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1.3 Le “casette comunali”
verno e contro l’Istituto; in tredici furono fermate e accompagnate in Questura. Quando venne interpellato il delegato del governatore all’Assistenza Sociale, Raffaello Ricci, questi comunicò che alla sistemazione delle famiglie sfrattate avrebbe dovuto provvedere l’Istituto delle Case Popolari. «Quest’ultimo – precisava il questore – per contro non ha inteso revocare il provvedimento di sfratto che, com’è noto, sistematicamente applica in confronto dei ricoverati morosi preavvertendoli alcuni giorni innanzi e chiudendone inine l’uscio della loro stanza»77 .
Si trattava di accadimenti che si ripetevano di frequente, chiosava il questore, «ma in qui in forma minore». E difatti episodi analoghi si veriicarono anche il giorno successivo e quello dopo ancora. In Questura, avviate dai commissariati distrettuali, giungevano di continuo famiglie sorprese nell’intento di attirare l’attenzione nelle zone centrali (come Galleria Colonna), tanto da costringere le autorità ad intensiicarne la vigilanza. Il questore, in un rapporto del 20 marzo, lamentava la cattiva pubblicità suscitata «dalla pubblica vista (di) tali spettacoli» e raccomandava l’allestimento di altri ricoveri, oltre a ribadire che l’Ifacp avrebbe dovuto sospendere gli sfratti «in un momento delicatissimo come l’attuale»78. Anche questi fatti evidenziano e confermano, da parte dell’Istituto, la mancanza di una considerazione più alta dei problemi trascendenti la contabilità degli esercizi di bilancio delle aziende a carico, in questo caso problemi di “ordine pubblico” (in realtà di natura sociale) che, in concomitanza della crisi economica, potevano destare allarmi da un punto di vista politico.
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1.3 Le “casette comunali”
Un’ultima vicenda, nella ricostruzione delle divergenze che collocarono l’Istituto e il Governatorato su posizioni divaricate, merita di essere segnalata. Una nota di Boncompagni indirizzata a Calza Bini nel 1932 sanciva in modo completo e deinitivo la rottura tra i due79. Essa richiamava l’attenzione dell’Ifacp su di una convenzione antecedente il regime, con cui l’ente autonomo prese in carico quelle che, a tutti gli effetti, possono essere considerate le prime borgate “uficiali” della storia cittadina. Si trattava delle casette in legno situate a Porta Metronia, via della Ferratella e San Giovanni, costruite dall’amministrazione Nathan nel 1911, in cui vennero allocate le famiglie dimoranti nelle baracche abbattute nei pressi di Valle Giulia, in occasione dell’Esposizione con cui si celebrò il cinquantenario del Regno d’Italia. Le prime “casette minime”, dunque, sorsero su terreni destinati ad un sicuro incremento di valore, dati i ritmi di sviluppo urbano sempre più elevati e l’immediata
77 ACS, MI, DGPS, DAGR, 1930-31, b. 328, rapporto 16 marzo 1931. 78 Ivi, rapporto 20 marzo 1931, Alberghi Garbatella – sfrattati. 79 Ater, Allegati, 1932, Rapporti in dipendenza gestione casette popolari.
vicinanza della zona alla città storica. Il loro impiego destò polemiche già a quei tempi quando, per scongiurarne l’ubicazione a Testaccio, venne coniato lo slogan “case, non baracche”80 .
Si parlò di una soluzione temporanea, data la qualità piuttosto bassa delle casette, simili invero più a baracche legali che a vere abitazioni. Ne furono realizzate circa un migliaio per 934 famiglie, la cui sosta si prolungò ben oltre i limiti della transitorietà prevista. Le casette, in uno stato di completo abbandono, vennero acquisite nel 1919 tramite una convenzione con cui l’Istituto ne assunse gli oneri, tranne il pagamento degli interessi e della quota di ammortamento del mutuo gravante sulle stesse con la Cassa Nazionale di Previdenza; i terreni sarebbero rimasti di proprietà comunale. L’Istituto si impegnò a costruire entro il termine di dieci anni, in varie località e su aree che il comune avrebbe ceduto a prezzo di costo, case popolari igieniche a carattere deinitivo in sostituzione delle casette. L’accordo si concluse non senza indugi da parte dell’Istituto, che inizialmente considerava la proposta inaccettabile, «senza un vero programma e senza mezzi concreti» 81 .
Una volta acquisite, le casette vennero afidate a una gestione separata, diretta dal segretario Traversari. I primi provvedimenti adottati rispecchiarono appieno le prerogative gestionali dell’Istituto: esazione della pigione e impianto di un servizio d’ordine. I lavori di manutenzione, in effetti, riguardarono solo le casette degli inquilini che pagavano; per convincere i più ostinati, si disse, si sarebbe usato il “polso rigido”82 . E i risultati non tardarono a mostrarsi: nei primi venti giorni l’Istituto ricavò 25.753 lire tra depositi e pigioni, quando l’anno prima il ricavo del comune non aveva superato le 10 mila lire83. Si costituì un’associazione “pro-casette”, che richiese la perequazione dei itti in rapporto ai canoni vigenti in altri quartieri, presto accolta84. La situazione di queste famiglie, divenute nel frattempo 1155 per un totale di 5626 persone suddivise in 2669 vani (cucina compresa), di poco ma migliorò, aldilà dell’enfasi con cui Calza Bini descrisse questo progresso: dall’istallazione di impianti privati di luce elettrica, collegati ai pali di illuminazione delle strade, al rifacimento degli impianti idraulici; dalla tinteggiatura dei muri interni ed esterni, alla ristrutturazione di una parte dei pavimenti e degli inissi.
Il predecessore di Boncompagni, il principe Spada Varalli Potenziani, fu il primo ad avanzare accuse nei confronti dell’Istituto, con una lettera dell’aprile ’28 in cui incolpava Calza Bini di non aver iniziato la de-
80 D. Orano, Per la dignità di Roma case non baracche, Tip. Unione Coop. Editrice, Roma 1908. 81 Ater, Verbali del CdA, vol. 8, 10 ottobre 1919 e 6 marzo 1918. 82 Ivi, 24 ottobre 1919. 83 Ivi, 21 novembre 1919.
84 Ibid.
molizione nel 1921 avendone tratto un “non trascurabile vantaggio”85 . In effetti, nei primi due anni di gestione vennero abbattuti solo quattro padiglioni, più che altro perché sempre allagati, data la loro posizione poco favorevole nel punto più basso dell’insediamento86. Nel 1928 le casette abbattute diverranno una sessantina. Per giustiicarsi l’Istituto asserì che gli obblighi sulle cassette comunali derivavano da convenzioni passate, ritenute “scadute” e superate quanto gli organismi che le avevano sottoscritte. Durante il mandato Potenziani, dunque, non mancarono le controversie, ma a fronte di un clima più disteso in cui mai cessarono gli spazi di dialogo, le divergenze, puntualmente, inivano col ripianarsi. In questo caso i tempi per rispettare la convenzione furono prorogati al 31 dicembre 1933. Con Boncompagni, al contrario, ogni malinteso si trascinò in dispute con scarsi margini di intervento, ino alla contrapposizione frontale e alla irrimediabile frattura.
Così nella partita sulle casette comunali Calza Bini aumentò la posta in gioco, chiedendo di far propri i terreni su cui sorgevano le casette una volta demolite; il governatore, in tutta risposta, non solo riiutò (le aree in questione «per le migliorate condizioni dei quartieri anzidetti» avevano ormai assunto un valore rilevante ed erano ritenute «assolutamente inadatte per la costruzione di case popolari») ma decise di denunciare la convenzione, pretendendo la liquidazione dei danni e la riconsegna delle casette87. Calza Bini fu poi invitato dal segretario generale Petroni a non tener conto delle asprezze e dei toni dell’ultima missiva, ma le proposte accennate per raggiungere un accordo non furono mai formalizzate, nonostante l’impegno dell’Ifacp di demolire al più presto perlomeno le casette di San Giovanni (viale Castrense)88. Fu solo dopo il 1935 che, grazie alle maggiori risorse a disposizione, si riuscì ad affrontare seriamente la questione delle “casette comunali” con la loro completa distruzione.
Il contraccolpo causato dalla rottura con Boncompagni avrà rilessi profondi e la produzione edilizia dell’Istituto andrà man mano riducendosi, ino a registrare il totale arresto nel biennio 1933-34, dopo la realizzazione di alcuni degli ediici in cantiere col piano del 1928. Nel frattempo la periferia di Roma si riempiva di ricoveri e baracche temporanee «che non verranno certo a migliorare la situazione», ammo-
85 Ivi, vol. 17, 12 aprile 1928. Nella seduta Calza Bini riferì al CdA di aver ricevuto un richiamo di Potenziani per la ritardata demolizione delle casette comunali. Anche in questo caso non c’è traccia della lettera del governatore, di cui sono citati dei passaggi nella replica, ivi, Allegati, 1928, Lettera a Sua Eccellenza il Governatore di Roma, 13 aprile 1928. 86 Ivi, Verbali del CdA, vol. 9, 6 luglio 1921. Alle famiglie evacuate furono assegnati alloggi a Trionfale e Garbatella. 87 Ivi, Allegati, 1932, Rapporti in dipendenza cit. 88 Ivi, Verbali del CdA, vol. 22, 18 dicembre 1931.
niva Calza Bini; e poi: «Il consiglio […] fa voti afinché di ricoveri se ne costruisca il meno possibile e siano anche oculatamente spaziate nel tempo le demolizioni in modo da non aggravare la situazione già dificile assorbendo con queste demolizioni di Piano Regolatore tutte le disponibilità dell’Istituto»89. Ma il progetto di “baraccamento” rientrava nelle urgenze disposte da Mussolini che, nell’aprile 1930, formulò il seguente programma a Boncompagni:
Occorre nei prossimi mesi primaverili ed estivi concretare l’attività del
Governatorato in queste direzioni: a) baracche, case convenzionate, case ultraeconomiche b) nettezza urbana. […] Bisogna che per il 28 ottobre tutte le strade entro l’anello, siano perfettamente sistemate. Questo è il compito di assoluta urgenza90 .
Il Campidoglio con le soluzioni provvisorie ottenne un notevole risparmio nel breve periodo: il piano di “borgatizzazione” costò cinque milioni nel 1930, scesi a tre milioni l’anno successivo91, spese scarsamente compensate dagli afitti ricavati annualmente. Le baracche uficiali, sorte in diversi punti isolati dalla città, accolsero soprattutto immigrati, a migliaia, ma pure famiglie romane.
89 Ivi, vol. 20, 1 marzo 1930. 90 ACS, SPD, C.O., b. 842, f. 500.019-1, appunto 29 aprile 1930. 91 Ivi, Relazione sul bilancio 1931.
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