carcere immateriale gallo

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Esiste una malattia professionale dei detenuti? Coloro che abbiamo intervistato ritengono poco conveniente azzardarne una definizione. La carenza di studi e ricerche sull'argomento consiglia di individuare ipotesi indiziarie, limitandosi a un discorso di «influenze sulla personalità», esercitate dalle normative carcerarie, in sé contraddittorie, incongruenti e arbitrarie. Sarebbe però erroneo definire un quadro clinico «medio» della popolazione detenuta, essendo i detenuti stessi differentemente esposti alle mutilazioni del carcere e provenendo da culture e ambienti che possono renderli più o meno vulnerabili ai rigori della detenzione. Per alcuni, come ci è stato fatto notare, le condizioni di vita in carcere e le condizioni di vita in «libertà» si somigliano moltissimo e costituiscono, insieme, le aspettative «esistenziali» a cui fare, consapevolmente o no, costante riferimento. «L'individuo detenuto comunque cambia. Non voglio dire che venga rieducato. Né voglio parlare di trattamento: il regime carcerario modifica gli individui a volte in maniera permanente. Di qui la responsabilità oggettiva dello stato: aver trasformato delle persone senza conoscere i risultati umani e gli effetti sociali di questa trasformazione». LA SINDROME DEGLI ESCLUSI? La psicologa Sandra Ambrosi, che ha una rilevante esperienza di lavoro in istituti per minori, ritiene che il problema della salute in questi istituti presenti delle caratteristiche particolari e immediatamente percepibili. I soggetti che vi sono ristretti, dice, attraversano una fase dell'esistenza fatta di mutazioni fisiche e psicologiche repentine, che già in una situazione «normale» sono spesso problematiche. Se per malattia si intendono anche i disturbi psicosomatici o le patologie di carattere psichiatrico, la Ambrosi crede di poter affermare che: «certamente il regime detentivo non lascia inalterato il quadro clinico preesistente del soggetto». Non sono tuttavia possibili delle generalizzazioni; a suo dire, l'insorgere dei disturbi è legato a numerose variabili: il tempo di permanenza, lo stato precedente del soggetto, le condizioni igienico-sanitarie del singolo istituto. In particolare va attribuita un'importanza cruciale al fattore tempo: più la detenzione si prolunga e più facilmente insorgono patologie. E riassumendo quelli che lei considera elementi patogeni, indica innanzitutto la "modificazione dello spazio fisico", che non è semplicemente da intendersi come riduzione o mancanza di spazio. Individua poi la "trasformazione della percezione del tempo", che si dilata ed è scandito da ritmi lontani da quelli dell'esperienza quotidiana. E infine le "dinamiche relazionali", che costituiscono una sorta di humus nel quale la malattia viene «giocata»: «Mi riferisco in particolare ai disturbi psicosomatici che insorgono come difesa dai


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