Storia di Trieste

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LA STORIA DI TRIESTE Trieste è una città di oltre 208.000 abitanti e si trova in Friuli Venezia Giulia, di cui è il capoluogo regionale. Posta sulla costa friulana, nel cuore del Golfo di Trieste, la città sorge al confine con la Slovenia.

Ricostruzione storica a cura di Giorgio Weiss Alcuni storici, molto semplicisticamente, attribuiscono al nome di Tergeste il significato romano di “costruita tre volte”. Secondo altri queste sono solamente delle “dicerie” in quanto il termine non è romano, bensì molto più antico. Esso deriverebbe da terg, termine tratto da un antica lingua indoeuropea, o forse dialetto, che aveva il significato di mercato e dal suffisso este, tratto dal linguaggio dei Veneti, che voleva dire città. Sarebbe prova di questo suffisso il nome di alcune città, quali

Ateste e Segeste, fondate dagli antichi Veneti tanti secoli

prima. Per quantificare l‟epoca bisogna pensare che ciò avvenne prima che i Romani, scendendo dai loro colli, si espandessero nella pianura sottostante dove, dopo aver bonificato le paludi, eressero quella che è oggi chiamata la “città eterna”. Secondo questa interpretazione il nome della città di Tergeste significherebbe luogo di mercato o meglio ancora città-mercato. Sono riuscito ad identificare ancora una versione, che io ritengo leggendaria e poco probabile, in cui il nome di Tergeste deriverebbe dal nome di un guerriero, tale Tergesto o Tergesteo, che seguendo Antenore o Diomede e il popolo dei Veneti, una volta caduta Troia, si fosse fermato in questi luoghi da lui ritenuti splendidi, fondando una città a cui sarebbe stato dato il suo nome. Io sono propenso che la seconda versione, quella di città-mercato, sia la più realistica, però mi assale il dubbio che, se anche la terza versione sembri leggendaria, potrebbe avere qualche fondamento di verità. Bisogna pensare


che ad un certo momento, le popolazioni indoeuropee cominciarono ad espandersi e dilagare, diffondendosi in tutta l‟Europa, ma soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Uno di questi gruppi, sicuramente, giunse in queste regioni. Chi li guidava non sarà stato il leggendario Tergeste o, comunque, un altrettanto aitante condottiero, con spalle robuste, alto e biondo che era a capo di questa tribù di Veneti?? E qui la storia vera si mescola con la leggenda, tanto da disorientare un poco. Proseguiamo nell‟ analisi tenendo in sospeso questa decisione sulle origini del nome di Trieste. Siamo agli inizi dell‟età del ferro, circa mille anni prima della nascita di Cristo. Da questo momento cominciamo ad avere i primi dati certi dell‟insediamento umano nei nostri territori. I gruppi di persone, le tribù dei popoli che confluirono nella nostra zona, si attestarono sulla cima delle colline che circondano il golfo, costruendo villaggi e recintandoli con dei grossi e poderosi muri in pietra, a secco, cioè appoggiando e adattando le pietre una sull‟altra senza l‟uso della malta. Nacquero così quelle costruzioni che noi oggi chiamiamo castellieri. Il più ben conservato e grande castelliere che è stato ritrovato nella nostra regione è quello di Slivia, altri vennero portati alla luce in diverse zone del Carso. Sicuramente altri castellieri furono eretti anche sui colli più vicini alla costa ed essendo questi più prossimi al livello del mare erano pertanto climaticamente più confortevoli. Dati i successivi e più recenti insediamenti, gran parte di questi castellieri scomparve. Comunque furono ritrovate rare, ma sicure testimonianze sul colle di San Vito ed esse fanno pensare che anche i colli di San Giusto, Servola, San Pantaleone, Scorcola, ecc. abbiano avuto il loro castelliere. Il colle di San Giusto, in modo particolare, essendo il più vicino al mare, è il più probabile insediamento di qualche gruppo indoeuropeo. Resti in zona non ne sono stati trovati ma ciò, sicuramente, è dovuto al fatto che già all‟epoca romana la cima del colle fu livellata per permettere la costruzione di templi e basiliche eliminando ogni traccia precedente. L‟attuale via San Michele, quasi sicuramente, si snoda su di una strada aperta dalle genti preistoriche, che la usavano per scendere dai villaggi e raggiungere il mare, dove avrebbero trovato dei navigli provenienti dall‟ Oriente o dal Mediterraneo per poter barattare le loro mercanzie con i prodotti locali. E‟ probabile pure che, dalle zone baltiche, giungessero delle carovane di mercanti al punto di mare più


vicino dove poter vendere l‟ambra, prodotta in gran quantità nelle loro regioni, ai mercanti dell‟Oriente che ne facevano grande richiesta. Tutte queste sono congetture, supposizioni, ipotesi, teorie e non certezze documentate; infatti i primi scritti che provino l‟esistenza di Tergeste risalgono al primo secolo avanti Cristo.Risulta infatti che Roma, avendo consolidato il suo potere e dominio sulla penisola e in gran parte del Mediterraneo, decise di espandersi verso nord onde rafforzare le difese per arginare le calate dei barbari che, periodicamente, valicando le Alpi, cercavano sbocchi in territori più fertili e temperati. Partendo dal presupposto, come detto, che qui, esistesse un piccolo villaggio veneto, più ad est nella penisola istriana, certamente, erano insediati gli Istri che erano degli abilissimi marinai e quindi pirati, nonché dei formidabili guerrieri. Ad ovest, poco distante dalle nostre terre, sorse Aquileia fondata, si presume, nel 183 avanti Cristo, che fu una città e un porto di grossa importanza per i Romani. Come dicevamo, essendo gli Istri dediti anche alla pirateria, continuamente attaccavano le navi romane, che andavano e venivano dal porto di Aquileia. I traffici erano in costante aumento e specialmente da questo porto partivano navi cariche, tra l‟altro, di anfore vinarie contenenti il famosissimo vino “Pucinum”, i cui vigneti si estendevano sul fianco del ciglione carsico che va da Sistiana a Prosecco. Fu considerato un vino terapeutico e tanto caro, poi, all‟imperatrice Livia, moglie dell‟imperatore Augusto. Al contrario, provenienti da Roma, giungevano merci di tutti i generi, necessarie ai legionari che ivi risiedevano. Fu in quel periodo che, via terra, i Romani si spinsero e si insediarono, cacciando i Veneti, in queste nostre terre e precisamente dal colle di San Giusto fino al mare. Tra il 178 e il 177 avanti Cristo, tale Console Manlio Vulsone partì da Aquileia con le sue legioni per portare guerra e distruzione in Istria e punire così gli Istri per le loro azioni di pirateria e dissuaderli da future incursioni. La


spedizione punitiva si stava per trasformare in una disfatta, sta di fatto che la prima battaglia contro gli Istri fu quasi perduta. Dove si svolse la prima battaglia non è del tutto stabilito, ma sembrerebbe che le località più probabili fossero Sistiana o la piana di Bagnoli o forse anche quella di Zaule; alcuni studiosi identificano la zona nella gola CattinaraMontebello, ma ciò, strategicamente, è poco probabile. Qualche notizia su questa battaglia si può trovare in uno scritto dello storico romano Tito Livio, il quale narra che l‟esercito romano, comandato appunto da Manlio Vulsone, era formato da due legioni, una coorte di Piacentini e più di tremila Carni. Lungo la costa era affiancata da una non meglio definita flotta che trasportava i viveri, le probabili armi e macchine belliche. La flotta si ancorò, quasi sicuramente o al largo della vallata di Zaule o nel golfo di Muggia ed è perciò che il luogo più probabile dell‟accampamento fosse la piana di Zaule. Anche qui solo congetture in quanto reperti archeologici non furono mai stati ritrovati. Da quanto è stato modo di capire dagli scritti di Tito Livio, si presume che da quell‟accampamento una legione si fosse allontanata per far provvista di legna, probabilmente di acqua e fieno per i cavalli. La coorte si accampò in una zona intermedia tra la flotta ed il campo base. I Romani non potevano sapere che un numeroso esercito di Istri fosse nelle vicinanze e, probabilmente nascosto in qualche castelliere, aspettava il momento migliore per attaccare. Gi Istri, al comando di un certo re Epulo, piombarono a sorpresa sull'accampamento, devastandolo, nel momento in cui i legionari meno se l‟aspettavano. I legionari romani, colti di sorpresa, fuggirono disordinatamente per raggiungere le navi e mettersi in salvo. A sua volta le navi, vista la mala parata, salparono le ancore per allontanarsi dal pericolo. Sembrava tutto finito, ma il genio bellico romano e l‟inesperienza degli Istri volsero le sorti di quella che sembrava una battaglia persa. Infatti gli Istri non inseguirono i Romani in fuga e si diedero, al contrario, ad azioni di saccheggio dell'accampamento abbandonandosi a laute libagioni con il pregevole vino dei Romani e rimpinzandosi di cibi trovati in abbondanza. Il Console Manlio Vulsone riuscì a rincuorare i suoi soldati e riunirli alla legione, che ignara dell‟ accaduto, stava


ritornando con la legna, il fieno e l‟acqua. Chiamò in rinforzo i tremila Carni che erano accampati a cinquemila passi di distanza corrispondenti a circa sette chilometri e mezzo. Gli Istri, convinti di aver messo in fuga i Romani, dopo aver mangiato e bevuto a sazietà, si addormentarono all‟interno dell‟accampamento conquistato. L‟attacco romano fu portato tanto di sorpresa che colse gli Istri impreparati e, sembra che oltre ottomila di essi rimasero uccisi. Gli altri si dispersero fuggendo nel territorio. La stagione era avanzata e, dopo questa vittoria, il Console stabilì di rientrare per svernare ad Aquileia. Decise, comunque, di lasciare un presidio nella zona formata da una o due coorti e probabilmente i tremila Carni più abituati al rigore dell‟inverno. Potrebbe essere che questo presidio si fosse installato proprio sul colle di San Giusto facendo nascere così la Tergeste romana, o comunque su di un colle, ma vicino al mare, dove, eventualmente, le navi romane avrebbero potuto portare aiuto e, lontano dai colli carsici dove, nei castellieri, potevano annidarsi dei gruppi di Istri. L‟anno dopo, passato l‟inverno, il Console Vulsone ritornò in forze ed invase l‟Istria intera distruggendo tutti i castellieri che si opponevano alla sua avanzata fino a giungere a quell‟enorme castelliere che era la roccaforte di re Epulo. Il castelliere sorgeva a Nasezio, una località in prossimità dell‟attuale Pola. Esso fu cinto d‟assedio dai Romani, che fecero di tutto per conquistarlo deviando, persino, il corso del fiume che lo approvvigionava d‟acqua fresca. Visto che era vano resistere, gli Istri prima uccisero le loro donne e i loro bambini, poi in molti, re Epulo compreso, si tolsero la vita per non cadere prigionieri dei Romani. Finì così la potenza degli Istri, pirati, predoni e grandi guerrieri. A questo, seguì un periodo alquanto movimentato per la piccola colonia romana. Il grosso delle truppe se ne ritornò ad Aquileia, mentre nel 166 a.C. i Carni si ribellarono e così pure nel 129 a.C. i


Giapidi, abitanti della zona del Monte Nevoso. Il confine stava diventando poco tranquillo ed è per questo che, quasi sicuramente, Tergeste si trasformò in una colonia militare romana. Nel 53 a.C. i Giapidi scesero nuovamente su Tergeste e la saccheggiarono. Fu allora che Giulio Cesare inviò in questa zona le sue legioni per fermare le invasioni. Fu necessario arrivare al 34 a.C. perché Ottaviano Augusto debellasse definitivamente i Carni, i Giapidi ed altre popolazioni montane, portando la pace in questa zona di frontiera. Nel 30 a.C. Tergeste divenne territorio di Roma, che una volta finiva al Rubicone ed ora arrivava al Formione, l‟attuale Risano, ed infine al fiume Arsa. Fu così che l‟Istria intera, Tergeste insieme a Venezia ed Aquileia, formarono la decima regione di quello che era l‟ordinamento dello stato romano. Tergeste assurse a sempre maggiori onori in seno all‟ordinamento romano in quanto era sede di un municipio romano retto da due alti magistrati, ebbe due senatori ed il consiglio dei decurioni, che era un gruppo di cento cittadini scelto con voto popolare. I cittadini, obbligati al servizio militare vennero assegnati alla XV legione detta Apollinare.

Il municipio di Tergeste estendeva la sua influenza ed il suo potere ai Carni ed ai Catali. La città si espanse talmente che fu necessario abbattere le mura esistenti, tant‟è che la zona era ormai pacifica. Si pensa che, pur mantenendo la forma “a scacchiera” tipica degli insediamenti romani, la città si estendesse giù per il colle fino al mare. Delle mura romane abbattute, attualmente rimane solamente un piccolissimo accenno nelle vicinanze dell‟Arco di Riccardo. La parola “Arco di Riccardo”, nome coniato dal popolino, farebbe pensare ad un arco di trionfo, come tanti ce ne sono a Roma, invece altro non è che una porta della città lasciata lì per abbellire la zona. La prova che trattasi di una porta e non di un arco è data appunto dagli scavi eseguiti, tempo fa, dagli archeologi che trovarono sotto di essa la parte del muro di cinta rimasto. Tergeste, tanto si era espansa ed aveva assunto un ruolo importante nell‟ordinamento romano, che si sentì la necessità di approvvigionare direttamente d‟acqua la città, ed è così che fu costruita quell‟ opera grandiosa che era l‟acquedotto. Esso partiva


dalla Val Rosandra, dove ancora oggi ci sono ben visibili i resti, per giungere, attraversando la piana di Zaule, fino alla città. Dobbiamo arrivare agli inizi del primo secolo dopo Cristo per avere altre testimonianze romane in Tergeste. Bisogna pensare che, in quell‟epoca, la vita era breve ed il tempo passava monotono e che per creare cose imponenti ci volevano parecchi decenni se non proprio secoli. Il cuore e la vita dell‟insediamento romano era il colle di San Giusto dove abbiamo le maggiori testimonianze. L‟attuale Cattedrale fu eretta sopra i resti del tempio capitolino. Si stima che il tempio fosse lungo oltre venti metri e largo quasi diciotto. Due avancorpi laterali formavano i pronai sorretti rispettivamente da quattro colonne ciascuno. Ne è testimonianza più certa la nicchia scavata sotto la torre campanaria dove si possono notare i fusti anneriti delle colonne. Ad esso, che era il maggior tempio della città, si accedeva dall‟attuale via della Cattedrale che è di sicura epoca romana. Si pensa che il tempio fosse dedicato alla triade capitolina, cioè Giove, Minerva e Giunone. Bisogna arrivare agli inizi del secondo secolo dopo Cristo per vedere un‟altra imponente opera e cioè la basilica forense che fu eretta sullo spiazzo di San Giusto. Di essa rimangono parte delle colonne che formavano l‟edificio, anch‟esse ricostruite dalla Sovraintendenza, dove la parte in pietra è originale dell‟epoca, mentre i mattoni sono stati aggiunti per ridare la rotondità ed il diametro delle colonne stesse. Bisogna tener presente che a differenza del “tempio” capitolino, che era un luogo di culto, la “basilica” forense era un luogo pubblico dove veniva amministrata la giustizia e serviva a tenere riunioni, anche pubbliche. La basilica era molto grande infatti, guardando i resti, si può calcolare che essa avesse almeno una lunghezza di ottantotto metri ed una larghezza di ventiquattro. Si può notare la scala d‟accesso alla basilica e la “vasca” il cui contorno è visibilissimo a terra e


dove, probabilmente, sedevano i giudici. Sul perimetro si può notare un canale, il quale certamente raccoglieva l‟acqua piovana, che veniva scaricata dalle gronde della basilica e poi convogliata in un grande pozzo, ora non visibile perché coperto dal manto stradale. Da questa imponente opera si presume che in quell‟epoca la città di Tergeste avesse assunto un importante ruolo nell‟amministrazione romana. Infatti fu un grosso nodo di comunicazione, anche perché l‟importantissima città di Aquileia commerciava intensamente con l‟Europa centrale ed orientale. Dato che il nome di Quintus Baienus Blassianus è stato rilevato su parecchie lapidi rinvenute tra i resti della basilica, si ipotizza che lo stesso fosse o il costruttore o un cittadino benemerito o più semplicemente una persona che avesse ricoperto importanti cariche civili o militari e quindi degno di essere ricordato ai posteri. Altra testimonianza, datata tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, è il bellissimo teatro romano, probabilmente fatto erigere dal famoso ed insigne cittadino di Tergeste, che fu Quinto Petronio Modesto, e del quale teatro oggi è ben conservata la parte interna, manca infatti la facciata, che era adorna di numerosissime statue, come dimostrano i numerosi frammenti architettonici e i gruppi di statue che furono rinvenuti. Il teatro romano sarebbe stato il più bel monumento romano che avremmo potuto avere se, nel Medioevo, come è successo un po‟ dappertutto, ma specialmente a Roma, i signorotti ed i prelati di allora non avessero saccheggiato le parti migliori dei templi pagani per erigere chiese, palazzi e castelli. Più che un teatro esso era considerato un‟Arena, anche se non aveva la classica forma ellittica, in quanto venivano proposti anche spettacoli con i gladiatori. Del resto il nome del rione oggi conosciuto come “Rena Vecia” deriva appunto da Arena Vecchia o vecchio teatro che vogliasi dire. Era il periodo “aureo” della Tergeste di allora, lo dimostrano i numerosi tempietti, che furono eretti. Ad esempio quello dedicato alla dea delle messi, Cibele, i cui pochi resti sono stati rinvenuti presso l‟arco di Riccardo; quello in onore di Bona Dea ritrovato scavando le fondazioni della Riunione Adriatica di Sicurtà sul lato della via S.Caterina oppure quello dedicato al dio Beleno nei


pressi della via Bramante. Data l‟importanza che aveva assunto Tergeste, anch‟essa avrà avuto il suo Foro, situato probabilmente sempre sul colle di San Giusto, ma non avendone ritrovati i resti, nemmeno sotto la Cattedrale, si presume che potesse trovarsi, da qualche parte, sotto l‟attuale castello. Fu ritrovata solamente una grande base sulla quale era eretta una statua equestre in bronzo aureo del più insigne dei Tergestini, Fabio Severo. Probabilmente, la statua fu predata dai barbari che la credevano d‟oro o per essere fusa onde poter forgiare nuove armi. Sul basamento rinvenuto c‟è inciso il più antico documento tergestino che magnifica i meriti di questo personaggio. Egli fu dapprima un magistrato a Tergete e poi senatore a Roma durante l‟impero di Antonino Pio. In seguito si adoperò sempre per rendere grande Roma capitale e la sua città natale. I nobili, i ricchi mercanti, nonché i notabili della città fecero costruire delle splendide ville con pavimenti in mosaico, fontane e giardini a Barcola a Sistiana e Santa Croce, mentre sui colli soprastanti sorsero ville agricole e molte fattorie. I commerci nel porto fiorivano tanto che si pensa a parecchi piccoli porticcioli disseminati lungo la costa: uno lungo la riva Grumula, uno a Barcola – il cui nome latino era Vallicula che significa appunto porticciolo, e quello principale alle spalle dell‟attuale piazza dell‟Unità d‟Italia. Ciò a dimostrare appunto che il teatro romano si affacciava sul mare. La romana Tergeste doveva essere, certamente, una gran bella, ricca e fiorente città e visse a lungo un periodo felice di pace, serenità e prosperità. Purtroppo le cose belle sono destinate a finire, infatti Trieste dovette subire, ad ondate successive, invasioni di barbari di ogni genere finché nel 568 i Longobardi la rasero completamente al suolo e tutti gli abitanti, che non riuscirono a mettersi in salvo, vennero trucidati. Nel 571, i Triestini superstiti, portando con sé, gelosamente, le reliquie dei santi e le poche e povere cose che erano riusciti a salvare, faticosamente, ricostruirono le loro case cinte con nuove mura di difesa. Ma la pace era finita e per molti secoli i Triestini dovettero solamente combattere.


Nel periodo romano anche a Tergeste, come nel resto dell‟impero, sorsero le prime comunità cristiane e pertanto anche qui ci furono le persecuzioni ed i martiri. Una delle più significative testimonianze fu casualmente scoperta nel 1963 durante l‟esecuzione dei lavori in una scuola e scavando il manto stradale davanti ad essa, in via Madonna del Mare. Nel sottosuolo viene conservata l‟antica basilica della Madonna del

Mare, che non

ha niente a che vedere con la

moderna chiesa

in piazzale Rosmini. Si trova in

uno spazio

angusto, anche perché per

ripristinare la

strada soprastante si è dovuto fare

una copertura

in cemento armato poggiante su

grosse

travature portanti. Questa basilica

aveva una

pianta a forma di croce. Per quanto

è dato sapere,

potrebbe essere la prima chiesa di

Trieste. Poter

stabilire l‟epoca della prima

costruzione è

quasi impossibile. Si può notare un

mosaico ricco di

motivi ornamentali, decorativi e

ricchi di colori,

che però sovrasta uno più

modesto,

formato da tessere bianche e nere. E‟ quasi certo che, per abbellire la chiesa, fu posto sopra l‟originale pavimento uno più ricco e decorativo e che si può far risalire al quinto o sesto secolo. Si può supporre che il pavimento sottostante sia stato costruito per erigere un tempio in conseguenza della liberalizzazione del culto cristiano decretato da Costantino nel 313. Potrebbe, ma non se ne è sicuri, che la prima chiesa sia stata eretta sopra, allargandolo, un sacello cristiano, magari risalente al duecento, dove erano sepolti i martiri cristiani. Di martiri cristiani Tergeste ne ha avuti molti. Di quelli di cui si hanno notizie, i primi risalgono all‟epoca dell‟imperatore Antonino Pio, tra gli anni 140 e 150 e sono Giacinto, Marco, Galliano e Giasone seguiti, pochi anni dopo, da Lazzaro e Apollinare. Il secolo seguente, sotto l‟imperatore Valeriano, furono martirizzati Zenone e Giustina ed alla fine del secolo abbiamo i santi più famosi, che sono San Servolo, San Sergio ed infine San Giusto, giustiziato nel 303. Tanti altri, meno noti, furono sepolti in questo sacello. La vicina via Santi Martiri è la testimonianza del ritrovamento dei resti di questi santi nella basilica paleocristiana della Madonna del Mare. Chiusa questa parentesi, eravamo rimasti all‟anno 568 e all‟invasione dei Longobardi ed all‟inizio del periodo più buio e più difficile da capire per la città


di Trieste. Mancano notizie riferenti a questo periodo e non ci sono testimonianze scritte dirette anche a causa dei saccheggi e delle distruzioni che avvenivano ad ogni passata barbarica. Si sa che i Bizantini liberarono questa regione annettendola al loro impero, però successive invasioni barbariche tra le quali, per la prima volta, quella di torme di Slavi agli inizi del settimo secolo, fecero ripiombare la regione in uno stato di prostrazione. I Bizantini, nel frattempo, avevano fondato l‟esarcato di Ravenna, che avrebbe avuto la giurisdizione sulla regione veneta e sull‟Istria, che divennero “province militari” create sulla falsariga delle “province di frontiera” dei Romani. Ogni uomo di Trieste e del territorio doveva essere pronto a difendere e vigilare le frontiere orientali, lungo le Alpi Giulie, dai Germani e dagli Slavi e lungo l‟Isonzo dai Longobardi, che avevano Cividale come capitale. Con questo consolidamento, per centocinquanta anni, Trieste non subì invasioni di sorta e poté, grazie al porto, sviluppare traffici con l‟oriente smerciando il sale, prodotto nelle numerose saline, e i suoi pregiati vini. Nel 752 i Longobardi, oramai civilizzati, rovesciarono l‟esarcato bizantino di Ravenna, impadronendosi pure dell‟Istria. Ai Bizantini rimase solamente la costa veneta con l‟isola di Grado. Nel frattempo i Carolingi stavano sviluppando il Regno d‟Italia e, liberando il Veneto dai Longobardi, lo annessero al regno della Chiesa. Fu il periodo delle guerre religiose tra Sacro Romano Impero e quello orientale dei Bizantini e con alterne vicende i territori passarono da un blocco all‟altro finché non nacque quella grande potenza, che fu Venezia e che dominò per quasi mille anni. Trieste, al di fuori di queste vicende, rimase un feudo carolingio di stampo tedesco, agli ordini del duca Giovanni, che impose nuove tasse, servizi obbligatori, la leva militare ed infine chiamò in Istria gruppi di Slavi ai quali donò terre e pascoli appartenenti agli Istriani. Quest‟ultimo episodio ricorda fatti, a noi, più recenti e tristemente noti. Nell‟ottocentoquattro gli Istriani si appellarono all‟imperatore Carlo Magno, che nella piana del Risano convocò un‟assemblea cui parteciparono tutti i comuni istriani e così pure Trieste, nella quale fu deciso che il duca Giovanni ridesse i privilegi tolti ai comuni. Ecco che, pur facendo parte del regno dei Carolingi, i comuni e così pure Trieste, si amministrarono da soli. La flotta del Ducato di


Venezia, in Adriatico, arginò le scorrerie di Saraceni e Slavi delineando così la sua potenza sul mare riconosciuta anche dai comuni istriani che vissero una sorta di vassallaggio relativamente ai traffici marittimi. Le cose si stavano mettendo male, perché il Regno d‟Italia non aveva più né la capacità né la forza di difendere i confini. Trieste e le città istriane furono praticamente abbandonate e dovettero difendersi da sole quando, tra la fine dell‟800 e gli inizi del 900, ci furono le invasioni di Ungari e Slavi. Con l‟aiuto dei vescovi, che nel frattempo avevano ottenuto maggiori poteri, resistettero a quella bufera. Trieste non fu mai vassalla a nessuno, però dovette versare i tributi e le tasse non più al re, ma al Vescovo Giovanni e ai suoi successori, in quanto lo stesso re aveva ceduto tutti i suoi diritti sulla città. Un balzello annuo doveva infine essere versato pure a Venezia per riconoscere la sua supremazia sul mare. In realtà Trieste, pur essendo un libero comune e governandosi con i suoi magistrati, doveva pagare tasse a Venezia ed al Vescovo riconoscendo così l‟autorità del Sacro Romano Impero. Siamo arrivati appena intorno all‟anno mille e già quante cose sono successe in questa nostra terra. Ho dovuto rintracciare notizie su vari libri, testi, volumi e manuali, talvolta discordanti tra loro per le personali interpretazione date dagli autori. Anch‟io, evidentemente, ho dovuto scegliere, ragionare e dare quella interpretazioni che ho ritenuto più possibile aderente alla realtà. Adesso passiamo al millennio seguente, altri libri, altre notizie da vagliare, altre fatiche. Non avrei mai pensato che queste “fatiche” potessero essere così piacevoli, perché scopro notizie e nozioni che, per uno storico possono sembrare ovvie, ma per me sono cose nuove e inaspettate....e pensare che a scuola la “storia” la digerivo male. Praticamente passiamo al “medioevo” che letteralmente significa l‟età di mezzo, tra quella antica e quella moderna. Il termine “medioevo” fu usato per la prima volta dal tedesco


Cristoforo Keller nella sua “Historia medii aevi” dai tempi di Costantino alla caduta di Costantinopoli del 1453. Convenzionalmente però, la fine del medioevo e l‟inizio dell‟era moderna si fa coincidere con la scoperta dell‟America, nel 1492. La valutazione, comunque, di questo periodo è del tutto simbolico in quanto è stato variamente modificato dagli studiosi, secondo che, da un lato la decadenza, dall‟altro il rinnovamento, siano stati valutati da un punto di vista artistico, culturale, religioso, politico, economico, sociale, ecc. Ma ritorniamo alla nostra Trieste e riprendiamo lo studio da dove l‟avevamo lasciato. Come punto fisso prendiamo il 948, anno in cui il debole re Lotario, erede ormai di un regno d‟Italia sempre più allo sfacelo e in balia dei feudatari, consegnò la città di Trieste ed il suo territorio, che si estendeva per un raggio di tre miglia oltre le mura, al vescovo Giovanni concedendo la completa immunità a lui ed ai suoi successori. La parola immunità, all‟epoca, e nel particolare periodo storico-politico in cui fu concessa, aveva un significato particolare e cioè che tutte la cariche pubbliche e l‟amministrazione della città passavano, in pratica, dalle mani dei funzionari governativi a quelle del vescovo. Trieste, pertanto, divenne una città autonoma, non più legata al resto del territorio formato dall‟ Istria da una parte e dal Friuli dall‟altra, e governata dal suo vescovo. La città, all‟epoca, non era densamente popolate, il Caprin, nelle sue ricerche stima che Trieste avesse forse seimila abitanti ma, probabilmente, anche meno. Fu un periodo “buio” per tutta la regione. Il Friuli, a causa delle invasione dei Magiari, non aveva quasi più abitanti, sembrava di essere ritornati alla preistoria, la gente viveva in tuguri fatti di paglia impastata col fango, si vestivano con le pelli e si nutrivano con quel poco che riuscivano a cacciare o coltivare in miseri e piccoli orti. Anche a Trieste la situazione non era certamente migliore. A questo punto ho dovuto alzare gli occhi dai libri, dagli elaborati, dallo schermo del mio computer e fare una riflessione e farmi una domanda: - Ma gli sfarzi che Roma aveva portato in questi lidi dov‟ erano andati a finire? Cenere, polvere, oblio, letargo, oscurità, periodo “buio” infatti. Invece di progredire la vita, la civiltà, gli usi, i costumi regredivano in modo tale, come detto, che sembrava di riessere alla preistoria. C‟era tutto un fermento di eventi, il Regno Italico passò in mano ai re germanici, infatti Ottone I° aggregò parte dell‟Italia settentrionale al ducato di


Carinzia. Ma anche questa situazione era destinata a durare poco tempo in quanto, essendo in piena epoca feudale, il re abbandonò i territori nelle mani di conti, marchesi e nobili in genere che erano e diventavano suoi feudatari, che reggevano ed amministravano città, castelli ed interi territori restando del tutto autonomi e dovendo al re solamente portare aiuto e armati nelle guerre tra regnanti. E‟ per questo che a Trieste, dopo il mille, cominciammo ad avere vescovi con nomi teutonici, mentre in Istria e nel Friuli avemmo i nobili di origine germanica. Ne è esempio che ad Aquileia il patriarca Popone ricostituì la sua diocesi ricostruendo pure la grande basilica poi consacrata nel 1301. E‟ così che Aquileia divenne sempre più grande fino a diventare una vera e propria potenza sia economica che militare. I vescovi di allora avevano ben altro ruolo di quelli dei giorni nostri, erano difatti dei veri e propri guerrieri e, tra l‟altro, fedeli vassalli del re. Non solo non erano degli ecclesiastici e non dicevano messa, ma il più delle volte erano anche analfabeti. Questi vescovi venivano nominati dal re e non più, come un tempo, dal popolo e dal clero ed erano vestiti di armature in ferro anziché di paramenti sacri. Questo andamento di cose non lasciò insensibili i papi, che cominciarono a seccarsi di questo caos imperante e dichiararono, per intanto, decaduti tutti i vescovi di nomina reale o che avevano, magari con l‟oro, comperato la loro nomina e che erano più dediti a riscuotere tasse e gabelle dai loro vassalli che curare le anime dei fedeli. Cosa successe nel resto d‟Italia non ci è dato di sapere, però sappiamo che, per quanto riguarda Trieste, nel 1082 l‟imperatore Enrico IV°, vista la situazione della città, spogliata e impoverita dalla politica vescovile, la consegnò al patriarca di Aquileia in modo che avesse un protettore più sicuro. Anche questa situazione era destinata ad essere transitoria, infatti nei primi anni dopo il 1100, la città fu di nuovo in mano ai vescovi estendendo il loro territorio ed esigendo decime e tasse anche da Umago, Capodistria ed altre cittadine istriane. Essendo il territorio


notevolmente allargato ed ingrandito ci volle un gran numero di “servi fedeli” che svolgessero i lavori amministrativi ed erariali per conto del vescovo. Ecco che, in embrione, cominciò a formarsi una sorta di ceto medio, di borghesia che in seno ai vari agglomerati urbani cominciavano ad avere una certa importanza e considerazione da parte del popolino. La classe contadina, con l‟espandersi dell‟agricoltura, cominciò ad avere il suo peso nella società d‟allora ed appaiono anche le prime forme di attività artigianali autonome. La difesa delle coste dai pirati del mare era a carico del potere vescovile, che per far fronte a queste spese, “inventò” e cominciò ad avvalersi delle dogane. Iniziamo così il dodicesimo secolo, ricco di fermenti, e stiamo avviandoci a grandi passi al periodo comunale. Dopo centocinquant‟anni che la città fu in mano dei vescovi, cominciò lentamente a liberarsi e togliersi di dosso questo giogo, questo dominio che ormai le stava stretto. Capodistria nel 1177 ebbe il suo vescovado, i vassalli più lontani erano passati ad altri signori, pertanto il vescovo di Trieste si ritrovò con un territorio ristretto e soffocato da alcune grandi potenze, quali il patriarcato di Aquileia, la contea di Gorizia, ma soprattutto da Venezia. Venezia infatti si stava sviluppando nell‟Adriatico estendendo il suo dominio o perlomeno la sua influenza su tutta la costa istriana e dalmata. Tutte le cittadine costiere di Istria e Dalmazia dovettero sostenere una sorta di vassallaggio, in quanto la flotta veneta teneva sgombri i mari dai pirati. Trieste non fu dammeno versando tributi a Venezia in orne* di vino. Nel 1202, la flotta veneziana, al comando del doge Enrico Dandolo, e con al seguito migliaia di soldati a cavallo francesi, prima di recarsi in Oriente per la crociata promossa da papa Innocente III°, veleggiò sulle nostre coste per rintuzzare eventuali velleità di protesta. Anche Trieste accolse con grandi fasti il doge con il suo seguito.


*orna= recipiente a forma di cono nel quale le donne facevano il bucato e aveva una capacità variante dai settanta ai cento litri. In quell‟occasione trecentrentasei Triestini firmarono un patto in cui si sarebbero rispettati i beni dei Veneziani, che nel territorio triestino essi non avrebbero mai pagato tasse di alcun genere e che avrebbero aiutato i Veneziani a combattere la pirateria sul mare ed infine avrebbe “offerto” a Venezia un tributo annuo di cinquanta orne di vino. La cosa importante di questo accordo fu che esso fu firmato dai Triestini e non dal vescovo, che era il signore della città, il che fa supporre che essi godessero di una certa libertà amministrativa anche se il primo in testa dei firmatari era il gastaldo, sorta di capo amministrativo nominato dal vescovo e comunque rappresentante del re. Pochi anni dopo appare, per la prima volta, nominato il podestà. Il vescovado, oberato di debiti , andò sempre più in miseria, mentre i cittadini ed il comune videro aumentare considerevolmente le proprie ricchezze perché il porto di Trieste era punto di partenza e di arrivo per i pellegrini, che si recavano in Terra Santa facendovi accorrere numerosi mercanti. Nel 1253 per sanare, almeno in parte, i propri debiti concesse molti privilegi, ad esso riservati, al Comune e contemporaneamente nel 1283 non riconobbe più la sua appartenenza all‟Impero, ma divenne vassallo diretto del patriarca di Aquileia. Trieste fu quindi praticamente alle dirette dipendenze di Aquilieia. La città era formata da cittadini che emergevano dall‟età feudale, con una coscienza nuova, desiderosi di riscattarsi e governarsi da soli, ma, come oggi del resto, la città aveva un retroterra ostile ed il mare, suo sfogo naturale, impedito da Venezia, che nei commerci non ammetteva concorrenza alcuna. Sostenendo perciò la causa di Aquileia che vantava diritti pure sulle cittadine istriane, assieme al potente conte di Gorizia, Trieste si trovò coinvolta nel primo grosso conflitto con Venezia.


Correva l‟anno 1289 e un grosso esercito veneziano venne qui, deciso a distruggere o almeno a punire in modo esemplare Trieste. I Veneziani costruirono una cittadella fortificata sul pendio dell‟attuale colle di Romagna e che arrivava, per intenderci, fino all‟attuale tribunale. Il patriarca di Aquileia ed il conte di Gorizia guidarono un poderoso esercito per soccorrere Trieste. I Veneziani, dopo alcune piccole scaramucce, diedero una somma di danaro al conte di Gorizia perché se ne ritornasse a casa. Il patriarca di Aquileia, visto l‟esercito dimezzato, se ne ritornò anche lui nei suoi territori. I Triestini, da soli, resistettero tenacemente alla superiorità di Venezia, tanto da indurre il patriarca a ricostituire l‟esercito, tornare indietro e mettere in fuga le truppe veneziane dalla cittadella di Romagna che i Triestini poi distrussero. Nel 1291 fu firmata la pace tra Venezia e il patriarca di Aquileia e fu così che Trieste dovette abbattere le mura sul lato mare consegnando le navi a Venezia. Sembrerebbe che il secolo finisse male per la città invece, al contrario, esso si chiuse in modo più che positivo. Nel 1295, pagando un grosso debito del vescovo, Trieste acquistò tutti i diritti civili che esso aveva, facendo terminare il potere che i vescovi avevano esercitato per quattrocento anni. La città era finalmente padrona di se stessa terminando, con ciò, il periodo feudale ed iniziando quello comunale che vide la città padrona del proprio destino. Quanti intrighi, quanti grovigli, quante macchinazioni, quante complicanze, tutto vortica nella mia testa, devo fermarmi un po‟ per cercare di mettere a fuoco la situazione. Non è facile! Contemporaneamente vedo Istri, Romani, barbari invasori, vescovi, Veneziani, Longobardi, tutto in una ridda di lampi contrapposti che mi fanno vacillare, vedo mura, castellieri, fortificazioni, battaglie, distruzioni, saccheggi,


anche un po‟ di pace per fortuna. Credo che sia ora di smettere per un poco, rileggere tutto, riordinare le idee, metterle in sequenza e capire. Io che all‟inizio pensavo fosse una cosa da poco, dissi: - Cosa vuoi, Trieste è piccola non ci sarà tanto da scoprire nella sua storia! Invece mi sono ritrovato in una cosa più grande di me e delle mia capacità. Ma io sono testardo e non desisto, per niente non ho un cognome tedesco, adesso mi concedo un attimo di respiro, una pausa di riflessione e poi via di nuovo alla ricerca di notizie che mi facciano continuare in questa mia analisi, anche se non è facile capire la storia né tantomeno leggerla, perché ognuno interpreta un fatto storico, un episodio, come meglio crede, come a lui conviene capire e credere e, certamente, io non posso fare eccezione. Siamo giunti al Trecento e vediamo un quadro generale per farci un‟idea della situazione.

L‟Europa trecentesca fu colpita da gravi calamità naturali, carestie ed epidemie ricorrenti vi portarono la fame e ne decimarono la popolazione. Il secolo XIV° fu anche quello della guerra dei cent‟anni, dell‟avanzata dei Turchi Ottomani in Asia e in Europa (1354), del papato avignonese, dello scisma d‟Occidente. Gli ideali universalistici naufragarono col venir meno della forza delle istituzioni, papato e Impero, che li sostenevano e di cui Dante fu l‟ultimo assertore, testimone della misera fine di Enrico VII° di Lussemburgo (1313). Ma alla caduta di quegli ideali, alla luce dei quali s‟era svolta tutta la vita civile del medioevo, corrispondeva l‟affermazione nella realtà e nel pensiero dell‟idea di Stato nazionale, maturata nelle grandi monarchie occidentali di Francia, d‟ Inghilterra, di Castiglia, d‟Aragona nel corso di conflitti secolari, mentre nell‟area imperiale si consolidava la pluralità degli Stati regionali o cittadini di Germania e d‟Italia (formata da signorie e città-stato del nord e del centro, repubbliche marinare, domini della Chiesa, regno angioino di Napoli) e, a Oriente, i regni di Boemia e d‟Ungheria andavano acquistando posizioni rilevanti. L‟impero bizantino sommerso dalle colonie veneziane, genovesi,


catalane e ridotto a proporzioni sempre più esigue dai Turchi, ormai insediati nei Balcani, andava perdendo ogni ruolo politico. Da questa visione europea della situazione, restringiamo il punto focale per tornare alla situazione di casa nostra. Ricercando nelle biblioteche notizie e nozioni inerenti il trecento triestino si possono trovare moltissimi libri e pertanto moltissime idee, il più delle volte in contrasto tra di loro. La vera verità non la sapremo mai! Anche qui, soggettivamente, bisogna interpretare e analizzare e dare una propria risultanza. Prendiamo in considerazione un episodio nostrano, tra tanti, noto come la congiura dei Ranfi. La prima domanda spontanea che ci si pone è: - Chi erano i Ranfi? Anche qui proviamo ad inquadrare storicamente la situazione. In questo periodo, nel trecento, si svilupparono molte signorie che non erano altro che città o territori guidati da un‟unica famiglia. In molti casi si trattava di veri e propri feudatari, che non dipendevano più da nessuno. Successe pure che molte famiglie nobili e molto ricche, che possedevano piccoli castelli e magari molte terre coltivate, con il danaro conquistarono il potere. In giro c‟erano molte e maggiori ricchezze, si svilupparono molte attività ed arti. I signori, infatti, vollero costruirsi case lussuose, palazzi e chiese, e quindi potenziarono e protessero le arti e gli artisti. Trieste cominciò a svilupparsi anche grazie a soldi provenienti dalla Toscana, perché in quell‟epoca i grandi usurai, cioè quelli che prestavano soldi o, come si diceva allora, tenevano banco (termine dal quale è derivato l‟attuale “banca” e “banchiere”) erano tutti toscani e principalmente fiorentini. Con la loro politica di astuti commercianti, sicuramente, contribuirono ad arricchire il Comune. Chiarito un po‟ quello che era il periodo, la vita, la situazione di e a Trieste, ritorniamo appunto ai Ranfi. Si trattava di una famiglia di nobili, con molta probabilità di origine tedesca, vassalli del vescovo. Il nome di Marco Ranfo risulta spesso citato e scritto in documenti diplomatici, si desume da ciò che doveva trattarsi, senza dubbio, di un


personaggio altamente importante nella vita politica della città. Si sa che possedeva una casa in Cavana eretta, si presume, su di un fondo che oggi si configura con il sito di via del Cavazzeni 1 e, molto probabilmente, era sua anche la torre Tigor, oltre a terre e vigne varie. Sembrerebbe che la famiglia fosse formata dal padre e da cinque figli, due maschi e tre femmine. Ci sono vari documenti, tra il 1318 e il 1350, che riportano testi, frasi, nozioni sulla famiglia dei Ranfi. C‟era il divieto assoluto di costruirsi la casa su terreni di quella famiglia e, anzi, chiunque incontrasse un Ranfo poteva ucciderlo, anzi ne avrebbe ricevuto anche un premio. Nessuno poteva sposare una donna dei Ranfi e uno che avesse ucciso un Ranfo non poteva e non doveva essere ingiuriato. Queste sono le notizie certe, ma il perché di tanto accanimento contro la famiglia non è dato di sapere; nessun scritto in merito è stato mai rinvenuto. Supposizioni, illazioni, pensieri ce ne sono tanti, dati dal fatto che potrebbero aver creato dei torbidi in città o forse, cosa più grave, aver minato la sicurezza del Comune. Potrebbero addirittura aver tentato di impadronirsene per farne una propria signoria oppure, non ultimo, potrebbero essersi macchiati di un tradimento filoveneziano. Indipendentemente da fatti leggendari, romanzati, storicizzati, frutto di realtà accaduta o fantasie del popolo sta di fatto che nel 1313 il potere della città fu saldamente in mano al Comune e che tra il 1315 e 1318 emanò i primi “statuti” che furono la prima codificazione delle leggi riguardanti la città. Venne così creato il famoso “sigillo trecentesco” della città tuttora riconosciuto. Si tratta di una torre con ai lati due

alabarde e la scritta: “Sistilanu publica

Castilir mare certos dat michi fines” con sotto il nome Tergestum. Il significato della frase che circonda il nostro sigillo è: “Sistiana, la via pubblica, Castellier e


il mare mi danno confini certi – Tergeste”. Così era praticamente descritto il territorio del Comune di Trieste che andava, appunto, da Sistiana lungo i monti della Vena fino alla Val Rosandra e si chiudeva al mare. Un territorio piccolissimo, come oggi del resto, ma che a Trieste quella volta, bastava, circondata com‟era da grandi potenze. Tutto il trecento, per la nostra città, è un continuo barcamenarsi tra le potenze di terraferma e Venezia che aveva a se tutte le cittadine istriane della costa che facevano concorrenza a Trieste nei commerci via mare. Unico cuscinetto, ad est, era la cittadina di Muggia che rimase ancora nelle mani del patriarca di Aquileia divenendo così la più terribile avversaria di Trieste al punto che erano impossibili, se non proprio proibiti, i matrimoni tra Triestine e Muggesane e viceversa. Si arriva al 1553 quando i Triestini andarono a devastare il territorio di Muggia ma, vennero richiamati all‟ordine da Venezia che ancora aveva ingerenza nelle nostre faccende, tant‟è che il più dei podestà di Trieste erano veneziani. Il podestà veniva eletto dal popolo ed essendo quasi sempre lui veneziano e non friulano o triestino, significava che il partito che prevaleva in città era un partito che sosteneva ed era sostenuto da Venezia. L‟Austria cominciava ad espandersi a danno del Patriarcato di Aquileia, prendendone alcune terre ed insidiando i signorotti ad essa fedeli. Un caso a noi vicino è quello del conte di Duino. Quello che Venezia non ammetteva assolutamente era la concorrenza sul mare avendo il monopolio dei traffici marittimi. Avvenne però che nel 1368 un vascello veneziano, adibito al pattugliamento del nostro golfo, intercettasse una barca piena di sale il cui proprietario era un certo Panfili. All‟ intimazione dell‟alt da parte veneziana, il Panfili girò la prua della sua barca puntando decisamente sul porto di Trieste. I Veneziani, anch‟essi, entrarono nel porto e pretesero di poter confiscare la barca contrabbandiera ed arrestare il suo comandante. Successe, invece, che i Veneziani ricevessero un sacco di botte e sembrerebbe che il comandante venisse addirittura ucciso. Per la paura di una ritorsione da parte veneziana, Trieste mandò immediatamente a Venezia una delegazione per chiedere scusa. Venezia ne approfittò per imporre ai Triestini di esporre il gonfalone di Venezia per Pasqua e per Natale, cosa che non avevano mai fatto prima, ma che questa volta, per il quieto vivere, accettarono. Ma si vede che tutto ciò non fu ritenuto sufficiente, tant‟è vero che i Veneziani prepararono un grosso esercito per fare la guerra a Trieste. La


flotta veneziana, con l‟ esercito comandato da Domenico Michiel, cominciò l‟assedio di Trieste. Tutto ciò accadde alla fine del 1368. La città era ben munita e i Triestini si difesero strenuamente tanto che le truppe veneziane si trovarono in notevole disagio. L‟assedio però si fece sempre più duro e i Triestini dovettero chiedere aiuti che furono rifiutati, dapprima dal patriarca di Aquileia e poi dal conte di Gorizia. I Triestini provarono allora a chiedere sostegno a Francesco di Carrara ed anche al Visconti, signore di Milano, ma ottennero uguale rifiuto, anche perché nessun principe italiano voleva aver beghe, liti e contrasti con la potente Venezia. Quando ormai le armate di Venezia cominciarono ad aprire le prime brecce nella resistenza della città, i Triestini si offrirono in sudditanza al duca Leopoldo d‟Austria, che accettò subito essendo egli già in possesso di gran parte del territorio alle spalle di Trieste, ma gli mancava lo sbocco al mare. Il duca Leopoldo delegò il conte di Duino a rappresentarlo per la firma dell‟atto di dedizione da parte dei Triestini, dove riconoscevano di essere stati, fin dal passato, in signoria ai duchi d‟Austria. Ottenuta la firma dell‟atto di dedizione, il duca Leopoldo, inviò un potente esercito in soccorso di una città oramai stremata, dopo un anno di stretto assedio, attaccando il potente campo veneziano. In un primo momento, anche perché i Veneziani furono colti di sorpresa, sembrò che gli Austriaci dovessero facilmente prevalere, ma con abile mossa i due comandanti veneziani accerchiarono gli Austriaci facendoli fuggire a precipizio. Per i Triestini, caduta ogni speranza, non restò altro che arrendersi. Tutti temettero una vendetta spietata di Venezia, ma così non fu. Venezia pretese solamente l‟esilio di quelli che erano stati gli avversi e, rispettando la città, chiesero un atto di dedizione al Doge. Per cautelarsi da ogni evenienza esterna, Venezia fece costruire a difesa un castello sul colle di San Giusto, che loro chiamarono Caboro, e il “castello a marina” dove oggi c‟è il palazzo della Regione, già palazzo del Lloyd. Trieste fu, era ed è sempre stata una città tormentata, infatti neanche i Veneziani durarono a lungo. Nel 1378 iniziò quella che fu chiamata la “guerra di Chioggia” che vide da una parte Venezia e dall‟ altra Genova, il potente re d‟Ungheria, il patriarca di Grado, il signore di Padova e il duca d‟ Austria. A quel punto, con tante gatte da pelare, i Veneziani non seppero dove correre per difendersi. Genova riuscì ad espugnare Chioggia, mentre gli alleati occuparono tutte le


città istriane che erano suddite di Venezia. Dobbiamo arrivare al 1380 perché il patriarca di Aquileia, con un grosso esercito, venisse, diceva lui, a liberarla dai Veneziani saccheggiandola, assieme ai Genovesi. Fu così che Trieste dovette firmare l‟ennesimo atto di dedizione, questa volta al patriarca aquileiese consegnandogli, simbolicamente, le chiavi della città. Anche questa appartenenza fu di breve durata. Il 9 agosto del 1382, Trieste, con l‟aiuto del conte di Duino che si impossessò della città con la violenza, finì nelle mani del duca d‟Austria e dovette sottoscrivere quell‟atto che poi fu detto di “dedizione all‟Austria”. Le turbolenze cittadine che ne seguirono, fanno capire quanti contrasti ci fossero in città contro quell‟atto che, però, fece in modo che i Triestini salvassero tutti i loro liberi statuti e rimanessero liberi di agire nei riguardi dei potenti vicini. Se fosse stato meglio rimanere fedeli a Venezia piuttosto che all‟Austria, nessuno può azzardare una risposta, sta di fatto che, ragionando, allora Venezia non aveva alcun interesse di avere una potenziale concorrente portuale, mentre l‟Austria necessitava di uno sbocco al mare. Trieste, bisogna dire il vero, non è mai stata austriaca perché, anche se era “dedita” all‟Austria, serbò sempre la sua indipendenza interna sia di fronte ai duchi prima, arciduchi poi e imperatori d‟ Austria che la ressero fino al 1918. Trieste mantenne sempre la sua libertà che le permise di conservare e sviluppare la sua cultura italiana, anche nei secoli seguenti. Con questo atto di dedizione all‟Austria finì il


trecento triestino e sancì pure la fine del Libero Comune che era stato il sogno di moltissimi triestini. A questo punto della storia si può fare una considerazione che ritengo profonda: - Trieste e i Triestini hanno sempre avuto troppi nemici, troppi avversari, troppi interessi, troppi tornaconti, troppe invidie, troppi rancori che si sono riversati contro questa splendida e viva città. Stiamo parlando della fine del 1300, oggi siamo nel 2001, siamo addirittura in un altro millennio, ma pensandoci bene anche se senza guerre, distruzioni e saccheggi, le lotte per il potere, sia politico che economico, continuano, forse più subdole, più in silenzio, chi non sta attento, forse, non se n‟ accorge nemmeno, ma per la città fanno altrettanto male. In economia, il porto e il suo punto franco contesi da Fiume, Capodistria, Monfalcone, Porto Nogaro, Venezia; in politica, pur essendo Trieste il capoluogo regionale, il Friuli, e Udine in particolare, vuole togliere, se possibile, molte istituzioni politico-amministrative proprie del capoluogo in modo che esso diventi Udine. Fatto con metodi moderni, che differenza c‟è tra questo stato di cose e quello che c‟era dalle origini di Trieste fino alla fine del trecento?? Non voglio andare oltre, anche perché, credo, che tutto questo sarà materia di chiusura di questa ricerca, che mi sta appassionando sempre più man mano che procedo, infatti ci vogliono ancora 700 anni per arrivare ai giorni nostri. Forza e coraggio! Gli Austriaci imposero alla città solamente la nomina del capitano, che era preposto all‟osservanza delle leggi e il controllo dei tributi finanziari. Egli dovette semplicemente tutelare gli interessi della cittadinanza e far rispettare gli Statuti, che rimasero sempre in vigore. Praticamente i Triestini


continuarono a governarsi da sé, anche nelle relazioni con i vicini. Il duca d‟Austria pretese per sé solo la metà delle tasse, ma alcuni anni dopo cedette alla città anche questo privilegio, per cui potremmo dire che Trieste continuò, praticamente, ad essere un comune libero, sempre con un territorio limitato, ma in pace. Nel vicino Friuli, invece, ogni castello era in guerra con il vicino finché Venezia, stanca, non conquistò tutto il territorio annettendolo a sé. Del quattrocento ci sono tanti documenti conservati, che lo storico Jacopo Cavalli poté scrivere un libro sulla vita triestina del 1400. Sappiamo così che i commerci cominciarono a riprendere fiorenti, specialmente con l‟entroterra e pure l‟artigianato, per molto tempo da pochi esercitato, riprese vigore e si sviluppò notevolmente. Il maggior benessere della città fu dato dalla vendita del sale ricavato dalle numerose saline disseminate lungo la costa; dall‟olio dei suoi pregiati e numerosi oliveti situati nella valle delle Noghere e nella zona di San Dorligo e dal buon vino delle sue colline prodotto, come all‟epoca dei Romani, nella zona che va da Sistiana a Barcola. Sul Carso, al contrario, si sviluppò e fiorì la pastorizia. Sul Carso, oltre ai già noti villaggi di epoca romana, distrutti dai barbari e poi ricostruiti, quali Santa Croce, Sistiana, Aurisina e Slivia, si aggiunsero dei nuovi, come Opicina, Trebiciano, Contovello e Basovizza. Sempre dagli scritti si può rilevare che i Triestini già nel „400, nei giorni festivi, usavano andare a Opicina in una storica trattoria dove si mangiava molto bene e veniva servito un ottimo vino del Carso. Gli allevatori di Basovizza e di Trebiciano affidavano ai “mandrieri”, pastori di origine slava e croata, le loro mandrie per essere portate al pascolo estivo fino al Monte Re. Sempre su questi scritti si può leggere che Trieste era punto di raccolta e di partenza di pellegrini, che si imbarcavano su navi che li portavano


nelle Marche e precisamente al santuario di Loreto per proseguire poi per Roma. A Trieste si eressero molti ospizi atti ad ospitare questi pellegrini che, spesso, erano poveri e bisognosi d‟aiuto. Ci furono, in quel periodo, gravi epidemie di peste che provocarono la morte di molti abitanti. Il Comune, per alzare il livello e il tenore di vita da tanta miseria, favorì la venuta di commercianti ed artigiani italiani, per lo più veneti e friulani. In seguito a questa liberalizzazione all‟immigrazione, giunsero anche i primi Ebrei ai quali si ricorreva per prestiti in danaro. Contrariamente a quello che sarebbe adito a pensare, gli Ebrei furono molto meno esosi negli interessi di quello che, nel secolo precedente, furono i Toscani. Fu così che i Triestini li ben tollerarono, anche perché disponevano di molta moneta liquida cosa che, in quei tempi, non era facile trovare. Nacque così la prima comunità ebrea in Trieste. L‟economia non fu proprio florida al principio del quattrocento, però fu l‟inizio di una certa agiatezza. Infatti nei primi decenni di questo secolo si costruì la loggia comunale dove i componenti delle tredici casate si radunavano per decidere i provvedimenti da assumere per il buon andamento della città. Le tredici casate erano: Leo, Pellegrini, Bonomo, Belli, Burlo, Giuliani, Baseggio, Argento, Cigotti, Toffani, Stella, Padovino e Petazzi. Sembra quasi di leggere lo stradario di Trieste. Per quanto le tredici famiglie maggiorenti si dessero da fare, l‟economia stentava a decollare anche perché i Carniolici, che allora erano gli abitanti dell‟attuale Slovenia, per i loro traffici e commerci, preferirono appoggiarsi alle cittadine istriane piuttosto che a Trieste. Fu allora che i Triestini decisero di acquistare un castello, quello di Castelnuovo (oggi Podgrad) sulla strada di Fiume, da dove, assieme agli altri due castelli di Moccò e di San Servolo, poterono bloccare la strada ai Carniolici, che venivano con lunghe file di asini, deviandoli ed obbligandoli ad andare a Trieste.


Nella città di Trieste, un po‟ scherzosamente e un po‟ anche per dileggio, i Carniolici furono chiamati “cici”. Capodistria e Muggia protestarono per questa situazione, ma Venezia, aveva altre gatte da pelare. Era in corso una guerra tra il re d„Ungheria e il re d‟Austria ed essendo, in un certo qual modo, Venezia alleata dell‟Austria, non ebbe tempo per pensare alle piccole beghe delle città istriane con Trieste. Scoppiarono allora, tra i signorotti della regione, che parteggiavano alcuni per l‟Austria ed altri per l‟Ungheria, delle piccole guerricciole alle quali partecipò pure la nostra città. Per porre fine a questa situazione che si era venuta a creare, nel 1443 l‟imperatore d‟Austria Federico III° inviò a Trieste uno dei suoi più capaci uomini, cioè il toscano Enea Silvio Piccolomini. Essendo anche periodo di grandi scismi, all‟imperatore d‟Austria venne conferita l‟autorità di nominare alcuni vescovi. Fu allora che nel 1447 venne nominato vescovo di Trieste Enea Silvio Piccolomini, persona che si rivelò illuminata. Ma proprio per questa sua


peculiarità, era destinato a rimanere per poco tempo a Trieste, tant‟è che nel 1450 divenne vescovo di Siena e pochi anni dopo ancora divenne Papa con il nome di Pio II°. Gli ingegni, in quell‟epoca, erano rari pertanto quei pochi che ci furono, riuscirono ad emergere anche grazie all‟appoggio dei potenti e degli imperatori. Dove non arrivava l‟ingegno, arrivava la potenza del denaro. Federico III° fu un imperatore particolarmente povero, anche perché dovette indebitarsi per sostenere tutte le guerre con il re d‟Ungheria. Decise allora, per procurarsi denaro fresco, di “affittare” al comune di Trieste l‟esercizio del capitano e delle altre cariche governative. In parole povere il Comune di Trieste tornò ad essere completamente padrone di se stesso perché, pagando, veniva a mancare anche il Capitano, che era l‟unico rappresentante imperiale. Tutto farebbe pensare che, finalmente, fosse arrivata un po‟ di pace. Macché! Venezia, tra una pausa e l‟altra delle sue guerre, pensò bene di sistemare la “questione triestina” chiedendo la liberazione delle strade del Carso in modo che tutti quelli, che avessero voluto andare a commerciare, potessero passare. Chiesero pertanto la cessione del castello di Castelnuovo. Venezia, allora, deteneva il monopolio del sale, che per i tempi era fonte di grande ricchezza, e non voleva concorrenza da parte di Trieste che pure possedeva le sue saline e aveva il suo commercio del sale. Fu così che nel 1463, per la terza volta, assediarono Trieste costruendo dei bastioni per metterci le loro bocche da fuoco. I Triestini lavorarono come dei matti. Di notte ripristinavano le brecce che le bombarde veneziane, durante il giorno, avevano aperto, opponendo una resistenza che fece meravigliare gli stessi Veneziani. La strapotenza di Venezia era indiscussa e nessuno, tantomeno Trieste, avrebbe potuto sconfiggere. Fu Papa Pio II°, che non dimenticò mai i Triestini, a intercedere e con i suoi uffici, firmò la pace. Trieste dovette, purtroppo, cedere i suoi tre castelli di Castelnuovo, Moccò e San Servolo, dovette impegnarsi a non portare per mare il suo sale ne tantomeno


cederlo ai mercanti veneziani però, in cambio, fu salvata dal saccheggio e dalla distruzione. Seguì un periodo piuttosto brutto e confuso per la città. La cronaca, e quindi non la storia, di quel periodo è piuttosto mutilata. Fu infatti scritta e poi tagliata diverse volte a seconda del colore politico, dell‟appartenenza partitica dei copisti che, intenzionalmente, vi fecero delle omissioni ed inserirono degli errori. Nel 1467 una piccola minoranza di nobili, venne cacciata in esilio per non aver rispettato gli Statuti. Il 31 dicembre dello stesso anno, assieme al losco figuro che fu il capitano di Duino, tale Nicolò Luogar, rientrarono in città gridando al tradimento. Il Luogar tentò di annullare gli Statuti e le libere elezioni, di far firmare al Comune un atto solenne di abdicazione dei diritti a favore dell‟imperatore. A questo punto, toccati nelle loro libertà, i Triestini si opposero in armi facendo prigioniero il capitano di Duino. Il Luogar ottenne la libertà in cambio del rilascio dei prigionieri triestini che si trovavano nelle carceri di Duino. I Triestini, che a lui si erano rivolti e lo avevano sostenuto, furono tutti impiccati tra gli archi della loggia municipale. L‟imperatore, constatata la ribellione della città, decise di punirla esemplarmente ordinando al capitano Nicolò Luogar di raccogliere un esercito nella Carniola, e facendolo marciare contro i rivoltosi. Lo scontro avvenne nei paraggi di Ponziana e fu uno scontro epico nel quale, i Triestini guidati da Cristoforo Cancellieri si batterono eroicamente fino alla morte. Vinta ogni resistenza, si narra che il vincitore diede la città ai suoi uomini che la saccheggiarono, la bruciarono e sembrerebbe che la città fu rasa al suolo. Per tenere doma la città, l‟imperatore fece costruire il castello di San Giusto. Trieste, pian piano, cominciò a riprendersi, ma certamente il periodo non era dei più tranquilli. Nel 1469 quelli che furono il terrore della Cristianità, i Turchi, fecero la loro comparsa da queste parti spingendosi fino a Castelnuovo. L‟impero turco stava sviluppandosi verso l‟Europa e lungo i Balcani. Conquistarono la Grecia,


la Macedonia, gli altri stati balcanici e su su fino ad arrivare alle porte di Vienna che venne stretta d‟assedio. Dalle nostre parti, però quelli che vennero non erano veri e propri Turchi, ma bande di predoni che comprendevano elementi di razze diverse, ma tutti avidi di bottino. Passarono come una meteora, infatti come una furia giunsero, razziarono, bruciarono, uccisero e rapirono donne e bambini per venderli come schiavi, poi sparirono, scomparvero velocemente come velocemente erano giunti. Il punto più vicino dove furono viste le truppe regolari Turche, fu la piana di Zaule. Negli anni seguenti i Turchi, sempre evitando la città di Trieste, attraverso l‟altipiano carsico, passarono nel Friuli dove i Veneziani per arginarli eressero la fortezza di Palmanova. Morto l‟imperatore Federico d‟Austria, amico dei Veneziani, gli successe Massimiliano che trovò subito modo di litigare. Ecco che nel 1508 Venezia mosse guerra all‟Austria. Lo scontro avvenne a Pieve di Cadore dove l‟esercito veneziano, guidato da Barlotomeo d‟Alviano, mise in fuga gli Austriaci. Per l‟ ennesima volta Venezia, con le sue galere, bombardò Trieste, unica città imperiale sul mare rimasta. Essendo caduta pure Gorizia, ai Triestini non rimase altro che arrendersi per evitare un‟altra distruzione. Trieste passò, nuovamente, sotto il dominio di Venezia i cui possedimenti giunsero sino alla Alpi Giulie. I Veneziani dotarono il castello di San Giusto, che era ancora in costruzione, del bel bastione rotondo dove, oggi, è ben visibile la lapide con il leone di Venezia. I Triestini, per liberarsi dai Veneziani, cercarono di convincere la Corte di Vienna quanto fosse per loro utile avere uno sbocco sul mare Adriatico. La corte asburgica, allora, non capì tale importanza anche perché aveva altre cose a cui pensare che erano rappresentate dalle beghe con l‟Ungheria. Venezia non ammetteva concorrenze sul mare, così che per buona parte del cinquecento fu un periodo molto duro per Trieste e la sua economia marittima, tanto da arrivare addirittura alla fame. Il diciassettesimo secolo fu anche peggiore del precedente. La città, a causa delle pestilenze, fu ridotta ad avere circa tre mila abitanti, quasi come nel


medio evo e rischiò, quasi, di finire la sua esistenza di città. Trieste fu sfiorata dalla guerra tra Austria e Venezia che durò dal 1615 al 1618 e si concluse con la battaglia di Gradisca. In quel periodo gli Austriaci completarono la costruzione del castello di San Giusto. Si narra che la città fosse in un tale stato di miseria che quando, nel 1660, giunse a Trieste l‟ imperatore Leopoldo I°, i reggenti la città non poterono nemmeno offrire una cena a base di pesce all‟ augusto ospite, e si che Trieste era una città di mare. Si calcola che la miseria fosse dovuta al fatto che la città non corresse con i tempi e che rimanesse legata ai frutti ed ai proventi della terra che i vari signorotti possedevano. Ci ritroviamo agli inizi del 1700 e Trieste sembrava ancora una città medioevale, cinta dalle mura e arroccata al colle di San Giusto sul quale spiccano tuttora il castello e la basilica di san Giusto. Scendendo verso il mare

c‟erano tante piccole case in mezzo alle quali si erigeva la chiesa di Santa Maria Maggiore, costruita dai Gesuiti nel corso del XVII secolo, ed era la più grande chiesa di Trieste. In basso, verso il mare con le mura che fino a lì arrivavano, c‟era la Piazza Grande con il Palazzo comunale e la sua loggia, la torre del Mandracchio, il Teatro e la chiesa di San Pietro, nonché la Locanda


Grande che era l‟albergo della città. Tutti questi palazzi oggi non ci sono più, almeno nella loro forma originale. Al di fuori delle mura c‟erano i campi coltivati, le saline e lo squero dove si riparavano e costruivano le barche. La città con il circondario poteva contare su di una popolazione di circa cinquemila abitanti. Ma ecco che, nel „700, sta per capitare l‟evento più importante per la storia della città e che decise il suo futuro. Il 18 marzo 1719, l‟imperatore Carlo VI° dichiarò e proclamò lo stato di “porto franco” per la città di Trieste. In pochi anni, grazie a questa

sua

nuova situazione economica, la

città si

trovò ad avere oltre trentamila

abitanti.

Grati, i Triestini, nel 1728

eressero

una statua all‟imperatore Carlo

VI° in

occasione della sua visita alla

città,

riconoscenti anche per essere

stati

scelti tra altri porti concorrenti

che

ambivano a divenire porti

franchi,

tra i quali Fiume, Buccari e San

Giovanni

di Duino. La statua a Carlo VI°,

ancor

oggi, è posizionata sul lato

sinistro

in alto della Piazza dell‟Unità

d‟Italia.

Pur essendo già tangibile un

certo

benessere, la sola dichiarazione

di porto

franco non fu sufficiente a far progredire Trieste. Ci vollero

altre

strategie e misure più energiche che solo Maria Teresa d‟ Austria, aiutata dal figlio, il futuro Giuseppe II°, seppe proporre ed imporre alla città a scapito dell‟antico municipio patrizio e privilegiato che dovette inchinarsi e cedere al nuovo corso voluto dal governo centrale di Vienna. Furono queste misure che fecero mutare il piccolo centro in una città moderna, fresca, operosa, attiva e laboriosa. Tanto laboriosa da sentire, nel 1751, la necessità di incaricare l‟architetto bergamasco Mazzoleni di proporre e far realizzare la “fontana dei continenti”. Il Mazzoleni, avvalendosi di tre “scalpellini di fino”, quali Giovanni Venturini, Giuseppe Grassi e Giambattista Pozzo, fece eseguire questa fontana da erigere nella Piazza Grande. Pregò, nel contempo, l‟abate Gian Domenico Bertoli di Aquileia, di dettare le epigrafi da apporsi alla base della fontana stessa. In questa fontana, il Mazzoleni, volle


contenere una raffigurazione simbolica del commercio, con le sue statue rappresentanti le quattro parti del mondo, la quinta allora si ignorava. Vi fu rappresentata la fama che gridava al mondo l‟Emporio Triestino rappresentando colli di merci, botti ed altri emblemi del traffico accatastati sopra una piramide di blocchi di calcare, con ai lati le deità pagane appoggiate in conchiglie marine, nelle quali sgorgava l‟acqua per poi precipitare nel bacino. La statua dell‟Africa la si volle in marmo nero, alle altre diedero costumi caratteristici. La lapide dettata dall‟abate Bertoli fu tutta una celebrazione a questa città simbolo di un periodo storico, essa recita così: MEDIO HOC SECULO (alla metà di questo secolo) FRANCISCO I ET MARIA THERESIA REGNATIBUS (regnando Francesco I e Maria Teresa) CURA RUDOLPHI S.R.I. COMITIS A CHOTEK (a cura di Rodolfo conte del S.R.I. Chotek) AERARI PUBLICI REGENDORUMQUE COMMERCIORUM PRAESIDIS (reggente del pubblico erario e presidente del commercio) SUB PREFECTURA (sotto la prefettura) COMITIS NICOLAI AB HAMILTON (del conte Nicola de Hamilton) URBIS TERGESTI INCREMENTA (fu dato incremento alla città di Trieste) AB IPSIS IN CHOATA SUNT RERUM OMNIUM CLEMENTIS (con gli elementi di tutte le cose) IGNIS CULTO VICINAE SYLVAE COPIOSIOR (copioso il fuoco della vicina selva) AER EXPLETIONE SALINARUM PURIOR FACTUS (l‟aria purificata col prosciugamento delle saline) TERRA FUNDO SANCTORUM MARTHIRYUM AUCTA ( ampliata la terra col fondo dei S.Martiri) AQUA A SCATURIGINE MONTIUM AD HUNC FONTEM DUCTA FUIT (l‟acqua adotta a questa fonte dalla scaturigine dei monti). Sulla lapide posta sull‟altro lato, verso il mare, ha un‟intenzione altezzosa e recita così: SENATUS TERGESTINUS CIVIUM ADVENARUMQUE COMMODO HUNC FONTEM PERENNIS AQUAE AUGUSTAE MUNIFICENTIA DEDUCTAE PUBLICO AERE POSUIT – A.S. MDCCLI. Tradotto ed interpretato così: - Il Senato Triestino a comodo dei cittadini e dei forestieri questa fonte, d‟acqua perenne, per augusta munificenza adotta, su area pubblica fu posta – Anno di nostra salute 1751.


Maria Teresa decretò pure la libertà di culto a Trieste che permise alle varie comunità religiose, che qui risiedevano, di costruire le proprie chiese. Unica condizione che Maria Teresa pose fu che tutte le chiese non cattoliche fossero addossate, almeno su di un lato, ad un edificio civile. Le mura furono abbattute, interrate le saline, e su questa bonifica fu costruita una nuova zona di Trieste che in onore della sovrana fu chiamata Borgo Teresiano. La “nuova città” fu costruita con belle strade dritte e bei casamenti, dove c‟erano i magazzini, gli uffici come pure le case dei commercianti. Due tratti erano stati scavati in profondità in modo da per mettere al mare di penetrare. Furono creati così il Canal Grande e il Canal Piccolo, dove i navigli poterono entrare ed essere più comodi per le operazione di sbarco ed imbarco dei prodotti e dei passeggeri. Ingrandendosi la città, successero anche fatti di cronaca che, per l‟epoca, fecero molto scalpore. Prendendone uno a caso, anche perché uno dei protagonisti ha un nome ancora noto a Trieste, è quello in cui Giovanni Gioachino Winckelmann, un prussiano, fondatore dell‟arte moderna e padre dell‟ archeologia, nel 1768, di passaggio per Trieste, prese alloggio alla già citata Locanda Grande, dove venne accoltellato e ucciso a scopo di rapina, da tale Arcangeli. L‟assassino venne preso e giustiziato, mediante “ruotazione” in piazza davanti alla locanda dove aveva commesso il delitto. Il corpo del defunto Winckelmann non si sa che fine abbia fatto, pertanto a ricordo di questo fatto, ma soprattutto per rendere omaggio all‟illustre personaggio, nel 1833 venne costruito un cenotafio, sarcofago senza cadavere, ora custodito nell‟Orto lapidario di San Giusto. Nel secolo XVIII, con l‟evolversi della città e con l‟aumento conseguente dei suoi traffici, vi giungevano sempre più nuovi immigrati, molti dei quali furono i veri e propri autori dello sviluppo


della città. Essi erano provenienti da parecchi e diversi paesi come per esempio il greco Ciriaco Catraro, abilissimo negli affari che divenne molto ricco e fu il primo ad insistere perché a Trieste fosse costruita la Borsa. Possiamo ricordare il livornese Matteo Giovanni Tommasini, commerciante e finanziere di grosso spessore che progettò la costruzione di un nuovo teatro, ma che venne ripreso, più tardi, dal siriano Antonio Pharaon detto Cassìs, altro ricco commerciante, che ne ultimò la costruzione. In città, data la continua immigrazione in cerca di fortune o per sfuggire nei paesi di origine a persecuzioni politiche, giunsero greci, svizzeri, tedeschi del nord, spagnoli, francesi e italiani appartenenti ai vari Stati ed infine molti orientali. Con tutte queste razze, questi popoli, e di conseguenza tante lingue, la città avrebbe potuto divenire una Babilonia. Invece così non fu perché i nuovi arrivati si uniformarono allo spirito della città e in brevissimo tempo ne acquisirono sia la cultura, gli usi e costumi, che la parlata italiana. Agli inizi qualche leggero screzio ed incomprensione ci fu tra le vecchie famiglie patrizie che abitavano la case della città vecchia e la nuova aristocrazia commerciale e straniera che abitava la città nuova, dove amava farsi erigere dei sontuosi palazzi come, ad esempio, il ricco commerciante greco Demetrio Carciotti che si fece costruire quella meraviglia architettonica che è appunto il “palazzo Carciotti”. Contrariamente a quanto tutti credono, il palazzo Carciotti non si limitava a quella che fino all‟anno scorso fu la Capitaneria di Porto, bensì si estendeva a tutto quell‟edificio già occupato, fino a poco fa, dall‟A.C.E.G.A.T., per intenderci tutto l‟isolato compreso tra riva Tre Novembre, via Genova, via Cassa di Risparmio e via Bellini. Altro personaggio di spicco della Trieste che contava, fu il conte Domenico Rossetti de Scander, nobile, commerciante, letterato, giurista e storico. Nel 1810 egli fondò la Società di Minerva che come scopo si prefiggeva di promuovere gli studi sulla


storia di Trieste ed elevare la vita culturale della città. Trieste, in quell‟epoca sentì la necessità di avere un mezzo di informazione che non fosse il solito passaparola e il sentito dire. Così nel 1784, un toscano, iniziò a stampare il primo giornale edito a Trieste. “Osservatore Triestino” fu chiamato ed iniziò con lo stampare poche copie, ma agli inizi dell‟800 già aveva una tiratura di tutto rispetto. Trieste cominciò ad essere “osservata” da parecchie potenze, tant‟è che il 29 aprile del 1797 anche Napoleone Bonaparte, con due generali e cento ussari entrò in città. Pernottò una sola notte presso il Palazzo Brigido, sulla cui facciata in via Pozzo del Mare esiste una lapide in ricordo dell‟ avvenimento, si fece consegnare tre milioni di contributo e se ne andò con la cassa del Comune. I Francesi comunque ritornarono e vi rimasero dal 1805 al 1814. La loro dominazione non fu delle più felici e l‟economia della città ne risentì, tanto da far rimpiangere gli Austriaci. Furono create, dai Francesi, le famose “Province Illiriche” nel cui territorio era compresa pure Trieste. Gerolamo Buonaparte, fratello dell‟imperatore, già re di Westfalia e col titolo di principe di Montfort, soggiornò a Trieste parecchie volte tanto che acquistò la palazzina, che oggi è la sede del Presidio militare dove, nel 1822 nacque suo figlio che, vent‟anni dopo, sposò Clotilde di Savoia. Si narra che, in punto di morte, il marito di Clotilde raccomandasse la sua città natale a Vittorio Emanuele II. La villa oggi si chiama “Villa Principe Napoleone” dal nome del figlio di Gerolamo. Il 14 maggio 1850, l‟imperatore Francesco Giuseppe I pose la prima pietra per la costruzione della “ferrovia meridionale” detta così perché, partendo da Trieste attraverso Aurisina, che era il meridione dell‟Austria saliva al settentrione, cioè nella capitale Vienna. La città aveva raggiunto, ormai, i centocinquantamila abitanti ed il vecchio Acquedotto Teresiano risultò insufficiente per gli sviluppi della città tanto che nel 1859 venne costruita la centrale dell‟acquedotto di Aurisina. Nel 1864 fu introdotta pure l‟illuminazione pubblica alimentata a gas. Trieste fu sede di numerose compagnie di navigazione e scalo marittimo, si sentì perciò la necessita che sorgessero le prime compagnie di assicurazione le quali fiorirono


in breve tempo. Ci sono parecchi documenti che attestano l‟esistenza a Trieste di molte fabbriche, dalle carte da gioco ai pallini da caccia. Esiste ancora oggi, in via San Francesco vicino al nuovo palazzo della Regione, la "torre dei pallini” dove appunto il piombo fuso veniva colato dall‟alto in una vasca d‟acqua gelida dove solidificavano. A seconda dell‟altezza da cui veniva colato il piombo esso prendeva la forma e il calibro desiderati. C‟erano pure parecchi cantieri navali di cui il più famoso di tutti fu il “Cantiere Panfili”, fondato nel 1780 e dove nel 1818 venne costruita la prima nave a vapore, varata con il nome di “Carolina”. Nel 1829 presso i Cantieri Panfili si apprestò la prima nave ad elica del mondo su progetto di Giuseppe Ressel. Nel 1860 venne inaugurato il Cantiere San Marco che era destinato a divenire uno dei più grandi ed importanti cantieri navali d‟Italia e del mondo. Mi fermo un solo momento a pensare che in tutto questo ben di Dio di iniziative c‟era già, da parecchi anni, anche il mio avo Gaspare che aprì, nel 1799, “pubblica stamperia” in Trieste. Risale al 29 dicembre del 1881 l‟inaugurazione e l‟uscita della prima copia del giornale “Il Piccolo” che fu così chiamato per il suo ridottissimo formato. Nella zona tra l‟attuale p.zza Oberdan, foro Ulpiano e via Fabio Severo c‟erano le caserme austriache nelle quali avevano sede anche le prigioni. Non si trattava di prigioni per detenere delinquenti comuni, bensì prigioni militari. Infatti stiamo entrando nel periodo detto dell‟irredentismo e della redenzione. Di quelle costruzioni militari, oggi, rimane solamente la cella di rigore in cui fu rinchiuso Guglielmo Oberdan e che


è diventata monumento nazionale e sede del museo del Risorgimento. Guglielmo Oberdan nel 1878 venne chiamato al servizio militare per prendere parte all‟occupazione della Bosnia–

Erzegovina,

ma egli disertò, fuggì in Italia per

unirsi ai

patrioti triestini e istriani. Oberdan,

perciò, era un

patriota e voleva fermamente che

Trieste

venisse annessa all‟Italia. Ma la

terza guerra

d‟indipendenza era da poco finita e

l‟Italia firmò

un patto d‟alleanza con l‟Austria.

Questo patto

a Oberdan e ai suoi amici patrioti

proprio non

andava giù e pensò bene che ci

volesse un‟

azione dimostrativa per esprimere il

malcontento

della città di Trieste e scuotesse così

i suoi

cittadini. Nel 1882, in occasione del

quinto

centenario della “dedizione” di Trieste all‟Austria ci furono svariati festeggiamenti tra i quali anche un‟esposizione che avrebbe dovuto essere inaugurata da Francesco Giuseppe I° in persona. Oberdan pensò bene di tornare a Trieste per tentare, con una bomba, di uccidere l‟imperatore. Egli sapeva che l‟impresa fosse quasi impossibile per la protezione che l‟imperatore avrebbe avuto e la difficoltà, quindi, di avvicinarlo per lanciare la bomba. Così fu infatti, tanto che egli non giunse nemmeno a Trieste, anche perché tra i patrioti si era infiltrata una spia austriaca che lo denunciò, facendolo arrestare in una casa, a Ronchi, dove era in attesa del momento propizio per andare a Trieste. Trovato in possesso di due bombe, venne tradotto a Trieste e portato prima alle carceri, che si trovavano presso S.Maria Maggiore e quasi immediatamente segregato nella caserma, in quella cella buia e senza finestre che oggi, come detto, è l‟unica testimonianza della caserma austriaca. Originariamente l‟edificio, costruito per volere di Maria Teresa nel 1769, fu destinato a ospizio per i poveri e ospedale. Nel 1786 fu convertito in caserma e carcere da Giuseppe II. Venne apprestata la forca e con ciò gli Austriaci pensavano di spaventarlo e fare in modo che rivelasse tutti i segreti a sua conoscenza, sui motti dei patrioti. Ma lui rifiutò perfino di chiedere la grazia all‟imperatore, perché voleva morire per attirare, col suo sacrificio, l‟attenzione di tutti gli Italiani sulle tristi condizioni politiche dei Triestini. Per questi motivi, Oberdan venne ricordato come il primo volontario e il primo martire della guerra di redenzione. Alle sette del mattino del 20 dicembre 1882, all‟età di 24


anni, venne giustiziato ed il suo corpo non fu mai più ritrovato. A riunificazione avvenuta tutte le città d‟Italia, il cui stemma è posto sopra la cella, si tassarono in ragione di un centesimo per abitante in modo da raccogliere la somma necessaria ad abbattere, nel 1925, la vecchia caserma austriaca e a costruire, nel 1927, il sacello dedicato a Guglielmo Oberdan, nonché la casa del Combattente, dove hanno sede, appunto, tutte le associazioni combattentistiche e pure il Museo del Risorgimento. Nel vicino museo sono ricordati tanti altri patrioti che si sono distinti, per ardimento, per unire la città di Trieste all‟Italia. Tra i tanti ricordiamo il generale Petitti di Roreto, per primo sbarcato a Trieste il 3 novembre 1918. Ma non dobbiamo dimenticare il capodistriano Gian Rinaldo Carli, che ancora nel 1700 auspicava l‟unione di tutti gli Italiani in uno stato sovrano. Poi tanti nomi, allora sconosciuti, che nel 1848 si radunavano all‟interno del Caffè Tommaseo, covo di irredentisti e patrioti che, alimentati dagli articoli del giornale “La Favilla” svilupparono sempre più la coscienza nazionale. Fu così che tanti giovani giuliani e dalmati parteciparono alle guerre del nostro Risorgimento tra le fila dell‟esercito italiano e dei garibaldini. Di quelli sconosciuti che si radunavano al caffè, spiccano alcuni nomi che, per le loro attività, partecipazione armata o semplice sostegno all‟irredentismo, divennero famosi e sono oggi ricordati quali Giusto Muratti bersagliere garibaldino, Lorenzo Gatteri – pittore che su tela riproduceva epiche battaglie, Giuseppe Caprin – che partecipò nel 1866 alla battaglia di Bezzecca nel Trentino, Domenico Lovisato – nato a Isola d‟istria che seguì Garibaldi nella III guerra del Risorgimento, Gabriele Foschiatti, Leone Veronese....ecc.


Questo fu il prologo della grande guerra, come venne chiamata la guerra che l‟Italia combatté contro l‟Austria per annettere a sé le provincie di Trento e di Trieste, capisaldi austriaci. Il 28 Giugno 1914 scoccò la scintilla che diede il pretesto per lo scoppio della prima guerra mondiale. Uno studente serbo attentò ed uccise a Sarajevo, l‟arciduca Francesco Ferdinando d‟Asburgo, nipote dell‟imperatore Francesco Giuseppe e pretendente al trono di Austria e Ungheria. Fu così che l‟Italia entrò nel conflitto, il quale iniziò il 24 Maggio 1915 e terminò il 4 novembre 1918, anche se, per la verità Trieste si liberò da sola insorgendo con ribellione generale il 30 ottobre 1918 e si offerse con delirio d‟amore all‟Italia chiamando le truppe, ferme a Venezia. Il 3 novembre 1918 esse giunsero con il cacciatorpedinere Audace, il quale attraccò a quel molo che ancor oggi porta il suo nome e con un reggimento di bersaglieri che sbarcarono alla stazione marittima. Davanti a tutti, fieri di giungere in una città che si era liberata da sola, marciarono il generale Petitti di Roreto a fianco del duca d‟Aosta. Nel periodo che precedette questo storico evento è doveroso ricordare i nomi dei Triestini che presero parte attiva alla guerra e furono moltissimi. Ne citeremo solo alcuni in rappresentanza di tutti che eroicamente combatterono quella guerra e che in parecchi caddero per l‟ideale di proclamare e difendere l‟italianità di Trieste: Scipio Slataper, Ruggero Timeus, Pio Riego Gambini, Giuseppe Vidali, Emo Tarabocchia, i gemelli Aurelio e Fabio Nordio, Ruggero Fausto Timeus, Antonio Bergamas, Gabriele D‟ Annunzio......fino a giungere alle medaglie d‟oro concesse a Ugo Polonio, Carlo e Giani Stuparich, Giacomo Venezian, Francesco Rismondo, Nazario Sauro, Guido Brunner, Guido Slataper, Spiro Xidias, Fabio Filzi e Guido Corsi, nomi che, giustamente, furono ricordati dedicando loro altrettante vie cittadine. Concludendo......... A questo punto posso dire, perché lo penso, che Trieste abbia assunto quella che è la sua vera identità: essere italiana. A grosse linee cerchiamo di riassumere la lunga, ma breve storia di Trieste e


dei Triestini. Trieste fu dapprima un castelliere, un piccolo scalo per scambi e/o baratti con navi provenienti da oriente, poi divenne dominio romano, seguirono invasioni e distruzioni alle quali seguì il dominio bizantino. Nel medioevo fu un po‟ ai margini di eventi che sconvolsero, più il Friuli e le Venezie e pur passando, alternativamente, sotto domini dei Veneziani, degli Austriaci, dei vari Patriarchi fino all‟ottocento dove giunsero Tedeschi del nord attratti da una cultura che amavano e che ritenevano superiore; i Greci provenienti da zone povere spesso oppresse dai Turchi, per non parlare degli Slavi che giungendo, per lo più, dal contado trovarono a Trieste un ambiente culturalmente molto evoluto. Trieste fu sempre un po‟ autonoma anche grazie alla testardaggine dei Triestini, che volevano essere liberi di amministrarsi come meglio credevano. Anche se, probabilmente, in città agli inizi c‟erano dei partiti politici filo-austriaci, filo-veneziani e filo- patriarchini, la più grande preoccupazione, che in ciò li univa, era salvaguardare e difendere la libertà del comune e dei suoi statuti che davano facoltà alla città di amministrarsi da sola tramite il Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore, che si possono paragonare alle attuali Camera dei Deputati e del Senato. Nemmeno il dominio di 500 anni da parte dell‟Austria riuscì ad eliminare tutti questi privilegi. Solamente gli ultimi 150 anni di dominio austriaco furono un po‟ più pesanti anche perché, i Triestini, decisero di togliersi di dosso il giogo austriaco e ciò comportò una maggiore pressione e repressione sulla popolazione. Trieste è sempre stata piccola, chiusa in se stessa a difendere il suo esistere e soprattutto la sua lingua che nessun dominatore o semplice immigrato, riuscì mai a cancellare, anzi furono loro che dovettero adattarsi, con vero piacere però, ad imparare non solo la lingua italiana ma anche costumi, usi e tradizioni esistenti tanto che, dopo pochi anni di permanenza, come succede tuttora, tutti si sentono e vogliono


essere considerati triestini. Questo è quello che la Storia destinò ai Triestini cioè di restare italiani attraverso le innumerevoli vicende durante i secoli in questo estremo lembo orientale della penisola. E‟ storia recente quella in cui i Triestini dovettero nuovamente essere soggiogati da dominazioni straniere e cioè dal 1943 al 1945 dai Tedeschi, nel 1945, per soli 40 giorni fortunatamente, dai partigiani slavi ed infine per ulteriori nove anni, fino al 1954, dall‟amministrazione militare anglo-americana. Avrebbe dovuto essere creato il Territorio Libero di Trieste, quale cuscinetto tra oriente e occidente ma, per fortuna, la decisione dei quattro “Grandi” rimase solamente sulla carta e alla fine del 1954 Trieste, con la sua ridottissima provincia, ritornò all‟amministrazione italiana. Anche la situazione economica della città è cambiata. Da città cantieristica si è passati a città di studi e di cultura. Le grandi industrie sono emigrate o non sono state create a parte la Grandi Motori Trieste. Le raffinerie petrolifere hanno cessato la loro attività e la zona è divenuta deposito di greggio che tramite l‟oleodotto transalpino viene mandato fino nell‟alta Germania. In cambio Trieste si è dotata di uno dei più importanti centri mondiali di fisica nucleare, a Miramare, intitolato al premio Nobel Abdul Salam che, per decenni, lo resse e lo diresse fino a farlo diventare il più ambito punto di studio e di ricerca, meta dei migliori ricercatori mondiali. L‟Area di Ricerca di Padriciano, altro complesso scientifico che l‟Europa, se non il mondo, c‟invidia. Esso doveva sorgere a Vienna, ma fu scelta invece la località carsica per la sua collocazione geografica e orografica, pur rimanendo a Vienna la direzione logistica e amministrativa. Ultimo nato in ordine di tempo, ma forse anche l‟opera più importante è il Protosincrotrone, o come più comunemente viene detto “anello di luce”. Infatti in esso vengono studiate le risultanze dell‟ accelerazione delle molecole in questo anello. Trieste così è diventata un polo della scienza, un centro di convegni mondiali e, sembra, si stia studiando la creazione di un nucleo alberghiero di dimensioni tali da poter diventare sede mondiale scientifica permanente. A questo proposito, sembra che un gruppo americano abbia intenzione di rilevare e bonificare dall‟amianto l‟hotel Europa, lungo la Riviera triestina, e adibirlo, appunto, esclusivamente a insediamento di studiosi e scienziati di tutto il mondo.


Non è come agli inizi di questa ricerca dove gli scritti, le notizie, i documenti erano rari e frammentari, ora non è più possibile spaziare a largo raggio, ogni argomento, ogni avvenimento, ogni situazione ha bisogno di un intero libro per essee descritto. Tante persone, molto più qualificate, hanno già adoperato fiumi d‟inchiostro per descrivere un solo palazzo o un solo castello o un solo museo. Io posso solamente leggere, imparare e recepire qualche cosa perché la mia Trieste, anche se piccola, ha tante cose da offrire e da far vedere a chi volesse scoprirle. Una città come Trieste, penso, sia unica al mondo, sia per la sua conformazione orografica, per la sua collocazione geografica, per la sua storia, per la sua cultura, per la sua multietnicità, per il suo spirito, per la sua mentalità che, alle volte, risulta un po‟ troppo chiusa o poco aperta alle novità, allo sviluppo, alla modernità. I Triestini si rifugiano nel loro passato, che fu splendido, ma non vogliono capire che non potrà mai più ritornare se non con innovazioni sia tecnologiche che culturali, con la mentalità aperta che il nuovo millennio deve e potrà portare. Solo rimboccandoci le maniche, stringendo i denti e lavorando intensamente potremo essere nuovamente una grossa e importante città nel mondo e non certamente cullandoci in nostalgici ricordi che nulla producono e a nulla servono. In un‟Europa che cerca di unificarsi in una sola grande nazione, in un‟Europa dove popoli che europei non sono, vogliono entrare e farne parte a qualunque costo, dove si cerca di creare un‟economia comune per il bene di tutti, dove perfino la moneta di scambio sarà unica, a Trieste esistono ancora delle persone ottuse e retrograde. Esse vorrebbero isolarsi e isolare la città quasi desiderassero ritornare all‟epoca dei liberi comuni, con le piccole botteghe artigiane, gli usurai toscani o ebrei, con


un‟ economia basata sulla quotidianità senza sviluppo, senza domani, senza progetti, senza futuro certo o almeno programmato, senza quella imprenditorialità che, al giorno d‟oggi, necessita per poter guardare con una certa serenità al futuro nostro ma soprattutto al futuro dei nostri figli e dei figli dei nostri figli. Trieste svegliati, scuotiti, sii la Trieste che mai si è piegata a nessuno, ma che sempre ha collaborato e ha accolto tutti in seno a sé per poter cooperare ed essere accolta nel mondo intero!

Comunque sia, Trieste io t‟amo perché sei Trieste ed io sono fiero di essere Triestino.

Giorgio Weiss


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