, ottennero due risultati: evitarono al sottoscritto un mese di cattive figure, perché non avevo alcuna esperienza in fatto di oratoria di piazza; fecero al partito una pubblicità che in nessuna altra guisa saremmo riuscita a ottenere. Una pubblicità che diede i suoi frutti il trentesimo giorno quando, avendo io indetto un comizio in piazza Colonna, e avendo, per la verità, scelto un’ora adatta, un’ora in cui calcolavo che alcune centinaia di passanti si sarebbero fermati per ascoltare, ottenni tutto in una volta, come un fortunato giocatore che realizza l’en plein dopo una serie di puntate andate a vuoto. Realizzammo, infatti, lo spettacolo di ventimila persone presenti, l’intervento di due grossi parlamentari antifascisti (ho promesso di non fare il nome di viventi) che, mancando i soliti attivisti, tentarono di interrompere il comizio e ne furono a loro volta impediti dalla folla; e, in finale, l’intervento, del tutto fuori programma, del primo reparto celere, che procedette allo scioglimento del comizio manu militari, get-


SECOLO D’ITALIA

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

[

]

VENT’ANNI DOPO

3

«Non so se io meriti di essere definito democratico dagli altri... So solo che questa mia democrazia me la sono conquistata a caro prezzo»

f20 foto

Militanti ai funerali di Almirante e Romualdi

tandosi con le camionette tra la gente, giungendo fino a me, rovesciando il tavolino sul quale mi ero issato per parlare, inducendo Renato Angiolillo a darmi civile e generosa ospitalità sulla terrazza del Tempo, scatenando in piazza una battaglia che durò molte ore, avendo a protagonista una folla che non accettava e non ammetteva di lasciarsi sciogliere, per la semplice ragione che in precedenza non si era sentito «legata» da alcuno ed era intervenuta spontaneamente per ascoltare un discorso. Due giorni dopo il Msi conquistava i suoi primi tre consiglieri al Comune di Roma; e quei tre consiglieri garantivano ai romani la possibilità di eleggere un sindaco non comunista. Un mese dopo, il sottoscritto veniva condannato ad un anno di confino di polizia per ricostituzione del partito fascista. Debbo convenire che la mia battaglia di uomo libero non era stata troppo apprezzata, al vertice della democrazia nostrana, se tali, ne erano le immediate conseguenze., Che avevo fatto di male? [... ] Quel giorno a Montecitorio i padri costituenti erano riuniti per importanti motivi, alla presenza di De Gasperi e del ministro dell’Interno. Durante la riunione, i due deputati antifascisti cui ho fatto cenno uscirono, credo a braccetto, dal tempio della democrazia, per prendere una boccata d’aria, o forse per andare in piazza Colonna a sorbire qualche bibita. Giunti ai margini della piazza, udita la mia voce, saputo di qual movimento politico si trattava, misero senza esitare in atto i metodi della «loro» democrazia e tentarono di strappare i fili degli altoparlanti che pendevano da quella parte. Riconosciuti da alcuni ascoltatori, che a volo ne compresero gli intendimenti, furono sottoposti, a loro volta, ad un trattamento “democratico” non violento ma persuasivo: sputi e parolacce. Essendo in minoranza, e forse non sentendosi troppo tranquilli, i due parlamentari corsero indietro, varcarono correndo il portone del tempio della democrazia, percorsero in un battibaleno i corridoi, traversarono il Transatlantico, entrarono trafelati in aula, al grid: «I fascisti in piazza Colonna!». Leggete il resoconto stenografico di quella seduta, 10 ottobre 1947. Potrete divertirvi. Il resoconto registra una brusca interruzione, un accenno di tumulto, anche se non registra, nella sua ufficialità, tutto quello che avvenne: i padri costituenti pallidi, in piedi, nel dilagante convincimento che «i fascisti» avessero organizzato una seconda marcia su Roma e fossero già lì, a due passi da Montecitorio. De Gasperi chiese precisazioni al ministro dell’Interno, il ministro dell’Interno rispose, falsamente, che il comizio non era autorizzato (men-

tre era autorizzatissimo, trattandosi di un comizio elettorale di chiusura, con tanto di manifesti) e telefonò al questore ordinando l’immediato scioglimento. Tutto ciò premesso, non era pensabile che un regime democratico non prendesse le sue misure contro il colpevole; Parlamento e governo avrebbero perduto la faccia se allo scioglimento del comizio avesse fatto seguito la mia assoluzione. Fu così che la commissione per il confino di polizia ebbe l’ordine di condannarmi; e fu così che non scontai la condanna. Mi fecero partire soltanto per comunicarmi all’arrivo, negli uffici della questura di Salerno, quello che avrebbero potuto comunicarmi in partenza, e cioè che la pena mi era stata condonata, per intervento del Presidente del Consiglio. Il giorno dopo, mi convocò il Questore di Roma, per congratularsi con me e per raccomandarmi di svolgere attività politica «con discrezione». Il che puntualmente ho fatto, come tutti sanno. Cose d’Italia. Da allora, noi parliamo su tutte le piazze d’Italia. Il ritmo dei nostri comizi non ha subìto sostanziali rallentamenti, specie nei centri minori; mentre tutte le altre forze politiche ne fanno a meno, o vanno riducendo i comizi all’essenziale. Non intendo, al riguardo, sostenere che noi abbiamo ragione e gli altri torto. Sono pronto ad ammettere che il comizio è uno strumento di propaganda piuttosto superato; spesso di scarsa efficacia; talora controproducente. Osservo però che è molto strano che i «democratici» per antonomasia leggano in Parlamento e non si presentino in piazza, mentre i cosiddetti nemici della democrazia, che dovrebbe esser dialogo, e dialogo con il popolo, non mollano le piazze da circa trent’anni. Gli amici mi chiedono: quanti nei hai tenuti? Non so, non ne ho mai fatto il conto. Durante le campagne elettorali, dai cento ai centocinquanta nel giro di una trentino di giorni; normalmente, tre o quattro discorsi alla settimana. Il conto fatelo voi. E perdonatemi, perdonateci, per gli aspetti, diciamolo pure, carnevaleschi di siffatte parate: il palco, gli addobbi, il nautrale disordine, i tentati cortei, gli slogans, ritmati, l’esibizionismo spicciolo degli attivisti, le presentazioni. Potrei scrivere un’antologia di presentazioni curiose, amene, impertinenti, fantasiose. Gli aggettivi qualificativi non bastano. Ricordo il nostro segretario provinciale di Padova, che in piazza delle Erbe gremita, mi presentò, nel corso della prima legislatura, esattamente così: «Vi presento Giorgio Almirante, che viene da Montecitorio, dove per duecentocinquantamila lire al mese (in verità, ne prendevamo di meno, a quel tempo) si tradisce la Patria!». Immaginate il mio sgomento, nel dare inizio al discorso con la patente, involontaria, di traditore! Ricordo il segretario d’una cittadina toscana, che ai tempi di Stalin, e in una piazza affollata da non pochi comunisti, iniziò così: «Compagni, voi avete il vostro baffone; eccovi il nostro baffino!». Ricordo l’emozionatissimo segretario di una sezioncina ligure, che dopo una scena muta di parecchi secondi, sembrava che gli

«La nostra democrazia fa le sue prove alla televisione, a qualcuno sembra incredibile che il segretario del Msi possa riscuotere consenso sorridendo dai teleschermi» prendesse un malore, esplose in uno stentoreo e irreparabile: «È al telefono l’onorevole Almirante!». Ricordo di essere stato in successive occasioni e nello stesso paese d’Abruzzo presentato come: la «bomba» del Msi, «la santa Barbara» del Msi, «il razzo» del Msi, «la bomba atomica» del Msi, «il missile iperplanetario» del Msi. [... ] Ci sono, in quel cantuccio di memorie che ciascuno tra noi riserva alla storia intima della propria vita, le piazze predilette; e non è detto che si tratti, in assoluto, delle più grandi, delle più affol-

late, delle memorabili piazze dei grandissimi comizi. Ci sono piazzette di borghi e di paesi, angoli d’Italia in cui mi è accaduto di incontrarmi con la gente schietta che in quei luoghi viene davvero a sentire, per riempirsi di parole; ci sono cantucci di cielo lunare, scorci di paesaggio montano, silenzi e fragranze e commoventi miserie di piccoli centri sperduti, raggiunti durante le campagne elettorali dopo ore di macchina su strade impossibili; ci sono gli impevedibili incontri di codesto incessante peregrinare; i due vecchietti di Caulonia, che tanti anni fa giunsero fino a me, fradici per un acquazzone affrontato a piedi, per portarmi, umilissimi, una supplica «da consegnare a Roma a don Michelino Bianchi»; le mamme di Gorizia, che chiedono di essere ascoltate dopo il comizio, perché io esiga dal governo, le indicazione delle foibe in cui sono stati gettati i loro cari scomparsi; i genitori di Carlo Falvella, il giovanissimo studente salernitano assassino da un sovversivo, che stanno eretti al mio fianco in piazza, mentre parlo del loro ragazzo; la vedova di Ugo Venturini che mi porta a Genova, in un’ora difficile, il suo piccolo Walter, proterdendolo verso il palco dalle prime file di ascoltatori, Anna Mattei che mi mormora: “Parla, devi parlare, oggi tu sei un poco il padre di tutti quanti noi... ” mentre mi accingo, esitante, a ricordare alla immensa silente folla di Roma i due arsi vivi di Primavalle. [... ] Qual tipo di democrazia abbiamo esibito in Parlamento? Ne fanno fede le accuse dei nostri avversari; che di norma non addebitano a noi scarso rispetto per la istituzione parlamentare, ma, al contrario, ci rimproverano per le «manovre ostrazionistiche» che di tempo in tempo andiamo conducendo, E cos’è mai, una manovra ostruzionistica, se non la utilizzazione al massimo dello strumento parlamentare, se non la massima presenza e il massimo impegno, se non la più dura risposta, diciamo pure la più dura lezione, ai tanti parlamentari di maggioranza che sì e no prendono la parola due volte in una legislatura, quando Sua Maestà il partito lo comanda o quando Sua Maestà la clientela lo impone? Da qualche anno a questa parte, infine, la nostra democrazia fa le sue prove alla televisione. Cominciò colui che per lunghi anni mi precedette alla segreteria del partito, Arturo Michelini. E quando cominciò tutti si accorsero che il segretario del partito più antidemocratico d’Italia era l’uomo dotato di maggiore comunicativa alla televisione; perché curava il parlare semplice, perché cercava il contatto immediato con la gente in ascolto, perché non parlava per iniziati, perché coltivava, non insisterò mai abbastanza su questo tema, il colloquio. Siffatti giudizi, come sapete, non sono giudizi di parte; perché li vedemmo emergere dagli indici di gradimento ufficialmente resi noti. Quando è venuto il mio turno, mi sono studiato, a mia volta, di farmi capire, di parlare semplice, di rispondere senza mezzi termini alle domande, di non lasciarmi imprigionare dalle formule; e senza alcuno sforzo, perché credo sia questa la mia natura, ho cercato di essere il più educato possibile con gli ascoltatori e anche con gli interlocutori. Non oso esprimere giudizi sul mio conto. Sembra che i giudizi di opinione non siano stati sfavorevoli; se alcuni avversari hanno ritenuto, clamorosamente e, mi si consenta, assai poco coraggiosamente di dare forfait, mentre altri hanno inventato lo slogan del «doppiopetto», sembrando loro incredibile che il segretario di un partito siffatto potesse affacciarsi sorridente dai teleschermi e che le grinte fossero invece proprie di uomini e di partiti che discendono da incorrotti lombi democratici. Desidero dire anche che sotto il mio doppiopetto, non c’è né potrà mai esservi quel doppiogioco che non ho praticato mai e i cui più insigni maestri siedono su ben altri banchi in Parlamento. C’è invece la tranquilla nostra coscienza; tranquilla non perché riteniamo di avere ragione, ma perché le nostre ragigoni affrontano serenamente il paragone con le ragioni degli altri, scendono in piazza, salgono in Parlamento, fanno sentire la loro voce in televisione: liberamente; essendo le ragioni di una gente che padroni non ha.

f30 foto

«MI CONSIDERO UN UOMO LIBERO, ANCHE NELLE SCELTE: NOMINAI MIEVILLE A CAPO DEI GIOVANI DOPO AVERLO SENTITO PARLARE UNA SOLA VOLTA»

Le foto dei funerali di Giorgio Almirante e Pino Romualdi sono tratte da “L’ultimo saluto”, album edito dall’agenzia Controinformazione di Milano, diretta da Giulio Ferrari, nel 1989. Gli autori delle immagini sono Gianluca Castro, Walter Maggi e Riccardo Mazzoni (Agenzia Excalibur)


4

[

VENT’ANNI DOPO

]

SECOLO D’ITALIA

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

f01 foto

Pino Romualdi saluta un giovanissimo Granfranco Fini. Si riconoscono, oltre ad Almirante, Michele Marchio, Adriana Poli Bortone e Carlo Tassi

Da «L’Orologio», la rivista diretta da Luciano Lucci Chiarissi - aprile 1967

◆ Pino Romualdi

S

e per fascismo si intende un partito storicamente definito e organizzato, o il regime fondato su particolari istituti che ne costituivano la struttura, il carattere distintivo, la forza politica, giuridica, amministrativa, non ci pare dubbio che si debba dire addio al fascismo. [... ] Quel che è accaduto dopo, non sarebbero fatti politici veri e propri, ma solo fenomeni di nostalgie: sofferte dai più semplici e sfruttate dai più furbi. Solo l’incapacità della vecchia democrazia, dei suoi uomini, dei sui partiti, avrebbe accreditato un qualche valore politico a questi fatti, a questa attiva presenza dei fascisti dopo Mussolini. Non si può negare che in tutto ciò vi sia qualcosa, anzi molto, di vero. I vent’anni della battaglia democratica o meglio elettoralistica del cosidetto neofascismo, e in particolare del Msi, possono avere in realtà largamente contribuito a rafforzare questa convinzione. Gli scarsi risultati pratici ottenuti; le delusioni cocenti; l’incapacità di essere completamente diversi dagli altri; l’incapacità accentuatasi in questi ultimi anni con l’apparire e l’imporsi di uomini che col fascismo hanno poco o nulla a che vedere, per temperamento, per tradizione, per propositi, per costume, sono elementi che possono aver concorso ad un giudizio negativo. Essere diversi come sarebbe stato necessario per dimostrare che in sostanza, pure accettando la legalità e la realtà del mondo del dopoguerra italiano, e i suoi problemi, il nostro era un altro mondo politico, il partito di un’altra razza, di un’altra esigenza morale. Esattamente come diverso era apparso sulla scena politica italiana il fascismo degli anni Venti. Ancorché il mondo di allora fosse un mondo democratico, e il fascismo lo accettasse per quel che era e come era: con le squadre di azione come le avevano i rossi, con le elezioni e il Parlamento come li accettavano tutti. Ma neppure queste considerazioni possono esaurire il problema, e permettere di rispondere alla domanda. Le condizioni storiche del secondo dopoguerra erano troppo diverse da quelle del primo. Anzi, erano esattamente l’opposto. Il primo dopoguerra era stato in sostanza il dopoguerra del «fascismo», cioè delle varie e diversamente precedenti forze nazionali, che avevano voluto e vinto la guerra. Contro queste si organizzavano, per una paurosa rivincita, le forze che la guerra avevano sabotata o vi erano rimaste estranee. Sostituirsi alle esaurite forze liberali, a una destra storica incartapecorita, impossessandosi dello Stato, per impedire che le forze sovversive ne facessero uno stru-

’67: LO “STRAPPO” ANTE LITTERAM FIRMATO DA ROMUALDI «La politica è un atto di volontà, l’addio ai bagagli portati per tanti anni non è addio al fascismo ma possibilità di andare più svelti» f02 foto

parola che ha suscitato molte polemiche: tante critiche giuste, e tantissime ingiuste. Giuste quelle rivolte a chi per inserimento intendeva entrare e far entrare il partito nell’intricato e intrigante mondo del sottobosco governativo. Ingiuste quelle rivolte alla doverosa volontà del partito di inserirsi nella vita, nei problemi, negli interessi pratici e morali; fra la gente viva e vitale operante in questi anni in Italia. Per meglio comprenderla e interpretarla. Per meglio difenderla, usando bene, intelligentemente gli strumenti della attuale lotta politica. In piazza, in Parlamento, nei consigli Comunali, provinciali, regionali, nelle Università, negli uffici, nelle fabbriche. Ovunque, proprio per affermare concretamente – al contrario di quel che si pensa – la nostra volontà e capacità di indipendenza, di libera scelta. Anche quella di votare Zoli a suo dispetto, senza mercanteggiare un bel nulla, nemmeno la salma, perché questa non è che una odiosa macabra favola, inventata da chi volle fare della coincidenza un motivo di preferenza elettorale. Votarlo a suo dispetto, sissignori, avendo politicamente valutato, in piena libertà — tutti, credo, ma sicuramente i più — che un governo Zoli fosse preferibile ad un altro governo demo-

«Oggi un’élite giovane, preparata, forte, capace di caratterizzare di sè il proprio momento di lotta, deve scrivere il proprio capitolo di storia»

Un comizio del Msi negli anni ’70 a Piazza Esedra mento del loro demagogico disordine, rientrava per il fascismo nella logica politica del tempo, generalmente accettata o per lo meno capita. Il secondo dopoguerra, invece, era quello della vittoria delle democrazie e del comunismo contro il fascismo, drammaticamente denunciato a tutto il mondo come nemico mortale degli uomini e del vivere libero e civile. [... ] La lotta non poteva che essere durissima, lunga, piena di pericoli di ogni

genere. In primo luogo, quello di snaturarla, di vedere il nostro partito trascinato dagli altri o da noi stessi verso la palude della peggiore democrazia. Erano pericoli, però, che avevamo il dovere di correre. Estraniarci dalla vita politica per molti anni, sarebbe stato ancora più pericoloso. Le idee politiche, se vogliono restare tali, debbono rimanere attive sul terreno della vita politica. Debbono inserirsi. Ecco una

cristiano. Sono le magre e amare scelte che purtroppo si impongono quando — malgrado noi — un democratico governo ci deve fatalmente essere, non esistendo condizioni né obiettive né soggettive per fare rivoluzioni e neppure serie sommosse. [... ] Al congresso di Genova avremmo potuto lasciarci un morto, dieci morti, ma non per questo avremmo potuto cambiare di un filo la situazione politica. Da Genova non ci hanno buttato fuori «i cittadini democratici», cioè gli attivisti comunisti ivi convenuti un po’ da tutta Italia, ma ci ha buttato fuori la polizia. Sono state le forze di polizia, che incapaci di tutelare l’ordine pubblico — per le ragioni che sappiamo tutti — ci hanno impedito di celebrare il congresso: di uscire dai nostri alberghi per raggiungere ad ogni costo il teatro come avevamo deciso di fare. È stata la polizia, sono stati i celerini, i carabinieri, i soldati a costringerci a lasciare Genova, ad “accompagnarci” fisicamente alla stazione. Le poche volte che riuscimmo a superare la sorveglianza della polizia — e bisogna


SECOLO D’ITALIA

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

[

VENT’ANNI DOPO

]

5

Così il presidente del Msi difendeva la scelta di votare il governo Zoli dalle accuse di chi temeva una liquidazione dell’eredità fascista

dirlo ad onore dei più giovani fra noi — e a venire a contatto coi predetti “cittadini democratici” furono questi a buscarne. Il pericolo corso a Genova, almeno per quel che ci riguarda, fu un altro: quello di una dichiarazione democratica che, forse, tatticamente importante, avrebbe potuto essere malfatta, mal capita, mal usata, liquidando così per sempre la nostra forza particolare: e politicamente buttandoci nel peggiore qualunquismo, quello che avevamo coraggiosamente evitato, quindici anni prima, creando – in contrasto coi più – questo partito. Il pericolo di sempre. Il pericolo di tutte le forze politiche costrette a giocare le loro carte nelle condizioni nostre. Anche di quelle che vogliono operare rivoluzioni. Perché a secco, senza inserirsi, non si possono neppure fare le rivoluzioni. A loro modo, sono stati inseriti – e più ancor lo sono – i comunisti, i nazionalsocialisti di Hitler, i fascisti di Mussolini. Quel che conta è il mondo. Un modo che impedisca di non uscirne indeboliti, al momento opportuno. Addio a che cosa, dunque? Al bagaglio pesante anche se sotto certi aspetti nobile dei ricordi, degli usi, delle vecchie organizzazioni, degli istituti, dei nomi? Questo non è un addio che pesi. Né un addio nuovo. Lo ha già dato il tempo, la vita, questo addio. Tutto al più si tratta di farlo capire a coloro che si ostinano a non volerlo sapere, e di buttarlo in faccia a quelli che lo sanno, ma fingono di non saperlo per continuare a farne uno sfruttamento pratico e furbo. Ma questo non è il fascismo. È la parte fatalmente caduca di una organizzazione di un momento storico del fascismo, e se vogliamo, la parte che meno amavamo: la parte minore di un grande momento storico, però, intendiamoci bene; un fatto organizzativo fondamentale e metodo logicamente indicativo della vita del fascismo. Ma il fascismo non era e non è soltanto questo. Era e soprattutto deve essere un grande atto di volontà. Un modo coraggioso di interpretare la vita, una concezione spirituale e morale del mondo, della libertà, della società, dei suoi principi, dei suoi valori fondamentali, e che si realizza politicamente a secondo del momento storico in cui è chiamato a operare. Come ci ha insegnato Mussolini, operando, agendo, prepotentemente inserendosi nella realtà del suo tempo secondo le necessità, le aspirazioni, le ansie degli uomini e della società italiana ed europea del suo tempo. I suoi fasci rivoluzionari del ’14, il suo movimento del ’19, il suo partito del novembre ’21, il suo operoso regime del dopo 3 gennaio, il suo stato corporativo del ’34 — che solo le vicende successive, gloriose e drammatiche, non consentirono che fosse completamente sperimentato e attuato — furono gli strumenti concreti della sua

f03 foto

avesse inteso in questo senso e in questo senso se ne fosse servito e lo avesse servito: senza idolatrie, senza inutili irritanti processi troppo spesso ipocriti; se non ci fossimo chiusi e non ci chiudessimo la mente nel nome di male intese fedeltà e male intese discipline. E a chi confonde lo strumento col fine o con la ragione sostanziale della lotta, e i mali dello strumento lamenta, ma li confonde coi mali dell’idea, vogliamo dire che non si può dimenticare che i partiti, i movimenti, le organizzazioni politiche in genere – necessari e forse insostituibili strumenti per ogni battaglia politica – non sono mai soltanto un incontro di idee. Sono incontri di uomini con le loro idee e con i loro interessi; con le loro generosità e con il loro egoismo. Addio a niente, dunque. L’addio agli impedimenti, ai cari bagagli generosamente portati per tanti anni, agli strumenti, sia pure amatissimi, ma che non servono più, non è un addio al fascismo. Anzi potrebbe essere una garanzia, per un fascismo più giovane. Una possibilità di camminare più svelti, per le nuove generazioni sulle cui spalle e sulle cui coscienze non debbono esservi pesi di sorta. I pesi, se mai, debbono continuare a restare tutti sulle nostre.

Sullo sfondo dell’articolo c’è la polemica sul congresso missino a Genova. Romualdi risponde alle critiche di chi sostiene che non si doveva esporre il Msi a una “cacciata”

Un’immagine storica: la polizia insegue i missini arrivati a Genova nel 1960 per il VII congresso azione; formidabili, moderni, originali strumenti politicamente e tecnicamente validissimi. E uno strumento è il Msi. Buono o cattivo, per merito e colpa di chi vi è dentro, ma anche di chi è rimasto o è andato fuori. Uno strumento fallito dicono molti, finito, senza alcuna efficacia. Ciò che pensiamo in questo momento del Msi, che vorremmo radicalmente trasformato nelle strutture e negli uomini, è abbastanza noto.

Non è qui il caso di ripeterlo. Ma anche ammesso che il Msi sia fallito, sarebbe la fine di uno strumento, che ha avuto una sua funzione, forse più importante di quel che noi stessi siamo portati a valutarla. E ciò, nonostante tutte le cose vere o presunte, di cui tanto si parla, e che hanno fatto esplodere in una serie di paradossi la prosa amare e intelligente di Giano Accame. Uno str umento che poteva essere migliore, d’accordo, se ciascuno di noi lo

Ma perché questo sia vero, è necessario che i giovani capiscano che parlare non basta, che pensare non basta, che discutere non basta, e soprattutto non basta attendere che i matusa sgomberino la scena con tutto il loro ”vecchiume” di fascismo, per vivere finalmente e interamente il loro. La politica è un atto di volontà, l’azione coraggiosa intelligente, generosa di una élite giovane, preparata, forte, capace – battendosi – di caratterizzare di sé il proprio momento di lotta, di scrivere magistralmente il proprio capitolo di storia, di dar vigorosamente di piglio a ciò che occorre per inserirsi dentro una massa di uomini, di sentimenti, di interessi, di speranze e smuoverla, darle una coscienza politica, guidarla verso certi obiettivi. Che per noi, proprio nello spirito vero del fascismo – quello cui non dobbiamo dare per fortuna alcun addio – non possono tuttavia essere né soltanto la civiltà del benessere, né solo quella della giustizia sociale ad ogni costo, obbligata, che dovrebbe curarsi di te – come diceva inorridito Mussolini – dalla culla alla tomba.


6

[

QUELLA RIVISTA LABORATORIO

SECOLO D’ITALIA

] f01 foto

LIBERTÀ È... SCOPRIRE KEROUAC, AMARE POUND box foto

COSÌ PINO ROMUALDI DIVENTÒ CON “L’ITALIANO” IL PADRE NOBILE DI UNA INTERA GENERAZIONE, DANDO SPAZIO A TUTTE LE SUE DIVERSE “ANIME”

◆ Enrico Nistri a longevità, com’è noto, non è la caratteristica più frequente nelle riviste. Non lo è soprattutto delle riviste politiche, più legate alla contingenza del momento, e in particolare non lo è stata nella prima repubblica per le riviste di una destra emarginata, priva di introiti pubblicitari e con alle spalle un partito intento talora più a vivere che a filosofare. L’Italiano, rivista ora quindicinale ora mensile “di vita e cultura politica”, è stata una felice eccezione; e questo vuol dire molte cose. Vuol dire, in primo luogo, che il suo fondatore e direttore Pino Romualdi credeva nella cultura non come fiore all’occhiello, ma come sostanza dell’agire politico. Vuol dire che questo leader “realista e sognatore”, tanto per citare l’ossimoro con cui l’ha ricordato Riccardo Migliori nel volume collettivo La memoria della destra (Pantheon), seppe aggregare nei momenti migliori non una corrente ma un gruppo umano in grado di rinnovarsi oltre i limiti generazionali. E vuol dire pure che Romualdi, anche quando fu alla guida di una corrente (o di uno “spiffero”, come usava dire Almirante), fece sempre della sua rivista un punto di riferimento culturale, non settario. Quando chi scrive, appena diciassettenne, comprò da Marco Tarchi – che ne curava la vendita a Firenze e ne sarebbe divenuto di lì a poco un assiduo collaboratore – il suo primo numero dell’Italiano, dedicato al centenario di Roma capitale, era il settembre del 1970 e la rivista era già al suo undicesimo anno di vita. Era nata alla fine degli anni Cinquanta; nella testata si

L

dichiarava quindicinale, ma usciva con una per altro regolare cadenza mensile, in bei fascicoletti rilegati “con la costola”, del costo di 400 lire, con le pagine bianche, al centro, per gli articoli di maggior peso, le pagine delle rubriche, all’inizio e alla fine, di grammatura più sottile e di corpo più piccolo, le icastiche foto di copertina, accompagnate ora da un commento sardonico ora da uno slogan. Era stata questa la veste del primo Italiano, quello fondato da Leo Longanesi durante il ventennio; e, se significherebbe peccare di eccessiva generosità sostenere che la pur bella rivista di Romualdi potesse emulare la raffinatezza grafica del periodico cui s’ispirava, il fatto che il suo fondatore – già vicesegretario del Partito fascista repubblicano – si fosse richiamato alla rivista di Longanesi, che non aveva aderito alla Rsi e che durante il fascismo era stato accusato “di fronda”, è un indizio della sua liberalità intellettuale. Orgoglioso come pochi altri del suo passato, rievocato sulla rivista in alcuni memorabili articoli, Romualdi era capace come pochi altri di accettare il passato e le idee degli altri senza settarismi e di guardare al futuro senza paraocchi. Per rendersene conto basta ricordare i nomi di alcuni fra gli editorialisti, i commentatori, i collaboratori non occasionali di una rivista che negli anni Settanta, notoriamente non facili, era capace di attingere anche al di là di un semplice bacino partitico. Nei suoi anni migliori, che poi furono anche gli anni migliori del vecchio Msi, L’Italiano fu veramente la rivista di tutte le anime della destra, ultracattoliche e neopagane, guelfe e ghibelline, modernizzatrici e tradizionaliste, da Pino Rauti, rientrato nel Msi nel 1969, ad Armando Plebe a Julius Evola. Due pensatori così lontani per formazione e weltanshauung ma così vicini nel 1973 nel pubblicare sulle pagine della rivista un commosso ricordo del figlio del direttore, Adriano Romualdi, precocemente scomparso nell’estate del 1973. Con l’arrivo degli “anta” non solo la vista ma anche la memoria diviene presbite; e oltre che presbite selettiva. Si tende a idealizzare il passato ed è lecito domandarsi se buona parte del fascino esercitato dall’“Italiano” su noi studenti liceali o universitari dei primi anni Settanta non fosse dovuto al fatto che i temi, i personaggi, gli eventi evocati su quelle pagine costituissero per noi un’assoluta novità. Per questo chi scrive, prima di affrontare questo articolo, si è sobbarcato il gradevole pensum di sfogliare oltre dieci annate della rivista di Longanesi, dal 1970 agli ultimi, più saltuari, fascicoli del decennio successivo, rileggendo alcuni degli articoli che più l’avevano colpito. E deve dire che la maggior parte di quelle pagine reggono egregiamente all’usura degli anni e anzi meriterebbero in molti casi di essere debitamente antologizzate. Chi scrive non sarebbe chi è se non avesse letto a diciott’anni le splendide pagine di Adriano Romualdi sulle ultime ore dell’Europa, i geniali articoli con cui Franco Petronio ha insegnato a una generazione ad amare Céline e Pound, ma anche i nobili interventi di Fabio Lonciari in materia di politica estera e di difesa dell’italianità del litorale adriatico; i caustici “dialoghi di Platone” in cui Rutilio Sermonti demoliva molti idoli forieri di un politicamente corretto che ancora non si chiamava così; l’acutissima inchiesta curata nel 1971 da Alfredo Mantica sugli “enciclopedisti del XX secolo”; gli interventi sulla “dittatura occulta” dei media di un fratello maggiore, quale era per noi diciottenni Gianfranco de Turris; e naturalmente le limpide analisi del direttore, che costituirono, come del resto gli interventi del figlio Adriano, un provvidenziale vaccino contro ogni deriva terzomondista e terzaforzista in nome di una virile e reali-

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

stica, ma non succube, solidarietà europea e occidentale. Senza togliere nulla all’Italiano dei dodici anni prima – quello che nel 1950 patrocinava a Roma uno splendido convegno sul tema “L’Europa una fede un programma” il cui ospite d’onore era Ezra Pound – e neppure alla rivista degli anni Ottanta – l’organo “migliorista” in cui sarebbero maturate tante belle intelligenze della futura Alleanza nazionale – occorre riconoscere che il mensile di Romualdi conobbe il suo stato di grazia in quella prima metà degli anni Settanta in cui del resto lo stesso Msi conosceva il suo momento magico. Erano gli anni in cui uscivano tre settimanali schierati a destra – il Candido, il Borghese e Lo Specchio di Nelson Page, per tacere di Gente – in cui andavano in edicola numerose riviste di cultura, dalla Destra a Intervento, dalla Torre al Conciliatore, al Cavour, in cui la nascita della Rusconi di Alfredo Cattabiani faceva paventare alla sinistra il rischio di una “restaurazione culturale” e anche il gruppo rautiano dava vita a periodici qualificati, come Civiltà e ancor più forse Presenza di Pino Rauti. Momenti belli e irripetibili, cui seguirono i plumbei anni della demonizzazione, dell’emarginazione, della persecuzione giudiziaria che non risparmiò alcuni giovani collaboratori della rivista, come il presidente del Fuan romano Gianluigi Indri. Tutto questo, tuttavia, non tolse nulla alla vitalità della rivista, così come la pur ir rimediabile perdita di Adriano Romualdi fu, almeno in parte, compensata dalla cooptazione di molte giovani e giovanissime intelligenze, destinate ad avere un futuro nel mondo della

Evola, Rauti, ma anche Plebe e il pop di Marchal. E poi Sermonti, Petronio, Cattabiani, de Turris, Mantica, Tarchi: la storia della destra in una rivista politica, dell’università, del giornalismo: da Gennaro Malgieri a Marco Zacchera, che esordì nel febbraio 1973 ammonendo che «i partiti elettorali contano i voti, ma non contano», da Marco Tarchi al precocemente scomparso Alessandro Massobrio, da Luigi Filippi a Biagio Cacciola, da Piero Vassallo a Eugenio Sacco, da Maurizio Cabona a Stenio Solinas, che ancora minorenne si interrogava su «Kerouac uomo di destra». Né mancarono presenze fugaci ma significative, come quelle del vignettista francese Jack Marchal, che nel marzo-aprile 1977 suggeriva «Una inter pretazione non conformista della musica pop», e di Carlo Terracciano, che esordiva nello stesso numero con una recensione di Barry Lyndon. Nomi che, insieme a quelli dei “fratelli maggiori” de Turris, Pierfrancesco Zarcone, Daniele Gaudenzi – curatore della godibilissima rubrica “Uomini, cose e fatti”, - Carlo Sburlati, Mario Bernardi Guardi, Luigi dal Ponte, Gabriella Chioma, facevano dell’arrivo della rivista in libreria o in edicola (era in vendita nei chioschi delle stazioni ferroviarie) un appuntamento importante. Meno raffinato, forse, ma senz’altro più longevo dell’omonima rivista di Longanesi, L’Italiano di Romualdi assicurava così una continuità fra le generazioni fondata non sulle quote rosa o verdi o blu, ma sull’unica discriminante possibile: la competenza, le capacità, il coraggio. Merito di tanti giovani intelligenze che si bruciarono carriere universitarie per firmare sulle sue pagine, ma naturalmente anche e soprattutto di Pino Romualdi. L’uomo che veniva da lontano, ma che più di tutti, forse, fu capace di guardare oltre.


DOMENICA 25 MAGGIO 2008

«A vent’anni dalla morte si deve riconoscere al leader missino un ruolo di “costruttore della democrazia” parallelo a quello del segretario del Pci» ◆ Luciano Lanna hi meglio di Pierluigi Battista può fornire un giudizio “sine ira et studio” su Almirante e l’almirantismo? Vicedirettore del Corriere della Sera, autori di saggi importanti sul rapporto tra politica e idee nell’Italia repubblicana, Battista riassume nel suo percorso intellettuale il senso dei cambiamenti avvenuti nella società italiana negli ultimi 15 anni. Abbeveratosi nel clima del post ’68 in una sorta di via liberale all’estrema sinistra, fece parte nei primi anni Ottanta della pattuglia di Pagina, il mensile attorno a cui si raccolsero, insieme a lui, giovani intellettuali come Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Massimo Fini, Giampiero Mughini e Angelo Panebianco: gli interventi su quella rivista costituirono di fatto l’anticipazione di nuove sensibilità e, soprattutto, anche uno dei luoghi privilegiati d’attenzione e dialogo nei confronti della stessa cultura di destra. C’è, poi, anche una dimensione personale ed esistenziale di tutta questa vicenda. Battista ha infatti più volte ricordato – anche dopo la morte di suo padre Vittorio, avvocato e dirigente del Msi – il fastidio che negli anni ’70 gli ricordavano certi slogan: «“fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”: erano un tormento. Io ero in lite con mio padre, che era borghese e fascista, ma non potevo pensare che dovesse essere ucciso...». Fu proprio quel clima – ci confessa adesso – a fargli rompere col suo mondo d’origine: «Personalmente il mio addio al mondo dell’estrema sinistra avviene quando la tragedia sconfinò nella bestialità assoluta con il rogo di Primavalle. Dove un ragazzo e un bambino, figli di un fascista, persero la vita. E dove partì una campagna di stampa ignobile in cui, pur sapendo fin troppo bene come erano andate le cose e cioè che dei militanti di Potere Operaio avevano dato fuoco alla casa di un proletario “fascista”, si disse che erano stati gli stessi fascisti a bruciare i loro figli. Una cosa ributtante. E si dà il caso che mio padre fosse uno dei legali della famiglia Mattei. Il mio ripudio per quel mondo che aveva partorito una simile mostruosità farebbe la felicità di uno psi-

C

SECOLO D’ITALIA

“È TEMPO DI AMMETTERLO: ALMIRANTE COME TOGLIATTI” Pierluigi Battista: arginò le forze tentate da scorciatoie violente ed evitò che gli anni Settanta sfociassero in una guerra civile f01 foto

■ Cosa vuol dire? Qual è la connessione tra la sua personale rottura con la sinistra e Almirante? Che è proprio questo preciso ruolo di Almirante che oggi va studiato con attenzione anche da chi non è mai stato del Msi o anzi ne ha politicamente contrastato il cammino. Non per aderire all’almirantismo, certo. Ma per comprendere nella storia nazionale tutti i suoi protagonisti, anche quelli più controversi.

]

7

aver tenuto a bada e contrastato le pulsioni “sovversive” e antisistema che albergavano nella galassia della destra neofascista italiana. Pur in una situazione in cui, attraverso la mistica dell’antifascismo militante e l’uso intimidatorio della formula dell’arco costituzionale, veniva negata la stessa agibilità politica di un partito legittimamente rappresentato in Parlamento, la Destra nazionale di Almirante perseguì con un’ostinazione irriducibile quelle forze, anche dentro il Msi, tentate dalla scorciatoia violenta e addirittura sedotte dalla scelta disperata della lotta armata. Mi ha fatto impressione leggere nelle memorie di Pier Luigi Concutelli, recentemente pubblicate, che Almirante era considerato dalla destra para-terrorista un “traditore” e che come tale doveva essere trattato, fino ad accarezzare l’idea della sua soppressione fisica... Non so se sia vero o se sia una millanteria di chi vuole ofrire di sé la biografia di un “puro e duro” senza scrupoli. È però un fatto che una parte della destra estrema scivolò inesorabilmente verso una deriva di fantasie golpiste che non si arrestarono nemmeno sulla soglia della tentazione stragista. È un altro fatto che successivamente una fetta del mondo giovanile neofascista si fece ammaliare dalle sirene della lotta armata ricalcata sugli schemi elaborati dal dirimpettaio antagonista di sinistra. È un fatto che il Msi subì un’offensiva durissima per accreditarne il coinvolgimento nella “strategia della tensione”. ■ Fu la stagione del giornalismo pistarolo che avvelenò il clima e che si rivelò alla prova dei fatti privo di riscontri... Infatti quel coinvolgimento non ci fu, come risulta anche dalle risultanze giudiziarie sulle stragi di quegli anni, tranne, credo, che per l’episodio della strage di Peteano. Ma Almirante tenne la barra diritta. Affrontò terribili rotture. Vigilò che il suo partito non si avvitasse in una spirale di tremende vendette. Perseguì la sua politica di Destra nazionale anche se quel progetto fu perdente. Perdente perché non riuscì a calamitare forze “moderate” esterne al Msi (solo il generale De Lorenzo,

Il giornalista: ruppi con l’estremismo di sinistra dopo la strage di Primavalle e i depistaggi mediatici a favore di PotOp

Un’analisi “sine ira” dell’almirantismo da parte di un testimone privilegiato, per motivi famigliari oltrechè culturali e politici coanalista che volesse studiare il meccanismo di riconciliazione di un figlio con il padre ucciso in effigie nel corso di un parricidio simbolico. Quel che è certo, comunque, è che dopo il rogo di Primavalle dalla bocca di Almirante non partirono mai parole di vendetta...

[

VISTO DA LONTANO

l’ammiraglio Birindelli, il filosofo Plebe, i monarchici di Covelli: davvero un bottino poco esaltante). Ma vincente perché tenne fuori il Msi, e i suoi giovani più esposti al richiamo della guerra civile strisciante, dallo scontro duro con il sistema. Non farlo avrebbe prodotto conseguenze disastrose.

Pierluigi Battista invita ad aggiornare il giudizio sullo storico segretario del Msi

■ In qualche modo lei distingue tra i contenuti della politica almirantiana e il ruolo svolto dal leader missino per disinnescare quel clima tragico? Certo, in una lettura politico-culturale della storia italiana non più intossicata dai veleni della deformazione ideologica e delle liturgie imposte da una retorica dell’odio oramai totalmente assente dai sentimenti dell’opinione pubblica, bisogna applicare alla figura di Giorgio Almirante la stessa chiave interpretativa che è stata adoperata nei casi di Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer.

der del Pci postbellico e non al segretario storico del Msi? Riconoscere un ruolo positivo a Togliatti non ha mai significato automaticamente un’attenuazione del giudizio sull’ideologia togliattiana, sui contenuti propri di un leader comunista integralmente immerso negli schemi del comunismo intenazionale e dell’appoggio incondizionato alla politica di Stalin. Si riconosce però a Togliatti il ruolo di costruttore della democrazia repubblicana. Con la sua scelta “nazionale” contribuì alla messa ai margini della componente “insurrezionalistica” ancora presente nel Pci contagiato dalla mitologia partigiana e vulnerabile al richiamo rivoluzionario. Anche della politica di Berlinguer si mette in luce il ruolo determinante nella sconfitta del terrorismo rosso. Al Berlinguer precedente allo “strappo” con Mosca viene riconosciuto un ruolo di difesa democratica, malgrado il suo legame con l’esperienza sovietica. Ecco, con il lascito storico di Almirante è l’ora di compiere un’operazione simmetrica.

■ Cosa è stato riconosciuto ai due lea-

■ Questo significa che il leader missino

avesse già anticipato una destra davvero postfascista e postideologica? No, Almirante era e rimase orgogliosamente fascista e nel suo pensiero non si rintraccia mai una tentazione di oltrepassare la barriera dell’identità fascista. E mi lasciano perplesso le recenti letture che vedono in Almirante un precursore della svolta di Fiuggi. Lo stesso Fini di Fiuggi, tra lacrime vere e commozione quando compariva l’immagine di Almirante sullo schermo dietro il palco, parlò di una dolorosa e necessaria uscita “dalla casa del padre” come passaggio necessario per portare l’ex Msi al centro di una nuova storia. La “casa del padre” da abbandonare era quella di Giorgio Almirante, non dimentichiamolo. Ma, ripeto, nella politica italiana Almirante va ricordato per il suo ruolo positivo svolto nel cuore del decennio più cupo e violento dell’Italia democratica: gli anni Settanta. ■ Del resto Almirante divenne segretario del Msi nel ’69, quando la contestazione e l’autunno caldo stavano trasformandosi negli anni di piombo... Il merito di Almirante secondo me fu quello di

■ Insomma, concorda con quanto sostenuto recentemente da Fini, secondo cui Almirante ha impedito che la guerra civile strisciante si trasformasse in vera guerra civile. So per esperienza personale che quella guerra civile strisciante fu terribile e dolorosa. Ricordo bene la mia angoscia di giovanissimo militante dell’estrema sinistra che partecipava ai cortei in cui furoreggiavano slogan truculenti in cui si invocava “Almirante a testa in giù” e che “uccidere un fascista non è un reato”. Un’angoscia acuita dal fatto che ero il figlio in rotta con un padre che stava “dall’altra parte”, che era l’avvocato di Almirante e che non aveva mai rinnegato la sua esperienza nella Repubblica sociale italiana. So che quel gorgo di ritorsioni e rappresaglie che insanguinò le piazze degli anni Settanta non era uno scherzo o una via Pal. Ci rimisero la pelle un sacco di giovani, dell’una e dell’altra parte. E si picchiava duro dall’una e dall’altra parte: non ci sono innocenti. Eravamo tutti abbrutiti da una concezione stravolta della politica per cui il “nemico” era da annientare. C’era il “dagli al fascista” nelle zone presidiate dai “rossi”. Ma le assicuro che io non potevo nemmeno immaginare di passare vicino alla sezione Balduina del Msi senza rischiare le sprangate di voi “camerati”. Ma ricordo che Giorgio Almirante si batteva contro questa tragica spirale. E questo oggi resta.


8

[

]

GIORGIO E PINO VISTI DA NOI

SECOLO D’ITALIA

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

BUZZANCA ◆ Michele De Feudis

S

ubì la fascinazione per il carisma di Giorgio Almirante giovanissimo e per tutta la vita non ha mai nascosto l’ammirazione, da «socialista di destra» per il segretario nazionale del Msi, al quale fu legato da sincera e ricambiata amicizia. L’attore Lando Buzzanca, icona del cinema italiano, ricorda con affetto il leader della destra, anche a costo di interrompere le riprese del film Il commissario Vivaldi. ■ La sua passione per Almirante risale addirittura agli anni ’50… Sì, ero ancora a Palermo e avevo solo quattordici anni quando andai ad ascoltare un suo comizio in centro, a piazza Verdi. Dominava il palco con la sua semplicità e allo stesso tempo aveva personalità e carisma. Seduceva la folla. ■ Lei seguiva i comizi del Msi, eppure proviene da una famiglia di sinistra. A casa mia si respirava la tensione culturale del socialismo italiano, quello di Benito Mussolini e di Pietro Nenni. Non mi è mai piaciuta la sinistra che voleva avere sempre ragione. Mi sono sempre sentito un socialista di destra, e da “socialista di destra” ho amato la sensibilità di Giorgio Almirante per la difesa dei non garantiti e della cultura libera. ■ Come nacque l’amicizia e la frequentazione con il segretario del partito? L’episodio nel quale ci conoscemmo è curioso e ben rappresenta il clima di esclusione che viveva la destra italiana. Si era all’inizio dei ’70, andai a cena a Sabaudia in un noto ristorante con mia moglie. Ero già un attore famoso e il proprietario mi venne incontro. Dopo avermi salutato, mi sussurrò, come per scusarsi, «Signor Lando, l’avverto che nella sala c’è Giorgio Almirante». La mia sorpresa fu grande, avevo la possibilità di presentarmi a un mio mito giovanile, ero emozionatissimo. Non feci in tempo a chiedere dove fosse seduto che il segretario mi venne incontro, con grande naturalezza. Cresciuto in una famiglia di attori, aveva una grande assonanza con il mondo dello spettacolo. Gli chiesi solo: «Onorevole, la posso abbracciare?» e lo strinsi forte come se fosse stato da sempre un mio parente. ■ Cosa la colpì di quell’incontro? L’umiltà dell’uomo, che sapeva mettere chiunque a proprio agio. L’ar-

SECOLO D’ITALIA

DOMENICA 25 MAGGIO 2008

SOLINAS

roganza dei politici in questo paese è sempre stata un problema. Da quella sera diventai missino.

[

GIORGIO E PINO VISTI DA NOI

f02 foto

■ Diventò anche amico personale di Almirante. Certo. Parlavamo di tutto, liberamente. Ricordo la questione del divorzio... Io avevo girato “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, e arrivò il referendum. Ero convinto che fosse meglio una famiglia separata che un legame riottoso. Eravamo a Villa Miani, con Giorgio c’era sua moglie Assunta che sorrideva per il mio imbarazzo. Non riuscivo ad accettare che un uomo così illuminato non cogliesse gli aspetti positivi del divorzio. Mi rassicurò e mi disse che se fosse dipeso solo da lui, «il partito avrebbe sostenuto un’altra posizione». ■ Come concilia questo profilo culturale libertario con l’immagine del Msi “partito d’ordine”? Mah, quella è una definizione parziale della destra italiana. Almirante era un uomo dalla cultura libera, senza preconcetti. ■ Invece lei per questa sua amicizia “scomoda”, trovò chiuse professionalmente molte porte. Non potevo entrare nei teatri delle regioni rosse. Una volta a Imperia il proprietario del teatro mi confidò di aver litigato con il sindaco della città per invitarmi… ■ Nelle sale i suoi film spopolavano lo stesso... Con i miei personaggi maschili rappresentavo la normalità… E non mi volevano far esibire perché «facevo opinione». Scola mi odiava, mentre il pubblico nazionalpopolare mi idolatrava. Certe discriminazioni e pregiudizi a sinistra sono tipiche dei caporali, dei comunisti piccoli piccoli. Quella cultura settaria è stata ormai smascherata dai libri di Giampaolo Pansa. Non nascondo di avere un rapporto di stima con un uomo coerente come Fausto Bertinotti e con Walter Veltroni, che ha la collezione completa dei miei film col personaggio di James Tont. Poi tra me e gli attori militanti di sinistra c’è una bella differenza. ■ Quale? Nel film “Il sindacalista” ho cercato di rappresentare il ruolo di chi difende i lavoratori con serietà e realismo. Mentre quando un attore di sinistra interpreta il ruolo di un personaggio di destra, lo deve per forza di cose deformare e rendere una caricatura. E questo non va bene.

ALMIRANTE? PER ME ERA UN SOCIALISTA DI DESTRA f01 foto

FASCISTA E LIBERTARIO,

ROMUALDI LO RICORDO COSÌ ◆ Alfredo Borgorosso

F

u prima il Caronte dei fascisti dalla Rsi alla democrazia, poi uno dei massimi simboli di una tradizione e di una identità profonda nel gioco politico italiano. Un ritratto nitido dello spessore e della lungimiranza di Pino Romualdi è possibile tracciarlo con Stenio Solinas, giornalista e scrittore (recente autore di Vagamondo. Viaggi e paesaggi, luoghi e incontri, miti e snobismi per Settecolori editore), nonché firma della cultura italiana transitata sulle pagine della rivista L’Italiano. ■ Da dove partire per raccontare l’uomo e il politico Pino Romualdi? L’ho conosciuto all’inizio degli anni ’70. Avevo smesso di ricoprire incarichi di dirigente del Fuan, e così mi avvicinai al periodico “L’Italiano”: le pubblicazioni dell’area non erano molto interessanti e quella di Romualdi era l’unica a non subire rigidi schematismi ideologici, come nel caso di “Civiltà”, vicina alla corrente rautiana. Come direttore, oltre a essere carismatico e sempre di buon umore, si segnalò per la ricerca di nuovi talenti che potevano collaborare con il suo periodico anche se non avevano le stesse idee o la stessa visione del mondo. ■ Che rapporto aveva con i giovani? Per noi era soprattutto un politico che sapeva ascoltare, disponibile e generoso. Per i giovani della generazione di Enzo Erra, invece, aveva un’aura di sacralità, un profilo mitico: era stato prima latitante, poi il fondatore del partito… ■ Aveva la statura di un uomo di Stato. Aveva idee chiare sul tipo di partito che doveva portare avanti. Ed era consapevole che la strada dell’intransigenza non avrebbe offerto al Msi nessuna possibilità di movimento. La prospettiva di “alternativa al sistema” non era compatibile con la linea politica che preferiva: era convinto che il Msi, essendo dotato di una identità politica molto forte, poteva anche fare patti con il potere costituito. Senza mai vendersi l’anima. ■ Mentre Almirante e Rauti… Si riteneva più scaltro di entrambi: distante dalla retorica del primo e dal rigido ideologismo del secondo. ■ Su “L’Italiano” c’era molta attenzione per la politica estera... Sì, lui era più avanti su questi temi rispetto agli altri dirigenti di partito. Ave-

va un respiro internazionale, limitato però dal non avere una prospettiva di governo. Esprimeva posizioni e sensibilità filoarabe molto particolari, da un lato retaggio del regime, dall’altro conseguenza della sua visione dei rapporti tra Italia e Mediterraneo. ■ Quanto influì sul suo percorso politico la morte del figlio Adriano, uno dei massimi uomini di cultura della destra postbellica? La tragedia del 1973 fu un colpo tremendo e segnò l’inizio del suo declino politico. Adriano era quello che Pino avrebbe voluto essere: uno studioso apprezzato, che non aveva mai rinnegato il suo passato e poteva esprimere liberamente le sue idee da una cattedra universitaria. ■ Quali erano i rapporti tra Almirante e Romualdi? Predominava la rivalità o le comuni responsabilità? Venivano entrambi dalla Rsi. Romualdi subiva il fascino del segretario, e allo stesso tempo aveva un senso del partito che non portò mai il gioco critico o la dicotomia al punto di mettere a repentaglio l’unità del Msi. ■ Era molto stimato negli ambienti del Pci, e nel primissimo dopoguerra curò riservati rapporti con Palmiro Togliatti. Di sicuro con Arrigo Boldrini, il partigiano Bulow, anch’egli di origine romagnola, i contrasti furono accesi: si consideravano nemici da eliminare. Ma dal ’46 al ’48 Romualdi trattò diplomaticamente con le forze centriste e con la sinistra costituita da Pci e Psi la nascita del Msi. Aveva una autorevolezza notevole proprio perché nella Rsi era stato, come vicesegretario nazionale del Partito fascista repubblicano, un esponente di assoluto rilievo. ■ Sulla sua rivista si postulava fin dagli anni ’70 la nascita di una Nuova Repubblica. Erano le ascendenze pacciardiane inserite attraverso le elaborazioni di Giano Accame nella linea del partito. Contro la deriva partitocratica si postulava la nascita di un esecutivo forte, una sorta di presidenzialismo che limitasse il malcostume dei partiti centristi. ■ Come andrebbe ricordato, in conclusione, Romualdi? Fu un politico coraggioso, fedele alla sua causa sconfitta, che considerava l’essere definito fascista un onore. Non si accontentò mai della mera testimonianza, ma si impegnò alacremente nel cercare di trasmettere le sue idee fuori dai soliti angusti recinti per inserirle nel gioco politico dell’Italia di quegli anni.

]

9


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.