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Cuordiconiglio e Cuordileone

Vittoria Sagnotti – Fondi (Lt)

Fu l’invito di una cara amica, insegnante di lettere, che mi convinse a buttar giù qualche ricordo dei miei anni vissuti durante la Seconda guerra mondiale dal ’40 al ’45. Pensava di darne lettura ai suoi allievi nel Giorno della Memoria. Non sapevo se l’avrei accontentata, poiché da tempo li avevo quasi sepolti, ritenendoli privi d’interesse. Erano ricordi di vicende che la guerra aveva appena sfiorato senza lasciare indelebili tracce di sofferenza. Ciononostante, essi incominciavano a riaffiorare nella mia memoria e a riprendere vita. Ma sì, dopotutto – pensai – se guerra vi è stata, ognuno ne ha una sua propria da raccontare. La mia, la vissi da comparsa. Ma se ebbi a soffrire, non fu per le infinite privazioni, le paure, il trauma del rientro dalla campagna per drammatiche ragioni famigliari, in una Milano devastata dai bombardamenti, occupata dai tedeschi e invasa da topi e scarafaggi. Avrei vissuto tutto ciò con la saggia sopportazione dei bambini, se non fosse stato per le angustie che mi causava mio padre: amava il rischio e le imprese temerarie, le sole armi in suo possesso per opporsi alla dittatura fascista. Fu dunque lui il protagonista della “mia guerra” e con lui entrai in un silenzioso conflitto, poiché se per il suo coraggio andavo orgogliosa, per la stessa ragione gli portavo un profondo rancore. Trascorsi così quegli anni in uno stato di perenne angoscia contrapponendo la mia paura di Cuordiconiglio alla sua audacia di Cuordileone.

Figlia di Madre Ebrea

Il pugno di una legge feroce batté una notte ad una porta del nostro palazzo addormentato, facendo scempio della vita di una donna così riservata e silenziosa da passare inosservata ai più, che poi portasse su di sé una colpa infamante lei stessa lo ignorava. Invece, quella colpa la condannava perché era figlia di madre ebrea, il ramo materno, appunto, che determinava secondo le leggi razziali naziste, l’appartenenza di un individuo alla razza ebraica. L’ambigua politica di Mussolini del “discriminare e non perseguitare” ingannò molti ebrei, che in Italia si ritenevano al sicuro. Se tanti fuggiaschi si salvarono grazie al generoso aiuto della popolazione italiana, nessuno poté far nulla per l’ignara vicina di casa, che venne trascinata via nella notte e gettata su uno di quei vagoni piombati diretti verso i lager dello sterminio. Costernati, gli abitanti del palazzo passavano davanti alla sua porta sbarrata, rassegnati a non rivederla più. Invece, - la guerra era finita da pochi mesi - la bella notizia risuonò di casa in casa: la vicina del secondo piano era tornata!5 A questo punto la storia potrebbe dirsi conclusa, ma io sento di doverle qualcosa in più del semplice racconto di un fatto di cronaca. Con quella donna quasi sconosciuta ho condiviso ciò che, ingenuamente, credevo un segreto. Da sempre, ovvero fin dove posso ricordare, ero solita fare un incontro (mentre io scendevo dal mio quarto piano, lui saliva per andare da lei). Dominava, con il suo passo calmo, quel tratto di scale che ci divideva, lasciando tuttavia lo spazio alla mia discesa frettolosa e mai che cogliessi nel suo sguardo il minimo fastidio per la mia involontaria intrusione. Mai, in tutti quegli anni, ricercai la ragione di quegli incontri segreti e mai nessuna curiosità infantile oltrepassò la soglia del loro rifugio. Un forte legame doveva tenerli uniti, sebbene qualche ostacolo li costringesse ad una vita separata. Quando sopraggiunse l’evento drammatico della deportazione a separarli, assai più crudelmente di quanto avesse già fatto la vita, lui non ebbe più ragione di ritornare. Credetti di dimenticarli, ma la gioia che provai allorché lo vidi risalire le scale di un tempo e bussare a quella porta non più sbarrata, ora non la saprei descrivere. La loro storia d’amore, brutalmente interrotta, come nelle favole aveva trovato il suo lieto fine. A distanza di un paio d’anni, su un tram semivuoto, incontrai la mia vicina. D’impulso mi alzai e andai a sedermi accanto a lei. Finalmente (delle due, io la sola a sapere quanto in passato ella avesse occupato i miei pensieri) le potevo parlare. Bruciavo dalla voglia di sapere come avesse vissuto la terribile esperienza del lager e come fosse riuscita a salvarsi. Ed ecco il suo racconto. Dopo un interminabile viaggio venne scaricata a Birkenau, memorabile campo di lavoro e di sterminio della cittadina polacca di Auschwitz. Nella fatale selezione di chi doveva vivere e chi doveva morire, venne giudicata, per l’ancor giovane età, idonea alle fatiche di campo. Grattando la sporcizia dagli alloggi altolocati e dalle latrine delle baracche, riuscì ad evitare la camera a gas. A tutte le prove disumane che era stata costretta a subire, lei aveva opposto, senza mai cedere alla tentazione di lasciarsi andare, la fede in “una cara persona” (disse proprio così, con il riserbo di chi vuole tenere per sé un segreto), una cara persona che per tutto il tempo della sua assenza, avrebbe vissuto soltanto per attendere il suo ritorno.

I Bambini ci guardano

Fino alle otto di quel 31 dicembre del ’44, l’aria di casa era rimasta desolatamente tranquilla senza alcuna prospettiva di festeggiamenti, ma all’ultimo momento il bisogno di scuotersi di dosso la paura di agguati e di cattura ebbe il sopravvento. Per festeggiare San Silvestro saremmo andati – suprema delizia, sublime evasione, unico diletto in tanta temperie – in quel luogo che la gente comune chiama ‘soltanto’ cinema, ma che per me e mia sorella era il PARADISO. Fu mia madre, ingannata dal titolo che le suggeriva visioni adatte all’infanzia, che decise per “I bambini ci guardano”, un film talmente drammatico da indurre anche il più cinico alla depressione e al pianto. Il massimo dei lussi in fatto di trasporti era il tram. E quella sera ( l’invio era stato precipitosamente esteso anche a nonna Eugenia e zia Silvia ), il tram che ci avrebbe condotto in paradiso, con un repentino sobbalzo si fermò. Ad attenderci, nel vano spalancato dello sportello, la truce sagoma di un tedesco, mitra spianato ed aspro comando: “Dieci uomini ciù”! Si degnò, tuttavia, di informare gli atterriti passeggeri che per ognuno dei loro, fatti fuori, dieci dei nostri sarebbero stati “kaput”. Il primo a calarsi, manco a dirlo, fu mio padre! Una volta scesi, fummo sospinti verso un punto di raduno dove già sostava un gruppo di accalappiati in attesa di controllo. Il tedesco, frattanto, ci aveva consegnato ad un paio di zelanti “repubblichini”, ma poiché, lungo il percorso, colti dall’ingordigia, i due cercavano di arricchire il bottino con la cattura di nuove prede, noi cinque membri femminili del branco, con la strategia di certi animali che attuano l’accerchiamento di protezione al compagno braccato, al nostro riuscimmo a coprire la fuga. Avevamo già percorso un buon tratto di strada verso la salvezza quando – altro cardiopalmo! – un drappello di miliziani in borghese ci fermò. L’uomo alla loro guida, affannato e sbrigativo, puntò subito all’unico maschio fra quelle femmine impaurite, invitandolo ad esibire il suo lasciapassare. Noialtre sapevamo che neppure se l’avessero voltato a testa in giù, quel documento gli sarebbe uscito dalle tasche: Cuordileone, come già per la tessera del Partito, si era ben guardato dal farne richiesta, sbattendo la porta in faccia alla Repubblica di Salò e a tutte le sue pretese di giuramenti di fedeltà. Tuttavia, il suo impassibile assenso, seguito dal gesto risoluto di estrarlo dal taschino, fu così convincente che l’uomo con premura gli bloccò la mano a mezz’aria e con ossequiosa deferenza lo congedò. Forse una somiglianza con qualche gerarca fascista? O forse perché soltanto un membro della loro consorteria avrebbe potuto attraversare indenne il posto di blocco nazifascista. Increduli, riprendemmo la fuga. Agli ignari che incrociavamo per via, passammo la voce che il percorso era pattugliato da truci bracconieri e disseminato di tagliole. Raggiunta la nostra tana, trascorremmo la notte di Capodanno – altro che Paradiso! – a leccarci le ferite dello spavento.

“I bambini ci guardano” film di Vittorio De Sica.

Il nuovo vicino di casa

Di notte, la sirena d’allarme si faceva precedere da un sibilo sinistro: era il preludio alla mia paura, che però veniva sempre accolta dalle sfuriate di un Cuordileone sdegnato da quel mio pavido contegno di Cuordiconiglio. Nel rifugiosottocasainvece,incontravol’accoglienzadeivicinichesiconsolavano a vicenda e non mi lesinavano la loro comprensione. La solidarietà con la guerra era cresciuta e tutti, nel bisogno, si davano una mano. Tutti, tranne uno. Di recente un appartamento era rimasto sfitto ed era stato occupato da un nuovo inquilino con la moglie e una giovane figlia. Un non so che di segretezza lo circondava e qualche indiscrezione circa le sue misteriose attività cominciò a trapelare. Un muro di diffidenza lo separò dal resto del vicinato e la sua famigliola ne fece le spese. Ignoravo quale idea si fosse fatta di lui Cuordileone, ma sono portata a pensare che fu più per sfida che per il sospetto di una minaccia a indurlo a rivolgerli parole di buon vicinato e non fu tanto per sondare il suo enigma, quanto per rendergli meno opprimente l’ostilità dei suoi vicini di casa. Quel gesto distensivo ebbe il suo effetto su di lui a tal punto che mio padre divenne il suo unico riferimento, l’unico suo interlocutore nelle notti passate in rifugio durante gli allarmi.

C’era da aspettarselo: un suono di campanello e una torva minaccia sul volto di quei due ceffi alla porta di casa. Subito non compresi, tanto fu rapida la scena. Stretta nella loro morsa, la dritta figura di mio padre – un cappotto infilato di premura e in viso, come sempre in situazioni critiche, nessuna emozione – scomparve giù per le rampe delle scale. E mentre noi brancolavamo all’oscuro di tutto, Cuordileone veniva interrogato nella sede dell’OVRA6, senza peraltro collaborare. Anzi, all’invito di discolparsi dalle accuse del suo delatore, lui, anziché negare, di rimando chiedeva chi fosse quel “farabutto” che lo aveva denunciato. Poiché, nonostante la notte passata in carcere e un secondo, minaccioso interrogatorio, mio padre non dava segni di ravvedimento, l’incaricato, con una secca comunicazione interna, chiese rinforzi. L’attesa del funzionario di grado superiore fu breve. Quando, nel vano della porta spalancata, con un certo nervosismo, comparve l’uomo che avrebbe avuto in mano la sorte di mio padre, ecco il colpo di scena: l’atteso funzionario altri non era che il nuovo vicino di casa. “Dunque è lui il farabutto” pensò, ma anche l’altro parve barcollare dalla sorpresa e per riprendersi gli ci volle un po’. Letta velocemente l’accusa, sorvolando sulla sua gravità, forte della superiorità sul collega, dichiarò che per la vecchia conoscenza e la stima che aveva del “soggetto in causa”, la calunnia di antifascismo era infondata. Mano sul fuoco, lui stesso se ne faceva garante e suggerì che una vendetta per qualche vecchio rancore doveva nascondersi in quella delazione. Sbrigate le procedure del rilascio, Cuordileone fece ritorno a casa e tutto parve finir lì. Ma la vicenda non era ancora conclusa, quasi aspettasse come nei romanzi il suo degno epilogo. Quando la mattina del 25 aprile del ’45 l’esercito di liberazione fece il suo ingresso a Milano, salutato dal tripudio della cittadinanza, a Cuordileone pervenne una soffiata: un Comando partigiano era sulle tracce del vicino di casa. Memore di quanto era accaduto nelle oscure stanze dell’OVRA, egli sentì il dovere di ripagare il suo debito di gratitudine a quell’uomo che a suo tempo lo aveva salvato. La decisione, dopo un rapido consiglio di famiglia, fu unanime. Scortato a distanza dalle figlie, visibilmente agitate e consapevoli della gravità del momento, scese le scale, bussò al portoncino sbarrato e sibilò la notizia dell’imminente cattura. Solo un Grazie, appena sussurrato, si udì. Il giorno stesso la famiglia era scomparsa. Ecco come il destino aveva giocato, per questi due uomini schierati su fronti avversi, la sua carta migliore.

Il Soldato tedesco

Faceva freddo anche quella sera a Milano. Un freddo umido e pungente che penetrava fin dentro le ossa e mi gelava. Avevo imparato a sopportarlo e la mia angustia era tutta rivolta alla sofferenza di mio padre, che aveva subito una profonda incisione senza anestesia ad una mano infettata (gli antibiotici erano ancora di là da venire). Si era rivolto ad un medico privato, evitando di proposito l’ospedale per via dei soliti documenti di adesione alla Repubblica di Salò, di cui era privo. Io l’avevo accompagnato. I bambini erano un buon lasciapassare per sviare i sospetti di milizie fasciste e pattuglie tedesche. Camminavamo come ombre, in silenzio, verso casa quando, dalla nebbia densa che avvolgeva la città come un sudario, emerse la figura di un soldato tedesco, arma spianata ed un secco Alt! da far gelare il sangue. Sia pur debolmente, l’ultimo bagliore del crepuscolo prima del coprifuoco rischiarava i nostri visi tanto da poterci ancora distinguere l’un l’altro. Guardai mio padre, pallido per la sofferenza, ma come sempre impassibile di fronte al pericolo, poi il volto del soldato che io, impietrita dal terrore, fissavo per coglierne i tratti di fanatismo disumano della gioventù hitleriana. Ma per quanto prevenuta in tal senso, non vi scorsi nulla di ostile o di perverso. Era, nonostante il piglio militaresco della Wermacht, quello di un ragazzo che in buona fede stava compiendo il proprio dovere di soldato. Gli sarebbe bastato poco – un eccesso di zelo, l’ambizione di un encomio, una dimostrazione di autorità - per cambiare i nostri destini. Invece, gli bastò un’occhiata per comprendere che un uomo - una mano vistosamente fasciata e una bambina spaurita appesa all’altro suo braccionon rappresentava alcuna minaccia per la Germania nazista. Non pretese alcun lasciapassare e con un cenno del capo ci fece intendere che potevamo proseguire. Riprendemmo la via di casa senza parlare. Col cuore gonfio di gratitudine avrei voluto ringraziare, almeno con uno sguardo, quel ragazzo, ma quando mi voltai era già scomparso, ombra in un deserto di solitudine nell’attesa di un’altra notte di coprifuoco. Dopo un tale spavento, il mio cuore di coniglio avrebbe avuto bisogno di conforto; ma Cuordileone preferì chiudersi nel suo silenzio senza dar voce al travaglio che certamente lo aveva agitato. Non un commento, neppure in seguito, vi fu sull’episodio, eppure qualche parola si sarebbe dovuta spendere per quel ragazzo soldato, che per pochi istanti aveva avuto la vita di mio padre nelle sue mani e intatta gliel’aveva restituita.

L’Amico Viterbo

L’amico Viterbo pareva non avesse un suo nome proprio, ma soltanto quel cognome da ebreo sulla bocca di amici e conoscenti che, negli anni dal ’39 al ’45, avrebbe potuto causargli seri fastidi, se associato al suo semitico nasone degno di citazioni bibliche. Cambiar naso a quei tempi non sarebbe stato facile e poiché il momento era tale da non consentire troppe leggerezze, grazie a non so quali misteriose conoscenze riuscì a cambiar nome; ma si sa, le cattive abitudini sono dure a morire e così, tutti continuarono a chiamarlo Viterbo. Io l’avevo amato fin da piccola il mio “Riterbone” (quell’accrescitivo gli calzava a pennello data l’opulenza della sua corporatura); amavo il suo accento bolognese, morbido e cantilenante, e l’affetto che mostrava a noi due, le figlie di un Cuordileone dai rigidi metodi educativi; ma soprattutto amavo la sua grande umanità, che metteva al servizio di chi aveva bisogno di aiuto. Fu per mio padre un compagno di lotte politiche e una guida in rischiose missioni segrete. A guerra finita, senza scalpore né encomi ufficiali, aveva messo a segno parecchi salvataggi di ebrei, che inviava talvolta anche a noi, senza preavviso: donne impaurite con un pugno di gioielli in seno; padri di famiglia nelle mani di avidi mercanti di promesse, che si tramutavano spesso in tradimenti, e molti ragazzini della nostra età: Costantino, Leone, Ester, Narciso. Quanti di loro hanno condiviso i nostri giochi e qualche magra torta di riso, veri miracoli di mia madre per sconfiggere la nostra fame in tempo di guerra. Con noi, essi ritrovavano il sorriso, mentre altri come loro calpestavano i campi della morte e passavano, con le parole di Francesco Guccini7, nel fumo dei camini di Auschwitz. Viterbo, nel frattempo, lavorava come membro del CLNAI8 e attivista del Partito d’azione9, trascinando sul fronte dell’attività clandestina Cuordileone, a suo tempo risparmiato al fronte di guerra. Infatti, non venne richiamato alle armi per una curiosa circostanza: il suo anno di nascita, il 1904, coincideva con quello del Principe ereditario Umberto di Savoia, che a causa della successione al trono non poteva combattere al fronte.

Le Ragazze dei lager

Cuordileone tornò a casa quel giorno – un pomeriggio dei primi di luglio del ’45 – con un’eccitante novità. I Viterbo ci invitavano ad un ricevimento che avrebbero dato in onore di alcune ragazze ebree, reduci dai lager nazisti. Un tragico destino le aveva private degli affetti più cari; ma perché erano loro le uniche ad essersi salvate dallo sterminio delle proprie famiglie? Lì per lì, la bella notizia mi aveva portato al settimo cielo, ma quei tristi particolari incrinarono il mio entusiasmo. Sulle prime, scartai l’idea che la festa sarebbe stata divertente. Mentalmente, mi preparai ad assumere un contegno conveniente per non urtare i sentimenti di quelle poverine, che immaginavo pallide, emaciate e piene di afflizione. Ma in quanto a previsioni, non ne azzeccai una. Le ragazze che incontrai quella sera erano bellissime e sui loro volti sorridenti si leggeva una gran voglia di ricominciare a vivere. Erano momentaneamente ospiti dei Viterbo in attesa di raggiungere in altri continenti parenti a loro sconosciuti. L’Italia era l’ultima tappa del loro viaggio di ritorno: chi da Bukenwald, chi da Auschwitz, chi da Belsen. Era stata propiziata da Viterbo, non ancor pago di aver dato aiuto a tanti fuggiaschi durante le persecuzioni naziste. Ferveva la festa. L’allegria regnava fra gli invitati. Le festeggiate dispensavano sorrisi e l’adorabile padrona di casa ci deliziava con squisitezze, che in tanti anni di privazioni avevamo dimenticato. Coi miei quindici anni appena compiuti, ritenendo ormai assolto l’apprensivo dovere di vigilare su Cuordileone, sentivo di potermi abbandonare alla spensieratezza. Il rosa-antico del mio abito era un bel richiamo e gli inviti a ballare piovevano numerosi. Tutto era perfetto, eppure una certa inquietudine si era impadronita di me e una domanda mi assillava: “Come riuscivano quelle giovani a mostrarsi così serene senza far trapelare nulla delle terribili esperienze vissute in quei lager maledetti?” Loro, che ne erano la testimonianza più diretta, avrebbero potuto dare una risposta al mio bisogno di conferme e al mio “perché”. Viterbo, intanto, vigilava, fiutava, sventava ogni pallida indiscrezione. Nessuna allusione alla sventurata odissea delle ragazze avrebbe dovuto turbare la serenità della sua casa e nessuna risposta si sarebbe data a quel “perché”. A salvarle era stata la loro bellezza, ingiuriata e calpestata nei postriboli delle SS.

7 “Son morto ch’ero bambino/ Son morto con altri cento/ Passato per il camino/ Adesso sono nel vento”. “Auschwitz” di Francesco Guccini.

8 CLNAI – Comitato di Liberazione dell’Alta Italia.

9 (°) Partito d’Azione – Nuovo partito liberal-socialista.

A tarda sera, ci congedammo dalle “Ragazze dei lager”. Presto se ne sarebbero andate, ognuna col proprio carico di sventure, che sapevano così ben custodire con il loro silenzio e mascherare con tanti sorrisi. Non le avrei più riviste e quindi mi manca il seguito delle loro storie. Sono rimaste per me come i personaggi di un appassionante film interrotto prima della parola Fine.

Ciò che colpiva, era quella sagoma, che nonostante la stagione avanzata era ancora infagottata in un cappotto scolorito dagli anni e dall’usura. Lei, che avrebbe potuto menar vanto di un ricchissimo abito d’oro. Chissà se lassù l’avevano già informata della sorpresa che i laboriosi cittadini di Milano le stavano preparando? Fin dalle prime ore di un luminoso mattino di maggio, in molti erano saliti a quelle vertiginose altezze, da cui l’operosità degli uomini al suolo appare simile ad un formicaio. Finalmente, anche per lei era giunto il grande momento! Nell’affaccendarsi gioioso dei preparativi, nell’approssimarsi di un evento che avrebbe coinvolto tutta la città, io c’ero, e mi sentivo partecipe e spettatrice dell’ultimo atto di un dramma vissuto nell’infanzia, che ricordo come “la mia guerra”. Anche per me era un giorno felice. Stavo con mio padre (non più batticuori e spaventi per lui) con l’illusione che tutti i miei patemi l’avessero in qualche modo protetto e salvato ed ora, finalmente, avrei potuto pensare a me stessa. Mentre mi estraniavo col pensiero in arditi progetti per il futuro, una gaia moltitudine andava riempiendo il vasto sagrato del duomo con un brusio trattenuto dall’attesa. Gli sguardi di tutti erano puntati sulla guglia più alta, bianca e sottile come una stalagmite, piedistallo della sagoma impaludata intorno a cui armeggiavano le solerti figure dei guastatori. D’improvviso, si era fatto silenzio. La tensione era alle stelle. Da lassù, giungeva soffocato il rumore dei fendenti: uno, due, tre, un altro e un altro ancora ed ecco, finalmente, il grido che squarcia il silenzio, ecco l’applauso esultante, ecco gli osanna, gli evviva, le lacrime, ecco la gioia! Cadeva fra stormi di colombe il pesante fardello ai piedi della madonnina d’oro, ormai non più richiamo degli aerei di guerra, ma nel sole di maggio simbolo splendente di libertà.

“Taci, il nemico ti ascolta”10

Altro che “vita spericolata”, caro Vasco, era quella di noi ragazzi in tempo di guerra! Le insidie erano ovunque, anche là dove ci credevamo al sicuro. Quante volte io ho provato la sensazione di attraversare un precipizio camminando su di una corda tesa. Accadde così anche quel giorno, su un treno che prendevo da sfollata per andare e venire da scuola. Le corse che le Ferrovie Nord potevano concedere, dati i tempi, erano molto ridotte,

10 Frase scritta sotto il grande orecchio impresso sui manifesti fascisti ma in compenso offrivano vagoni in prima classe, pretenziosamente arredati con divanetti di velluto rosso-porpora ad alto schienale dietro il quale scompariva del tutto il viaggiatore. Era su uno di questi vagoni in sosta sui binari, un’ora prima della partenza e perciò ancora vuoti, che noi ragazzi potevamo finalmente chiacchierare a ruota libera. Ma le nostre non erano le chiacchiere spensierate della gioventù. Quasi sempre era di guerra che si parlava e ci si abbandonava a confidenze che le grandi orecchie della Repubblica di Salò non avrebbero certo tollerato. Fu in uno di questi “abbandoni” che Cuordiconiglio inciampò in una bravata che le costò incubi senza fine, e per anni atroci sensi di colpa. In breve, con orgoglio annunciai che mio padre avrebbe presto raggiunto in montagna i partigiani. D’improvviso, dal nulla, ovvero dallo schienale del rosso sedile di fondo, vidi sporgere la testa di uno sconosciuto. Era rimasto per tutto il tempo in silenzio ad ascoltare quasi fosse in attesa di una preda. Ed eccola finalmente nella sua rete! Con voce secca e tagliente, puntando su di me lo sguardo, ordinò: “Tu, vieni qui”. Di colpo il mio corpo si era fatto di marmo. Sentendomi ormai nelle sue mani, mi alzai senza opporre alcuna resistenza e andai a sedermi di fronte a lui. L’uomo attaccò un discorso infarcito di proclami, di assiomi, qua e là di minacce, ma io non l’ascoltavo. Un unico pensiero mi dominava: avevo messo in pericolo mio padre e ora lo dovevo salvare; ma come? Mi arrovellai fra mille scappatoie fino a provarci con le blandizie del tipo: “Lei ha ragione”, “Io sono dalla sua parte”, fino a mentire spudoratamente, dichiarandomi io stessa fascista. Ma del mio credo politico a quel sadico sconosciuto non importava un fico secco. E, infatti, non mi parve di aver fatto colpo. Il suo scopo l’avrebbe raggiunto consegnando mio padre alle SS. E sarei stata io a tradirlo, io a metterlo nella mani dei suoi aguzzini, io che molte volte, deprecando le sue imprese temerarie, l’avevo quasi detestato. Il mio inquisitore, ormai a corto di argomenti, finalmente tacque. La sentenza era vicina; l’attendevo atterrita senza guardarlo in volto (ancora oggi non saprei dire che faccia avesse), ma un suo gesto, che mi parve di clemenza, lo colsi all’istante. Allora compresi che mi stava congedando senza dar corso alle sue minacce. Incredula, mi alzai da quella graticola di velluto rosso e raggiunsi i miei compagni ammutoliti. Cuordileone ancora una volta era salvo.