Innovating Through Design - Roberto Ocera

Roberto Ocera

INNOVATING THROUGH DESIGN Metodologie progettuali per creare business incentrati sull’innovazione

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica

Diploma Accademico di Primo Livello in Arti Tecnologiche Anno Accademico 2016/2017

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Candidato Ocera Roberto

Pubblicazione composta in Proxima Nova, disegnato da Mark Simonson nel 2004.

Relatore Esposito Ciro

© Copyright 2018 Accademia di Belle Arti di Catania Ocera Roberto

Progetto Grafico Ocera Roberto

Tutti i diritti riservati www.accademiadicatania.com

Roberto Ocera

INNOVATING THROUGH DESIGN Metodologie progettuali per creare business incentrati sull’innovazione

INDICE

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INTRODUZIONE

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CAPITOLO 1 1.1– Il ruolo del design oggi 1.2 – Approcci al design per una metodologia progettuale 1.3 – User-centered design 1.4 – Activity-centered design 1.5 – Systems design

27 28 32 36 52 58 62

CAPITOLO 2 2.1 – Metodologia progettuale 2.2 – Fase di osservazione e ricerca progettuale 2.3 – Fase di ideazione 2.4 – Fase di prototipazione e verifica 2.5 – Modello del design a doppio rombo 2.6 – il metodo “sprint”

67 68 74 78

CAPITOLO 3 3.1 – Startup: come l’idea diventa progetto 3.2 – Business Model Canvas: il cuore di ogni startup 3.3 – il metodo Lean Startup

83 84

CAPITOLO 4 4 – Metodologia progettuale applicata: il caso “ImmersivArt”

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CONCLUSIONE

96 100 102

Ringraziamenti Bibliografia Sitografia

INTRODUZIONE

«Creativity is at once a skill, an art, and a lifestyle.»

- Alexander Faickney Osborn

Era il lontano 1851, quando a Londra, all’interno di un clima di forte rivoluzione industriale, ebbe luogo La Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations, la prima esposizione universale riguardante l’industria, nata col fine di celebrare e permettere la conoscenza delle più moderne tecniche industriali. L’esposizione, promossa dal principe Alberto, Henry Cole così come dagli esponenti della Royal Society of Arts, venne ospitata nel celebre Crystal Palace, realizzato da Joseph Paxton, un enorme edificio realizzato in ferro e vetro, risorse moderne, frutto delle nuove scoperte in campo industriale.

Fu una rivoluzione. Venticinque paesi parteciparono all’esposizione, sei milioni furono i visitatori. L’innovazione era ovunque. Ma la vera rivoluzione fu un’altra: nacque il concetto di Design, inteso come l’attività promossa dal progettista, che sta alla base della realizzazione degli oggetti che ci circondano. Venne finalmente riconosciuto, quindi, lo “sforzo umano”, l’idea che diventa oggetto, un concetto che verrà poi esteriorizzato con l’esperienza del Bauhaus, la prima scuola di architettura, arte e, appunto, design, che ebbe luogo nel periodo che va dal 1919 al 1933, poggiando le basi per le moderne scuole di design ed accademie di belle arti.

Nel corso del tempo si sono succedute un’infinità di metodologie progettuali – ovvero di tecniche che permettono l’affinamento dell’idea che sta alla base degli oggetti – che hanno perfezionato l’approccio al design.

INTRODUZIONE

⁽ ¹ ⁾ Bruno Munari, Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale., 1981, Reprint, Laterza, Roma-Bari, 2017, p.16.

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Il metodo progettuale è quindi una serie di operazioni necessarie¹, che permettono il raggiungimento di uno scopo; e non vi è alcun scopo, se non vi è alla base un problema progettuale.

L’uomo da sempre progetta; e ciò che lo ha sempre distinto da qualunque altra forma di vita sta nella capacità di risolvere problemi legati alla sua sopravvivenza. Ed è questo in fondo il pensiero progettuale: la capacità di saper rispondere ai propri bisogni, ai propri desideri, in maniera razionale, migliorando la propria qualità della vita.

La metodologia progettuale non è qualcosa di statico. È un processo in continua evoluzione, modificabile in base alle esigenze ed al tipo di approccio che si decide di intraprendere.

La vastità delle operazioni di design – e conseguentemente di metodologia progettuale – che si sono succedute nel tempo, fanno sì che spesso si crei confusione riguardo il tipo di approccio da applicare. Ogni oggetto è diverso e richiede quindi un approccio diverso.

Fig. 1 - Tipico approccio user-centered design.

INTRODUZIONE

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L’obiettivo che si pone il seguente trattato di tesi è quello di ottenere una visione abbastanza ampia delle metodologie progettuali, applicate in campo personale così come nel campo delle organizzazioni aziendali, ponendo le basi per una conoscenza di base del fenomeno.

In particolare, il testo si soffermerà su quelli che sono gli approcci principali per una metodologia progettuale, definendo l’user-centered design, l’activity-centered design ed il systems design; Successivamente, verrà dato ampio spazio alla definizione delle fasi progettuali e delle principali tecniche di osservazione e ricerca, ideazione, prototipazione e verifica progettuale, definendo anche un modello di progettazione convenzionale come quello del modello del design a doppio rombo, ma anche un modello meno convenzionale, sviluppatosi negli ultimi anni, come il modello “sprint”.

L’attenzione del lettore viene poi posta su quello che viene considerato un argomento caldo degli ultimi anni – quantomeno in Italia, poiché negli Stati Uniti viene trattato da diversi anni – riguardante il fenomeno delle startup, ovvero della fase di avvio delle nuove esperienze aziendali, fenomeno che rilancia il mondo dell’imprenditoria (giovanile e non) che, a causa della sua condizione economica incerta, ha bisogno di affinare nel migliore dei modi la propria idea (tramite appunto la metodologia progettuale) per farsi spazio, attraverso l’innovazione, in un mondo aziendale spesso saturo.

In particolare, dopo aver dato ampia visione al fenomeno delle startup, ci si soffermerà sulla metodologia lean startup, che si basa sul modello lean manifacturing in Toyota, ampliando il concetto sul mondo imprenditoriale.

INTRODUZIONE

Fase finale del percorso di tesi sarà la definizione di ImmersivArt, un’idea di startup vincitrice del secondo posto, oltre che di tre menzioni speciali presso Startup Weekend Catania, evento svoltosi dal 27 al 29 di ottobre 2017. Io, in quanto partecipante di questo evento, esporrò le metodologie progettuali che abbiamo applicato in quei tre giorni, così come tutt’ora, in quanto al team è stato concesso un percorso di accelerazione presso il Tim Wcap (Working capital), cosa che ci sta permettendo un percorso di crescita lavorativo nonché di affinamento della nostra idea di base.

Fig. 2 - Un team di ragazzi organizza le proprie idee attraverso le metodologie di brainstorming durante un workshop sul design thinking a Torino.

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CAPITOLO 1

1.1 – Il ruolo del design oggi

Come precedentemente accennato, il design risulta essere una disciplina relativamente giovane: circa un secolo di vita; ed in quanto tale, ha un ruolo ancora in fase di evoluzione, sia per quanto riguarda la definizione sia per quanto riguarda il processo stesso di design. Fare design è un’attività complessa, così come lo è perfino parlarne, perché è complesso identificare i confini di azione e soprattutto identificare il valore che il design apporta all’interno delle situazioni aziendali.

Al designer oggi vengono richieste una serie di competenze verticali, perché deve essere in grado di condividere le varie fasi del processo con una serie di personalità con background culturali totalmente differenti. Lacune in determinati ambiti non rendono la progettazione realmente efficace.

Il designer è chiamato a lavorare in team. Il design si sta quindi tramutando da disciplina prettamente artistico-creativa, praticata da gente particolarmente specializzata, a disciplina basata su una sorta di cultura del progetto, portando con sé una serie di approcci non che di ambiti di applicazione e competenza differenti.

Il design thinking, il pensiero progettuale, è ovunque. Se fino a qualche tempo fa a praticare questo metodo era soltanto una piccola parte di consulenti, personalità come Tim Brown, Eric Ries, Alexander Osterwalder e Jake Knapp (si parlerà di loro nei successivi capitoli) hanno reso questa terminologia worldwide.

CAPITOLO 1

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Il metodo di progettazione di prodotti e processi che mette al centro le persone e la risoluzione dei loro problemi, piace alle aziende. Perché? Tra le aziende vi è la necessità di innovare e trasformare processi e prodotti, e il pensiero progettuale permette una metodologia efficace per effettuarlo. E l’innovazione, ad oggi, deve essere una priorità, per le startup così come per le multinazionali.

Tuttavia, è importante specificare – seppur possa risultare banale, in questa sede – che senza creatività non vi è innovazione. Da qui l’importanza di suddette metodologie progettuali, poiché esse vengono intraprese non più da un singolo designer, ma da un team. In definitiva, il pensiero progettuale permette la creazione di innovazione; Si districa tra 4 aree differenti: • • • •

Arti Discipline umanistiche Ingegneria Management economico

Applicando forma, funzione, valore e significato a ciò che viene realizzato.

Fig. 3 - Le aree attraverso cui il pensiero progettuale si districa apportando innovazione.

1.2 – Approcci al design per una metodologia progettuale

Gli approcci utilizzati nell’ambito della metodologia progettuali consistono in approcci che è possibile adottare per la gestione delle attività di un progetto attraverso le fasi, spiegate nel successivo capitolo. Questi approcci “indirizzano” i progetti in modo che essi rispondano a determinate caratteristiche e bisogni.

Nel corso del tempo, i professionisti operanti nel settore hanno applicato questi approcci. Molti altri potrebbero nascere nel tempo, con la nascita di nuove esigenze progettuali.

Indipendentemente dall’approccio utilizzato, una particolare attenzione andrà comunque dedicata alla definizione degli obiettivi del progetto e delle loro implicazioni.

Tre, sono i principali approcci al design, più utilizzati ed efficienti: l’User-centered design, l’Activity-centered design e il System design. Analizziamoli.

Fig. 4 - I tre appocci al design mantengono una serie di caratteristiche in comune, quando si parla di metodologie progettuali.

CAPITOLO 1

Fig. 5-6 - IKEA e Apple, nei loro due simbolici negozi più grandi, rispettivmente in Svezia e Inghilterra.

Nonostante entrambe affermino di non fare design centrato sull’utente, hanno suscitato clamore.

Come? un poco è magia; Il resto è UCD.

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1.3 – User-centered design

Uno degli approcci più adoperati nelle metodologie progettuali risulta essere l’user-centered design, spesso abbreviato in UCD. Il design centrato sull’utente è basato su una semplice ma impegnativa premessa: l’utente è chi poi utilizzerà il prodotto; di conseguenza hanno propri bisogni, obiettivi e preferenze. Il designer che quindi progetta secondo questo approccio dovrà analizzare gli utenti verso il quale il prodotto è destinato, e disegnare per loro, realizzando prodotti e servizi che li soddisfino.La differenza con altri approcci sta che l’UCD ruota attorno i bisogni e desideri degli utenti sull’uso dei prodotti, anziché forzare gli utenti a cambiare il loro comportamento.

L’UCD si basa sull’iterazione di diverse attività, volte ad analizzare e osservare gli utenti. È un concetto che esiste da lungo tempo, che ha radici nel design industriale e nell’ergonomia. Negli anni, diversi autori hanno descritto il processo, ed è persino trattato da alcune norme ISO (International Standards Organization, Organizzazione internazionale per la standardizzazione), in particolare dalla ISO 9241-210:2010, che descrive l’UCD come ⁽ ² ⁾ Ergonomics of human-system interaction — Part 210: Human-centred design for interactive systems, <www.iso.org>, 2010, agg. 2015. [ ultima cons. 2018-01-14 ]

“un approccio allo sviluppo dei sistemi interattivi orientato alla creazione di sistemi usabili e utili, focalizzandosi sugli utenti, i loro bisogni e richieste, applicando fattori umani/ ergonomia, tecniche e conoscenze di usabilità. Questo approccio aumenta l’efficacia e l’efficienza, migliora il benessere umano, la soddisfazione degli utenti, l’accessibilità e la sostenibilità; e contrasta i possibili effetti negativi di utilizzo sulla salute umana, la sicurezza e le prestazioni.”²

CAPITOLO 1

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L’UCD è quindi un’attività multi-disciplinare, la quale applicazione dei fattori umani e dell’ergonomia alla progettazione dei sistemi richiede che i tenga conto delle capacità, della abilità, delle limitazioni e delle necessità umane.

I sistemi human-centered supportano gli utenti e li motivano a imparare.

Il coinvolgimento degli utenti sta alla base della progettazione, nell’approccio UCD; vengono coinvolti in ogni stadio del progetto. All’inizio del progetto vengono consultati per capire quanto il prodotto o servizio in questione possa effettivamente rispondere ai bisogni della clientela verso il quale è indirizzato e, molto più frequentemente, nel momento in cui i designer cominciano la fase di sviluppo di modelli in relazione al progetto, sottoponendo i prototipi realizzati a test.

L’user-centered design ha i suoi pro, come i suoi contro.

Il designer spesso non è l’utente finale. L’UCD fa sì che i designer abbandonino i propri gusti personali, in modo da concentrarsi su quelli che sono i bisogni e obiettivi degli utenti.

Di contro, questo tipo di approccio non può funzionare per prodotti destinati a un pubblico mondiale, poiché si rischia di realizzare prodotti o servizi troppo mirati.

Fig. 7 - Un modo per rappresentare l’user-centered design attraverso 5 fasi.

1.4 – Activity-centered design

Quando i prodotti o servizi non sono destinati ad un pubblico specifico, o comunque sono destinati a una produzione mondiale, l’approccio UCD diventa un rischio: è qui che entra in gioco l’Activity-centered design. Al centro dell’ACD non ci sono gli obiettivi o le preferenze degli utenti, ma le attività.

⁽ ³ ⁾ Donald Norman, La caffettiera del masochista, 2. ed., Giunti, Firenze, 1988, 2014, p. 255.

L’approccio ACD funziona perché le attività umane sono simili in tutto il mondo. Buona parte dei prodotti distribuiti internazionalmente sono stati progettati secondo questo approccio: basti pensare agli elettrodomestici o le auto (queste ultime sono pressoché identiche in tutto il mondo, a parte lievi modifiche richieste dai codici locali). Questo approccio permette quindi ai designer di focalizzarsi sul lavoro considerato e progettare un supporto per l’attività stessa. Questo rischia di contravvenire ai principi dell’UCD, tuttavia Donald Norman nel suo libro La caffettiera del masochista: psicopatologia degli oggetti quotidiani lo considera piuttosto un suo arricchimento: “dopotutto le attività sono eseguite da e per le persone.

Un’impostazione progettuale centrata sulle attività è un design sostanzialmente centrato sulla persona, ma più adatto a popolazioni ampie e non omogenee.”³ Anche il design centrato sulle attività ha come base la ricerca sugli utenti, con un’unica differenza: vengono osservati più i loro comportamenti, rispetto ai loro obiettivi. I designer studiano le loro attività, aggiungono qualche compito mancante e progettano soluzioni per aiutare gli utenti a completare i compiti e non necessariamente i loro obiettivi.

CAPITOLO 1

È importante precisare la differenza fra compiti e attività.

I compiti possono essere costituiti da un unico atto come aprire un rubinetto, o più complicati come seguire tutti i passi necessari a costruire un mobile IKEA. Un compito è una subcomponente di un’attività “fare la doccia” oppure “arredare casa”, negli esempi citati precedentemente.

Un’attività è quindi una serie di compiti, tuttavia concentrare l’attenzione su compiti specifici può essere rischioso. Il successo di Apple con il suo lettore musicale iPod è da attribuire, oltre al design brillante, anche al fatto di supportare l’intera attività dell’ascolto dei brani, permettendo quindi di trovarli, acquistarli, importarli e ascoltarli.

Progettare in funzione degli utenti permette di raggiungere risultati meravigliosi per il gruppo particolare di persone considerate in sede di progetto, ma risulteranno inadatti per tutti gli altri. Il grande vantaggio del design centrato sulle attività sta in questo: se il progetto è coerente con l’attività, l’utente sarà anche disposto ad accettarne la complessità, purché supporti i suoi compiti, le sue attività nel migliore dei modi.

Fig. 8 - Rappresentazione grafica dell’ACD.

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1.5 – Systems design

⁽ ⁴ ⁾ <dizionari.corriere.it/ dizionario_italiano /S/sistema.shtml> [ ultima cons. 2018-01-14 ]

il Systems design, o design di sistemi è un modo minuzioso di affrontare i problemi di design attraverso un’organizzazione stabilita di componenti per creare soluzioni di design.

Il sistema viene definito “Insieme di elementi coordinati tra loro in una unità funzionale”⁴. In quanto tali, i sistemi possono essere costituiti da persone, dispositivi, macchine e oggetti.

Inoltre possono essere semplici o complessi.

Il design di sistemi è una metodologia mirata a soddisfare specifici bisogni e requisiti di un’azienda o organizzazione (ma non solo) attraverso l’applicazione di un sistema coerente e ben gestito. É una metodologia strutturata e rigogliosa, eccellente per affrontare problemi complessi, che tuttavia può anche concentrarsi sui bisogni degli utenti: possono essere usati per definire gli obiettivi del sistema.

Anche il System design, così come l’UCD viene applicato da parecchio tempo. I primi approcci risalgono a prima della seconda guerra mondiale, quando gli ingegneri provarono a risolvere il complesso problema della comunicazione. Essi ebbero bisogno di standardizzare il proprio lavoro in una disciplina formale con i suoi metodi, specialmente in campi relativamente nuovi come la teoria dell’informazione, le operazioni di ricerca e la computer science.

CAPITOLO 1

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Il designer che fa uso del design di sistemi si focalizza sui contesti d’uso, non solo sui prodotti o servizi in sé. Può essere considerato come un’ampia analisi dell’ambiente (sistema) in cui il prodotto o servizio verrà usato. È un metodo molto razionale, logico, che permette di vedere il quadro complessivo del progetto mettendo da parte, anche soltanto un attimo, le emozioni, le passioni, la fantasia. Il design di sistemi riguarda certamente i prodotti digitali ma anche buona parte dei servizi dove coesistono componenti digitali e analogici. È importante chiarire un importante punto, per poter parlare di design di sistemi. Nulla di ciò che viene prodotto non è affetto dal mondo nel quale viene creato. I sistemi vengono creati (anche) per far si che incontrino i bisogni degli utenti, ma soprattutto per risolvere problemi che potrebbero sorgere in futuro. L’intero processo di sviluppo del sistema, dal progetto al prodotto effettivo, prevede di considerare tutti i fattori rilevanti e di adottare le specifiche richieste e di creare un sistema utile basato sulle forti competenze tecniche, analitiche e di sviluppo dei professionisti.

L’approccio per la progettazione di sistemi si sviluppa solo dopo aver attraversato un’importante fase di analisi. Da questa fase verranno fuori degli output che diverranno gli input (la base) nella fase di progettazione di sistemi. Questi input o componenti che i sistemi dovrebbero avere si suddividono in: • Obiettivi. Dichiarano la relazione ideale fra il sistema e l’ambiente in cui esso vive. Non è necessariamente l’obiettivo dell’utente, ma il sistema intero può essere derivato dagli obiettivi dell’utente;

CAPITOLO 1

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• Sensori. Rivelano i cambiamenti nell’ambiente; • Comparatori. Incarnano l’obiettivo all’interno del sistema, confrontando lo stato attuale (l’ambiente) con lo stato desiderato (l’obiettivo); • Attuatori. Un mezzo per operare cambiamenti sull’ambiente.

L’importanza della fase di analisi può essere compresa a ragione del fatto che comprende l’identificazione delle sorgenti dei dati così come la natura e il tipo di dati disponibili.

Ad esempio, nel “sistema” supermercato, una fase di analisi e osservazione porterà quasi sicuramente alla luce output (e quindi sensori, comparatori e attuatori) come “cassieri” e “magazzinieri”.

CAPITOLO 2

2.1 – Metodologia progettuale

⁽ ⁵ ⁾ <it.wikipedia.org/wiki/ Progettazione> [ ultima cons. 2018-01-14 ]

Ad oggi, il termine più utilizzato parlando di metodologia progettuale è certamente “design”, parola che deriva dall’inglese e definisce in senso lato “l’attività promossa dal progettista, che è alla base della costruzione/realizzazione di qualsiasi oggetto complesso, sia esso materiale o soltanto concettuale attraverso la stesura di un progetto.”⁵ Il design rappresenta quindi quello che è un processo, mentale e fisico, che porta a una serie di attività che avranno lo scopo finale di mettere in atto o realizzare un determinato prodotto o servizio.

⁽ ⁶ ⁾ Alberto Bassi, Design.

Progettare gli oggetti quotidiani, Il mulino, Bologna, 2013, p. 11.

Il termine “design” negli ultimi tempi è diventata una parola spesso abusata, utilizzata per identificare ambiti come l’arredamento, l’arte, l’architettura, la moda, ecc. Insomma, una “parola-valigia”⁶ Si può parlare di Design, nel momento in cui il prodotto o servizio ha una relazione con un compito. Questo porta a un processo condiviso di progettazione. Da qui, il via ai vari suffissi, che col tempo ne hanno determinato le competenze in una maniera decisamente migliore: • Car design: progettazione automobilistica; • Exhibition design: progettazione riguardante gli allestimenti espositivi e le installazioni; • Furniture design: progettazione dell’arredamento;

CAPITOLO 2

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• Fashion design: progettazione nel campo della moda e del vestire; • Graphic design: progettazione della comunicazione visiva; • Interaction design: progettazione dell’interazione tra uomo e sistemi informatici o meccanici; • Light design: progettazione di sistemi di illuminazione per fini domestici o urbani; • Product design: progettazione di prodotti per il sistema industriale; • Retail design: progettazione degli spazi commerciali e delle forme di relazioni fra prodotti e consumatori; • Service design: progettazione di servizi allo scopo di renderli fruibili al meglio e rilevanti per gli utilizzatori; • Strategic design: progettazione dell’insieme integrato di prodotti, servizi e comunicazione; ⁽ ⁷ ⁾ id., pp. 14-15.

• Web design: progettazione tecnica, grafica e strutturale dei siti web.⁷ E così via. È importante sottolineare come, qualunque tipo di progettazione si stia affrontando, la metodologia non cambi; seppur si possano riscontrare numerose differenze per quanto riguarda il tipo di manufatto realizzato.

CAPITOLO 2

Riassumendo in questa sede, ma specificando nei successivi paragrafi, possiamo definire tre tipologie di progettazione e quattro fasi di progettazione: TIPI DI PROGETTAZIONE • Progettazione innovativa, che consiste nello sviluppo di un prodotto o servizio completamente nuovo, allo scopo di anticipare, innovare; • Progettazione di adattamento, che consiste nella revisione o adattamento di un prodotto o servizio già esistente; • Progettazione variante, che consiste nel realizzare un prodotto o servizio che risulti una diversa combinazione di un prodotto già esistente.

FASI DI PROGETTAZIONE • Osservazione; • Ideazione; • Prototipazione; • Verifica; Queste fasi fanno spesso parte di quello che è l’approccio User-centered nella progettazione, tuttavia sono chiarificatrici di come funziona l’attività di progettazione riconosciuta come Iterativa, cioè a cicli, permettendo così di perfezionare la progettazione del prodotto o servizio, grazie alle nuove idee proposte ad ogni ciclo;

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CAPITOLO 2

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In questa maniera, ci si avvicina sempre più alla soluzione desiderata, poiché la verifica conclusiva trasferisce l’esperienza delle fasi precedenti e concluse nella progettazione di interventi futuri.

Prevedere le fasi del progetto consente di definire e focalizzarsi su quelle che sono le azioni chiave così come permette di ricavare le informazioni necessarie per garantire una corretta esecuzione delle azioni necessarie oltre che una corretta divisione dei compiti.

Un buon prodotto di design è stato sicuramente realizzato attenendosi a queste quattro fasi. A supporto delle fasi di progettazione, nel corso del tempo sono state proposte una serie di attività il quale scopo fondamentale è quello di divergere su un determinato problema per poi convergere su un’eventuale soluzione al problema citato.

Svariate sono queste cosiddette attività di design: nei seguenti paragrafi verranno citate e argomentate alcune delle più importanti, da fase a fase.

Fig. 9 - Le fasi di progettazione rappresentate visivamente.

2.2 – Fase di osservazione e ricerca progettuale

Il primo passo verso la “risoluzione” di determinati problemi progettuali rientra in quella che viene definita fase di osservazione, oppure fase di ricerca progettuale. Consiste in un’indagine “sul campo” e non, che permette di conoscere i potenziali clienti, osservare le loro attività e cercare di capire cosa li spinge ad adottare determinati comportamenti, scoprendo quindi i loro interessi così come le loro motivazioni e bisogni.

Questa prima fase sta alla base di tutte le successive fasi del progetto; spesso viene accantonata, poiché molti stakeholder non lo considerano un buon investimento, oppure una perdita di tempo; tuttavia, risulta necessaria poiché permette ai progettisti di focalizzarsi su bisogni reali e non astratti e inoltre permette di applicare una metodologia adattata al problema che ci si ritrova. Molti prodotti o servizi risultano investimenti sbagliati, proprio perché non c’è stata una fase di osservazione, risultando quindi non gradevoli al target selezionato, oppure troppo mirati per permettere un ricavo economico.

La ricerca di design non è altro che un mix di metodi derivanti da altri campi, come l’antropologia, la scienza, il teatro. I metodi sviluppati nel tempo spaziano dall’osservazione silenziosa al coinvolgimento dei soggetti in attività giocose. Tuttavia si discosta dalla ricerca scientifica, in quanto gli indici tradizionali, come età, istruzione, nazionalità, reddito raramente possono risultare importanti. Quello che conta è il tipo di attività svolta.

Per questo prodotti come automobili, computer e smartphone sono standardizzati in tutto il mondo.

CAPITOLO 2

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È importante applicare queste metodologie poiché i designer spesso non sono gli utenti finali. Questo permette loro di comprendere il target di riferimento, conferendogli empatia quando creano. Inoltre, li aiuta ad evitare scelte sbagliate che di fatto potrebbero frustrare gli utenti.

Alcuni tra i metodi più interessanti ed efficaci sono qui descritti: RACCOLTA DI INFORMAZIONI TRAMITE INTERNET: spesso i designer sono lasciati liberi di poter consultare fonti esterne. Ad oggi, uno dei metodi di ricerca sicuramente più veloce (oltre che dai costi irrisori) risulta essere la ricerca in internet, tramite cui è possibile accedere ad informazioni in una maniera semplicissima. Ciò che il designer deve andare a progettare spesso è già stato pensato e progettato, anche se non nella stessa maniera. Internet quindi risulta essere un ottimo punto di partenza per farsi un’idea, ispirarsi e trarre informazioni, ottenendo quindi una conoscenza generale dell’area tematica del progetto, grazie a mailing list, forum di discussione o riviste online.

OSSERVAZIONE NELL’AMBIENTE NATURALE: permette una comprensione profonda dell’utente finale e degli ostacoli che incontra giornalmente, attraverso l’osservazione nel contesto della vita quotidiana, dove quindi il prodotto o servizio in questione verrà usato: a casa, a scuola, in ufficio, osservando quindi situazioni reali. È una componente essenziale di qualsiasi ricerca di design.

CAPITOLO 2

⁽ ⁸ ⁾ Dan Saffer, Design dell’interazione. Creare applicazioni intelligenti e dispositivi ingegnosi con l’interaction design, Bruno Mondadori, Milano, 2007, p. 79.

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Dan Saffer nel suo libro Design dell’interazione⁸ ha identificato quattro metodi diversi di osservazione: • Mosca sul muro: Andare in un luogo e osservare ciò che vi accade senza interagire; • Shadowing (fare da ombra): seguire i soggetti mentre svolgono le loro abituali mansioni, registrando ciò che viene fatto e detto; • Indagine contestuale: variazione dello shadowing dove il designer presente nell’ambiente pone domande sui comportamenti degli utenti; • Agente sotto copertura: osservare le persone interagendo sotto copertura, ad esempio fingendosi cliente.

⁽ ⁹ ⁾ id, p. 80.

INTERVISTE: Parlare alle persone è un ottimo modo per conoscerle, scoprendo atteggiamenti ed esperienze. Anche in questo caso Dan Saffer ha delineato quattro metodologie diverse⁹ : • Storytelling guidato: chiedendo ai soggetti di raccontare storie su momenti specifici in cui hanno interagito con un prodotto o servizio: ad esempio la prima volta che hanno eseguito un’azione o usato un prodotto, la prima volta in cui un prodotto o servizio non ha funzionato, oppure la volta in cui hanno fatto qualcosa di nuovo;

CAPITOLO 2

• Unfocus group: rovesciando il tradizionale focus group, questo approccio mette assieme un gruppo di esperti del campo, hobbisti, artisti, ecc. per esplorare temi riguardanti i prodotti o servizi da diversi punti di vista, con lo scopo di ottenere una prospettiva atipica e tecnica sul tema; • Giochi di ruolo: simulando diversi scenari con un gruppo può far emergere nuove emozioni, atteggiamenti su un tema, prodotto o servizio; • Interviste a utenti estremi: Intervistando persone ai margini del tema considerato, allo scopo di ottenere, anche in questo caso, una prospettiva atipica sul tema.

Fig. 10 - Le interviste agli utenti, fondamentali per approfondire la ricerca di design.

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2.3 – Fase di ideazione

Altra componente fondamentale riguardante la metodologia progettuale è la fase di ideazione. Con la fase di ideazione, le informazioni precedentemente osservate e studiate cominciano a prendere forma: trovato il problema, bisogna generare possibili soluzioni. È questa la parte divertente (e cruciale) della progettazione, dove la creatività ha ampio spazio. È importante, in questa fase, generare tante idee senza tener conto dei limiti. Anche le idee più assurde possono contenere intuizioni che successivamente potranno essere adoperate nel prodotto o servizio finale.

Sono tante le tecniche e approcci alla fase di ideazione che sono stati sviluppati nel tempo e sono risultati efficaci. Qui di seguito verranno descritti alcuni tra i più importanti.

Fig. 11 - Un team alle prese con la fase di ideazione.

CAPITOLO 2

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BRAINSTORMING: per brainstorming si intende un metodo decisionale, in cui la ricerca della soluzione di un dato problema viene effettuata mediante sedute intensive di dibattito e confronto delle idee e delle proposte espresse liberamente dai partecipanti. Deriva dai termini inglesi brain (cervello) e storming (tempesta) e significa letteralmente “tempesta di cervelli” oppure “assalto mentale”.

In pratica viene sfruttato il gioco creativo dell’associazione di idee, con la finalità di far emergere diverse appetibili soluzioni a un problema progettuale. Ogni persona del gruppo propone in modo creativo quante più idee: questi pensieri verranno successivamente registrati e discussi all’interno del gruppo per eseguire una cernita qualitativa delle idee.

Nato in ambito pubblicitario, ma sviluppato in altri campi come la creazione artistica e la progettazione di prodotti e servizi, il termine fu coniato alla fine degli anni Trenta da Alex F. Osborne, che stabilì inoltre quattro regole principali: • Nessun criticismo, valutazione, giudizio sulle idee durante la sessione di brainstorming. Lo scopo del brainstorming è di generare quante più idee relative all’argomento trattato nel minor tempo possibile. Valutazioni, giudizi e selezioni delle idee saranno lo scopo delle sessioni successive; • Incoraggiamento di idee grezze o esagerate. Gli interlocutori sono invitati a dare piena libertà alla loro creatività e quindi a lasciarsi andare proponendo quante più soluzioni possibile, non importa quanto oltraggiose o impraticabili siano esse. Non c’è limite alle idee “grezze”. Ogni idea deve essere espressa. È più facile “attenuare” un’idea e selezionarla successivamente, anziché pensare qualcosa di nuovo e creativo sul momento;

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• La quantità prima di tutto. I membri del gruppo sono incoraggiati a contribuire quanto più possibile con le loro idee.

Più grande sarà il numero di idee generate, più probabilmente risulterà maggiore il numero di idee utili; ⁽ ¹⁰ ⁾ History and use of brainstorming, <brainstorming.co.uk>, 2011. [ ultima cons. 2018-01-14 ]

• Lavoro di perfezionamento su ogni idea. Combinare idee con altre idee simili, fare “piggybacking” sulle idee, fa parte del processo creativo. Con piggybacking, si intende l’azione del prendere un’idea non propria ed alterarla un poco, togliendogli qualcosa, oppure esprimendo l’esatto opposto.

Le idee meno utili e applicabili, applicando il principio del piggybacking, possono diventare delle idee perfette;¹⁰ Le modalità di brainstorming possono essere diverse, tuttavia sono uniformate dalla possibilità di avere risposte rapide e spontanee da parte dei partecipanti, in modo da rivelare il pensiero immediato degli interlocutori, costruendo quindi un linguaggio comune.

⁽ ¹¹ ⁾ Carlo Branzaglia, Fare Progetti, Fausto Lupetti, Bologna, 2016, p. 59.

Ad oggi il Brainstorming rappresenta una delle metodologie progettuali più applicate, in ambiti che riguardano ad esempio l’individualizzazione di concept di nuovi prodotti o servizi oppure la definizione di valori e strategie nelle organizzazioni. È una fase laboratoriale accessibile a chiunque, fortemente efficace quando vi partecipano persone con diverse competenze, poiché le differenze garantiscono l’innovazione e la coesione.¹¹ Applicare sessioni di brainstorming all’interno del proprio team o in qualsiasi altra organizzazione può apportare tantissimi altri benefici. Tra i tanti:

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• Miglior workflow, o flusso di lavoro, con conseguente incremento dell’efficienza del team; • Incremento monetario. Le idee analizzate in sessioni di brainstorming, nel momento in cui vengono studiate ed applicate, portano spesso ad un incremento del capitale di un’azienda o startup; • incremento creativo – miglior spazio di lavoro. Uno spazio di lavoro asettico non può far altro che produrre cattive idee.

Una situazione giocosa (ma non troppo) come quella fornita dal brainstorming è fonte di idee creative. Inoltre, è luogo dedito al confronto: in un ambiente dove si promuove la creatività e la cooperazione, ogni impiegato potrà dire la sua. Il brainstorming migliora decisamente l’affiatamento (e l’umore) tra i colleghi di lavoro nel team.

• Creazione di nuovi mercati. Le idee più innovative, sviluppate nelle sessioni di brainstorming, portano alla creazione di prodotti e servizi totalmente nuovi, con la conseguente creazione di nuovi mercati.

Fig. 12 - La fase di ideazione riprende ciò che visivamente è descritta come la fase in cui escono fuori i tentativi per giungere a una soluzione del problema.

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All’interno del gruppo di brainstorming il ruolo di facilitatore è di estrema importanza; il facilitatore è colui che sarà responsabile della gestione del tempo, modererà le conversazioni e gestirà il processo in sé. Il facilitatore ha anche il compito di gestire le attività preparatorie al meeting e, se richiesto, di produrre il rapporto finale della sessione.

Solitamente ricopre il ruolo di facilitatore chi ha esperienza nel moderare eventi del genere, ma va bene chiunque non ricopra ruoli decisionali all’interno dell’organizzazione o gruppo dove si stia svolgendo la sessione di brainstorming. È spesso ottimale ingaggiare una persona esterna al gruppo proprio per i motivi sopracitati.

Sebbene a prima vista le sessioni di brainstorming possano condividere similitudini con i focus group, questi ultimi si differenziano dal fatto che sono costituiti da persone fortemente selezionate e qualificate, che hanno come obiettivo il condividere e discutere con gli altri il proprio punto di vista.

Fig. 13 - Il ruolo del facilitatore, di estrema importanza nelle sessioni di brainstorming.

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Si tratta di un processo più strutturato, mirato più a una condivisione di informazioni riguardanti prodotti e servizi già esistenti, mentre, generalmente, in una sessione di brainstorming il team ha la possibilità di produrre idee innovative, anche esagerate.

Il brainstorming è composto da due fasi e si basa su un processo ad “imbuto”, in cui alla fase iniziale di pensiero divergente, segue la fase finale di pensiero convergente:

⁽ ¹² ⁾ Carlo Branzaglia, Fare Progetti, Fausto Lupetti, Bologna, 2016, pp. 61,63,65.

1. Fase divergente: dopo aver identificato la questione da affrontare, i partecipanti producono le idee senza alcun limite e vincolo, associando le proprie intuizioni a quelle degli altri, con la massima libertà di pensiero.

2. Fase convergente: si selezionano e si valutano le idee per scegliere quelle più vantaggiose e realizzabili; è un momento in cui predomina la prospettiva analitica e critica; l’esperienza e le conoscenze tecniche assumono il ruolo principale.

Branzaglia, invece, ha scomposto le attività di brainstorming in tre grandi fasi: la fase di input, la fase di output e la fase di strutturazione.¹² Nella prima fase, una volta definito il tema, ogni interlocutore proporrà degli input, scrivendo rapidamente la propria annotazione su un post it favorendo un approccio spontaneo e non meditato. Il facilitatore, ricevuti i foglietti, li attaccherà immediatamente su di una parete, cominciando a predisporre raggruppamenti fra risposte simili o affini. Il consiglio è di utilizzare post it di colore diverso, nel caso in cui i temi trattati o le domande proposte siano più di uno/una, allo scopo di definire meglio i “confini” tra gli input;

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Nella seconda fase, il facilitatore avrà il compito di costruire percorsi di senso con le annotazioni, favorendo una condivisione di idee ed un linguaggio comune. Gli output, una volta ricondotti a significati assimilabili, porteranno alla terza ed ultima fase; Nella terza fase, il facilitatore, con l’aiuto degli interlocutori, accorperà gli output in modo da configurare strutture di senso. Le strutture possono essere di più tipi: ad esempio a linee verticali, dove i post it sono incolonnati a seconda delle assonanze, oppure ramificata, con derivazioni ed intrecci.

Riguardo la valutazione e selezione delle idee, si scatena spesso un dibattito secondo il quale il gruppo che successivamente valuterà le idee debba essere necessariamente il gruppo “originario” della prima fase. Da un lato, si mette in discussione il fatto che sia negativo dal lato delle relazioni umane chiedere a un gruppo di generare le idee per poi tagliarlo fuori dal resto delle fasi successive. Dall’altro, si pensa che lo stesso gruppo possa entrare in conflitto poiché gli interlocutori criticano e giudicano le proprie idee, dopo una prima fase senza criticismi, cercando di far prevalere la propria idea anziché quella più funzionale.

Se i membri del gruppo di brainstorming nutrono sufficiente familiarità ed interesse riguardo i temi trattati durante la prima sessione di brainstorming, saranno probabilmente qualificati per continuare il processo. Questo crea un legame tra generazione di idee, valutazione e sviluppo, assicurando un impegno per la soluzione o piano definitivo. Tuttavia, si crede al fatto che la valutazione debba essere fatta da persone che saranno più oggettive. È inoltre consigliato che la valutazione finale venga attuata da chi è direttamente responsabile della risoluzione del problema.

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In ognuno di questi casi, il gruppo di valutazione dovrebbe comunque stabilire dei criteri per esaminare ogni idea. Alcuni dei criteri possono essere i seguenti: • Fattibilità; • Costi; • Fattori umani; • Tempi; • Qualità; • Risorse; • Sicurezza; Ed altri criteri pertinenti al tema trattato.

Infine, è possibile intraprendere anche una sessione di brainstorming individuale. Si crede infatti, che le sessioni di brainstorming individuale risultino essere più proficue, e che quindi le idee individuate siano di qualità migliore. Qui di seguito, i problemi individuati nelle sessioni di brainstorming di gruppo: • Anziché generare le proprie idee durante la sessione di brainstorming, gli interlocutori potrebbero prestare maggiore attenzione sulle idee generate dagli altri; • Il processo può risultare lento a volte. Questo fa si che si perda la concentrazione oppure ci si dimentichi la propria idea, mentre si aspetta il proprio turno per parlare; ⁽ ¹⁰ ⁾ Individual vs. Group Brainstorming – The Difference, <blog. commlabindia.com> , 2016. [ ultima cons. 2018-01-14 ]

• Gli interlocutori potrebbero essere timidi, o tendenti a lavorare in modo migliore se soli.¹³

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Chiunque può porsi davanti un foglio e scrivere quante più possibili soluzioni riguardo un problema configurato precedentemente, favorendo il flusso creativo, poiché non c’è nessun turno da aspettare. Questo uso del brainstorming è effettivo per ovviare ad uno dei più grandi problemi della creatività individuale: l’autocritica. Le persone tendono a criticare sé stesse, i loro pensieri e le loro azioni più di quanto invece le lodano. Una persona che pensa “che stupida idea; rideranno di me se la dico” sarà ovviamente meno disposto alla condivisione di idee con gli altri. Proprio perché il processo di brainstorming incoraggia la continua produzione di idee disinibite, può risultare un effettivo esercizio creativo.

Il brainstorming di gruppo è assolutamente più efficace, se ogni interlocutore utilizza la propria esperienza e creatività a vantaggio di tutti, per creare nuovi stimoli; tuttavia, è necessario che le regole previste siano ben chiare sin dall’inizio, per non frenare gli individui più timorosi di vedersi criticate le proprie idee.

Fig. 14 - Visivamente, viene ricordato il concetto secondo cui il lavoro di perfezionamento sulle idee altrui porti ad un’idea migliore.

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Fig. 15 - I post-it, simbolo indiscusso delle sessioni di brainstorming: un modo giocoso per poter esprimere le proprie idee.

Fig. 16 - La famosa pratica del dot-voting, attraverso il quale chi partecipa alle sessioni di brainstorming può esprimere il proprio parere positivo riguardo le idee espresse.

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KEYWORD: complementare, spesso consequenziale della fase di brainstorming risulta essere la fase di Keyword, parola che deriva dall’inglese e significa parola chiave. È nella gestione del brainstorming che emergono le parole chiave, è quindi compito del facilitatore riuscire ad individuarle, condividendo la scelta con gli interlocutori e stilare quindi una lista di queste parole chiave, attorno alle quali si sviluppa il tema che si sta affrontando.

In pratica, le keyword permettono una “lettura” del quadro generale, quindi danno un’idea precisa del progetto e del tipo di idee proposte.

Alcune guide linea per scegliere le parole chiave sono qui di seguito descritte: • Specificare più di una parola chiave, che può essere relativa al topic discusso. Per esempio, se il tema trattato è “malattie del sistema circolatorio”, le parole chiave rilevate dopo il processo di brainstorming possono essere “cuore”, “coronarie”, “ictus”, “sangue”, ecc.; • Selezionare parole chiave che siano abbastanza lunghe, ma non troppo; • Evitare ripetizioni inutili. Per esempio, se si è già sottolineata la parola “studio clinico”, è inutile inserire tra le keywords la parola “clinica”.

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È importante chiarire agli interlocutori le funzioni pratiche delle parole chiavi. Un esempio diretto può essere ricavato dalle parole utilizzate in pubblicità, con le definizioni che esprimono l’offerta del prodotto o servizio venduto, oppure nelle dichiarazioni finali delle campagne pubblicitaria, ad esempio nel caso delle pubblicità di automobili, spesso diventate parte del marchio e della brand identity.

Inoltre è buona regola, una volta sottolineate/ricopiate in lista le parole chiave rilevate durante la sessione di brainstorming precedente, creare una lista di parole o frasi relative l’argomento. È importante buttare su carta qualunque idea si ha, anche quelle che possono sembrare stravaganti, bizzarre; Spesso risultano essere le parole chiavi più sfruttate.

Fig. 17 - Esempio di kewords rilevate durante una sessione di brainstorming.

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TAGCLOUD: basandosi sulle parole chiave individuate precedentemente, un’altra metodologia progettuale applicabile risulta essere la tecnica delle tagcloud, anche per dare una sorta di gerarchia alle parole trovate: lavorando su forma, colore, dimensione del font gli interlocutori possono dare un senso oltre che un certo ordine alle parole. È possibile realizzare tagcloud a mano o al computer. Spesso, per questioni di accessibilità, è meglio optare per la prima scelta. Tuttavia al computer, usando un qualsiasi software grafico si ottiene una certa professionalità, anche con pochi e semplici mezzi.

Fig. 18 - Rappresentazione visiva delle keyword.

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MIND MAP: Il termine mind map deriva dallo psicologo inglese Antony Buzan, che nel 1974 le presentò come “strumento per la visualizzazione dei processi mnemonici e cognitivi”. Ad oggi, Tony Buzan vanta il maggior contributo dato al campo delle metodologie di apprendimento cognitivo, in particolare riguardo le tecniche di apprendimenti rapido, le tecniche di memoria, ma soprattutto le mappe mentali.

Su quest’ultimo argomento, Tony Buzan ha sviluppato un software che permette di creare mappe mentali usando il computer, permettendo quindi ad aziende, organizzazioni, professionisti e studenti di dare spazio alla creatività, risparmiare tempo e ottenere risultati migliori, in modo semplice e intuitivo.

Le mappe mentali sono un modo di rappresentare idee e concetti, indicizzare e finalizzare una azione di progetto. È un’ottima metodologia progettuale, il primo importante step per analizzare e strutturare le idee dopo la sessione di brainstorming, per poi poterci lavorare e raggiungere una preventiva fase di prototipazione, definendo ogni processo coinvolto e la sua funzione.

Le mappe mentali permettono l’aumento del flusso creativo, rendendosi utili per diverse attività, come: • Prendere nota; • Unificare teorie e fonti in un unico foglio coerente; • Riassumere; • Risolvere problemi; • Creare nuove soluzioni; • Pianificare; • Preparare speech; • Brainstorming.

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PERSONA: una metodologia progettuale “avanzata”, destinata a svolgersi una volta analizzato il problema e generate possibili soluzioni, quindi a metà tra la fase di ideazione e la fase di prototipazione, risulta essere la creazione di Persona. Il termine identifica un insieme di archetipi di persone coinvolte nell’acquisto di un prodotto o un servizio.

Aiutano fondamentalmente i designer ad orientarsi verso un determinato target di persone. Questi archetipi vengono estrapolati dalle iniziali analisi di mercato ed interviste, in modo da riuscire a creare un amalgama di diverse persone, che condividono obiettivi, motivazioni e comportamenti simili.

Le persona sono state sviluppate da Alan Cooper agli inizi degli anni 80 come un modo per creare empatia con i clienti interessati all’acquisto di un software che stava progettando.

Cooper intervistò diverse persone tra i destinatari del progetto a cui stava lavorando e pensò a questa tecnica per fingersi un cliente come loro: un modo per poter fare brainstorming e poter valutare le idee dalla loro prospettiva. Questo permise lui di intraprendere un approccio user-centered e quindi di mettere gli utenti al centro di ogni suo processo di progettazione.

Una persona viene descritta come se fosse una specifica persona, ma non risulta essere un reale individuo; piuttosto, viene mostrato come una sintesi delle osservazioni, interviste e ricerche su altre persone.

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Ogni persona rappresenta una significante porzione di persone nel mondo reale e permette quindi al designer di focalizzarsi su un gruppo specifico formato da un paio di persona, anziché focalizzarsi su centinaia di individui. Le persona quindi aiutano i designer a creare differenti design per differenti target; un target specifico, non un target generico.

Le persona spesso sono rappresentate attraverso un documento di una pagina, ma è molto più di quest’ultimo. È un modo di comunicare e sintetizzare trend di ricerca, pattern ed altro ancora.

Fig. 19 - Esempio di Persona.

2.4 – Fase di prototipazione e verifica

Uno dei modi migliori per approfondire un’idea risulta essere quello di realizzare un prototipo. Questo metodo implica la produzione di un economico prodotto, incompleto e a volte in scala, per far sì che eventualmente si possano risolvere determinati problemi, prima del lancio ufficiale.

La prototipazione offre ai designer l’opportunità di dar vita alle proprie idee, testare l’attuale progettazione ed investigare su quali siano i pensieri e i sentimenti di un piccolo gruppo di persone, una volta provato il prodotto.

Le fasi di prototipazione, e verifica, rispettivamente penultima ed ultima fase del processo iterativo di progettazione, permette di scoprire come gli utenti si comportano con il prototipo, allo scopo di rilevarne nuovi problemi o per scoprire se le soluzioni implementate abbiano riscosso successo. I risultati generati da questi test verranno poi usati per ridefinire uno o più dei problemi stabiliti nelle fasi precedenti.

Quando i designer vogliono determinare e capire esattamente come gli utenti interagiranno con il prodotto o servizio, il metodo più ovvio è il test. I prototipi devono essere costruiti in modo che i designer possono pensare alle soluzioni in un modo diverso (cioè con un prodotto tangibile anziché idee astratte), ma anche in modo che in caso di fallimento si fallisca più velocemente possibile, che quindi sia stato perso meno tempo e denaro investito in un’idea che risulterà essere poco proficua.

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I metodi di prototipazione sono generalmente divisi in due separate categorie: prototipi a bassa qualità e prototipi ad alta qualità.

Esempi di prototipi a bassa qualità sono gli scenari, gli storyboard, gli sketch, i wireframe. Questi prototipi sono veloci, economici, rendono possibili cambi istantanei da poter testare alla successiva iterazione del processo progettuale.

Inoltre permettono al designer di avere una visione generale del prodotto sfruttando il minor tempo possibile, poiché non si focalizza sui dettagli. Nel dettaglio: SCENARI: Gli scenari rappresentano un modo veloce ed efficace per immaginare l’utilizzo del prodotto o servizio in fase di prototipazione. Si tratta di storie che raccontano come sarà il prodotto, le sensazioni che scaturirà. È l’ambiente delle persona individuate precedentemente. Esaminarle con esse permette di scoprire se il prodotto è stato pensato per tutti i target ricercati, quindi, eventualmente, di includere funzionalità aggiuntive al prodotto. Spesso possono essere relativi ai casi d’uso, che invece descrivono le interazioni a livello tecnico.

Nel caso degli scenari, però, essi possono essere compresi da persone che non hanno un background tecnico.

STORYBOARD: Non prettamente necessaria al fine della prototipazione, ma particolarmente efficace per mostrare i progressi del progetto, oppure in fase di testing, risultano essere gli storyboard. Questi aiutano ad illustrare meglio il prodotto o servizio in uso.

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La tecnica di storyboarding, che deriva dall’industria cinematografica e pubblicitaria, permette di poter raccontare potentemente una storia su di un prodotto o servizio, mostrandone le caratteristiche in uno dei suoi contesti d’uso.

Fondamentalmente è arte sequenziale, dove svariate immagini sono raggruppate per visualizzare una storia.

Il metodo nasce ufficialmente nel mondo dei film di animazione.

La sua popolarità è stata accreditata al Walt Disney Studio, che ne fece ampio uso sin dal 1920. Gli storyboard permettevano loro di costruire il mondo del film prima ancora che venisse propriamente creato.

Le storie sono il più importante modo per trasmettere le informazioni. Esse permettono di essere visualizzate mentalmente, trasportando con sé valori, idee, concetti facilmente comprensibili, creando inoltre empatia ed attenzione.

Fig. 20 - Esempio di scenario.

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SKETCH: i designer possono rappresentare le idee non solo attraverso le parole, ma anche attraverso le immagini. Un grande progetto avrĂ bisogno maggiormente di schizzi e fogli preparatori, per sviluppare rapidamente un concetto, cosĂŹ come per realizzare composizioni di base o layout. Mostrare gli sketch agli stakeholders cosĂŹ come ai clienti permette una maggiore comunicazione ed approvazione, permettendo inoltre di risparmiare tantissimo tempo.

Fig. 21 - Esempio di sketch.

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WIREFRAME: i wireframe sono un insieme di documenti che mostrano lo scheletro di qualunque prodotto per schermi. Rendono chiara la gerarchia delle informazioni, le funzionalità ed il contenuto.

In generale sono un mezzo per documentare le caratteristiche di un prodotto, con uno strato sottile di design visivo.

Per quanto invece riguarda i prototipi ad alta fedeltà, essi sono prototipi che somigliano e funzionano come un prodotto finale. Hanno una forte attrattiva per i portatori di interessi, in quanto questi ultimi potranno giudicare quanto bene il prototipo ha raggiunto le sue aspettative. Inoltre, in fase di testing i prototipi ad alta fedeltà permettono ai designer di ricevere informazioni con un alto livello di validità ed applicabilità. Più il prototipo è vicino al prodotto finale, più sarà la fiducia che i designer porranno sugli utenti nella fase di test, comprendendo appieno come interagiscono e percepiscono il design del prodotto.

Fig. 22 - Esempio di wireframe.

2.5 – Modello del design a doppio rombo

Tutti i team di design attraversano 4 determinate fasi, spesso ripetutamente, per poter risolvere i propri problemi, in modo conscio o inconscio. Questo processo di design è stato rappresentato come modello del design a doppio rombo (Double Diamond design process, in inglese), nasce nel 2005 ad opera del British Design council ed è il principale modello su cui si basano buona parte delle metodologie di design.

⁽ ¹⁴ ⁾ 11 lessons: a study of the design process, <designcouncil.org.uk>, 2007. [ ultima cons. 2018-01-14 ]

I processi di design spesso attraversano una prima fase divergente, dove vengono scoperte nuove opportunità, per poi immediatamente passare ad una seconda fase convergente, per definire ed analizzare le idee. Subito dopo, il processo di design passa attraverso un momento divergente, attraverso l’esplorazione e lo sviluppo di un certo numero di potenziali soluzioni, prima di convergere nuovamente in una fase dove verrà scelta una soluzione che maggiormente riesce a portare un valore all’utente finale. In dettaglio¹⁴ : SCOPERTA: la prima fase, che copre l’inizio del progetto, dove i designer osservano il mondo, notano ciò che accade e traggono analisi.

Attività tipiche sono: • Analisi di mercato e dei trend • Interviste • Osservazione nell’ambiente naturale e così via;

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DEFINIZIONE: La seconda fase, dove i designer cercano di dare un senso a tutte le possibilità identificate in fase di scoperta. È importante qui riuscire a chiarificare il più possibile per definire la “sfida di design”. Attività tipiche sono: • Brainstorming • Definizione di materiali, logistica, tempo di mercato e così via; SVILUPPO: La terza fase rappresenta un periodo di sviluppo dove soluzioni e concetti vengono sviluppati, creati, resi prototipi e testati. A volte è necessario iterare questa fase, in modo che i designer possano migliorare e rifinire le proprie idee. Attività tipiche sono: • Lavoro multidisciplinare • Management visivo • Applicazione di metodi di sviluppo • Testing e così via; CONSEGNA: La quarta fase, la fase finale dove il progetto risultante dalle precedenti fasi viene finalizzato, prodotto e lanciato. Attività tipiche sono: • Testing finale, approvazione e lancio • Valutazione di target di mercato e feedback e così via.

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La scoperta, definizione e frammentazione del problema di design è visto come un aspetto chiave della creatività: l’approccio tradizionale al problem solving parte con un problema ben definito, per poi spendere le risorse e trovare una sola soluzione finale. Tuttavia, meno tempo viene speso nella definizione del problema, meno probabilmente sarà apprezzata la soluzione finale.

Il modello del design a doppio rombo permette una costante iterazione tra processo di analisi, ideazione, sintesi e verifica.

Durante il processo si ha modo di poter spaziare attraverso le idee, per successivamente focalizzarsi sui bisogni dell’utente, identificando e definendo aree di priorità. Alla fine, si avrà modo di realizzare una serie di prototipi per potersi focalizzare sulla soluzione finale.

Fig. 23 - Rappresentazione visiva del modello del design a doppio rombo.

2.3 – il metodo “sprint”

⁽ ¹⁵ ⁾ <linkedin.com/in/jakeknapp> [ ultima cons. 2018-01-14 ]

⁽ ¹⁶ ⁾ <jakeknapp.com> [ ultima cons. 2018-01-14 ]

Tra gli approcci metodologici per una progettazione di design, quello da menzionare senza ombra di dubbio è il metodo “sprint”, un metodo sperimentato da Jake Knapp durante la sua lunga permanenza di 15 anni¹⁵ come design partner presso il quartier generale di Google Ventures, il venture capital di Google in Mountain View in California, Stati Uniti. Nel corso della sua permanenza, Knapp applicò il design sprint oltre 150 volte, allo scopo di aiutare altrettante aziende e startup a trovare soluzioni ai loro problemi e permettere loro di testare nuove idee.¹⁶ Tra queste, solo per citare le più famose, si annoverano Nest, Slack, 23andMe, Flatiron Healt.

Il metodo sprint si basa su un importante principio: l’ottimizzazione dei tempi attraverso deadlines, con una conseguente crescita di produttività. Le scadenze forzano qualunque persona a focalizzarsi su di un determinato problema, allo scopo di risolverlo entro un determinato giorno.

E proprio da questo principio, il design sprint spinge chiunque vi partecipi a definire un’idea, renderla prototipo e testarla nel corso di una normale settimana di lavoro, predisponendo una serie di attività di brainstorming.

Gli sprint sono stati pensati principalmente per due categorie specifiche: le startup, che in quanto tali hanno bisogno di validare la loro idee nel minor tempo possibile e col minore dispendio economico a causa delle loro incerte condizioni monetarie, e per le larghe imprese ed organizzazioni, allo scopo di rinnovarsi ma soprattutto innovarsi in una società dove la concorrenza lascia poco spazio e tempo per farlo.

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La settimana di ogni sprint è così divisa:

⁽ ¹⁷ ⁾ Jake Knapp, Sprint: how to solve big problems and test new ideas in just five days, Simon & Schuster, New York, 2016, p. 19.

• Lunedì: viene definito il problema e scelto uno tra i possibili modi di occuparsene; • Martedì: vengono realizzati una serie di sketch su carta riguardanti possibili soluzioni; • Mercoledì: vengono intraprese importanti decisioni, in modo da poter trasformare le idee in prototipi testabili.

• Giovedì: viene realizzato il prototipo; • Venerdì: viene testato con diverse persone.¹⁷ Ciò chiaramente non porta ad un prodotto prossimo ad essere lanciato sul mercato. Ma fa si che si vengano realizzati rapidi progressi, in modo da capire se vale la pena o no continuare con la progettazione, scartare l’idea oppure realizzare un altro design sprint, con una consapevolezza diversa: il processo è iterativo ed in quanto tale permette di approfondire sempre più le idee ed implementarle.

La “superficie” è importante. È lì che il prodotto o servizio incontra il cliente. Una volta realizzato e testato il prodotto, si può tornare indietro ed applicare migliorie sulla tecnologia.

Fig. 24 - La settimana tipo di uno sprint.

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Come già accennato nei capitoli precedenti, focalizzarsi sui prototipi permette di rispondere alle grandi domande ed evitare di immettere sul mercato un prodotto realizzato per i clienti sbagliati, che conseguentemente porta scarsi risultati.

⁽ ¹⁸ ⁾ Jake Knapp, Sprint: how to solve big problems and test new ideas in just five days, Simon & Schuster, New York, 2016, p. 33.

Knapp specifica nel suo libro che i design sprint non sono per tutti. In principio, c’è bisogno di talento, tempo e tanta energia, è importante ricordare che il suddetto team lavorerà per 5 impegnativi giorni. Egli ha trovato nel numero sette la dimensione migliore del team. Con otto o più persone, lo sprint si muoverà più lentamente, e sarà ancor più difficile mantenere tutti gli interlocutori focalizzati e produttivi. Inoltre, gli sprint risulteranno maggiormente gratificanti, quando vi è un gruppo misto: è importante avere all’interno del gruppo una serie di esperti, con tecniche specialistiche, in modo da poter valutare il problema da diversi punti di vista. In linea di massima, Knapp ha descritto un team ideale , composto da: • Il CEO, o chi prende le decisioni; • Un esperto in finanza; • Un esperto di marketing; • Un esperto di relazioni con i clienti; • Un tecnico/esperto di logistica; • Un esperto di design;

Fig. 25 - L’idea che sta alla base del metodo sprint, ovvero l’iterazione del metodo stesso per permettere una migliore validazione e prototipazione del prodotto o servizio.

CAPITOLO 2

Fig. 26-27 - Due illustrazioni rappresentanti due diverse fasi del metodo sprint, rispettivamente la fase di intervista e la fase di testing.

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CAPITOLO 3

3.1 – Startup: come l’dea diventa progetto

Al giorno d’oggi si sente molto parlare di startup innovative in Italia così come nel resto del mondo, come nuovo modo per creare imprenditoria, creare nuovi prodotti e di conseguenza soddisfare nuovi bisogni. Così quindi, giovani imprenditori di tutto il mondo si uniscono per dare forma a quelle che saranno le nuove imprese del futuro.

Le startup sono da tempo diventate un trend importante, si scrive molto al riguardo e nel bene e nel male è in atto una sorta di rivalutazione generale di ciò che può essere definita imprenditoria nel mondo. Ma cosa sono le startup?

Il termine startup deriva dall’inglese “inizio”, e sta ad indicare l’avvio di una nuova impresa, con tutto ciò che ne comporta a livello organizzativo e strutturale, quindi, in breve: • Ricerca del mercato potenziale; • Formulazione del modello di business; • Ricerca dei collaboratori; • Identificazione del corretto posizionamento; • Ricerca dei finanziamenti; • Stesura del piano marketing.

La definizione di startup nasce inizialmente riferendosi ad una particolare tipologia di società, ovvero quelle che operavano nel settore dell’informatica e della tecnologia più evoluta, in grado quindi di offrire soluzioni all’avanguardia.

CAPITOLO 3

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Altre opinioni, simili o contrarie a quella precedentemente specificata, arrivano da importanti attori nel mondo dell’imprenditoria e delle startup in particolare.

Ad esempio, secondo Paul Graham, imprenditore e cofondatore di Y Combinator, una società specializzata nel lancio e supporto di startup, c’è un aspetto imprescindibile che caratterizza in modo inequivocabile questa tipologia di azienda, vale a dire la capacità di crescere molto rapidamente:

⁽ ¹⁹ ⁾ Come ad esempio la possibilità per gli investitori iniziali di monetizzare il loro investimento vendendo la società in borsa.

“Una startup è una azienda progettata per crescere in fretta.

Essere una società appena fondata di per sé non rende una azienda una startup. Né è necessario per una startup lavorare nel settore tecnologico, o essere finanziata da un fondo di venture capital, o prevedere qualche tipo di “exit”.¹⁹ La sola caratteristica essenziale di una startup è la crescita. Ogni altra cosa che associamo da una startup discende dalla crescita.”

E ancora:

⁽ ²⁰ ⁾ <www.paulgraham. com/growth.html> [ ultima cons. 2018-01-14 ]

“Per svilupparsi velocemente è necessario produrre qualcosa che sia possibile vendere a un grande mercato. E proprio qui sta la differenza tra Google e un parrucchiere: un parrucchiere non punta a scalare il mercato, Google invece sì. Per poter crescere veramente tanto e in poco tempo, bisogna saper proporre qualcosa che il mercato vuole e che viene richiesto da un numero molto elevato di persone. E, cosa fondamentale, bisogna essere in grado di raggiungere tutte queste persone e di soddisfare le loro richieste.²⁰”

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Invece Steve Blank, importante imprenditore, accademico ed autore di diversi libri sull’argomento startup ed innovazione, definisce la startup come “un’organizzazione temporanea utilizzata per cercare un modello di business ripetibile e scalabile.”

Un’ultima importante definizione risulta quella coniata da Eric Ries, imprenditore ed autore del libro The Lean Startup, libro che divulgherà in tutto il mondo il metodo Lean (se ne parlerà nel successivo paragrafo): “Una startup è un’organizzazione umana progettata per creare un nuovo prodotto o servizio in condizioni di estrema incertezza.”

Lo stesso Ries, nel suo libro, tende a dare maggiormente importanza a ciò che la precedente definizione non specifica, ovvero la dimensione dell’organizzazione e il settore in cui opera, definendo imprenditore chiunque voglia creare un nuovo prodotto in condizioni del genere, qualunque esso sia il settore in cui lavora.

L’incertezza specificata da Ries, è più che tangibile. Nelle fasi iniziali delle imprese, le cosiddette startup non sanno ancora quali saranno i loro clienti o come il loro prodotto dovrà essere.

E più l’ambiente è incerto, più risulta difficile prevedere ciò che accadrà in futuro.

Le pianificazioni risultano nulle, nel momento in cui la startup opera da poco, non ha un target o un prodotto ben specifico.

In un ambiente del genere, senza una strategia vincente, le probabilità di successo sono pari a zero. L’unica certezza è la vision – e a volte neanche quella (se ne parlerà nel prossimo paragrafo).

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Secondo diversi studi, oltre il 50% delle startup falliscono nei primi quattro anni. Tra le maggiori cause di fallimento, troviamo:

⁽ ²¹ ⁾ STARTUP STATISTICS – The Numbers You Need to Know,<smallbiztrends. com>, 2016. [ ultima cons. 2018-01-14 ]

• Incompetenza: 46%; • Mancanza di esperienza manageriale: 30%; • Mancanza di esperienza riguardante prodotti o servizi: 11%; • Altro (include neglezione, frode e disastri): 13%.²¹ Risulta chiaro, dalle precedenti definizioni e statistiche, come il fattore tempo risulti elemento fondamentale per le startup.

La startup è una fase transitoria, è un percorso per trasformare un’idea in una grande impresa. Le nuove imprese che sono configurate come tali crescono in modo rapido attraverso un business model scalabile e ripetibile.

Con l’aggettivo scalabile si intende un’impresa che può aumentare le proprie dimensioni e conseguentemente il proprio volume di affari. Le startup quindi devono essere in grado di operare in un mercato molto ampio, con possibilità di crescita.

Per business model replicabile si intende invece un modello che può essere ripetuto nei suoi processi di vendita, di distribuzione in diversi luoghi e diversi periodi senza particolari modifiche.

Per permettere ciò, è fondamentale che le startup abbiano accesso al capitale di rischio (venture capital, business angel, fondi seed, sia in fase di formazione del business model, che in fase di crescita) e a strutture, come incubatori ed acceleratori che possano velocizzare i loro processi.

Con capitale di rischio si fa riferimento al capitale che viene conferito da un soggetto terzo alla startup. Può essere di due tipi: pubblico o privato. Il primo viene erogato da Stati ed enti territoriali a condizioni particolari e differenti rispetto al capitale di rischio privato, che viene erogato da Business Angel e Venture Capital.

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I Business Angel si occupano di fare investimenti nelle prime fasi del ciclo di vita di un’impresa. Sono altresì definiti seed perché apportano esperienza manageriale e supporto commerciale alle startup. I Venture Capital invece, portano maggior capitale di rischio, nel momento di startup avanzato.

Invece, per quanto riguarda incubatori ed acceleratori, sono entrambi luoghi fisici, dove si condividono spazi e servizi utili alla crescita delle startup. In particolare, negli incubatori non è prevista attività di mentorship per le startup, ma il luogo mette a disposizione networking, spazio e connettività.

Negli acceleratori, le startup sono supportate dal mentorship, ovvero da imprenditori ed in generale da persone con competenze verticali che, tramite la loro conoscenza hanno lo scopo di indirizzare gli startupper nelle prime fasi, concedendo un importante aiuto per quanto riguarda: • Definizione del business model; • Preparazione di prototipi riguardanti il prodotto o servizio attorno il quale si è sviluppata la startup; • Effettuazione riguardante i primi test del prodotto o servizio; •Realizzazione dell’Elevator Pitch.

E molto altro ancora.

Secondo Ries, Fredrick Winslow Taylor definì quello che è comunemente inteso come approccio al management nel suo libro “The Principles of Scientific Management”: il miglioramento dei singoli lavoratori, il controllo per eccezione, il lavoro standardizzato in mansioni, e così via. Ma soprattutto diffuse l’idea che il lavoro possa essere studiato e migliorato tramite lo studio scientifico.

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L’organizzazione Scientifica del Lavoro (OSL) è un approccio che agisce attraverso la leva della divisione del lavoro, presentandosi come una costruzione teorica diretta ad affermare il primato assoluto dell’organizzazione di impresa su ogni altro componente sociale che ci lavora, trovando la base di legittimazione nella scienza e nel concetto di one best way, la sola ed unica soluzione ottimale che è possibile raggiungere con adeguati metodi di ricerca scientifica.

⁽ ¹⁸ ⁾ Eric Ries, The Lean Startup: How Today’s Entrepreneurs Use Continuous Innovation to Create Radically Successful Businesses, Crown Business, New York, 2011, p. 11.

Fig. 28 - Rappresentazione visiva del cosiddetto elevator pitch, ovvero il discorso con cui ci si presenta ad eventuali investitori, chiamato così per via della sua brevità e necessaria efficacia.

Tuttavia, quando si parla di startup ed innovazione, non esiste teoria scientifica che regga. Ed è qui che il metodo Lean Startup “cerca di assicurare a coloro che vorranno realizzare il prossimo prodotto innovativo gli strumenti necessari per cambiare il mondo” .

3.2 – Business Model Canvas: il cuore di ogni startup

Il cuore dell’intera progettazione, per ogni team alle prese con la fase di avvio di una startup, è la compilazione di un apposito Business Model Canvas. Questo non è altro che un documento, che permette una schematizzazione degli elementi che descrivono un prodotto o azienda.

Inizialmente proposto da Alexander Osterwalder, il BMC è composto da diversi blocchi (Per facilitare la comprensione dei suddetti blocchi, prenderò come esempio Spotify, la nota applicazione di streaming di musica): • Attività chiave: ovvero le più importanti attività che l’azienda ha bisogno per funzionare bene. Spotify, certamente ha bisogno di una particolare manutenzione riguardante i software, così come deve riuscire a gestire l’enorme database musicale, senza dimenticare l’acquisizione di nuovi contenuti; • Risorse chiave: ovvero le risorse che creino valore per gli utenti finali. Sono considerate come un assetto dell’organizzazione, in quanto sostengono e supportano il business. Possono essere risorse umane, finanziarie, fisiche o intelletuali. Ad esempio, Spotify può avere come in qualità di risorse chiave i contratti, il brand, il contenuto così come, ovviamente, gli impiegati; • Partner chiave: ovvero il network di partner che portano alla startup risorse ed attività esterne. Per Spotify, i partner chiave sono rappresentati dalle case discografiche e coloro che hanno i diritti patrimoniali sulla musica;

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• Segmento di clientela: ovvero i segmenti che, in seguito ad un’efficace analisi di mercato, risultano essere i principali utilizzatori del prodotto o servizio. Nel caso di Spotify, i segmenti individuati sono i “fruitori del servizio gratuito”, i “fruitori del servizio premium” e gli “inserzionisti”; • Proposta di valore: ovvero una serie di proposte che mirano alla risoluzione di un dato problema e che risultano conseguentemente di valore per i segmenti di clientela che ne faranno uso. Ad esempio, per quanto riguarda il segmento di clientela “fruitori del servizio gratuito” le proposte di valore possono essere l’accesso ad un vastissimo database musicale in maniera totalmente gratuita (con l’inserimento di pubblicità) così come l’accesso immediato al servizio di streaming Invece, i “fruitori del servizio premium” avranno l’accesso al servizio senza pubblicità ed interruzioni pubblicitarie nonché la possibilità di poter salvare offline le canzoni. Infine, il segmento “inserzionisti” utilizzeranno il servizio in maniera effettiva, con la facoltà di poter raggiungere oltre 140 milioni di utenti attivi iscritti al servizio gratuito; • Canali: ovvero i mezzi attraverso il quale la proposta di valore viene attuata. Nel caso di Spotify, i canali risultano essere le applicazioni PC, web e mobile.

• Relazioni con il cliente: ovvero i mezzi attraverso il quale viene instaurata e si mantiene una relazione con ogni segmento di clientela. Spotify intrattiene una relazione con i propri clienti attraverso le sue stesse piattaforme di streaming così come attraverso una vasta comunità presente sul proprio sito internet così come nei principali social network;

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• Costi di struttura: ovvero le spese che l’azienda dovrà intraprendere per permettere la produzione del prodotto o l’esercizio del servizio. Deve risultare sempre minore rispetto i guadagni. Nel caso Spotify, i costi risultano essere le royalties sulla musica, i salari ed i costi dei server; • Guadagni: ovvero il risultato economico che genera la proposta di valore. Spotify guadagna attraverso la quota degli iscritti al servizio premium così come dalla quota che pagano gli inserzionisti.

In definitiva, il Business Model Canvas è uno strumento di estrema importanza, facilmente comprensibile per chiunque che esamina la struttura di un’azienda o prodotto, al fine di: 1. Essere presentabile ai portatori di interessi così come agli investitori; 2. Analizzare la struttura della propria azienda in maniera semplice, implementando la proposta di valore così come qualsiasi altro elemento qualora si vengano a formare delle lacune (ad esempio qualora le spese superino i ricavi oppure qualora il segmento di mercato sia troppo ampio e di conseguenza poco convincente).

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Fig. 29 - Esempio di BMC con le sezioni ben definite.

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3.3 – Il metodo Lean Startup

Ai superati metodi di management tradizionale, Eric Ries tenta di dare una risposta attraverso la metodologia del Lean Startup. La sua attività di imprenditore e l’esperienza maturata con i successi, ma soprattutto con i suoi fallimenti, lo spinsero a voler eliminare gli sprechi che osservava attorno a sé, ovvero la costituzione di prodotti che non vuole nessuno, con la conseguente mancata realizzazione di innumerevoli sogni. Ries quindi si pose una mission, quella di aumentare le probabilità di successo delle nuove imprese, innovative e non, attraverso questa metodologia altrettanto innovativa.

Il Lean Startup prende il suo nome dal sistema Lean Manifacturing implementato in Toyota da Taiichi Ohno e Shigeo Shingo. Il sistema Lean si basava sulla creatività del singolo lavoratore, la produzione just-in-time, il controllo delle rimanenze e la velocizzazione dei tempi ciclo, creando così qualità nei prodotti. Adattate al contesto imprenditoriale, il Lean Startup rivoluziona i processi, plasmando concetti di Design Thinking, customer e agile development ed altre idee di sviluppo dei prodotti, permettendo: • Tempi ciclo velocizzati; • Focus su ciò che il cliente vuole davvero; • Approccio scientifico nel prendere decisioni.

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Il Lean Startup si basa su cinque principi: 1. Gli imprenditori sono ovunque. Il concetto di imprenditoria include chiunque lavora in ciò che Ries definisce come startup.

Di conseguenza gli imprenditori sono ovunque, e l’approccio Lean Startup funziona in qualunque compagnia, in qualunque settore; 2. L’imprenditoria è management. Le startup sono istituzioni, non solo prodotti, quindi richiedono un nuovo tipo di management funzionante in un contesto di estrema incertezza; 3. Validated Learning. Le startup non esistono soltanto per realizzare prodotti e realizzare profitti. Esistono per imparare come costituire un business sostenibile. Ciò è validato scientificamente attraverso l’attuazione di frequenti esperimenti che permettono agli imprenditori di testare ogni elemento della loro Vision; 4. Sperimenta-Misura-Apprendi. L’attività principale di ogni startup è quella di trasformare idee in prodotti, misurare come i clienti rispondono a quel determinato prodotto, e capire quando effettuare un pivot, oppure perseverare su quella stessa idea. Qualunque startup di successo dovrebbe applicare questo processo di feedback loop; 5. Contabilità dell’innovazione. le startup per quanto dinamiche, necessitano anche di essere monitorate tramite attività “noiose”, come il controllo di gestione, la misurazione dei progressi, il porsi degli obiettivi e delle priorità.

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Il Lean Startup favorisce: • La sperimentazione contro l’elaborata pianificazione; • Il feedback dei clienti contro l’intuizione; • L’iterazione del modello “big design up front”, tramite validated learning, minimum viable product e pivoting, elementi alla base del Lean Startup. È importante specificare alcuni degli elementi precedentemente descritti, in quanto fondamentali per una comprensione del metodo. Il Validated Learning è uno dei pilastri delle logiche Lean. Si fonda su tre passi: Sperimenta, Misura, Apprendi. La fase di sperimentazione consiste nel realizzare un prototipo che possa essere proposto al cliente target. Non si tratta del prodotto finito, piuttosto del cosiddetto Minimum Viable Product (MPV), ossia una versione minimale che accorpi gli attributi di base. La finalità di questa fase è quella di comprendere se il prodotto proposto possa o meno soddisfare i bisogni degli “early adopters”. Questo tipo di clienti è più propenso ad accettare versioni preliminari del prodotto.

Comprendere la loro approvazione o meno è importante e influenza il giudizio del consumatore mainstream.

La fase di misurazione ha l’obiettivo di comprendere i punti di forza e debolezza del progetto attraverso la misurazione attraverso le “3 A”, secondo il quale un indicatore di performance deve essere contemporaneamente Actionable, quindi devono dimostrare una chiara causa ed effetti correlati, Accessible, ovvero facilmente accessibile a chiunque, da impiegati così come da manager, ed infine Auditable, quindi facilmente verificabile nella sua correttezza. Ries consiglia inoltre di evitare giudizi sulla base delle cosiddette “vanity metrics”, ovvero indicatori he non forniscono una valida misurazione della performance raggiunta, ad esempio il numero di visualizzazioni di un video.

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L’ultima fase, la fase di Apprendimento ha l’obiettivo di comprendere gli insegnamenti ricevuti nella fase di misurazione per decidere se mettere in atto azioni correttive al progetto o mantenere l’impostazione iniziale, e quindi, di conseguenza, effettuare un pivotaggio o perseverare. È importante non rimanere troppo ancorati ad un iniziale idea, in quanto il progetto potrebbe necessitare, a volte di piccoli aggiustamenti, altre volte invece di un totale cambio di direzione.

Fig. 30 - Rappresentazione del metodo Lean, nel quale viene sottolineato la caratteristica iteratività delle varie fasi.

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CAPITOLO 4

4 – Metodologia progettuale applicata: il caso “ImmersivArt”

Durante la fase di studio riguardante la tesi, avendo espresso preventivamente la volontà di districarmi e approfondire il mondo delle startup e della “nuova imprenditoria” (“giovane imprenditoria” a volte non è esatta, come terminologia) sono stato spinto dal Prof. Esposito Ciro – nonché mio relatore – a partecipare ad un importante evento, quasi capitato a pennello: Startup Weekend Catania 2017.

Startup Weekend è un format di eventi, nato nel 2007 in Boulder, Colorado, dalla passione di Techstars con il supporto di Google for Entrepeneurs – importante gruppo di supporto, economico e non, per le startup – con l’obiettivo di avvicinare i giovani così come chiunque altro al mondo delle startup, fornendo un’ampia conoscenza del fenomeno, nonché l’adatto supporto attraverso l’esperienza di un largo numero di esperti del settore attraverso un workshop dalla durata di 54 ore (3 giorni di attività – un weekend per l’appunto).

Formare una startup da zero, senza le competenze che si richiedono nell’ambito imprenditoriale, può risultare a prima vista qualcosa di complicato. Startup Weekend ambisce a colmare queste lacune attraverso una serie di attività che, seppur intraprese in maniera giocosa e mai senza prendersi troppo sul serio, mirano a poggiare una base per coloro vogliano – una volta finito il “gioco” delle 54 ore – avviare un’attività imprenditoriale reale.

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Nella prima giornata si da il via ad una serie di attività di conoscenza fra i vari partecipanti, i quali poi verranno distinti inizialmente in tre macro-categorie: Tech, ovvero i tecnici, coloro le quali competenze riguardino i campi dell’informatica, della programmazione – o simili; i Designer, ovvero personalità con competenze riguardanti tutto ciò che concerne la progettazione: dalla grafica, l’editoria, il web/app design; infine i Non Tech, ovvero coloro che per via del loro percorso scolastico o universitario, non rientrano nelle prime due categorie e coprono i campi più disparati: dal campo business a quello legale, passando per l’architettura e così via. Questi ultimi a volte partecipano a questi eventi spinti dalla curiosità, la voglia di voler provare nuove esperienze, mettersi in gioco.

Ogni Startup Weekend è differente: nonostante il format sia pressochè lo stesso in tutto il mondo, ogni edizione copre una tematica differente. E seppur possa capitare che due differenti Startup Weekend stiano utilizzando la stessa tematica contemporaneamente, non sarà comunque la stessa cosa. Come approfondito nei capitoli precedenti – e spesso comunque è dato per scontato – ogni cultura (e probabilmente ogni persona) possiede un modo diverso di comprendere, vivere ed applicare la progettazione, il design.

L’edizione di Catania trattava il tema delle Smart Cities, le cosiddette “città intelligenti”, ovvero quelle città che tramite una serie di pianificazioni urbanistiche – oltre che di implementazioni tecnologiche – mettono in relazione le infrastrutture con coloro che le abitano. Quindi grazie a queste innovazioni in campo di comunicazione, ambiente, energia si tende a migliorare la qualità della vita, rispondendo alle esigenze dei cittadini. È una terminologia piuttosto recente (risale al 2010), perciò è stata un’ottima occasione, quella di Startup Weekend Catania, per poter trattare il tema, specie nel territorio Siciliano, che spesso passa in secondo piano quando si parla di innovazione e tecnologia.

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Proseguendo la prima giornata, dopo le attività e speech iniziali, i partecipanti vengono spinti a proporre una serie di idee – riguardanti l’argomento – attorno al quale poi si baseranno le due successive giornate. Molteplici sono state le idee proposte, coprendo argomenti interessanti, capaci di rendere una città davvero smart: c’è chi ha pensato ad un servizio di droni in giro per la città, che una volta richiamati tramite app, rispondono a determinate esigenze ad esempio riguardo gli eventi che si svolgono nel breve periodo in quella zona; c’è chi ha pensato ad un servizio di cassonetti intelligenti, che nel momento in cui il sensore rileva sia pieno avvisa chi di dovere per svuotarlo; c’è chi ha pensato ad un servizio di promozione culturale della città attraverso una serie di percorsi creati ad hoc per ogni utente.

Giungendo alle tre idee, risultate poi vincitrici di Startup Weekend Catania; TicketUp, un’applicazione che, vende i biglietti per autobus attraverso la gamefication, puntando ad eliminare il fenomeno dell’evasione sui bus; Coorto, un progetto di agricoltura sociale che, attraverso una piattaforma di match-making, mette in contatto coloro che hanno un terreno in disuso e chi invece ha intenzione di coltivarlo; infine ImmersivArt, progetto che ho curato insieme ad un team di altri 7 ragazzi, che si pone come obiettivo la realizzazione di un nuovo modo di comunicare l’arte, permettendone la fruizione in una maniera maggiormente innovativa e tecnologica attraverso l’utilizzo della realtà aumentata (AR).

Le idee “migliori”, ovvero quelle più accattivanti o interessanti per i partecipanti – similmente al metodo sprint di Knapp – sono state votate attraverso l’applicazione di un post-it. Ogni partecipante possedeva due post-it, e le dodici idee più votate sono passate alla fase successiva. I gruppi si sono formati attraverso l’adesione degli interessati ad i singoli progetti di startup, nella parte finale della prima giornata.

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Soffermandomi sul team del quale ho fatto parte – e del quale continuo a far parte, dopo questa splendida esperienza – il giorno seguente si è basato sulla vera e propria progettazione.

Entrati nel vivo dell’esperienza, bisognava procedere per fasi, cercando di portare “coerenza imprenditoriale” alla nostra idea di startup.

Attraversare le fasi di progettazione (descritte ampliamente nel capitolo 3) in soli due giorni (che tolte le – poche – ore di sonno diminuivano comunque il tempo) non è stato semplice: alcune attività progettuali, specie quelle iniziali come la ricerca ma soprattutto la validazione hanno bisogno di maggior attenzione. Validare su un prototipo esistente soltanto a “livello mentale” risulta faticoso; la reazione dei soggetti al quale veniva esplicata l’idea risultava sicuramente positiva, tuttavia il non avere qualcosa “tastabile” con mano propria riduce decisamente il valore di suddette validazioni. Tuttavia una buona validazione ci veniva fornita dai mentor, ovvero le personalità con larga esperienza in ambito imprenditoriale, grafico, comunicativo e così via, i quali, attraverso una serie di piccoli incontri, oltre che “smontare” le nostre idee, impersonavano anche i possibili clienti.

Obiettivo principale, in primis, era la compilazione del Business Model Canvas. L’idea fu quella di dividerci per gruppi di due persone, esaminando i singoli “blocchi” della canvas.

Il terzo ed ultimo giorno ci si è soffermati maggiormente su quella che è la “parte visiva”, composta dalle slide ma anche sull’elevator pitch. Abbiamo lavorato duramente e per la mattina avevamo già pronto un prototipo di applicazione (chiaramente in mockup) ed il “nocciolo software” realizzato in unity attraverso un framework in AR.

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L’idea proposta poi ai giudici quel giorno stesso non era più quella iniziale, aveva subito una serie di “pivotaggi”, tuttavia non era più di colui che diede l’input proponendo l’idea, era nostra. Una delle frasi più ripetute quel giorno fu «se abbiamo fatto questo in meno di 54 ore, figurati in una vita intera».

Non so se ImmersivArt riuscirà ad andare avanti come idea di startup, non so se riuscirà mai ad entrare realmente in quella prima fase aziendale che è la startup, tuttavia mi ha fatto comprendere l’importanza di due concetti – adesso ben impressi nella mia memoria: LE DEADLINES SONO NECESSARIE. Prendersela con comodo non solo andava contro l’idea di fondo di Startup Weekend Catania, ma soprattutto non ci avrebbe fatti arrivare dove siamo adesso. È importante stabilirsi delle scadenze e rispettarle il più possibile. Solo ciò forma più del 50% del prodotto finale.

IL LAVORO IN TEAM È LA BASE. Seppur questo approccio necessiti di molta sintonia tra i singoli partecipanti al team, una sola testa pensante non sarà mai così efficiente tanto quanto 5 teste pensanti. Sono importanti i punti di vista di chiunque, le idee di chiunque così come il lavoro di chiunque. Addossarsi buona parte del lavoro, seppur possa farci pensare «me lo sono fatto io ed è come voglio io» oltre che rallentare evidentemente il lavoro non permette nessuna crescita personale e lavorativa. Il confronto è di estrema importanza, in quest’ambito.

CAPITOLO 4

Fig. 31-32 - Un paio di scatti realizzati durante lo Startup Weekend Catania 2017, il primo raffigurante lo spazio di lavoro, il secondo rappresentante il team di ImmersivArt.

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CONCLUSIONE

«Good design is like a refrigerator — when it works, no one notices, but when it doesn’t, it sure stinks.»

- Irene Au

Alla fine di questo percorso, sembra doveroso parlare ancora di design. Questa parola, ripetuta svariate volte in questo testo, comincia ad acquisire non un significato, bensì molteplici.

Giusto che sia così: molteplici sono i punti di vista in fase di metodologia progettuale, maggiori probabilmente i beni e servizi che ci circondano saranno di buon design.

Il cattivo design, la cattiva progettazione, la troviamo dovunque. Lo notiamo quando il telecomando del nostro televisore ha un’infinità di pulsanti; ci sentiamo confusi anche quando non riusciamo ad utilizzare una lavatrice, se non guidati da un manuale d’uso; quando il sito che stiamo visitando non ha una gerarchia visiva comprensibile.

Questi oggetti, questi servizi sono il risultato di una mancata comunicazione, empatia e focus progettuale. Una lancia è stata spezzata, nel capitolo 1, in favore delle compagnie ed aziende recenti e non: in tempi recenti si sta assistendo ad una sorta di nascita di un linguaggio comune, che apporta innovazione attraverso il design: le compagnie stanno facendo proprio il concetto secondo il quale il design rappresenta un vantaggio competitivo che le differenzia rispetto le compagnie concorrenti.

Durante il percorso abbiamo scoperto i principali approcci al design. Questi non fanno altro che contenere le metodologie progettuali discusse ampliamente nel capitolo 2. Il design è un’arma potentissima, che permette, attraverso un set di processi cognitivi, di applicare procedure di problem solving. È doveroso raccontare una storia.

CONCLUSIONE

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Dal 1950, Dieter Rams entra a far parte del dipartimento design di Braun, realizzando degli oggetti strepitosi, caratterizzati da un’umiltà, semplicità unici, che hanno segnato il successo di tante altre aziende che hanno seguito la sua visione del design come “less is better”, meno è meglio. È così che ad esempio Apple realizza svariati prodotti, che hanno segnato la storia del design. Perché funzionano, questi prodotti? Perché sono semplici e funzionali.

Certo, è un approccio che non funziona sempre, ma questa esperienza porta con sé un’importante messaggio: certamente Apple si è posto un determinato problema di design al quale ha saputo rispondere attraverso un’ottima fase di osservazione, ideazione, prototipazione e verifica. Il design deve risolvere problemi, sempre. Non è mera estetica. È importante anche contrapporre la definizione delle metodologie progettuali con quelle che sono le esperienze di startup, che sono state affrontate nel capitolo 3. Perché?

Le aziende, tradizionalmente realizzavano un prodotto con la speranza di trovare un mercato disposto a comprarlo.

Fig. 33 - Un chiaro esempio di come i design di Rams siano stati decisamente d’ispirazione per Apple.

CONCLUSIONE

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Progettare con metodo, ed applicare il metodo lean startup così come il metodo sprint permette di comprendere i problemi degli utenti, anziché presentare soluzioni basate sulle intuizioni degli sviluppatori. Il design thinking enfatizza la desiderabilità degli utenti ed identifica potenziali lacune nelle intuizioni delle organizzazioni. L’approccio aiuta gli imprenditori a comprendere cosa viene richiesto per validare la loro vision, prima di entrare in costosi cicli di sviluppo. Portare un esempio, come quello descritto nel capitolo 4, aiuta a contestualizzare la situazione. Questa tesi non ha la pretesa di definirsi completa; come già definito, le metodologie progettuali applicabili sono infinite e variano col passare del tempo, dei desideri e delle esigenze degli utenti finali.

Però, in fondo, iniziare un’attività imprenditoriale è semplice: basta una buona idea, e una buona metodologia progettuale applicata.

Fig. 34 - Ogni elemento del team è di fondamentale importanza, in una startup così come in una grande organizzazione.

Ringraziamenti

C’è chi dice che i ringraziamenti sono semplici da scrivere: intendiamoci, è un’occasione per svagarsi dalla scrittura di tesi e raggiungere le battute necessarie per poterla definire tale. Tuttavia, chi mi conosce a fondo sa quanto io sia una persona nostalgica, sentimentale; per me i ringraziamenti rappresentano un momento di estrema riflessione, dove poter riordinare mentalmente i 3 anni vissuti a Catania ma anche riviverli negli alti e bassi, nelle persone che mi sono state accanto anche soltanto un minuto, che mi hanno permesso di crescere, dal punto di vista esperienziale e lavorativo ma soprattutto di migliorarmi.

A volte, riaffiorano ricordi riguardanti la mia infanzia, la mia prima adolescenza (sono ancora adolescente, vero?). Piccoli flash, dei fuochi d’artificio, come quelli che da piccolino mi facevano gattonare sotto il tavolo della cucina; in quella casa dove ho vissuto oltre sedici anni.

Poi il buio.

Voglio dire, a volte riaffiorano anche altri ricordi, ma è tutto così offuscato che probabilmente tendo a confondere la realtà con la fantasia. In realtà, ho solo una terribile paura: quella di non ricordare. Quando sento le persone raccontare la propria vita adolescenziale un poco mi intristisco: sento che i miei ricordi stanno diventando vaghi, smetto di ricordare i luoghi, le persone, gli odori. Ho una possibilità, adesso: quella di poter scrivere qui, nero su bianco, queste righe, nella speranza che un giorno riescano a far riaffiorare quanti più ricordi possibile.

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Al me del futuro, auguro di poter ricordare ogni singolo momento vissuto in accademia, auguro di poter ricordare i sorrisi, gli attimi di gioia ma anche quelli di sconforto. Sono momenti unici, irripetibili; ti auguro di farne tesoro, Roberto.

In tutta la mia vita, non ho mai dedicato nulla a nessuno. Non per egoismo o quant’altro, ma solo perché credo che non si debba dedicare qualcosa se non è qualcosa di proprio. A dedicare canzoni siamo tutti bravi; a raggiungere traguardi no.

Qualcuno potrebbe anche non essere d’accordo con questa affermazione, perché «d’altronde è un pezzo di carta, questo diploma, I veri traguardi sono la casa, la macchina nuova».

Questa tesi è frutto di serate insonni passate bevendo caffè, studiando e scrivendo. È frutto di un percorso durato 3 anni; porta sì ad un traguardo, ma non solo: porta ad un nuovo punto di partenza. E per la prima volta ho la consapevolezza del tempo che ho speso, so che ha portato a qualcosa, so che esco da questi tre anni come una persona nuova, più matura, con più esperienza e decisamente carica: il futuro porta con sé nuove sfide, nuove occasioni per allargare gli orizzonti e vivere intensamente, ma sempre con la testa sulle spalle.

Proprio per questo, nonostante per Voi possa sembrare banale, voglio dedicare la tesi a mia Madre: se sono arrivato fin qui, è anche grazie alla tua persona; mi hai guidato nelle scelte, anche se da lassù, ne sono convinto.

Ringrazio Il mio relatore, il Professore Esposito per la estrema disponibilità; ho sempre apprezzato le sue lezioni, il suo metodo e continuerò a farlo, a maggior ragione dopo questo percorso di tesi. È stata dura, ma mai impossibile. Le sue enormi competenze hanno fatto si che io scegliessi la strada giusta da percorrere. Interessarsi sotto qualunque aspetto delle tesi prodotte da noi studenti, non è da tutti e soprattutto è da elogiare.

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Ringrazio mio padre, Flora, mio fratello. Senza di voi sicuramente non avrei mai ricevuto l’adatto supporto economico ed emotivo. Da buon studente fuorisede, adoro tornare a casa per trovarmi un piatto di pasta già pronto a tavola: quei piatti trasudano sempre amore nei miei confronti, lo apprezzo.

Ringrazio Catania. Questa città mi ha ospitato questi tre anni nel migliore dei modi. Mi ha permesso di crescere, mi ha reso indipendente, mi ha rispettato. Sembra stupido da dire, ma quando trovi un ambiente consono alle tue esigenze, sicuramente il percorso formativo ed esperienziale risulta amplificato. Ho in mente di attraversare un secondo percorso formativo, non so se rimarrò qui a Catania, ma grazie. Ho conosciuto tante persone stupende, con il quale ho lavorato ma anche fatto amicizia. Ringrazio anche voi, di cuore.

Siete tanti, lo sapete. Però sono contento di avervi conosciuti tutti, colleghi. Chi più, chi meno, avete contribuito al mio percorso, siete sempre stati disponibili, mi avete sempre aiutato, e mi auguro questi rapporti saranno ancor più consolidati col tempo. Non voglio dimenticarvi.

Ringrazio gli amici di una vita. I miei compaesani il quale spesso non ho considerato in questi tre anni, ma che mi hanno sempre supportato anche soltanto con un sorriso. Vi chiedo scusa, mi impegno a restare maggiormente in contatto con voi.

La distanza è una sciocchezza, quando si è connessi col cuore.

Non voglio fare nomi, ma infine voglio ringraziare tutti voi: Professori, colleghi, amici, conoscenti, anche voi semplici curiosoni che state leggendo queste pagine. Si dice che le persone che ti circondano sono il carburante della vita. Voi siete il mio carburante, che mi spinge a fare sempre di più, ad apprezzarmi per quello che sono, a svegliarmi ogni giorno con un nuovo obiettivo.

Grazie, ci vediamo presto.

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