Rivista Marittima Febbraio 2022

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FEBBRAIO 2022

RIVISTA

MARITTIMA SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. L. 46/2004 ART. 1 COMMA 1) - PERIODICO MENSILE € 6,00

MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica Alberto Pagani

Sahel Matteo Perego di Cremnago

Il Medio Oriente in una nuova fase Germano Dottori



Sommario PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE PRIM PRIMO MO P PIANO IANO

6 La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

60 Il potenziamento delle principali Marine del GCC Luca Peruzzi

Alberto Pagani

SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE

74 Mar Rosso: da sempre strategico 30 Sahel

Enrico Cernuschi

Matteo Perego di Cremnago

STORIA E CULTURA MILITARE

84 La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi 34 Il Medio Oriente in una nuova fase

Maria Grazia Bajoni

Germano Dottori

42 La «guerra ombra» che infiamma il Medio Oriente

94 In ricordo dell’ammiraglio Pier Paolo Ramoino

Lorenzo Vita

RUBRICHE

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Verso un nuovo accordo sul nucleare iraniano: possibili scenari e conseguenze globali Matteo Bressan

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Focus diplomatico Osservatorio internazionale Marine Militari Che cosa scrivono gli altri Recensioni e segnalazioni

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RIVISTA

MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

PROPRIETARIO

EDITORE DIFESA SERVIZI SPA UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248-54 Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx

DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza

CAPO REDATTORE Capitano di fregata Gino Lanzara

REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Sottotenente di vascello Margherita D’Ambrosio Guardiamarina Giorgio Carosella Sottocapo di prima classe scelto Luigi Di Russo Tel. + 39 06 36807254

IN

COPERTINA: Unità classe FREMM della Marina, impegnata nell’area del Corno d’Africa nel contrasto al fenomeno della pirateria.

SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo

FEBBRAIO 2022 - anno CLIV

UFFICIO ABBONAMENTI E SERVIZIO CLIENTI Primo luogotenente Carmelo Sciortino Tel. + 39 06 36807251/12 rivista.abbonamenti@marina.difesa.it

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REGISTRAZIONE TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N. 267 - 31 luglio 1948 Codice fiscale 80234970582 Partita IVA 02135411003 ISSN 0035-6964

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Onorevole Alberto Pagani

Professor Germano Dottori Dottor Lorenzo Vita Professor Matteo Bressan Dottor Luca Peruzzi Dottor Enrico Cernuschi Professoressa Maria Grazia Bajoni Ambasciatore Adriano Benedetti, Ambasciatore Paolo Casardi,

COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA

Circolo di Studi Diplomatici

Prof. Antonello BIAGINI, Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI, Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI Prof. Massimo DE LEONARDIS, Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI, A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE

Dottor Enrico Magnani

COMITATO EDITORIALE DELLA RIVISTA MARITTIMA C.A. (aus) Gianluca BUCCILLI, Prof. Avv. Simone BUDELLI, A.S. (ris) Roberto CAMERINI, C.A. (ris) Francesco CHIAPPETTA, C.A. (ris) Michele COSENTINO, C.V. (ris) Sergio MURA,

Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino Ammiraglio ispettore (aus) Claudio Boccalatte Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Ammiraglio ispettore (ca) Vincenzo Martines

Prof.ssa Fiammetta SALMONI, Prof.ssa Margherita SCOGNAMIGLIO, Prof. Tommaso VALENTINI, Prof. Avv. Alessandro ZAMPONE Gli articoli sono soggetti a peer review double blind

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E ditoriale

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uesto numero è dedicato al Medio Oriente. Dovremmo chiamarlo Vicino Oriente (VO) o, ancor meglio, Levante. Il termine Vicino Oriente dà, infatti, nel senso più immediato la netta percezione della breve distanza da un’area geografica per noi tradizionalmente prossima rispetto al remoto Estremo Oriente. La Treccani, d’altra parte, libera come è da certi inglesismi, parla chiaro: «… usata per designare i paesi del Mediterraneo orientale e dell’Asia di Sud Ovest, che in passato erano anche chiamati Paesi del Levante o semplicemente Levante. Vengono di solito compresi nel VO: la Turchia Asiatica, la Persia, la Siria e il Libano, Cipro, lo Stato d’Israele, la Giordania, l’Iraq, i Paesi della Penisola araba e anche l’Egitto» (1). A suo tempo i geografi britannici avevano diviso l’Oriente in tre parti: Vicino Oriente (Near East) la regione più vicina all’Europa che si estende dal Mar Mediterraneo al Golfo Persico; Medio Oriente (Middle East), dal Golfo Persico al Sud Est dell’Asia; Estremo Oriente (Far East) le regioni che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Il termine «Middle East» sembra sia stato coniato nel 1850 dal British India Office. L’uso si estese in seguito grazie anche all’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (2), famoso storico e padre del «navalismo», per designare l’area compresa tra la Penisola arabica e l’India. Nel giugno 1939 i britannici crearono il Middle East Command destinato a comprendere, in funzione anti-italiana, l’immensa area che da Malta fino all’Egitto e all’Iraq si estendeva ad Aden, al Sudan e al Kenya. Da allora, come riporta l’Enciclopedia Britannica (3), il Middle East è rimasto più o meno lo stesso: Turchia; Cipro; Siria, Libano, Iraq, Iran, Israele, Giordania, Striscia di Gaza, Egitto, Sudan, Libia, i vari stati della Penisola arabica (Arabia Saudita, Kuwait, Yemen, Oman, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), Iran, Afghanistan e Pakistan. In pratica Vicino e Medio Oriente si sovrappongono. Ed è interessante notare come la parte orientale del Mediterraneo allargato comprenda questa stessa mezzaluna fertile, come la chiamavano i sultani turchi. Giriamola come vogliamo, ma sempre qui si torna: alla culla della civiltà — quantomeno in senso occidentale, dalle tavolette cuneiformi in poi — e delle religioni monoteistiche. E, come al solito, geografia e geopolitica vanno a braccetto con l’economia: dall’età del bronzo a quella, non certo ancora esaurita, del petrolio o, meglio, SEGUE A PAGINA 4

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degli idrocarburi. E la chiave per comprendere un mondo che non cambia mai proprio perché muta, e si adatta di continuo, rimane la geopolitica. Per gli italiani l’Oriente non è mai troppo lontano e chi va per mare lo sa ancora di più. Da sempre il Vicino Oriente ha influenzato l’Occidente e oggi, più che mai, in un mondo iperconnesso e globalizzato, è ancora più facile accorgersene. Non parliamo, poi, della storia: Sumeri, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Egiziani, Ebrei, Nisseni, Caldei, Etiopi, Copti, Bizantini, Arabi. Commerci, guerre, religioni, architetture eterne e chi più ne ha, più ne metta. Ma, è bene aggiungere subito, anche conflitti ideologici, prima ancora che territoriali, spietati e, inoltre, duelli mortali tra Occidente e Oriente. Non è questa la sede per riassumere, in poche e impossibili righe, la storia di due millenni. È però sicuro lo scambio reciproco tra le culture. Unica bussola la tutela da parte di ciascuno (e quindi anche dell’Occidente comunemente inteso) dei legittimi interessi: dalla sicurezza dei confini (un concetto questo, tutt’altro che scontato, come conferma la recentissima cronaca europea) agli interessi commerciali. E ora, sul piano geostrategico, si è recentemente aggiunto anche il colosso cinese, con la cosiddetta Nuova Via della Seta, che poi tanto nuova non è; né va dimenticata la presenza russa nel Mediterraneo. In breve, tutti sono parti in causa e il motivo è semplice: il 90% del traffico mondiale avviene per mare e le rotte marittime, in primis il Canale di Suez, gli Stretti e Gibilterra, sono gli snodi cruciali. Pertanto il nostro VO è un pivot geopolitico del massimo interesse in vista della stabilità, in realtà sempre e inevitabilmente dinamica. E intorno a questo «perno» non si muovono soltanto interessi esterni, ma anche endogeni, basti pensare, tra i tanti, al caso dell’ISIS, Stato o movimento che ha dimostrato di essere tutt’altro che passeggero. In questo scenario complesso l’Italia, le sue Forze armate e, naturalmente, la Marina Militare rivestono un ruolo determinante per la stabilizzazione dell’area, a supporto della difesa collettiva e per la tutela di quelli che sono gli interessi nazionali vitali. Si pensi, tanto per fare un solo esempio, al riscaldamento, non quello globale, ma quello, più modestamente, delle nostre case. Dal secondo dopoguerra ciò è avvenuto, sia nell’ambito di alleanze costituite sia agendo come paese solo davanti ad amici e nemici. In Libano, dal 1982 al 1984 insieme agli Stati Uniti, alla Francia e al Regno Unito. Si è trattato di una operazione di peacekeeping, la prima su questa scala condotta oltre il confine dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora queste operazioni si sono succedute una dietro l’altra: per esempio la Multinational Force and Observers (Forza multinazionale e osservatori-MFO), attiva dal 1982 nel Sinai e tutt’ora in corso. In particolare l’Italia partecipa a questa missione con un contingente militare, denominato Coastal Patrol Unit (CPU), cui è affidato il compito di verificare la libertà di navigazione nello Stretto di Tiran (4). Sempre nel 1984 (agosto-ottobre 1984) possiamo ricordare l’attività di sminamento nel Mar Rosso, condotto dai cacciamine italiani del 14° Gruppo Navale e poi l’operazione Golfo 1, svoltasi dal 1987 al 1988: una missione internazionale svolta nel Golfo Persico dalla Marina Militare insieme ad altre Marine occidentali a protezione del traffico mercantile di tutti. L’operazione Golfo 2, a partire dall’agosto 1990, ha visto le unità navali della Marina, all’interno 20º Gruppo navale (COMGRUPNAV 20), impegnate nelle operazioni della Guerra del Golfo insieme a una coalizione composta da ben 35 Stati, formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti. E che dire delle operazioni UNITAF (UNIfied TAsk Force), dal dicembre 1992 al maggio 1993, e UNOSOM II, dal marzo del 1993 al marzo del 1995, che hanno visto l’Italia impegnata in Somalia per il mantenimento della pace e per fornire assistenza umanitaria. In quegli anni, in Somalia, la Marina Militare ha inviato ben tre Gruppi Navali. Il 24º (operazione Somalia I), composto dall’incrociatore portaelicotteri Vittorio Veneto, dalla fregata Grecale, dal rifornitore di squadra Vesuvio e dalle LPD San Giorgio e San Marco col compito di trasportare i fanti del San Marco (dicembre 1992 - aprile 1993). Il 25° Gruppo navale (operazione Somalia II), composto dall’incrociatore portaeromobili Garibaldi, dalla fregata Scirocco, dalle LPD San Giorgio e San Marco e dalla rifornitrice di squadra Stromboli, col compito di provvedere al disimpegno dalla Somalia del contingente italiano (gennaio-marzo 1994). Il 26° Gruppo navale (operazione Somalia III), composto dall’incrociatore portaeromobili Garibaldi, dalle LPD San Giorgio e San Marco,

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dal rifornitore di squadra Stromboli e dalla fregata Libeccio, per assicurare le operazioni finali di evacuazione del personale rimasto in Somalia (gennaio-marzo 1995). La Combined Maritime Forces (CMF), a partire dal 2001, è una Forza marittima multinazionale, composta al momento da 29 nazioni tra cui l’Italia, che forniscono navi militari per il pattugliamento marittimo nelle acque medio orientali di Mar Rosso, Oceano Indiano e Golfo Persico, allo scopo di aumentare la sicurezza e la stabilità regionale ed espandere le capacità delle Forze marittime regionali (5). Con l’operazione Leonte, il 29 agosto del 2006, a seguito della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite dell’11 agosto del 2006, l’Italia ha prontamente inviato in Libano un contingente militare di forze terrestri, quale contributo al potenziamento della missione denominata United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL), già operante sul territorio libanese dal 1978. In tale occasione la Marina Militare ha predisposto un Gruppo navale anfibio, denominato Task Force 425 (Joint Amphibious Task Force-Lebanon-JATF-L), costituito dalla portaerei Garibaldi, dalle tre navi anfibie San Giorgio, San Marco e San Giusto e dall’unità di scorta Fenice. In soli due giorni, dal 2 al 3 settembre 2006, sono stati sbarcati nel Libano meridionale, in prossimità della città di Tiro, 800 uomini, circa 600 dei quali fucilieri di Marina del Reggimento San Marco e 200 Lagunari del Reggimento «Serenissima», con 156 veicoli. L’operazione Leonte, subito dopo le operazioni di sbarco, ha poi visto la missione del Gruppo navale italiano trasformarsi in attività di pattugliamento marittimo permettendo così di rimuovere il blocco navale proclamato dal Governo israeliano. Fu un risultato di notevole rilevanza internazionale, ma — soprattutto — di grande importanza per la popolazione di quello sventurato paese stremata dal blocco. Non possiamo non citare infine, l’operazione Atalanta (tutt’ora attiva), condotta contro la pirateria, nell’area del Corno d’Africa, dal Golfo di Aden fino al bacino somalo, un’azione che ha rappresentato, e continua a rappresentare, la necessaria difesa da parte di pochi per la libertà di navigazione di tutti. Con la Council Joint Action 2008/251 del 10 novembre del 2008, l’UE ha istituito, di fatto, la prima operazione militare a carattere marittimo a guida europea. L’operazione Atalanta può così contare su unità navali e velivoli della Marina Militare dislocati in permanenza per garantire la sorveglianza e il riconoscimento di attività sospette riconducibili alla minaccia della pirateria. Motivi di spazio obbligano a non poter citare tutte le altre, tante operazioni condotte dalle Forze armate italiane nel Vicino Oriente, un’area nevralgica del Mediterraneo allargato che si è spinta fino in Afghanistan con la partecipazione all’operazione ISAF (International Security Assistance Force), istituita in seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 1386 del 20 dicembre 2001 per la stabilizzazione di quel paese e terminata con l’operazione Resolute Support Mission, dopo vent’anni nel giugno del 2021; e in Iraq con l’operazione Antica Babilonia (luglio 2003 - dicembre 2006). In Afghanistan, in quel periodo, in quella che fu definita la «global war against terrorism», l’operazione Enduring Freedom ha visto la partecipazione di una Task Force italiana guidata da nave Garibaldi con gli AV-8B Plus impegnati in missioni di CAS (Close Air Support) e RECCE (reconnaissance) in territorio afgano, e nave Etna, Aviere e Zeffiro in supporto e scorta. Sono esempi che segnano, nel doveroso ricordo delle non poche nostre vittime cadute nell’adempimento del dovere, l’impegno dell’Italia per garantire un mondo sicuro — e migliore — per tutti i popoli. NOTE (1) Cfr. Elio Migliorini, Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961). (2) Alfred Thayer Mahan (27 settembre 1840 - 1º dicembre 1914) è stato un Ammiraglio statunitense, storico e studioso di strategia navale e marittima. (3) www.britannica.com/place/Middle-East. (4) Tale compito viene assicurato con tre pattugliatori costieri classe «Esploratore», assegnati in permanenza al contingente nel Sinai nell’ambito del 10° Gruppo navale costiero (COMGRUPNAVCOST 10). (5) La sede del Comando è in Bahrain, presso le strutture del Comando americano di USNAVCENT; comprende 3 Task Forces navali che operano per dissuadere e impedire alle organizzazioni terroristiche internazionali l’utilizzo dell’ambiente marittimo per perpetrare le loro azioni criminali.

DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima

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PRIMO PIANO

La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica Alberto Pagani Deputato dal 2013, in Commissione Trasporti e Telecomunicazioni nella XVII legislatura e capogruppo Pd in Commissione Difesa nella XVIII legislatura. Laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, ha partecipato al 70° corso IASD del Centro di Alti Studi della Difesa; in possesso di Master di II livello in Strategia globale e sicurezza della Scuola Universitaria Interfacoltà in Scienze strategiche dell’Università di Torino, ha preso parte al corso di perfezionamento in Intelligence e sicurezza nazionale, dell’Università di Firenze in convenzione con il DIS (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza). È stato amministratore pubblico e dirigente politico, ha insegnato nella facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino.

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Lo scontro delle civiltà Nel 1993, alla fine della divisione del mondo nei due grandi blocchi che aveva caratterizzato la Guerra Fredda e la seconda metà del secolo, la rivista Foreign Affairs pubblicò un saggio che scatenò un grandissimo dibattito, suscitando interesse e fraintendimenti. Evidentemente toccava un nervo scoperto: trattava del crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà. Oggi sappiamo che quel saggio era destinato a diventare un vero classico. L’autore era il professor Samuel P. Huntington della Harvard University e l’articolo aveva un titolo forte, ma interrogativo: «Scontro tra le civiltà?». Venuta meno l’elegante semplicità definita dal muro di Berlino, quando il blocco occidentale e quello sovietico

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esercitavano la loro influenza sul resto del mondo, dove avevano le loro aree di influenza, i loro amici e i loro clienti, era evidente che serviva guardare la realtà da una nuova prospettiva. Per trovare questa nuova chiave interpretativa l’analisi di Huntington metteva al centro il concetto di civiltà (al plurale), attraverso cui riteneva di poter reinterpretare il nuovo scenario politico multipolare mondiale, riconfigurato in base a criteri culturali. Tanto è vero che successivamente lo stesso autore ha approfondito e sistematizzato i concetti espressi nel suo primo saggio pubblicando un’opera più complessa e strutturata, che ha intitolato Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1). L’idea di fondo è che la modernizzazione non stia affatto producendo un’occi-

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

dentalizzazione delle civiltà non occidentali, e che non esista alcuna tendenza verso la formazione di una civiltà universale. Anzi, Huntington sostiene che gli equilibri di potere tra le civiltà stiano mutando e che l’influenza relativa dell’Occidente sia in calo, a causa della crescita economica, militare e politica del mondo asiatico e all’esplosione demografica del mondo islamico. Le pretese universalistiche dell’Occidente en-

namismo economico e demografico» (2). Dunque parlare di Medio Oriente è parlare anche di civiltà islamica. Certo, non tutti i mediorientali sono musulmani, perché in Medio Oriente sono presenti tutti i principali orientamenti religiosi. E non tutti i musulmani si trovano in Medio Oriente. È vero che la religione islamica nasce lì, ma oggi, con circa 1,8 miliardi di fedeli, ossia il 23% della popolazione, l’Islam è la seconda

trano sempre più in conflitto con altre civiltà, in particolare con l’Islam e la Cina, e le conflittualità locali tendono sempre più a chiamare in campo i «paesi fratelli». In questa nuova prospettiva le società culturalmente affini tendono a cooperare tra loro, i tentativi di alcune società di passare a un’altra civiltà falliscono e i paesi si raccolgono attorno agli Stati guida della propria civiltà. Per gran parte dell’esistenza umana i contatti tra le varie civiltà sono stati sporadici o del tutto assenti, fino all’inizio dell’era moderna, nel XVI secolo, quando gli Stati nazione occidentali colonizzarono tutte le altre civiltà. Oggi, scrive Huntington, i popoli non occidentali sentono di «non essere più costretti a subire», assistiamo alla «fine dell’epoca del progresso» dominata dalle ideologie occidentali per entrare in un’era in cui svariate e diverse civiltà verranno a interagire, competere, coesistere e adattarsi reciprocamente. «Questo processo globale di indigenizzazione ha la sua manifestazione più evidente nella reviviscenza della religione in tante parti del mondo e, più specificamente, nella rinascita culturale in atto nei paesi asiatici e islamici, in pare generata dal loro di-

religione del mondo per consistenza numerica (dopo il Cristianesimo) e vanta un tasso di crescita importante. In Medio Oriente nascono anche la religione ebraica e quella cristiana, prima dell’Islam, e vi sono ancora presenti, come minoranze. Non tutti i musulmani sono arabi, la maggior parte non lo sono affatto. Il 13% dei musulmani vive in Indonesia, che è anche il paese musulmano più popolato, il 25% nell’Asia meridionale. L’Islam è tra le religioni più professate nel continente africano, dove in realtà non sono arabi nemmeno i popoli arabizzati secoli fa nel magreb, come i berberi, e non lo sono certo quelli dell’Africa sub sahariana. Anche in Europa, e più in generale in Occidente, c’è una presenza significativa, seppure molto minoritaria, di musulmani. In Asia i turchi, gli iraniani e i popoli caucasici e quelli dei Balcani meridionali sono prevalentemente musulmani, ma non sono affatto arabi. Non tutti gli arabi poi sono musulmani: ci sono arabi ebrei e cristiani, per esempio. Quando si affronta questo tema il rischio di cadere in semplificazioni che distorcono la realtà è sempre molto alto. Tuttavia è certamente impossibile studiare

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

e comprendere il passato e il presente del Medio Oriente, o addirittura ipotizzarne il futuro, senza partire dall’importanza che la religione islamica ha nelle società e nella politica mediorientali. Per questa ragione non c’è analisi politica, strategica o militare dell’attuale situazione mediorientale che possa prescindere dalla conoscenza della storia di quei popoli e della loro civiltà.

Le tre grandi religioni monoteiste sono nate tutte in quest’area, con una profusione di assolutismo profetico vi sono nati e crollati imperi, ogni forma di ordine interno e internazionale è esistita ed è stata respinta, in un momento o nell’altro. Ritroviamo ancora vive, nel Medio Oriente di oggi, tutte le sue esperienze storiche: impero, guerra santa, dominazione straniera e guerra settaria di tutti contro tutti. La presenza contemporanea

A oriente e in mezzo a che cosa?

di tutte queste eredità che vengono dal passato spinge i popoli mediorientali sia verso l’unità con la comunità mondiale che alla lotta contro di essa, ed è per questo che è così difficile arrivare qui a un concetto definito di ordine internazionale. La più antica organizzazione del Medio Oriente e del Nord Africa si sviluppò intorno a una successione di imperi che si consideravano il centro della vita civilizzata, dall’antico Impero egizio a quello assiro e babilonese, in Mesopotamia, all’Impero persiano, nell’altopiano iranico, che fu il primo tentativo di unire comunità eterogenee africane, asiatiche ed europee in un’unica società internazionale organizzata, con sovrano che si definiva shahanshah, «re dei re». Quando, verso la fine del VI secolo d.C., il dominio del Medio Oriente era conteso tra i due grandi imperi in lotta tra di loro, quello bizantino, cristiano-ortodosso, la cui capitale era Costantinopoli (oggi Istanbul), e quello persiano, zoroastriano, la cui capitale era Ctesifonte (oggi Baghdad), si affermò improvvisamente l’Islam, con sorprendente capacità di diffusione e conquista. Pochi eventi nella storia sono stati così importanti e drammatici.

La sfida all’ordine internazionale che proviene dal Medio Oriente non riguarda solamente l’organizzazione dell’ordine regionale, ma anche la sua compatibilità con la pace e la stabilità del resto del mondo. La centralità strategica dell’area, evidenziata persino nella sua denominazione, e la sua perenne e minacciosa instabilità, comportano per noi popoli mediterranei, e per tutto l’Occidente, una fonte inesauribile di preoccupazioni. Il termine stesso Medio Oriente suggerisce infatti il punto di vista occidentale che lo ha denominato; per definizione, il Middle East deve stare in mezzo a qualcosa, e a est di un osservatore collocato a ovest. È quella visione europea del mondo che ha dato alla regione i confini della sua forma contemporanea, ma il recente processo di decolonizzazione, che ha consegnato ad autorità e poteri locali la responsabilità di governare una delle aree più complesse e instabili del pianeta, è solo l’ultimo capitolo di una storia lunga molti secoli, che ha conosciuto collaborazione e conflitti tra i popoli europei e quelli mediorientali.

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

La diffusione e il dominio dell’Islam Islam significa «sottomissione alla volontà di Allah» e ha la stessa radice della parola araba salam, che vuol dire «pace». Alcuni teologi infatti lo definiscono come «il raggiungimento della pace attraverso al sottomissione alla volontà divina». La religione islamica nasce nel VII secolo d.C. in quel territorio a sud del Mediterraneo che gli europei conoscevano poco e chiamavano Arabia (3). Dagli europei gli abitanti di quest’ampia area, che vivono in tribù che si raggruppano in clan, formati sulla base della parentela e guidati da sceicchi, sono conosciuti poco e sono chiamati Arabi o Saraceni. Questi popoli sono beduini (4), termine che in arabo

significa nomadi. Per sopravvivere nel deserto i beduini hanno sviluppato un’etica molto dura, basata sui valori della solidarietà, che impone di farsi carico nel clan di vedove, orfani e poveri, dell’ospitalità, che è sacra perché una persona isolata nel deserto muore rapidamente, della capacità di affrontare le difficoltà e dell’onore, che impone agli uomini di proteggere con le armi le donne e la memoria degli antenati. Secondo la tradizione musulmana il profeta Maometto, nato nel 570 alla Mecca, in un deserto inospitale dell’Arabia occidentale, fuori dal controllo di ogni impero, all’età di 40 anni aveva ricevuto quella rivelazione (5) che, messa per iscritto, divenne il Corano (6), il libro sacro sul quale si fondava la sua nuova predicazione religiosa, in parte simile a quella giudaico cristiana basata sulla Bibbia, ma anche diversa (7). Predicava la necessità di instaurare una forma di solidarietà e di elemosina che andasse oltre il clan e le tribù legate dal sangue, l’uguaglianza e la fraternità tra gli esseri umani, come pure il rispetto e la dignità delle donne. Per rafforzare il convincimento dei nuovi convertiti, la nuova religione va-

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lorizza la lotta interiore che ogni uomo deve condurre per superare i propri sentimenti, quando difende la causa dell’unico Dio. L’Islam chiama questo combattimento contro i cattivi sentimenti grande jihad (8), distinguendolo dal piccolo jihad (9), che è la conseguente lotta contro gli infedeli.

La nascita del primo califfato islamico Mentre i due grandi imperi si dissanguavano lottando tra di loro, Maometto e i suoi seguaci prendevano forza, spinti dalla loro nuova visione religiosa dell’ordine mondiale, e unificavano la Penisola arabica, sostituendo con la rivelazione appena ricevuta le

principali religioni della regione, quella ebraica, quella cristiana e quella zoroastriana, e organizzavano un nuovo sistema di Governo. L’ondata espansiva dell’Islam fu un evento senza precedenti, tanto che nel secolo successivo la morte di Maometto, gli eserciti arabi portarono la nuova religione fino alla costa atlantica dell’Africa, in Spagna, in Francia e in Italia, fino all’Asia centrale, alla Russia, alla Cina, all’India settentrionale. Poteva sembrare impossibile che un gruppo di pastori e nomadi arabi, uniti da forti vincoli tribali, potesse ispirare un movimento capace di abbattere i grandi imperi, che avevano dominato la regione per secoli. Invece, in un secolo di imprese straordinarie, portato sia da mercanti che da conquistatori, l’Islam si affermò come presenza religiosa dominante e divenne l’elemento ordinatore di un nuovo grande impero, il califfato musulmano. Nell’Islam il potere religioso e il potere politico sono sovrapponibili, e l’espansione della religione da impresa imperiale diventa un sacro dovere di ogni credente perché la fede è un modo di vita (10). Ai popoli che i musulmani incontravano nella

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

loro avanzata, veniva offerta la scelta tra la conversione, e quindi l’accettazione dello status di protettorato, o la conquista militare. Spinto dalla certezza che la sua diffusione avrebbe portato la pace e unito l’umanità, l’Islam era contemporaneamente una religione, un grande Stato multietnico e un nuovo ordine mondiale. Il mondo islamico è solcato da divisioni profonde e conflitti laceranti. Si potrebbe dire che la umma, più che una comunità, sia una somma di comunità diverse e a volte in conflitto tra loro. Nell’Islam il concetto di libertà è risolto nell’obbedire agli ordini di Dio e nel servire le necessità della umma. Il concetto di secolarismo non si è potuto sviluppare perché l’Islam è «re-

in cui si celebrano eroi e grandi imperi. Nel secolo successivo la morte del Profeta, i musulmani crearono un califfato che si estendeva dall’Africa settentrionale al subcontinente indiano, più vasto dell’Impero romano nella sua massima espansione. L’Islam ha prodotto una ricca civiltà, promuovendo integrazione culturale e religiosa e scambi commerciali e raccogliendo grandi libri di scienza, medicina e filosofia, traducendoli in arabo dal greco, dal latino, dal persiano, dal copto, dall’aramaico e dal sanscrito. Seguì un’epoca di grande creatività, di scienziati e filosofi istruiti, che offrì il suo contributo alla cultura filosofica, medica, ottica, astronomica, artistica e architettonica. I musulmani cono-

ligione e mondo» o «religione e società» (al-Islam din wa dunya wa mujtama), cioè una dimensione onnicomprensiva in cui gli individui sono sottoposti all’interesse comunitario e in cui la dimensione della fede non è scissa dalla vita quotidiana dei rapporti sociali. L’impatto delle idee occidentali pone quindi in discussione la tradizione e suggerisce nuove prospettive politiche e ideologiche. La storia ha costretto l’Islam a misurarsi con idee occidentali e a trovare le sue vie autonome e originali di espressione. Il problema, come vedremo, è che le soluzioni trovate sono diverse, e abbastanza contrastanti tra di loro.

scevano bene la matematica; la parola «algebra» deriva infatti dall’arabo al-Jabr e dobbiamo a loro i numeri arabi che hanno sostituito la complessa numerazione romana e che utilizziamo tutt’ora. Nella storia dell’Islam, e dei califfati che si sono succeduti, i musulmani hanno vissuto in comunità/Stato islamiche, governate dal diritto islamico. Non c’è il concetto laico di separazione tra Stato e Chiesa. Società e religione, fede e potere, sono interconnessi. Per comprendere l’attualità di questo concetto basterebbe riflettere sul fatto che i simboli dell’Islam si ritrovano ancora nelle bandiere di molti paesi, e sono la mezzaluna crescente e la stella, che ricordano i segni che consento di stabilire l’inizio del Ramadan, perché il calendario musulmano è un calendario lunare. L’Islam ha formato e plasmato sia la politica che la cultura, dando vita a grandi Stati, imperi e civiltà islamiche. Le regioni che l’Islam aveva conquistato, o dove dominava su popolazioni tributarie non musulmane, erano concepite come un’unica unità politica: dar al-Islam (la casa della pace), e le terre esterna a essa erano dar al–harab (la casa della guerra).

L’espansione arabo islamica, le divisioni interne e il declino I simboli dell’Islam, che si ritrovano nelle bandiere di molti paesi, sono la mezzaluna crescente e la stella, che ricordano i segni che consento di stabilire l’inizio del Ramadan, e che il calendario musulmano è un calendario lunare. Molti musulmani, più o meno istruiti, ricordano le storie di una passato islamico romanzato

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica

La missione dell’Islam era di incorporare queste regioni nel proprio ordine mondiale e portare la pace universale. Tuttavia le divisioni e i settarismi hanno cominciato a emergere e caratterizzare il grande Impero sin dalla morte del profeta Maometto. Maometto morì nel 632, senza designare un successore. Questo originò una contesa cruciale, che lacera l’Islam da secoli: chi era il legittimo erede, che doveva diventare califfo al suo posto? Maometto aveva una sola figlia, Fatimah, e suo marito Ali era un fedele seguace del Profeta. Dall’unione di Fatimah e Ali erano nati Hassan e Hussein. Per molti musulmani la discendenza era chiara, ma i patriarchi delle tribù più numerose respinsero Ali e scelsero come primo califfo il loro proprio leader, Abu Bakr. Col tempo i loro discendenti sarebbero stati chiamati sunniti da sunnah, la tradizione. A essi si opponevano i musulmani che ritenevano legittimi eredi i familiari del Profeta, guidati dal genero Ali e dai due nipoti, Hassan e Hussein. Questo ramo dell’Islam prese il nome di Shia Ali (sostenitori di Ali) da cui deriva il termine sciiti. Quando Ali, giunto al potere come quarto califfo, dovette fronteggiare una ribellione e fu ucciso dalla folla, i sunniti individuarono come compito centrale la restaurazione dell’ordine nell’Islam e sostennero la fazione che riportò la stabilità. Gli sciiti denunciarono le nuove autorità come usurpatori illegittimi ed esaltarono i martiri che erano morti nella resistenza. Questi atteggiamento generale sarebbe perdurato per secoli e queste due fazioni finirono per dare origine ai due rami principali dell’Islam, in perenne conflitto tra di loro. Le rivalità geopolitiche aggravarono le divergenze dottrinali e con il tempo si formarono aree distinte come quella araba, quella persiana, quella turca e quella moghul, tutte in teoria aderenti al medesimo ordine globale musulmano, ma che sempre più si comportavano come monarchie rivali, con interessi differenti e interpretazioni distinte della dottrina. Alla fine, la spinta propulsiva del progetto mondiale dell’Islam s’indebolì. Nel 732, con le battaglie di Poitiers e di Tours, in Francia, la prima ondata dell’espansione musulmana fu respinta, mettendo fine a une serie ininterrotta di avanzate delle forze islamiche arabe e nordafricane. Cominciò allora una fase di arretramento dell’imperialismo musulmano, che perse il

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controllo di importanti territori nel levante; da ricordare le successive crociate in Terrasanta che arrivarono sino a Gerusalemme, e la reconquista cristiana della Spagna, conclusasi nel 1492 con la caduta di Granada, l’ultimo caposaldo musulmano nella penisola iberica.

La rinascita islamica dell’Impero ottomano, il suo declino e gli accordi Sykes Picot Nel XIII secolo sorse un nuovo impero musulmano guidato dai turchi ottomani, seguaci del conquistatore Osman, che trasformò l’Anatolia, da piccolo Stato che era, in una potenza formidabile, al pari degli antichi califfati, capace di sfidare e soppiantare l’Impero bizantino e riproporre il sogno di un nuovo ordine universale islamico. Proclamandosi guida di un mondo islamico unificato, i turchi cominciarono a conquistare ed espandersi in tutte le direzioni, dai Balcani a Costantinopoli, alla Penisola arabica, alla Mesopotamia, al Nord Africa, all’Europa orientale e al Caucaso, diventando la potenza costiera dominante nel Mediterraneo orientale. I sultani ottomani si proclamavano «l’ombra di Dio sulla terra» e «sovrano universale che protegge il mondo», perché concepivano la loro missione politica come universale. Sia per ragioni di dottrina islamica che per un giudizio sulla realtà dei rapporti di potere, nei confronti del sistema politico multipolare europeo gli ottomani non erano disposti ad accettare gli Stati dell’Europa occidentale come entità legittime, o considerarle potenze al pari loro (11), perché l’Impero ottomano era territorialmente più vasto di tutti gli Stati dell’Europa occidentale messi insieme e per molti decenni militarmente più forte di qualunque loro concepibile coalizione. Gli attacchi ottomani all’ordine europeo si ripeterono nei secoli, il più significativo raggiunse Vienna nel 1683. Solamente verso la fine del XVIII secolo, quando l’Impero ottomano si era progressivamente sclerotizzato per l’opposizione dei religiosi di corte alla modernizzazione, gli Stati europei cominciarono a invertire il processo. Sconvolto da disordini interni, l’Impero ottomano era considerato «il malato d’Europa» dalle potenze occidentali. La Russia premeva da nord verso il Mar Nero e nel Caucaso, l’Austria nei Balcani, Francia e Gran Bretagna in Egitto e nel XIX secolo anche l’Italia giolittiana riuscì ad ap-

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profittare della debolezza degli ottomani per impossessarsi della Libia. La Prima guerra mondiale pose fine all’Impero che, alleato della Germania, fu sconfitto e smembrato. La molla dell’epoca erano l’identità nazionale e gli interessi nazionali, non il jihad globale. I musulmani dell’Impero britannico ignorarono la dichiarazione del jihad e nella penisola arabica le aspirazioni nazionali e anti ottomane si risvegliarono. Nel 1918, con la fine del conflitto, gli ex territori ottomani furono trascinati nel sistema vestfaliano internazionale da una varietà di meccanismi loro imposti. Il Trattato di Sèvres del 1920, sottoscritto dai vincitori della Grande guerra con quel che restava dell’Impero ottomano, ridefinì il Medio Oriente come un mosaico di Stati, un concetto nuovo per il mondo islamico. L’accordo Sykes-Picot del 1916, dal nome dei diplomatici negoziatori britannico e francese, aveva diviso quello che era stato un grande impero in mandati, sui quali si esercitavano le sfere di influenza delle potenze vincitrici, in una spartizione neocoloniale che assegnava alla Francia la Siria e il Libano, e alla Gran Bretagna la Mesopotamia (Iraq) e la Palestina. Ciascuna di queste entità aveva confini tracciati arbitrariamente sulle carte geografiche e conteneva molteplici gruppi etnici, tribali e settari, alcuni dei quali storicamente in conflitto tra di loro. Questo permetteva alle potenze mandatarie di governare sfruttando le divisioni interne e le tensioni

Firma del trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 (wikipedia.org).

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tribali gettando così le basi della futura instabilità dell’area e delle successive guerre civili. Nel 1924 i dirigenti laico nazionalisti dell’appena proclamata Repubblica di Turchia abolirono il califfato, la principale istituzione dell’unità panislamica, e proclamarono uno Stato laico. La comparsa dello Stato laico di tipo europeo non aveva precedenti nella storia araba. Da allora in poi il mondo musulmano rimase prigioniero del dilemma tra l’ordine internazionale vittorioso e l’ormai irrealizzabile concetto di dar al-Islam.

La Guerra Fredda, il panarabismo, e la nuova islamizzazione Nel secondo dopoguerra si manifestarono due tendenze contrapposte. Gli arabi adattarono immediatamente i concetti di sovranità dello Stato ai loro sentimenti nazionalistici, per ottenere un’autentica indipendenza per le nuove realtà statuali costituite. Per questo prese slancio una corrente laicizzante, che, a differenza dell’Europa però, non portò a un ordine pluralistico, ma a sistemi autocratici. I «panarabisti» (12) accettavano un sistema a base statale, ma aspiravano a uno Stato che corrispondesse a una nazione araba unita: un’unica entità etnica, linguistica e culturale. Sul lato opposto, in contrapposizione, l’Islam politico indicava la necessità di affidarsi alla religione comune come migliore veicolo per un’identità araba moderna. Gli islamisti erano guidati spesso da uomini della nuova classe media, di alta cultura, che cercavano un modo per essere moderni senza dover diventare occidentali. Negli anni cinquanta i governi monarchici feudali di Egitto, Iraq, Siria, Yemen e Libia furono rovesciati dai rispettivi capi militari, che instaurarono governi laici. I nuovi governanti provenivano dai settori della popolazioni che fino ad allora erano stati esclusi dal processo politico e fecero appello al nazionalismo per ampliare la base popolare. Così si affermarono regimi non democratici caratterizzati da culture politiche populiste, come quello di

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Gmal Abdel Nasser in Egitto, e del suo successore Anwar al-Sadat, di Saddam Hussein in Iraq, di Hafez al-Assad in Siria e poi di Mu’ammar Gheddafi in Libia. In alcuni casi i nuovi dittatori erano espressione di minoranze settarie che si erano imposte con la forza su più vaste popolazioni maggioritarie, facendo al contempo appello al nazionalismo e uso della forza per mantenere il potere. Fu proprio per questo che tornarono ad affermarsi il retaggio tradizionale degli islamisti, che rappresentavano un ancoraggio identitario solido e un’opposizione al regime, credibile e organizzata. Per questo i regimi reagirono con durezza e soppressero i movimenti politici islamisti ostili, accusandoli di compromettere la modernizzazione e l’unità della nazione. Nell’ottica dei nuovi governanti, gli arabi costituivano una sola nazione che ha tante bandiere diverse. Nella maggior parte di esse si ripe-

generico «socialismo arabo» del partito Ba’th (Rinascita) (14), ma la spinta reale era l’interessa nazionale come era concepito dal regime, non l’ideologia politica o religiosa, e le economie di questi paesi rimasero patriarcali e imperniate su industrie gestite da tecnocrati. Nell’epoca della Guerra Fredda i rapporti tra mondo islamico e mondo esterno seguirono sostanzialmente uno schema di equilibrio di potere. Egitto, Siria, Algeria e Iraq seguivano la guida sovietica e ne sostenevano la politica, mentre Giordania, Arabia Saudita, Iran e Marocco rientravano nell’orbita occidentale e americana. I regimi erano molto simili tra di loro, la differenza principale stava nella scelta di campo che avevano fatto per tutelare i loro interessi. Tra il 1973 e il 1974 e nel 1979 gli schieramenti cambiarono perché il presidente egiziano Saddat cambiò campo, avvicinandosi agli Stati Uniti, mentre in Persia, con la caduta

tono i colori bianco, nero, verde e rosso, che hanno tutti una grande rilevanza nell’Islam. Il fatto che quelle bandiere abbiano gli stessi colori (13) suggerisce una parentela, ma al tempo stesso la loro diversità evidenzia che quella nazione concettuale araba è divisa sotto molti aspetti. Tuttavia il nazionalismo autocratico delle dittature militari aveva dato vita, in qualche modo, a un ordine internazionale abbastanza stabile, nel quali i paesi mediorientali cercavano di sfruttare la rivalità tra le potenze della Guerra Fredda per accrescere la loro influenza e il loro potere. Dagli anni Cinquanta ai Settanta, l’Unione Sovietica divenne il principale fornitore di armi e scudo diplomatico dei nazionalismi arabi, che in cambio sostenevano gli obiettivi internazionali sovietici. Gli autocrati arabi esprimevano ammirazione per il modello economico comunista e professavano il

del regime dello scià, si insediò il governo clericalemilitare della Repubblica islamica dell’Iran. L’unica questione ideologica su cui tutti gli arabi convergevano era l’ostilità alla nascita dello Stato sovrano di Israele per il popolo ebraico. Questo produsse quattro guerre regionali, tutte vinte da Israele: nel 1948, nel 1956, nel 1967 e nel 1973.

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La questione palestinese Due generazioni di arabi sono stati allevate nell’idea che Israele sia uno Stato usurpatore illegittimo. Nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour scrisse al barone Rothschild per comunicargli che il suo Governo, dopo la fine della guerra, avrebbe permesso la creazione in Palestina di un focolaio per gli ebrei che desideravano vivere in Terrasanta. Non

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era lo Stato che il movimento sionista di Theodor Herzl chiedeva, ma era la sua pietra di fondazione. Questa promessa fu mantenuta, a differenza di quella che attraverso il colonnello Lawrence D’Arabia lo stesso Governo britannico aveva fatto agli arabi per convincerli a insorgere contro la Turchia: un grande Stato, dal Golfo Persico al Mediterraneo. Quella doppia promessa è responsabile di alcune guerre e, almeno in parte, dell’instabilità che grava sull’intera regione. Israele è un paese mediorientale, quindi artificiale e con confini incerti, costruito per dare una patria al popolo ebraico e abitato da una popolazione proveniente in gran parte dall’Europa, che voleva realizzare nelle terre brulle della Palestina il socialismo slavo di Aleksandr Herzen e il programma proletario del Bund, la grande organizzazione politico-sindacale creata dagli ebrei in Polonia e Lituania. Era chiaro, dopo la fine della Se-

cato di superare l’aspetto ideologico del conflitto negoziando realistiche condizioni di pace e rifiutando imperativi assoluti di natura religiosa. Anwar al-Sadat nel 1979 osò guardare oltre «il muro contro muro» per fare la pace con Israele sulla base degli interessi nazionali dell’Egitto, ma pagò con la vita la sua responsabilità di uomo di Stato, assassinato dagli islamisti radicali. Lo stesso destino toccò a Yitzhak Rabin, il primo capo del Governo israeliano a firmare un accordo con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, assassinato da uno studente radicale israeliano quattordici anni dopo la morte di Sadat.

conda guerra mondiale, che Israele avrebbe seguito un percorso diverso dall’evoluzione delle democrazie occidentali, che sono Stati laici di cittadini uniti da vincoli storici e da principi e valori universali. Israele invece era uno Stato fondato sull’appartenenza comunitaria e sulla tradizione religiosa, che dal 1948 al 1973 è stato coinvolto in quattro guerre convenzionali contro paesi arabi circostanti, che ha vinto. Tuttavia anche Israele è ancora, come gli Stati arabi della regione, un’opera incompiuta, e ha molti nemici. Ogni gruppo islamista e jihadista evoca il conflitto israelo-palestinese come una chiamata alle armi, l’esistenza di Israele e la sua capacità militare è vissuta come un’umiliazione in tutto il mondo arabo, per cui la coesistenza con Israele è vissuta dagli estremisti più come un’abiura alla fede che un’accettazione della realtà. Grandi leader hanno cer-

glio della religione, che coinvolge gli uomini, le comunità, le nazioni. Il più importante movimento di rinnovamento islamico nella prima età contemporanea fu quello Wahhabita, che si affermò nella prima metà del XVIII secolo, come movimento teologico di purificazione dei costumi e di ritorno alle fonti originarie dell’Islam. Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-92) era un predicatore arabo (15) secondo il quale l’Islam originario era stato culturalmente contaminato dalle diverse correnti teologiche dell’Impero ottomano. La dottrina wahhabita s’ispirava al rigorismo hanbalita (una delle quattro scuole giuridiche sunnite) e al leggendario teologo medioevale Ahmad Ibm Taymiyyah, contemporaneo di Dante Alighieri, che risiedeva a Damasco (16), ed era molto semplice, e proprio per questa sua semplicità era anche molto attrattivo, perché propu-

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Il fondamentalismo islamico e il codice wahhabi Tradurre il termine jihad nel solo senso di «guerra santa» è certamente riduttivo e sbagliato. Il significato principale non è la lotta contro gli infedeli, ma il risve-

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gnava la stretta applicazione delle regole etiche e giuridiche dell’Islam tradizionale, rifiutando tutto quanto travalicasse il Corano e la Sunna (17). È facile giudicare il wahhabismo come un movimento conservatore, retrogrado e fanatico, ma è una semplificazione eccessiva. Si tratta comunque di un movimento estremista, il cui rigore puritano sconfina nel fondamentalismo e conduce a un’ostilità verso la modernità. Furono proprio queste sue caratteristiche che diedero al movimento anche la valenza politica di reazione anticoloniale, malgrado il suo intento originario fosse solamente la revisione e la ri-articolazione di fondamenti dottrinari della religione. L’idea di importare nel mondo islamico idee scaturite, in epoca coloniale, dall’incontro forzato tra la cultura islamica e quella occidentale, non ha avuto molto successo. Questo tentativo di modernizzare l’Islam, chiamato nahda (risorgimento), che pure era fiorito in molti paesi islamici intorno alla metà dell’Ottocento, produsse una reazione volta a islamizzare la modernità. L’idea di dover ritornare alle fondamenta dell’Islam per ritrovare la forza delle origini, non è infatti una prerogativa soltanto del wahhabismo.

Il movimento salafita Un discorso particolare merita colui che può essere considerato il padre del modernismo islamico contemporaneo, Jamal al-Din al-Afghani (1839-1897). Di origine persiana, e quindi sciita, era un riformatore e un politico che voleva rinnovare non solo la cultura islamica, ma anche il mondo islamico, per riportarlo all’antica potenza e difenderlo dall’aggressione imperialista europea. Jamal al-Din al-Afghani era essenzialmente un panislamista che voleva restaurare l’unità della umma e ricostruire un potente califfato musulmano. Sosteneva che l’Islam non è solo una religione, ma una civiltà nel senso più pieno del termine, e che è necessario il ritorno alle origini, all’esempio dei salaf (18), la prima generazione dei credenti, i compagni e successori del Profeta, per poter affrontare la modernità senza smarrirsi. Il suo più eminente discepolo fu Muhammad ‘Abduh (1849-1905), il principale teorico della salafiyya e principale promotore del movimento riformista o islah, che raccolse attorno a sé una vasta schiera di allievi, dagli orientamenti più diversi.

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Più tradizionale e coerentemente salafita fu Rashid Ridà (1865-1935), un siriano che trascorse la maggior parte della sua vita al Cairo ed ebbe un notevole influsso nella fondazione della Fratellanza Musulmana.

La Fratellanza Musulmana Infatti è nel 1928, in un Egitto percorso da un fermento di nuova islamizzazione, che Hasan al-Banna, un giovane insegnante elementare, fonda la Fratellanza Musulmana, un’organizzazione di matrice religiosa che si proponeva di rinnovare l’Islam sul piano della pratica spirituale per farlo diventare il fulcro ispiratore della vita dei credenti. Dalle cellule che operavano sul canale di Suez, dopo essersi trasferita al Cairo, questa nuova organizzazione religiosa allargò la sua rete di adepti con una rapidità sorprendente. Alla fine degli anni Trenta i suoi affilati erano già 500.000 e negli anni successivi continuarono a crescere. Al-Banna aveva creato una struttura verticale, gerarchizzata ma flessibile, efficiente e ben organizzata, di cui era la «Guida suprema», affiancato da organismi consultivi e amministrativi. Le giovani reclute erano inquadrate in «falangi» (Kata’ ib), attive nella propaganda come nello sport. Ideologicamente i fratelli musulmani erano legati alla tradizione salafita di Rashid Ridà. Il ritorno alle fonti, il Corano e la Sunna del Profeta, enfatizzava l’importanza della formazione culturale e spirituale dei musulmani e il valore sociale e politico dell’Islam, che è uno stile di vita e coinvolge anche la sfera pubblica, non solamente la di-

Il movimento dei Fratelli Musulmani fu fondato nel marzo 1928 da Hassan alBanna (laluce.news).

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mensione religiosa. L’orizzonte strategico del movimento era sintetizzato in cinque punti: 1. Dio è il nostro obiettivo: la centralità e unicità di Dio, vero pilastro fondativo della civiltà islamica. 2. Mohammad è il nostro modello: la vita e le opere del Profeta hanno valore normativo per il credente sincero. 3. Il Corano è la nostra costituzione: bisogna partire dalla Legge rivelata per costruire un sistema politico autenticamente giusto ed equilibrato. 4. Il jihad è la nostra via: lo sforzo consapevole sulla via di Dio serve per conquistare la benevolenza di Dio e per operare nella società. 5. Il sacrificio sulla via di Dio è il nostro più alto desiderio: Islam non è solo sottomissione a Dio, ma anche sacrifico per affermare Dio. L’idea (19) della politicizzazione dell’Islam era l’aspetto autenticamente nuovo del messaggio dell’organizzazione, che si proponeva di promuovere una progressiva islamizzazione «dal basso», su base popolare (20). L’organizzazione conquistò presto il favore della popolazione egiziana perché era fortemente impegnata nell’assistenza, negli ospedali e nelle scuole, svolgendo quelle funzioni a cui lo Stato non era in grado di ottemperare. La Fratellanza era poi impegnata nella lotta nazionalista dell’Egitto contro gli inglesi, ma il vero obiettivo in ultima istanza era la ricostruzione del califfato, cioè di una grande nazione di tutti i credenti nell’Islam. Hasan al-Banna cercò di legittimarsi nel sistema politico egiziano candidandosi alle elezioni parlamentari, ma si trovò di fronte un atteggiamento di esclusione ed emarginazione da parte del Re, del Primo Ministro e degli inglesi. Anche per questa ragione si formò all’interno dell’organizzazione, durante la Seconda guerra mondiale, un’ala militante armata intenzionata ad accelerare il processo di conquista e realizzazione dello Stato islamico. Nel secondo dopoguerra questa fazione armata cercò di inserirsi nel marasma politico egiziano compiendo diversi attentati e quindi l’intera Fratellanza venne messa fuori legge. Per vendetta, il primo ministro Fahmi al-Nuqrashi venne assassinato, ma la polizia rispose con altrettanta durezza, uccidendo nel 1949 la Guida suprema della Fratellanza, al-Banna. L’organizzazione era però già

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talmente ramificata e presente nella società che non si arrestò e svolse un ruolo importante nel successo della rivoluzione degli Ufficiali Liberi del luglio 1952. Sadat era un fratello musulmano e anche Nasser ebbe assidui contatti con i vertici dell’organizzazione. Senza l’appoggio dei Fratelli Musulmani è probabile che la rivoluzione sarebbe fallita. La Fratellanza cominciò poi a espandersi oltre i confini dell’Egitto e si diffuse con sorprendente rapidità in tutto il mondo arabo perché rappresentava il principale progetto politico di islamizzazione che contrastava le idee nazionalistiche laiche che negli anni Trenta andavano diffondendosi. Questa islamizzazione ebbe quindi carattere di opposizione e rivolta contro quel mainstream riformista islamico che aveva subito il fascino dell’Occidente e aveva tentato di islamizzare la modernità occidentale (21).

1979: l’anno critico dell’islamismo Nella storia dell’islamismo il 1979 fu un anno critico perché accaddero tre eventi dalle conseguenze di primaria importanza. Il 20 novembre in Arabia Saudita alla Mecca un gruppo di mussulmani integralisti occupò la Grande Moschea e prese in ostaggio qualche centinaio di fedeli per protestare contro la dinastia Saud, colpevole a loro avviso di non assolvere i suoi compiti religiosi con sufficiente rigore. Il regime reagì duramente e riconquistò La Mecca, ma da quel giorno il re, che era anche sceicco della Mecca, assunse una postura molto più radicale dal punto di vista religioso. La dinastia Saud è fortemente legata alla setta sunnita che segue la predicazione dell’imam Muhammad al-Wahhab, per ragioni storiche legate alla loro conquista del potere, e quindi la visione severa e settaria dell’Islam wahhabita divenne particolarmente presente e importante nella politica del regno. Nel dicembre Mosca decise di invadere l’Afghanistan per appoggiare la fazione filosovietica dei comunisti al potere, in contrasto con la fazione filocinese. Per contrastare questa occupazione i musulmani di tutti paesi furono chiamati a combattere il jihad (guerra santa). Nella logica bipolare della Guerra Fredda, secondo la quale «il nemico del mio nemico diventa mio amico», l’Occidente si schierò con la resistenza tale-

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bana. Il film di Hollywood «La guerra di Charlie Wilson» racconta in modo romanzato la storia vera di una delle più importanti operazioni segrete della storia, condotta da un deputato di Houston e dalla CIA, per organizzare e armare le forze di resistenza talebane, con l’aiuto dei paesi alleati dell’area mediorientale. La resistenza fu sostenuta e finanziata dai paesi musulmani sunniti, Pakistan e Arabia Saudita in primis, che inviarono uomini e mezzi per armare e addestrare i talebani mujaheddin che combattevano contro gli invasori comunisti. Tra i tanti foreign figthers affluiti a combattere a fianco dei talebani da ogni parte dell’area c’era anche Osama, uno dei cinquanta figli di un ricco imprenditore saudita di nome Bin Laden. Partendo da quell’esperienza, al termine della guerra, Osama fu il promotore di una delle organizzazioni terroristiche più pericolose di tutti i tempi, Al Qaeda (la base), in contrasto con la casa regnante saudita, accusata di essere troppo subalterna alla decadenza occidentale, e quindi a tutto l’Occidente. Quest’ultimo si rese conto della portata della sfida che gli era stata lanciata solamente l’11 settembre del 2001. Il terzo evento accaduto nel 1979 è la rivoluzione islamica in Iran. Il primo febbraio, quando Ruhollah Khomeini scese dall’aereo che da Parigi lo aveva portato a Teheran, la storia della Persia imboccò la strada che trasformò un paese moderno e occidentalizzato in una teocrazia islamica. L’Iran non era una democrazia prima della rivoluzione, lo scià era certamente un dittatore, e non lo diventò nemmeno dopo, perché la dittatura clericale era anche più repressiva sul piano dei diritti civili e delle libertà individuali. La rivoluzione khomeinista è retriva e anacronistica, ma allo stesso tempo ha avuto una grandissima influenza sui movimenti islamisti nell’universo sciita, e non solo, ed è proprio questo che ha permesso all’Iran di esercitare la sua leadership su di un area vasta, che va dall’altopiano iranico e arriva sino a Siria e a Libano, quindi al Mar Mediterraneo.

ferenza degli altri paesi del Golfo, l’Iran non è una creazione coloniale, è un vecchio Stato con un’identità storica e una continuità istituzionale comparabili soltanto, nel mondo musulmano, a quelle della Turchia ottomana e dell’Egitto. Ha avuto una corte e un’aristocrazia imperiale. Ha una buona borghesia, una classe mercantile, una letteratura, una poesia, una cinematografia, un’arte figurativa. Ha, da più generazioni, una diaspora sparsa per il mondo, fatta di studenti, ricercatori, artisti, uomini d’affari che hanno una formazione internazionale, uno stile di vita europeo o americano, ma non hanno mai rotto i legami con il paese da cui provengono. Negli anni della Guerra Fredda, sino alla rivoluzione del 1979, il regime iraniano era legato all’Occidente, anche se la memoria dell’operazione AJAX (22) e del colpo di Stato che rovesciò il Governo di Mossadeq e rimise sul trono il giovane scià non è mai stata digerita dal popolo iraniano, ed è probabilmente stato questo l’errore strategico che ha permesso l’affermazione del movimento che ha portato i religiosi e i militari infedeli allo scià di conquistare il potere. A modo suo, lo scià Mohammad Reza Pahlavi era stato un modernizzatore, ma sedeva su un trono che gli era stato restituito grazie a un putsh militare organizzato da due potenze straniere, ed era il principale satellite degli Stati Uniti nel Golfo Persico. Le ingerenze straniere nella vita politica iraniana hanno contribuito a legittimare la rivoluzione khomeinista anche negli ambienti non religiosi. Infatti, anche se

Dall’antico Impero persiano alla Repubblica islamica dell’Iran Con i suoi ottanta milioni di abitanti è la presenza più rilevante del Medio Oriente, ma noi occidentali ne abbiamo spesso una visione un po’ stereotipata. A dif-

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Mohammad Reza Pahlavi con Roosevelt alla Conferenza di Teheran del 1943 (wikipedia.org).

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dalla rivoluzione del 1979 è nata la Repubblica islamica dell’Iran, il popolo iraniano non è affatto composto da musulmani integralisti e fanatici religiosi. Al contrario, la Persia era il paese più occidentalizzato e laico dell’area; la caratterizzazione religiosa delle istituzioni iraniane è una forzatura storica recente e non interiorizzata dalla maggioranza della popolazione. La prima realizzazione di principi islamisti radicali come dottrina del potere statale si ebbe proprio nel 1979, inaspettata in un paese diverso dalla maggioranza degli Stati mediorientali, con una lunga storia nazionale e un passato preislamico ancora vivo negli usi e costumi della società contemporanea. L’élite al potere ha semplicemente utilizzato la religione come strumento di controllo sociale, seguendo l’insegnamento di Napoleone Bonaparte, che diceva «Come può esserci ordine in uno Stato senza religione? La religione è uno strumento formidabile per tener buona la gente». Insieme alla paura e alla guerra, potremmo aggiungere, visto che il regime ha utilizzato anche questo, dalla guerra con l’Iraq (23) alla paura dell’Isis, per consolidare il proprio potere e contenere i rischi di rivolta interna. Se questo poi non bastasse c’è anche un sistema forte e capillare di polizia politica, controllo interno e repressione del dissenso, tipico di tutte le dittature. Tuttavia, nonostante la maggior parte degli iraniani sia musulmana, il processo di islamizzazione imposta (il significato letterale della parola è «sottomissione» e per un regime confessionale va preso alla lettera) non è mai riuscito completamente. Come tutti i popoli del mondo, anche gli iraniani non sono un corpo unico. Sono un grande insieme di realtà regionali, etniche e anche religiose diverse. C’è un buon livello di scolarizzazione e di diffusione delle nuove tecnologie digitali, ma volendo semplificare le differenze tra città e campagna, grandi centri urbani e periferia, e tra i diversi ceti e classi sociali della società iraniana, si potrebbe individuare una linea di faglia principale (24). La parte più colta e consapevole dell’opinione pubblica iraniana comprende bene che i governanti al potere stanno deprimendo e mortificando le ricchezze e le potenzialità del paese. In effetti anche l’economia iraniana è gestita così male dai religiosi e dalle Guardie rivoluzionarie che, puntando a sopravvivere solo di petrolio e gas,

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hanno creato un danno profondo alle prospettive di sviluppo di un paese che dispone di enormi ricchezze naturali. Il regime continua a spendere i soldi di cui dispone per i missili balistici o per finanziare le milizie proxy negli altri paesi del Medio Oriente, ma con le sanzioni comminate dagli Stati Uniti la condizione economica di una parte della popolazione è ormai da fame.

Proxy war e terrorismo «Nel maggio 2000 si verificò un evento straordinario. Per la prima volta nella storia mediorientale, un piccolo esercito di guerriglieri sconfisse un esercito occidentale convenzionale, ben attrezzato e addestrato. Prima di essere sconfitto in Libano, Israele, non aveva mai perso una guerra. Fu la prima volta che Israele cedette territori davanti alla forza delle armi» (25). Questa vittoria dell’Iran in Libano non era prevista. Nel 1982, quando all’aeroporto di Damasco una ventina di pasdaran scesero dal 747 dell’Iran Air, nessuno avrebbe creduto che potessero combinare realmente qualcosa, perché il Libano era un caos e perché i libanesi, sciiti compresi, consideravano i persiani come degli stranieri, una razza diversa, e non era affatto detto che li avrebbero accettati come alleati. Gli altri arrivarono in seguito, mai più di cinquecento per volta. C’era la guerra Iran-Iraq in corso e l’ayatollah Khomeini spediva ondate di martiri iraniani sul fronte iracheno a uccidere arabi. Anche se i Guardiani della rivoluzione non arrivavano in Libano per ammazzarli, i libanesi erano comunque arabi. Durante i primi anni della guerra in Libano non c’era molto di più che i pasdaran potessero fare, se non seminare disordine (26). Apparentemente erano come altri stranieri, baathisti, siriani o palestinesi, venuti a rimestare nel torbido in Libano. Ma in realtà la strategia iraniana si basava su due aspetti. Innanzitutto sapevano che i libanesi non volevano essere occupati da nessuno, né dagli israeliani, né dai siriani, né dagli americani, né da chiunque altro. Inoltre in Libano c’era un bacino enorme in cui reclutare guerriglieri, ottimi combattenti che si erano formati nella dura prova della guerra civile libanese. Quella in Libano è il modello di guerra che l’Iran ha adottato per conquistare il suo impero: una guerra combattuta da emissari

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in grado di governare i territori occupati. Certo «gli iraniani non immaginavano che a tre anni dal ritiro israeliano dal Libano gli Stati Uniti avrebbero commesso l’errore madornale di invadere l’Iraq e distruggere Saddam Hussein, nemico storico dell’Iran, offrendo loro il paese su un piatto d’argento» (27). Nel 1982 l’ingresso israeliano in Libano era stato molto più rapido di quanto si potesse immaginare. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che occupava il Libano, disorganizzata e male armata come era, divisa in una ventina di milizie corrotte e in competizione tra loro, non poteva reggere il confronto con le Forze armate israeliane, che in cinque giorni arrivarono alla periferia di Beirut, pronte a invadere la città più moderna e sofisticata del mondo arabo. Come l’Iraq nel 2003, anche il Libano aveva smesso di essere una nazione nel 1975, quando fu sparato il primo colpo della guerra civile, fratturandosi lungo le linee delle tre principali confessioni, sciiti, sunniti e cristiani, che si odiavano tra loro più di quanto odiassero gli israeliani (28). Così «Israele aveva creato in Libano il vuoto perfetto e l’amministrazione Reagan era euforica, convinta che il Libano, una volta liberato dai terroristi palestinesi, sarebbe tornato a essere la Svizzera del Medio Oriente. Un avamposto occidentale, un faro del cambiamento. (…) Esattamente quello che avrebbero pensato nel 2003 i neoconservatori a proposito dell’Iraq. (…) Ma c’era un dettaglio che avevano trascurato sia la Casa Bianca di Reagan, sia gli israeliani: la generazione di quei giovani e induriti guerriglieri libanesi più abituati al kalashnikov che a una scheda elettorale» (29). Fu questo che sfruttarono gli iraniani, che guadagnarono la fiducia degli sciiti del Sud, dei più poveri, frustrati e arrabbiati, e

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li convinsero a combattere contro gli israeliani. Erano musulmani sciiti devoti, ma la guerra che volevano combattere non era di natura religiosa, era una guerra di rivalsa contro i colonizzatori, a prescindere dal fatto che fossero gli antichi ottomani, i francesi, una élite araba occidentalizzata o gli israeliani. Così andarono le cose. L’Iran sovvenzionava in silenzio i libanesi che combattevano contro Israele. Gli iraniani proseguivano una lunga tradizione: nel corso della storia i persiani hanno sempre creduto che ogni operazione importante debba essere compiuta nell’ombra. La guerra che avevano in mente doveva essere coperta dal segreto e combattuta per procura, esclusivamente dai libanesi, gli iraniani si sarebbero limitati a fornire le armi e il denaro. Ogni attacco autobomba, ogni rapimento e ogni omicidio eseguito dai jihadisti aveva l’approvazione dei Guardiani, che a loro volta l’avevano avuta da Khomeini, e poi da Khamenei. «L’Iran non ebbe la meglio in Libano diffondendo la propria religione e la propria cultura, bensì grazie alle più classiche basi del potere: le armi e il denaro. (…) Purtroppo gli americani sono come ciechi di fronte a scenari così complessi e trovano più facile ridurre l’Iran a una teocrazia. Questo è un errore che ha indotto gli Stati Uniti a fare appello alla democrazia e ai valori occidentali per abbattere il regime iraniano, per dimostrare che i mullah erano falsi profeti. Ciò di cui non ci rendiamo conto è che i nostri ideali non abbatteranno mai i mullah, perché già da tempo i mullah hanno barattato il Corano con il kalashnikov» (30). La lealtà di clan e l’elusività degli sciiti rendono Hezbollah poco intelligibile (31). La capacità di tenere un segreto è un aspetto essenziale per vincere una guerra di guerriglia, e gli hezbollah conoscono bene il principio della compartimentazione

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delle informazioni, in base al quale ogni combattente deve sapere solo lo stretto necessario per portare a termine la sua missione. «Ancora oggi né americani, né israeliani conoscono i nomi dei comandanti sul campo di Hezbollah. Israele ha combattuto contro un fantasma» (32). Sotto certi aspetti questo modello è persino più pericoloso di Al-Qaeda (33) e di Daesh.

La strategia imperiale iraniana e la morte di Qasem Soleimani La modernizzazione della guerriglia attuata dall’Iran rappresenta uno sviluppo della tattica militare importante almeno quanto l’introduzione della mitragliatrice nella Prima guerra mondiale o dei carri armati nella seconda (34). L’Iran negli anni ha messo a punto un orientamento strategico contro l’Occidente che potremmo definire «a sciami», e ora ha una strategia realistica e pragmatica. La sua trasformazione da Stato terrorista a potenza militare che domina milizie guerrigliere proxy come Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, o le Forze del sud dell’Iraq, come il partito Da’wa, rappresenta una minaccia significativa e reale di espansione nell’area. Finché ci saranno nel Medio Oriente le condizioni di rabbia e insoddisfazione diffusa ideali per arruolare nuovi mujaheddin, l’Iran replicherà il modello di Hezbollah dove gli sarà possibile, per attuare il suo disegno imperialistico, e rappresenterà la principale minaccia strategica di cui preoccuparci in tutta l’area. Un evento certamente rilevante per tutto il quadrante mediorientale è stata l’eliminazione inaspettata di Qasem Soleimani e di Abu Mahdi al-Muhandis (vicecomandante di una coalizione di milizie irachene che era nel convoglio), avvenuta intorno alla mezzanotte del 2 gennaio 2020, quando alcuni missili lanciati da un drone distrussero

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un convoglio delle Pmu, le Forze di mobilitazione popolare irachene, che stavano accompagnando all’aeroporto una delegazione dei Guardiani della rivoluzione di Teheran. Soleimani era una figura leggendaria, comandava dal 1998 le forze Niru-ye Qods, cioè le unità speciali delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Al Quds in arabo significa «la città santa», cioè Gerusalemme, che è un nome decisamente emblematico per il servizio persiano delle operazioni speciali di intelligence, responsabile di tutte le operazioni all’estero. In altre parole Soleimani era l’uomo che negli ultimi vent’anni ha ridisegnato gli scenari geopolitici del Medio Oriente in favore dell’Iran. Il comandante dei pasdaran aveva stretto nel tempo un legame fortissimo con Hezbollah, il gruppo armato sciita libanese al quale l’Iran ha fornito supporto, armi e soldi. Assieme a Hezbollah, Soleimani ha sostenuto Assad al potere in Siria, mantenendo un fortissimo controllo a Damasco, anche grazie alle amicizie russe che al generale iraniano non sono mai mancate. Con il comando di Soleimani le truppe iraniane e irachene hanno fermato l’avanzata dell’Isis e grazie proprio a queste ultime operazioni il carisma del generale, soprattutto in patria, era cresciuto moltissimo. «Per gli sciiti in Medio Oriente, è un mix di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga», scrisse l’ex analista della CIA Kenneth Pollack nel suo ritratto di Soleimani per la rivista americana Time dedicata alle 100 le persone più influenti al mondo nel 2017. La sua morte ha rappresentato certamente un fattore destabilizzante per la strategia iraniana delle guerre per procura. In una lettera del 2008 al segretario della Difesa USA, il generale Petraeus descriveva Soleimani come «una figura davvero malvagia». Poi, in un’intervista a Public Radio International (PRI), l’ex comandante

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delle forze degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan ed ex direttore della Cia, spiegò che si trattava del «più significativo avversario iraniano» degli Stati Uniti negli ultimi anni, nonché della «più significativa e importante» figura iraniana nella regione. Qassem Soleimani era contemporaneamente tre cose. Era un capo militare, un leader carismatico e un uomo politico. La sua teoria politica militare combinava milizie e istituzioni statali di diversi paesi del Medio Oriente, come per esempio Hezbollah e le istituzioni statali libanesi, o le forze di mobilitazione popolare al-Hahd ash-Sha bi e lo Stato iracheno, per dare a Teheran un vantaggio su tutti i paesi dell’area. L’Iran è infatti presente su tutti i fronti senza che il suo esercito sia direttamente coinvolto. Al generale Petraeus, quando era in comando in Iraq, disse «lei deve sapere che io, Qassem Soleimani, controllo la politica per l’Iran quando si tratta dell’Iraq e anche di Siria, Libano, Gaza e Afghanistan». Era vero, ma è difficile credere davvero che con la sua eliminazione la strategia militare e di potenza iraniana, basata sulla guerra asimmetrica per procura, possa essere seriamente compromessa.

Il nucleare iraniano e l’accordo JCPOA Il Joint Comprehensive Palano of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare voluto fortemente dal Presidente americano Obama, fu sottoscritto il 14 luglio 2015. Un accordo largamente considerato come uno dei migliori esempi di diplomazia multilaterale, e con il quale, secondo l’allora alta rappresentante UE degli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Federica Mogherini, si ponevano le basi per la stabilità, la sicurezza e la pace nell’intera regione. In base a esso, l’Iran avrebbe accettato, per un periodo che andava dai 15 ai 25 anni, una serie di importanti limitazioni e controlli sulle proprie attività nel campo del nucleare: un programma che per Teheran aveva solo scopi civili, ma di cui era lecito temere il possibile sviluppo militare. In cambio della sospensione delle sanzioni inflitte dall’Occidente per la sua attività nucleare, i vertici della Repubblica islamica avevano accettato di ridurre i programmi in maniera sostanziale, rinunciando così, in un combattuto processo decisionale interno (i sovranisti ci sono anche in Iran, non solo in Occidente), alla propria sovranità nazionale in campo energetico. La contropartita per questa rinuncia era il rilancio degli scambi economici con il resto del mondo e investimenti esteri nell’industrie e nelle infrastrutture del paese. Inoltre l’accordo cancellava sanzioni e permetteva la restituzione di somme di denaro bloccate all’estero. Di fatto questo accordo avrebbe potuto rappresentare un tassello importante nella strategia occidentale. In coerenza con quello che in dottrina è chiamato Comprehensive Approach, la strategia per la stabilizzazione e la costruzione di un nuovo equilibrio in Asia centrale si sarebbe dovuta fondare sia sui cosiddetti Quick impact projects (progetti a impatto

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immediato e di basso costo, implementati fondamentalmente per mezzo di cooperazione civile-militare), che su una politica di più ampio respiro e di sostegno agli investimenti, finalizzata all’infrastrutturazione dell’intera area. Poi però negli Stati Uniti venne eletto il presidente Donad Trump, che riteneva che il miracolo di diplomazia multilaterale che Obama aveva realizzato, dopo decenni di scontri frontali tra Washington e Teheran, fosse il peggiore degli accordi possibili. Il 20 settembre 2017, dopo l’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni unite, sulla rete internet dilagava il tweet: «Trump sembrava Ahmadinejad e Rouhani sembrava Obama». Questo doppio paradossale paragone evidenziava come Trump avesse ricreato il clima di tensione e reciproca demonizzazione che aveva accompagnato la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad (lo stesso che all’ONU era andato a mettere in dubbio l’Olocausto e l’attentato dell’11 settembre). La linea dell’amministrazione Trump è stata opposta a quella del suo predecessore, e sin dall’inizio ha esercitato la massima pressione per produrre un cambio di regime a Teheran. La rottura unilaterale del JCPOA e l’adozione di forti sanzioni economiche hanno portato il rial, la valuta dell’Iran, a una diminuzione del 60% negli ultimi 2 anni e l’inflazione annuale al 37%. È quindi diminuito fortemente il potere di acquisto della popolazione. Le sanzioni hanno penalizzato fortemente le aziende che avevano basi produttive esternalizzate, che hanno interrotto trattative economiche, rinunciato ad accordi e affari, per non essere sanzionate. Era inevitabile che l’ostilità di Trump ridesse fiato ai conservatori iraniani, alle loro organizzazioni e allo stesso ayatollah Khamenei, anche se Rouhani vinse di nuovo le elezioni del maggio 2017. Solo alla fine del suo secondo mandato gli ambienti più retrivi e religiosamente radicali hanno avuto la meglio, con l’elezione di Ebrahim Raisi, un magistrato conservatore, con un passato costellato di ombre, tra cui le purghe del 1988, l’esecuzione di minorenni e la tortura di prigionieri. La sconfitta elettorale di Trump alle presidenziali americane del 2020 e l’elezione del presidente democratico Joe Biden segna certamente un’inversione di tendenza della politica americana e occidentale verso il Medio Oriente e in particolare in relazione alla questione nucleare iraniana. Sono ripresi i negoziati per arrivare a un nuovo accordo, che al momento pare non abbiano ancora prodotto risultati concreti.

La Rinascita islamica Nel mondo musulmano si è avuto una «tendenza ricorrente, in tempi di emergenza, a individuare la propria fonte principale di identità e di fedeltà nella comunità religiosa, vale a dire un’identità definita non già da criteri etnici o geografici bensì dall’islamismo» (35). In un mondo che è diventato più informe e alienante, la re-islamizzazione

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«dal basso» è fondamentalmente un modo per ricostruire identità. In particolare, i movimenti per la Rinascita islamica (36) sono una reazione alla perdita d’identità, di ordinamento e strutture sociali, causate dalla rapida introduzione di modelli socio-politici ed economici di stampo occidentale, del laicismo e della cultura scientifica. I movimenti islamici per la rinascita religiosa sono essenzialmente antisecolari, antiuniversalistici e antioccidentali. Rifiutano il relativismo e la cultura consumistica che sono associati al «modernismo», ed è in questo senso che rappresenta la più potente manifestazione antioccidentale esibita dalle società non occidentali (37). «Più di ogni altra cosa la riaffermazione dell’islamismo, quale che sia la forma specifica di settarismo da esso assunta, significa il ripudio dell’influenza americana ed europea sulla società autoctona, sulle sue scelte politiche e sui suoi valori morali» (38). È un rifiuto di quella che è stata definita «l’intossicazione occidentale» delle società non occidentali. È una dichiarazione di indipendenza dall’Occidente e di reazione a quello che Joseph Nye ha definito Soft Power (39). «La Rinascita islamica, in tutta la sua ampiezza e profondità, rappresenta l’ultimo stadio dell’incessante processo di definizione dei rapporti tra civiltà islamica e Occidente, tentativo di trovare la soluzione non nelle ideologie occidentali ma nell’Islam. In essa troviamo l’accettazione della modernità, il rifiuto della cultura occidentale e la rinnovata adesione all’Islam quale guida culturale, religiosa, sociale e politica alla vita nel mondo moderno» (40). Per un verso potremmo dire che la Rinascita islamica presenta tratti comuni con l’ideologia più secolarizzata del secolo scorso: il marxismo. Si fonda su testi sacri, indica una visione di società perfetta, una dedizione a un cambiamento radicale, il rifiuto dell’Occidente e delle sue forme istituzionali, a cominciare dallo Stato nazionale con ordinamento democratico. Per un altro verso invece ricorda la Riforma protestante, che voleva essere una reazione alla stagnazione e corruzione delle istituzioni esistenti, per un ritorno a un’espressione più pura e severa della religione, fattore produttore di ordine e disciplina. Come la Riforma protestante era articolata sulle diverse interpretazioni luterana e calvinista, così la Rinascita islamica ha una variante sunnita e una sciita (41). Come fecero i marxisti e i protestanti, anche gli islamisti hanno prestato grande attenzione all’educazione delle nuove generazioni e alla presenza attiva nella società civile. I gruppi islamici infatti hanno dato vita sia a scuole islamiche che sostenuto l’espansione dell’influenza islamica nella scuola statale. Inoltre hanno dato vita a una rete associativa confessionale che ha affiancato, e a volte superato, l’attività sociale delle fragili istituzioni nazionali, coprendo i vuoti dei Governi con l’organizzazione di servizi medici, sociali, scolastici di carattere privatistico e di orientamento religioso, nonché sindacati studenteschi, organizzazioni giovanili o associazioni pedagogiche. In tutto il mondo islamico sono nati istituti scolastici, dagli asili nido alle università, cliniche, orfanotrofi, ospizi, e persino una rete di avvocati e arbitri islamici, che nel complesso hanno dato vita a un vero e proprio Stato sociale religioso all’interno dello Stato laico. Dagli anni 70 in avanti in tutto il mondo islamico si è registrato un notevole incremento demografico, che si è concentrato maggiormente nelle aree urbane, dove spesso

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nelle periferie degradate l’unico vero welfare era offerto dalle associazioni islamiche. Ma non si tratta solo di attività di politica sociale, ma di un processo di progressiva politicizzazione vera e propria dell’Islam. L’Islam politico ha offerto anche un’identità dignitosa a masse «di oppressi e diseredati» di queste periferie urbane, dove rappresenta il principale riferimento comunitario. «Le masse dell’Islam rivoluzionario sono un frutto della società moderna (…) sono i nuovi immigrati urbani, i milioni di contadini che hanno triplicato la popolazione delle grandi metropoli mussulmane» (42), scrive il politologo francese Olivier Roy. Dall’altro lato però un aspetto interessante che ha progressivamente caratterizzato il mondo islamico nell’ultimo mezzo secolo, è che gli attivisti alla guida delle organizzazioni islamiche spesso sono i giovani più istruiti e brillanti, compresi medici, ingegneri, scienziati, insegnanti, funzionari pubblici. Si è venuta quindi a formare nella società civile associativa e organizzata una classe dirigente islamica, ma il numero di paesi musulmani con Governi democratici è rimasto veramente molto piccolo.

L’Islam politico e l’opposizione ai regimi autocratici mediorientali A parte qualche rara eccezione i Governi dei (circa) quaranta paesi musulmani non sono democratici, ma sono monarchie autoritarie, «sistemi monoparititici, regimi militari, dittature personali o una combinazione di tutti questi elementi, di solito fondati su base familiare, tribale o di clan, e in alcuni casi fortemente dipendenti dal sostegno straniero» (43). Dagli anni Settanta in poi in questi paesi l’islamismo è diventato il corrispettivo funzionale e politico dell’opposizione democratica all’autoritarismo nelle società cristiane della Spagna franchista o di paesi latinoamericani come l’Argentina e il Cile, dove comunque bisogna ricordare che sacerdoti e gruppi religiosi laici hanno a volte svolto un ruolo di resistenza ai regimi autoritari, così come il papa Giovanni Paolo II ha contribuito alla caduta del regime comunista in Polonia (44). «Il successo registrato dai movimenti islamisti nell’assumere la guida dell’opposizione e nel presentarsi come l’unica alternativa possibile ai regimi in carica è stato inoltre molto agevolato dagli indirizzi politici perseguiti da quei regimi. Durante la Guerra Fredda molti Governi, compresi quelli di Algeria, Turchia, Giordania, Egitto e Israele, incoraggiarono e sostennero quei movimenti come forza di opposizione ai comunisti o a movimenti nazionalisti ostili» (45). Come molte altre manifestazioni di revival religioso, la Rinascita islamica è un prodotto della modernità che cerca il modo di venire a patti con essa. Sono infatti le espressioni della modernità, l’urbanizzazione e la mobilità sociale, i più alti livelli di alfabetizzazione e istruzione, la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione che globalizzano il mondo, che minacciano i legami tribali e di clan e generano una crisi identitaria. Di riflesso, lo smarrimento che deriva da questi fenomeni trova proprio nelle credenze e nei valori tradizionali della religione una risposta al bisogno di dare una bussola etica e normativa al motore della modernizzazione. In definitiva il messaggio che la Rinascita islamica ha lanciato alle società musulmane è semplice e convincente: «l’Islam è la soluzione» ai problemi di moralità, identità, orientamento

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e fede, e dunque è l’Islam la chiave per riorganizzare le società e le nazioni islamiche. Dopo gli attentati alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001 si è fatta strada in Occidente una rappresentazione grottesca e sbagliata dell’Islam, spesso associato ingiustamente, per ignoranza, all’esigua minoranza di musulmani radicalizzati, condotti dall’odio verso l’Occidente sulla strada della violenza e del terrorismo. Questo Islam fanatico e perdente, che crede di cambiare il mondo attraverso sanguinosi attentati e vaneggia di improbabili scenari di applicazione globale della sahria, è isolato da tutti i paesi, o quasi. C’è oggi però un’Islam più moderato che si interroga sulla modernizzazione da un punto di vista islamico e non subordinato alle categorie occidentali, e c’è anche un Islam che è una vera e propria teologia della liberazione, impegnato nella trasformazione della realtà, soprattutto nei paesi in via di sviluppo (46). In queste concezioni l’Islam non perde, ma senz’atro diluisce il suo carattere di religione di Legge, per diventare il

fermento che spinge le masse popolari al cambiamento. Conoscere e comprendere il dibattito interno all’Islam contemporaneo è essenziale per valutare gli avvenimenti che hanno scosso tutto il Medio Oriente negli ultimi anni, gli scenari più recenti e le possibili evoluzioni future. Il tema politico forse più scottante è la possibile democratizzazione di questi paesi. Il concetto di democrazia può essere ambiguo perché il «potere del popolo» può venire declinato in diversi modi. I caratteri che noi occidentali consideriamo portanti della democrazia vanno dalle procedure elettorali alla diffusione della partecipazione politica, dalla forma parlamentare dello Stato alla garanzia dei diritti dell’uomo e alla libertà di associazione e di espressione del dissenso. Adottando questi requisiti come criterio riscontriamo che, a parte rare eccezioni, nel panorama del mondo arabo contemporaneo, come in quello del XX secolo, non si può parlare di regimi democratici, a meno che non si ritenga che esistano forme diverse di democrazia. 8

NOTE (1) «Abbiamo bisogno di modelli espliciti o impliciti che ci consentano di: 1 ordinare e creare delle generalizzazioni in merito alla realtà che ci circonda; 2 comprendere le relazioni causali tra i fenomeni; 3 capire in anticipo e, se siamo fortunati, preannunziare gli sviluppi futuri; 4 discernere cosa è importante da cosa non lo è; 5 comprendere quale strada seguire per conseguire i nostri obiettivi». Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 1996, (trad. it.) Lo Scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 2000 Garzanti Editore, p. 27. (2) Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti Editore, 1997, p. 131. (3) Si tratta di un’area molto vasta, divisa in tre regioni: l’Arabia del sud, che copre l’attuale Yemen, chiamato allora regno di Saba, e Oman; l’Arabia centrale (attuale Arabia Saudita), e a nord la cosiddetta mezzaluna fertile, cioè gli attuali Iraq e Giordania, come pure una parte dell’Iran, che formano l’Impero dei Sasanidi, una dinastia persiana che regna dalla Mesopotamia fino all’Indo e che pratica una religione ormai scomparsa, il mazdeismo (Zarathushtra). L’impero dei Sasanidi è in guerra con l’Impero bizantino, situato ancora più a nord. Dagli europei gli abitanti di quest’ampia area, che vivono in tribù che si raggruppano in clan, sono conosciuti poco e sono chiamati Arabi o Saraceni. (4) I beduini di cui narra anche la Bibbia degli ebrei e dei cristiani, come Abramo, Isacco o Giacobbe, sono per la maggior parte degli allevatori che attraversano il deserto con le loro greggi, alla ricerca di pascoli migliori e dei pozzi d’acqua. Talvolta si danno al banditismo, facendo delle «razzie». Gli arabi dicono di essere discendenti di Sem, il terzo figlio di Noè. Sono dei Semiti. Essi si riconoscono nella stirpe d’Abramo, ma mentre gli Ebrei si considerano discendenti d’Isacco, figlio di Sara e Abramo, essi si ritengono discendenti d’Ismaele, il primo figlio che Abramo aveva avuto da Agar. (5) Rientrato da una notte di meditazione sul monte Hira, Maometto racconta di aver visto un essere avvolto da una nube di luce che gli aveva detto: «Sono l’arcangelo Gabriele e tu sei l’inviato di Dio, il profeta di Allah. Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta». È così che Maometto accetta il messaggio che, dopo Abramo, Mosè e Gesù, fa di lui l’ultimo Profeta, quello che suggella la rivelazione: è il «Sigillo». Dio non ha più da rivelarsi. Tutto è ormai detto. Maometto cominciò a portare il messaggio di Dio unico a tutti gli uomini a cominciare dalla sua tribù. (6) ll Libro dei musulmani è il Corano, rivelato da Dio a Maometto, il quale lo dettò ai suoi compagni negli ultimi anni di vita. Il messaggio divino rivelato a Maometto fu scritto come fu raccolto dai fedeli, e riprende anche episodi della Bibbia giudaico cristiana, dalla Genesi alla vita di Gesù. La Sunna è l’insieme delle annotazioni che presero i primi musulmani di quello che Maometto diceva (gli hadit) e di quello che faceva. La Sunna e il Corano sono la base della legge islamica, la sharia, su cui si regge l’Islam. La legge islamica è la bussola etica che guida la umma, che è la comunità di tutti i fedeli che credono nell’Islam, in ogni parte della Terra, che sono circa un quarto della popolazione mondiale. È considerato musulmano ogni bambino che nasce da un padre musulmano, l’adesione all’Islam avviene mediante la semplice pronuncia della professione di fede. Ogni musulmano deve credere che Dio è unico, ha parlato agli uomini attraverso la mediazione dei profeti, e gli angeli sono creature invisibili e il diavolo è un angelo, chiamato Ib’liss, che si oppone a Dio al momento della creazione di Adamo. Il diavolo rappresenta il Male e ogni volta che un uomo commette una colpa, senza saperlo adora Ib’liss. L’uomo deve accettare tutto ciò che gli accade perché è il volere di Dio. Alla fine della sua vita sarà interrogato da Dio perché è responsabile di ciò che fa. Per ognuna delle sue azioni il fedele deve chiedersi se si comporta da buon musulmano, da qui nasce l’idea che la legge islamica non debba regolare solo la vita religiosa, ma che sia anche il modo giusto di governare lo Stato. (7) Nell’Islam però occorre distinguere tra fede e legge. La fede è l’adesione incondizionata all’intervento di Dio, rivelato dal suo profeta, Maometto. I «cinque pilastri», che sono le basi della religione islamica prescritte dal Corano e impegnano tutta la umma, sono: la testimonianza che non c’è alcuna divinità al di fuori di Allah, e che Maometto è il suo profeta; il compimento della preghiera rituale; il versamento dell’elemosina legale; il pellegrinaggio; il digiuno del Ramadan. Nell’Islam non c’è gerarchia religiosa. L’imam è semplicemente colui che guida la preghiera ed è scelto dall’assemblea dei fedeli; non è una funzione, né un titolo. La moschea è il luogo di culto, di preghiera, ma soprattutto è un luogo di incontro, di scambi, di studi e d’insegnamento religioso. All’esterno della moschea c’è il minaretto, che è la torre dalla quale il muezzin invita i fedeli alla preghiera, con quella voce modulata e melodiosa che ritma la giornata in tutte le città dell’Islam.

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica (8) Il jihad, che nel Corano significa «sforzarsi o lottare» per realizzare la volontà divina e condurre una vita virtuosa, è a volte definito il sesto pilastro dell’Islam. Il Corano non associa il jihad all’espressione «guerra santa», sono stati i sovrani musulmani a strumentalizzare il termine per legittimare guerre di espansione imperiale, e poi gruppi fanatici ed estremisti lo hanno usato per giustificare le ribellioni o il terrorismo. (9) I primi versetti coranici che parlano del diritto d’intraprendere un jihad «difensivo» sono: «A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione (di difendersi), perché certamente sono stati oppressi e, in verità Allah ha la potenza di soccorrerli» (Corano 22:39-40). (10) Nella storia dell’Islam, e dei califfati che si sono succeduti, i musulmani hanno vissuto in comunità/Stato islamiche, governate dal diritto islamico. Non c’è il concetto laico di separazione tra Stato e Chiesa. Società e religione, fede e potere, sono interconnessi. L’Islam ha formato e plasmato sia la politica che la cultura, dando vita a grandi Stati, imperi e civiltà islamiche. Nel turath arabo islamico il posto del «popolo-nazione» era occupato dalla umma, cioè la comunità dei credenti che, dal punto di vista politico, si riconosceva in una istituzione sovranazionale e universalistica, il califfato. Tuttavia la umma non è mai stata, in realtà, una comunità transnazionale unita e coesa. (11) I documenti ufficiali ottomani assegnavano ai monarchi europei un rango protocollare inferiore a quello del sultano, sovrano dell’Impero ottomano; era un ragno equivalente a quello del suo visir, o primo ministro. Analogamente agli ambasciatori europei cui era consentito dagli ottomani di risiedere a Costantinopoli, era assegnato lo status di supplicanti. (12) «Come dottrina e come movimento politico, il panarabismo è un’applicazione ai popoli di lingua araba del concetto di nazione tipico dell’Ottocento europeo: la nazione costituisce cioè la suddivisione fondamentale del genere umano; è definita in base a talune caratteristiche mutevoli e tuttavia bene individuabili; è dotata di certi attributi, scopi e diritti politici; ed è infine, così definita, l’unico fondamento legittimo dello Stato. Secondo questa teoria, ogni nazione che non abbia espresso la sua essenza nazionale in uno Stato si trova a essere priva dei suoi diritti; a sua volta, ogni Stato che non sia fondato su di una nazione è arbitrario e illegittimo». Enciclopedia Treccani. (13) «Questi colori si combinavano nella bandiera disegnata e sventolata dal leader della rivolta araba del 1916, al-Hussayn ibn Ali Himmat, che sperava di unire la miriade di tribù arabe sotto una sola bandiera e di conquistare l’indipendenza dall’Impero ottomano. Alcuni storici affermano che a disegnare la bandiera si stato in realtà il diplomatico britannico Mark Sykes; in un caso o nell’altro, è chiaro che vi fu il coinvolgimento del Regno Unito, e che all’epoca l’unità araba serviva gli interessi britannici nella regione. La bandiera doveva rappresentare una immensa regione araba in cui, fino ad allora, c’erano solo le bandiere di tribù e dinastie islamiche. La bandiera della rivolta araba ha tre strisce orizzontali: partendo dall’alto, la prima è nera, la seconda è verde e la terza è bianca. Il terzo di destra della bandiera contiene un triangolo rosso con il vertice rivolto a destra. Poiché la stella e la mezzaluna islamica erano presenti nella bandiera ottomana, escludere questi due simboli avrebbe suggerito una reale rottura col passato; il tricolore europeo venne quindi scelto come struttura e di base e incorporò colori simbolici profondamente islamici e arabi». Tim Marshall, Le 100 bandiere che raccontano il mondo. Garzanti 2019, p. 122. (14) «Il più autorevole di questi ideologi radicali e cristiani per nascita è certamente Michel ‛Aflaq, nato a Damasco nel 1912, fondatore, con il musulmano Salā alDīa Bī ār, del Partito Ba’th (Rinascita). Tale partito, che sembra sia stato fondato nel 1940, iniziò l’attività pubblica nel 1943; nel 1953 si unì al Partito socialista arabo, guidato da un musulmano siriano, Akrām al- aurānī, assumendo la denominazione di Partito socialista della rinascita araba. Il Ba’th ha ottenuto considerevoli successi, divenendo l’unico partito panarabo organizzato con diramazioni e seguaci in quasi tutti i paesi arabi. In varie occasioni è riuscito a salire al potere, da solo o con altri, in Siria e in ‛Irāq, ma è stato indebolito dalla ricorrente tendenza alle lotte intestine. In Siria, il raggiungimento dell’unione con l’Egitto nel 1958 fu in gran parte dovuto alla léadership ba’thista. L’unione doveva però suscitare recriminazioni, e fu di nuovo il Ba’th che si adoperò per minarla e condurla alla dissoluzione. Le successive vicende politiche di questo partito in Siria e ‛Irāq lo hanno condotto al potere senza per questo far progredire l’unità tra i due paesi. I ba’thisti definiscono la loro ideologia come un’ideologia di sinistra, rivoluzionaria e socialista, ma di certo non è facile sceverare dalla copiosa letteratura programmatica che cosa veramente ciò significhi. Termini tipicamente europei quali «di sinistra» e «di destra» hanno ben poco significato se applicati alla politica araba, e perfino il termine socialista — come la stessa Europa dimostra — può avere una varietà di applicazioni, dai socialdemocratici scandinavi o inglesi al cosiddetto «blocco socialista» dell’odierna Europa orientale, al Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori di Adolf Hitler. Echi di tutte queste formazioni politiche sono rintracciabili in parecchie dichiarazioni ufficiali del Ba’th, incluso — per quanto riguarda il tono fortemente sciovinistico — il nazionalsocialismo hitleriano». Enciclopedia Treccani. (15) La terra natale dei wahhabi sta al centro della penisola arabica, nel deserto del Nejd, che oggi si chiama Arabia Saudita. In quel paesaggio nudo e impietoso nacque nel 1703 Ibn Abd al-Wahhab. Non si sa molto della sua infanzia ma pare che fosse ancora giovane quando iniziò a predicare, secondo la sua interpretazione, le pratiche dei primi convertiti all’Islam. Essendosi sollevata contro di lui l’ostilità del suo stesso clan, si trasferì a Dar’iyya. Aveva 41 anni quando, nel 1744, strinse un accordo giurato con l’emiro locale, Muhammad Ibn Sa’ud, fondatore della dinastia saudita, che gli garantì la protezione politica e tribale di cui aveva bisogno in cambio della legittimazione religiosa del suo potere. Da quel momento la famiglia Saud e il wahhabismo sono indissolubilmente legati. Nel 1802, dopo la morte di al-Wahhab, il secondo leader saudita, Abdul-Aziz bin Muhammad, guidò un’armata di 10.000 guerrieri wahhabiti e beduini e attaccò la città irachena di Kerbala, saccheggiandola e massacrando la popolazione innocente, e negli anni successivi Ta’if, e poi La Mecca. Fu il Sultano d’Egitto, Muhammed Ali, a porre fine all’ascesa saudita nel 1813 inviando il suo esercito e ricacciando i wahhabi nel deserto centrale. Quasi un secolo dopo, nel 1902, il giovane e agguerrito principe Abdul Aziz ibn Saud, riunì i discendenti wahhabi sparsi nel deserto del Nejd chiamandoli ikhwan (fratelli) e formando così la «fratellanza wahhabita», che organizzò in comunità chiamate hijrahs, per preparare una nuova conquista del potere. Le hijrahs erano come dei villaggi stanziati nelle oasi, dove venivano inviati insegnanti per istruire i beduini nei precetti fondamentalisti predicati da al-Wahhab. Così l’organizzazione degli ikhwan divenne ultra ideologica. Nel 1924 i guerrieri della «fratellanza wahhabita», al galoppo sui loro cammelli, invasero la regione occidentale dell’Higiaz, sul Mar Rosso, e conquistarono La Mecca e Medina, ponendo le basi di quella che oggi è l’Arabia Saudita. I Sauditi si resero presto conto che per mantenere il potere era necessario cedere all’Ulama (assemblea wahhabita dei capi religiosi) il totale controllo religioso, in cambio di una garanzia di totale lealtà. Per compiacere le autorità religiose nel 1970, grazie alle copiose rimesse petrolifere che transitavano attraverso enti benefici, i sauditi cominciarono a costruire moschee in tutto il mondo e fondare scuole wahhabite (madrasa) e il movimento ebbe una crescita esplosiva anche fuori dai confini della penisola araba. (16) Questo famoso filosofo testimoniò di persona l’invasione dei mongoli, che lui definiva kafiri (infedeli), sebbene fossero anch’essi musulmani. Fu seguendo questo pensiero che al-Wahhab, 5000 anni dopo, condannò gli sciiti e i sufi come kafiri, ordinando ai suoi seguaci di ucciderli e saccheggiare le loro proprietà. Poiché gli sciiti veneravano i loro «santi», Ali e Hussein, e i sufi veneravano i loro maestri fondatori, al-Wahhab denunciò la loro usanza come bida (innovazione religiosa) e decretò la pena capitale per questi suoi correligionali. (17) I wahhabiti erano dunque inflessibili contro ogni manifestazione di superstizione e di sincretismo che potesse minacciare la purezza del messaggio islamico. Erano quindi ostili al culto dei santi e del misticismo sufi, come agli sciiti, accusati di riservare ad Alì, cugino e genero del Profeta, una venerazione blasfema. Questa ostilità contribuì molto a riaccendere i conflitti tra sciiti e sunniti, che vi erano sin dai tempi della successione dopo la morte di Maometto. (18) Da qui deriva il termine salafiyya. (19) «Per definire la Fratellanza, la Guida suprema disse che essa è un messaggio salafita, una via sunnita, una verità mistica, un’organizzazione politica, un gruppo sportivo, un’idea», R. Mitchell, The Society of the Muslim Brothers, Oxford-New York, Oxford University Press, 1993, p.14. (20) «L’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto fu parte essenziale dell’ascesa di una moderna politica di massa, e non la riaffermazione aggressiva del tradizionalismo religioso. (…) Sfidando l’esclusivismo politico dell’élite, i Fratelli musulmani portarono la politica alle classi tradizionali e politicamente inconsapevoli, allargando in questo modo le basi della partecipazione (popolare). (…) L’attrazione esercitata dai Fratelli era legata allo loro abilità di prendere le distanze dall’immagine di conservatorismo religioso che era un marchio dell’establishment islamico del tempo. L’espansione della società era fondata sul fascino ideologico, sull’organizzazione moderna e sugli interessi dei ceti medio-bassi. Grazie alla sua efficienza organizzativa, al seguito di massa e al carattere piccolo-borghese, la società divenne la prima forza politica non elitaria a sfidare le classi dominanti in Egitto». B. Lia, The Society of the Muslim Brothers in Egypt. The Rise o an Islamic Mass Movement (1928-1942), Reading, Ithaca Press, 1998, pp. 279-282. (21) «Sparito era il pulito, armonioso, caritatevole, prospero Occidente descritto nell’opera di al-Tahtawi (l’intellettuale egiziano che visitò la Francia negli anni Trenta dell’Ottocento), l’Occidente dell’Illuminismo, della rivoluzione francese (…) sotto il cui impatto e rispecchiandosi nella cui immagine formularono la loro visione dell’Islam moderno uomini come Khayr al-Dim al Tunisi, Muhammad ‘Abduh e Ridà. Al suo posto, veniva costruita, pezzo per pezzo, un’altra immagine, quella di un Occidente spietato, sfruttatore, auto-distruttivo e letale». B. Nafi, The Rise and Decline of the Arab-Islamic reform Movement, Slough, Crescent Publications, 2000 p. 63. (22) «Il coinvolgimento americano e britannico nella cacciata di Mossadeq è di dominio pubblico da tempo» — si legge sul sito del National Security Archive, che ha pubblicato i documenti declassificati relativi all’operazione TP AJAX — «ma la pubblicazione odierna include quello che si ritiene essere il primo riconoscimento formale, da parte della CIA, dell’aiuto dato dall’agenzia nel pianificare ed eseguire il colpo di Stato». In effetti è vero, non è mai stato un segreto, l’opinione pubblica

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La storia del Medio Oriente e la civiltà islamica ne è al corrente da decenni: la CIA ha pianificato la caduta del Governo democratico di Mohammad Mossadeq, primo ministro iraniano dal 1951 al 1953, favorendo il colpo di Stato militare avvenuto il 19 agosto di quell’anno. La missione coperta, organizzata da servizi americani e britannici, ha un nome noto: . Venne condotta dal potentissimo capo e fondatore della Central Intelligence Agency dell’epoca, Allen Dulles. Tra i file pubblicati, vi sono persino i documenti di lavoro dell’uomo della CIA a Teheran, Kermit Roosevelt, figlio dell’ex presidente Theodore Roosvetl, che ha ricoperto un ruolo chiave nel coup. (23) «I paesi che sostennero il regime di Saddam Hussein (e chiusero un occhio quando il rais iracheno ricorse all’impiego di gas tossici) farebbero bene a ricordarlo. Mentre gli Stati Uniti e buona parte dell’Europa parteggiavano più o meno esplicitamente per l’aggressore, il conflitto stava fornendo alla rivoluzione iraniana milioni di combattenti che sarebbero diventati i veterani di una guerra patriottica e, grazie ai sussidi del regime uno dei pilastri economici della Repubblica islamica». Sergio Romano, Atlante delle crisi mondiali, Rizzoli, 2018, p. 218. (24) È quella che differenzia la parte degli iraniani più impregnata di cultura occidentale, prevalente tra i giovani istruiti e tra i ceti borghesi e intellettuali, dai gruppi più legati al sistema della Repubblica islamica e dai Guardiani della rivoluzione, un potentato economico e politico, non solo militare, e dai gestori delle potentissime fondazioni Bonyad religiose-caritatevoli, da cui si traggono potere e profitto. Su queste entità politiche, economiche e militari, e sulle loro ramificazioni nel sociale, si fonda una vasta base di consenso al regime tra i ceti popolari e tra i gruppi più fedeli all’autorità della Guida suprema. Nella politica iraniana questa differenza si può semplificare con la differenza tra i moderati e i riformisti che si riconoscono nel cauto programma riformatore da una parte, e gli ultraconservatori della destra, che guardano alla Guida suprema come loro leader, dall’altra. Tra le due parti vi sono tensioni, che si riflettono nella dialettica interna alle istituzioni, soprattutto quando c’è un Governo più riformista e propenso ad allentare un pò le maglie del controllo sociale, che si confronta con un potere giudiziario ultraconservatore. Queste tensioni si traducono spesso nel freno ai tentativi di riforma del Governo e nel conseguente malcontento e delusione di ampi strati popolari, che alla fine sono portati a concludere che il potere reale sia unicamente concentrato nelle mani dei religiosi e dei pasdaran. Questo ha portato larghi strati della popolazione insoddisfatta e ostile agli ayatollah a non avere più fiducia nelle possibilità della politica di cambiare le cose «dall’interno», ma anche poca speranza nella possibilità di rovesciare il regime con la forza e di conquistare la democrazia con l’aiuto dell’Occidente, che appare sostanzialmente disinteressato a un cambio di regime. Iran: il dilemma dell’Occidente nel cuore della terra, Europa Atlantica, Alberto Pagani. (25) Robert B. Baer, The devil we know 2008, trad. it. Iranyana. Un agente segreto nel cuore dell’impero di Ahmadinejad. Piemme, 2010, p. 75. (26) Nell’aprile dell’83 fecero esplodere un camion bomba contro l’ambasciata americana a Beirut; nell’ottobre fecero saltare in aria le caserme americane dei marines e dei militari francesi della Forza multinazionale di pace, nell’ottobre dell’84 toccò alla nuova ambasciata americana. Rapirono e uccisero decine di occidentali, guadagnandosi la reputazione di assassini spietati e sovversivi. (27) Ibidem, p. 80. (28) «Più che ritirarsi l’OLP si disperse come uno stormo di piccioni colpito da un fulmine: i palestinesi abbandonarono Beirut senza combattere, ritirandosi nella valle della Bekaa e nel Libano settentrionale. Lo stesso Yasser Arafat battè in ritirata fino al porto libanese di Tripoli da dove fu costretto a partire il 20 dicembre 1983 a bordo di una nave greca, diretto verso un lungo e inglorioso esilio in Tunisia». Ibidem, p. 84. (29) Ibidem, p. 84,85. (30) Ibidem, p. 106. (31) In virtù del principio della taqqiya il credente sciita ha il permesso di mentire, e l’inganno può essere permanente, permeare ogni aspetto della vita, per proteggere la propria fede. Questo è uno dei motivi per cui né l’intelligence americana, né quella israeliana, sono mai stati in grado di infiltrarsi in modo efficace in Hezbollah. (32) Ibidem, p. 109. (33) La spaventosa strage dell’11 settembre, orchestrata da Bin Laden, in fin dei conti che risultato ha prodotto per Al-Qaeda? Nessun territorio, nessuna concessione, nessuna simpatia. Bin Laden è stato ucciso e i sopravvissuti della sua leadership continuano a vivere nelle grotte esattamente come prima, come se le torri gemelle non fossero mai crollate. (34) Sotto l’aspetto militare le specificità e le innovazioni delle tattiche di guerriglia sono significative e rilevanti, vanno dall’elusione della sorveglianza dei cieli e del bombardamento aereo alla capacità di essere visibili e invisibili, nascondendo le identità dei capi militari, dalla segretezza e sicurezza delle comunicazioni alla capacità di decifrare i codici degli avversari, dall’uso di autobomba e camion bomba all’impiego di nuovi esplosivi e di ordigni platter charge e sagomati. (35) Bernard Lewis, «Islamic Revolution», in New York Review of Books, 21 gennaio 1988, p. 47; Kepel, Revenge of God, p. 82. (36) Il fenomeno della «Rinascita islamica» (nahda) è stato oggetto di studio accademico e di riflessione politica dopo la rivoluzione iraniana del 1979. In Persia la riscossa guidata dall’ayatollah Khomeini era fondata sul contrasto dei processi di modernizzazione sociale, economica e tecnologica, introdotti dal regime dello scià, accusati di minare l’identità religiosa del popolo. La rivoluzione iraniana del 1979, ha indicato una strada e in ogni paese musulmano i movimenti islamisti hanno seguito questo modello fondamentalista, nel senso che persegue il ritorno all’Islam delle origini, delle fondamenta, considerato l’unico Islam autentico. La Rinascita islamica dunque attribuisce al nome un significato letterale e implica un vero e proprio ritorno alle fonti, dalle quali trae origine la grandezza musulmana. La nahda, tuttavia rifiuta le rotture necessarie con la tradizione che definiscono la modernità. Rifiuta la separazione tra religione e politica e il principio di laicità dello Stato, condizione necessaria della modernità. La Rinascita islamica esprime la sua valenza fortemente identitaria quando propugna un più ampio utilizzo del linguaggio e del simbolismo religioso e la diffusione dell’insegnamento islamico. Tuttavia non affermando la piena libertà religiosa, o l’aspirazione delle donne alla loro emancipazione sociale, riduce la modernità all’accettazione passiva del progresso tecnico. Inoltre l’adesione ai precetti coranici nella politica spinge verso la reintroduzione della legge islamica al posto del diritto di stampo occidentale. (37) «Gli indizi di un risveglio islamico nella vita di un individuo sono numerosi: maggiore osservanza dei precetti religiosi, il proliferare di programmi e pubblicazioni religiose, maggiore attenzione all’abbigliamento e ai valori islamici, reviviscenza del sufismo. A questa rinascita generale si è accompagnata una riaffermazione dell’islamismo nella vita pubblica, con un aumento del numero di Governi, organizzazioni, leggi, banche, servizi sociali e istituti pedagogici orientati in senso islamico. Governi e movimenti d’opposizione hanno entrambi cominciato a guardare all’islamismo come a uno strumento per accrescere la propria autorità e acquisire consenso popolare. (…) Buona parte dei sovrani e degli uomini di Governo, compresi quelli di Stati maggiormente laici come la Turchia e la Tunisia, resisi conto della potenziale forza propulsiva dell’islamismo, hanno manifestato una maggiore sensibilità verso le questioni riguardanti l’Islam». John L. Esposito, The Islamic Threat: Myth or Reality, New York, Oxford University Press, 1992, p. 12. (38) Ronald Dore, in Bull e Watson (a cura di), Expansion of International Society, p. 411. (39) Soft power è un’espressione coniata da Joseph Nye (professore ad Harvard e consigliere per la Difesa nell’amministrazione Clinton), che indica la capacità di influenzare il comportamento altrui ricorrendo all’attrattiva piuttosto che alla coercizione o all’induzione. È perciò una forma di potere più indiretta dell’hard power (economico o militare), meno legata al Governo e che permette di ottenere risultati nel lungo periodo (obiettivi «di ambiente»). Le sue fonti sono la cultura, i valori e la politica estera, tre aspetti che vengono presi in considerazione nella tesi con particolare riferimento agli Stati Uniti. (40) Samuel P. Huntington, op. cit., p. 154, 155. (41) Potremmo dire che l’ayatollah Khomeini voleva imporre alla società una disciplina monastica, che è quello che aveva fatto a suo tempo Giovanni Calvino, seppure su fondamenta diverse. (42) Enest Gellner, «Up from Imperialism», in «New Republic» 22 maggio 1989, Roy, Failure of Political Islam, p. 53. (43) Samuel P. Huntington, op. cit., p. 161. (44) «Se il Papa è stato un elemento determinante per la caduta del regime comunista in Polonia, l’ayatollah lo è stato altrettanto nel crollo del regime dello shah in Iran». Ibidem, p 162. (45) Prosegue: «Almeno fino alla guerra del Golfo, Arabia Saudita e altri Stati del Golfo hanno offerto generosi finanziamenti alla Confraternita musulmana e ai gruppi islamici di numerosi paesi. Il dominio delle forze d’opposizione da parte dei gruppi islamici è stato altresì rafforzato dall’opera di soppressione delle opposizioni laiche attuata dai Governi. La forza dei fondamentalisti variava generalmente in misure inversamente proporzionale a quella dei partiti democratici o nazionalisti laici ed era minore in quei paesi, quali per esempio il Marocco e la Turchia, che consentivano un certo grado di competizione multipartitica». Ibidem, 163. (46) Uno dei principali esponenti di questa corrente è l’egiziano Hasan Hanafi, secono il quale il centro della discussione teologica non deve più essere Dio, che esiste ma è trascendete e inattingibile, ma l’uomo che vive nella società. («L’importante è ricostruire la dogmatica per rivoluzionare lo stato di cose presente, cioè trasformare tutta la religione in ideologia rivoluzionaria. (…) L’Islam è la prima scuola di pensiero sociale che riconosce le masse come base, il fattore fondamentale e cosciente nel determinare la storia e la società — non l’eletto come pensava Nietzsche, non l’aristocrazia e la nobiltà come pretendeva Platone, non le grandi personalità come credevano Carlyle e Emerson, non quelli dal sangue puro come immaginava Alexis Carrel, non i preti o gli intellettuali, ma le masse». H.Hanafi, Fi fikrina al-mu asir, Il nostro pensiero contemporaneo, Beriut, Dar al-Tanwir, 1983, p. 83).

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PRIMO PIANO

Sahel Matteo Perego di Cremnago

§1. A mo’ di premessa C’è un contagio che sembra correre velocemente come le varianti del Covid-19 ed è quello dei golpe in Sahel: solo negli ultimi 18 mesi i militari hanno rovesciato i governi del Mali, del Ciad, della Guinea, del

Sudan e infine del Burkina Faso, un colpo di Stato quest’ultimo che non può e non deve sorprendere perché frutto di un’instabilità politica, sociale, economica e militare annunciata oltre che diffusa da anni nella regione subsahariana (1) dove l’Europa e l’Italia in par-

Prima di intraprendere la carriera imprenditoriale presso l’azienda fondata dal suo trisavolo, il cappellificio Cambiaghi, ha lavorato nella Giorgio Armani dove ha ricoperto diversi ruoli tra cui General Manager della Giorgio Armani India e COO della Giorgio Armani Brazil. Nel 2018 viene eletto deputato, e da allora è anche membro della IV Commissione Difesa. Dal 22 novembre 2021 entra anche a far parte della III Commissione Affari esteri e comunitari. È primo firmatario della legge sulla cosiddetta Mini-Naja, approvata alla Camera dei Deputati il 27 marzo 2019, e che avvia un progetto sperimentale per la realizzazione di percorsi formativi in ambito militare di sei mesi per i giovani tra i 18 ed i 22 anni di età. È primo firmatario della legge che prevede misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista, proposta di legge che è prossima all’approvazione alla Camera dei deputati. Numerose le iniziative parlamentari approvate a sostegno del comparto delle Forze speciali italiane. Dal 31 marzo 2021 è Vicepresidente del gruppo Forza Italia alla Camera.

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ticolare, sono impegnate con uomini e mezzi sia con la Forza multinazionale denominata TF-TAKUBA (2) che con la «Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger-MISIN» con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin.

§2. Gli obiettivi, in breve, di TF-TAKUBA Gli obiettivi, in breve della forza multinazionale TFTAKUBA sono riassumibili, in estrema sintesi, come segue: il contrasto al terrorismo, ai traffici illegali, alla minaccia della sicurezza internazionale in una regione che non attraversa il continente africano semplicemente da ovest a est, dall’Atlantico al Mar Rosso, ma che rap-

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presenta il confine meridionale dell’Europa, divenendo così un vero e proprio «filtro» di esseri umani per la Libia, quei migranti che stremati arrivano nei «lager libici», citando le parole di Papa Francesco (3), per poi approdare alle coste meridionali europee. Per tutto questo che la presenza dell’Italia e dei partner europei in Sahel è fondamentale oltre che strategica. Tre le ragioni, una la conseguenza. In primis, contrastare non solo militarmente ma anche politicamente ed economicamente i movimenti jihadisti che invece di retrocedere (4) si rafforzano al passare di ogni golpe, di ogni conflitto perché il terrorismo di matrice islamica si alimenta laddove c’è povertà e di-

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Sahel

struzione, corruzione e debolezza politica; significa ragionare e procedere con un comprehensive approach, investendo nel nation bulduing laddove le istituzioni sono fragili. In altre parole occorre mettere al sicuro il nostro continente da una minaccia che passa attraverso la seconda ragione. La tratta dei migranti diretti in Libia e quindi in Europa, di cui il Sahel è il cuore nevralgico (il Niger in particolare), che ha giustamente reso la regione un obiettivo prioritario e centrale della politica estera europea, purtroppo ancora incerta e non omogena rispetto a una crisi umanitaria, economica e di sicurezza che dovrebbe destare l’impegno di ogni Paese membro; infatti abbandonare la regione e ridimensionare l’impegno militare in Mali, come in altri Paesi del Sahel, significa lasciare campo aperto non solo alla minaccia terroristica e ai trafficanti di esseri umani ma ad altri attori e potenze internazionali come la Russia e la Turchia, senza contare la Cina (che nell’area — come ben noto — si è già inserita da tempo) (5). Vi è poi una terza ragione: lo sfruttamento delle risorse minerarie. In particolare: l’uranio in Niger, l’oro in Burkina Faso e Mali, il litio in Mali, il rame ed il ferro in Mauritania. Aspetto geoeconomico questo che si interseca con il raffreddamento dei rapporti tra il regime di Bamako e Parigi che lascia così spazi aperti a Mosca, pronta a «diversificare» i suoi fronti aperti; oppure un soft power in salsa cinese ossia «qualsiasi cosa al di là dell’ambito militare e della sicurezza, includente non solo la cultura popolare e la diplomazia pubblica ma anche leve economiche e

diplomatiche più coercitive come aiuti allo sviluppo, investimenti e la partecipazione a consessi multilaterali» (6), per dirla con le parole dello studioso Joshua Kurlantzick.

§3. Verso una conclusione Così il quadro appena tratteggiato delimita il perimetro della conseguenza, ovvero del pericolo che si intravede all’orizzonte e che fa rabbrividire le potenze occidentali: un nuovo Afghanistan alle porte dell’Europa. Questo impone oggi e non già domani che allo strumento militare si affianchino quelli diplomatico, strategico, economico e di sicurezza. L’Italia sta facendo la sua parte, l’Europa non so. Con la crisi Ucraina, il rientro dall’Afghanistan e l’emergenza libica un passo falso in Sahel sarebbe un colpo mortale alla sicurezza e alla stabilità dell’intera Unione. Si è aperta una stagione di grande espansione del jihadismo in Africa (7), proprio dove le fragilità e le debolezze politiche e istituzionali sono più diffuse e incancrenite. Abbiamo il dovere di mettere in campo ogni strumento a disposizione per evitare che fenomeni come questi minaccino a trecentosessanta gradi la sicurezza nazionale e comunitaria: nelle prossime settimane il Parlamento italiano dovrebbe approvare una mia legge: la pdl «Misure per la prevenzione dell’estremismo violento o terroristico e della radicalizzazione di matrice jihadista» (3357) abbinata a una che tratta il medesimo tema del On. Fiano. È un primo passo che pone le basi di una presa di coscienza collettiva e trasversale, che non possiede colore politico. 8

NOTE (1) Per un rapido sguardo alle Nazioni del Sahel si segnala Atlante Geopolitico, Roma,Treccani, 2021, passim. (2) Cfr. www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Mali_Task_Force_Takuba/Pagine/Missione. (3) www.ilsole24ore.com/art/papa-francesco-vita-va-custodita-sempre-e-basta-ragazze-schiave-AEjyDVCB. (4) La dissoluzione dello «Stato Islamico» (ISIS) non ha, purtroppo, estinto la minaccia terroristica, come è stato evidenziato ad esempio da Varvelli A.-Casola C., La polverizzazione della minaccia del terrorismo tra Africa e Medio Oriente, in Atlante Geopolitico Treccani, Roma 2020, pp. 35-40. (5) In generale, su tali temi, tra i molti, cfr. Ceccarelli Morolli D., Appunti di geopolitica, Roma 2018, passim. (6) Kurlantzick J., Charm offensive: how China’s soft power is transforming the world, Caravan 2008. (7) L’Africa — è stato osservato — è il continente maggiormente devastato dalle guerre; cfr. Tétart F., Il mondo nel 2019 in 200 mappe. Atlante di geopolitica, Gorizia 2018, pp. 76 ss.

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PERFORMANCE Capacità di operare in oceano aperto fino a mare forza3


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Il Medio Oriente in una nuova fase Nel Mediterraneo allargato si osservano nuove dinamiche. Gli attori principali si stanno adattando alle priorità dell’amministrazione Biden. Ma gli Accordi di Abramo non tramontano Germano Dottori Germano Dottori è consigliere d’amministrazione della Fondazione Med-or. Ha insegnato Studi Strategici alla Luiss-Guido Carli. È consigliere scientifico di Limes. Collabora con Rid dal 1996. È consulente parlamentare specializzato nei campi della politica estera, di sicurezza e di Difesa. È autore di numerosi libri e pubblicazioni.

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1. Il Medio Oriente non conosce vera stabilità dal tempo degli attacchi dell’11 settembre 2001. Sono ormai più di venti anni che l’intera regione è in subbuglio. E seppure i jihadisti autori di quegli attentati non abbiano raggiunto i loro scopi, nulla è mai stato come prima. Il Mediterraneo allargato è diventato zona di fermenti e di lotta. Di un confronto ideologico e di uno scontro d’interessi che si rinnovano continuamente, reagendo tanto a sollecitazioni locali quanto a potenti stimoli esterni. Le spinte nella direzione del cambiamento sono state pressanti e hanno sollevato questioni irrisolte tanto sul piano dell’organizzazione interna degli Stati quanto su quello del loro posizionamento internazionale. Gli Stati Uniti risposero all’abbattimento delle Torri Gemelle mettendo in campo l’utopia: ovvero il progetto

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neoconservatore di promuovere manu militari una rivoluzione liberale che dall’Iraq avrebbe dovuto propagarsi ai paesi vicini, rinnovandoli in profondità e occidentalizzandoli anche nella sostanza. La riflessione sulle cause che avevano portato al Qaeda a colpirli convinse gli americani che il terrorismo jihadista fosse la soluzione estrema data all’impossibilità di avvicendare pacificamente le élite in alcune società dagli assetti immutabili. Gli attentatori desideravano indurre l’America a intervenire militarmente in Medio Oriente, per sconfiggerla e quindi far cadere i governi che si credeva traessero la loro forza dal fatto di essere sostenuti da Washington. Gli Stati Uniti accettarono la sfida, modificandone tuttavia i termini. Avrebbero messo sì piede nella regione in cui i jihadisti li avevano voluti attirare, ma sul suolo di un paese che non era loro alleato, per imprimere il cambiamento da lì. Il mondo osservò con il fiato sospeso, senza davvero capire cosa stessero facendo gli americani e perché. Qualcuno fra i migliori analisti statunitensi, in particolare George Friedman, provò a spiegare cosa ci fosse dietro la strategia che era stata adottata, ma senza ottenere particolare risonanza all’estero (1). Nessuno comprese che l’Iraq sarebbe stato attaccato non tanto per la dubbia questione delle armi di distruzione di massa, ma perché da una Baghdad liberata e democratizzata si sarebbe potuta condizionare più efficacemente anche l’Arabia Saudita, che era il paese d’origine del grosso dei terroristi schiantatisi l’11 settembre. La circostanza divise non a caso lo stesso «clan» dei Bush, con l’anziano ex presidente vicino a Riyadh che mobilitò i suoi collaboratori contro la scelta del figlio di assecondare i progetti dei neoconservatori. Oggi sappiamo che le cose non andarono come previsto. Tanto i jihadisti quanto i loro avversari mancarono i loro obiettivi, senza che però si potesse tornare alla situazione antecedente alla caduta delle torri. Saddam Hussein venne deposto, catturato, processato, quindi condannato a morte e impiccato, ma il suo paese non sarebbe divenuto la democrazia funzionante e occidentalizzata che si auspicava. In Afghanistan, dove l’illusione neoconservatrice era stata coltivata più dagli alleati europei dell’America, desiderosi di rilanciare la NATO, che non dagli stessi Stati Uniti, sarebbero addirittura tornati i Taliban, dopo venti anni di combattimenti, seppure in qualche modo riconfigurati.

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2. Non è possibile tuttavia affermare che non sia successo nulla e che nulla sia cambiato. Al contrario, il mutamento è andato incontro a una progressiva accelerazione, determinata principalmente dalla relazione tra gli sviluppi locali e i loro effetti negli Stati Uniti. Quanto accadeva in Medio Oriente, infatti, avrebbe generato retroazioni nella politica americana, accentuando l’opposizione interna alle campagne militari all’estero e determinando l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama, che proprio sulla propria ostilità alla guerra contro l’Iraq aveva basato la propria candidatura alle elezioni presidenziali. Obama avrebbe battuto prima Hillary Clinton durante le tesissime primarie del partito democratico dell’estate 2008 e poi, nel novembre seguente, John McCain, l’avversario repubblicano: due personalità fortemente interventiste e favorevoli a sostenere con le armi le cause umanitarie e la promozione dei diritti umani nel pianeta. Un risultato che impresse una svolta. Fu necessario tuttavia attendere del tempo per apprezzarne completamente le ricadute. Dopo il disastro in Mesopotamia, per gli Stati Uniti era diventato fondamentale perseguire un disegno di riconciliazione con il mondo musulmano, fortemente radicato nel rimland eurasiatico, in un contesto complessivo di riduzione dell’esposizione militare americana in Medio Oriente. Di qui, il discorso obamiano del Cairo e l’apertura al negoziato con l’Iran che avrebbe infine condotto agli accordi di Vienna. E soprattutto la scelta di campo fatta da quel presidente americano in occasione delle Primavere arabe. Gli Stati Uniti avrebbero appoggiato dall’esterno la rivolta contro i regimi autoritari impedendo loro di attuarne la repressione, senza preoccuparsi del fatto che da questi rivolgimenti potessero trarre forza le emanazioni del cosiddetto Islam politico, come poi sarebbe in effetti accaduto (2). In qualche modo, Obama risolse così una contraddizione intrinseca al disegno perseguito dal suo predecessore: l’America avrebbe accettato tutte le implicazioni della democratizzazione del Medio Oriente, inclusa la sua dissociazione dall’occidentalizzazione. Ma questo cambiamento non avrebbe favorito in alcun modo al Qaeda, che pure si era data un obiettivo simile, per due ragioni concomitanti: la caduta dei vecchi regimi si sarebbe verificata non contro l’America e in seguito a

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un suo intervento in loro difesa, ma al contrario con il suo beneplacito e a opera di forze dotate di vasto seguito popolare, sulle quali i terroristi jihadisti non esercitavano alcuna presa particolare. Questo è precisamente ciò che è accaduto tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. E i passaggi fondamentali sono stati il leak concernente l’indifferenza americana al rovesciamento di Ben Alì in Tunisia e la negazione a Mubarak del consenso a disperdere le manifestazioni a piazza Tahrir. I movimenti riconducibili alla Fratellanza Musulmana avrebbero trovato sponde occidentali anche nella rivolta contro il regime di Bashar al-Assad in Siria. Mentre veniva dimenticato Osama bin Laden, eliminato in un raid ad Abbottabad senza suscitare particolari reazioni emotive nelle piazze musulmane, gli egiziani elessero Mohammed Morsi alla presidenza del loro paese. La corte saudita temette per il suo futuro e investì con successo cospicue risorse nel rovesciamento del nuovo leader del Cairo. Si crearono così due schieramenti contrapposti, che sono tuttora visibili ai giorni nostri: da un lato, quello composto da tutte le forze e i movimenti emanazione dell’Islam politico, con Turchia e Qatar alla propria testa, e, dall’altro, il vasto fronte conservatore che gli si opponeva, guidato da Riyadh. La storia del Medio Oriente recente ha ruotato soprattutto attorno a questo duello trasversale, che avrebbe coinvolto lateralmente anche l’Iran, portando in secondo piano la tradizionale rivalità tra sciiti e sunniti. Tra l’altro, non va dimenticato a questo proposito come buona parte dell’alta dirigenza religiosa persiana si sia formata sui testi dei leader politici e culturali della Fratellanza Musulmana, curandone la traduzione e pubblicazione in lingua farsi. 3. Il quadro, conseguentemente, si complicò. Agli occhi sauditi, per esempio, l’Iran divenne un problema persino maggiore, perché oltre a essere la potenza di riferimento degli sciiti, minoritari in Arabia, Teheran risultava allineata ai fratelli, sostenuti dal Qatar e dalla Turchia e considerati una minaccia esistenziale alla sicurezza del regno. In Siria si registrò la combinazione più complessa, perché in quel teatro, in ragione del solido rapporto che si era stabilito con il regime di Damasco, l’Iran si

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Attacco chimico nella Ghouta (ispionline.it).

schierò con Assad, che era sfidato da un cartello assai composito in cui figuravano anche, ma non esclusivamente, organizzazioni prossime alla Fratellanza Musulmana. Tutto il mondo sunnita arabo e Ankara scesero in campo, ma con obiettivi, agende e proxy locali differenti, circostanza che rese specialmente intrattabile quel conflitto. Non sarebbe infatti bastato sconfiggere Assad, ma si sarebbe dovuto decidere chi, tra amici e avversari dell’Islam politico, avrebbe dovuto rimpiazzarlo. L’amministrazione Obama, probabilmente, avrebbe gradito un successo dei Fratelli Musulmani siriani, ma non una vittoria dell’insurrezione ottenuta con il concorso determinante dei loro avversari sostenuti dall’Arabia Saudita. Inoltre, l’arrivo al potere in Iran di un presidente riformista rappresentò un condizionamento ulteriore: se non si inserisce nel calcolo fatto dal governo americano la necessità di non compromettere il consolidamento del neoeletto Hassan Rohani, risulta infatti difficile comprendere tanto l’inazione statunitense di fronte al ricorso da parte dei lealisti siriani alle armi chimiche a Ghouta nell’agosto 2013, quanto la sostanziale acquiescenza di Washington all’ingresso in Siria dei militari russi due anni dopo. Non fu irrisolutezza: come avrebbe potuto Obama negoziare sul nucleare iraniano con un presidente riformi-

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sta che fosse stato umiliato sul suolo siriano? Non ci sarebbero quindi state rappresaglie massicce per l’uso dei gas contro i civili, a dispetto delle invalicabili «linee rosse» che avrebbero dovuto implicarle, ma un accordo per il disarmo chimico delle forze armate siriane. Né Damasco poteva esser lasciata ai jihadisti più radicali che non facevano parte della famiglia della Fratellanza Musulmana. A sostenere un Assad ormai in bilico, salvandolo, avrebbero invece «dovuto» provvedere i russi, la cui presenza a partire dalla fine di settembre 2015 sarebbe stata naturalmente narrata negativamente affinché ne traessero il minor vantaggio possibile, ma in qualche modo anche incoraggiata dalla contestuale scelta americana di ritirare i Patriot che erano stati rischierati in Siria, annunciata all’inizio di ottobre 2015. A chi sottovaluti la valenza di questa mossa, vanno ricordate le possibili implicazioni che avrebbe avuto l’abbattimento di qualche jet russo a opera di uno di questi vettori. Quando poi si verificò effettivamente un incidente di questo tipo, fu in effetti possibile lasciare i turchi da soli a gestirne le conseguenze, esponendoli a sanzioni e pressioni da parte di Mosca, fino al raggiungimento di un accordo di convenienza, sul quale in un certo senso sono tuttora basate le relazioni di cooperazione e competizione tra Russia e Turchia nel Mediterraneo allargato.

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4. Sostanzialmente, la logica geopolitica e quella dello scontro ideologico si sono sovrapposte e miscelate, concorrendo alla determinazione di un quadro che ha poco dell’elegante semplicità della pittura tradizionale e molto, invece, delle scomposte rappresentazioni tipiche del cubismo. Da un lato, sostenitori e avversari dell’Islam politico in tutte le sue declinazioni, in lotta per la determinazione dell’ordine politico in ciascuna società mediorientale; dall’altro, un processo di strutturazione delle sfere d’influenza, tanto in chiave offensiva, quanto con valenza difensiva, con i campioni dell’ordine costituito arroccati a protezione dell’esistente, minacciato dalle potenze revisioniste inclini a sfruttare anche la carica eversiva dell’ideologia veicolata dalla Fratellanza Musulmana. Qualcosa che noi europei abbiamo sperimentato almeno due volte, prima con la Francia napoleonica e poi con l’Unione Sovietica, e dovremmo essere quindi in grado di comprendere. In tutto questo, l’America sarebbe stata un elemento mobile tra i due fronti, con Obama sponsor del cambiamento e il suo successore invece più favorevole a una ricostruzione della stabilità. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, infatti, gli Stati Uniti avrebbero preso le distanze dall’Islam politico, modificando ulteriormente il loro sistema di alleanze informali. E lo avrebbero fatto già nel 2017, con l’intervento del presidente al summit indetto a Riyahd, al termine del quale il 21 maggio Trump si farà fotografare assieme al collega egiziano Fatteh al-Sisi e al monarca saudita con il braccio proteso verso un globo luminoso nell’atto di inaugurare il nuovo Centro Globale per la Lotta all’Estremismo, o Etidal. Prenderà così forma un disegno nuovo, nel quale Trump assocerà alla restaurazione del rapporto storico con l’Arabia, danneggiato dai suoi due predecessori, il rilancio delle relazioni con Israele, mai troppo calde con Barack Obama, e la tessitura di un processo di pace basato su concetti innovativi come l’utilizzo spregiudicato del metodo transattivo, attuato con metodologie derivate dalle prassi del mondo degli affari. L’America avrebbe proseguito la rotta del disimpegno dai teatri esterni, malgrado Trump non riuscisse a perfezionare alcuno dei ritiri che desiderava portare a termine, ma preoccupandosi di costruire un assetto stabile e in

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grado di sopravvivere al ripiegamento degli Stati Uniti, che comunque avrebbero continuato ad agire da equilibratori esterni di ultima istanza. Il progetto sarebbe venuto pienamente alla luce nel 2020, prima con il controverso piano di pace per porre fine al conflitto israelo-palestinese, quindi con gli accordi di Abramo, che avrebbero comportato lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra Israele, da un lato, e dall’altro gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco, quest’ultimo allora governato da un partito vicino all’Islam politico, ma sedotto dall’offerta del riconoscimento americano della sua sovranità sul Sahara Occidentale. Sembrava in qualche modo prendere forma anche un nuovo sistema regionale di sicurezza, nel quale sarebbe stato proprio lo Stato ebraico ad assumersi parte delle responsabilità di cui fino ad allora si erano fatti carico gli americani. L’asse tra Israele e i paesi arabi ostili alla Fratellanza Musulmana avrebbe altresì avuto una propaggine importante nel Mediterraneo Orientale, attraverso il format del cosiddetto East-Med, che attorno al gas era destinato a coinvolgere lo Stato ebraico, l’Egitto, Cipro e la Grecia, con la Francia alle spalle (3). Un disegno, quindi, geopoliticamente organico, sul quale Trump intendeva probabilmente far leva per trattare anche con l’Iran, con l’obiettivo di giungere a un’intesa più ampia di quella raggiunta a Vienna, che avrebbe dovuto implicare non solo la rinuncia di Teheran alle sue ambizioni nucleari, ma anche clausole concernenti l’arsenale missilistico e probabilmente la delimitazione delle sfere d’influenza nell’area. Evidentemente troppo per tutte le parti coinvolte, soprattutto dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani, e nello scorcio finale del mandato di una presidenza ritenuta correttamente ad alto rischio di non essere riconfermata. L’Iran avrebbe scelto invece di far ripartire il proprio programma proliferatorio, sperando di poter tornare a trattare con un Presidente americano diverso da una posizione di forza. La precarietà della posizione interna di Trump ha probabilmente consigliato una posizione attendista anche all’Arabia Saudita, peraltro pienamente parte del processo di riconciliazione tra Israele e il fronte dei paesi sunniti ostili all’Islam politico, ma ancora non firmataria di alcun accordo di Abramo. La politica dell’amministrazione Trump, peraltro,

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Medio Oriente «Accordi di Abramo» del 2020 tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Stati Uniti, Nato, la nuova rotta americana (repubblica.it).

avrebbe fatto registrare sensibili oscillazioni nei confronti della Turchia. Rivale dell’Arabia Saudita, sostenitrice dei movimenti vicini alla Fratellanza Musulmana e attivamente impegnata nella difesa del Qatar, Ankara avrebbe attirato l’attenzione della Casa Bianca facilitando il ripiegamento dei militari americani che erano stati schierati a ridosso del Kurdistan siriano per contribuire al contenimento del sedicente Stato Islamico e proteggere il Rojava. Al di là di questo episodio contingente avvenuto nell’ottobre 2019, probabilmente da ricondurre al bisogno di Trump di presentarsi al voto dell’anno seguente con qualche soldato in meno in prima linea, il ristabilimento di rapporti collaborativi con la Turchia si sarebbe imposto anche alla luce delle relazioni strette da Ankara con Mosca dopo la composizione del contenzioso bilaterale aperto dall’abbattimento di un Sukhoi Su-24 che il 24 novembre 2015 era brevemente entrato nello spazio aereo turco al termine di una sua missione operativa in Siria. In pratica, per evitare scivolamenti ulteriori della Turchia al di fuori dell’ambito atlantico, Trump aveva finito con l’introdurre nella sua politica mediorientale un elemento dissonante rispetto alle scelte strategiche fatte in precedenza. Così facendo, peraltro, avrebbe anche anticipato il riorientamento successivo della po-

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litica mediorientale statunitense cui stiamo assistendo da un anno a questa parte. 5. Con l’arrivo di Joe Biden alla presidenza americana, infatti, la postura statunitense in Medio Oriente è nuovamente cambiata, inducendo tutti gli attori rilevanti a riposizionarsi per adeguarvisi. Anche se l’impianto generale della sua politica regge ancora, alcune scelte fondamentali fatte da Trump sono già andate incontro a revisione. L’importanza relativa annessa alle relazioni con l’Arabia Saudita per esempio è sensibilmente diminuita, come prova la circostanza che Biden abbia autorizzato la pubblicazione delle risultanze assai ostili al principe Mohammed bin Salman di un’inchiesta condotta dalla CIA sui mandanti dell’assassinio di Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre 2018 a Istanbul. Inoltre, gli Stati Uniti hanno ritirato dal suolo saudita le batterie di missili antimissile Patriot che lo proteggevano dai vettori scagliati dagli Houti yemeniti, nel frattempo rimossi dalla lista federale delle organizzazioni definite terroristiche, congelando altresì per qualche tempo le forniture di munizioni dirette a Riyadh e verso gli Emirati. Tali circostanze, oltre a orientare le autorità saudite e di Abu Dhabi a considerare la possibilità di acquisire

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dimostrando come l’intelaiatura degli accordi di Abramo non solo resista, ma ne sia possibile l’ampliamento e comunque si sostanzi ancora in comportamenti coordinati e coerenti da parte dei paesi che li hanno sottoscritti. Altro fatto significativo, sarebbe ormai aperta la porta alla vendita ai turchi di una consistente partita di caccia F-16 americani. Non tutti i problemi sono stati risolti, ma la direzione di marcia sembra cambiata. Si sono registrate conseguenze apprezzabili anche sul format East-Med, del quale, dopo che gli Stati Uniti hanno smesso di contribuirvi finanziariamente, si è interrotto il processo di strutturazione, comunque compromesso dalle conseguenze economiche della pandemia, mentre nella partita energetica in corso nell’Egeo si è reinserita in modo non conflittuale proprio la Turchia, che nel frattempo ha accentuato alcune caratteristiche anti-russe della propria postura, in particolare sostenendo l’Ucraina anche con forniture di materiali d’armamento e tentando di assumere un ruolo di più alto profilo anche in Afghanistan, peraltro con scarso successo, almeno fino agli inizi del 2022. La nuova amministrazione americana, dopo aver confermato il proprio sostegno agli accordi di Abramo già firmati, ha anche provato a riaprire il negoziato sul nucleare iraniano, finora tuttavia con poca fortuna. In effetti la situazione non è più quella del 2015 e neanche quella esistente al momento della de-certificazione e successiva uscita degli Stati Uniti dal JCPOA, decisa da tre anni dopo. Intanto, perché anche i vertici laici della Repubblica Islamica dell’Iran hanno cambiato colore politico, in seguito all’uscita di scena del presidente riformista Hassan F-16 Fighting Falcon, acquistato dagli Stati Uniti o prodotto su licenza in Turchia dalla Turkish Aerospace Rohani e all’avvenuta elezione del Industries (difesaonline.it). conservatore Ebrahim Raisi. Inolsistemi difensivi in Israele, oltre che in Corea del Sud, hanno sicuramente contribuito a incoraggiare e consolidare il processo di riavvicinamento tra Riyadh e Doha, che era stato comunque già avviato nello scorcio conclusivo della presidenza Trump. Più recentemente, l’amministrazione Biden ha guardato al Qatar anche nel contesto dell’elaborazione di una strategia di sostituzione delle importazioni di gas russo diretto all’Europa. Sono state fatte aperture considerevoli anche nei confronti della Turchia, che ha recentemente beneficiato di un considerevole sostegno finanziario da parte degli Emirati Arabi Uniti in un momento particolarmente difficile per la bilancia dei pagamenti turca: uno scambio di valuta, concordato tra le banche centrali dei due paesi, pari a 4,74 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti i 10 stanziati da Abu Dhabi per investimenti nelle infrastrutture strategiche turche (4). Parallelamente, il presidente Erdogan ha invitato ad Ankara il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha accettato,

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tre, il programma nucleare di Teheran è andato avanti, mettendo nelle mani dell’Iran una quantità di uranio arricchito ben oltre la soglia richiesta dagli usi civili e pacifici dell’energia nucleare, si parla ormai apertamente anche del 60%, al punto che vi è ormai chi pensa che le trattative non vertano più sulla difesa del regime di non proliferazione, ma debbano essere reimpostate in termini di gestione della futura dissuasione nucleare reciproca, con la partecipazione attiva delle Difese coinvolte. Il quadro si presenta quindi molto fluido e aperto a ulteriori evoluzioni, non solo per effetto di dinamiche intrinseche alla regione, ma anche a causa del coinvolgimento del Medio Oriente in partite geopoliticamente più ampie, in cui sono presenti anche la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese. Mentre gli americani si sono rivolti al Qatar per sottrarre l’Europa Occidentale alla dipendenza energetica dalla Russia, Mosca ha messo apparentemente allo studio la possibilità di distribuire parte del suo gas attraverso l’Iran, forse per diversificare i propri mercati di sbocco e prepararsi a fronteggiare l’eventuale riduzione o scomparsa della domanda europea in seguito al possibile avvitamento della crisi in atto in Ucraina. C’è molta attenzione anche a ciò che fa la Cina, particolarmente nei confronti degli Emirati Arabi Uniti, che forse non riusciranno ad acquistare gli F-35 che desiderano, a causa della necessità americana di proteggere i segreti del caccia, molto appetiti dai cinesi, che sono influenti ad Abu Dhabi. Il Medio Oriente rimane profondamente immerso nei processi che stanno trasformando gli equilibri globali. 6. Naturalmente, quanto sta avvenendo è destinato ad avere ripercussioni anche sul nostro paese, che in Medio Oriente e nel Mediterraneo allargato ha importanti interessi. Per quanto la situazione appaia in forte evoluzione, le prospettive per l’Italia sembrano attualmente migliori di qualche anno fa. Roma ha in effetti sofferto notevolmente l’urto che ha frammentato il

mondo sunnita in seguito allo scoppio delle Primavere Arabe e ha pagato un prezzo particolarmente alto alla destrutturazione della Libia. Tendenzialmente, il nostro paese è infatti una potenza manifatturiera a grossa vocazione commerciale, che importa da una grande quantità di nazioni e ha posizioni da difendere nel mercato globale, circostanza che fa di ogni contrapposizione geopolitica e della conseguente instabilità un problema. La dipendenza di nostre filiere industriali da acquirenti in lotta fra loro è fonte di difficoltà che generano attriti importanti, anche perché talvolta ingigantite e sfruttate ad arte dai nostri competitori. Abbiamo guardato con speranza al processo di riconciliazione con l’Iran avviato da Barack Obama, per esempio, e mantenuto buoni rapporti con chi sosteneva l’Islam politico sunnita in quegli anni, senza però mai rinunciare alla tutela dei nostri interessi nei paesi che si trovavano dall’altro lato della barricata, come l’Egitto, al quale abbiamo ceduto cospicue quantità di materiali d’armamento esattamente come al Qatar. Ma tutto questo ha comportato anche tensioni e incomprensioni. La maggiore fluidità che si prospetta, per effetto della più recente correzione apportata dall’amministrazione Biden alla politica mediorientale degli Stati Uniti, dovrebbe adesso rendere più agile lo sviluppo della nostra diplomazia commerciale tanto nel Mediterraneo Orientale quanto nella regione del Golfo Persico. L’Italia dovrebbe trarre beneficio anche dalle conseguenze che queste novità dispiegheranno sulla politica francese, stemperando la rivalità che oppone Parigi ad Ankara e quindi facilitandoci anche la gestione del Trattato del Quirinale, che ha aperto le basi militari del nostro paese ai nostri vicini transalpini. La congiuntura è favorevole. Dobbiamo quindi predisporci a cogliere, con ogni strumento possibile offerto dalla diplomazia istituzionale e dai canali informali, tutte le opportunità che potrà dischiuderci, prima che il vento cambi nuovamente. 8

NOTE (1) Cfr. George Friedman, America’s Secret War. Inside the Hidden Struggle Between the United States and Its Enemies, Doubleday, New York, 2004, pp. 232-85. (2) È interessante ricordare come già nel 2002 l’allora senatore Barack Obama avesse invitato in un suo discorso il presidente George W. Bush a battersi affinché i «cosiddetti alleati» degli Stati Uniti in Medio Oriente, in particolare gli egiziani e i sauditi, smettessero di opprimere i loro popoli, sopprimere il dissenso e tollerare corruzione e ineguaglianza. Citato in Simon Henderson, The Long Divorce, in Foreign Policy, 19 aprile 2016. (3) Sulla recente politica mediorientale della Francia, vds. Christian Chesnot e Georges Malbrunot, Le déclassement français, Neuilly-sur-Seine, 2022. (4) Cfr. il punto redatto per Med-or da Denise Coco, Tra energia, economia e geopolitica. La Turchia e il suo ruolo nel Mediterraneo, 27 gennaio 2022, pubblicato sul sito internet Med-or.org.

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PRIMO PIANO

La «guerra ombra» che infiamma il Medio Oriente Lorenzo Vita

Kuwait foto di Steve McCurry (arteworld.it).

Dottore in Giurisprudenza, ha conseguito il master in Geopolitica e sicurezza globale presso l’Università La Sapienza di Roma e ha seguito corsi di specializzazione sul terrorismo internazionale e le guerre ibride presso la SIOI. Nella redazione de il Giornale e di InsideOver dal 2017, si occupa di politica estera e questioni internazionali. È autore del libro L’onda turca. Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato (Historica-Giubilei Regnani, 2021).

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I

l duello tra Iran e Israele è uno scontro del tutto peculiare rispetto ai conflitti che coinvolgono (o che hanno coinvolto) i protagonisti del Medio Oriente. Innanzitutto, per il livello del conflitto, giunto a una proiezione non solo mondiale, ma anche su diversi domini, e che si caratterizza come una vera e propria «guerra non dichiarata a bassa intensità». Inoltre, rispetto ad altri fronti che hanno coinvolto Israele — si pensi ai conflitti arabo-israeliani e a quelli israelo-palestinesi — non c’è una radice etnica, culturale o nazionalistica per cui il conflitto appare come qualcosa di inevitabile e frutto di rivendicazioni irriducibili. A differenza di altri Stati, infatti, prima dell’ascesa dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini le relazioni tra i due Stati erano positive. L’Iran, potenza non araba della regione insieme alla Turchia, condivideva una visione laica dello Stato ebraico che andava formandosi nel territorio del mandato britannico della Palestina. E questo fa comprendere come questo conflitto abbia anche rovesciato i paradigmi su cui si basava il Medio Oriente nei decenni precedenti: gli amici sono diventati avversari. E i vecchi nemici ora sono partner nella lotta tra le due principali potenze della regione.

Dall’alleanza delle periferie alla rivoluzione I rapporti di buon vicinato di Israele con i Paesi non arabi della regione (ma anche con l’Etiopia imperiale oltre che con diverse minoranze del Medio Oriente) rientravano in quella iniziale strategia promossa da David Ben-Gurion e Eliyahu Sasson passata alla storia come «alleanza delle periferie» (1). Con questo termine, si intendeva una politica estera tesa a consolidare partnership e interessi con Stati o comunità che non appartenevano al mondo arabo e che dunque non rientravano nel novero degli avversari coinvolti nel conflitto arabo-israeliano. Legami che anzi avrebbero potuto disinnescare sul nascere eventuali scenari di conflitti panislamici contro il neonato Stato ebraico. I rapporti tra Iran e Israele hanno subito un rapido declino con l’avvento della rivoluzione khomeinista. Il regime teocratico manifestò immediatamente il desiderio di rompere la partnership costruita dalla dinastia Pahlavi con lo Stato di Israele. E pur mantenendo per un certo periodo rapporti clandestini utili alle strategie

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di entrambi i Paesi, le relazioni bilaterali si sono fatte prima instabili, poi estremamente negative al punto di arrivare alla completa rottura. Un’interruzione dei rapporti che dunque non nasce sul piano etnico o culturale, ma per una precisa scelta politica scaturita in particolare da un regime change che ha modificato radicalmente anche gli obiettivi regionali iraniani. Ambizioni che hanno finito per diventare inconciliabili con gli equilibri costruiti dal sistema precedente. Di qui una serie di effetti che, a cascata, si sono riversati sia sulle scelte strategiche israeliane e iraniane. Una volta che i governi dello Stato ebraico hanno appurato che la perdita di Teheran come partner sarebbe stata certa, Tel Aviv ha cercato di riequilibrare la sua politica estera evitando il rischio di nuovi conflitti contro il mondo arabo. Un processo graduale che è nato anche dal timore che con questo cambiamento geopolitico nella regione non vi sarebbe stata alcuna «alleanza delle periferie» a escludere l’eventualità di una guerra di matrice religiosa e ampliata a diverse comunità. Processo che oggi, dopo anni di rapporti sotterranei, si è palesato con il progressivo consolidamento degli «accordi di Abramo» (2020). In secondo luogo, Iran e Iraq, dopo il devastante conflitto intercorso tra i due Stati, si erano indeboliti a tal punto da non essere più una minaccia l’uno per l’altro. Cosa che ha permesso a Teheran di svincolarsi dai rapporti clandestini con Israele durante il conflitto (2) e, al contempo, ha reso possibile alla Repubblica islamica di concentrarsi sullo sviluppo di una rete regionale imperniata anche sullo scontro con Israele, nel frattempo diventato, per il sistema di propaganda, «il piccolo Satana» (3). In Libano, la fioritura di Hezbollah e l’invasione da parte di Israele sancirono la fine di un ciclo storico-politico in cui lo Stato ebraico poteva apparire come elemento divisivo nella percezione della comunità islamica mediorientale. Tutto questo avveniva poi in una fase storica in cui appariva sempre più evidente la nascita di una visione confessionale della politica nel mondo arabo. Deriva che andava di pari passo con il declino dell’Unione Sovietica e il tramonto di regimi socialisti e movimenti di stampo laico spesso sostenuti anche da Mosca.

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La «guerra ombra» che infiamma il Medio Oriente

Questa miscela di fenomeni ha contributo in modo sostanziale a un cambiamento radicale delle prospettive geostrategiche dell’Iran, interessato a realizzare una trama di rapporti che avessero come base anche la costruzione di un modello rivoluzionario di ispirazione islamica. Un modello che a quel punto si rendeva però del tutto confliggente con la politica israeliana della «alleanza delle periferie», dal momento che la Repubblica islamica non poteva né voleva più considerarsi a margine del mondo mediorientale a maggioranza araba, ma ne era ormai pienamente coinvolta, seppur differenziata per matrice confessionale ed etnica. Unendo elementi di propaganda sempre più accesi, ambizioni di autonomia strategica e desideri di riequilibrare le gerarchie politico-militari regionali, l’Iran ha costruito un’immagine (e una politica estera) per cui Israele non avrebbe potuto applicare se non gli schemi adottati con i precedenti avversari regionali. Rovesciati i presupposti della vecchia «alleanza delle periferie», ora tra i due Paesi vi erano profili di reciproco sospetto, se non di vera e propria inimicizia.

Un regime change internazionale Questa breve parentesi storica ci aiuta a comprendere anche le differenze strutturali di questo conflitto rispetto agli altri che hanno caratterizzato le relazioni arabo-israeliane. Lo scontro di fatto scaturisce da un regime change che ha sradicato le logiche regionali. La rivoluzione non ha solo rovesciato le strutture interne al paese trasformandolo l’Iran in una repubblica di stampo teocratico, ma anche il suo respiro internazionale. Ed è da quel momento che la partita tra le due potenze si è caratterizzata per obiettivi di reciproco contenimento e sulla ferma determinazione iraniana nel fermare l’egemonia dello Stato ebraico e in quella israeliana di fermare l’avanzata di un paese che da partner contro i vecchi nemici, era diventato a tutti gli effetti il peggiore avversario strategico. Il duello si è evoluto principalmente attraverso due direttrici. La prima riguarda il generale obiettivo israeliano di mantenere uno status quo di supremazia nucleare contenendo le velleità di qualsiasi Stato che senta il bisogno di interrompere questo equilibrio strategico. La seconda direttrice, invece, è quella fondata

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sul desiderio iraniano di estendere la propria influenza al di là del territorio della Repubblica sfruttando una rete di alleanze, proxy e partnership economiche, cui si aggiunge lo speculare piano israeliano di contenere le ambizioni iraniane modificando il proprio approccio nei confronti dei paesi del Golfo e del Medio Oriente in generale. La presenza di questi due binari su cui si è sviluppata la sfida tra Iran e Israele ha fatto sì che negli anni si sia costruita una partita a scacchi in cui i due attori principali hanno duellato su diversi domini e con differenti tattiche. Diverse perché differenti sono stati gli obiettivi a breve, medio e lungo termine che via via hanno fatto capolino nell’agenda delle due nazioni.

Il problema del nucleare iraniano Il nodo principale che fa da sfondo a questa enorme sfida è certamente il programma nucleare dell’Iran. Non è questa la sede per una compiuta storia delle ambizioni atomiche di Teheran. Tuttavia, è importante sottolineare come il paese coltivi da prima della rivoluzione khomeinista l’ambizione di sviluppare una propria agenda nucleare. La questione era stata considerata approfonditamente anche dagli Stati Uniti, che in una prima fase durante la Guerra Fredda avevano stipulato degli accordi per permettere all’allora regno dello scià di avere delle centrali atomiche. La questione è diventata particolarmente importante per Israele nel momento in cui l’avvento della teocrazia khomeinista ha modificato la proiezione regionale dell’Iran e la sua visione del mondo. I governi della Stella di David hanno perciò iniziato a porsi il problema di come convivere con un Paese profondamente diverso e potenzialmente ostile qualora questo si fosse dotato di un’arma nucleare. Problema che si è palesato nel momento in cui l’Iran rivoluzionario ha certificato la propria visione dello Stato ebraico al punto da minacciarne la cancellazione. Questo cambiamento ha fatto sì che nel corso degli anni Israele abbia avviato una politica di pressione diplomatica, di intelligence e infine militare

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per evitare che l’Iran si dotasse di un’arma nucleare. Obiettivo che per Israele non riguarda solo l’Iran, ma tutta la regione. Il paese teme che una volta sdoganata la possibilità che un altro attore regionale si doti di un arsenale nucleare, immediatamente verrebbe rovesciato il paradigma su cui si basa il Medio Oriente, e cioè con Israele unica potenza legittimata — seppur in maniera informale — ad avere un arsenale atomico. Questo chiaramente implica che il problema di Israele con l’Iran non sia sintetizzabile in uno scontro da «scontro di civiltà», come spesso si tende a leggere in modo superficiale. Il problema è di natura strategica: e cioè che Israele non può permettersi che un’altra potenza, oltretutto avversaria, sia in grado di riequilibrare il vantaggio strategico che fino a questo momento i governi dello Stato ebraico sono riusciti a mantenere nell’area. Questo obiettivo è da sempre uno dei perni della politica estera israeliana e non coinvolge solo Teheran. È opportuno ricordare che nel corso della sua storia recente Israele ha sempre evitato che altri Stati avessero armi nucleari o reattori in grado di produrne. Questa linea rossa israeliana — nota come dottrina Begin dal nome del suo ideatore, il primo ministro Menachem Begin — è stata la base strategica con cui lo Stato ebraico ha colpito, per esempio, i reattori di Osirak, in Iraq, e di Deir Ezzor, in Siria (4). Attacchi clandestini, confermati solo successivamente, che sono serviti proprio per evitare che Baghdad e Damasco potessero ottenere una dotazione atomica in grado di colpire Israele o di costruire un deterrente nucleare. È proprio su questa premessa dottrinale che si comprende il motivo per cui le amministrazioni israeliane premono affinché venga rallentato — se non direttamente interrotto — il programma nucleare iraniano. Obiettivi di medio e lungo termine che comportano una serie di scelte, sia a livello diplomatico sia a livello di intelligence e militare che minino la possibilità di un paese ostile — in questo caso la Repubblica islamica — di dotarsi di un armamento atomico. La dimostrazione è arrivata dalla netta ostilità con cui il paese ha accolto la firma

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dell’accordo siglato nel 2015 tra le potenze mondiali e l’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action), tanto che l’allora premier Benjamin Netanyahu fece ripetutamente pressioni anche pubbliche per modificare gli accordi o per chiedere ai partner occidentali di recedere. Pressioni che, se hanno avuto come conseguenza la decisione di Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti, non hanno comunque interrotto la politica «operativa» dei comandi israeliani per frenare le ambizioni atomiche degli ayatollah. Lo dimostrano alcune operazioni dei servizi che hanno puntato a eliminare personalità di spicco del programma nucleare (l’ultimo, lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh) (5). Nel frattempo, sono avvenute nel corso degli anni diverse azioni di sabotaggio che hanno coinvolto sia il piano cibernetico che quello «fisico». Interessanti a tal proposito le operazioni di attacco con l’impiego di virus informatici, e i continui incidenti che hanno coinvolto la centrale di Natanz (6), cuore del programma nucleare iraniano. Altrettanto importante anche la serie di misteriosi incidenti che ha coinvolto i siti vicini al programma missilistico e atomico di Teheran. Una guerra a bassa intensità ma dall’elevato livello tecnologico, di intelligence e di capacità di penetrare in territorio nemico. Elementi che minano anche l’autorità di politici, militari e Guardiani della rivoluzione, che appaiono inadeguati a gestire la sicurezza del loro «core business».

Mezzaluna sciita L’obiettivo di rallentare il programma nucleare iraniano va in parallelo con l’esigenza di Israele di frenare le ambizioni regionali dell’Iran. Questo perché la Repubblica islamica ha sviluppato una visione regionale che, se non può definirsi imperiale, certamente ha caratteristiche che non rientrano nella tipica politica dei partner arabi che circondano Israele. Gerusalemme teme che Teheran possa dotarsi del potenziale per costruire un arsenale nucleare per quell’impostazione mentale che affonda le radici nella «dottrina Begin». Ma i governi dello Stato ebraico sono anche consapevoli che l’Iran, erede di una cultura strategica profonda e storicamente radicata nella regione, possieda le potenzialità necessarie per ampliare la propria sfera di influenza al punto da incidere in maniera sensibile

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Oriente. Lo aveva fatto in Iraq, dove la caduta di Saddam Hussein avrebbe dovuto porre, almeno presumibilmente, le basi per la creazione di uno Stato legato all’agenda di Washington, mentre l’ascesa del sedicente Stato islamico ha cristallizzato il ruolo preponderante delle milizie sciite (7). Nello stesso periodo della guerra siriana, arrivavano poi conferme di rapporti con il Qatar, paese con cui il governo iraniano non condivideva certo le medesime posizioni culturali, ma (...) «mezzaluna sciita». Con questo termine si indica un vasto sistema di alleanze e di proxy che costituisce con cui invece ha stretto relaun arco geografico capace di collegare l’Iran al Mediterraneo attraverso legami politici, militari e culturali (...) zioni pragmatiche basate (geopolitica.info). sull’interscambio commerciale e sulla condivisione dei giacimenti di gas del Golfo (8). Solidi rapporti si erano sull’intera regione. E che rende il paese del tutto dipoi consolidati con l’Oman, con cui l’Iran mantiene il verso rispetto agli altri partner con cui Israele si intercontrollo dello Stretto di Hormuz. Più a sud, il sostegno faccia nell’area. ai ribelli Houti in Yemen aveva evidenziato un raggio Questa capacità dell’Iran è stata tradotta con un terd’azione di Teheran che era riuscito a raggiungere Aden mine che ha avuto ampia fortuna nei media: la «meze Bab el-Mandeb. Mentre attraverso la penetrazione di zaluna sciita». Con questo termine si indica un vasto alcune frange palestinesi e con l’alleato di sempre, sistema di alleanze e di proxy che costituisce un arco Hezbollah, gli ayatollah sono infine riusciti a ricongeografico capace di collegare l’Iran al Mediterraneo giungersi anche ai confini israeliani, puntellando di attraverso legami politici, militari e culturali. Un corfatto l’intero Medio Oriente. ridoio che rappresenta plasticamente l’aspirazione straIl quadro che si è mostrato agli occhi degli analisti e tegica dell’Iran di espandere la propria influenza fino degli strateghi è stato dunque quello di un Iran che non ad arrivare al Mare Nostrum e che quindi lambisce il era più racchiuso nel suo guscio persiano, ma che anzi territorio israeliano rovesciando il concetto di «perifeera proiettato ed era ben radicato in tutta la regione. A rie» caro agli antichi buoni rapporti tra le due nazioni. volte ben al di là delle previsioni degli osservatori. Questo sistema regionale iraniano — che ha avuto La manifestazione concreta di questa mezzaluna nei Pasdaran e in particolare in Qasem Soleimani i suoi sciita a Damasco ha fatto sì che Israele decidesse di inprincipali artefici — si è manifestato in tutto il suo vitervenire in una guerra, quella di Siria, che in una prima gore con la guerra in Siria. L’intervento in supporto di fase aveva cercato sostanzialmente di evitare. L’interBashar al Assad è stato infatti la dimostrazione più provento si è reso progressivamente più chiaro nel corso fonda e complessa di come l’Iran avesse esteso il degli anni soprattutto per l’insistenza dei raid in terri«limes» del suo «impero» ben oltre la linea del Golfo torio siriano. Bombardamenti che hanno avuto in larga Persico, collegandosi ormai al suo avamposto libanese parte come «target» i Guardiani della rivoluzione, le direttamente via terra ampliandosi in tutto il Medio

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milizie sciite e i convogli che avevano come scopo quello di rifornire le milizie filoiraniane e Hezbollah, impegnate nella guerra per Damasco ma anche per premere ai confini dello Stato ebraico. Questi raid, in larga parte mai smentiti né confermati dallo Stato ebraico, hanno avuto due conseguenze. Da un lato hanno ribadito l’importanza del nodo iraniano per l’agenda di Gerusalemme, al punto da scatenare una campagna militare chirurgica e continuativa. Dall’altro lato, questi «strike» hanno però avuto un altro effetto, e cioè sottolineare l’importanza e la peculiarità dei rapporti diplomatici creati da Iran e Israele nella grande «guerra mondiale» che incendiava la Siria. Chiaramente gli Stati Uniti hanno sempre costituito il partner più sicuro dello Stato ebraico, anche se in diversi momenti vi sono state delle profonde divergenze sulle modalità di azione all’interno del contesto siriano. Così come sul lato iraniano erano chiari i rapporti con altre forze parastatali collegate al mondo sciita. Ma quello che si è manifestato in maniera più peculiare è stato il rapporto tra Israele e Russia. La guerra siriana, infatti, ha cambiato la reciproca percezione di Mosca e Gerusalemme, sia per la decisione del Cremlino di intervenire a sostegno di Assad, sia per le azioni di Israele che, colpendo i partner del governo siriano, conseguentemente potevano ledere la strategia russa. Una volta assunto il controllo di Hmeimim, Latakia, e dello spazio aereo siriano, i russi hanno consolidato una posizione per cui sarebbe stato impossibile per le forze israeliane continuare a colpire indiscriminatamente senza il placet del Cremlino. D’altro canto, Vladimir Putin, come sostengono alcuni analisti, ha compreso che lo scontro sotterraneo tra Iran e Israele avrebbe minato la leadership di Assad, ma allo stesso tempo anche evitato che Damasco si trasformasse nel cortile di casa delle forze sciite e iraniane: alleati, certo, ma con visioni differenti della questione siriana (9). Proprio per questo motivo, i primi ministri israeliani Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett hanno mantenuto continui e diretti canali di comunicazione con i vertici russi (10). E lo stesso desiderio si è manifestato da parte del Cremlino, con Putin che ha garantito un cuscinetto di sicurezza a nord di Israele per evitare la presenza di milizie filoiraniane e, in contemporanea, ha

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avallato — pur con alcune linee rosse molto nette — la maggior parte dei raid della «Fionda di David» (11). Tutto questo mentre rassicurava Teheran coinvolgendola nel formato «diplomatico» di Astana. Un equilibrismo difficilissimo, quello dei russi (12), ma che ha reso possibile un lungo (seppur precario) bilanciamento delle forze senza che scoppiasse una guerra ad alta intensità. Il contenimento israeliano dell’Iran si è poi concentrato in maniera sempre più precisa ed estesa su quella mezzaluna sciita che blindava la rete iraniana dal Golfo Persico al Mediterraneo. Il focus principale si è certamente avuto in Siria, dove Israele ha continuato a colpire raggiungendo anche le vicinanze del porto di Latakia. Tuttavia, le attenzioni si sono estese anche in Iraq, in particolare contro le milizie legate agli ayatollah (13). Si è reso necessario ripristinare i legami con gli attori del Golfo e i paesi che ormai da anni avevano stabilito relazioni «nascoste» con lo Stato ebraico. E nel frattempo, i venti di guerra hanno investito anche il Libano, dove si è confermata la Forza militare del «Partito di Dio».

Il fronte marittimo della «guerra ombra» L’estensione dello scontro e della rete iraniana, ci permette di analizzare il conflitto ombra tra Iran e Israele anche dal punto di vista navale. Questo duello permanente, infatti, ha mostrato la mutevolezza dei domini in cui si realizza lo scontro. E il mare — elemento spesso dimenticato nella geopolitica mediorientale — si è trasformato in un palcoscenico quasi centrale del conflitto: utile all’Iran per unire la mezzaluna sciita, ma anche utile a Israele e ai suoi partner per spezzare il flusso che lega Teheran ai proxy. La centralità del mare in questo duello tra Gerusalemme e Teheran è stata dimostrata dai continui episodi di sabotaggi, sequestri e attacchi (quasi mai rivendicati) che hanno coinvolto navi dei due paesi o comunque a essi in qualche modo legate. L’idea della guerra ombra, del resto, nasce mediaticamente proprio grazie allo spostamento del focus del conflitto sul fronte navale e alle prime indagini su questi incidenti in mare (14). Dopo le inchieste sugli attacchi alle petroliere, sui sabotaggi nei confronti dei cargo di Teheran, sugli attacchi a navi iraniane e israeliane e su una serie di operazioni più o

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meno verificate che avrebbero coinvolto le Marine israeliane e dei Pasdaran, si è dimostrato come questo conflitto abbia coinvolto tutti i mari che collegano l’Iran e Israele. E con essi le rotte che vanno dal Golfo Persico al Mediterraneo orientale, passando per il Golfo di Oman, Mare Arabico, Golfo di Aden, Bab elMandeb e Mar Rosso. Lo scontro, così esteso a livello geografico e così pervasivo, si è in ogni caso mantenuto tendenzialmente «a bassa intensità». E il motivo, come sottolineato da Guido Olimpio sul sito di ISPI (15), è che le parti sembrano aver voluto esse stesse mantenere un basso profilo. Rispetto agli altri domini in cui si è sviluppato questo duello — pensiamo in particolare alle operazioni cyber, agli omicidi mirati, ai sabotaggi dei centri legati al programma nucleare, agli spostamenti di milizie oppure anche agli stessi raid che vengono compiuti dalle Forze israeliane in Siria — la guerra navale è rimasta molto più radicata in questo concetto di gioco di ombre. Una partita in cui non solo i colpi sono stati estremamente mirati, ma talmente sofisticati e oscuri da rendere persino difficile risalire in modo certo alla matrice dell’attacco. L’impressione è che questa parte di conflitto che si concentra sulla parte marittima sia fondata su una implicita volontà di Gerusalemme e Teheran di evitare che si intensifichi al punto da deflagrare in un incendio più grande. Del resto, i pericoli per Iran, Israele e per tutto il mondo rimangono estremamente importanti e in grado di destabilizzare non solo l’equilibrio regionale. E questo non solo frena i due principali contendenti, ma implica anche una pressione internazionale da non sottovalutare. In primis, vi è un profilo che riguarda l’importanza delle rotte coinvolte dallo scontro tra queste due potenze mediorientali. I corridoi energetici e commerciali che congiungono i choke points di Hormuz, Bab el-Mandeb e Suez rappresentano rotte di fondamentale importanza per la stabilità internazionale. L’interruzione dei flussi e in ogni caso l’aumento vertiginoso della pericolosità di quelle rotte metterebbero a rischio i traffici commerciali e in particolare degli idrocarburi, incidendo, come un effetto domino, su tutto il mondo (16). E non è un caso che, proprio per disinnescare questo pericolo, sia gli Stati Uniti che

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l’Europa abbiano promosso operazioni militari per la libertà di navigazione nell’area. Un secondo profilo da tenere in considerazione è poi il rischio per le stesse due nazioni contendenti. Israele ha cercato, soprattutto negli ultimi anni, di costruire una forza navale in grado di soddisfare le esigenze strategiche del Paese. E questo è dovuto anche alla necessità di difendere un mare da cui passa la maggior parte dell’import-export nazionale oltre che la presenza di giacimenti di gas da sfruttare. Ma un conflitto di lunga durata e anche così poco definibile nello spazio non può essere basato su una Marina che è forte ma, come spiegano alcuni osservatori, non ancora in grado di sostenere un impegno così gravoso. L’analista Yonah Jeremy Bob, sul quotidiano israeliano Jerusalem Post (17), ha scritto che potrebbe essere addirittura necessario modificare la dottrina su cui si basa la flotta israeliana, perché non adatta a difendersi dalle operazioni iraniane e condurre rappresaglie. Su Foreign Policy, il contrammiraglio Shaul Chorev del Maritime Policy and Strategy Research Center dell’Università di Haifa ha suggerito che «un conflitto navale ha un costo elevato, specialmente nelle aree del Golfo Persico e del Mar Arabico che sono al di fuori della portata della Marina israeliana e della sua capacità di proteggere le navi di proprietà israeliana che navigano in questa regione» (18). Infine, Israele, proprio per l’importanza che riveste il mare per la sua economia e per la sua stessa sopravvivenza, è perfettamente consapevole che un conflitto che coinvolge le rotte marittime può avere un impatto enorme sulla stabilità economica del paese. Anche dal punto di vista iraniano un conflitto navale su larga scala avrebbe risvolti negativi sia a livello economico sia strategico, che chiunque governi a Teheran deve prendere in considerazione. Per ciò che concerne l’elemento economico, esistono almeno due chiavi di lettura da non sottovalutare. Una prima è che una guerra comporterebbe un dispendio economico notevole, soprattutto per un paese sotto sanzioni e la cui stabilità finanziaria è suscettibile di notevoli fluttuazioni. Una seconda chiave di lettura riguarda invece il danno che infliggerebbe un conflitto del genere all’Iran qualora si bloccassero le rotte del gas, del petrolio e delle materie prime. Tema centrale soprattutto in una fase in

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La corvetta SAAR-6, una nave da guerra soprannominata «Shield», naviga vicino alla piattaforma di produzione del giacimento di gas naturale Leviathan dopo una cerimonia di benvenuto da parte della Marina israeliana in occasione del suo arrivo, nel Mar Mediterraneo al largo delle coste di Haifa, il 1° dicembre 2020 (Credito fotografico: Ronen Zvulun / Reuters - jpost.com).

cui i mercati energetici servono anche da volano per l’economia della Repubblica islamica ma anche come garanzia di buoni rapporti con le potenze che vivono anche grazie alla stabilità di quelle rotte. Infine, l’elemento strategico. La Forza navale iraniana, in particolare quella dei Guardiani della rivoluzione, è certamente capace di condurre una guerra. Ma la flotta non appare adatta a sostenere un impegno su un’area molto estesa e in mare aperto. L’Iran ha forgiato una Marina che è ancorata, seppure non in modo totalizzante, sulla difesa delle proprie coste, su azioni

rapide, incursioni e sull’utilizzo di imbarcazioni piccole ma molto numerose sfruttate in «sciami». Sono Marine, quella regolare e quella dei Pasdaran, pensate per il Golfo Persico e che solo ora sembrano intenzionate ad aprirsi alle rotte oceaniche. Come osservato anche dai colpi messi a segno in questa guerra «ombra», il rischio è che il duello si sposti in diverse aree e con un livello tecnologico estremamente sofisticato. Cosa che comporterebbe l’esigenza di enormi investimenti non solo per mantenere la flotta operativa su vasta scala, ma anche per modernizzarla. 8

NOTE (1) https://foreignpolicy.com/2010/06/26/the-collapse-of-israels-periphery-doctrine. (2) https://www.nytimes.com/1991/12/08/world/iran-pipeline-hidden-chapter-special-report-us-said-have- allowed-israel-sell.html. (3) Il «grande» erano gli Stati Uniti d’America ndr. (4) https://www.inss.org.il/publication/the-begin-doctrine-the-lessons-of-osirak-and-deir-ez-zor. (5) https://it.insideover.com/politica/ucciso-mohsen-fakhrizadeh-direttore-programma-nucleare-iraniano.html. (6) https://www.nytimes.com/2021/04/11/world/middleeast/iran-nuclear-natanz.html. (7) https://www.cfr.org/in-brief/iran-backed-militias-iraq-poised-expand-influence. (8) https://www.atlanticcouncil.org/blogs/iransource/gcc-dispute-pushes-iran-and-qatar-closer-but-with-caveats. (9) https://www.csis.org/analysis/evolution-russian-and-iranian-cooperation-syria. (10) https://www.aljazeera.com/news/2021/10/22/russias-putin-hosts-israeli-pm-bennett-for-pairs-first-talks. (11) https://www.haaretz.com/israel-news/israel-broadens-assaults-in-syria-russia-doesn-t-care-1.10369895. (12) https://www.haaretz.com/israel-news/airstrikes-in-syria-shake-up-israel-s-detente-with-russia-1.10031383. (13) https://www.reuters.com/article/us-iraq-security-idUSKBN1WF1E5. (14) https://www.nytimes.com/2021/03/26/world/middleeast/israel-iran-shadow-war.html. (15) https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-guerra-di-ombre-tra-iran-e-israele-30048. (16) https://www.ship-technology.com/features/how-shadow-war-between-iran-israel-is-affecting-shipping. (17) https://www.jpost.com/middle-east/iran-news/iran-has-advantage-in-its-shadow-war-with-israel-at-sea-analysis-675508. (18) https://foreignpolicy.com/2021/07/19/iran-and-israels-naval-war-is-expanding.

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PRIMO PIANO

Verso un nuovo accordo sul nucleare iraniano: possibili scenari e conseguenze globali Matteo Bressan

Docente di Studi Strategici presso la SIOI e analista del NATO Defense College Foundation.

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La ripresa dei negoziati: le incognite e le linee rosse Il rilancio dell’accordo nucleare del 2015 con l’Iran si è dimostrato più difficile di quanto molti dei suoi sostenitori si aspettassero e i suoi detrattori temessero. Durante la presidenza Trump, l’allora segretario di Stato Mike Pompeo aveva di fatto posto una serie di condizioni di carattere politico per la ripresa dei negoziati, che oltrepassavano gli aspetti squisitamente tecnici dell’accordo del 2015. Gli Stati Uniti infatti puntavano a fermare lo sviluppo del programma dei missili balistici iraniani e a contenere l’espansione delle milizie sciite in tutta la regione. Elementi che, sommati alle preoccupazioni di Israele e Arabia Saudita, avevano di fatto determinato l’abbandono da parte statunitense dell’accordo raggiunto nel 2015 dall’amministrazione

una posizione massimalista, mostrando tuttavia elementi di flessibilità. Tra aprile e giugno 2021, i negoziatori si sono incontrati a Vienna per sei round di colloqui e hanno fatto progressi su un accordo che dovrebbe riportare sia gli Stati Uniti che l’Iran nell’ambito del JCPOA. Tuttavia, nei mesi successivi alle elezioni, il programma nucleare ha continuato ad avanzare e il monitoraggio internazionale si è atrofizzato. Raisi ha più volte dichiarato che il suo obiettivo è che l’Iran torni a rispettare il JCPOA, ma ha anche detto che non farà dipendere il futuro diplomatico ed economico dell’Iran da un accordo con Washington. L’Iran e gli Stati Uniti hanno negoziato indirettamente su richiesta dell’Iran, con gli Stati europei che hanno svolto il ruolo di intermediari. Teheran non è disposta a incontrarsi direttamente con Washington, dato che è stato il

Obama (1). I negoziati tra i restanti partecipanti del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) — Cina, Unione europea, Francia, Germania, Iran, Russia e Regno Unito — e gli Stati Uniti, sono ripresi ad aprile 2021. Le parti non sono state in grado di raggiungere un accordo prima delle elezioni presidenziali iraniane dello scorso giugno e, quando i colloqui sono ripresi lo scorso 29 novembre a Vienna, il Governo conservatore dell’Iran sotto il presidente Ebrahim Raisi ha assunto

ritiro unilaterale di Donald Trump dall’accordo a innescare la crisi. Un settimo round di colloqui è iniziato alla fine di novembre. La delegazione iraniana ha presentato una serie di richieste massimaliste riguardanti il programma nucleare e l’alleggerimento delle sanzioni, annullando i compromessi che erano stati fatti in primavera. I diplomatici occidentali hanno considerato le proposte poco serie e tra dicembre 2021 e gennaio 2022 hanno confermato che sono stati fatti lenti pro-

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gressi per inserire le richieste iraniane nel testo concordato a giugno. Molti dei restanti punti di disaccordo si trovano al di fuori del JCPOA. L’Iran ha chiesto un meccanismo per verificare la riduzione delle sanzioni e la garanzia che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden o i suoi successori non si ritirino dall’accordo. Ha anche chiesto che tutte le sanzioni imposte dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump siano rimosse e che non siano imposte sanzioni future. I negoziatori statunitensi considerano molte di queste richieste come legalmente o praticamente impossibili da soddisfare. C’è un dibattito significativo sul fatto che l’Iran sia effettivamente interessato a raggiungere un accordo o che stia prendendo tempo per far avanzare il suo programma nucleare. Alcuni commentatori

menei, non abbia ancora deciso la migliore linea d’azione. Per i Governi occidentali, la lentezza dei negoziati è un problema perché il programma nucleare iraniano sta avanzando rapidamente. Funzionari statunitensi hanno detto che se questi progressi continueranno a ritmo sostenuto, i benefici di non proliferazione del JCPOA potrebbero diventare irrilevanti nel primo trimestre del 2022. Il suo tempo di breakout — il tempo necessario per produrre abbastanza uranio altamente arricchito per un’arma nucleare — è sceso da un anno a circa un mese e la prospettiva di raggiungere un accordo che ripristini il tempo di breakout originale è diminuita. I funzionari occidentali hanno fatto pressione su Teheran su tre questioni: 1) il rischio immediato di breakout; 2) il livello base di sofisticazione del pro-

hanno sostenuto che l’Iran probabilmente non continuerebbe a partecipare ai colloqui se avesse già escluso un accordo e, apparentemente, le dichiarazioni di Raisi a sostegno di un accordo di principio rafforzano questo argomento. Altri sostengono che il Governo iraniano sia ideologicamente rigido e non disposto al compromesso, in virtù delle responsabilità degli Stati Uniti dell’abbandono del JCPOA. È probabile che Teheran sia disposta a raggiungere un accordo, ma solo a condizioni migliori di quelle ottenute nel 2015. Teheran trae vantaggio dal mantenere aperti i negoziati, anche in assenza di progressi reali, perché alleviano la pressione internazionale e interna e forniscono all’Iran uno scudo contro possibili attacchi militari di Israele o degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l’Iran ha anche ribadito di non essere preoccupato del fallimento dei negoziati e, per questo, Raisi ha progettato il bilancio 2022-23 prevedendo la prosecuzione delle sanzioni. È anche possibile che la leadership, compresa la Guida Suprema Ali Kha-

gramma nucleare che avanza; 3) l’accesso alle ispezioni internazionali. Per quanto riguarda la prima questione, il tempo di breakout dell’Iran è vicino a quello che un alto funzionario statunitense ha definito «il margine di errore» alla fine del 2021. Ciò significa che potrebbe avere la capacità di riconfigurare rapidamente le centrifughe e produrre una bomba di uranio per uso militare prima che gli ispettori internazionali lo scoprano. Secondo l’ultimo rapporto degli ispettori pubblicato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), al 6 novembre 2021, l’Iran aveva accumulato circa 168,3 chilogrammi di esafluoruro di uranio (UF6) arricchito fino al 20% dell’isotopo U-235. Oltre il 25% di questa quantità è stata prodotta nei tre mesi precedenti. Allo stesso punto, l’Iran aveva anche accumulato 26,2 kg di UF6 arricchito fino al 60%. A questo ritmo di produzione, l’Iran avrebbe superato la soglia per acquisire una quantità significativa di UF6 arricchito al 20% (circa 240-50 kg) all’inizio del 2022.

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Il piano B di Washington

Uranio altamente arricchito (wikipedia.org).

Dopo la pubblicazione del rapporto dell’AIEA a novembre, l’Iran ha iniziato l’arricchimento al 20% di U235 usando centrifughe avanzate IR-6 a Fordow, il suo sito di arricchimento pesantemente fortificato. Se l’Iran supera la soglia di breakout e produce una bomba di uranio per uso militare, secondo alcune stime, avrebbe probabilmente bisogno di uno o due anni in più per trasformarlo in un dispositivo nucleare. Una volta completata la fase di arricchimento, tuttavia, la capacità degli altri paesi di individuare un tentativo di armare l’uranio sarebbe notevolmente ridotta, perché questa attività non è soggetta al monitoraggio internazionale. Nel 2021, l’Iran ha prodotto per la prima volta uranio arricchito al 60% U-235 e ha ampliato la sperimentazione con centrifughe avanzate, compresa la IR-6. Mentre le scorte di uranio arricchito dell’Iran possono in teoria essere eliminate e le centrifughe smantellate, le conoscenze che gli scienziati iraniani hanno acquisito attraverso questa ricerca non possono essere cancellate. In terzo luogo, l’Iran ha limitato il monitoraggio internazionale del suo programma nucleare bloccando, nel febbraio 2021, l’attuazione del regime di ispezioni ai sensi del protocollo aggiuntivo dell’AIEA e ostacolando gli ispettori. L’accesso all’impianto di produzione di componenti per centrifughe di Karaj è stato risolto alla fine del 2021, con la pressione della Russia (2).

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Alla fine del 2021, l’Iran, Israele e gli Stati Uniti hanno iniziato a gettare le basi per nuovi approcci politici nel caso in cui i colloqui fallissero. In questo scenario, Washington probabilmente aumenterebbe la pressione diplomatica ed economica sull’Iran per cercare di convincerlo ad accettare un accordo nucleare completamente nuovo e non ancora definito. La campagna di «massima pressione» lanciata da Trump ha tentato di alzare considerevolmente la posta economica per l’Iran, il che significa che vi sono pochi, se non nessuno, obiettivo importanti che deve ancora essere sanzionato. Gli Stati Uniti potrebbero invece concentrarsi sull’applicazione di sanzioni contro individui ed entità che violano le sanzioni statunitensi. Lavorando insieme a Francia, Germania e Regno Unito, gli Stati Uniti potrebbero anche cercare di far scattare la disposizione «snapback» della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, che farebbe scattare un tempo di 30 giorni, dopo il quale le sanzioni delle Nazioni unite verrebbero reimposte e l’Iran sarebbe soggetto alle stesse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza vigenti prima dell’accordo nucleare. Le sanzioni dell’ONU hanno un minor impatto rispetto alle misure imposte dagli Stati Uniti, ma il messaggio politico — fine del JCPOA e Iran di nuovo sotto sanzioni — sarebbe un colpo per Teheran. La Cina è il più grande acquirente di petrolio iraniano, e quindi viola le sanzioni statunitensi contro l’industria petrolifera di Teheran. Nel 2021, ha importato una media di circa 800.000 barili al giorno di greggio e condensato iraniano. Il modo più efficiente per mettere pressione a Teheran sarebbe quello di convincere Pechino a ridurre i suoi acquisti di petrolio. Eppure la Cina sembra a suo agio con lo status quo e ha preso le posizioni più pro-iraniane nei negoziati nucleari. L’amministrazione Biden non ha applicato sanzioni contro entità cinesi coinvolte in queste transazioni e non è chiaro se lo farà se i negoziati dovessero fallire. Gli Stati Uniti hanno anche indicato che aumenteranno la pressione sugli Emirati Arabi Uniti, dato che parte del petrolio diretto in Cina passa attra-

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verso le acque emiratine e che gli Emirati Arabi Uniti sono un partner importante per il commercio non petrolifero e le banche per l’Iran. Infine, gli Stati Uniti probabilmente inizieranno a parlare più apertamente delle opzioni militari per impedire a Teheran di produrre un’arma nucleare, sia per dissuadere l’Iran che per rassicurare gli alleati e i partner statunitensi. Il Pentagono ha riferito di aver condotto una pianificazione congiunta con Israele a dicembre che dovrebbe prevedere più esercitazioni militari con gli Stati regionali.

I piani di Israele Se i negoziati dovessero fallire, Israele probabilmente tenterà di destabilizzare il Governo iraniano accelerando e intensificando i suoi sabotaggi e attacchi informatici contro il paese. Il nuovo Governo israeliano, che è subentrato nel giugno 2021, condivide in gran parte la visione dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu verso l’Iran, così come la sua opposizione al JCPOA. Ma il nuovo primo ministro, Naftali Bennett, è meno incline

di Netanyahu a impegnarsi in un confronto pubblico con gli Stati Uniti su questi temi. Questo atteggiamento più deferente sarà messo alla prova nel corso del prossimo anno se le tensioni con l’Iran dovessero aumentare. Le Forze armate israeliane hanno ripreso le esercitazioni per preparare un attacco ai siti nucleari iraniani, e il Governo ha stanziato 1,5 miliardi di dollari per migliorare la preparazione a condurre un tale attacco. Il capo dell’intelligence militare avrebbe riferito al Governo, nel gennaio 2022, che un attacco avrebbe avuto effetti incerti sul programma nucleare iraniano e che un accordo diplomatico sarebbe stato di gran lunga preferibile a uno scenario senza uscita. Valutazione, quest’ultima, non condivisa dal Mossad. Qualcosa di simile si è verificato nel 201012, quando i leader militari e dell’intelligence israeliana hanno raggiunto un punto di rottura con Netanyahu sull’utilità e le conseguenze di un attacco all’Iran. Parallelamente, la decennale guerra ombra tra Israele e l’Iran, caratterizzata da sabotaggi e operazioni cibernetiche, probabilmente si intensificherà se i negoziati non dovessero avere successo. Israele ha dimostrato la sua capacità di colpire obiettivi pesantemente sorvegliati in Iran nel novembre 2020, quando ha assassinato lo scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh, e nel 2021, quando ha attaccato il sito di arricchimento di Natanz e l’impianto Karaj.

Sopra Mohsen Fakhrizadeh Mahabadi, scienziato considerato tra i capi del programma nucleare iraniano, è(stato ucciso a colpi di pistola ad Absard, a nord-est della capitale Teheran (periodicodaily.com).

Al lato vista dal drone dell’impianto di arricchimento di Natanz dove secondo l’Organizzazione iraniana per l’Energia Atomica, l’esplosione è stata causata da un «sabotaggio» (difesaonline.it).

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Teheran si prepara alla resistenza Il governo Raisi ha affrontato la pianificazione economica con un focus sulla cosiddetta «economia della resistenza», in cui l’Iran enfatizza la produzione interna, il commercio non petrolifero con i vicini e una ridotta dipendenza dalle importazioni. Tuttavia questa filosofia, avanzata da Khamenei, probabilmente non sarà sufficiente come strategia economica — almeno a breve termine — e potrebbe causare più disordini di quanti ne possa risolvere. Il Governo ha proposto tagli alla spesa complessiva in termini reali, compresi gli stipendi del Governo, ma, se il paese dovesse continuare ad avere grandi deficit di bilancio, richiederà più prestiti diretti o indiretti dalla banca centrale, il che determinerà una forte inflazione e disordini sociali. L’Iran potrebbe decidere di portare avanti il suo programma in modo aggressivo, arricchendo l’uranio al 90% o limitando ulteriormente o espellendo gli ispettori internazionali, passaggi che rischierebbero di superare le linee rosse israeliane. Teheran potrebbe anche decidere di procedere più cautamente, aumentando le sue scorte di uranio arricchito al 20% e al 60%, espandendo l’uso di centrifughe avanzate e sperimentando la produzione di uranio-metallico. Quest’ultimo percorso ha il vantaggio di non offrire un solo pretesto per provocare una risposta internazionale coesa. In entrambi i casi, la preoccupazione internazionale crescerebbe e potrebbe spingere gli Stati Uniti o Israele a dichiarare delle linee

rosse da non superare per Teheran. Infine, l’Iran probabilmente risponderà al sabotaggio o alle operazioni cibernetiche con una propria campagna per implementare le sue difese contro Israele. I contrattacchi di questo confronto potrebbero anche prendere di mira gli Stati Uniti o le forze statunitensi nella regione, elevando i rischi di errori di calcolo o di un conflitto più ampio. Anche l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti potrebbero ritrovarsi nel fuoco incrociato, sebbene l’Iran potrebbe essere riluttante a espandere il conflitto al Golfo, anche alla luce degli sforzi di migliorare le sue relazioni nell’area nonostante gli alleati dell’Iran nello Yemen continuino a rappresentare una minaccia per le infrastrutture saudite.

I negoziati di Vienna e i possibili scenari La complessità e i rischi di uno scenario di no-deal hanno probabilmente rafforzato la convinzione dei Governi occidentali, se non per l’Iran stesso, dell’importanza di rilanciare il JCPOA. Un rallentamento del programma nucleare iraniano e una maggiore flessibilità nelle sue richieste fuori dal perimetro del JCPOA, insieme a ulteriori concessioni da parte di Washington volte a convincere l’Iran dei benefici economici che potrebbero derivare dall’accordo, potrebbero rappresentare degli indicatori chiave per comprendere la direzione dei negoziati. Qualora i negoziati a Vienna dovessero fallire e Israele e gli Stati Uniti dovessero

I colloqui di Vienna col gruppo «5+1», con Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Germania e UE nella stanza con gli iraniani, e gli Stati Uniti solo osservatori in una trattativa densa di ostacoli (repubblica.it reuter).

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considerare i loro rispettivi piani B, la diplomazia potrebbe ancora procedere attraverso colloqui formali o informali tesi al raggiungimento di un accordo più limitato e provvisorio, destinato a mettere un tetto all’escalation nucleare o regionale (3). Le prospettive di un successo duraturo sono tuttavia fosche. Proprio lo scorso 11 febbraio, in occasione del 43° anniversario della rivoluzione islamica, il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di non riporre alcuna speranza nei colloqui di Vienna e a New York, aggiungendo che «la nostra politica estera è equilibrata. Guardare verso l’Occidente ha sbilanciato le relazioni del paese, dobbiamo guardare a tutti i paesi del mondo, in particolare ai nostri vicini» (4). Lo stesso ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov ha dichiarato che «c’è ancora molta strada da fare prima che l’accordo possa essere ripreso». Secondo Eric Brewer, vicedirettore presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS), la richiesta dell’Iran agli Stati Uniti di rimuovere tutte le sanzioni imposte da quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato dall’accordo nel 2018 e la sua insistenza affinché gli Stati Uniti forniscano una garanzia che un futuro presidente non lascerà di nuovo l’accordo vanno ben oltre i termini dell’accordo originario. Inoltre, i progressi nucleari dell’Iran significano che un ritorno all’accordo è ora meno attraente per gli Stati Uniti, perché l’Iran ha acquisito importanti conoscenze che non possono essere facilmente cancellate. In queste condizioni, un accordo sarà più difficile da raggiungere. Questo è, almeno, ciò che crede la maggior parte degli osservatori. Ray Takeyh, analista del Council on Foreign Relations (CFR) specializzato sull’Iran e autore di «The Bomb Will Backfire on Iran» (18 ottobre 2021), sostiene che la bomba iraniana non sia inevitabile e che la campagna di pressione globale che potrebbe determinarsi all’indomani di un test nucleare iraniano non si materializzerà. Un Iran nucleare porrebbe serie sfide agli Stati Uniti e l’idea che un simile scenario possa rappresentare un’opportunità per provocare un cambio di regime è rischiosa. Per Takeyh l’opzione migliore rimane in primo luogo quella di cercare di prevenire l’emergere di una bomba iraniana, poiché se l’Iran ha già deciso di produrre armi nucleari, inevitabilmente lo farà. Per l’analista, «né la diplomazia né le azioni segrete né la minaccia della forza militare hanno fatto molto per rallentare la marcia dell’Iran verso la bomba, tanto meno per fermarla». La diffidenza dell’Iran nei confronti degli Stati Uniti significa che non può «semplicemente fermarsi alla soglia dell’acquisizione della bomba» ma deve andare fino in fondo (5). Teheran vuole la capacità di costruire armi in futuro nel caso in cui decida di averne bisogno. Dal 2007, l’intelligence statunitense ha ripetutamente indicato che l’Iran vuole l’opzione di poter disporre della bomba, non la bomba stessa. L’allora direttore dell’intelligence nazionale James Clapper, in audizione al Congresso nel 2012, affermò che «l’Iran sta mantenendo aperta la possibilità di sviluppare armi nucleari, in parte sviluppando varie capacità nucleari che lo posizionano meglio per produrre tali armi, qualora decidesse di farlo». Inoltre, la comunità dell’intelligence statunitense ha affermato che qualsiasi futura decisione iraniana in merito alla costruzione di armi nucleari sarà basata su un «approccio costi-benefici». La decisione dell’Iran di armarsi non è quindi una conclusione scontata. In effetti, la volontà dell’Iran di rispettare l’accordo del 2015 raggiunto con gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali, che aveva ridotto drasticamente il programma

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nucleare di Teheran e la sua capacità di sviluppare rapidamente una bomba, è la riprova che l’Iran non fosse così impegnato nell’acquisizione di armi nucleari. La stessa amministrazione Trump, nonostante il suo ritiro dall’accordo nucleare, ha dovuto ammettere che l’Iran non stesse lavorando attivamente per costruire armi, ma che stava preservando le competenze tecniche relative, qualora fosse stata presa una decisione in tal senso, a futuri tentativi di sviluppare armi nucleari. «Per quanto ne sappiamo, la direttiva sulla produzione di armi nucleari non è cambiata», ha dichiarato lo scorso ottobre un alto funzionario dell’intelligence israeliana (6). «Non si stanno dirigendo verso una bomba in questo momento». Le intenzioni, tuttavia, potrebbero cambiare ma quanto sarebbe facile per l’Iran costruire una bomba se decidesse di farlo? Takeyh sostiene che l’Iran potrebbe produrre rapidamente materiale sufficiente per un dispositivo, ma ignora la realtà che, a meno che l’Iran non abbia costruito strutture segrete, l’Iran dovrebbe condurre eventuali attività in un sito monitorato da ispettori internazionali, esponendosi a rischi elevati. Allontanare gli ispettori internazionali impedirebbe loro di riferire sulle attività dell’Iran e rappresenterebbe di per sé un importante indicatore che l’Iran si starebbe avvicinando alla bomba. Anche se l’Iran riuscisse a produrre abbastanza materiale nucleare, dovrebbe comunque assemblare quel materiale con altri componenti in un dispositivo nucleare e caricarlo su un missile balistico. Takeyh ignora questi passaggi, sui quali l’Iran a quanto pare non abbia fatto progressi da oltre un decennio. È incredibilmente difficile immaginare uno scenario in cui gli Stati Uniti o Israele possano permettere consapevolmente all’Iran di varcare la soglia nucleare. Israele ha intensificato l’addestramento per un attacco militare ai siti nucleari iraniani. Per decenni, ogni presidente degli Stati Uniti si è impegnato a non consentire all’Iran di acquisire armi nucleari, e il presidente Joe Biden ha recentemente affermato che se la diplomazia dovesse fallire, gli Stati Uniti «si rivolgeranno ad altre opzioni». Un attacco militare per impedire all’Iran di acquisire armi nucleari potrebbe essere una delle poche decisioni di politica estera rimaste che avrebbero il sostegno della maggioranza dei Democratici e dei Repubblicani al Congresso. Piuttosto che rassegnarsi all’inevitabilità di una bomba iraniana, gli Stati Uniti dovrebbero invece concentrarsi sull’impedire all’Iran di varcare la soglia nucleare. Il modo migliore per farlo, rimane il raggiungimento di un accordo con l’Iran che circoscriva il suo programma nucleare sotto stretto monitoraggio internazionale in cambio di una riduzione delle sanzioni. Questo scenario oggi è più difficile, alla luce del ritiro dell’amministrazione Trump dall’accordo del 2015 e dei successivi progressi nucleari dell’Iran. Il compito di Washington è quello di convincere l’Iran che i suoi interessi potrebbero esser meglio preservati dal raggiungimento di un accordo piuttosto che dall’escalation del suo programma nucleare. Per farlo, gli Stati Uniti dovrebbero tenere l’opzione militare in tasca, rimanere aperti a una soluzione diplomatica e rimanere flessibili sulle alternative all’accordo nucleare in pericolo (7).

L’Iran potenza nucleare: i possibili scenari Dal 2005, ben quattro Presidenti degli Stati Uniti hanno fatto della risoluzione della questione nucleare iraniana una priorità. Tuttavia, né la diplomazia né le

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operazioni segrete, né la minaccia della forza militare hanno potuto rallentare la marcia dell’Iran verso la bomba, tanto meno fermarla (8). Non c’è dubbio che Teheran, basandosi su decenni di ricerca e produzione, potrebbe arricchire rapidamente abbastanza uranio per testare un ordigno nucleare. La credibilità americana ne uscirebbe fortemente compromessa e gli alleati, così come i partner statunitensi nella regione, cominceranno a dubitare dell’impegno e della capacità di Washington di proteggerli. Secondo l’analista del Middle East Studies presso il Council on Foreign Relations, Ray Takeyh, l’Iran potrebbe trovarsi a raggiungere l’apice della sua potenza ma la Repubblica islamica andrebbe a constatare la realtà che tutti gli altri Stati dotati di armi nucleari, inclusi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, hanno alla fine compreso, ovvero la quasi impossibilità di tradurre la capacità atomica in un vantaggio strategico. La leadership che governa l’Iran ha trascorso decenni a inseguire la bomba, resistendo all’isolamento internazionale, alle sanzioni e a una campagna di omicidi mirati e di tentativi di sovversione e, di conseguenza, cercherà di esercitare il vantaggio conseguito. È possibile che attraverso la minaccia dell’uso del loro arsenale possano esercitare pressioni, come insistere sulla richiesta che le forze statunitensi lascino la regione o che i prezzi del petrolio siano fissati secondo le loro preferenze. Cosa potrebbe accadere se queste richieste venissero respinte? Cosa potrebbe succedere se Israele e l’Arabia Saudita, sostenute da Washington, dovessero reagire alle provocazioni dell’Iran con la propria determinazione? È estremamente improbabile che l’Iran possa rischiare la propria distruzione andando a utilizzare armi nucleari contro di loro. In tale scenario, l’arma che avrebbe dovuto sancire l’egemonia regionale dell’Iran potrebbe, probabilmente, non provocare alcun cambiamento tangibile della potenza iraniana. In un simile scenario, il Presidente degli Stati Uniti, si troverebbe obbligato a pronunciare un discorso ribadendo che nulla nella regione è cambiato e che gli Stati Uniti sono ancora pronti a difendere i propri alleati. Tuttavia, neutralizzare l’impatto regionale di una bomba iraniana non dovrebbe essere l’unica missione di Washington:

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l’obiettivo più grande dovrebbe essere quello di creare un consenso globale contro la Repubblica islamica. Gli Stati Uniti e i suoi alleati dovrebbero imporre dure sanzioni contro il regime e isolarlo ulteriormente spingendo le Nazioni unite a censurare formalmente l’Iran. Washington dovrà convincere i suoi alleati europei a troncare le relazioni diplomatiche con Teheran. Tali misure probabilmente non sarebbero in grado di interrompere tutte le relazioni commerciali dell’Iran e anzi la Cina potrebbe continuare ad acquistare parte del suo petrolio, ma il Giappone e la Corea del Sud potrebbero smettere di farlo. Gli Stati Uniti dovrebbero inoltre limitare ulteriormente le relazioni commerciali dell’Iran privando il regime della sua capacità di utilizzare il sistema bancario internazionale. Qualcuno potrebbe obiettare che una strategia simile non sia riuscita a piegare il regime della Corea del Nord, che ha sfidato il mondo arrivando a sviluppare il nucleare nel 2006 e riuscendo a rimanere al potere nonostante l’isolamento economico e politico. Questo confronto ignora tuttavia le grandi differenze tra i due paesi. A differenza della Corea del Nord, l’Iran ha una ricca storia di proteste e rivoluzioni che hanno rovesciato i Governi. La politica e la società in Iran non sono così irreggimentate come in Corea del Nord e il regime di Teheran non esercita lo stesso livello di controllo del regime di Pyongyang. Paradossalmente, ottenendo la bomba nucleare, sarebbe a rischio la stessa corsa, da parte del regime, per l’egemonia regionale: l’arma potrebbe, infatti, innescare una corsa agli armamenti nucleari nel Medio Oriente. È infatti difficile immaginare che i sauditi, così come la Turchia, restino a guardare il loro principale rivale in possesso di un arsenale atomico. Le conseguenze di queste dinamiche renderebbero il Medio Oriente improvvisamente più volatile e l’Iran si troverebbe a essere meno sicuro.

Le ricadute per la politica interna statunitense In questo scenario, un fattore cruciale sarebbe l’effetto di un Iran dotato di armi nucleari sulla politica interna degli Stati Uniti. Pochi altri temi internazionali hanno diviso così intensamente Repubblicani e Democratici negli ultimi anni. I Democratici hanno a

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lungo accusato i Repubblicani di essere guerrafondai e responsabili di avere abbandonato il JCPOA, rinunciando così al controllo del programma nucleare iraniano. I Repubblicani, invece hanno accusato i Democratici di pacifismo. Con la questione nucleare risolta, entrambe le parti potrebbero diventare più duri con l’Iran, in particolar modo i democratici che si troverebbero esposti all’accusa di aver permesso all’Iran di ottenere la bomba. Libera dal dibattito divisivo sulla questione nucleare, Washington potrebbe concentrarsi sul carattere e sulla natura del regime che reprime la sua popolazione e che ha recentemente insediato un Presidente accusato dalle associazioni per i diritti umani, di aver condannato a morte più di 4.000 oppositori politici alla fine della guerra IraqIran, nel 1988 (9). Inoltre, i politici statunitensi di entrambi gli schieramenti, di fronte all’atomica iraniana si troverebbero con maggiori difficoltà nel tentativo di disimpegno dal Medio Oriente alle spalle e conseguente riequilibrio della politica estera degli Stati Uniti verso l’Asia.

I possibili effetti per l’Iran Non è quindi da escludere la possibilità che il regime, dopo aver speso miliardi di dollari per il suo programma atomico e avere subito sanzioni massicce, si possa trovare senza alcun reale beneficio strategico, ulteriormente aggravato da sanzioni e costretto ad affrontare un contraccolpo politico interno. Un fronte interno già lacerato dalle recenti elezioni caratterizzate

da scarsa affluenza e ritenute da molti artificiose, dalla condizione economica del paese, dalla massiccia corruzione e da una difficoltosa gestione della pandemia di Covid-19. Negli ultimi anni, larghi settori di quasi tutte le classi sociali sono scesi in piazza in tutto il paese per protestare contro il regime. I mullah cercheranno senza dubbio di fermare qualsiasi movimento di protesta che possa minacciare la sopravvivenza del regime ma, nonostante una facciata di forza, le autorità iraniane si potrebbero trovare in una posizione di debolezza. È quindi possibile che il nucleare iraniano possa rafforzare un consenso anti-regime a Washington e rafforzare al tempo stesso l’opposizione interna. Un rovesciamento dell’attuale leadership vedrebbe probabilmente nelle attuali forze di opposizione la futura leadership del paese. L’embrione di nuovo Governo che potrebbe invertire la rotta sulle armi nucleari e affrontare i problemi interni del paese (10). Tuttavia, relativamente a questo scenario, non sono del tutto scontati i motivi per cui la popolazione iraniana si ribellerebbe contro il raggiungimento di una capacità di armi nucleari. Anche se i sondaggi mostrano che la maggior parte degli iraniani oggi è contraria all’armamento, il sostegno potrebbe probabilmente cambiare a seguito di un test che molti considererebbero un risultato importante e una fonte di orgoglio nazionale. E anche se il regime dovesse crollare, Ray Takeyh è troppo fiducioso sul fatto che sarebbe sostituito da una leadership filoamericana disposta a smantellare l’arsenale nucleare iraniano (11). 8

NOTE (1) Pompeo M., After the Deal: A New Iran Strategy, US Department of State, 21 Maggio 2018, https://2017-2021.state.gov/after-the-deal-a-new-iran-strategy/ index.html. (2) L’Iran aveva rimosso le telecamere da quell’impianto a seguito di un attacco di sabotaggio a giugno e aveva resistito alle richieste internazionali di reinstallarle, anche se aveva ripreso la produzione di parti di centrifughe avanzate. (3) Fraioli P., The status of negotiations over Iran’s nuclear programme, The International Institute for Strategic Studies (IISS), 22 gennaio 2022, https://www.iiss.org/publications/strategic-comments/2022/the-status-of-negotiations-over-irans-nuclear-programme. (4) Iranian president says Tehran «never has hope» in Vienna nuclear talks, Reuters 11 febbraio 2022, https://www.reuters.com/world/middle-east/irans-presidentraisi-says-tehran-never-has-hope-vienna-talks-2022-02-11. (5) Brewer E., A Nuclear Iran Is Not Inevitable-Why the World Cannot Give Up on Diplomacy, Foreign Affairs, 16 Novembre 2021, https://www.foreignaffairs.com/articles/iran/2021-11-16/nuclear-iran-not-inevitable. (6) Ahronheim A., Iran not getting the bomb any time soon - Military intelligence head, The Jerusalem Post 3 ottobre 2021, https://www.jpost.com/middle-east/irannews/head-of-military-intelligence-iran-not-getting-the-bomb-any-time-soon-680853. (7) Brewer E., A Nuclear Iran Is Not Inevitable-Why the World Cannot Give Up on Diplomacy, Foreign Affairs 16 novembre 2021, https://www.foreignaffairs.com/ articles/iran/2021-11-16/nuclear-iran-not-inevitable. (8) Brewer E. and Miller N. L., A Redline for Iran? America Must Decide Which Nuclear Steps Merit a Military Response, Foreign Affairs, 23 Decembre 2021, https://www.foreignaffairs.com/articles/iran/2021-12-23/redline-iran. (9) Iran: chi è l’ultraconservatore Ebrahim Raisi che ha stravinto le presidenziali, Nova News 19 giugno 2021, https://www.nova.news/iran-chi-e-lultraconservatoreebrahim-raisi-che-ha-stravinto-le-presidenziali. (10) Takeyh R., The Bomb Will Backfire on Iran-Tehran Will Go Nuclear-and Regret It, Foreign Affairs, 18 ottobre 2021, https://www.foreignaffairs.com/articles/iran/202110-18/bomb-will-backfire-iran. (11) Brewer E., A Nuclear Iran Is Not Inevitable-Why the World Cannot Give Up on Diplomacy, Foreign Affairs 16 novembre 2021, https://www.foreignaffairs.com/articles/iran/2021-11-16/nuclear-iran-not-inevitable.

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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

Il potenziamento delle principali Marine del GCC (Gulf Cooperation Council)

Luca Peruzzi

L

a minaccia sempre più invadente e asimmetrica della Marina Militare iraniana e delle Forze navali della Guardia Rivoluzionaria Islamica, sostenuta dal potenziamento dell’arsenale di missili antinave, razzi e missili balistici tattici delle Forze iraniane (1)(2), unitamente alla necessità di rinnovare componenti navali che annoverano principalmente naviglio di ridotto dislocamento e capacità operative limitate come unità missilistiche veloci o FAC (Fast Attack Craft) in linea da oltre trent’anni, ha portato i principali paesi del Golfo, e in particolare

Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, a lanciare nell’ultimo decennio importanti programmi per dotare le rispettive Marine di moderne unità d’altura capaci di affrontare le attuali e future minacce convenzionali e asimmetriche. A fronte del reperimento fondi in forte competizione con le altre Forze armate e della necessità di affrontare a livello nazionale minacce provenienti da altri domini, così una gamma di missioni sempre più estesa che comprende l’attiva partecipazione alle forze del GCC (Gulf Cooperation Council) (3) e delle CMF (Combined Maritime Force) (4) e la

Nato a Genova nel 1966 e laureato in Giurisprudenza, è corrispondente per l’Italia e collaboratore delle riviste di difesa e sicurezza dei gruppi Janes e Mittler Report Verlag, della rivista The Journal of Electronic Defense, e Naval Editor della testata EDR (European Defence Review) on-line e della rivista EDR. In Italia collabora con la testata online Analisi Difesa, e con la Rivista Marittima quale co-autore della rubrica Marine Militari.

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La Marina del Kuwait conduce l’esercitazione STAKENET (Combined Maritime Forces - CMF)

tutela dei traffici e degli interessi nazionali sulle rotte che dai porti del Golfo Arabico/Persico si dipanano verso il Canale di Suez e l’Estremo Oriente passando per le tormentate acquee dello Stretto di Hormuz e del Golfo di Aden, costrette dalla necessità di trovare localmente o all’estero il personale necessario, le principali Marine del Golfo hanno optato per piattaforme quali unità da pattugliamento particolarmente armate, corvette e fregate leggere multiruolo, capaci di operare nei fondali relativamente bassi del Golfo, caratterizzate da minacce asimmetriche e missilistiche di varia natura e allo stesso tempo in grado di svolgere missioni di pattugliamento e intervento nel Mar Arabico e nel Golfo di Aden, quest’ultimo sempre più destabilizzato dai conflitti locali e dalla crescente presenza di potenze non regionali (5).

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Arabia Saudita Sempre più impegnata a livello regionale e internazionale, l’Arabia Saudita si trova a fronteggiare minacce provenienti da più fronti e domini, come quello delle minacce asimmetriche nel Golfo di Aden e Mar Rosso a seguito del conflitto in Yemen. Per proteggere principalmente le proprie risorse petrolifere sul Golfo e fronteggiare la minaccia iraniana, la principale potenza mediorientale ha lanciato nella metà degli anni 2000, la seconda fase del programma di espansione delle capacità della Marina reale saudita o RSNF (Royal Saudi Naval Forces) denominato SNEP II (Saudi Naval Expansion Programme II) (6), del valore complessivo stimato di 20 miliardi di dollari. Nell’ambito di quest’ultimo e della Saudi Vision 2030 (7), la strategia nazionale sulla diversificazione dell’economia

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Il potenziamento delle principali Marine del GCC

La Marina saudita dispone oggi rispettivamente di quattro fregate classe «Al Madinah» («F2000») fornite nell’ambito del programma «Sawari I» e di tre fregate classe «Al Riyadh» («F3000S») realizzate nell’ambito del programma «Sawari II» dall’industria francese (US Navy).

rispetto ai proventi del mercato del petrolio e gas, il ministero della Difesa e la Marina sauditi hanno lanciato i programmi per l’acquisizione di nuove unità navali e aeromobili negli Stati Uniti e in Europa. Il programma per la progettazione, costruzione, addestramento e supporto delle quattro unità tipo MMSC (Multi-Mission Surface Combatant), assegnato nel luglio 2018 (8) al gruppo Lockheed Martin quale capocommessa e Fincantieri Marinette Marine (FMM) quale cantiere costruttore, ha registrato il taglio della prima lamiera per l’unità capoclasse battezzata Saud nell’ottobre 2019 (9), e per la seconda unità nel gennaio 2021. Le unità MMSC si differenziano principalmente rispetto alle LCS (Littoral Combat Ship) in servizio con l’US Navy, da cui derivano come piattaforma e sistema di combattimento, per dimensioni e dislocamento maggiorati, nonché una suite sensoristica e armamento potenziati (10). Le informazioni finora divulgate da Lockheed Martin e dall’US Navy (11), evidenziano un dislocamento a p.c. di 4000 tonnellate (alla consegna), lunghezza fuoritutto e larghezza rispettivamente di 118,1 e 17,6 metri, un apparato propulsivo in configurazione CODAG (COmbined Diesel And Gas), con due turbine Rolls Royce e due motori diesel Fairbanks Morse/ColtPielstick accoppiati a quattro idrogetti Rolls-Royce in

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grado d’assicurare una velocità massima di oltre 30 nodi e un’autonomia di oltre 5000 mn a 10 nodi. Caratterizzate da un ponte di volo poppiero e hangar in grado di accogliere un elicottero «MH-60R» e sistemi senza pilota nonché la capacità d’impiego di due gommoni veloci a chiglia rigida (RHIB) da 7 metri in aggiunta al terzo dalla rampa poppiera, le MMSC saudite avranno sistemazioni per un totale di 130 effettivi di cui 84 d’equipaggio e 17 per il distaccamento elicotteristico. Il sistema di combattimento sarà incentrato sulla suite di comando, controllo o CMS (Combat Management System) Lockheed Martin COMBATSS-21 con una suite sensoristica comprendente un radar 3D multifunzionale con antenna a scansione elettronica attiva (AESA, Active Electronic-Scanned Array) Hensoldt «TRS-4D», IFF, estesa suite per le comunicazioni con data Link 11/16, due direzioni del tiro radar/elettro-ottiche Saab «Ceros 200» (secondo le immagini divulgate), un sistema per la sorveglianza e l’identificazione elettronica (RESM, Radar Electronic Support Measures) ArgonST «WBR-2000» e lanciatori per chaff e flare, nonché un sistema per la difesa anti-siluro «AN/SLQ-25». Le ultime informazioni divulgate non parlano più della dotazione di un sistema sonar attivo/passivo a profondità variabile (VDS, Variable Depth Sonar), ma potenzialmente imbarcabile come

La prima delle quattro unità tipo MMSC (Multi-Mission Surface Combatant) destinate all’Arabia Saudita, in fase di costruzione da parte di Fincantieri Marinette Marine (FMM) quale subcontraente del gruppo Lockheed Martin, è previsto raggiunga il Medio Oriente nella tarda seconda metà del 2024 (Lockheed Martin).

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modulo aggiuntivo. L’armamento comprenderà un complesso di lancio verticale «Mk 41» a otto celle in grado d’accogliere un totale di 34 missili superfice-aria Raytheon «RIM-162 ESSM Block 1», un sistema missilistico per la difesa ravvicinata Raytheon «SeaRAM» con 11 celle per RAM (Rolling Airframe Missile) «RIM116 Block I/II», due lanciatori quadrinati per missili antinave Boeing «RGM-84 Harpoon Block II», un cannone BAE Systems «Bofors 57 Mk 3» da 57 mm, due sistemi d’arma da 20 mm Nexter «Narwhal» a controllo remoto, e fino a 10 mitragliatrici da 12,7 mm. Secondo le informazioni raccolte, l’unità capoclasse verrà consegnata all’US Navy, e in particolare all’ufficio di programma FMS (Foreign Military Sales) per unità minori PMS 525, nell’ultimo trimestre del 2023, cui seguirà un periodo di almeno dodici mesi negli Stati Uniti per test e prove anche a fuoco atte a verificarne le capacità operative, nonché l’addestramento dell’equipaggio e dei manutentori prima della consegna e trasferimento in Arabia Saudita (12). Le quattro MMSC, il cui programma costruttivo dovrebbe concludersi nel 2025, è previsto vengano basate nella principale base navale saudita sul Golfo Arabico ad Al Jubayl, secondo quanto risulta dalla recente assegnazione d’importanti lavori di dragaggio e preparazione per accogliere le nuove navi (13). Le infrastrutture ae-

Nel giugno 2019, il gruppo saudita SAMI (Saudi Arabian Military Industries) ha assegnato al gruppo spagnolo Navantia un contratto del valore di 1,8 miliardi di dollari per la progettazione, costruzione, addestramento e supporto di cinque corvette tipo «Avante 2200», di cui è qui ripresa la quarta unità battezzata JAZAN (Navantia).

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roportuali legate alla base navale, accolgono dal 2020, gli elicotteri Sikorsky «MH-60R», acquisiti in dieci unità e destinate all’impiego dalle MMSC. Il posizionamento di queste ultime e relativi assetti aerei nel Golfo Arabico rappresenta un significativo incremento delle capacità della Marina saudita in questo teatro, dove attualmente sono stanziate le quattro corvette classe «Badr» da 1038t e 75 m, entrate in servizio nel periodo 1981-83 e caratterizzate da un armamento comprendente un cannone «Mk 75 Mod 0 Compatto» da 76/62 mm, un sistema per la difesa ravvicinata «Phalanx» da 20 mm e due lanciatori quadrinati per missili antinave «Harpoon», che per età e caratteristiche presentano evidenti limitazioni operative. Queste unità vengono anche impiegate nell’ambito GCC e CMF che operano nel Golfo e nel Mar Arabico, un chiaro messaggio nei confronti dell’Iran e di rafforzamento della cooperazione con i paesi del GCC e dell’area. In parallelo, nel giugno 2019, il gruppo saudita SAMI (Saudi Arabian Military Industries) per lo sviluppo di capacità tecnologiche e industriali nel settore della difesa e sicurezza nell’ambito della Saudi Vision 2030, ha assegnato al gruppo spagnolo Navantia un contratto del valore di 1,8 miliardi di dollari per la progettazione, costruzione, addestramento e supporto di cinque corvette tipo «Avante 2200» nell’ambito del programma «Al Sarawat» (14). Queste nuove unità, così come l’ammodernamento delle tre fregate classe «Al Riyadh» di cui parleremo oltre, sono destinate a potenziare le capacità della flotta occidentale della Marina saudita che ha la principale base navale a Gedda, sul Mar Rosso. A seguito della costituzione della jointventure SAMI Navantia Naval Industries (SAMINavantia) che si occupa principalmente della gestione e sviluppo del programma, acquisizione, integrazione e installazione del sistema di combattimento, la jointventure ha annunciato nel novembre 2019 il lancio di un nuovo sistema CMS battezzato «Hazem», primo a essere sviluppato nel Medio Oriente e realizzato con trasferimento di tecnologia a partire dal sistema «Catiz» di Navantia (15). Con un dislocamento non specificato di 2500t, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 104 e 14 metri, e un sistema propulsivo in configurazione CODAD (COmbined Diesel And

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Diesel), incentrato su quattro motori diesel di fornitura MTU su due assi, le nuove unità classe «Al Jubail» sono in grado di raggiungere una velocità massima di 27 nodi e di assicurare un’autonomia operativa di 21 giorni. Caratterizzate da un ponte di volo poppiero e hangar in grado di accogliere un elicottero da 10 tonnellate nonché due RHIB e sistemazioni per 102 effettivi di cui 92 d’equipaggio, queste unità si caratterizzano per un sistema di combattimento incentrato secondo fonti ufficiali saudite sul CMS «Hazem» fin dall’unità capoclasse, la suite integrata per la gestione della piattaforma e la plancia integrata «Minerva» di sviluppo Navantia unitamente al complesso integrato per le comunicazioni «Hermesys». La suite sensoristica comprende un radar 3D multifunzionale AESA Hensoldt «TRS-4D», IFF, una direzione del tiro radar/elettro-ottiche Navantia «Dorna» e una elettroottica per l’armamento cannoniero, una suite integrata EW con sistemi Indra RESM/RECM e CESM/CECM, unitamente a lanciatori per chaff e flare, a cui s’aggiungerebbe un sonar trainato a profondità variabile (VDS). L’armamento comprende un complesso di lancio verticale a sedici celle per sistema missilistico identificato quale «VL MICA» fornito da MBDA, due lanciatori quadrinati per missili antinave non specificati ma che

Secondo quanto annunciato dal gruppo Navantia l’unità capoclasse AL JUBAIL (828) dovrebbe essere consegnata a distanza di cinque mesi dal varo dell’ultima unità della classe avvenuta nel dicembre 2021, ma non è noto se l’allestimento e le prove continueranno in Arabia Saudita come è previsto per l’ultima unità, la cui consegna definitiva è prevista il loco nell’agosto 2024 (Navantia).

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Il taglio della lamiera della seconda unità tipo MMSC è avvenuto nel gennaio 2021. Le quattro MMSC è previsto che vengano basate presso la principale base navale saudita sul Golfo Arabico ad Al Jubayl, oggetto di un esteso programma di rinnovamento e dragaggio dei fondali (Lockheed Martin).

risulterebbero essere MBDA «MM-40 Exocet Block 3», un cannone Leonardo «OTO Super Rapido» da 76/62 mm, un sistema per difesa ravvicinata Rheinmetall Oerlikon «Millennium» da 35 mm, due sistemi d’arma minori a controllo remoto e due lanciatori trinati per siluri leggeri. L’unità capoclasse Al Jubail (828) è stata varata nel luglio 2020, seguita rispettivamente dalle gemelle Al Diriyah (829), Hail (830), Jazan (831) e Unayzah (832) rispettivamente nel novembre 2020, marzo, luglio e dicembre 2021. Secondo quanto annunciato dal gruppo Navantia la prima unità sarà consegnata il 31 marzo in Spagna ma non è noto se l’allestimento e prove continueranno in Arabia Saudita come è previsto per l’ultima unità. Quest’ultima è pianificato venga consegnata nell’agosto 2023 — inizialmente il programma prevedeva il completamento delle consegne nel 2022 — e successivamente trasferita nel paese mediorientale per attività e consegna definitiva nell’agosto 2024. Il contratto prevede anche la fornitura di differente servizi compresi l’addestramento, manutenzione e supporto per cinque anni nonché centri per l’addestramento su piattaforma e sistema di combattimento in loco e sistemi per la manutenzione presso la base navale di Gedda, sul Mar Rosso (16). La Marina saudita dispone anche di quattro fregate classe «Al Madinah» (F2000) fornite dall’industria

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Il posizionamento delle quattro MMSC e relativi assetti aerei nel Golfo Arabico rappresenta un significativo incremento delle capacità della Marina saudita in questo teatro, dove attualmente sono stanziate le quattro corvette classe «Badr» da 1038t e 75 m (US Navy).

francese nell’ambito del programma «Sawari I» e di tre fregate classe «Al Riyadh» (F3000S) fornite nell’ambito del programma «Sawari II» dal team industriale francese capitanato da Thales con DCNS, oggi Naval Group, che vengono mantenute in servizio (insieme alle unità per rifornimento classe «Boraida») e sono oggetto di ammodernamento da parte di quest’ultimo gruppo grazie rispettivamente ai programmi «E-RAV» e «LEX», i cui contratti sono stati siglati nel 2013. Mentre per le unità classe «Al Madinah» entrate in linea nel periodo 1985-86, è previsto un più limitato ammodernamento, presumibilmente in vista del rimpiazzo con le nuove corvette «Avante 2200», le fregate classe «Al Riyadh», entrate in servizio nel periodo 2002-04 con un sistema di combattimento all’avanguardia per l’epoca, incentrato su sistema CMS Thales «Tavitac 2000» e sistema missilistico SAAM con radar «Arabel» e VLS con missili MBDA «Aster 15», dovrebbero ricevere un più esteso ammodernamento di mezza vita riguardante il sistema CMS, sensoristica, armamento e sistemistica di piattaforma. A più riprese, l’Arabia Saudita ha espresso interesse per l’acquisizione di un numero imprecisato di fregate di nuova generazione quali le FREMM, parimenti a unità anfibie di diversa tipologia, come è emerso nel corso del recente salone WDS (World Defense Show) per la difesa e sicurezza tenutosi vicino Riyadh, dove diversi cantieri mondiali hanno

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presentato soluzioni per soddisfare tali requisiti, senza fornire informazioni specifiche su tali programmi. Come anticipato, le RSNF hanno messo in linea 10 elicotteri «MH-60R» destinati a equipaggiare le unità tipo MMSC di futuro stanziamento nel Golfo Arabico, che in attesa di essere imbarcati, svolgono missioni di sorveglianza e attacco di superficie con missili «AGM114R Hellfire II» e razzi BAE Systems APKWS (Advanced Precision Kill Weapon System) entrambi a guida laser (17). L’aviazione delle RSNF dispone anche di 12 elicotteri «AS 532SC Cougar», 15 «AS365F Dauphin» e 6 «AS565MB Panthers», tutti forniti nel tempo dall’attuale Airbus Helicopters, mentre l’Aeronautica saudita è equipaggiata con velivoli F15SA che possono utilizzare missili «AGM-84L Block II». Secondo quanto divulgato nel 2017, l’amministrazione americana dell’epoca avrebbe dato parere favorevole per l’acquisizione da parte saudita di un numero imprecisato di velivoli ASuW/ASW «P-8A Poseidon», ma nessun contratto è stato finora annunciato.

La Marina saudita ha messo in linea 10 elicotteri «MH-60R» destinati a equipaggiare le unità tipo MMSC di futuro stanziamento nel Golfo Arabico, che in attesa di essere imbarcati, svolgono missioni di sorveglianza e attacco di superficie con missili e razzi.

L’aviazione della Marina Saudita dispone anche di 12 elicotteri «AS 532SC Cougar», 15 «AS365F Dauphin», qui ripreso, e 6 «AS565MB Panthers», tutti forniti nel tempo dall’attuale Airbus Helicopters (US Navy).

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Emirati Arabi Uniti Grazie allo sviluppo di un’industria e cantieristica nazionale nel settore della difesa e sicurezza, sfruttando il supporto dell’industria di riferimento mondiale ma al tempo stesso l’acquisendo unità navali all’estero, gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato una serie di importanti programmi nel corso degli anni 2000 i cui prodotti oggi costituiscono il nerbo della Marina emiratina. Il programma assegnato nel 2004 ai cantieri Abu Dhabi Ship Building (ADSB) ha portato alla realizzazione delle sei corvette classe «Baynunah», mentre i programmi assegnati a Fincantieri dal 2009 hanno portato alla realizzazione della corvetta ASW Abu Dhabi e delle due unità stealth da pattugliamento classe «Ganthoot». Queste unità sono dotate di un CMS e armamento cannoniero fornito da Leonardo unitamente a sistemi EW di Elettronica. Con le corvette classe «Baynunah», la Marina emiratina ha sviluppato esperienze operative significative durante le operazioni di blocco navale nel conflitto in Yemen (18). Il potenziamento delle capacità delle Forze navali emiratine passa oggi attraverso i programmi «Bani Yas» e «Falaj 3», grazie ai quali verranno rispettivamente immesse in servizio le unità più grandi della componente navale e il rimpiazzo di quelle più anziane di medio-piccolo dislocamento. Il programma «Bani Yas» riguarda la realizzazione di almeno due corvette «Gowind 2500» da parte della società francese Naval Group. La prima unità è stata varata lo scorso dicembre, mentre la seconda unità risulta in costruzione e verrà varata nel 2022. In aggiunta alla fornitura delle due navi, il contratto prevede anche l’addestramento degli equipaggi che inizia in Francia e si concluderà negli Emirati, «con sessioni di formazione collettiva su scenari operativi nei diversi domini di lotta sul mare» (19). Secondo quanto dichiarato ufficialmente in vista dell’aggiudicazione del contratto avvenuta nel 2019 e dal valore stimato ma non dichiarato di 750 milioni di euro, il programma dovrebbe coinvolgere anche il cantiere emiratino Abu Dhabi Ship Building (ADSB) presumibilmente per il supporto in loco e la potenziale realizzazione di ulteriori due unità, di cui il contratto prevedrebbe, ma mai confermato ufficialmente, le relative opzioni. Con un dislocamento stimato a p.c. di 2800 tonnel-

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Gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato una serie di importanti programmi navali nel corso degli anni 2000, il cui prodotto nel caso del gruppo cantieristico locale Abu Dhabi Ship Building (ADSB), ha portato alla realizzazione delle sei corvette classe «Baynunah»; qui è ripresa l’unità AL DHAFRA (P 173).

late, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 102 e 16 metri, le nuove unità disporranno di sistemazioni complessive per 95 effettivi fra equipaggio e altro personale, nonché un sistema propulsivo in configurazione CODLOD (COmbined Diesel-eLectric Or Diesel) con motori diesel ed elettrici su due assi, in grado di assicurare una velocità massima di 25,5 nodi con un’autonomia operativa di 21 giorni. Le corvette «Gowind

Il programma «Bani Yas» riguarda la realizzazione di almeno due corvette «Gowind 2500» da parte del gruppo francese Naval Group per la Marina EAU. La prima unità è stata varata lo scorso dicembre, mentre la seconda unità risulta in costruzione e verrà varata nel 2022 (Naval Group).

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I programmi cantieristici assegnati dagli Emirati a Fincantieri a partire 2009 hanno portato alla realizzazione della corvetta ASW ABU DHABI, qui ripresa, e delle due unità stealth da pattugliamento classe «Ganthoot» (Fincantieri).

2500» presentano un ponte di volo poppiero e hangar per un elicottero da 10t a cui s’aggiunge per le unità emiratine un sistema senza pilota con velivoli ad ala rotante Schiebel «Camcopter S-100», nonché due RHIB da 7 metri. Naval Group non ha fornito dettagli sul sistema di combattimento eccetto che per il CMS «SETIS» fornito dal medesimo gruppo, ma in occasione del salone di IDEX 2021, sullo stand del gruppo

Il ministero della Difesa degli Emirati Arabi Uniti ha assegnato nel maggio 2021 ai locali cantieri ADSB del gruppo EDGE, un contratto del valore di quasi un miliardo di euro per la fornitura di quattro OPV nell’ambito del programma «Falaj 3» (ADSB).

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Abu Dhabi Shipbuilding (ADSB) era presente un modello con la dicitura «United Arab Emirates Gowind Combat» del gruppo francese. Il modello presentava un armamento incentrato su un impianto «OTO Super Rapido» da 76/62 mm in configurazione «Strales» con sistema di guida per munizionamento DART e due sistemi d’arma «Marlin-WS» da 30 mm a controllo remoto tutti forniti dal gruppo Leonardo, a cui s’aggiungono due lanciatori quadrinati per missili antinave MBDA «MM40 Exocet Block 3», un lanciatore a 21 celle per missili Raytheon «RAM Block 1A» e «2» e un sistema di lancio verticale a 16 celle Raytheon «Mk 56» per missili ESSM «RIM-162». Sebbene non visibili, le unità «Gowind» sono dotate di due lanciatori per siluri leggeri mentre sul modello era installati anche due lanciatori per razzi superficie-superficie. In aggiunta a un radar 3D multifunzionale non meglio identificato, installato nel radome conico facente parte del complesso PSIM (Panoramic Sensors and Intelligence Module) nonché antenne per le comunicazioni di varia natura comprese quelle satellitari, la suite sensoristica visibile sul modello comprendeva radar per la navigazione e approccio elicotteri, due direzione del tiro radar/elettro-ottiche Thales Nederland «STIR EO Mk2», due sistemi di sorveglianza e tracciamento EO/IR nonché due direzioni EO/IR per armamento secondario. La suite EW comprende sistemi RESM/CESM di nuova generazione che sono stati più recentemente identificati come fornitura del gruppo Elettronica, due lanciatori per decoy Rheinmetall «MASS» nonché lanciatori multipli per decoy anti-siluro. Completa la dotazione una suite per la lotta antisom con sonar a scafo e secondo diverse fonti anche un sensore trainato a profondità variabile. Nel frattempo, il ministero della Difesa degli Emirati Arabi Uniti ha assegnato ai locali cantieri ADSB del gruppo EDGE, un contratto del valore di quasi un miliardo di euro per la fornitura di quattro pattugliatori d’altura nell’ambito del programma «Falaj 3» (20). Dalle informazioni divulgate dai cantieri ADSB, il design delle nuove unità si basa sul progetto delle unità da pattugliamento tipo «Fearless» sviluppato dalla società ST Engineering Marine dell’omonimo gruppo di Singapore, che ha ricevuto un contratto per il supporto nella progetta-

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Le due unità da pattugliamento classe «Ganthoot» fornite da Fincantieri alla Marina degli Emirati Arabi Uniti si caratterizzano per un disegno stealth molto spinto e un sistema di combattimento particolarmente armato (Fincantieri).

zione e costruzione. Adattato alle esigenze della Marina emiratina, il design presenta uno scafo e sovrastrutture progettati per ridurne la sezione radar e infrarossa, con un dislocamento a p.c. di 641tonnellate, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 60 e 9,5 m, e un sistema propulsivo basato su quattro motori diesel collegati ad altrettanti assi ed eliche in grado di assicurare una velocità massima di 26 nodi e un’autonomia di 2000 mn a 16 n. Con un’elevata automazione di piattaforma e sistemazioni per 39 effettivi, secondo il modello presentato a IDEX 2021, le nuove unità presentano un sistema di combattimento incentrato su un CMS non ancora identificato che gestisce una suite sensoristica comprendente un radar di sorveglianza aeronavale, una direzione del tiro radar/elettro-ottica per l’armamento cannoniero identificata quale Thales Nederland «STIR EO Mk2», sistema per la sorveglianza e scoperta EO/IR e una suite EW di nuova generazione con RESM/CESM che risulta di fornitura Elettronica e due lanciatori di decoy Rheinmetall «MASS». L’armamento comprende un cannone Leonardo «OTO Super Rapido» da 76/62 mm che al pari delle unità classe «Bani Yas» potrebbe essere dotato del kit di guida «Strales» con munizionamento guidato antimissile e minacce asimmetriche, un sistema missilistico per la difesa ravvicinata Raytheon «RAM» con 21 celle per missili «RIM-116 Block I/II», due lanciatori binati per missili antinave MBDA «MM40 Exocet Block 3»,

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due sistemi d’arma a controllo remoto identificati quali «Hitrole G» da 12.7 mm forniti da Leonardo e due lanciarazzi leggeri multipli per ingaggi superficie-superficie. Secondo quanto divulgato le attività legate al programma dovrebbero essere state lanciate nella seconda metà del 2021 e le consegne dovrebbe completarsi in cinque anni. Nell’ambito dello sviluppo progressivo delle capacità industriali e navali locali, l’autorità nazionale per le acquisizioni nel settore della difesa e sicurezza Tawazun, ha annunciato nel novembre 2021 l’avvio di un programma per la realizzazione hardware e software di un CMS di produzione nazionale in vista di nuovi programmi e l’ammodernamento delle unità in servizio. L’aviazione di Marina dispone di otto elicotteri Eurocopter «AS-332B Super Puma» in versione operativa e VIP, i primi capaci di lanciare missili aria-superficie antinave «AM-39 Exocet» e sette «AS 565SA Panther». L’adozione delle nuove piattaforme potrebbe portare all’acquisizione di nuovi assetti ad ala rotante.

Qatar Il ministero della Difesa del Qatar ha lanciato a partire dalla metà degli anni 2000 un vasto programma di potenziamento delle infrastrutture e successivamente di rinnovamento della componente navale d’altura delle QENF (Qatari Emiri Naval Forces), finora equipaggiate esclusivamente con sette unità tipo FAC da 56 metri classe «Damsah» e «Barzan». Tali iniziative hanno registrato la realizzazione della principale base navale emiratina nelle immediate vicinanze del porto commerciale di Hamad sulla costa orientale, a cui s’aggiunge il potenziamento di quella della capitale, l’inaugurazione nel luglio 2019 della grande base navale per la Guardia costiera a Al-Daayen (a nord di Doha) e la realizzazione di altre sulla terraferma nel nord del paese e offshore, fra cui sull’isola di Halul, per la protezione dei giacimenti e centri d’estrazione del gas naturale nella zona centrale del Golfo Arabico. Il programma per il rinnovamento e potenziamento della Marina quatarina ha visto l’assegnazione nel 2016 al gruppo Fincantieri quale capocommessa di un ordinativo del valore di quasi cinque miliardi di euro per la progettazione, costruzione, messa in servizio di quattro corvette multiruolo da 3250 tonnellate, due pattugliatori d’altura

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da 725 tonnellate e un’unità anfibia da 8800 tonnellate, e al gruppo MBDA contratti per lo sviluppo di un nuovo sistema per la difesa costiera e l’armamento missilistico delle nuove unità (21). La corvetta capoclasse «Al Zubarah» (F 101) è stata consegnata da Fincantieri in Italia nell’ottobre 2021 mentre il pattugliatore capoclasse «Musherib» (Q 61) ha fatto seguito lo scorso gennaio. Entrambi completeranno l’addestramento e otterranno la certificazione operativa dell’equipaggio da parte della Marina Militare nel corso del 2022 a cui seguirà il trasferimento congiunto in Qatar. Le corvette gemelle «Damsah» (F 102), «Al Khor» (F 103) e «Sumaysimah» (F 104) sono in diverse fasi di allestimento e prove per una consegna prevista per le prime due nel corso del 2022 e la terza nel 2023, unitamente al pattugliatore d’altura «Sheraouh» (Q 62) nel 2022 e per ultima l’unità anfibia nel 2024. In aggiunta a un esteso pacchetto di supporto in loco e di formazione e addestramento nelle scuole e centri dedicati della Marina Militare, la commessa comprende anche la fornitura di un centro d’addestramento all’avanguardia in fase di messa a punto in loco, che rappresenterà uno dei più avanzati ed estesi centri nella regione mediorientale. Con un dislocamento di 3250 tonnellate a p.c., una lunghezza e larghezza rispettivamente di 107 e 14,7 m, e un impianto propulsivo in configurazione CODAD (COmbined Diesel And Diesel) incentrato su quattro motori diesel MAN su due assi, in grado di fornire una velocità massima continuativa e di crociera rispettivamente di oltre 28 e 15 nodi e un’autonomia di 3500 mn alla velocità di crociera, le nuove corvette multiruolo per la Marina qatarina presentano un design generale atto a ridurre la segnatura globale della nave, un elevato grado di automazione e un sistema di combattimento comparabile a quello di una fregata di media grandezza, secondo Fincantieri. Caratterizzate da un hangar e ponte di volo poppiero in grado di accogliere un elicottero NHIndustries «NFH90» e una zona poppiera sottostante per il lancio e recupero di gommoni a chiglia rigida, le nuove unità presentano 112 sistemazioni di cui 98 destinate all’equipaggio. Il sistema integrato di gestione della piattaforma è

Il programma per il rinnovamento e potenziamento della flotta della Marina del Qatar, assegnato nel 2016 al gruppo Fincantieri, prevede la fornitura di quattro corvette multiruolo da 3250t, due OPV da 725t e un’unità anfibia tipo LPD da 8800t. Qui è ripresa la corvetta capoclasse AL ZUBARAH (F 101) consegnata da Fincantieri in Italia nell’ottobre 2021 (Fincantieri).

In aggiunta alla fornitura delle navi, di cui è qui ripresa la terza corvetta AL KHOR (F 103). Il contratto con Fincantieri prevede un esteso pacchetto di supporto in loco e di formazione e addestramento, che vede la Marina Militare italiana in prima linea con le proprie infrastrutture e personale (Fincantieri).

L’OPV capoclasse MUSHERIB (Q 61) è stato consegnato alla Marina del Qatar in Italia lo scorso gennaio, mentre la seconda unità l’OPV SHERAOUH (Q 62) seguirà nel 2022 (Fincantieri).

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fornito da Seastema mentre il sistema di combattimento è incentrato su un CMS che rappresenta la più recente evoluzione della famiglia «Athena» del gruppo Leonardo e gestisce una suite per le comunicazioni con apparati di Rohde & Schwarz, SATCOM e multi-data processor con «Link 11/16» di Leonardo, nonché una suite sensoristica comprendente un radar Leonardo 3D multifunzionale AESA «Kronos Grand Naval» con IFF, una suite EW fornita da Elettronica con sistemi RESM/CESM e RECM nonché lanciatori di decoy Lacroix Defence «Sylena Mk 1» e una suite per la sorveglianza EO/IR con due sistemi Leonardo IRST «SASS», nonché una direzione del tiro radar-EO/IR Leonardo «NA-30S Mk 2» e due direzioni del tiro EO Medusa «Mk 4B» rispettivamente per l’armamento cannoniero principale e secondario. La suite di sorveglianza e difesa subacquea comprende un sonar per la scoperta di mine e ostacoli subacquei «Thesan» di Leonardo che fornisce anche la cortina trainata contro-siluri «Black Snake» con due lanciatori di decoy dedicati. La suite d’armamento comprende il sistema missilistico di difesa aerea MBDA Italia «SAAM-ESD», incentrato per il programma qatarino sul sistema missilistico «Aster 30 Block 1» lanciato da due VLS a 8 celle Naval Group «Sylver A50» (per un totale di 16 missili), un sistema di comando e controllo e il radar 3D multifunzionale AESA «Kronos Grand Naval». Sebbene non sia confermato ufficialmente, tale complesso, riceve informazioni via data link da altri sensori basati su nave e a terra per sviluppare soluzioni di tiro antimissili balistici a favore dei missili Aster 30 Block 1. L’armamento missilistico antinave comprende due lanciatori quadrinati per missili MBDA «MM40 Exocet Block 3», mentre la protezione ravvicinata è assicurata dal sistema Raytheon «RAM Mk 31» basato su missili «RIM-116 RAM Block 2». L’armamento cannoniero comprende il «Super Rapido MF» da 76/62 mm e due sistemi d’arma «Marlin-WS» (Weapon System) con cannoncino da 30 mm per la difesa contro minacce asimmetriche, entrambi forniti da Leonardo (22). I due pattugliatori classe «Musherib» si presentano con un design atto a ridurre la segnatura complessiva della piattaforma e un sistema di combattimento particolarmente variegato. Con un dislocamento a p.c. di 725 tonnellate e una lunghezza e larghezza rispettiva-

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Il progetto dell’unità(da assalto anfibio tipo LPD per la Marina del Qatar consentirà a quest’ultima di disporre di un sistema di sorveglianza aerea avanzato in grado di gestire un’ampia gamma di minacce comprese quelle balistiche, le cui informazioni potranno essere distribuite alle corvette e ai centri a terra per una migliore protezione e gestione dei sistemi d’arma a disposizione (autore).

mente di 63,9 e 9,2 m, queste nuove unità si caratterizzano per un equipaggio di 38 elementi, la capacità di trasporto e impiego di un RHIB e un impianto propulsivo incentrato su quattro motori diesel connessi rispettivamente ad altrettante linee assi e gruppo eliche in grado di assicurare una velocità massima e di crociera rispettivamente di 30 e 15 n nonché un’autonomia di

Il ministero della Difesa del Qatar ha lanciato a partire dalla metà degli anni 2000 un vasto programma di potenziamento delle infrastrutture della Marina, che comprende la realizzazione della principale base navale presso il porto commerciale di Hamad sulla costa orientale (autore).

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Il potenziamento delle principali Marine del GCC

Il ministero della Difesa del Qatar ha assegnato nel 2018 un contratto da oltre tre miliardi di euro a Leonardo quale capocommessa per la fornitura di 28 elicotteri NHIndustries «NH-90», di cui 16 in versione da trasporto tattico e 12 in versione navale; qui è ripresa, per la sorveglianza marittima e la lotta di superficie con missili antinave MBDA «Marte ER» (Leonardo).

1500 mn a 15 nodi e operativa di 7 giorni. Sia il sistema integrato di gestione della piattaforma che il sistema di combattimento sono i medesimi e comprendono la stessa famiglia di sistemi installati sulle corvette classe «Al Zubarah». Accanto a un CMS con un numero più ridotto di consolle e apparati per le comunicazioni, la suite sensoristica comprendente un radar Leonardo 3D

La componente di prima linea della Marina del Qatar è oggi composta esclusivamente dalle sette unità tipo FAC (Fast Attack Craft) da 56 metri classi «Damsah» e «Barzan», quest’ultima comprendente l’unità AL UDEID (Q 06) qui ripresa (US DoD).

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multifunzionale AESA «Kronos Naval HP» (High Power) con IFF, una suite EW fornita da Elettronica con sistemi RESM/CESM nonché lanciatori di decoy Lacroix Defence «Sylena Mk 1» e una suite per la sorveglianza EO/IR con due sistemi Leonardo IRST «SASS», nonché una direzione del tiro radar-EO/IR Leonardo «NA-30S Mk 2» e una singola EO «Medusa Mk 4B» rispettivamente per l’armamento cannoniero principale costituito da un «Super Rapido MF» da 76/62 mm e secondario con due sistemi d’arma «Marlin-WS» (Weapon System) da 30 mm. L’armamento missilistico superficie-aria è incentrato sul sistema MBDA «VL MICA» con due VLS da 4 celle ciascuno, mentre quello antinave comprende due lanciatori binati per missili MBDA «MM40 Exocet Block 3». Il progetto dell’unità da assalto anfibio tipo LPD, presentato in modello in diverse occasioni, è incentrato su quello della BDSL per la Marina algerina, da cui si differenzia per un’isola più estesa e spiccate capacità di comando, controllo e sorveglianza aerea a lunga portata. Con un dislocamento stimato di circa 8.800 tonnellate una lunghezza e larghezza rispettivamente di 142,9 e 21,5 m, un sistema propulsivo in grado di assicurare una velocità massima di 20 nodi, alloggi per un totale stimato di circa 600 effettivi fra equipaggio e truppe trasportate con capacità di imbarco materiali e mezzi su specifiche della Marina emiratina, un ponte di volo con uno spot per elicotteri tipo «AW-101», garage/hangar e bacino allagabile per tre mezzi da sbarco tipo LCM, l’unità anfibia disporrà di un sistema di combattimento similare a quello delle corvette. Incentrato quindi sul medesimo sistema CMS «Athena» di nuova generazione, sistema EW di Elettronica con RESM/CESM/RECM, artiglieria con cannone «Super Rapido MF» e direzione del tiro radarEO/IR Leonardo «NA-30S Mk 2» nonché quattro sistemi «Marlin-WS» da 30 mm con direzioni del tiro «Medusa Mk 4B», sistemi IRST «SASS» e sistema missilistico per la difesa aerea «SAAM ESD» con missili «Aster 30 Block 1» (16 celle) e radar 3D «Kronos Grand Naval», a cui s’aggiunge il radar di nuova generazione completamente digitale per la sorveglianza aerea a lunga portata «Kronos Power Shield» di Leonardo (23). Quest’ultimo, in avanzata fase di sviluppo, qualifica e fornitura alla Marina Militare italiana, consentirà al nuovo nucleo delle

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Forze d’altura della Marina qatarina di disporre di un sistema di sorveglianza aerea avanzato in grado di gestire un’ampia gamma di minacce comprese quelle balistiche, le cui informazioni potranno essere distribuite alle corvette e ai centri a terra per una migliore protezione e gestione dei sistemi d’arma a disposizione. Alle nuove unità di prima linea, si sono aggiunte le due navi scuola da 90 m e 1950 tonnellate classe «Al Doha» con capacità secondarie di pattugliamento d’altura e costruite presso i cantieri turchi Anadolu (ADIK), di cui la prima consegnata nell’agosto 2021 e la seconda prevista nel 2022 (24). Unitamente al potenziamento della componente navale, il ministero della Difesa qatarino ha assegnato nel 2018 un contratto da oltre tre miliardi di euro a Leonardo quale capocommessa per la fornitura di 28 elicotteri NHIndustries «NH-90» (con opzione per

ulteriori 12 macchine), di cui 16 in versione da trasporto tattico o TTH e 12 in versione navale o NFH per la sorveglianza marittima e la lotta di superficie con missili antinave MBDA «Marte ER» (25). I primi esemplari della versione TTH sono stati consegnati alla fine del 2021, mentre la versione navale seguirà quest’anno. In aggiunta alle capacità d’impiego del «Marte ER» da elicottero, il ministero della Difesa del Qatar con un contratto assegnato nel settembre 2016, ha ordinato un numero imprecisato di batterie del sistema mobile per la difesa costiera o CDS (Coastal Defence System) di nuovo sviluppo e fornitura da parte di MBDA. Queste ultime, in fase di consegna a partire dalla fine del 2021, comprendono lanciatori in grado d’impiegare indifferentemente missili antinave «MM40 Exocet Block 3» e «Marte ER», anch’essi facenti parte dei contratti assegnati a MBDA. 8

NOTE (1) Joseph Bunyard, What a new naval vessel says about Iran’s ambitions at sea, News Lines Institute for Strategy and Policy, https://newlinesinstitute.org/iran/whata-new-naval-vessel-says-about-irans-ambitions-at-sea. (2) Agnes Helou, Iran seeks to grow naval power as it prioritizes asymmetric warfare, Defense News, https://www.defensenews.com/naval/2022/01/10/iran-seeksto-grow-naval-power-as-it-prioritizes-asymmetric-warfare. (3) Dr. Lee Willett, GCC Navies Build for Persistent Patrols in Home Waters, Armada International, Middle East Feb/Mar 2021 Supplement, https://www.armadainternational.com/2021/02/gcc-navies-build-for-persistent-patrols-in-home-waters. (4) Combined Maritime Forces, https://combinedmaritimeforces.com. (5) Critical threats, Yemen, https://www.criticalthreats.org/briefs/yemen-file. (6) Adam Muspratt, Saudi Naval Expansion Programme II: Modernising the Royal Saudi Navy, Defence IQ, https://www.defenceiq.com/air-land-and-sea-defenceservices/news/snep-ii-modernisation-of-saudi-arabias-navy. (7) Kingdom of Saudi Arabia, Vision 2030, https://www.vision2030.gov.sa/media/rc0b5oy1/saudi_vision203.pdf. (8) Lockheed Martin, U.S. Government Awards Lockheed Martin Contract To Begin Production Of Multi-Mission Surface Combatant For Kingdom Of Saudi Arabia, press release, https://news.lockheedmartin.com/2018-07-20-U-S-Government-Awards-Lockheed-Martin-Contract-to-Begin-Production-of-Multi-Mission-SurfaceCombatant-for-Kingdom-of-Saudi-Arabia. (9) Naval Sea Systems Command, Navy Cuts Steel on First Multi-Mission Surface Combatant Ship for Saudi Arabia, press release by Program Executive Office Unmanned and Small Combatants (PEO USC) Public Affairs, https://www.navsea.navy.mil/Media/News/Article/2019739/navy-cuts-steel-on-first-multi-mission-surfacecombatant-ship-for-saudi-arabia. (10) Defense Security Cooperation Agency, Kingdom of Saudi Arabia-Multi-Mission Surface Combatant (MMSC) Ships, https://www.dsca.mil/press-media/majorarms-sales/kingdom-saudi-arabia-multi-mission-surface-combatant-mmsc-ships. (11) Naval Sea Systems Command, Sea Air Space 2019, PMS 525 International Small Combatants https://www.navsea.navy.mil/Portals/103/Documents/Exhibits/ SAS2019/ToddTompkins-SAS-05062019.pdf?ver=2019-05-06-200405-567. (12) MMSC Professional Mariner Crew, Active Contract Opportunity Notice ID N00024-21-R-2308 Related Notice Department/Ind. Agency DEPT OF DEFENSE HQ Office NAVSEA HQ, https://govtribe.com/opportunity/federal-contract-opportunity/mmsc-professional-mariner-crew-n0002421r2308. (13) US Army Corps of Engineers Middle East District Public Website, Middle East District awards FMS Contract for Dredging in Saudi Arabia _ Middle East District Public _ News Release. (14) Saudi Arabian Military Industries (SAMI), Saudi Arabian Military Industries (SAMI) Sign JV Agreement with Navantia for 5 Corvettes with a 60% Localization Plan, press release, https://www.sami.com.sa/en/media-center/news/saudi-arabian-military-industries-sami-sign-jv-agreement-with-navantia. (15) Saudi Arabian Military Industries (SAMI), SAMI show casing naval capabilities at Saudi International Maritime Forum, press release, https://www.sami.com.sa/ en/media-center/news/sami-showcasing-naval-capabilities-saudi-international-maritime-forum. (16) Navantia, Navantia launches the fifth corvette for the Royal Saudi Naval Forces, press release, https://www.navantia.es/en/news/press-releases/navantia-launches-the-fifth-corvette-for-the-royal-saudi-naval-forces. (17) Saudi Arabia Government, Royal Saudi Navy inducts multi- mission MH-60R helicopters, press release, https://www.my.gov.sa/wps/portal/snp/content/news. (18) Nadav Pollak, Michael Knights, Gulf Coalition Operations in Yemen (Part 3): Maritime and Aerial Blockade, The Washington Institute for Near East Policy, https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/gulf-coalition-operations-yemen-part-3-maritime-and-aerial-blockade. (19) Naval Group, Naval Group launches the first Gowind corvette for the United Arab Emirates Navy, press release, https://www.naval-group.com/en/naval-grouplaunches-first-gowindr-corvette-united-arab-emirates-navy. (20) EDGE, ADSB awarded AED3.5 billion contract with UAE Navy to build Falaj 3-class Offshore Patrol Vessels, press release, https://edgegroup.ae/news/619. (21) Luca Peruzzi, DIMDEX 2018: il successo italiano in Qatar, https://www.analisidifesa.it/2018/04/dimdex-2018-il-successo-italiano-in-qatar. (22) Luca Peruzzi, First sea trials for the Qatar’s new first-of-class multi-purpose corvette, https://www.edrmagazine.eu/first-sea-trials-for-the-qatars-new-first-ofclass-multi-purpose-corvette. (23) Luca Peruzzi, Qatar’s EUR5 billion naval deal with Italy sees three ship types to be delivered, http://www.janes.com/article/61591/...h-italy-sees-three-ship-types-to-be-delivered. (24) Anadolu Shipyard, Al Doha Denize indirildi, press release, https://www.adik.com.tr/en/al-doha-denize-indirildi. (25) Leonardo, Qatar’s NH90 helicopter programme marks major milestone with first flights, press release, https://www.leonardo.com/en/press-release-detail//detail/23-12-2020-leonardo-qatar-s-nh90-helicopter-programme-marks-major-milestone-with-first-flights.

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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE

Mar Rosso: da sempre strategico L’esercizio, nei secoli, del Potere Marittimo in un ambiente «impossibile»

Enrico Cernuschi Laureato in giurisprudenza, vive e lavora a Pavia. Studioso di storia navale ha dato alle stampe, nel corso di venticinque anni, altrettanti volumi e oltre 500 articoli pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia dalle più importanti riviste del settore. Tra i libri più recenti Gran pavese (Premio Marincovich 2012), ULTRA - La fine di un mito, Black Phoenix (con Vincent P. O’Hara), Navi e Quattrini (2013), Battaglie sconosciute (2014), Malta 1940-1943 (2015), Quando tuonano i grossi calibri, Gli italiani dell’Invincibile Armata (2016), L’ultimo sbarco in Inghilterra, 1547 (2018) e Venezia contro l’Inghilterra, 1628-1649 (2020).

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Il combattimento, in prossimità dello Stretto di Bab el-Mandeb, tra il sommergibile TORRICELLI e una squadriglia di cacciatorpediniere inglesi avvenuto il 23 giugno 1940. Quadro di Rudolf Claudus esposto nell’Accademia Navale (USMM).

C

erniera tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano, il Mar Rosso è, da sempre, un bacino a dir poco strano dal punto di vista del Potere Marittimo. Erodoto e l’archeologia hanno narrato e documentato la realizzazione del cosiddetto Canale dei faraoni, iniziato dal monarca egiziano Nekao II intorno al 600 a.C. e completato dal persiano Dario I due secoli dopo. Si trattò di

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un’opera ciclopica, eseguita rintracciando una depressione naturale risalente a ere geologiche precedenti, così da congiungere lungo lo Wadi (valle, in arabo) Tumilat, quella che oggi è Suez al corso del Nilo, sbucando presso il Cairo. Questo percorso pressoché orizzontale fu poi modificato, e reso più agevole, nel 106 d.C., da Traiano, mediante un canale modificato detto Amnis Traianus.

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sciuti da non essere, praticamente, inclusi dallo stesso Si trattò di investimenti estremamente costosi e giuStrabone (il padre della geografia vissuto a cavallo delstificati solo dalla scoperta marittima, da un lato, del l’inizio dell’era cristiana) nei suoi libri, tra l’XI e il XVII, regime dei monsoni (con quello estivo che spira da dedicati all’Asia Minore, all’Egitto e alla Libia, eccezion nord a sud e quello invernale in senso contrario) e, fatta per il mitico regno della regina di Saba di cui, però, dall’altro, dalla fortunata combinazione economica delquell’antico greco specifica con precisione la natura coml’alto valore attribuito a merci di ridotto peso e volume merciale esclusivamente carovaniera, con esclusione di come la seta e gli arbusti di incenso e mirra — il cui sbocchi sul mare. Quegli stessi territori sarebbero rimasti, profumo era associato anche a finalità religiose — e le in buona sostanza, confinati nel leggendario limbo dell’spezie. Il tutto veniva pagato in oro estratto dalle mihic sunt leones fino a quando il bolognese Ludovico di niere africane, un bene di elevato peso specifico, ma Varthema non pubblicò, nel 1510, il proprio Itinerario ancora agevolmente trasportabile dalle navi a vele lanello Egypto nella Surria nella Arabia deserta e felice tine della metà occidentale dell’Oceano Indiano delnella Persia nella India e nella Ethiopia. La fede el vivere l’epoca. Questi velieri (dalla stazza media, stimata, e costumi de tutte le prefate Provincie, al termine di un intorno alle 200 tonnellate) sono comunemente chialungo e avventuroso viaggio. mati, ancora oggi, col nome omnicomprensivo di samNel caso di quelle resine, pagate pur sempre in oro, buchi, ma includono, in realtà, una varietà di legni la via terrestre, per quanto disagevole, presentava, non specializzati, dallo yatra all’oruwa fino al madel padi meno, il vantaggio della percorribilità per tutto il ruwa, tutti originari di Ceylon. (1) corso dell’anno senza dover sottostare alla legge dei Nel caso delle spezie e della seta (quest’ultima promonsoni e a quella, economicamente almeno altretveniente addirittura dalla Cina), il trasporto via mare tanto potente, della concentrazione della domanda e dall’Indonesia all’India fino al Golfo Persico e aldell’offerta soltanto in un preciso momento dell’anno, l’Egitto, era — praticamente — inevitabile, dati i costi con tutti gli intuibili inconvenienti del caso. Eppure e i tempi proibitivi, per tacere dei rischi, connessi ai anche per quei beni la documentazione a noi pervenuta tragitti via terra a dorso di elefanti, muli o cammelli. conferma la netta prevalenza del traffico marittimo. Ed Né era solo una questione di vitto e di paghe per il noè a questo punto che fa capolino, con matematica preleggio degli animali da soma, dei conducenti e delle cisione, il Potere Marittimo. scorte. Ognuno dei potentati locali, dagli imperatori fino ai predoni di questo o quel pezzo di deserto o di montagna, pretendeva, infatti, la propria parte di profitto a titolo, diciamo così, fiscale o, più precisamente, di racket. Una volta pagati i diritti del porto di partenza e degli scali intermedi necessari per rifornirsi, per contro, restava da sborsare solo la tariffa della dogana all’arrivo, con intuibili vantaggi. Il fiorente mercato della mirra e dell’incenso, tramandato addirittura nei Vangeli, impone, a sua volta, una serie di considerazioni economiche, marittime e navali molto diverse. Tanto per cominciare si trattava di resine originarie dalla parte meri- Anfore romane conservate nel Museo Tecnico Navale della Spezia. Si trattava dei «container» deldionale della penisola araba e dall’Eritrea; l’antichità. Ripiene di incenso e mirra furono il cuore, per millenni, del traffico nel Mar Rosso, alternativamente da attaccare o da proteggere (USMM). territori, entrambi, talmente poco cono-

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Pattugliatori ante litteram Come abbiamo visto, per il VII secolo a.C. il traffico marittimo attraverso il Mar Rosso era ormai tanto conveniente da giustificare i successivi secoli di investimenti spesi per realizzare il Canale dei faraoni. Non solo. Fu altresì necessario mantenerlo in efficienza, data la tendenza naturale all’insabbiamento di quel passaggio artificiale. La manutenzione proseguì fino al IX secolo d.C., quando i discendenti di Ibn Ṭūlūn (un esattore turco che si proclamò primo sovrano nazionale di un Egitto ormai affrancatosi dal califfato islamico) lo mandarono, senza rimedio, in rovina a causa, come vuole la tradizione, della loro avidità, volta soltanto ad accumulare oro e argento conservati nei forzieri (e, pertanto, infruttiferi), opponendosi a qualsiasi spesa o investimento. Non fu pertanto un caso che quella dinastia venisse infine linciata a furor di popolo nel giro di un paio di generazioni dopo aver mandato in malora il paese. Il traffico navale tra l’India e l’Egitto era assicurato, nei due sensi, dai velieri provenienti dal subcontinente indiano. Lungo le coste del Mar Rosso, per contro, gli storici non hanno registrato la presenza di potenze navali. La causa, comunemente accettata, di questo fenomeno consistette nella mancanza, pura e semplice, di legname da costruzione lungo le due rive di quel bacino, in particolar modo nella metà superiore del Mar Rosso. Tutt’al più, quindi, le popolazioni semite della costa araba e quelle nubiane ed etiopi del lato africano potevano così disporre soltanto di imbarcazioni, piccole e non pontate, utilizzate per la navigazione costiera e la pesca. (2) Un altro problema di non poco conto è rappresentato dalla mancanza di porti, con il relativo retroterra logistico. Fu solo dopo il completamento del Canale che il porto egiziano di Berenice acquistò l’importanza e il rango di primo scalo del Mar Rosso, seguito dalla successiva «succursale» rappresentata da Berenice Epi Dire, un porto artificiale senz’altro minore, tanto che se ne conosce solo il nome e che gli archeologi sono tutt’ora incerti in merito alla sua precisa collocazione lungo la costa, inospitale, che corre tra le attuali località di Massaua e Gibuti. Quanto alla costa yemenita le uniche circostanze su cui gli studiosi concordano sono quelle legate alla natura mon-

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tanara degli abitanti e su un’economia legata al flusso delle carovane. La maggiore contraddizione, però, risiede nella questione navale sottostante. Se, sulla terra, i carichi e il loro prezzo in oro erano in balia di gabellieri e briganti, in mare la minaccia diretta contro i velieri indiani era rappresentata dai pirati. Essendo questo un problema ancora oggi endemico a quelle latitudini, figurarsi allora. Oltretutto, come la storia si sarebbe incaricata di confermare, in quelle stesse acque, ancora duemila anni dopo, le imbarcazioni a remi godevano di precisi vantaggi nei confronti dei velieri. Ferma restando la stagione invernale dello scirocco che domina il Mar Rosso settentrionale, i passaggi obbligati, la nebbia, le coste e i fondali poco o per nulla noti ancora nel XIX e nel XX secolo e le innumerevoli isolette avrebbero permesso agevolmente a nuclei di predoni marittimi di sbucare improvvisamente e di arrembare, con le loro imbarcazioni, i velieri, magari nel corso di una delle frequenti fasi di calma di vento del periodo estivo. Nulla di tutto ciò emerge, per contro, dalle scarse cronache disponibili, mentre è dimostrato, al contrario, che il traffico in parola non fece che crescere tra la stagione dei faraoni e quella del tardo impero romano. Si tratta, dal punto di vista storico, di un problema non piccolo, a patto che i termini della questione non vengano invertiti. In altre parole la successione logica degli avvenimenti è, a parere di chi scrive, la seguente: — a domanda e l’offerta generarono il traffico tra l’India e l’Egitto attraverso il Mar Rosso; — il traffico in questione fu insidiato dai pirati mediante i modesti mezzi di cui costoro disponevano in termini di marinai e imbarcazioni; — il canale fu deciso non tanto e non solo per far percorrere e sbucare direttamente nel Mediterraneo (dopo un trasbordo dai velieri alle nave fluviali) i carichi, risparmiando così a quelle merci poco voluminose 130 chilometri di strada terrestre dopo aver percorso non meno di 3.200 miglia di mare, ma allo scopo di inviare direttamente nel Mar Rosso quelli che potremmo chiamare i pattugliatori dell’epoca, ovvero navi da guerra atte a combattere la minaccia posta dalle imbarcazioni dei pirati, ma troppo grossi per essere realizzati (e rinnovati) in

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retti di Roma indusse, peraltro, gli imperatori a ricorrere numero sufficiente con le risorse locali e troppo picad opportune strategie asimmetriche. Furono così uticoli per poter servire, al di là dei compiti esplorativi, lizzate al meglio sia la diplomazia (mediante la rivitacome capital ship nel Mediterraneo. lizzazione, nel 298, del Dodekaschoinos, una sorta di Su questa medesima falsariga anche il successivo stato-cuscinetto posto tra l’Egitto e l’impero Kush periodo imperiale romano trova una propria logica etiope — quello, per intenderci, della celeste Aida e di spiegazione. Dopo un primo, infelice tentativo auguRadames — risalente ancora al periodo tolemaico) sia steo condotto, secondo Strabone, mediante unità (navis la religione, in seguito alla conversione al cristianelongae) realizzate sfruttando al massimo le scarse risimo, avvenuta intorno al 340, del Regno etiope di sorse locali, ma non adatte, in quanto troppo grosse e Axum, fatto di per sé tanto più notevole se si pensa che troppo poco numerose, l’Amnis Traianus (la cui stessa la semplice tolleranza romana nei confronti di quella esistenza è stata messa in dubbio da qualche accadefede era stata proclamata appena 27 anni prima. In efmico) si rivelò, infatti, lo strumento indispensabile per fetti questa combinazione politico-religiosa assicurò, l’espansione di Roma — sempre troppo poco studiata fino alla conquista araba avvenuta per il 632, il con— in direzione dell’Arabia Felix e della Mesopotamia. trollo e la protezione del traffico con l’India senza che Un fenomeno di dimensioni geopolitiche continentali, fosse necessario andare più in là dell’uso delle consuete contrassegnato, proprio nel 106 d.C., dall’annessione liburne. L’unica eccezione avvenne nel 530, quando di Petra, (assicurando in tal modo il fianco terrestre del l’imperatore Giustiniano, in risposta al massacro dei Canale inaugurato proprio quell’anno) e proseguito, tra cristiani avvenuto nel 524 a Najran, una città al confine il 164 e il 363, con la tormentata conquista della Metra Arabia e Yemen, a opera del re (o usurpatore, a sesopotamia settentrionale. Più precisamente i legionari conda delle fonti) ebraico Dhū Nuwās, sovrano dello si assicurarono, nel corso del I secolo d.C., sia il capoHimyar (in pratica la somma dell’attuale Yemen con saldo di Marib, ossia il capoluogo montano di quello l’Oman), diede corso a una vera e propria escalation. che oggi chiamiamo Yemen, sia una base sull’arcipeLa Marina bizantina trasferì, infatti, nel Mar Rosso allago delle Farasan, all’imboccatura meridionale del cuni dromoni (ovvero le unità maggiori del tempo) Mar Rosso. La prima posizione, di carattere puramente smontati, salvo ricostruirli nel Mar Rosso, Quelle caterrestre, rimase ben presto isolata, andò di consepital ship, a riprova del ruolo insostituibile della squaguenza perduta, ma le basi navali di Clysma (fondata anch’essa da Traiano in prossimità dell’attuale Suez) e le Farasan rimasero sotto il controllo della Classis Alexandrina romana (3), assicurando così, a un tempo, i ricchi traffici con l’Oriente e l’espansione romana, tra gli anni 195 e 196, fino al Golfo Persico (Sinus Persicus) grazie alla conquista del porto fluviale di Charax, sede di un’apposita flottiglia che permise, infine, di raggiungere le foci del Tigri e dell’Eufrate. In seguito, dopo la suddivisione, nel 285, dell’Impero tra Occidente e Oriente, Costantinopoli continuò a gestire la situazione corrente nel Mar Rosso. Il generale difetto di forze che afflisse per secoli Modello di galea del XVI secolo. Nelle chiuse acque del Mar Rosso queste unità si confermarono le vere capital ship del Cinquecento rispetto ai galeoni portoghesi (foto autore). quella porzione dei precedenti domini di-

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dra una volta che sia assicurato, a differenza di quanto era avvenuto con Augusto, un adeguato supporto logistico, riconquistarono rapidamente il predominio navale rispetto alle imbarcazioni avversarie, eliminando in tal modo alla radice, nel giro di un anno, qualsiasi ulteriore minaccia in corrispondenza del passaggio obbligato di Bab el Mandeb che immette nell’Oceano Indiano. In seguito, essendo tornato ad essere un bacino separato dal Mediterraneo dopo l’interramento del Canale, il Mar Rosso perse gran parte della propria importanza economica. Per quanto fosse dominato (in teoria), lungo entrambe le sponde, dagli arabi, quel bacino era, in effetti, in preda all’anarchia (ovvero alla pirateria, da Sinbad il marinaio in su), in quanto qualsiasi tentativo di controllo navale — mediante le solite, piccole navi da guerra a remi — tentato dai mamelucchi egiziani, fu puntualmente neutralizzato dall’analoga, modesta forza schierata dai vari potentati della dirimpettaia penisola arabica. (4) Il risultato finale fu che la via terrestre delle spezie garantita dal ben più solido sultanato turco risultò, ben presto, preferibile, dando corso, per secoli, ai noti, proficui scambi gestiti dalle Repubbliche marinare, mentre i mamelucchi dovettero accontentarsi delle briciole, dati i maggiori costi assicurativi dei noli e l’aleatorietà delle comunicazioni.

Una guerra segreta Questo tran tram secolare, tutto sommato abbastanza tranquillo, terminò, bruscamente, nel 1498, anno in cui i portoghesi di Vasco da Gama scoprirono, dopo centinaia d’anni di tentativi, la rotta per arrivare in India circumnavigando l’Africa. La notizia arrivò a Venezia nel luglio 1501 scatenando il panico, in quanto gli abitanti della laguna, formidabili marinai e imprenditori come erano, dal doge fino ai comuni cittadini della Serenissima, capirono subito che la posta ora in gioco era, né più né meno, che decisiva. I termini matematici della questione erano chiari. Il commercio delle spezie — prima tra tutti il pepe — provenienti dall’India fruttava, ogni anno, almeno 5 milioni di ducati, ossia più di dieci volte il gettito di metalli preziosi che giungevano, in quel momento, dalle Americhe. (5) Richieste sia per esigenze alimentari, sia sanitarie, le spezie erano il motore dell’economia sin dall’età del bronzo e sarebbero

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rimaste tali (ma a quel tempo non si poteva certo saperlo) fin verso il 1650. I nuovi arrivati portoghesi praticarono sin dall’inizio dei metodi a dir poco disinvolti nel tentativo di monopolizzare il commercio delle spezie e la navigazione nell’Oceano Indiano (da sempre svolta, in mancanza di strumenti, lungo rotte costiere, procedendo dall’India fino alla Malacca e, in senso contrario, alla volta di Suez), sfruttando la superiorità tecnologica dei loro velieri armati di cannoni. Non si trattava, pertanto, di capitalisti ma, come ha scritto il grande storico francese Fernand Braudel, di «… speculatori che un giorno salgono alle stelle, per ricadere precipitosamente l’indomani». (6) In cambio di tributi, prestazioni in natura e del monopolio del commercio marittimo, i portoghesi presero così a consegnare agli armatori e ai padroni delle navi a vela asiatiche (più piccole e fragili rispetto alle caracche e alle stesse, piccole e agili caravelle lusitane) dei documenti, detti cartazes, che mettevano (non sempre) indiani e arabi al sicuro dall’imposizione di un ulteriore balzello o di un sequestro tout court dei carichi. Il volume del traffico delle spezie dirette in Europa via mare (tra le 3 e le 400 tonnellate all’anno), risentì subito degli effetti di quest’inedita minaccia. Già nel febbraio 1504, infatti, le galee di commercio veneziane tornarono in patria senza i previsti quantitativi di spezie: un fatto inaudito come sarebbe, oggi, il rientro in patria delle petroliere in zavorra. Contemporaneamente i profitti inviati a Lisbona doppiando il Capo di Buona Speranza permisero al cartello lusitano che aveva assunto il controllo del traffico nell’Oceano Indiano di versare alla corona portoghese (coinvolta nell’affare al 20%, avendo fornito sia parte delle navi coinvolte nella spedizione sia la protezione assicurata dalla propria bandiera) fino a 1.000.000 di ducati ogni 12 mesi. Le navi portoghesi, in apparenza inarrestabili, si addentrarono, a partire dal 1509, dopo aver fatto base a Goa, in India, nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, nel tentativo di controllare tutti i passaggi obbligati della rotta delle spezie che portavano a Suez. La reazione veneziana (e quella dei loro alleati finanziari milanesi e piacentini) davanti a questo nuovo ordine commerciale mondiale fu, peraltro, immediata. Già nel

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Quella guerra non dichiarata tra portoghesi, turchi e 1503 due disertori meneghini (o, più probabilmente, sa«consiglieri» italiani continuò, tra alti e bassi, per debotatori infiltrati già da anni tra i cannonieri delle navi cenni. E, come sempre, la carta decisiva si rivelò essere battenti bandiera portoghese) passarono al servizio della quella del traffico. Lo sforzo bellico intrapreso dissandinastia Indù Samoothiris, rivelando agli indiani i segreti guò, infatti, il «cartello del pepe» lusitano, in quanto i della moderna artiglieria europea. (7) I veneziani, dopo violatori di blocco indiani, italiani (in primo luogo raaver valutato per un attimo l’ipotesi di riaprire, mediante gusei) e turchi riuscirono a un certo punto, grazie anche uno sforzo titanico, l’antico Canale dei faraoni, provvia una grossa opera di riorganizzazione della propria dero, a loro volta, ad appoggiare dapprima i mamelucchi rete commerciale e finanziaria, a recuperare la propria e, in seguito, i turchi, conquistatori dell’Egitto nel 1517, competitività sul mercato europeo, assottigliando, in fornendo loro, per decenni, la tecnologia e i materiali netal modo, sempre di più i margini di profitto dei loro cessari, (8) oltre a un paio di consiglieri militari ed ecoconcorrenti. Nel 1538, infine, i turchi sferrarono il nomici d’eccezione: Giovanni Contarini, detto colpo decisivo, espellendo dallo Yemen la composita Cacciadiavolo, e Gian Francesco Giustiniani. Rampolli armata portoghese (formata, in realtà, in larga parte da di due tra le più illustri famiglie di Venezia e convertitisi, mercenari reclutati in Europa, Africa e Asia), recupeformalmente, all’Islam, quegli agenti segreti operarono, rando così in pieno, con le loro galee, il controllo dello in realtà, da supervisori in capo ai materiali inviati in Stretto di Bab el-Mandeb, salvo spingersi, subito dopo, Egitto e da garanti in vista del loro corretto uso contro i in direzione dell’India. portoghesi, curando, altresì, la messa a punto di un traAlla fine la scommessa portoghese si rivelò, per la gitto alternativo delle spezie mediante una rete interconmetà del Cinquecento, fallimentare e il Mar Rosso ritinentale di contrabbandieri (9). mase, per i successivi tre secoli, sotto il controllo dei Fu così trasferita via terra, pezzo dopo pezzo, nel turchi mediante l’impiego delle consuete forze leggere, Mar Rosso una flotta, di base a Suez, formata, in senza che fossero più necessarie capital ship, si tratmedia, da tre dozzine di galee, mantenute, per decenni, tasse dalle galee o, dalla metà del Seicento, dei succesin efficienza. Sia la Serenissima sia la Sublime Porta sivi galeoni e vascelli di linea. (10) rischiavano, infatti, di essere rovinate dalla perdita del L’idea di un canale che unisse il Mediterraneo al commercio delle spezie e dai proventi delle relative Mar Rosso tornò agli onori della cronaca in occatasse. Grazie a queste misure d’emergenza già nel 1513 i lusitani fallirono la presa di Aden. Da allora ebbe inizio una dura guerra dimenticata, combattuta, senza esclusione di colpi, contro i portoghesi attraverso tutto il Mar Rosso e l’Oceano Indiano perdendo e riprendendo più volte, tra l’altro, la decisiva isola di Hormuz. In effetti i portoghesi (o chi per loro, visto che, per esempio, i cannonieri delle loro navi erano di solito reclutati tra tedeschi e fiamminghi) furono sempre troppo pochi per poter esercitare un blocco effettivo lungo tutte le sterminate coste del subcontinente indiano. Arrivarono, al massimo, a disporre, nei loro momenti migliori, di 10.000 uomini e di dozzina di Il porto di Aden dopo un bombardamento aereo italiano, luglio 1940 (g.c. Peter Cannon, collezione autore). navi grosse, oltre al naviglio minore.

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Il relitto di un bombardiere britannico tipo Wellesley abbattuto dall’asso italiano Mario Visintini il 12 luglio 1940 nel cielo di Massaua (g.c. Famiglia Levi per il tramite di Ludovico Slongo).

L’avviso australiano PARRAMATTA fotografato, nel 1940, nel Mar Rosso (g.c. Peter Cannon, collezione autore).

L’avviso italiano ERITREA. Dopo aver forzato, nel 1941, il blocco inglese attraverso lo Stretto di Bab el-Mandeb, questa nave riuscì a raggiungere il Giappone (USMM).

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sione dell’invasione francese dell’Egitto intrapresa, nel 1798, da Napoleone. Fu però solo nel 1820 che l’ingegnere bolognese Gaetano Ghedini dimostrò che il presunto dislivello di quasi 10 metri tra quei due mari che la tradizione attribuiva, da sempre, ai due bacini, in realtà non esisteva. L’impresa, in vista di quello che sarebbe diventato l’odierno Canale di Suez, iniziò, in pratica, nel 1846 su iniziativa austriaca, date le ambizioni coloniali asburgiche nel Levante, portate avanti, sempre senza successo, fino al 1918. Il resto della storia è noto e, dal giorno dell’inaugurazione, il 17 novembre 1869, di quel passaggio artificiale, il Potere Marittimo poté manifestarsi nel Mar Rosso senza dover più ricorrere ad acrobazie come quelle turco-veneziane del XVI secolo, ma mediante le consuete navi da guerra, sia pure in condizioni terrificanti per i marinai. Basti pensare, per esempio, che soltanto il 4 luglio 1940 la Regia Marina subì la perdita di 31 uomini rimasti vittime di colpi di calore a bordo dei cacciatorpediniere, pronti a muovere, di base a Massaua, a causa dei 60° registrati nei locali macchine. Era però destino che quelle acque così particolari dovessero essere sempre contraddistinte dalla presenza di navi da guerra a dir poco improbabili. Forse il record appartiene a quella che era, nel 1948, la maggiore nave della neonata Marina israeliana: l’Eilath, un ex rompighiaccio da 2.065 tonnellate e 10 nodi scarsi, progettato per conto della Guardia Costiera statunitense e varato, con nome di Norhland, nel 1927. Quel bastimento navigò, infatti, dal 1947 in poi, dopo essere stata acquistata da una falsa compagnia di linea

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fine, nel 1955, sempre passando per il Capo di Buona Speranza, nel Mediterraneo, «il rompighiaccio del Mar Rosso» fu ribattezzato Matzpen venendo adibito, in qualità di stazionario a Haifa, a compiti di nave scuola e deposito fino al momento della radiazione, nel 1961. Fu l’ultima — almeno per ora — delle strane navi del Mar Rosso, (11), oltre che l’ennesima prova del fatto che il Potere Marittimo non ammette scorciatoie. Solo le unità di superficie possono esercitarlo, e L’incrociatore britannico EURYALUS mentre attraversa, nel 1942, il Canale di Suez (collezione autore). quelle più grosse dominano sempre quelle minori (di per sé condannate a una mera guerriglia), anche a costo si nordamericana, in acque piuttosto diverse rispetto a dover viaggiare sul basto di un cammello, dopo quelle, a lei molto più familiari, dello Stretto di Betutto quadrupede soprannominato, non a caso, la ring e della Groenlandia. nave del deserto. 8 Armato con tre pezzi da montagna ex francesi da 65/18 modello 1906 acquistati d’occasione e montati, senza guadare troppo per il sottile (e in mancanza di meglio), incatenando in coperta gli affusti ruotati di quegli obici, l’Eilath, giunto di soppiatto nel Mar Rosso, circumnavigando l’Africa, alla vigilia della dichiarazione d’indipendenza ebraica, rappresentò, per anni, l’intera «flotta» di Tel Aviv disponibile, a sud di Suez, sulle sponde meridionali del nuovo Stato, eseguendo perfino alcuni bombardamenti costieri contro gli La fregata MAESTRALE subito dopo aver sventato un attacco di pirati contro la portacontainer JOLLY SMERALDO, 5 maggio 2009. I millenni passano, il mare e la geopolitica no (USMM). egiziani. Trasferito, in-

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Non essendo questa la sede per ripercorrere la storia, lunga ben più di un secolo, della Regia Marina dapprima, e della Marina Militare poi, nel Mar Rosso è — non di meno — doveroso fare almeno un rapido accenno ai pattugliatori che operano, da decenni, in quelle acque. Nel 1982 il governo italiano accolse la richiesta israeliana ed egiziana, appoggiata dalle Nazioni unite, volta ad attivare una forza d’interposizione navale nel Mar Rosso nel Golfo di Aqaba. Si trattò, in un certo senso, del seguito dell’attività delle piccole liburne e dei dromoni romani. I primi, diciamo così, «nuovi e piccoli» pattugliatori furono quattro vecchi dragamine (Bambù, Mango, Mogano e Palma) opportunamente modificati. A essi seguirono, negli anni Novanta, i quattro «Esploratore» (Esploratore, Sentinella, Vedetta e Staffetta) tutti nomi rinnovati più volte, nel corso dei secoli, tra le file delle Marine italiane in vista dell’assolvimento di analoghe missioni. Si tratta di piccole navi da 164 tonnellate progettate apposta per quei compiti e di esercizio, pertanto, più economico. Le unità in parola hanno operato anche in Adriatico nel corso delle crisi che hanno travagliato gli Stati, vecchi e nuovi, della sponda orientale. Chi scrive ha avuto modo di ammirarne, da vicino, la grande manovrabilità.

Pattugliatori costieri classe «Esploratore» (Esploratore, Sentinella, Vedetta, Staffetta) Cantiere Anno

Dislocamento Dimensioni Apparato motore Sensori Armamento Equipaggio

Esploratore-Sentinella-Vedetta: Istria-Cadimare; Staffetta: Siman-La Spezia Esploratore: impostato 1995-varo 1996-completato 1997; Sentinella: impostato 1995-varo 1997-completato 1998; Vedetta: impostato 1995-varo 1997-completato 1999; Staffetta: impostato 1997-varo 2001-completato 2005. tonnellate 164,5. lunghezza metri 32, larghezza metri 7, immersione metri 1,9. 2 motori diesel potenza 3748 hp, velocità 20 nodi. 1 radar di scoperta di superficie, 1 radar di navigazione. 1 mitragliera Cal. 20/70, 2 mitragliatrici MG 42/59 Cal. 7,62. 14 militari.

NOTE (1) The Earliest Ships (a cura di Robert Gardiner), Conway, Londra, 1996, pp. 94-95. (2) Il principale problema, tuttavia, era — come sempre avviene — di natura culturale. Esistono infatti casi, come quello dei millenari popoli precolombiani, di puro e semplice rifiuto della scienza della navigazione per ragioni religiose o filosofiche, a favore, magari, dell’eccellenza in altre attività, come l’oreficeria o l’architettura. Salomone, il più sapiente dei re secondo la Bibbia, ammetteva, per esempio, di non conoscere tre cose in tutto, una delle quali era, appunto, l’arte della navigazione. Ancora oggi gli abitanti dell’Oman affermano di essere i discendenti diretti dei marinai Sind originari della costa di quello che oggi chiamiamo Pakistan. Le stesse, celebri spade arabe di Damasco derivano dall’acciaio wootz indiano, importato — via mare — in lingotti da quel subcontinente ben prima dell’era cristiana, in quanto dimostratosi, fino al medioevo, sempre nettamente superiore rispetto alle contemporanee tecnologie utilizzate nel Mediterraneo e in Europa. David Nicolle, Rome’s Enemies. The Desert Frontier, Osprey, Londra, 1991, p. 14. (3) Nome che conferma come i romani considerassero un tutt’uno il bacino Mediterraneo orientale-Mar Rosso trasferendo le necessarie liburne (biremi lunghe poco più di 30 metri fuori tutto) attraverso il Canale e il Nilo a seconda delle esigenze del momento. (4) Vitorino Magalhães Godinho, Os Descobrimentos e a Economia Mundial Volume III, Editorial Presença, Lisbona, 2000, pp. 84-85. (5) Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2002, vol. I, pp. 585-586. Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1982, pp. 195-197. Oltre a oro e argento le Americhe fornivano, beninteso, anche altri prodotti, ma il loro valore non raggiungeva, in quel periodo, un decimo di quello rappresentato dei metalli preziosi avviati in Europa. Carlo M. Cipolla, Conquistadores, pirati, mercatanti. La saga dell’oro spagnolo, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 31. (6) Fernand Braudel, Espansione europea e capitalismo 1450-1650, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 48. (7) David Nicolle, The Portuguese in the Age of Discovery c.1340–1665, Osprey, Oxford, 2012, p. 17. (8) Carlo M. Cipolla, Vele e cannoni, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 90. (9) Giancarlo Casale, «The Ottoman Administration of the Spice Trade», Journal of the Economic and Social History of the Orient, Vol. 49, No.2 (2006) pp. 174-175. (10) Giancarlo Casale, «The Ottoman …», p. 171. BIBLIOGRAFIA Salvatore Bono, «Il Canale di Suez e l’Italia», Mediterranea - Ricerche storiche, Anno III, Dicembre 2006. Glen W. Bowersock, The Throne of Adulis: Red Sea Wars on the Eve of Islam, Oxford University Press, Oxford, 2013. Enrico Cernuschi, L’ultimo sbarco in Inghilterra, le galee dei Medici e degli Strozzi contro Enrico VIII, 1543-1551, Mursia, Milano, 2018. Enrico Cernuschi e Andrea Tirondola, Pattugliatori, il ritorno di un’idea vincente, 1820-2020, USMM, Roma, 2021. Enrico Cernuschi, «La rivalità anglo-italiana nel Mar Rosso», Storia militare, gennaio e febbraio 1995. Max E. Fletcher, «The Suez Canal and World Shipping, 1869-1914», The Journal of Economic History, Vol. 18, No. 4 (Dec., 1958). William Jackson, The Pomp of Yesterday. The Defence of India and the Suez Canal 1798-1918, Brassey’s, Londra, 1995. W.M. Roger Louis (a cura di), Ends of British Imperialism. The Scramble for Empire, Suez and Decolonization, I.B. Tauris, Londra, 2006. Caroline Piquet, «Le Canal de Suez: une route stratégique au coeur des conflits du Moyen-Orient au XX e siècle», Guerres mondiales et conflits contemporains, Avril-Juin 2016, No. 262, Moyen Orient et conflits au xxe siècle (Avril-Juin 2016). Agatha Ramm, «Great Britain and the Planting of Italian Power in the Red Sea, 1868-1885», The English Historical Review, Vol. 59, No. 234 (May, 1944). Charles R. Shiflett, «The Royal Navy and the Question of Imperial Defense East of Suez, 1902-1914», Warship International, 1995, Vol. 32, No. 4 (1995).

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STORIA E CULTURA MILITARE

La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi (Le navi del porto di Teodosio)

Maria Grazia Bajoni

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l quartiere di Yenikapi (Istanbul), nel distretto del Faith, si estende lungo la costa europea del Bosforo e all’interno delle mura della città antica. Luogo storico di residenza degli Ebrei e degli Armeni, all’inizio del XXI secolo Yenikapi è diventato famoso per la costruzione del tunnel che, passando sotto il Bosforo, doveva collegare la costa asiatica a quella europea. Nel 1860 il sultano ottomano Abdülmecid I aveva pensato a un collegamento fra le due parti della città, ma il progetto, preparato dall’ingegnere francese Simon Préault, non fu mai realizzato. Nel 2004 i lavori

di sbancamento per la linea della metropolitana, in particolare per la stazione di scambio di Marmaray, hanno condotto al più importante ritrovamento finora avvenuto nella storia dell’archeologia nautica. Gli scavi archeologici condotti dal 2004 al 2013, nelle vicinanze del Museo Archeologico Rahmi Koç hanno riportato alla luce l’antico porto di Eleutherios, noto come il porto di Teodosio, i relitti di 37 navi bizantine datate fra il V e il XII secolo d. C., e migliaia di manufatti. Il recupero dei relitti è stato condotto dal Dipartimento per la conservazione degli oggetti di archeologia ma-

Dottore di ricerca dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Ha insegnato lingua latina all’Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato articoli di filologia classica in Italia e all’estero. I suoi interessi storici convergono sui linguaggi e le istituzioni della diplomazia nella tarda antichità romana: nel 2018 Diplomacy & Statecraft ha accolto uno dei suoi studi sulla retorica della comunicazione politica interstatale protobizantina. Nel 2021 ha partecipato al 56th International Congress on Medieval Studies alla Western Michigan University. È tuttora impegnata nella ricerca storica.

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L’antico porto di Teodosio riemerge dagli scavi per la metro di Istanbul (mareonline.it).

rina dell’Università di Istanbul: al professor Ufuk Kocabaş, presidente del Dipartimento, si deve la direzione del progetto. Nel presente articolo si porterà l’attenzione sul contesto del ritrovamento e su alcuni relitti. Dei numerosi studi al riguardo, saranno date informazioni selettive.

Sopra il porto bizantino di Teodosio sul Mar di Marmara (danielemancini-archeologia.it). Qui sotto il porto di Teodosio oggi (it.rayhaber.com).

1. Il Bosforo Il Bosforo ha interessato la geopolitica del XX secolo in relazione al transito delle navi mercantili definito giuridicamente, nel 1936, dal trattato di Montreux. Dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano nel 1923, il trattato di

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La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi

Losanna aveva stabilito che la navigazione sul Bosforo fosse sotto il controllo di una commissione internazionale. La convenzione di Montreux riaffermava la libertà di transito, in tempo di pace, delle navi mercantili, battenti qualsiasi bandiera, alla sola condizione di soddisfare i diritti di transito e le prescrizioni sanitarie. In tempo di guerra la libertà di passaggio e di navigazione dei mercantili dei paesi neutrali subiva limitazioni orarie e rotte obbligate (1). Anche l’attuale geopolitica non distrae l’attenzione dai Dardanelli (2). Passaggio obbligato degli scambi commerciali fra il Mar Nero e il Mediterraneo, nell’antichità romana e bizantina il Bosforo ebbe sempre una grande importanza strategica ed economica.

2. I porti di Costantinopoli Nel corso dei secoli Costantinopoli fu dotata di quattro porti (3). Il Prosphorion, attivo dal tempo in cui la città era una colonia greca (657 a. C.-324 d.C.), si trovava sulla sponda meridionale del Corno d’Oro, a est dell’attuale Ponte di Galata, nella V regione di Costantinopoli, sotto il pendio a nord-ovest della prima collina della città (4). In seguito, fu ampliato verso ovest. L’insenatura dove si trovava è ora insabbiata. Il porto di Neorion fu il primo porto costruito a Costantinopoli dopo la rifondazione della città da parte di Costantino il Grande. Si trovava nella stessa zona del Prosphorion. Fu attivo dal IV secolo fino al tardo periodo ottomano. Il Kontoskalion è noto anche come il Porto di Giuliano (Portus Iuliani), Portus Novus o Portus Sophiae e, in epoca ottomana, come Kadirga Limani (Porto delle Galee). Nel 362 l’imperatore Giuliano (r. 361363) fece costruire, sulla riva della Propontide, un Portus Novus. La posizione era poco favorevole a causa dell’esposizione alle tempeste causate dal lodos, il vento di sud-ovest che insabbiava il bacino, rendendo necessario il dragaggio periodico. All’insabbiamento del porto contribuiva anche il materiale scaricato dall’erosione delle colline. Tuttavia, un porto sulla sponda sud si rendeva necessario per rifornire le regioni occidentali e meridionali della città. Il Portus Iuliani aveva la duplice funzione di porto commerciale e di cantiere navale; inoltre, ospitava una fabbrica di remi. Poiché

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l’attività principale del porto era il commercio, la zona era circondata da molti magazzini. Ripetuti incendi, dalla fine del IV al VI secolo, distrussero, in parte, l’area. Durante il regno di Anastasio I (r. 491-518) il bacino fu svuotato mediante l’uso di macchine idrauliche, fu costruito un molo e dragato il substrato sabbioso. Dopo un incendio che lo devastò nel 561, Giustino II (r. 565-578) commissionò, nel 575, importanti opere di dragaggio e di ampliamento del bacino. Il porto ampliato fu chiamato Portus Sophiae dal nome dell’imperatrice. Fra il IX e l’XI secolo è attestata la denominazione Kontoskalion. Del porto di Eleutherios, conosciuto anche come il porto di Teodosio, si dirà nel paragrafo successivo. Ai porti di Costantinopoli si deve aggiungere il porto del palazzo detto Bucoleone (Boukoléon) (5) costruito, probabilmente, da Teodosio II, e reso sontuoso da Giustiniano I. Il porto del Bucoleone divenne l’accesso di rappresentanza della città.

3. Il porto di Teodosio La rifondazione della Bisanzio greca con il nome Costantinopoli a opera di Costantino nel 330 e il conseguente incremento demografico ed economico resero inadeguati gli antichi porti del Corno d’Oro. Si rese necessario crearne nuovi e ingrandire quelli già esistenti: gli imperatori Giuliano e Teodosio I (r. 379-395) fecero costruire nuovi porti a sud, sulle rive del mar di Marmara. Il grande porto, fondato probabilmente durante il regno di Teodosio I si addentrava nella Propontide (Marmara). Fu realizzato, probabilmente, ampliando un precedente assetto portuale situato in una baia naturale, profonda, alla foce del fiume Lycos (Bayrampaşa). L’ampliamento si ottenne con la costruzione di un molo che andava da ovest a est al lato sud della baia. Si ritiene che occupasse il sito del porto di Eleutherios, fondato durante il regno di Costantino. Dal VI al IX secolo è attestato come «porto di Cesare» (6). I magazzini di Alessandria (horrea Alexandrina) e i magazzini di Teodosio (horrea Theodosiana), scoperti all’estremità orientale della IX regione, attestano che il porto di Teodosio era un grande porto commerciale al quale approdavano le navi provenienti da Alessandria con il loro carico di cereali e di altri prodotti (7). I

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La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi

Gli scavi del porto di Teodosio a Yenikapi (Dossiers d’Archéologie, n° 364, 2014, p. 78).

cereali venivano trasportati direttamente a Costantinopoli, ma le navi da trasporto ad alto tonnellaggio, nei Dardanelli, spesso ostacolate dai venti e dalle correnti contrarie, formavano file d’attesa all’ingresso dei canali. Giustiniano I (r. 527-565) fece costruire depositi intermedi a Tenedos (Bozcaada) e il trasporto fu facilitato grazie all’uso di navi di dimensioni ridotte. Dal porto passavano, oltre alle derrate alimentari, gli approvvigionamenti edilizi: il marmo, i mattoni, le piastrelle e il legname da costruzione. Questo porto servì all’impero dal IV al VII secolo e fino alla conquista araba dell’Egitto nel 641 che interruppe il trasporto dei cereali. In seguito, la sua attività diminuì: tuttavia i relitti delle navi, datate dal VII al X secolo, attestano la continuità dell’attività portuale ridotta però all’uso di imbarcazioni di cabotaggio e di pesca. All’ingresso del porto c’era una torre, detta di Belisario, che doveva funzionare anche come faro. A Costantinopoli e nelle altre città-porto bizantine (8) una strada partiva dalle banchine di imbarcadero e collegava il porto al mercato (9). Le numerose ossa di cavallo rinvenute presso i due imbarcaderi indicano che gli equini erano impiegati per il trasporto delle merci pesanti. A partire dal XII secolo, da nord a sud, i depositi alluvionali colmarono quasi tutto il porto tranne uno

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spazio ridotto utilizzabile solo dalle barche da pesca e dalle imbarcazioni di piccolo tonnellaggio. Nella seconda metà del XIII secolo gli Ebrei vi installarono concerie; in epoca ottomana la zona chiamata Langa era completamente coperta e occupata da giardini (10). Durante il regno del sultano Mustafa III (1757-1774) il porto divenne una discarica di macerie; nel XIX secolo una parte delle fortificazioni fu abbattuta per lasciare posto a una ferrovia; nel XX secolo, la costruzione di una autostrada costiera ha dato l’aspetto odierno alla zona.

4. Le navi bizantine Le fonti indicano le navi bizantine adibite al commercio come naus, ploion, xylon, holkas o karabion, senza fornire definizioni tecniche dettagliate. Il trasporto delle derrate alimentari era effettuato mediante imbarcazioni da cabotaggio: sandalia, agraria e kondurai. Il commercio sulla lunga distanza era assicurato da navi dette strogyla o pamphyloi. La flotta imperiale era composta da navi agili: dromones, khelandia, pamphyloi e ousiaka (11). I relitti navali nel porto di Teodosio comprendono: grandi navi da carico, navi di piccole e medie dimensioni, utilizzate per il cabotaggio, diversi tipi di navi da

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La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi

pesca, galee. Il loro studio ha permesso di seguire l’evoluzione delle tecnologie della costruzione navale dalla tarda Antichità al Medioevo. Gli scavi a Yenikapi hanno portato alla luce le prime galee conosciute di epoca bizantina. Le navi greche e romane erano costruite a partire dalla predisposizione della chiglia e dello scheletro della carena che si rivestivano con il fasciame, collegando i corsi delle tavole a incastro con linguette bloccate da cavicchi di legno. Le navi bizantine erano costruite a partire dal fasciame: dapprima si formava l’involucro della nave e,

in seguito, si posizionava, all’interno, l’ossatura dello scheletro. Quest’ultima tecnica permise la costruzione di navi di maggiori dimensioni, più veloci, e adatte a reggere un sartiame sempre più importante. Fra le navi di Yenikapi, quelle datate al X e all’XI secolo, mostrano l’utilizzo di caviglie nell’assemblaggio della parte del fasciame che rimaneva sommerso. L’evoluzione delle tecniche di costruzione navale mette in evidenza anche un aspetto delle trasformazioni dei modi di produzione in epoca bizantina: a un sistema di lavoro fondato sulla trasmissione del sapere a livello personale (dal maestro all’apprendista) si passò all’uso di tecniche basate su progetti validi anche per le generazioni successive (12).

5. Gli scavi archeologici a Yenikapi Gli scavi effettuati a Yenikapi, nel 2004, per conto della direzione del museo archeologico di Istanbul, hanno interessato una superficie di 58.000 m2, suddivisi in cinque zone, nella parte occidentale interna del porto e hanno richiesto l’impegno di circa 50 archeologi e di 600 lavoratori. Iniziati nella Zona 1, a circa 3 m sotto l’attuale livello del mare e successiAlcuni relitti di Yenikapi (semanticscholar.org).

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La metropolitana del Bosforo e i relitti di Yenikapi

vamente ampliati, gli scavi hanno riportato alla luce reperti di ceramiche risalenti al Neolitico, manufatti greci del periodo arcaico, classico ed ellenistico. Del periodo bizantino restano vestigia di strutture architettoniche, un muro, una banchina costituita da grossi blocchi di pietra rettangolari e il tratto di un molo. Sul fondale, davanti al molo, sono state rinvenute ancore di pietra. La presenza di relitti navali nel porto non ha una spiegazione certa: le improvvise tempeste nel mar di Marmara, provocate in estate dal lodos, furono probabilmente la causa del naufragio delle navi datate alla fine del X secolo e all’inizio dell’XI, situate all’estremità orientale del porto; è probabile che altre imbarcazioni abbiano subito i danni della marea e altre ancora siano state abbandonate una volta diventate inutili. Lo stato di conservazione di numerosi oggetti all’esterno dei relitti fa pensare che i naufragi siano avvenuti in tempi rapidi. Materiali di equipaggiamento (pulegge, montacarichi, cordame arrotolato, etc.), effetti personali (pettini, sandali in cuoio, cesti di vimini, scodelle in legno) e altri oggetti, anfore, ancore in ferro e in pietra etc. sono, nel complesso, ben conservati. I relitti delle navi sono stati inventariati con la sigla YK (Yenikapi) e il numero corrispondente.

6. Le navi mercantili

datata al X secolo che aveva subito molteplici riparazioni. Misura circa 6,2 m di lunghezza per 1,9 m di larghezza. La nave aveva un solo albero, una vela a prua e la chiglia a fondo piatto, probabilmente per l’impiego nelle acque costiere per la pesca o per il trasporto. Le tracce di riparazione e la sostituzione di pezzi usurati del ponte e della fiancata attestano che fu utilizzata per un lungo periodo. Il relitto non conteneva né il carico né altri oggetti. Abbondanti tracce di sigillatura composta da sottili pezzi di corda e resina di pece uniti alla stoppa sono stati trovati tra il fasciame. I pezzi di corda arrotolati intorno alle caviglie indicano che il materiale di sigillatura era stato usato durante il posizionamento del fasciame. L’interno, molto deteriorato, era rivestito da densi strati di pece (una sostanza composta da resina di pino amalgamata alla stoppa) in particolare all’estremità delle ordinate e fra i giunti della plancia. Questo strato di pece conserva le sue proprietà adesive. Il relitto Yenikapi 12, scoperto con un carico di anfore fabbricate a Ganos (Gaziköy-Tekirdağ), risale al IX secolo, e attesta a una piccola nave da carico, armata a un solo albero e vela latina, costruita con il legno di quercia, pino e frassino, e utilizzata per il trasporto sul mar di Marmara. Il reperto presenta oggi le seguenti misure: 7 m di lunghezza per 2,30 m di larghezza; in origine misurava circa 9,6 m per 2,80. La struttura interna si è vista quando sono state prelevate le anfore. Lo scafo è ben conservato: le tavole hanno uno spessore da 5 a

Il relitto Yenikapi 3 è quello di una pesante nave da carico datata fra il VII e il IX secolo. Si è conservata solo la metà destra sulla quale si è adagiata la nave al contrario delle altre che poggiano sulla chiglia; la parte sinistra è completamente distrutta. Le parti ritrovate misurano 9,12 m di lunghezza per 2,28 m di larghezza, tuttavia si ritiene che le dimensioni originali fossero di circa 18 m di lunghezza per 6 m di larghezza. All’interno è stata rinvenuta una grande quantità di frammenti di tegole e pezzi di malta. Il fondo della sentina, rinforzato, permetteva il trasporto di carichi pesanti, materiali da costruzione come mattoni, tegole, marmo (13). Il relitto Yenikapi 6 appartiene a una pic- Cesto di ciliegie scoperto in Yenikapi 12 (De Byzance à Istanbul.Un port pour deux continents, Paris, Rmn 2009, p.155). cola imbarcazione da trasporto o da pesca,

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12 mm, sormontano e sono fissate con chiodi di ferro. Si distinguono, al centro dello scafo, la mortasa per l’albero; verso la prua una cavità rettangolare era utilizzata, probabilmente, per fissare il sostegno dell’albero. A poppa, un divisorio delimitava una cabina nella quale sono stati rinvenuti oggetti appartenuti al capitano (magister): una casseruola e una ciotola in terracotta, una brocca, un bicchiere, due piccole anfore e noccioli di ciliegie in un paniere di vimini: i noccioli di ciliegie indicano che il naufragio avvenne in estate. Il capitano era forse anche il proprietario della nave (14). Il relitto Yenikapi 18 è quello di una nave adibita al trasporto mercantile e risale ai secoli X-XI. Attualmente misura 8,25 m di lunghezza per 3,20 m di larghezza; le dimensioni originarie erano circa 11 m per 3,50 m. Al momento della scoperta, la nave si trovava adagiata sulla carena. Si sono conservate la chiglia, il pontone e il fasciame di dritta. È stata rinvenuto nello strato di sedimenti n° 6, orientato a nord-ovest/sud, a 1,50 m di profondità. Le perforazioni effettuate durante i lavori di consolidamento del terreno hanno messo in evidenza la poppa. L’impiego di caviglie attesta un metodo di costruzione meno recente cioè quello per cui si realizzava lo scafo predisponendo a incastro la chiglia e lo scheletro della carena (15).

m: in pratica, si è conservata meno della metà della nave. La forma della carena e gli incastri dei banchi dei rematori indicano che si trattava di una galea. Il fasciame è largo e solido con spazi per l’incastro scavati a circa 77-79 cm di distanza gli uni dagli altri sul lato destro e hanno da 15 a 20 cm di profondità e da 12 a 13 cm di larghezza. Si pensa che servissero a fissare i banchi di voga separati gli uni dagli altri da 90 a 97 cm. Ne restano 16 in totale. Si tratta del relitto di una galea leggera a un solo ordine di remi (25 remi per ciascuna parte). La galea aveva 25 paia di remi su un solo ordine, cioè 50 rematori in totale. Queste unità leggere erano utilizzate come scorta al dromone (16) o per missioni di ricognizione (17).

9. La conservazione dei relitti

Il relitto Yenikapi 16 è datato all’VIII secolo e restituisce, intatto, il lato di dritta, lungo 22,5 m e largo 2,4

Il primo intervento per la conservazione dei reperti è avvenuta sul campo durante gli scavi: ciascun relitto è stato messo al riparo sotto una copertura provvista di un sistema di idratazione a sprinkler per ridurre le aggressioni ambientali e impedire l’essicamento dei legni. La documentazione in situ ha comportato il rilevamento dei relitti con una scansione 3D, fotografie e l’inventario dei medesimi e disegni a grandezza naturale. Il rilevamento è stato effettuato da un impianto elettronico predisposto per misurare gli angoli e le distanze a partire dallo strumento fino ai punti da localizzare: le strutture dei relitti sono state così memorizzate. Tutti i pezzi smontati sono stati traspor-

Yenikapi 16 (Dossiers d’Archéologie, n° 364, 2014, p. 83).

Yenikapi 34 (onlinelibrary.wiley.com).

8. Le unità leggere

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Gli scavi in corso a Yenikapi (Dossiers d’Archéologie, n° 364, 2014, pp. 84-85).

tati ai banchi di conservazione nel laboratorio sul campo di Yenikapi (18). In seguito alla rimozione dal luogo del ritrovamento, i relitti sono stati posti in contenitori di acciaio inossidabile capaci di contenere 40 tonnellate di acqua per effettuare il processo di desalinizzazione durante il quale EXOCIDE 1012 è stato utilizzato contro l’attività biologica. Per stabilire il deterioramento chimico e fisico del legno, su campioni prelevati, si sono effettuate analisi in base alle quali si è determinata la soluzione impregnante. Il PEG (polyethylene glicol), la liofilizzazione (tramite congelamento) e KauraminF (melanina formaldeide) sono stati impiegati per la conservazione (19).

permette di accedere a informazioni dettagliate sulle tecniche di costruzione navale e sulla tecnologia cantieristica in epoca bizantina. È stata ricostruita Yenikapi 12 e varata per fini scientifici. Il Dipartimento per la conservazione degli oggetti di

Conclusione I trentasei relitti rinvenuti nel porto di Teodosio, a Istanbul, costituiscono, finora, il più importante ritrovamento nel campo dell’archeologia navale e il maggiore complesso di navi datate al primo e medio impero bizantino. Possono essere suddivisi in tre gruppi: galee, navi mercantili per lunghe distanze, piccole navi per il commercio locale. Il loro interesse è dato, anzitutto, dal buono stato di conservazione che

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Moderna ricostruzione di Yenikapi 12 (rmkyachts.com).

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archeologia marina dell’Università di Istanbul si è fatto carico della conservazione dei relitti. Al professor Ufuk Kocabaş, presidente del dipartimento e direttore del progetto e ad altri specialisti del settore, si devono il

recupero, la conservazione dei reperti e l’impegno costante nella divulgazione scientifica della scoperta al fine di incrementarne l’interesse, rendendola accessibile anche a un vasto pubblico. 8

NOTE (1) Cf. Regime degli Stretti. Convenzione firmata a Montreux il 20 luglio 1936, Sezione I Navi mercantili (www.difesa.it>Corsi PDF); Enciclopedia Italiana Treccani (XII, p. 377-378) (treccani.it), s.v. «Dardanelli». (2) Si veda Limes 9 luglio 2021. (3) K. R. Dark, «The Eastern Harbours of Early Byzantine Constantinople», Byzantion, 75, 2005, pp. 152-163; N. Günsenin, «Harbours and Shipbuilding in Byzantine Constantinople in Ch. Buchet, M. Balard (eds), The Sea in History / La Mer dans ‘Histoire, vol. 2: Le Moyen Âge, Woodbridge, Suffolk, Boydell Press, 2021, pp. 412-424. (4) I sette colli di Istanbul si trovano nel distretto del Faith corrispondente all’area dell’antica Costantinopoli. (5) Boukoléon è un termine ottenuto dalla crasi fra due vocaboli greci: bous (bue) e léon (leone). Il palazzo prendeva il nome da una statua, raffigurante i due animali, posta all’interno del porto che si trovava alla base del palazzo. (6) U. Kocabaş, «The Theodosian Harbour: A Crossroad between Black Sea and the Mediterranean» in Karagianni F., Kocabaş U. (eds), Proceedings of the Symposium on City Ports from the Aegean to the Black Sea. Medieval-Modern Network, Istanbul 22nd-29t August 2015, Istanbul, Yayinlari, 2015, p. 110. (7) Si veda S. Zelenko, «The maritime trade in the medieval Black Sea» in The Sea in History…cit., pp. 449-464 e il capitolo «Food supply» in A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 282-602, vol. 1, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1964, pp. 695-705. (8) Nella «città-porto» si evidenzia la compenetrazione fra le strutture portuali e la crescita del manufatto urbano, con fondaci che, talvolta, si addentrano nell’abitato, determinandone la struttura: il mare modella la città e la città si riflette nelle strutture portuali in base alle attività economiche a alle iniziative politiche: A. Musarra, Medioevo marinaro. Prendere il mare nell’Italia medievale, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 35-40. (9) R. Asal, «Les ports byzantins au quotidian», in De Byzance à Istanbul. Un port pour deux continents, Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 2009, pp.152-155. (10) U. Kocabaş, Isl Özsait-Kocabaş , «Le porte de Théodose: Trésor de l’Archéologie marine» in De Byzance à Istanbul…cit., p. 145. (11) U. Kocabaş, Isl Ozsait-Kocabaş, «Le porte de Théodose: Trésor de l’Archéologie marine» in De Byzance à Istanbul…cit., p. 148; G. Dagron, B. Flusin (sous la direction de) Constantin VII Porphyrogénète, Le livre des cérémonies, tome IV, 2e section, Commentaire par G. Dagron, Paris, Association des Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, 2020, pp. 807-813 e 843-846. (12) Ibid., pp. 150-151; E. Türkmenoglü, «A Medieval Shipwreck in the Theodosian Harbor. Yenikapi 27» in F. Karagianni F. (ed.) Medieval Ports in the North Aegean and the Black Sea. Link sto the Maritime Routes of the East. Proceedings of the International Symposium. Thessalonike, 4-6 December 2013, Thessalonike, European Union-Olkas-Black Sea-cbc.net, pp. 414-422; G. Taner, «Construction technique of Yenikapi 27», ibid., pp. 423-426. (13) U. Kocabaş, «Le port de Théodose et les 37 épaves de Yenikapi à Istanbul», Dossiers d’Archéologie, 364, Juillet/Août 2014, pp. 82-83. (14) A Roma i navicularii assicuravano la continuità degli approvvigionamenti alimentari a partire dai raccolti egiziani o africani. Dalla fine della repubblica al primo secolo dell’impero, si reclutavano trasportatori privati operanti su una base contrattuale. Traiano istituì la categoria dei navicularii al servizio dell’annona romana. Il termine navicularius poteva indicare un capitano di nave o una persona che non era in rapporto con questa professione, ma che aveva accettato di garantire trasporti al servizio dello Stato e di finanziare la costruzione e il mantenimento delle imbarcazioni necessarie in cambio dell’esenzione da tasse e di altre agevolazioni: Cod. Theod. XIII, VI. De praediis naviculariorum; Iust., Dig., 50,5,3 (Scaevola). Si veda J.-M. Carrié., «L’exemple des naviculaires» in J.-M. Carrié, A. Rousselle, L’Empire romain en mutation des Sévères a Constantin 192-337, Paris, Éditions du Seuil, 1999, pp. 689-692; W. Broekaert, «Navicularii et Negotiantes: A Prosopographical Study of Roman Merchants and Shippers» in H.-J Drexahage, P.Herz, Ch. Schäfer (eds), Pharos, I, St. Katharinen, Germany, Marie Leidorf Verlag, 2013. (15) U. Kocabaş, Isl Özsait-Kocabaş, «Le porte de Théodose: Trésor de l’Archéologie marine» in De Byzance à Istanbul…cit., p.150-151. (16) J. H. Pryor, «The Dromon» in Ch. Buchet, M. Balard (eds), The Sea in History… cit.., pp. 401-411. (17) J. H. Pryor, E. H. Jeffrey, The Age of the Dromon. The Byzantine Navy ca 500-1204: «The Medieval Mediterranean. Peoples, Economics and Cultures, 4001500», vol. 62, Leiden, Brill, 2006. (18) U. Kocabaş , «Le port de Théodose et les 37 épaves de Yenikapi à Istanbul», cit., p. 85. (19) N. Kiliç, «Preservation of Yenikapi Shipwrecks» in Karagianni F., Kocabaş U. (eds), Proceedings of the Symposium on City Ports from the Aegean to the Black Sea. Medieval-Modern Network, Istanbul 22nd-29t August 2015, Istanbul, Yayinlari, 2015, p. 203-208. BIBLIOGRAFIA Ahrweiler H., Byzance et la mer. La marine de guerre, la politique et les institutions maritimes de Byzance au VIIIe-XVe siècle, Paris, PUF, 1966. Bréhier L., «La marine de Byzance di VIIIe au XIe siècle», Byzantion, 19, 1949, pp. 1-16. Buchet Ch., Balard M. (eds), The Sea in History / La Mer dans ‘Histoire, 2 vol.: Le Moyen Âge, Woodbridge, Suffolk, Boydell Press, 2021. Carile A., Cosentino S. (a cura di), Storia della marineria bizantina, Milano, Lo Scarabeo, 2010. Dain F., Kislinger E. (eds), The Byzantine Harbours of Constantinople, Regensburg, Schnell & Steiner, 2021. Kocabaş U., «Theodosius Harbour and Yenikapi. Byzantine Shipwrecks Excavation, Istanbul-Turkey» in Karagianni F. (ed.) 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Özsait, «Shipwrecks at the Theodosian Harbour», Publication de l’Institut Français d’ Études Anatoliennes, 20, 2010, pp. 109-127. Kocabaş U., «The latest link in the long tradition of maritime archaeology in Turkey: the Yenikapi shipwrecks», European Journal of Archaeology, 15/1, 2012, pp. 1-15. Kocabaş U., «Le port de Théodose et les 37 épaves de Yenikapi à Istanbul», Dossiers d’Archéologie, 364, Juillet/Août 2014, pp. 78-85. Kocabaş U., «The Yenikapi Byzantine-Era Shipwrecks, Istanbul, Turkey: a preliminary report and inventory of the 27 wrecks studied by Istanbul University», International Journal of Nautical Archaeology, 44/1, 2015, pp. 5-38. Kocabaş U., «Workshop on recent archaeological fieldwork undertaken around the Mediterranean as a part of the wider Portuslimen project» in Rome’s Mediterranean Ports. Workshop on Archaeological Fieldwork, 28th-29th January 2016, British School at Rome, (disponibile on line). Magdalino P., Necipoglu N. (eds), Trade in Byzantium. Papers from the Third International Sevgi Gönül Byzantine Studies Symposium, Istanbul Koç Üniversitesi, Anadolu Medeniyetlei Arastirma Merkezi, cop. 2016. Morrison C. (ed.), Trade and Markets in Byzantium, Washington DC, Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 2012. Pryor J. H., Geography, Technology and War. Studies in the maritime history of the Mediterranean, Cambridge, Cambridge University Press, 1992: si veda il capitolo «The ships», pp. 401-411.

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.... a ricordo di Pier Paolo Ramoino

In ricordo dell’ammiraglio Pier Paolo Ramoino di Daniele Sapienza - Capitano di vascello, Direttore “Rivista Marittima”

«L’ammiraglio Ramoino, appassionato cultore di storia militare marittima e profondo conoscitore del pensiero strategico navale, possiamo sicuramente annoverarlo tra i maggiori esperti in ambito nazionale nel campo degli studi strategici…», con queste parole veniva presentato il Supplemento alla Rivista Marittima intitolato «Una storia “strategica” della Marina Militare Italiana», pubblicato nel settembre 2018 e uno degli ultimi lavori di quell’Ammiraglio per il mensile, dal 1868, dello Stato Maggiore della Marina Militare. Oggi, con dolore e animo fiero, ricordiamo la sua recente scomparsa: una perdita per tutta la Marina e, naturalmente, per questa testata, di cui è stato attivissimo e prolifico collaboratore, oltre che illustre esponente del Comitato Scientifico. L’ammiraglio Pier Paolo Ramoino è stato un pensatore navale e marittimo di «stile Bernottiano». A sua volta lui stesso giudicò l’ammiraglio Bernotti (1) come il «maggior pensatore marittimo italiano» (2). E proprio come Bernotti, Ramoino è stato sicuramente, oltre che uno studioso di strategia marittima, uno storico e un innovatore del pensiero marittimo nazionale, concependo idee originali che tutt’ora brillano di luce propria sia nell’ambito della Forza armata sia in quello politico. Basti ricordare il concetto stesso di «Mediterraneo allargato» e di come lo «spazio marittimo influenza fortemente l’economia degli Stati e di conseguenza la loro strategia navale» (3). L’ammiraglio Bernotti fu il fondatore e primo comandante dell’Istituto di Guerra Marittima (noto come IGM), un’iniziativa che incominciò, il 18 maggio 1922, la propria attività nella stessa sede dell’Accademia navale di Livorno, «...Affinché gli ufficiali di vascello possano meglio provvedere alla propria cultura negli studi che interessano la preparazione e la condotta della guerra marittima e possano acquistare maggiore attitudine e competenza per i servizi di Stato Maggiore…». L’ammiraglio Ramoino scrisse a sua volta: «…Ho maturato un vero e proprio affetto per Romeo Bernotti, unito a una profonda considerazione per le sue idee, sempre espresse con grande chiarezza, in una lunghissima vita tutta dedicata alla Marina Militare». E proprio lui fu, per un caso singolare, l’ultimo comandante dell’IGM prima che l’Istituto si spostasse, nell’estate 1999, a Venezia sotto il nuovo nome di Istituto di Studi Militari Marittimi (ISMM), un cambio di etichetta che non modificò quella che è una precisa e sentita eredità e tradizione culturale. Proprio presso l’IGM generazioni e generazioni di ufficiali di Marina hanno potuto apprezzare le limpide lezioni di strategia navale impartite dall’ammiraglio Ramoino, prima quale docente di strategia, in seguito in qualità di direttore dei corsi di Stato Maggiore e, infine, come comandante dell’Istituto. Memorabili i ricordi degli accesi dibattiti, degli scambi di idee e di pensiero che avvenivano nell’Aula delle discussioni, nota come «anfiteatro» (non potendo citare, in questa sede, il termine confidenziale assegnato, storicamente, dai giovani ufficiali a quel consesso). L’Aula, nel 1992, 70° anniversario dell’Istituto, fu intitolata dal Prefetto di Livorno all’«ammiraglio designato d’armata Romeo Bernotti». E in quell’Aula l’IGM toccava quasi con mano l’insegnamento di quel fondatore: gli ufficiali non dovevano considerarsi studenti, bensì coadiutori dei loro docenti e parte attiva dell’Istituto. Con lo stesso spirito, sulla scia di una tradizione culturale, navale e marittima e animato dallo studio e dalla passione per la ricerca, l’ammiraglio Ramoino, oltre a studiare e ricercare, spingeva soprattutto gli

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ufficiali a: «pensare con la propria testa». L’ammiraglio Ramoino è stato così non solo un limpido e accattivante docente di strategia navale e un profondo studioso di strategia marittima, ma anche e in primo luogo il degno erede dei migliori pensatori della Marina italiana. Era un uomo capace di suscitare il germe della passione in direzione degli studi strategici e della storia navale. Infine, voglio ricordare un aspetto di quell’Ammiraglio appena scomparso degno di nota e, a mio giudizio, meritevole di non effimera memoria. In ogni suo scritto, in ogni iniziativa didattica o culturale, il pensiero dell’ammiraglio Ramoino era sempre rivolto ai più giovani, verso i quali sentiva una tensione spirituale affettiva e coinvolgente, nella speranza di suscitare una altrettanto viva passione. Riflettere sulla nostra storia navale e sulla nostra strategia marittima, questa fu la sua scelta, portata avanti con assoluta coerenza.

Nella prefazione di uno dei suoi volumi più celebri, Fondamenti di strategia navale, uscito nel 1999 (e che non per superbia, ma per continuità, intitolò come già il celebre, omonimo libro del 1911 dell’allora tenente di vascello Romeo Bernotti), l’Ammiraglio si augurava che quel volume avesse «qualche lettore civile soprattutto nel mondo accademico o in quello delle comunicazioni di massa». Se così fosse stato «la mia fatica non è stata inutile!». Ammiraglio Ramoino, la Sua fatica, quella di una lunga vita al servizio della Marina, ha lasciato il segno. C’è ancora tanto lavoro da fare, ma sempre più sta nascendo la consapevolezza, nel paese tutto, di quanto scrisse, nel 1906, il futuro ammiraglio e ministro Giovanni Sechi: «Nei periodi di lunga pace l’insegnamento dell’arte militare ha l’importantissimo ufficio di far ricordare la guerra, che forse non scoppierà per anni e anni, ma alla quale si ha l’imprescindibile dovere di essere preparati, come se dovesse scoppiare domani». Buon vento e mari calmi Ammiraglio. NOTE (1) Romeo Bernotti (Marciana Marina, 24 febbraio 1877-Roma, 18 marzo 1974) è stato un Ammiraglio e intellettuale italiano. Ha avuto una lunga e profonda influenza sul pensiero strategico della Marina. Fu Sottocapo di Stato Maggiore della Regia Marina dal 21 dicembre 1927 al 5 ottobre 1929. Nel 1939 fu nominato Senatore del Regno. (2) Pier Paolo Ramoino, Una Storia «strategica» della Marina Militare Italiana - Supplemento della Rivista Marittima, settembre 2018, pag. 7. (3) Pier Paolo Ramoino, Fondamenti di strategia navale, pag. 41, Forum di relazioni internazionali, Roma 1999.

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RUBRICHE

F OCUS

DIPLOMATICO

La tragedia ucraina: le angosciose incertezze dell’ora presente L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata da quasi 48 ore e si sta realizzando secondo un piano, da tempo preparato di occupazione di gran parte, se non di tutto, il territorio ucraino, che Mosca intende ora applicare con metodica precisione. Al momento, la reazione armata ucraina non pare di natura tale da impensierire l’inesorabile tabella di marcia delle truppe russe. A una, per quanto preliminare, analisi i fatti sembrano smentire la fondatezza delle ipotesi che erano state intrattenute da alcuni osservatori — tra cui immodestamente anche chi sta scrivendo queste righe — i quali avevano coltivato la speranza che l’agitarsi minaccioso dei russi non sarebbe stato seguito da fatti irreversibili sul terreno qualora ci fosse stata una rapida conversione formale alla neutralità da parte di Kiev che avrebbe potuto forse dissuadere Mosca dal realizzare il piano di invasione. Tale conversione non c’è stata e quindi rimarrà sempre non verificabile se detta apertura nei confronti delle istanze russe avrebbe potuto preservare l’Ucraina dalla tragedia in cui essa è precipitata. Probabilmente, con il senno di poi, non sarebbe bastata anche se Mosca sembra, a parole, darle qualche parvenza di plausibilità. Resta il fatto che l’invocazione a più riprese negli ultimi tempi da parte delle autorità di Kiev della possibilità di aderire alla NATO, peraltro contemplata addirittura nel preambolo della Costituzione ucraina, ha accelerato gli eventi. Sarebbe stato, invece, molto più opportuno da parte dell’Occidente rappresentare realisticamente al presidente Zelenski l’impraticabilità di tale cammino, suggerendogli di convertirsi rapidamente a una neutralità internazionalmente garantita. Così non è stato. L’Europa è ora confrontata con la maggiore crisi internazionale dopo la fine della seconda guerra mondiale, la quale prelude a un riassestamento degli equilibri mondiali che difficilmente potrà essere più confacente agli interessi dell’Occidente rispetto a quanto avvenuto fino a ora. Il sia pur minore e limitato concorso di responsabilità dell’Occidente consiste nel non aver comunque frenato Kiev dal coltivare queste irrealistiche speranze

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (rainews.it).

quando esso stesso dichiarava che in caso di crisi non si sarebbe sentito impegnato a intervenire militarmente. Tutto questo non viene detto per sminuire l’enorme peso della colpa che grava sostanzialmente su Mosca e che senza alcun dubbio passerà nei libri di storia («A Date Which Will Live in Infamy»). Il fatto è che negli ultimi due decenni le accorte politiche di Putin avevano progressivamente restituito all’apparato militare russo quella incisività che la protratta, ingloriosa fine dell’impero sovietico gli aveva tolto, trasformandolo nuovamente in penetrante e agile strumento di pressione e di intervento quale si è visto negli ultimi anni in Medio Oriente. Nel contempo, mai come nell’ultimo decennio, l’Occidente si era avvicinato alle frontiere della Russia con una costellazione di Stati fieramente anti-russi che sono entrati nel dispositivo NATO, esaltando progressivamente, nella percezione di Mosca, una sproporzione fra l’ambizioso schieramento virtuale sul terreno rispetto alle straordinariamente rafforzate capacità offensive acquisite dall’apparato russo. In altre parole, il contrasto fra la «pretenziosità» dello schieramento e delle aspirazioni occidentali e la rinnovata consistenza del sistema militare russo era diventato sempre più evidente a Mosca che ha deciso di rompere gli indugi e di dare la stoccata finale a Kiev, convinta, come lo è fondatamente, della improponibilità per l’Occidente di frapporsi alla avanzata militare della Russia in Ucraina. Risuonano al riguardo profondamente sbagliate e controproducenti, dal punto di vista politico e storico,

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Focus diplomatico

le sprezzanti espressioni di Obama che — Putin non se lo è mai dimenticato — definirono nella parte finale della sua presidenza la Russia come semplice potenza regionale. A questo punto due quesiti si pongono alla nostra perspicacia previsionale in merito, da un lato, all’effettiva capacità delle truppe russe di concludere rapidamente le operazioni di occupazione del territorio ucraino soffocando ogni possibile conato di resistenza; e, dall’altro, alla diffusione e intensificazione nel territorio russo di proteste contro l’iniziativa di Putin. È ovviamente impossibile dare una risposta ai due quesiti ancorché sembri più plausibile rispondere in forma dubitativa al primo piuttosto che al secondo. Se in effetti è ragionevole attendersi un rapido smembrarsi del dispositivo militare di Kiev, è altrettanto possibile l’ipotesi del radicarsi di una sotterranea opposizione militante ucraina sostenuta dall’aiuto occidentale che, alla lunga, potrebbe creare, con il suo prevedibile stillicidio di vite russe, problemi di sostenibilità per l’opinione pubblica russa, costretta per ora da una implacabile repressione governativa a rientrare probabilmente nei ranghi. Altri due scenari di inquietanti domande si pongono alla nostra attenzione in questo momento. Il primo riguarda la praticabilità dell’ormai conclamata intenzione di Putin di alterare sostanzialmente gli assetti prevalenti progressivamente in Europa, dopo la caduta dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni 90 del secolo scorso, mediante la conversione alla neutralità dei numerosi paesi dell’Est europeo facenti parte prima dell’impero sovietico e poi entrati nel dispositivo NATO. Il secondo riguarda l’esistenza di una eventuale intesa «personale» segreta, perfezionata da Putin con Xi Jinping in occasione del suo recentissimo viaggio a Pe-

chino per l’inaugurazione dei giochi olimpici invernali, in merito alla fattibilità di un imminente attacco cinese a Taiwan. L’ipotesi di una simile congiunzione è di natura tale da suscitare brividi di pauroso sconcerto in tutto il mondo occidentale. In effetti, un improvviso acuirsi della tensione nel Mar Cinese meridionale con la predisposizione di una massiccia offensiva militare di Pechino contro Taiwan, sarebbe di natura tale da distogliere attenzione e mezzi americani dall’Europa per concentrarli nell’estremo Oriente, mentre l’Europa, sprovvista dell’illimitato appoggio americano, potrebbe trovarsi esposta in condizioni di estrema debolezza nei confronti delle iniziative russe volte a sovvertire l’ordine internazionale che è prevalso nel continente dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Scenari questi di conturbante difficoltà potenziale che si affacciano solo in via ipotetica perché, in base alle informazioni finora disponibili, non sembrano di concreta realizzabilità. Eppure è impressione di chi scrive che il mondo sia improvvisamente entrato in una fase di pericolosa fluidità in cui gli assetti internazionali che hanno resistito negli ultimi quasi 80 anni appaiono suscettibili di improvvisi, radicali scossoni. È ormai da tempo che l’Occidente è entrato in una fase di riflessiva introversione, se non di ripiegamento, che nasconde l’esaurimento della capacità propulsiva che l’ha animato per gli ultimi 500 anni. La prefigurazione di siffatto scenario viene fatta come semplice esercitazione intellettuale nella timida speranza che chi di dovere ne prenda in qualche modo eventualmente nota e che tutti, collettivamente, ci si predisponga a ritrovare quella energia vitale, fatta di impegno e sacrificio, che ci consenta di risalire la china su cui siamo, senza rendercene conto, precipitati soprattutto negli ultimi due decenni. Adriano Benedetti, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Adriano Benedetti, nato a Vicenza nel 1941, consegue un B.A. in Scienze politiche presso l’Università della California, Santa Barbara (1964) e la laurea in Scienze politiche presso l’Università di Vicenza (1966). Entra in carriera diplomatica nel 1970 e svolge incarichi presso le Ambasciate in Lima e Ottawa, le Rappresentanti permanenti presso l’OCSE Parigi e le Organizzazioni internazionali a Ginevra. Consigliere diplomatico presso la presidenza del Senato della Repubblica e consigliere diplomatico aggiunto del Presidente della Repubblica (1985-1987). Ambasciatore a Caracas (2000-2003) e Direttore generale degli Italiani all’Estero e delle Politiche migratorie (2003-2008). Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

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Conseguenze della guerra in Ucraina sugli interessi nazionali. Implicazioni per il PNRR La guerra in Ucraina, apertasi con l’invasione russa, avviata il giovedì 24 febbraio u.s. potrebbe avere conseguenze per i nostri interessi nazionali, non solo sul piano politico-militare, ma anche sul piano economico e sociale. Il conflitto si è aperto, infatti, in uno dei momenti più delicati della storia mondiale del dopoguerra, quando tutti i paesi, quelli europei in particolare, stavano iniziando a considerare delle prospettive a medio termine di recupero della normalità e della ripresa economica dagli sconquassi della pandemia. Non parlo soltanto del ritorno negativo che le sanzioni possono comportare per gli stessi paesi che le hanno imposte, oppure del nuovo flusso di immigrati ucraini che la guerra sta provocando, ma, in generale, della destabilizzazione che un cambiamento delle variabili economiche può causare allo sforzo di riemancipare l’Unione europea e l’Italia in particolare, dai danni causati dalla lunga permanenza dell’epidemia. L’Unione europea si era da tempo, com’è noto, attrezzata a tal fine, rendendo disponibile una grande quantità di finanziamenti cui i membri avrebbero potuto accedere sulla base della soddisfazione di alcune condizionalità e di riforme. A tal proposito, è bene non dimenticare che il nostro paese, pur avendo ottenuto il finanziamento più cospicuo tra i membri, si trova di fronte a una prova non priva di insidie. Innanzi tutto il Governo deve avventurarsi in un territorio sul quale, nel passato, non abbiamo avuto buoni risultati. Le difficoltà riscontrate precedentemente in Italia nello spendere in tempo utile i fondi resi disponibili dall’UE, come per esempio i fondi strutturali, per una serie di concause di tipo burocratico, insieme all’insidia permanente della delinquenza organizzata e alla corruzione, rendono questa impresa una vera battaglia, anzi una lunga campagna, guidata dalla Presidenza del Consiglio. Si tratta di un vero «challenge» incruento, ci auguriamo, ma non per questo meno intenso di una guerra, allo scopo di onorare questa formidabile occasione di progresso e prosperità per l’Italia del prossimo futuro. Le grandi occasioni, si sa, difficilmente si presentano due volte. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) tocca infatti direttamente e

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indirettamente non pochi dei nostri interessi nazionali, che delineeremo qui di seguito. Vorrei, in grande sintesi, sottolineare quanto suggestive siano le prospettive offerte da questo piano, ma anche la «magnitudo» dello sforzo che Roma ha da poco iniziato ad affrontare. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza contiene, come noto, sei «missioni» che gli italiani dovranno avviare e, possibilmente, portare a compimento entro il 2026. I circa 200 miliardi stanziati dall’Unione europea a questo fine, dipendono dai risultati che l’Italia riuscirà a ottenere promuovendo, allo stesso tempo, anche quarantotto riforme collegate ai settori inclusi nelle «missioni». I finanziamenti vengono erogati secondo un cronoprogramma il cui mancato rispetto potrà comportarne la revoca da parte dell’UE. Il fine è quello di aiutare la ripresa economica e sociale del paese dalle drammatiche conseguenze della pandemia, ma anche quello di rafforzare il «Sistema Italia», innovandolo e preparando le nuove generazioni alle sfide del futuro. Le sei «missioni» comprendono: 1) Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo. 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica. 3) Infrastrutture per un’Italia sostenibile. 4) Istruzione e ricerca. 5) Inclusione e coesione. 6) Salute. Si tratta di uno schema davvero impressionante che, tenendo conto anche delle 48 riforme collegate, disegna uno dei progetti di governo più impegnativi, dal giorno dell’unità nazionale. Infatti, oltre alla realizzazione delle sei «missioni», il Governo, ma, direi meglio l’intero paese, si troverà di fronte a riforme «orizzontali, o di contesto», che saranno trasversali a tutte le «missioni» del piano e consisteranno in innovazioni strutturali dell’ordinamento. Avremo poi le riforme dette «abilitanti», cioè strumentali, per garantire l’attuazione del piano, rimuovendo gli ostacoli amministrativi che condizionano le attività economiche. Verranno infine attuate le riforme «settoriali», che consisteranno di innovazioni normative relative all’introduzione di nuovi «regimi regolatori di settore» più efficienti. A un occhio distratto potrebbe sembrare di trovarsi

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in una fucina di attività interne al paese, ove le autorità politiche e amministrative cercano di approntare e rapidamente utilizzare i meccanismi necessari per il funzionamento del piano. Invece, il PNRR non è che la «road map» interna, per la parte che riguarda l’Italia, già approvata dal Consiglio europeo e dal Parlamento di Strasburgo, di un progetto dell’Unione europea, chiamato «Next generation E.U.» il quale, attraverso questo nome, significativamente scelto dalla Commissione UE, sottolinea come il suo fine ultimo sia quello di una profonda riforma delle esistenti strutture economiche, sociali e ambientali europee, a beneficio delle future generazioni. In sostanza si tratta di realizzare un nuovo «sistema» che possa affrontare positivamente le «sfide», che il nuovo millennio ci presenta. Ne consegue un prepotente ingresso del «Next generation E.U.» nella politica estera dei partners e dell’Unione per vocazione primigenia, giacché un fallimento di un piano nazionale, nelle sue immediate e imprescindibili implicazioni esterne, cioè verso i partners e verso le autorità europee, costituirebbe una cocente sconfitta del paese, ma anche dell’intera Unione europea. Se osserviamo infatti le note sei «missioni», vediamo che le relazioni internazionali sono alla base di ciascuna di esse e che il ministro degli Affari Esteri è continuamente chiamato in causa dal Presidente del Consiglio per l’attuazione del piano. Osserverei anche che, mentre l’alveo «madre», ove i piani nazionali si sostentano e si sviluppano è certamente quello dell’Unione europea, le cure che il Governo dovrà riservare al progetto nazionale, durante la sua crescita e anche dopo, per il consolidamento di tanta innovazione, vanno ben al di là dei pur ampli confini dell’UE e riguardano questioni globali, come tutti possono facilmente intendere, soprattutto quando parliamo di

energia, di clima, di ambiente. Il PNRR è per l’Italia una grande conquista, che solo l’evo contemporaneo con la democrazia e la pace che ha saputo fin qui (!) portare in Europa, ha potuto consentire. Abbiamo bisogno, per conservarla, di una maggiore consapevolezza e disciplina all’interno del paese, sia da parte delle forze politiche che dei cittadini. Sul fronte esterno, quali che siano le implicazioni che seguiranno l’invasione dell’Ucraina, per il futuro dell’integrazione europea e il nostro sistema di alleanze, quali appunto le sanzioni, non dobbiamo modificare la nostra rotta sul PNRR e perseguire invece le politiche europee che l’hanno consentito. Potremmo anche tentare di convincere Bruxelles di farsi carico di almeno una parte delle conseguenze economiche che le sanzioni alla Russia, energetiche e bancarie, potranno comportare ad alcuni paesi membri, tra cui il nostro. Una volta risolta la questione ucraina, «whatever it takes», avremo poi bisogno a livello globale di un nuovo approccio diplomatico, responsabile e cooperativo nei confronti delle crisi internazionali, in favore del loro superamento e di una ritrovata «balance of powers», che, sola, può continuare a garantirci la pace. In questo momento è tuttavia saggio operare quelle politiche di seria «dissuasione» che possano convincere a cambiare direzione strategica coloro che erroneamente ritengono di poter volgere con la forza, a proprio vantaggio, equilibri preesistenti garantiti dal diritto internazionale. In particolare, se i leaders in questione arrivano a minacciare il ricorso all’arma nucleare di fronte a rallentamenti dell’offensiva da loro lanciata e come risposta all’atteggiamento di condanna espresso dalla maggior parte dei paesi occidentali e non solo. Paolo Casardi, Circolo di Studi Diplomatici

Diplomatico di carriera, presta servizio a Roma, Parigi, Maputo, Londra, Bruxelles, New York e Santiago. Percorre tutti i rami dell’attività diplomatica bilaterale e multilaterale, prendendo poi posto in Consiglio di Amministrazione della Farnesina con l’incarico di Ispettore Generale del Ministero e degli Uffici all’estero. Lasciato il servizio attivo, è cooptato come socio del Circolo di Studi Diplomatici, ove viene eletto Co-Presidente, svolgendo in quel quadro e fuori, attività di ricerca e attività accademica in materia di relazioni internazionali. È autore di articoli e saggi su riviste specializzate e pubblicazioni. È consigliere scientifico della Marina Militare per l’area umanistica. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

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O SSERVATORIO L’anno di tutte le opportunità (e rischi) per l’Asia-Pacifico Il 2022 conferma che l’Asia sarà uno degli snodi del pianeta, dove si concentrano grandi tensioni e opportunità, rischi e fratture, dove importanti fenomeni si confrontano e si mescolano. Vi saranno diverse elezioni presidenziali (Filippine, Corea del Sud e Timor Est), elezioni legislative (Australia e Giappone) e locali (India). Alcuni dei principali eventi del 2021, quali il colpo di stato in Myanmar e la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan, continueranno a impattare nel 2022. Per il 2022, tutta l’Asia-Pacifico dovrà bilanciare le precauzioni sanitarie contro il Covid-19 con la protezione delle sue economie. È utile iniziare a parlare degli Stati Uniti, potenza ancora egemone sempre più insidiata dalla pressione cinese. Il secondo anno dell’amministrazione Biden dovrebbe vedere una maggiore enfasi sulla regione indo-pacifica, e la pubblicazione di documenti molto importanti, quali la strategia di Difesa nazionale e la revisione della postura nucleare, che dovrebbero essere focalizzati in buona parte verso la sfida con Pechino. Le relazioni resteranno difficili, ma le elezioni legislative di midterm negli Stati Uniti e il 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, dovrebbero creare incentivi sufficienti da entrambe le parti per una relazione «gestita», l’amministrazione Biden proseguirà nella sua azione di tentare di imbrigliare le spinte cinesi puntando sulla rete di alleanze e intese regionali e subregionali sia su aree specifiche, come Taiwan, sia su temi ideologici come i diritti umani. In questa ottica il sistema di alleanze per Washington diventa, un elemento critico soprattutto nei riguardi di Giappone, Corea del Sud, Australia e India. Il Quad (Quadrilateral Security Dialogue, foro di consultazione politica tra Stati Uniti, che ha lanciato l’iniziativa nel 2007, India, Giappone e Australia) continuerà a essere spinto e promosso. L’ASEAN, nonostante alcune criticità interne come Cambogia e Myanmar, resterà un altro partner di rilevanza per Washignton nel suo confronto con Pechino, anche per la cooperazione economica. Tokyo confermerà una politica estera e una cooperazione incentrate sugli Stati Uniti e salda sempre di più i

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INTERNAZIONALE legami con gli altri paesi in funzioni anticinese, come il Quad e la partecipazione di forze giapponesi a esercitazioni con statunitensi, australiani, britannici e francesi. Per la Corea del Sud le elezioni presidenziali, che potrebbero vedere la vittoria della linea conservatrice, rappresenterebero un ulteriore elemento di tensione con la Corea del Nord. Con i colloqui sul nucleare tra Stati Uniti e Corea del Nord ancora in stallo, Pyongyang presumibilmnete continuerà a potenziare le sue capacità nucleari e missilistiche. La Corea del Nord non ha (ancora) oltrepassato la «linea rossa» stabilita dagli Stati Uniti ma il Leader Supremo Kim Jong Un si è impegnato a sviluppare ulteriormente la capacità militare del Nord utilizzandola come elemento di deterrenza per bloccare tentazioni di «regime change» di Washington. Anche Seoul segue i passi di Tokyo nel rafforzamento del suo apparato militare, ma le sue relazioni con il Giappone, sono un elemento di debolezza della architettura di sicurezza che gli Stati Uniti hanno costruito dagli anni 50, come pesa, per Washington, l’occhio di riguardo della Coreano verso Pechino sia per ragioni di interesse economico sia come elemento di mediazione a fronte delle intemperanze di Pyongyang. Da quando il presidente Moon Jae-in ha proposto ufficialmente di porre fine alla guerra di Corea (1950-53) all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 settembre 2021, Seoul e Washington si sono consultate su una bozza per la dichiarazione. Tuttavia, lo stallo nei colloqui bilaterali Corea del Nord-Stati Uniti e il deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina — che dovrebbero co-firmare tale dichiarazione — non hanno prodotto progressi sull’iniziativa. Con la cerimonia di apertura del 4 febbraio 2022, Pechino diventerà l’unica città al mondo ad aver ospitato sia i Giochi olimpici estivi che quelli invernali. Ma nonostante i severi e ripetuti avvertimenti della Cina contro la «politicizzazione» delle Olimpiadi, i Giochi hanno assunto connotazioni politiche e si aggiungono alle proteste

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per le violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche unitamente alla difficile situazione di Hong Kong. Gli Stati Uniti hanno dichiarato a dicembre che non avrebbero inviato delegazioni ufficiali alle Olimpiadi. Australia, Canada e Regno Unito ne hanno subito seguito l’esempio; inoltre, l’organizzazione delle Olimpiadi da parte della Cina rappresenterà anche una prova del suo impegno per una politica zero Covid-19. Pechino ha vinto i Giochi aspettandosi un grande successo di pubbliche relazioni. Ma gli eventi degli ultimi due anni suggeriscono che la Cina dovrà affrontare un esame molto più approfondito rispetto alle Olimpiadi del 2008. Il Partito Comunista Cinese in autunno terrà il suo 20° Congresso. Ci si aspetta che Xi ottenga un terzo mandato come Segretario Generale del PCC (il primo è stato nel 2012). Nello scorso dicembre il Nicaragua ha relazioni diplomatiche con Pechino e interrotto quelle con Taipei che intrattiere rapporti solo con 14 Stati. Pechino è convinta di riuscire ad azzerare, in tempi medi, questa residuale presenza diplomatica. Dall’altro lato è auspicabile che continui il trend dei paesi che ampliano le loro relazioni non ufficiali con Taiwan (Lituania, Repubblica Ceca, e Slovacchia gli esempi più recenti) sfidando le pressioni e le ritorsioni di Pechino. In particolare, bisognerà vedere se UE o Stati Uniti faranno passi concreti verso accordi di libero scambio con Taiwan, ma sinora non presi effettivamente in considerazione né da Washington né da Bruxelles, per le preoccupazioni delle rappresaglie di Pechino. Accanto al gioco diplomatico c’è la dimensione militare, che effettivamente resta preoccupante, con le continue esercitazioni anfibie e gli sconfinamenti aeromarittimi cinesi. Anche in India vi saranno elezioni chiave nel 2022 e oltre alle elezioni presidenziali, diversi Stati (Goa, Manipur, Uttar Pradesh, Uttarakhand, Punjab, Himachal Pradesh e Gujarat) eleggeranno le assemblee locali. L’esito delle elezioni dell’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso

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dell’India (detiene circa un quinto dei seggi nel parlamento federale indiano) dovrebbe fornire utili indicazioni sulla direzione politica nel paese, in considerazione del fatto che è governato dal partito nazionalista BJP, che guida anche il Governo federale. La disputata regione del Kashmir resterà un punto caldo della politica indiana. Lo Stato, bastione elettorale del BJP, e la sua appartenenza all’India è il punto nodale della narrativa patriottica dell’India, elemento unificante di un subcontinente complesso, diviso e frastagliato. Anche in questo Stato le elezioni per l’assemblea locale saranno un elemento di tensione, visto che saranno le prime dopo la revoca unilaterale dell’autonomia del Jammu e Kashmir nell’agosto 2019 da parte del Governo federale (e che ha peggiorato le relazioni indopachistane). Ma la vicinanza del Kashmir all’Afghanistan fa temere all’India infiltrazioni di elementi jidasti. Anche qui la Cina rimarrà la principale preoccupazione per la sicurezza e la politica estera dell’India, vista la situazione del Ladakh. C’è la possibilità che l’India spinga la Russia, a facilitare discretamente il riposizionamento delle forze contrapposte, quale preludio a un possibile incontro al vertice. L’altra principale preoccupazione dell’India è la crescente presenza e influenza della Cina nell’Asia meridionale. Ci si attende che l’India rafforzi la sua diplomazia economica nei confronti dei vicini per contrastare la crescente presenza cinese come ha fatto specialmente in Sri Lanka e nelle Maldive. Per il Pakistan vi sono molti elementi speculari all’India, anche se con la variante del peso delle Forze armate, sempre più contrapposte ai vertici civili. Con la vittoria dei talebani afghani, i talebani pakistani hanno aumentato gli attacchi alle istituzioni ufficiali, anche se la leadership di Kabul ha già detto che il TTP (Tehrik-i-Taliban) non esiste in Afghanistan e che la questione è una questione interna al Pakistan. Le crescenti divergenze emergenti tra Pakistan e Cina sulla questione dei costi di sviluppo, delle minacce alla sicurezza e della crescente resistenza delle popolazioni locali, in particolare della provincia del Balochistan, rischiano di lasciare il Pakistan senza appoggi qualora decidesse di rompere i legami con Pechino. Il 2021 ha visto il Pakistan non rispettare i termini di pagamento

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previsti dalla BRI, spingendo la Cina a ritirare i fondi, e persino a interrompere i lavori su alcuni progetti. Una volta salutati come un punto di svolta per lo sviluppo nazionale, i progetti finanziati dalla Cina sono diventati un tema sempre più controverso in Pakistan, in particolare intorno al porto di Gwadar, dove migliaia di residenti hanno chiesto il controllo locale delle risorse, che ritengono siano a beneficio esclusivamente della Cina. Non è da escludere che Pechino possa sospendere i lavori al porto di Gwadar e i progetti infrastrutturali annessi con un impatto devastante sull’economia pakistana. Finora nessun paese al mondo ha riconosciuto il nuovo governo dell’Afghanistan, il cosiddetto Emirato Islamico, sorto nell’agosto 2021. Innazitutto il problema afghano, al di là delle violazioni istituzionalizzate dei diritti civili e umani, rappresenta un problema per il suo riconoscimento, dove la stessa Russia e Cina, che hanno rapporti con i talebani, sono restie a che essi possano sedere all’ONU. I paesi occidentali e la leadership delle Nazioni Unite collegano l’offerta di riconoscimento a un governo «inclusivo». Questa situazione si lega alle enormi problematiche per i talebani, come di finanziamenti, visto che i 9 miliardi di dollari delle riserve della banca centrale della Repubblica afghana, custoditi dalle istituzioni finanziarie occidentali, sono congelati. La branca locale dell’IS, lo Stato Islamico del Khorasan (ISK), formata intorno al 2015, nonostante difficoltà e contrasti sia con i talebani sia con Al Qaeda sembra essere presente in tutte le province dell’Afghanistan e rappresenta una minaccia per gli stessi talebani che non hanno le capacità di controllo e di impedire incursioni nelle aree circonvicine. Un disastro umanitario di proporzioni epiche attende l’Afghanistan. Secondo l’UNDP, il 97% degli afghani potrebbe cadere in povertà nel 2022; l’agenzia di aiuto alimentare d’urgenza dell’ONU, il World Food Program, ha messo in guardia da un’imminente carestia. Per i talebani, l’incapacità di provvedere al popolo afghano può rendere impossibile governare il paese. Dopo la guerra iniziata nel 1980, il 2022 potrebbe essere l’anno peggiore per l’Afghanistan. Anche per le ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, le onde della caduta dell’Afghanistan sono pesanti e si legano a preesistenti situazioni, dove Russia

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e Cina alleate e concorrenti allo stesso tempo, lavorano intensamente per spingere fuori dall’area ogni presenza e/o influenza statunitense e occidentale. Il sistema politico del Kirghizistan è stato plasmato nella forma desiderata dal presidente Sadyr Japarov. Nel 2022, il Kirghizistan si confronterà con grandi sfide, a cominciare dalla instabilità dei mercati energetici e auriferi, l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, la disoccupazione e gravi fenomeni di corruzione. Come per il Kirghizistan, i problemi energetici e ambientali potrebbero diventare problemi politici con gravi proteste in tutta l’area, a cominciare del Tagikistan (che confina direttamente con l’Afghanistan) per terminare con l’Uzbekistan. Ma per tutti questi Stati, incluso il più lontano Kazachstan, le evoluzioni afghane impattano sulla regione. Come per il Pakistan, i gruppi islamisti locali prossimi alle galassie di Al Qaeda e IS potrebbero trovare spazio e godere di santuari non particolarmente disturbati dalle forze talebane. In Myanmar prosegue lo stallo. Dopo il colpo di stato del febbraio dell’anno scorso, nonostante una persistente disobbedienza civile, la ripresa delle rivolte armate nelle zone confinarie, la giunta militare sembra intenzionata a restare al potere e gioca sulle divisioni dei parnter internazionali e cerca di approfittare di appoggi da parte di attori regionali, a cominciare dalla Cina, che cerca di indebolire l’ASEAN, di tenere lontani gli occidentali e di mantere il solido controllo economico su parti importanti della economia del Myanmar. Alla cerimonia di chiusura del vertice dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) il 27 ottobre 2021, il Brunei ha passato la presidenza del blocco regionale alla Cambogia. Che sarà osservata da vicino, visti i legami molto stretti con la Cina, che fanno percepire Phnom Pen, come un agente di Pechino all’interno dell’ASEAN, con tutte le conseguenze e i rischi del caso. Anche la Thailandia, in uno stato di crisi prolungata dal 2014 dovrebbe vedere nelle elezioni nel 2022 un modo per rientrare nell’alveo della stabilità e normalità, contribuendo alla ripresa della credibilità dell’ASEAN. Transizioni politiche sono in atto in Indonesia, Filippine (e con il progressivo assorbimento della insurrezione islamista nella parte meridionale dell’arcipelago),

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Il colpo di Stato in Myanmar del 2021 è stato un colpo di Stato militare messo in atto dalle forze armate birmane la mattina del 1º febbraio 2021 per rovesciare il governo di Aung San Suu Kyi, che è stata arrestata (Aung Kyaw Htet zumapress.com).

Singapore e Timor Est. Ma i problemi di sicurezza marittima restano intatti, accrescendo la dimensione militare dell’ASEAN, sinora esclusivamente economica. L’architettura per le pattuglie trilaterali tra Indonesia, Malesia e Filippine per affrontare pirateria, pesca illegale e traffici illeciti, una serie di crimini transnazionali, aveva iniziato a essere costruita prima del Covid-19, ma i progressi sono rallentati quando è scoppiata la pandemia. Tuttavia, le tre parti hanno ancora tenuto dialoghi e consultazioni su come procedere. La leadership regionale e globale dell’Indonesia sarà sotto i riflettori nel 2022. L’Indonesia (che ospiterà il Summit del G-20) ha mostrato il suo ruolo di leadership su alcune questioni chiave come l’economia marittima o le situazioni in Afghanistan post ritiro degli Stati Uniti e in Myanmar dopo il golpe. Le elezioni federali australiane sono forse l’evento più importante per la sub-area, dato l’effetto a catena che avranno su altre questioni chiave in Oceania nel 2022. Sebbene non ci sia una data confermata, le elezioni si terranno tra marzo e maggio. Con i principali contendenti che si battono su questioni importanti come cambiamento climatico, interazione con la Cina

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e, più in generale, il ruolo che dovrebbe svolgere Canberra sulla scena internazionale, il risultato avrà implicazioni significative per l’intera Oceania, vista l’importanza del paese nello scacchiere. L’attuale governo conservatore ha avuto diversi rovesci (effettivi e di immagine); tralasciando la gestione del patto AUKUS, i problemi sono stati quelli altrettanto negativi degli incendi, delle alluvioni e del Covid-19. Se il Labour Party otterrà una vittoria elettorale, ci sarà un cambiamento importante su questioni chiave, in particolare la politica climatica e le migrazioni. L’unica cosa che dovrebbe restare immutata sarà il riarmo e la determinazione di fare fronte alla Cina, in ogni campo e area (soprattutto nel Sud Pacifico). Molti paesi delle isole del Pacifico hanno gestito bene la pandemia, ma le loro economie sono state distrutte a causa della dipendenza della regione da una serie ristretta di fonti di reddito, in particolare il turismo. Le ricchezze minerarie di molte isole (a cominciare dal prezioso nickel) e le loro vicende istituzionali sono da tempo al centro delle attenzioni di Pechino, cosa che ha consolidato la cooperazione dei vari attori come Stati Uniti, Australia e Francia.

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Si impone una pausa di riflessione e un nuovo indirizzo L’UE ha sospeso la sua missione militare nella Repubblica Centrafricana (RCA), la EUTM-RCA dopo che i «contractors» russi della Wagner hanno iniziato a prendere il controllo dei centri di addestramento delle Forze armate locali, mentre gli istruttori europei sono stati fatti rimpatriare. «La sospensione temporanea delle nostre operazioni mira a evitare qualsiasi sovrapposizione con questi mercenari e garantire che non utilizzino i soldati centrafricani che abbiamo addestrato», ha dichiarato il generale Jacques Langlade de Montgros, comandante della missione UE. Nel frattempo, la Germania non escluderebbe il trasferimento della sua missione militare dal Mali in un altro paese se il pericolo fosse troppo grande, ha dichiarato domenica 19 dicembre il ministro della Difesa Christine Lambrecht. La Germania ha circa 1.500 soldati in Mali nell’ambito della missione di pace dell’ONU (MINUSMA) e della missione dell’UE di addestrare i soldati del Mali, la EUTM-Mali. Berlino aveva già dichiarato la sua intenzione di rivedere tutte le missioni all’estero intraprese dall’esercito tedesco e ha aggiunto che i mandati parlamentari per le missioni militari dovrebbero essere «più discussi in parlamento e l’obiettivo delle missioni costantemente riesaminato». Intanto la MINUSMA riferisce di un incremento della violenza contro i «caschi blu», man mano che prosegue il ritiro della missione francese «Barkhane». Le decisioni di Parigi e Berlino sono arrivate nel pieno della crescente instabilità politica in Mali, dove il colonnello Assimi Goita, ha effettuato

Addestramento dei soldati in Mali, durante la missione dell’UE EUTM-Mali (eutmmali.eu).

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due colpi di stato in meno di un anno prima di prestare giuramento come presidente ad interim del paese. Goita, appena insediatosi ha subito allacciato legami con Mosca, cosa che ha aperto la strada all’arrivo dei «contractors» della Wagner, e l’avvio di negoziati per la fornitura di armi ed equipaggiamenti per le Forze armate locali. Ma in Africa, non c’è solo la Russia. Quando l’EU ha lanciato la sua iniziativa «Global Gateway» il 1° dicembre scorso, è stata presentata come un’alternativa più verde e trasparente della «Belt and Road» cinese. Il Global Gateway, un piano di spesa per infrastrutture da 300 miliardi di euro, vorrebbe essere il contributo dell’UE per ridurre il divario globale di investimenti a livello mondiale, che mira anche a rafforzare le catene di approvvigionamento e il commercio dell’UE in tutto il mondo. Non è un caso che la Commissione Europea abbia annunciato l’iniziativa, evidenziando il contrasto dell’approccio tra Pechino e Bruxelles. Nonostante la «Belt and Road» abbia dimostrato seri limiti e che la stessa Pechino abbia ridotto l’impegno finanziario di questa iniziativa, l’attrattiva della Cina resta forte. Tuttavia, nonostante una campagna mediatica fortissima, che probabilmente vedrà un ulteriore rafforzamento per il semestre francese di presidenza della UE, restano forti perplessità e sospetti, soprattutto nelle popolazioni. L’UE con questo progetto prende atto che la Cina, non è solo più un temibile concorrente commerciale e militare (in alcune aree, sinora) ma ha ottenuto un ruolo preponderante in Africa. I tempi comunque richiedono un’ azione rapida visto che il finanziamento della Cina esiste ed è reale e Pechino rimarrà sicuramente un partner molto più attraente. L’UE dovrà aumentare la sua offerta se vuole essere veramente rilevante e riorientarla, come ripensare le missioni di addestramento, che hanno mostrato il loro limitato impatto. Questo non vuole mettere all’indice i militari che prendono parte a queste operazioni, che spesso svolgono il loro lavoro in condizioni difficili. Sebbene il sillabus dovrebbe essere rivisto e standardizzato, come nel caso del Mali, il problema è altrove e nemmeno nell’EEAS, e non nel suo vertice, visto che questa articolazione dell’architettura europea è quella che riferisce in maniera più forte con le burocrazie e le priorità dei 27. Enrico Magnani

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RUBRICHE

M ARINE FRANCIA Esercitazioni aeronavali nel Mediterraneo orientale Nelle prime settimane di gennaio, le fregate Auvergne e Provence — appartenenti alla classe «Aquitaine» — hanno svolto una serie di esercitazioni aeronavali assieme a due velivoli «Rafale» dell’Aeronautica militare francese. Il ministero delle Forze armate ha reso noto che le attività addestrative sono consistite nel lancio simulato di missili da crociera assieme a unità dell’US Navy; quest’evento è stato seguito da un esercitazione di difesa aerea che ha visto protagoniste le due fregate, rischierate nel Mediterraneo orientale in cui è attiva l’operazione «Chammal», contributo di Parigi alla lotta contro lo Stato islamico.

In servizio il sesto velivolo Atlantique ATL2 ammodernato Nella base aeronavale di Lann-Bihoué, nei pressi di Lorient, è entrato in servizio il sesto esemplare di pattugliatore marittimo «Atlantique 2» ammodernato allo

MILITARI Standard 6, attività che nella legge di programmazione militare francese 2019-25 interessa 18 esemplari del velivolo. Il passaggio dallo Standard 5 allo Standard 6 è finalizzato a eliminare le obsolescenze dei sistemi in dotazione al velivolo, migliorandone le capacità nel contrasto alle unità subacquee di nuova generazione: i principali elementi dell’ammodernamento riguardano il radar «Search Master» di Thales (utilizzato anche dai velivoli da combattimento «Rafale»), un nuovo sottosistema di trattamento delle informazioni provenienti da sonoboe dell’ultima generazione, e nuove consolle dedicate alla navigazione aerea e alle visualizzazione della situazione tattica.

Operativa la prima fregata classe «La Fayette» ammodernata È tornata operativa la prima delle fregate classe «La Fayette» sottoposta a un programma di ammodernamento durato circa un anno e finalizzato a prolungarne il periodo di servizio: si tratta del Courbet, che assieme all’unità eponima e a un’altra fregata permetterà alla

Il lancio di un missile antinave «AM 39 Exocet» da un velivolo da pattugliamento marittimo dell’Aeronavale francese «Atlantique 2» modificato secondo lo Standard 6 (Marine Nationale).

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Marine Nationale la transizione verso le nuove fregate classe «Admiral Ronarc’h». Il programma di ammodernamento è consistito nella revisione generale degli impianti di piattaforma, nel rinforzo di elementi strutturali dello scafo e delle sovrastrutture, in interventi per salvaguardare la stabilità trasversale della nave e nel potenziamento del sistema di combattimento; in questo ambito, si è provveduto a installare un sonar a scafo a media frequenza «KingKlip Mk.2» (che conferirà alle tre «La Fayette» ammodernate capacità antisommergibili), a sostituire il vecchio impianto lanciamissili per la difesa di punto con un sistema «Sadral» e sull’aggiornamento del sistema di gestione operativa. Si prevede che le tre «Lafayette» ammodernate rimangano in linea fino a circa il 2030, quando l’ultima delle cinque fregate classe «Admiral Ronarc’h» dovrebbe entrare in servizio nella Marine Nationale.

GERMANIA Ultimato il programma delle fregate F125 Il 28 gennaio 2022, il consorzio ThyssenKrupp

Marine Systems (TKMS) ha consegnato, la fregata Rheinland-Pfalz: l’unità è il quarto e ultimo esemplare della classe «Baden-Wuttemberg», parte del programma F125. La produzione dell’unità capoclasse ebbe inizio nel giugno 2011, ma la consegna — prevista nel 2014 — è stata posticipata al 2017 perché sono emersi problemi tecnici, quali un aumento del dislocamento di progetto e uno sbandamento dello scafo a dritta. Rifiutato dalla Marina tedesca, il Baden-Wuttemberg è stato modificato da TKMS ed è entrato in servizio nel giugno 2019: il Nordrhein-Westfalen è entrato in linea nel giugno 2020, seguito dal Sachsen-Anhalt nel maggio 2021.

GRAN BRETAGNA Primo impegno NATO per la portaerei Prince of Wales Nel corso di una cerimonia svoltasi l’11 gennaio 2022 nella base navale di Portsmouth, la portaerei britannica Prince of Wales, secondo esemplare della classe «Queen Elizabeth» operativa da ottobre 2021,

Le portaerei britanniche PRINCE OF WALES (in primo piano) e QUEEN ELIZABETH, quest’ultima con il reparto aereo imbarcato schierato sul ponte di volo (Royal Navy).

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ha assunto la funzione di nave ammiraglia della NATO Maritime High Readiness Force a cui contribuiscono a rotazione cinque Marine di nazioni aderenti all’Alleanza atlantica, che con altri 4 nuclei similari costituisce il Maritime Component Command (MCC) per la NATO Response Force (NRF) ora al comando dell’ammiraglio di divisione Mike Utley. Per i prossimi 12 mesi, il Prince of Wales fungerà dunque da quartier generale della NATO (M) HRF, aggregando unità di varie nazioni. Per permettere al Prince of Wales di svolgere questa funzione, ne sono state potenziate le capacità di comando e controllo, consentendo che del reparto aereo imbarcato possano far parte anche elicotteri e velivoli non pilotati di altre Nazioni NATO. Il calendario delle attività della NATO (M) HRF prevede l’addestramento con Forze britanniche e di altre nazioni NATO nell’Atlantico settentrionale e nella regione artica in inverno, nel Mar Baltico in estate e nel bacino mediterraneo in autunno. La prima importante eser-

citazione che vedrà la partecipazione del Prince of Wales quale flagship della NATO (M) HRF sarà la «Cold Response 22», a guida norvegese, destinata a svolgersi fra marzo e aprile 2022 e necessaria per valutare le prestazioni dello staff guidato dall’ammiraglio Utley; durante l’anno saranno svolte anche attività a favore della Marina turca che assumerà il comando della NATO (M) HRF nel 2023.

INDIA Prove in mare per la portaerei Vikrant Il 9 gennaio 2022, la portaerei indiana Vikrant ha iniziato una nuova serie di prove in mare svolgendo soprattutto manovre in acque d’altura. Prima del suo genere completamente realizzata in India, l’unità è stata costruita nel cantiere Cochin Shipyard Limited (CSL) ed è stata varata il 12 agosto 2013. La Vikrant lunga 262 metri, è larga 62 metri e ha un dislocamento di 44.000 tonnellate: si tratta di una portaerei equipaggiata con ski-jump, ma con i velivoli ad ala

La nuova portaerei indiana VIKRANT, impegnata in una fase della campagna di prove propedeutica al suo ingresso in servizio (WarshipCam, Indian Navy).

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fissa imbarcati operanti in modalità STOBAR (Short Take-Off But Arrested Recovery). La propulsione è assicurata da quattro turbine a gas General Electric LM2500+, che sviluppano una potenza complessiva di 80 MW e azionano due assi.

INTERNAZIONALE Addestramento nel Mediterraneo orientale Durante il mese di gennaio 2022, la fregata turca Goksu (unità ex-classe «Perry» statunitense) ha condotto una serie di esercitazioni con le fregate Carlo Margottini (Marina Militare) e Auvergne (Marine Nationale) nel Mediterraneo orientale.

ISRAELE Contratto per la costruzione di 3 nuovi sottomarini Il 19 gennaio, il Ministro della Difesa israeliano ha firmato un accordo con la società tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, TKMS, per la costruzione di

tre nuovi sottomarini; l’accordo ha un valore complessivo di 3 miliardi di euro e alla sua firma è seguita quella di un ulteriore documento bilaterale di cooperazione strategica. I tre nuovi battelli apparterranno alla classe «Dakar», un nuovo progetto concepito per soddisfare i requisiti operativi della Marina israeliana: dalla fine del decennio nuove unità sono destinate a sostituire gradualmentei tre sottomarini classe «Dolphin», costruiti in Germania da Howaldtswerke-Deutsche Werft AG, HDW, ed entrati in servizio nel 1999/2000. I «Dakar» affiancheranno i tre battelli classe «Dolphin II» e ne replicheranno anche le capacità missilistiche da crociera a cambiamento d’ambiente, potenzialmente dotati anche di testata nucleare e quindi in grado di esercitare missioni di deterrenza occulta. Tenendo conto delle tendenze in materia di sottomarini convenzionali di nuova generazione, è certa la presenza sui tipi «Dakar» di un impianto AIP con celle combustibili, mentre per il lancio dei missili da crociera è ipotizzabile una soluzione con tubi verticali sistemati a poppavia della falsatorre.

Immagine al computer di una possibile ipotesi progettuale di un sottomarino classe «Dakar», da riprodurre in tre esemplari dal gruppo tedesco TKMS per conto della Marina israeliana (TKMS).

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ITALIA Iniziata la costruzione del primo sottomarino U212 NFS L’11 gennaio, nello stabilimento Fincantieri di Muggiano (La Spezia) ha preso il via la costruzione del primo dei 2 sottomarini di nuova generazione relativi al programma di acquisizione U212 NFS (Near Future Submarine) per la Marina Militare. Il programma, che prevede anche il relativo supporto in servizio, l’opzione per una seconda coppia di battelli e la realizzazione delle infrastrutture addestrative, è gestito da OCCAR, in accordo con le più innovative procedure di gestione dei programmi complessi. Il progetto dei nuovi battelli è un’evoluzione del programma U212A, condotto in collaborazione con la già citata società TKMS, che ha portato alla realizzazione di 4 sottomarini per l’Italia — Salvatore Todaro, Scirè, Pietro Venuti e Romeo Romei, consegnati da Fincantieri tra il 2006 e il 2017 — e di 6 per la Ger-

mania. I nuovi battelli U212 NFS saranno altamente innovativi, con significative modifiche progettuali sviluppate autonomamente da parte di Fincantieri. Il programma per la Marina Militare prevede la consegna delle prime due unità nel 2027 e nel 2029 e risponde alla necessità di garantire adeguate capacità di sorveglianza e di controllo degli spazi subacquei, e l’approssimarsi del termine della vita operativa delle 4 unità della classe «Sauro» attualmente in servizio. I compiti che i sottomarini svolgono sono molteplici: alle missioni prettamente militari affidate ai sottomarini di nuova generazione si aggiungono quelle relative alla tutela della libertà di navigazione. Poiché sui nuovi battelli sono stati incrementati nuovi sistemi e impianti sviluppati dall’industria nazionale, la loro costruzione servirà a preservare e innalzare il know-how industriale maturato da Fincantieri e a consolidare il vantaggio tecnologico conseguito dall’azienda e dal cluster subacqueo nazionale.

Il primo elemento costruttivo di un sottomarino U212 NFS destinato alla Marina Militare, durante la cerimonia formale dell’inizio dell’attività produttiva svolta nello stabilimento Fincantieri del Muggiano, Spezia (Fincantieri).

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Concluso presso la Brigata Marina San Marco il XV corso di abilitazione «RECON» Lo scorso 22 dicembre, al termine del previsto iter addestrativo, ha avuto luogo nella Piazza d’Armi del Castello Svevo di Brindisi, sede del comando della Brigata Marina San Marco, la cerimonia di conclusione del XV corso di abilitazione «RECON» (Reconnaissance); dei 6 militari ammessi alla frequenza del corso, solo 3 sono riusciti a ottenere l’ambita abilitazione. I 3 nuovi fucilieri di Marina abilitati «RECON» sono inseriti nella Compagnia «Nuotatori Paracadutisti», reparto d’eccellenza del 1° Reggimento San Marco, deputata alla conduzione di tutte le attività in supporto alle operazioni anfibie, dalla ricognizione alla gestione del fuoco di supporto. Svolto a cura del Battaglione Scuole «Caorle», il corso «RECON» è durato 16 settimane, con i frequentatori impegnati in numerose attività teorico/pratiche. Il corso si è concluso con 3 esercitazioni complesse a difficoltà crescente, svolte in aree addestrative caratterizzate da differenti tipologie di terreno.

Riattivato il reparto Covid del Centro Ospedaliero Militare di Taranto A seguito del ricovero di due pazienti affetti da Covid-19 e provenienti da strutture sanitarie locali, il 10 gennaio 2022 è stato riattivato il reparto Covid

del Centro Ospedaliero Militare (COM) di Taranto, confermando il ruolo strategico delle Forze armate quale strumento al servizio della comunità. Nell’ambito dello scenario emergenziale al quale le Forze armate partecipano attivamente sotto l’egida del Comando Operativo di vertice Interforze e in accordo con le autorità locali e la Protezione Civile, già a novembre 2020 il COM di Taranto aveva assicurato una capacità ricettiva fino a un massimo di 20 pazienti positivi al Covid provenienti da nosocomi civili territoriali. La sua riattivazione a favore della cittadinanza ha avuto luogo in brevissimo tempo a seguito della richiesta formulata dalle autorità sanitarie civili.

Settant’anni per la Squadra navale Il 15 gennaio 2022 il Comando in Capo della Squadra Navale (CINCNAV), vertice del pilastro operativo della Marina Militare, ha festeggiato i suoi 70 anni dalla costituzione. Costituito il 15 gennaio del 1952, CINCNAV ha ereditato le funzioni dei precedenti elementi di organizzazione operativa della Regia Marina prima e della Marina Militare poi, il primo dei quali — risalente all’agosto del 1914 — si identificava con il comando dell’Armata navale. Con unità di superficie e subacquee, mezzi anfibi, aerei ed elicotteri, con un «equipaggio» di oltre 16.000 militari e circa 1.300 civili, CINCNAV è il braccio operativo della Marina

Unità della Squadra navale della Marina Militare. A gennaio è stato celebrato il 70° anniversario della costituzione del Comando in Capo della Squadra navale, attualmente al comando dell’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis.

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Militare per la preparazione, l’addestramento e la condotta delle Forze marittime e ha il suo quartier generale nel comprensorio di Santa Rosa, nello stesso luogo dove, durante la Seconda guerra mondiale, aveva sede il centro trasmissioni del Comando operativo della Marina. Da dicembre 2021, al comando in capo della Squadra navale c’è l’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis: nel suo intervento in occasione dell’evento, l’ammiraglio ha delineato il ruolo della Squadra navale, affermando che «Sopra e sotto i mari, dentro e fuori dal Mediterraneo, nelle nostre basi e al fianco del personale delle Forze armate sorelle, nei teatri operativi fuori area, ovunque chiamata a operare, la Squadra navale dà sempre il massimo: per mare, cielo e terra, incluso il contributo che la Marina fornisce alle attività spaziali e di Difesa cibernetica, secondo un moderno approccio multidominio», cui si aggiungono le operazioni in concorso con le altre istituzioni nazionali.

Brevettati 7 nuovi incursori Nel corso di una cerimonia svoltasi alla Spezia il 21 gennaio 2022 al Comando Subacquei e Incursori (COMSUBIN), 7 marinai su 49 hanno ricevuto l’ambito «basco verde» dopo aver concluso con successo il 72° Corso ordinario, e diventando dunque a tutti gli effetti incursori della Marina Militare. La cerimonia è stata presieduta dal sottosegretario di Stato alla Difesa, senatrice Stefania Pucciarelli, con la partecipazione del capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, del capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Enrico Credendino, e di autorità civili e militari. Presente alla cerimonia anche la signora Irene Birindelli, figlia della Medaglia d’oro al valor militare ammiraglio di squadra Gino Birindelli. Nel suo intervento, la senatrice Pucciarelli ha ricordato che «La consegna del brevetto di incursore della Marina Militare e del tipico basco rappresenta il meritato compi-

Un momento della cerimonia, svoltasi alla Spezia il 21 gennaio 2022 al Comando Subacquei e Incursori (COMSUBIN), durante la quale 7 marinai hanno conseguito il brevetto di incursore della Marina Militare.

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mento di un percorso selettivo e formativo di eccezionali difficoltà e severità — capace di mettere a dura prova fisico, mente, tenacia e perseveranza dei pochi che riescono a intraprenderlo e, ancor meno, terminarlo — ma soprattutto l’agognato ingresso ufficiale in una selezionatissima élite di professionisti». Ricordando il suo passato da comandante di COMSUBIN, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone ha concluso così il suo intervento: «Permettetemi, nel mio ruolo, di allargare la panoramica e di estendere la grande considerazione che la Difesa ha per tutto il comparto delle Forze speciali che condividono la realtà del Comando Interforze per le Operazioni Speciali: realtà che oggigiorno è il fiore all’occhiello della Difesa, che ne segna il passo ed è l’esempio di quella che dovrebbe essere la vera integrazione interforze». Nel suo intervento, l’ammiraglio Credendino ha ricordato ai nuovi incursori che «la scelta di vita che avete abbracciato, di certo, non è scevra da

rinunce e da sacrifici. Voi sarete chiamati ad assumere rapidamente decisioni difficili in momenti di tensione e forte pressione. Vi sarà richiesta iniziativa, perseveranza, tenacia, determinazione oltre a buon senso, equilibrio e tantissimo coraggio».

La fregata Bergamini nell’operazione «Atalanta» Partita il 26 gennaio da Taranto, la fregata Carlo Bergamini, eponima della classe, è stata inserita nel dispositivo navale EUNAVFOR Somalia dell’Unione europea impegnato nella partecipazione all’operazione «Atalanta». L’impegno del Bergamini, incentrato sul contrasto della pirateria nelle acque del Mar Rosso, del Golfo di Aden e dell’Oceano Indiano, si protrarrà fino a giugno 2022 e comprenderà anche l’assunzione del ruolo di flagship dell’operazione. Per l’occasione e come già accaduto in passato per le unità della Marina Militare che ormai da lungo tempo operano nelle aree marittime prospicienti la Somalia,

Nave BERGAMINI impegnata nell’operazione anti pirateria «Atalanta».

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il Bergamini ha in organico una componente elicotteristica e il personale della Brigata Marina San Marco e del Gruppo Operativo Subacquei (GOS) del Comando Subacquei e Incursori. Durante il rischieramento nell’area, l’equipaggio della fregata italiana sarà impegnato anche in attività di cooperazione civile e militare a favore delle autorità e delle popolazioni locali, nonché di monitoraggio delle attività di pesca al largo della costa somala.

NATO «Neptune Strike 2022»: portaerei in Mediterraneo Dal 24 gennaio e per circa due settimane ha avuto luogo in Mediterraneo l’esercitazione aeronavale NATO «Neptune Strike 2022», guidata dall’ammiraglio di squadra dell’US Navy Eugene Black III, nel suo duplice ruolo di comandante della Sixth Fleet e delle «Naval Striking And Support Forces» (STRIKFORNATO). L’esercitazione «Neptune Strike 2022» rappresenta la fase esecutiva di una lunga serie di attività note come «Project Neptune», riguardanti la risoluzione di complessi problemi legati all’integrazione

nell’architettura NATO delle funzioni di comando e controllo di un gruppo portaerei. Il gruppo navale dell’US Navy è stato incentrato sulla portaerei a propulsione nucleare Harry Truman, con le unità partite da Norfolk (Virginia) e da Mayport (Florida) all’inizio di dicembre 2021 secondo un rischieramento operativo già pianificato, ma la cui articolazione temporale è stata modificata in funzione dell’evoluzione degli eventi in Ucraina. Oltre alla portaerei, il gruppo navale comprende l’incrociatore lanciamissili San Jacinto (classe «Ticonderoga»), i cacciatorpediniere lanciamissili Bainbridge, Cole, Gravely e Jason Dunham (classe «Arleigh Burke»), la fregata norvegese Fridtjof Nansen (eponima della classe). Elemento peculiare dell’esercitazione «Neptune Strike 2022» è stata la presenza in Mediterraneo di tre gruppi aeronavali incentrati su altrettante portaerei, vale a dire la già citata Harry Truman, Cavour per l’Italia, Charles de Gaulle per la Francia. La partecipazione della Marina Militare è incentrata su un task group comprendente il Cavour e il relativo gruppo aerotattico imbarcato, il cacciatorpediniere

La portaerei CAVOUR ripresa durante l’esercitazione NATO «Neptune Strike 2022» e sorvolata da un elicottero statunitense «MH-60» (US Navy).

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lanciamissili Andrea Doria, la fregata Antonio Marceglia e il rifornitore di squadra Stromboli: il contributo della Marina Militare a «Neptune Strike 2022» si estrinseca anche attraverso la partecipazione della fregata Carlo Margottini nel ruolo di nave di bandiera dello Standing Naval Maritime Group 2 e del cacciamine Viareggio, in questo caso nave di bandiera dello Standing Naval Mine CounterMeasures Group 2, entrambi formazioni navali permanenti dell’Alleanza Atlantica. La partecipazione del gruppo «Charles de Gaulle» alla «Neptune Strike 2022» fa invece parte della cosiddetta «Mission Clemenceau 22», attività operativa da svolgere nel Mediterraneo, e nel Mar Nero: un portavoce della Marine Nationale ha comunicato che le attività del gruppo portaerei francese con quello statunitense sono le prime di questo tipo, nell’ambito di un Strategic Interoperability Framework recentemente firmato con l’US Navy. Inoltre, delle attività franco-statunitensi hanno fatto anche parte decolli e appontaggi di velivoli delle due Marine dalle portaerei Charles de Gaulle e Harry Truman: in particolare, queste attività hanno

riguardato il primo dei tre esemplari di E-2D «Advanced Hawkeye» da sorveglianza elettronica e comando e controllo aeroportato entrato in servizio nella Marina francese. Oltre alla portaerei, il gruppo «Charles de Gaulle» comprende il cacciatorpediniere lanciamissili Forbin, le fregate Alsace e Normandie, il rifornitore di squadra Durance e un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare classe «Rubis»: al gruppo francese sono stati aggregati anche il cacciatorpediniere lanciamissili statunitense Ross (classe «Arleigh Burke», una delle quattro unità basate in permanenza nel teatro europeo) e il cacciatorpediniere lanciamissili spagnolo Juan de Borbon (classe «Álvaro de Bazán»), a cui si sono aggiunti, la fregata Adrias e un sottomarino classe «Papanikolis» della Marina greca.

PAKISTAN Ingresso in linea di una nuova fregata Con un cerimonia svoltasi il 14 gennaio 2022 nell’arsenale navale di Karachi, è entrata in servizio nella Marina pakistana la fregata Tughril: in realtà, si è trat-

Il presidente del Pakistan, Arif Alvi (seduto, al centro) a bordo della fregata TUGHRIL, nel corso della cerimonia per celebrarne l’ingresso in servizio (Pakistan Navy).

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tato di una seconda cerimonia, perché la fregata — esemplare di unità «Type 054 A/P» di progetto cinese — era stata formalmente consegnata alla Marina pakistana a novembre 2021 nel cantiere Hudong Zhonghua Shipyard di Shanghai. L’evento svolto a Karachi è stato presieduto dal presidente del Pakistan, Arif Alvi, che nel corso della cerimonia ha ribadito la necessità per la Marina locale di disporre di un flotta adeguata «per proteggere i propri confini marittimi». La fregata Tughril è il primo di 4 esemplari «Type 054 A/P» in corso di costruzione per la Marina pakistana, in base a un contratto firmato nell’agosto 2017 per due unità e modificato nel giugno 2018 per aggiungerne una seconda coppia: il completamento delle consegne è previsto per il 2023. La cerimonia ha fatto parte anche la consegna alla Marina pakistana di 10 elicotteri «Sea King» di seconda mano, provenienti dal Qatar.

omonima realizzata per la Marina del Qatar nell’ambito del noto programma di acquisizione navale; il secondo esemplare — Sheraouh — verrà consegnato entro il 2022. All’evento erano presenti Khalid bin Yousef AlSada, ambasciatore del Qatar in Italia, lo Staff Brigadier Abdulla Al Mazroey, Deputy Chief della Marina del Qatar, l’ammiraglio ispettore capo Giuseppe Abbamonte, comandante logistico della Marina Militare, e Marco Acca, vice direttore generale della Divisione navi militari di Fincantieri. Il pattugliatore Musherib è stato progettato in accordo al regolamento RINAMIL for Fast Patrol Vessel (FPV), ha una lunghezza di circa 63 metri, una larghezza di 9,2 metri, una velocità massima di 30 nodi; l’equipaggio comprende 38 uomini.

QATAR IConsegnato il pattugliatore Musherib

Secondo le informazioni pubblicate dal quotidiano filogovernativo cinese Global Times all’inizio di gennaio 2022, il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa, secondo esemplare della classe «Renhai/Type 055», è stato impegnato in un’intensa serie di esercitazioni

Alla fine di gennaio, nello stabilimento Fincantieri del Muggiano, ha avuto lo luogo la consegna del pattugliatore d’altura Musherib, prima unità della classe

REPUBBLICA POPOLARE CINESE Il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa pronto per l’impiego operativo

Il pattugliatore d’altura MUSHERIB, realizzato da Fincantieri per la Marina del Qatar e consegnato a quest’ultima il 31 gennaio 2022 (Fincantieri).

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Tre nuovi sottomarini entrati in servizio Il 24 gennaio 2022, il vice ministro della Difesa russo Alexei Krivoruchko ha rivelato che il 21 dicembre dell’anno scorso sono formalmente entrati in servizio tre sottomarini. Si tratta del battello a propulsione nucleare lanciamissili balistici Knyaz Oleg (appartenente al Project 995A/«Borey-M»), del sottomarino a propulsione nucleare lanciamissili e d’attacco Novosibirsk (Project 885M) e del battello Il cacciatorpediniere lanciamissili LHASA è la seconda unità della classe «Renhai/TYpe 055» a essere approntata per l’impiego operativo. Oltre a NANCHANG, LHASA e DALIAN, la classe «Renhai/Type a propulsione convenzionale Ma055» comprende al momento ulteriori cinque esemplari in fase di costruzione/allestimento (South China Morning Post). gadan (classe «Varshavyanka» /Project 636.3). Il Knyaz Oleg è stato temporaneamente aggregato alla Flotta del che ne hanno certificato il raggiungimento della caNord, per poterlo preparare alla navigazione lunga la pacità operativa, propedeutica allo svolgimento di costa settentrionale della Russia, con destinazione fiprossime importanti missioni. Il Lhasa è stato pronale la Flotta del Pacifico: il battello è il quarto esemgettato per svolgere funzioni di difesa aerea di area, plare della classe «Borey-M». Per quanto riguarda il nonché di difesa contro minacce subacquee. Novosibirsk, a differenza dei suoi predecessori (identificabili nella classe «Antey/Oscar») specificataRUSSIA Esercitazioni a tutto campo per la Marina russa mente concepiti per lanciare missili antinave, esso è dotato di lanciatori polivalenti da cui è possibile l’imLa Marina russa ha pianificato e dato il via una piego di ordigni antinave «Onyx» e missili da crociera serie di esercitazioni aeronavali su larga scala. Le at«Tsirkon» (supersonici) e della famiglia «Kalibr». tività addestrative sono state condotte per lo più tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio 2022 e hanno coinvolto oltre 140 unità combatSPAGNA tenti e ausiliarie delle quattro flotte, 60 velivoli Proseguono le prove del primo sottomarino dell’aviazione navale russa e circa 10.000 militari tra tipo «S-80» imbarcati e basati a terra. La direzione strategica La società Navantia ha annunciato che sono in dell’esercitazione è stata affidata all’ammiraglio Nicorso le prove agli ormeggi del sottomarino Isaac kolay Yevmenov, comandante in capo della Marina. Peral (S-81), primo esemplare di una classe nota Le principali aree marittime interessate all’esercitaanche come «S-80» o «S-80 Plus»; secondo zione sono state il Mediterraneo, il Mar Nero, l’azienda, queste prove sono rappresentative di dil’Atlantico settentrionale e il Baltico, il Mar di versi aspetti legati all’operatività del battello, quali Okhotsk e il Pacifico nordoccidentale e l’Oceano Inper esempio la messa in funzione dei gruppi dieseldiano occidentale. In quest’ultimo teatro, e in partigeneratori e della ricarica delle batterie. Le prossime colare nel Golfo di Oman, dal 18 al 22 gennaio ha fasi della campagna di prove riguarderanno uscite in avuto luogo l’esercitazione «Chiru-2022», a cui mare, con immersioni a varie quote e altri test pecuhanno partecipato anche unità della Marina cinese e liari all’impiego del Isaac Peral, di cui si prevede la di quella iraniana. consegna alla Marina spagnola all’inizio del 2023.

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Il sottomarino spagnolo ISAAC PERAL viene trasferito da una banchina all’altra del porto di Cartagena per proseguire le prove necessarie a garantirne la sicurezza durante le future uscite in mare (Navantia).

La realizzazione dell’Isaac Peral è stata notoriamente travagliata a causa di errori di progettazione a cui si è rimediato investendo notevoli risorse aggiuntive. Non stupisce quindi la volontà di Navantia di dare ampia visibilità anche a prove, quali quelle all’ormeggio, che rappresentano oggettivamente una prassi consolidata di tutte le nuove costruzioni navali militari e mercantili.

STATI UNITI Varo della nave d’assalto anfibio Richard M. McCool Huntington Ingalls Industries, HII, ha reso noto che il 7 gennaio 2022 ha avuto luogo il varo della nave d’assalto anfibio Richard M. McCool (distintivo ottico LPD 29) tredicesimo esemplare della classe «San Antonio»: il varo è avvenuto da un bacino galleggiante, a cui è seguito l’ormeggio dell’unità alla banchina di allestimento di HHI, con la consegna all’US Navy programmata per il prossimo anno. Le unità della classe «San Antonio» sono dotate di bacino allagabile, sottostante un ampio ponte di volo e un hangar che occupa metà circa della lunghezza delle sovrastrutture: queste sistemazioni consentono alle unità di far operare elicotteri da trasporto e assalto anfibio, convertiplani «Osprey», mezzi da

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sbarco a cuscino d’aria e mezzi anfibi ruotati e cingolati del Corpo dei Marines. Il Richard M. McCool ha una lunghezza di 208,5 metri, una larghezza massima di circa 32 metri e un dislocamento a pieno carico di circa 25.000 tonnellate: la propulsione è assicurata da quattro motori diesel Colt-Pielstick, che sviluppano una potenza complessiva di 40.000 cv su due assi, consentendo all’unità di raggiungere una velocità massima di 22 nodi. Basato su sistemi unicamente di autodifesa, l’armamento comprende due impianti da 30 mm «Bushmaster II» per le minacce di superficie e due impianti missilistici per la difesa antiaerea e antimissile «Rolling Airframe Missile»; le sistemazioni aeronautiche consentono il decollo e l’appontaggio contemporaneo di due convertiplani «Osprey», consentendo comunque il parcheggio di quattro «Osprey» sul ponte di volo e uno in hangar.

Debutto operativo dell’elicottero a controllo remoto MQ-8C «Fire Scout» L’elicottero a controllo remoto MQ-8C «Fire Scout» ha fatto il suo debutto operativo all’inizio di dicembre 2021, nel corso di un dispiegamento di routine della littoral combat ship Tulsa (LCS-5). Appartenente al Helicopter Sea Combat Squadron 22, Detachment 5 (in sigla HSC-22 DET 5), il «Fire

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zionali da 533 mm, da cui è possibile l’impiego di siluri pesanti Mk 48 ADCAP Mod 6, di missili antinave «Sub Harpoon», di mine e anche di «Tomahawk».

Incidente a un velivolo imbarcato F-35C Il 24 gennaio, un velivolo F-35C «Lightning II» imbarcato sulla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson è precipitato in mare in fase di appontaggio: l’incidente è avvenuto mentre la Vinson e Specialisti dell’US Navy a bordo della littoral combat ship CORONADO (LCS-4) preparano il decollo di mezzo aereo altre unità del suo gruppo a controllo remoto MC-8C «Fire Scout» per una missione nell’Oceano Pacifico (US Navy). erano impegnate in attività addestrative nel mar Cinese Meridionale. Il pilota si è Scout» non è altro che la versione senza pilota delsalvato eiettandosi dall’abitacolo e subito recuperato l’elicottero commerciale Bell 407, di cui sfrutta la da un elicottero della Vinson, mentre sette membri cellula aeronautica e alcuni sistemi, al fine di massidell’equipaggio della portaerei sono rimasti feriti. mizzare sia l’affidabilità tecnica sia il risparmio nel corso della vita operativa. Il principale sistema di missione del «Fire Scout» è il radar di sorveglianza Ingresso in servizio del Savannah AN/ZPY-8 «Osprey» di Leonardo, per la scoperta e Il 5 febbraio 2022 ha avuto luogo a Brunswick, nello il tracciamento di bersagli a distanze assai elevate, di Stato della Georgia, la cerimonia di ingresso in servizio notte e anche in avverse condizioni meteo della littoral combat ship Savannah (LCS 28), appartenente alla versione con scafo a trimarano (classe «Independence») di produzione Austal USA. Austal USA Prove in mare per l’Oregon ha completato la costruzione del Savannah in poco La seconda metà di gennaio 2022 ha visto impemeno di tre anni, cioè con circa 12 mesi di anticipo rignato il sottomarino nucleare d’attacco Oregon (SSN spetto alle precedenti unità del programma. La società 793) in diverse fasi delle prove in mare a cura della soAustal USA è attualmente impegnata nella costruzione cietà costruttrice, la General Dynamics Electric Boat di altre 5 unità classe «Independence». (GDEB); a bordo del battello ha operato personale appartenente al futuro equipaggio e i tecnici di GDEB. L’Oregon è il 20° esemplare di sottomarino nucleare Iniziano le operazioni del Saildrone Explorer d’attacco classe «Virginia», il secondo nella configuIl 27 gennaio 2022, la componente navale dello US razione «Block IV», in cui sono state incorporate alCentral Command, nota con l’acronimo NAVCENT, cune migliorie necessarie a velocizzare le attività di ha dato inizio alle operazioni, nelle acque del Golfo manutenzione e dove i tubi per il lancio verticale di Persico, del mezzo di superficie senza equipaggio missili da crociera «Tomahawk» sono sistemati in due (USV, Unmanned Surface Vehicle) Saildrone Explorer: gruppi di sei nella zona prodiera del battello. Come gli l’evento rientra nell’ambito di un’iniziativa per intealtri battelli classe «Virginia» di tutte le configurazioni, grare nuovi mezzi a controllo remoto con l’intelligenza l’Oregon è dotato anche di quattro tubi di lancio tradiartificiale e permetterne l’impiego nell’area di respon-

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sabilità della 5th Fleet dell’US Navy. A questo scopo, NAVCENT ha creato la Task Force 59, che all’inizio di dicembre 2021 ha dato il via a prove in mare del Saildrone Explorer nel Golfo di Aqaba, dove il mezzo è rimasto continuativamente in mare per 30 giorni, dimostrando persistenza in un ambiente marittimo assai dinamico: il mezzo ha una lunghezza di 7 metri, è alto circa 4 metri e per la propulsione fa affidamento unicamente al vento, mentre il carico utile è rappresentato da un serie di sensori optoelettronici alimentati a energia solare per raccogliere informazioni sopra e sotto il mare. Con una velocità media di 3 nodi e un’autonomia operativa valutata in circa 12 mesi, il Saildrone Explorer può essere equipaggiato con un payload di tipo elettroacustico comprendente un sonar batimetrico multi fascio, un ecoscandaglio o un correntometro.

zata nell’Arsenale navale di Tuzla. Infatti, l’Ufuk opererà secondo le indicazioni della National Intelligence Organisation, sui tre lati: il Mediterraneo orientale, il Mar Egeo e il Mar Nero. L’Ufuk è stata progettata dalla società turca STM, responsabile dell’intero programma costruttivo, avviato con un contratto siglato nel 2016; derivata dalle corvette classe «Ada», la nave ha una lunghezza di circa 100 metri e un dislocamento di 2.250 tonnellate, con un ponte di volo, ma sprovvisto di hangar, in grado di accogliere un elicottero da 10 tonnellate. Secondo la Marina turca, l’Ufuk ha un’autonomia massima di 60 giorni, anche in avverse condizioni meteorologiche, valutati sufficienti per svolgere missioni prolungate anche nelle acque del Mediterraneo orientale. Michele Cosentino

TURCHIA In linea un’unità per addestramento e attività d’intelligence Il 14 gennaio 2022, la Marina turca ha immesso in servizio la sua prima unità per la raccolta d’informazioni e l’addestramento, battezzata Ufuk (A-491) e realizLa nave per la raccolta d’informazioni e l’addestramento UFUK (A-491), in transito nel Bosforo: realizzata nell’Arsenale navale di Tuzla, l’unità è entrata in servizio nella Marina turca a metà gennaio 2022 (Savunma Sanayı Müsteşarlığı).

Un velivolo ricognitore senza pilota «Bayraktar TB2» in servizio nella Marina ucraina e prodotto in Turchia impiegato in operazioni di pattugliamento aereo nel Mar Nero (Armyinform).

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RUBRICHE

C HE

COSA SCRIVONO GLI ALTRI

«La Russia trent’anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica» QUADERNI DI SCIENZE POLITICHE, A. XI, FASCICOLO 19/2021.

Il presente fascicolo dei Quaderni è interamente dedicato alla Russia, prendendo lo spunto dal trentesimo anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica, «la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo», come ebbe a definirla Vladimir Putin nel 2005, rimpiangendone la potenza del passato. Nel 1991 si concludeva una storia iniziata con la Rivoluzione bolscevica del 1917, approdata a un esito costituzionale definitivo nel 1922 e nel 1991: secondo Eric Hobsbawn si chiudeva il «Secolo Breve». Nel campo della politica internazionale la Rivoluzione bolscevica aveva portato a una novità sostanziale, come scrive il prof. Massimo de Leonardis, direttore dei Quaderni, nella sua pregnante introduzione. «Per la prima volta uno Stato che, dopo il 1945 sarebbe diventato una delle due superpotenze, s’identificava con un’ideologia e guidava un movimento politico-ideologico con ramificazioni in vari paesi. Si configura così una “diplomazia dei due indirizzi”, come la definisce Enrico Serra; da un lato lo Stato sovietico manteneva rapporti diplomatici formalmente corretti con altri Stati, dall’altro influiva sulla loro vita politica interna attraverso i partiti comunisti». Con questa basilare chiave ermeneutica il lettore può meglio seguire gli approfonditi contributi critici che illustrano, in particolare, la storia della politica estera sia dell’Unione Sovietica «trionfante» (Giorgio Cella, «I destini geopolitici di Mosca e l’eredità di Primakov. Sino-Russia o ritorno alla Casa Comune Europea») che della Federazione russa dopo la fine della Guerra Fredda (Stanislaw Tkachenko dell’Università di San Pietroburgo, «Foreign Policy of the Russia Federation» e Simone Zuccarelli, «Il Congresso degli Stati Uniti e la Federazione russa dalla fine della Guerra Fredda a oggi»). Il tutto dopo che il prof. de Robertis

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nel suo contributo ha proposto all’attenzione dei lettori un inedito parallelismo, sul filo dell’analogia storica, tra la condizione della Russia nel 1991 e quella della Germania ex-guglielmina nel 1919. Ergo una Germania sottoposta al diktat della Pace di Versailles, in cui non si tiene affatto conto delle aspettative suscitate dai celeberrimi Quattordici Punti del presidente Wilson, dopo essere stata battuta sui campi di battaglia della Grande Guerra e una Russia, «sconfitta senza combattere» alla fine di quella che era stata chiamata la Terza guerra mondiale, «al venir meno dell’asse concordato tra Bush e Gorbačëv a Helsinki». Facendo un passo indietro da un punto di vista temporale, il fascicolo si conclude riportandoci agli inizi del XIX secolo, quando la Russia zarista, protagonista della politica internazionale, era una degli arbitri dei destini europei, con la missione nell’impero russo dell’inviato straordinario e Ministro plenipotenziario del Regno di Sardegna (nel periodo dal 1802 al 1817) del conte Joseph de Maistre (1753-1821 e poi, da tale data fino alla morte, Ministro reggente la Gran Cancelleria del Regno di Sardegna). Anni assai fecondi quelli passati in Russia per la scrittura di alcune opere fondamentali di colui che è stato definito il «Maestro Sommo della contro-rivoluzione», la cui figura e le cui opere vengono brillantemente illustrate dal prof. de Leonardis nell’ampio e denso articolo di chiusura. Il duecentesimo anniversario della scomparsa è stato peraltro celebrato largamente anche sul web (Joseph de Maistre, duecento anni dalla morte [ma non li dimostra] - Formiche.net) nell’assunto che «La sua imponenza filosofica, politica, giuridica è tale che, se dovesse sparire dalla memoria culturale europea, sarebbe come amputare il pensiero critico controrivoluzionario e dichiarare la vittoria della modernità privata del suo più lucido e lungimirante nemico nel momento in cui essa sembra decisamente in affanno».

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«Pearl Harbour e la guerra nel Pacifico» STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC SPECIALE, DICEMBRE 2021NAVAL HISTORY, NOVEMBER /DECEMBER 2021-AGENDA GEOPOLITICA, DICEMBRE 2021

Ottant’anni fa, il 7 dicembre 1941, bollato dal presidente Roosevelt come «il giorno che vivrà nell’infamia», ebbe luogo l’attacco a sorpresa della Marina imperiale giapponese contro la base navale statunitense di Pearl Harbor, situata sull’isola di Oahu, nell’arcipelago delle Hawaii, a oltre 6.400 km da Tokyo, che trasformò la guerra già in corso in Europa da ben 27 mesi, in una vera e propria guerra mondiale. E l’anniversario «tondo» è stato ricordato da numerose riviste, a cominciare da National Geographic che vi ha dedicato uno «speciale» di 95 pagine a cura di Stephen G. Hyslop e Neil Kagan, nel quale sfilano davanti al lettore le vicende politiche, strategiche e operative dell’evento in parola, in un palinsesto riccamente illustrato da mappe e immagini d’epoca suddiviso in cinque dense sezioni: «Verso Pearl Harbour, Guerra di portaerei, Battaglia sulle isole, Isolare il Giappone, e infine, Da Iwo Jima a Hiroshima», all’interno delle quali si apre, a titolo esplicativo, tutta una serie di quelli che, in gergo filmico e televisivo, si chiamano «camei», del tipo «Preludio alla guerra, La rivalità imperiale nell’Estremo Oriente, La scommessa di Yamamoto, L’attacco, Nimitz prende il comando, Origliare i piani del nemico, Proteggere le fondamentali portaerei». Di seguito quindi, episodio dopo episodio, tutti i momenti dei quarantacinque mesi di guerra nel Pacifico (dalla battaglia del Mar dei Coralli alla svolta delle Midway, dall’offensiva nel Pacifico centrale alla presa delle Marianne, dalla guerra sottomarina alla lotta nelle giungle dell’Asia e al ritorno americano nelle Filippine, da Iwo Jima e Okinawa a Hiroshima e Nagasaki, che marcano drammaticamente l’inizio dell’era nucleare). Episodi certo noti consegnati al mare magnum di un’infinita bibliografia cri-

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tica (da ultimo potremmo ricordare la superba trilogia di Ian W. Toll, il cui ultimo volume, Twilight of the Gods, è appena stato pubblicato) e alla ricostruzione filmica laddove, nella fitta trama degli eventi, spiccano i ritratti che ci vengono proposti dei due principali antagonisti navali a distanza: il celeberrimo ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto e lo statunitense Chester William Nimitz. Se il successo in battaglia fosse dipeso esclusivamente dalla conoscenza del nemico, allora l’ammiraglio Yamamoto (1884-1943) sarebbe stato l’uomo perfetto per combattere gli Stati Uniti. Vi aveva infatti trascorso diversi anni come attaché navale, maturando un grande rispetto e apprezzamento sia del potenziale industriale che del carattere degli americani, ma il comandante della flotta combinata, appassionato giocatore di poker, pur convinto che il Giappone non avrebbe dovuto entrare in guerra con gli Stati Uniti (al pari del suo superiore, ammiraglio Osami Nagano, capo della Martina imperiale e parimenti buon conoscitore degli Stati Uniti), volle giocare d’azzardo con il suo audace piano della distruzione della flotta statunitense del Pacifico, pur consapevole delle inevitabile conseguenze. «Darò il massimo per i primi sei mesi, anche per un anno, ma non ho alcuna speranza per il secondo e terzo anno di guerra». Riconoscendo cioè, a priori, che il vantaggio strategico conseguito a Pearl Harbour sarebbe svanito non appena Washington si fosse mobilitata appieno in quella guerra di cui Yamamoto non avrebbe visto la fine allorché, in volo verso Bougainville, il 18 aprile 1943 venne abbattuto in volo dai caccia americani, dopo che i criptoanalisti del comandante Layton, sempre sulle sue tracce, ne avevano scoperto il piano di volo (nell’assunto che, secondo l’affermazione di quest’ultimo, «abbattere Yamamoto sarebbe stato un colpo mortale per i giapponesi»). Sul versante opposto, l’ammiraglio Chester Nimitz (1885-1966), che addirittura agli inizi della carriera aveva avuto seri

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problemi per aver fatto incagliare il cacciatorpediniere che da poco comandava, veniva chiamato a sua volta ipso facto a «gestire l’insuccesso e, anzi, a usarlo come incentivo per migliorare ed eccellere». «Dite a Nimitz di andarsene a Pearl Harbour e di restarci finché non vinciamo la guerra!», aveva tuonato il presidente Roosevelt. Eccellente organizzatore, i servizi d’intelligence e decrittazione della Pacific Fleet furono la sua arma segreta che gli permise di anticipare le prossime

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mosse del nemico e di tener testa a una flotta giapponese decisamente superiore, con le sue sette portaerei pesanti cui poteva opporre al momento solo tre unità similari pienamente operative nell’enorme teatro del Pacifico. Solo conoscendo l’ubicazione e la meta della flotta di Yamamoto, Nimitz poteva sperare di aumentare le probabilità di vittoria degli Stati Uniti, che intanto stavano progressivamente mettendo in campo il proprio ineguagliabile potenziale militare. E il suo primo biglietto da visita al Giappone, poco più di quattro mesi dopo Pearl Harbour, fu il 18 aprile 1942 il bombardamento di Tokyo di sedici bombardieri a lungo raggio avventurosamente lanciati dalla portaerei USS Hornet a 1.080 km da Tokyo, marcando l’inizio di quella rivincita che, subito dopo, si sarebbe cominciata a farsi sentire sul mare con le vittorie nelle battaglie del Mar dei Coralli e di Midway. L’infaticabile organizzatore e il paziente stratega (tutti i suoi biografi

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Che cosa scrivono gli altri

ripetono come sia stato il fautore di diverse innovazioni, come l’impiego di task force centrate attorno una o più portaerei e la cosiddetta leapfrogging strategy , il concetto strategico cioè di conquistare posizioni nemiche con il metodo del «salto delle cavallette», consistente nel concentrare gli sforzi contro i capisaldi giapponesi principali, lasciando indietro quelli minori da occupare più facilmente in seguito), nel dicembre 1944 ebbe il grado supremo di «ammiraglio della flotta» e infine, il 2 settembre 1945, fu addirittura firmatario dello strumento di resa giapponese a nome del Governo americano. È proprio vero che «la fortuna passa una sola volta sul campo di battaglia», come aveva sentenziato ai suoi tempi il vecchio Clausewitz! Giudicando oggi i lontani avvenimenti in discorso, Luca Giulini sulle colonne del mensile online AG in epigrafe citato, dopo un attento esame del contesto geopolitico del sistema indo-pacifico di ieri e di oggi, non esita ad affermare come «uno degli errori vitali che hanno portato alla guerra nel Pacifico fu il totale fallimento della diplomazia — ragion per cui — l’80° anniversario dell’attacco a Pearl Harbour dovrebbe essere visto dagli Stati Uniti come un momento opportuno per fare il punto della situazione e riflettere su alcune lezioni di storia».

«Towards a New Navalism» USNI PROCEEDINGS, DECEMBER 2021

Lo studioso Andrew K. Blackley apre il suo articolo con un inedito parallelismo tra la Royal Navy degli anni Ottanta del XIX secolo e la Marina degli Stati Uniti dei nostri giorni. All’epoca la Royal Navy, pur garante dell’impero del mare britannico, era alle prese con forze obsolete sempre più inadeguate alle sue responsabilità globali, una stampa «muckraking» (scandalistica), inchieste governative sulla sua competenza e il crescente antagonismo con le Marine francesi e russe allora in forte crescita. Ciò nonostante, è riuscita a emergere dal XIX secolo più forte che

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mai, con la flotta più grande e moderna del mondo e godendo di un ampio sostegno pubblico e politico. Come è stato realizzato? In una parola: navalismo! La Marina degli Stati Uniti oggi si trova davvero in una situazione simile a quella dell’Ammiragliato britannico di un secolo e mezzo fa. Di fronte alla rinnovata crescita della potenza navale dei suoi avversari, ai vincoli di bilancio e a un Congresso spesso scettico sulle richieste di una flotta più grande, la Marina dovrebbe guardare al passato per una direzione su come acquisire il capitale politico per costruire la struttura di forza di cui avrà bisogno al fine di affrontare le sfide future. Il percorso da seguire è quello di coinvolgere il sostegno pubblico — e quindi politico — attraverso un nuovo navalismo per il XXI secolo. Arthur J. Marder, uno storico specializzato in storia navale britannica, nella sua ormai classica opera The Anatomy of British Sea Power (pubblicata nel 1940), ha descritto il navalismo come «il grande movimento della marina», guidato da ufficiali, politici e civili simpatizzanti. Si può dire che il navalismo di quell’epoca avesse due componenti: «hard» e «soft». Il primo è stato praticato da professionisti navali, editori simpatizzanti e alleati politici, che hanno definito una nuova strategia navale blue-water che richiedeva una flotta più grande, ne hanno sostenuto l’espansione navale in Parlamento, e poi hanno finanziato, progettato e costruito le navi che immaginavano necessarie per attuare quella strategia. Il navalismo «morbido» è stato praticato invece dalla stampa popolare e dai gruppi di difesa, che hanno usato le nuove forme di comunicazione di massa emerse alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo per suscitare fervore patriottico, costruire l’entusiasmo popolare per la meraviglia tecnologica che era la moderna corazzata e, infine, convincere il pubblico della necessità di una potente marina sia per la sicurezza che per l’identità nazionale. Di qui in una rapida

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ma esaustiva carrellata storica sulla genesi e lo sviluppo del navalismo britannico prima e di quello statunitense poi (col presidente Theodore Roosevelt che sollecitò la creazione della Lega Navale degli Stati Uniti nel 1902 e inviò la Great White Fleet a «mostrare la bandiera» nel periplo del globo di quattordici mesi tra il 1907 e il 1909, [history.navy.mil/content/dam/nhhc/research/publications/Publication-PDF] durante il quale, insieme alle unità della Regia Marina, russe e inglesi, avrebbe prestato soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto del 1908, mentre il grande Mahan continuava a scrivere dozzine di articoli su riviste divulgative che spiegavano gli imperativi del potere marittimo al cittadino medio). C’è un «segreto fondamentale» che ha sempre separato i «navalisti dell’Occidente» dai militaristi navali dei regimi autoritari (tedeschi e giapponesi prima, sovietici poi), sottolinea l’autore. «La potenza marittima occidentale è stata più di una semplice comodità; è stata la protettrice del mondo libero. La potenza marittima britannica, statunitense e alleata contribuì a garantire la vittoria in due guerre mondiali. Nel dopoguerra, la potenza marittima degli Stati Uniti ha assunto pacificamente il mantello della leadership dalla Royal Navy e ha mantenuto la libertà dei mari

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fino ai giorni nostri». Tuttavia oggi, i regimi autoritari delle due grandi potenze continentali del mondo, Cina e Russia, cercano di sfidare la leadership dell’Occidente. In particolare, la rapida trasformazione della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLAN) in una grande forza blue-water minaccia di sconvolgere l’attuale ordine internazionale nell’Indo-Pacifico. Se gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono mantenere l’attuale ordine mondiale basato sulle regole, devono mostrare una determinazione simile a quella posta in essere dalla Gran Bretagna nel frenare le ambizioni della Germania gugliemina all’inizio del XX secolo. Certo mantenere una potenza marittima adeguata richiederà un reinvestimento massiccio e sostenuto. Il sostegno politico a questo sforzo può essere ottenuto attraverso un’applicazione ponderata di un nuovo navalismo per il XXI secolo. La Marina degli Stati Uniti ha dato un fondamentale contributo alla vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda; tuttavia, il «dividendo della pace» che seguì diede inizio a un processo di disinvestimento, visto che la supremazia navale degli Stati Uniti veniva data per scontata. Oggi non è più così e allora bisogna ricorrere a battere sui tasti del navalismo, nella sua duplice versione vuoi hard che soft, per

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convincere sia l’opinione pubblica che la politica politicante della necessità che siano assicurati alla Marina i fondi necessari per la sua modernizzazione al fine di stare al passo con i tempi e far fronte alle sfide del presente e del prossimo futuro, sempre nell’assunto che, sottolinea l’autore, «rispondere a “cosa” la Marina intende fare, e spiegarlo ai responsabili politici, è compito del “navalismo hard”, mentre comunicarlo al pubblico americano rientra nella categoria del “soft navalism”».

«Il futuro degli Oceani. La nuova corsa agli abissi» ISPI LONGREAD, 3 NOVEMBRE 2021

Piera Tortora, coordinatrice dell’iniziativa «Sustainable Ocean for All» dell’OCSE, sulla base di una vasta e aggiornata documentazione internazionale, pone in risalto come l’oceano, che ricopre i due terzi della superficie terrestre, possiede ancora vaste risorse inutilizzate, ragion per cui rappresenta una delle frontiere più promettenti per soddisfare la crescente domanda di cibo, materie prime e persino di spazio. L’OCSE stima che il più grande settore dell’economia dell’oceano sia l’industria del petrolio e del gas offshore che produce un terzo del valore aggiunto generato da tutte le attività economiche che avvengono nell’oceano. Circa il 70% dei maggiori depositi di idrocarburi scoperti fra il 2000 e il 2010 si trova sotto il mare e con il progressivo esaurimento di giacimenti nelle acque meno profonde (inferiori a 400 metri), la produzione si sta spostando sempre più a maggiori profondità, oltre ai vasti giacimenti di gas naturale che i fondali marini conterrebbero. È senza precedenti il numero di paesi africani — fra cui Mozambico, Ghana, Senegal, Mauritania, Somalia e Sudafrica — che stanno rilasciando concessioni alle major internazionali per nuove esplorazioni. Attualmente un centinaio di multinazionali si dividono il 60% del fatturato globale dell’economia dell’oceano, per un totale di 1.100 miliardi di dollari (dati 2018), di cui il 64% viene realizzato da compagnie del settore petrolifero e del gas off-shore. Ammonta a 900.000 km2 l’area in cui sono stati concessi contratti di esplorazione all’interno di

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giurisdizioni marittime nazionali, mentre le attività di estrazione nei fondi marini e oceanici e il loro sottosuolo oltre i limiti della giurisdizione statale, regolate, come noto, dall’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (International Seabed Authority-ISA) secondo il dettato e i meccanismi previsti dalla UNCLOS III (Parte XI e relativo Accordo di attuazione del 1994). ISA che finora ha accordato 31 concessioni per esplorazioni in un’area superiore a 1.3 milioni di km2, una superficie cioè di oltre quattro volte l’Italia. L’autorità deputata alla gestione dell’area si trova invero in una posizione «difficile e ambigua», dovuta da un lato alla responsabilità di garantire la preservazione degli ecosistemi marini e, dall’altra, alle pressioni di Governi e compagnie private interessate per la concessione di contratti. Attualmente La Cina è l’unico paese ad aver ottenuto dall’autorità concessioni per esplorare l’estrazione mineraria sottomarina in tutti e tre gli ecosistemi (nelle croste di ferromanganese ricche di cobalto, nelle aree ricche di solfiti polimetallici, e in quelle ricche di pepite polimetalliche). C’è poi il rischio che si venga a creare una polarizzazione fra i paesi che hanno contratti esplorativi concessi dall’ISA (come Cina, India, Giappone, Russia, Corea del Sud e vari paesi europei) e i paesi che hanno depositi minerari nei fondali marini profondi sotto la propria giurisdizione (come Papua, Nuova Guinea, Tonga, le Isole Cook, Namibia, Giappone e Kiribati). Il nodo principale della questione — viene opportunamente sottolineato — è che lo sfruttamento di risorse minerarie sottomarine potrebbe produrre entrate nel breve periodo per Stati e compagnie, ma i benefici economici rischiano di essere di difficile conciliazione con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli impatti ecologici negativi, invece, rischiano di essere colossali e di estendersi ben oltre i confini delle aree soggette all’estrazione mineraria in acque profonde, con danni alle funzioni vitali che l’oceano svolge a livello globale. Sarà cruciale quindi riconoscere ricordarsi sempre come l’Area dei Fondi Marini e le sue risorse siano «patrimonio comune dell’umanità» (UNCLOS III, artt.136), la cui preservazione e il cui uso sostenibile sono responsabilità di tutti i paesi. Ezio Ferrante

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R ECENSIONI

E SEGNALAZIONI

Vincenzo Giacomo Toccafondi (a cura di) presentazione dell’ammiraglio ispettore capo (c.a.) Vincenzo Martines

Storia di una nave bianca Wandilla-Fort St.GeorgeCesarea-Arno Amazon Wroclaw 2021 pp. 302 Euro 18,00

È una nave speciale quella che viene descritta in questo volume da Vincenzo Toccafondi, speciale per la lunga vita operativa iniziata in Australia nel lontano 1912 e conclusasi tragicamente il 10 settembre del 1942 con l’affondamento nelle acque vicine a Tobruck a seguito di siluramento da parte di un velivolo nemico; speciale per aver operato sotto quattro bandiere e altrettanti nomi e speciale, infine, per aver ospitato nel 1941, in piena guerra, un team di operatori cinematografici che hanno documentato sul campo, anzi sul mare, la sua preziosa attività e da cui venne realizzato un celebre film «La nave bianca» diretto da Roberto Rossellini, premiato alla IX° Mostra d’arte tenutasi a Venezia nel 1942. L’autore fa riemergere con stile piacevole e coinvolgente la storia di questa nave ospedale e dei suoi protagonisti: da una parte l’impegno umano e professionale dei medici, degli infermieri, dei cappellani militari, il prezioso ruolo delle crocerossine «sempre vigili e attente, straordinariamente illuminate di coraggio e sacrificio»; il comportamento sempre improntato al senso del dovere dei componenti l’equipaggio in rotte rischiose e con la continua minaccia di attacchi nemici, nonostante la tutela, troppo spesso teorica, della Convenzione di Ginevra e dall’altra i drammi personali dei malati e dei feriti soccorsi e curati, gli interventi in sala operatoria, le amputazioni, le visite specialistiche, gli infettivi, le attese e le speranze degli infermi, le testimonianze ritrovate anche nelle lettere inviate ai familiari: un lavoro di ricerca minuzioso e documentato da vero storico, integrato e arricchito da una eccellente iconografia in larga parte inedita . L’autore, che non ama la retorica e di professione fa il chirurgo, racconta i fatti senza enfatizzarli; sono avventure ed episodi di alta drammaticità che sembrano Rivista Marittima Febbraio 2022

usciti dalla penna di un romanziere ma invece sono assolutamente veri. Toccafondi non si limita a narrare l’attività della nave ospedale inizialmente chiamata Wandilla, ribattezzata Fort S. George, poi Cesarea e infine Arno, ma le inquadra sapientemente nel contesto storico in cui ha operato, confrontandola con l’attività delle navi ospedale coeve utilizzate dalle nazioni belligeranti nei diversi conflitti: nella Grande guerra, nella guerra civile spagnola, nel conflitto italo etiopico e durante la Seconda guerra mondiale. Per i puntuali e ampi riferimenti storici il volume potrà soddisfare anche chi vuole conoscerne l’origine e la storia delle navi ospedale, che sono attuali anche oggi; basti pensare alle missioni umanitarie delle statunitensi Comfort e Mercy o della nave ospedale cinese Peace Ark. Nelle vicende, spesso disumane, che caratterizzano tutte le guerre ci sono anche uomini coraggiosi che ne mitigano gli orrori tutelando la salute e la dignità della persona umana senza distinzione di nazione, religione, sesso, etnia, come ampiamente dimostrato in questo libro. Vincenzo Martines

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