Un giornale fatto dai soldati? Sono degli “inviati” davvero speciali i combattenti francesi del fronte occidentale ai quali “Le Miroir” chiede foto da pubblicare. Con questa iniziativa la rivista suggerisce loro di aggiungere a ciò che già fanno in quanto soldati – contrastare il nemico, proteggersi, agire con i propri compagni, seguire i propri comandanti – un ulteriore atteggiamento: guardare in modo distaccato la scena della guerra, imparare ad isolare frammenti della propria esperienza e a renderli rappresentativi per un pubblico lontano, a dare una “forma” alla guerra. In questo modo sarebbero riusciti a scattare foto interessanti che il giornale avrebbe pagato. Di più: “Le Miroir” avrebbe scelto le immagini “les plus saisissantes”, più straordinarie, e le avrebbe premiate. Anche attraverso questa spregiudicata operazione commerciale e “mediatica” – che modificava i ruoli, inducendo i soldati ad osservare se stessi e a produrre direttamente la propria rappresentazione – è transitata la “modernità” della Grande Guerra. Le fotografie inviate dai soldati/fotografi, su “Le Miroir” diventavano storie che la rivista selezionava e diffondeva, corredate di didascalie, alimentando le emozioni dell’opinione pubblica e realizzando al tempo stesso un grande atlante della guerra e un deposito iconografico da conservare. Sulla base delle foto che il giornale premiava, si modellava probabilmente anche l’atteggiamento dei soldati/ fotografi, che inviavano a “Le Miroir” ciò che intuivano sarebbe stato più gradito. In questo modo, il giornale contribuiva a sedimentare un’educazione allo sguardo ed a diffondere uno stile fotogiornalistico. Per parte sua, il giornale escludeva dalla visione i caduti francesi e le vittorie tedesche, ma l’orrore della guerra, a chi era disposto a guardare, non rimaneva nascosto.
rono ad aprire una finestra sulla guerra attraverso immagini che riportarono “dentro” la società la visione del caos, della confusione, della disgregazione, della morte, della paura, del dolore, incrinando gli eufemismi e gli stereotipi rassicuranti dei primi mesi del conflitto: tanti tasselli di un racconto che aveva sempre meno da nascondere. L’operazione giornalistica messa in campo da “Le Miroir” conteneva anche un forte potenziale di consenso: niente quanto la condivisione di un’esperienza può spingere ad accettarne gli stessi lati più tragici. Attraverso lo sguardo dalle trincee, il giornale documentava gli sforzi di una comunità in lotta contro un nemico comune, un paese minacciato ma difeso, una risposta corale. Prendeva forma nelle sue pagine una credibile “messa in scena” del dolore dell’intera comunità e del valore militare. Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, ci interroghiamo su come società complesse e stratificate, percorse da movimenti ideali e politici tanto eterogenei, abbiano potuto reggere la pressione di un conflitto così sanguinoso e prolungato. Qualche risposta ci viene anche da questa rivista e dalla fruizione di massa di immagini e di parole che essa favorì. Il gigantesco addestramento alla sopportazione della tragedia della guerra vissuto dai francesi è passato anche attraverso le pagine di questo giornale.
Alberto Gerosa Presidente del Museo della Guerra
Grazie a questi “inviati speciali”, la guerra fu mostrata come mai in precedenza: se la foto documentava la verità, il soldato/fotografo ne era il testimone fisico e morale, mostrava ai francesi dove e come si combatteva, le armi di cui disponeva, la malvagità dei nemici, la loro resa, la loro morte. Innovazione tecnologica, intuizione mediatica e motivazione commerciale contribui-
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