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9.2 L’Ente Governatoriale di Assistenza

9.2 L’Ente Governatoriale di Assistenza

Il tragitto compiuto dagli EOA condusse da una parte ad un’acquisizione di competenze e di professionalità prima sconosciute nel settore, anche se non mancavano le denunce di un servizio lacunoso e male organizzato37, dall’altra ad un ampliamento delle funzioni di questi enti tale da rendere non più rinviabile la formulazione di un provvedimento complessivo che regolasse la materia. A metà degli anni Trenta, la promulgazione di un apposito Testo Unico sembrava ormai ineludibile38 . Tra le varie questioni che andavano disciplinate spiccava quella relativa al mantenimento o meno delle Opere Pie – collegata alla quale c’era quella degli ingenti patrimoni di cui alcune di esse disponevano e del personale a cui davano lavoro – del sistema di inanziamento più idoneo alla prosecuzione dell’opera, di un eventuale coordinamento che per alcuni avrebbe dovuto portare anche alla fusione con altri settori quale quello previdenziale.

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Tuttavia, non si pervenne a una riforma generale, bensì alla creazione di un nuovo ente. Il conlitto tra Stato e partito anche in questo caso fu risolto a vantaggio del primo. Gli Enti Comunali di Assistenza nati con la legge del 3 giugno 1937, n. 847 assorbirono gli EOA e le Congregazioni di Carità assieme ai rispettivi patrimoni, collocandosi nel solco dei disciolti EOA sia per quello che concerneva il sistema di inanziamento39 – stabilito oltre che dalle rendite patrimoniali e dagli introiti incamerati con l’addizionale statale destinata all’assistenza sociale, approvata nel 1936 ed ampliata nel ’37, dai contributi delle associazioni sindacali, dei Comuni, delle Province e di altri enti pubblici e privati – sia per il controllo contabile, rimasto alle prefetture. Dislocati a livello comunale, la loro amministrazione fu afidata a un comitato pre-

Questura avviò delle indagini su 9 istanze dirette a Sebastiani, per assodare se fossero “redatte o consigliate da elementi dediti a speculare su tali attività”, ivi, 500.031-1. Controlli scattarono anche sul parroco di Tor Marancia, che richiese fondi per un asilo nella borgata, ivi, 530.959, Asilo a Tormarancio. 37 Da un’indagine iduciaria del marzo 1934 condotta presso i Gruppi rionali, emerse come il servizio fosse espletato in locali fatiscenti e da personale poco idoneo. Sin dalle prime ore del mattino si formava la calca di fronte ai refettori e spesso accadeva che in molti tornassero a casa a mani vuote. In alcuni casi la refezione era distribuita in capannoni sporchi e sudici, lo stesso personale era “cencioso”, e svolgeva il servizio solo allo scopo di portare a casa gli avanzi delle consegne, unico compenso dell’opera prestata. Inoltre, molti iduciari rionali furono additati come responsabili di appropriazioni indebite e scorrettezze, accuse che causarono l’apertura di indagini sull’attività amministrativa della Federazione romana , cfr. Talamo, Bonetta, Roma nel ’900, pp. 449-450. 38 Inaudi, A tutti indistintamente cit., pp. 174-181. 39 In proposito cfr. i contenuti della circolare inviata ai prefetti, ACS, MI, DGAC, Istituti di beneicienza, affari generali e per provincia, 1940-42, b. 44, f. 25293-35, ECA – attività assistenziale, dicembre 1938.

sieduto dal podestà, da un rappresentante del PNF locale, dalla segretaria dei Fasci Femminili, dai rappresentanti delle associazioni sindacali. Il concentramento delle Ipab nel nuovo ente signiicò la sua specializzazione sul terreno dell’assistenza generica, mentre l’assistenza infantile venne di lì a poco consegnata nelle mani della GIL. Così, se il partito non era più il catalizzatore delle attività assistenziali, sotto la sua egida vennero riassunte le prerogative di formazione isica e spirituale delle nuove generazioni.

La città di Roma venne suddivisa in 21 settori, il suburbio in altri 20, ognuno dei quali corrispondeva a un uficio assistenziale40. Le giurisdizioni dei settori erano di fatto ricavate dalle giurisdizioni dei Gruppi rionali fascisti, per facilitare la collaborazione tra i Fasci Femminili e i comitati di settore, in generale quella tra PNF ed EGA. Aperti giornalmente dalle 9 alle 12, presso di essi si effettuava la consegna del pacco viveri settimanale, contenente pasta, riso, legumi e patate (in quantitativi rispettivamente di 1 kg, 1 Kg, 1,5 Kg, 2 Kg per una famiglia di trequattro persone), prestazione che andava sotto il nome di “assistenza invernale”, i cui termini decorrevano dai mesi invernali all’inizio di ogni aprile.

Ogni settore era retto da un comitato di assistenza formato da fascisti e fasciste esperti in materia, tenuti a conoscere a fondo le necessità ed i bisogni della popolazione della zona a cui erano preposti. Soprattutto le visitatrici fasciste possedevano un’accurata conoscenza delle singole situazioni di disagio. A loro spettava una mansione fondamentale, quella di raccogliere informazioni economiche e morali sui richiedenti assistenza. Queste informazioni venivano riportate, assieme a un parere della visitatrice, nella domanda istruita dal comitato di settore, che a sua volta la corredava coi dati personali dell’aspirante e dei componenti dell’intera famiglia, valutava il parere della visitatrice e issava la forma di assistenza da proporre alla presidenza dell’ECA. In caso favorevole, la pratica era sottoposta all’uficio centrale per la deinitiva approvazione, cui seguiva il rilascio del libretto di assistenza. Nella maggior parte dei casi ci si uniformava al parere espresso dalla visitatrice, del cui ruolo, nonostante fosse bersaglio di critiche e polemiche a livello locale, la segreteria nazionale del partito teneva un’alta considerazione41 .

40 La lista dei settori cittadini e del suburbio in ivi, SPD, C.O., b. 1198, f. 509.628, Ods, A tutti i comitati di settore, 11 gennaio 1938. 41 Nel 1941 venne emanato un foglio di disposizioni che prescriveva l’intensiicazione dell’attività svolta dai Fasci Femminili a favore degli ECA. L’apporto delle visitatrici fasciste come fautrici del collegamento tra gli enti di assistenza e il partito era ritenuto di alta importanza educativa e morale e avrebbe assicurato all’attività assistenziale una eficacia più immediata, ACS, MI, DGAC, Istituti di beneicienza, affari generali e per provincia, 1940-42, b. 44, f. 25293-33, Fasci Femminili, Foglio di disposizioni del PNF, 12 luglio 1941. Queste indicazioni contraddicevano le riserve che pure erano state poste in alcune realtà italiane sull’operato dei Fasci

Le visitatrici fasciste detenevano un potere non indifferente sugli assistiti. Di estrazione medio-borghese, erano solite esibire atteggiamenti moralistici poco compresi dagli strati inferiori. Di questi ultimi, attraverso le visite domiciliari e i successivi rapporti, mettevano in risalto i comportamenti concernenti la pulizia, i vizi privati, la svogliatezza, la fannulloneria42. Si trattava, dunque, di una vera e propria intrusione nella vita individuale, sgradita al punto da scoraggiare, talvolta e in alcuni comuni, le stesse autorità locali a servirsi dell’operato delle visitatrici43, probabilmente proprio per evitare la loro sovraesposizione agli occhi della popolazione beneiciaria.

Il rapporto sfavorevole di una visitatrice poteva anche provocare misure disciplinari e azioni repressive, se venivano menzionati particolari ritenuti passibili di indagine. Non a caso, in una nota dell’Ente romano il ruolo delle visitatrici appare descritto come «incarico delicatissimo e di non lieve importanza politica». Nella stessa nota si raccomandava che le visite fossero effettuate “con ogni sollecitudine” e che le relazioni fossero “esaurienti”44. Gli assistiti, per altro, per via delle procedure necessarie ad ottenere il libretto erano sottoposti a una schedatura di massa, accessibile alle prefetture. L’uficio centrale infatti conservava uno schedario generale dei beneiciari che compendiava gli schedari tenuti dai vari settori. Ogni comitato rapportava giornalmente sulla

Femminili in ambito assistenziale. A Torino, ad esempio, nel corso dei primi anni Trenta destarono aspre critiche da parte della popolazione povera per via del fatto che nello svolgimento del loro lavoro si recavano imbellettate oltremodo, esibendo eccessivo sfarzo. Nonostante si arrivò a dotarle di una apposita divisa, le critiche non cessarono. Probabilmente a non essere gradite erano le intrusioni casalinghe delle visitatrici fasciste, oltre alle decisioni che prendevano, cfr. S. Inaudi, A tutti indistintamente, pp. 98-99. 42 Tra le caselle di cui era composta la domanda di assistenza, compilate a cura della visitatrice, insieme alle domande attinenti lo stato di famiglia e la condizione economica, vi erano quelle che accertavano la presenza di ricoverati in sanatori e disoccupati in famiglia, di eventuali richiamati alle armi, delle benemerenze nazionali dei componenti, una casella intitolata “Situazione morale della famiglia” e un’altra “Condizioni igieniche e sanitarie”. Largo spazio era dato alle impressioni personali, annotabili nella casella “Altre notizie”. La domanda si arricchiva di volta in volta con le “Relazioni delle visite successive”. Una copia in ACS, MI, DGAC, Istituti di beneicienza, affari generali e per provincia, 1940-42, b. 44, f. 25293-35, ECA. 43 Un’ispettrice del PNF, recatasi a Pavia, riscontrò che in pochi comuni veniva osservata la legge sugli ECA nella parte riguardante i compiti dei Fasci Femminili: «Solo in qualche Comune le Visitatrici sono incaricate delle visite domiciliari, in base alle quali esse possono esporre le proposte di assistenza: e in nessun Comune i buoni vengono afidati alle Visitatrici perché li portino alle case accompagnandoli con parole di fede e di conforto, come è nello spirito della Legge e nella espressa volontà del DUCE», ivi, f. 25293-33, Fasci Femminili, nota del prefetto di Pavia del 9 giugno 1943. 44 ECA, Circolari, settembre 1937-febbraio 1939, Appunto per le sedute del 19 corrente.

situazione del singolo settore all’uficio centrale, fornendo oltre agli ordinativi occorrenti a soddisfare le distribuzioni della settimana successiva, tutte quelle informazioni sugli assistiti che potevano consigliare di ridurre l’entità dell’assistenza45. Per gli indigenti “più meritevoli e più bisognosi”46 segnalati dalle visitatrici, l’uficio centrale autorizzava la distribuzione di letti, coperte, oggetti di biancheria, vestiario e scarpe. Le decisioni delle visitatrici o le mancate concessioni suscitavano, a seconda dei casi, disapprovazioni, critiche o consensi, soprattutto era temuta la loro autorità morale, cui gli assistiti dovevano necessariamente rimettersi aprendo le porte delle loro case se volevano l’aiuto degli ECA.

Per i senza issa dimora o per chi non disponeva di una cucina in casa, funzionavano le cucine popolari, a cui si accedeva con dei buoni con scadenza settimanale emessi dai settori. L’Ente gestiva sei refettori, ubicati a Tormarancio, Primavalle, borgata Gordiani, Trastevere, Torpignattara-Quadraro, via del Falco (nei pressi del Vaticano), la cui contabilità era seguita scrupolosamente dall’uficio centrale. Il refettorio di via del Falco era sorto presso il vecchio dormitorio, ribattezzato la “Casa del ristoro”, dotata di 300 posti letto ed aperta anche alle famiglie fresche di sfratto che non riuscivano a procurarsi un alloggio entro la giornata. Agli sfrattati e alle famiglie povere in generale, era data la possibilità di rivolgersi alle commissioni di avvocati dell’Ente per ricevere assistenza legale gratuita47 .

Gli ECA inoltre agevolavano il riscatto dei pegni e l’acquisto di utensili di lavoro. L’elargizione di sussidi in denaro era concessa, stando al foglio di disposizioni principale, solamente in casi eccezionali e «contenuta nei limiti dello stretto necessario». In modo ripetuto, però, il presidente Colonna e a cascata il segretario generale dell’Ente rammentarono ai comitati di settore di limitare i pareri favorevoli per la concessione dei sussidi «ai soli casi di eccezionale bisogno» e soprattutto per motivi speciici e non generici48. Nell’ottobre 1938 si costituì uno speciale comitato col compito di disciplinare questa pratica, quando già a gennaio di quell’anno l’esame e la concessione di sussidi inoltrati per conto di indigenti raccomandati da enti e personalità era stato demandato alla sola presidenza49. Evidentemente, non solo i sussidi in denaro erano fortemente richiesti ma venivano accordati con troppa facilità.

45 ACS, SPD, C.O., b. 1198, f. 509.628, Ods, A tutti i comitati di settore, 11 dicembre 1938. 46 Ivi, I nuovi Enti Comunali di Assistenza, Organizzazione dell’Ente Governatoriale di Assistenza. 47 La commissione per l’assistenza legale tenne la sua prima seduta il 22 novembre 1937, ECA, Ods, settembre 1937-febbraio 1939, 18 novembre 1937. 48 Ivi, Ordinanze, n. 32, 20 febbraio 1939; ivi, circolare n. 4 del 20 ottobre 1938. 49 Ivi, Ods, settembre 1937-febbraio 1939, 4 gennaio 1938.

Una forma speciica di assistenza monetaria era rappresentata dall’erogazione di un contributo per il pagamento della pigione, spesso rivolta a ottenere una proroga di sfratto, una misura anch’essa eccezionale e contingente. Medicinali erano distribuiti ai bisognosi impossibilitati ad acquistarli purché non in possesso della tessera di povertà (che dava facoltà di reperirli in modo gratuito). La somministrazione dei medicinali era deferita alle assistenti sanitarie di zona, le cui attribuzioni in questo campo equivalevano a quelle delle visitatrici50. Tutte le richieste, per qualsiasi genere di assistenza, erano protocollate e rubricate e le concessioni registrate sui libretti di assistenza, sui quali andavano annotate non solo le prestazioni fornite dall’ECA, ma tutti i soccorsi elargiti da vari enti ed istituti di assistenza e previdenza sotto qualsiasi forma (sussidi temporanei e continuativi, buoni vitto e alloggio, assistenza sanatoriale, scolastica, ambulatoriale, ospedaliera ecc.). Presso gli ECA, inoltre, era impiantato il Casellario Centrale dell’Assistenza e Previdenza, con lo scopo di raccogliere tutti i provvedimenti positivi adottati a favore dei bisognosi da qualsiasi parte provenissero51 .

Le categorie ammesse all’assistenza invernale erano: gli indigenti inabili al lavoro, le vedove indigenti con prole minorenne, le famiglie di indigenti il cui capo era transitoriamente impossibilitato a lavorare, le famiglie il cui capo era completamente disoccupato e che non potevano contare su altre forme di reddito, le famiglie numerose con oltre sette igli a carico e con reddito insuficiente al mantenimento della famiglia. Erano tassativamente esclusi da ogni forma di assistenza i disoccupati abitudinari52. A Roma gli assistiti dall’EGA superavano mensilmente i 25.000, con picchi straordinari raggiunti nel periodo intercorso da febbraio ad aprile 1939, quando il numero degli assistiti oscillò da 83.000 sino a quasi 105.000 abitanti, tornando dopo un calo vertiginoso (3000 assistiti) ai livelli più o meno stabili di 25-30.000 persone al mese53 .

Problematico fu l’andamento dei dormitori pubblici. Passati dalle dipendenze della Congregazione di Carità a quella dell’EGA, la gestione dei dormitori divenne particolarmente tormentata quando il Governatorato, nel terzo triennio di rinnovo della convenzione siglata nel 1935, non devolse più il contributo di gestione spettante all’EGA54. Proposte

50 Ivi, n. 12 del 19 gennaio 1938. 51 ACS, MI, DGAC, Istituti di beneicienza, affari generali e per provincia, 1940-42, b. 44, f. 25293-35, ECA- attività assistenziale, circolare ai prefetti, dicembre 1938. 52 ECA, Ods, settembre 1937-febbraio 1939, n. 7 del 23 novembre 1938. 53 ACS, MI, DG Amministrazione Civile, Istituti di beneicienza, affari generali e per provincia, 1940-42, b. 43, f. 25293-3. Il fascicolo contiene graici e tabelle che riassumono l’andamento del servizio svolto dall’Ente Governatoriale di Assistenza nella città di Roma. 54 Un promemoria della segreteria ECA inviato al commissario Stella del Comune di Roma il 4 febbraio 1947, riassume una parte della vertenza iniziata col Governatorato e continuata col Comune. Venuto a mancare il contributo

di riorganizzazione del servizio dormitori vennero formulate nel corso del mandato Colonna. Già all’epoca, e non poteva essere diversamente, le strutture di ricovero erano al collasso, data la sproporzione esistente tra i posti letto e le richieste di accettazione. I dormitori risultavano in perenne sovraccarico anche perché in molti riuscivano a trasformare la permanenza in essi in una sorta di domicilio isso. Nel 1939 i posti letto di Primavalle, via del Falco e Portuense erano 702, i quali potevano dar luogo a un massimo di 256.230 presenze all’anno (nel caso di rotazione giornaliera di tutti i posti disponibili). Nel 1938 queste invece arrivarono a 331.07255, numeri da capogiro. L’EGA inoltre si vedeva costretto a inviare i casi più urgenti in alberghi e pensioni, i cui oneri di pernottamento gravavano sul bilancio dell’ente (nel 1938 questa spesa gravò per 33.457 lire). Preoccupato di tale stato di cose, Colonna nominò una commissione che studiasse il problema e dettasse delle soluzioni. Le proposte prospettate non furono mai concretizzate, tuttavia possono

governatoriale, l’EGA diede formale disdetta di gestione dei dormitori con lettera del 3 gennaio ’44 , in cui si propose al Campidoglio l’ipotesi di una gestione diretta. La convenzione fu denunciata nuovamente con lettera del 13 maggio ’44, cui non seguì alcun riscontro. L’Ente comunale fu così costretto a proseguire la gestione dei dormitori senza i necessari fondi, acuendo i problemi di una situazione sociale resa già esplosiva dalla particolare congiuntura post-bellica. La Prefettura tentò una mediazione, ma a complicare la matassa già ingarbugliata subentrò l’occupazione di due padiglioni del dormitorio di Primavalle ad opera del Ministero dell’Assistenza post-bellica per favorire la sistemazione temporanea dei profughi. Le trattative si interruppero a seguito della circolare emessa dal Ministero dell’Interno n. 25292/3 del 3 agosto 1946: in base ad essa, gli ECA dovevano attenersi allo svolgimento di compiti di assistenza generica e temporanea, mentre i ricoveri andavano rimessi all’amministrazione del Comune. Il prefetto scrisse più volte al Comune invocando il rispetto della circolare ministeriale, senza ricevere risposte adeguate. Il resto della storia è sintetizzato in un altro rapporto redatto dal commissario straordinario ECA Barluzzi all’indirizzo del segretario generale del Comune, Caporali, datato 23 luglio ’49. L’ECA, presi accordi col prefetto, decretò in modo irrevocabile la deinitiva cessazione del servizio con comunicazione del 30 novembre ’48 a decorrere dal primo gennaio 1949. Finalmente il Comune fece un passo avanti e propose le condizioni per rilevare i dormitori (lettera del 5 gennaio ’49). L’ECA continuò ad amministrare i dormitori per tutto il 1949, nel mentre si deinivano le trattative col Comune. Aspetti controversi erano legati all’entità dei rimborsi (il costo annuale del servizio era ormai valutato intorno ai 14 milioni di lire) e all’assorbimento del personale addetto ai ricoveri. La gestione dei dormitori passò al Comune a partire dal primo agosto 1950 (nota del 9 agosto 1950). Per il periodo compreso tra il 1 maggio 1945 e il 31 dicembre 1949, nel quale l’ECA gestì il servizio suo malgrado e nonostante formale disdetta, la somma da rimborsare era di 48.404.900 lire, più un canone mensile di 1.190.000 per il periodo di gestione prolungata dal 1 gennaio 1950 al 31 luglio 1950 (nota del commissario Barluzzi del 4 agosto 1950). La documentazione citata fa parte delle carte non ordinate dell’ECA, Uficio Protocollo, Dormitori Pubblici, posizione n. III-1-36, Corrispondenza. 55 Ivi, Affari generali del personale addetto ai dormitori, verbale della riunione del 21 marzo 1939.

considerarsi emblematiche del modo in cui i fascisti intendevano i servizi assistenziali. Oltre alla costruzione di altri due dormitori con capienza di 300 posti l’uno, si suggerivano le modalità di funzionamento delle nuove e delle vecchie strutture:

3) Tutti i ricoverati, ogni sera, appena accolti, dovrebbero essere sottoposti a un bagno a doccia obbligatorio. I loro indumenti, tutti, chiusi a chiave in appositi sacchi numerati, verrebbero nella notte disinfettati e i ricoverati, per la notte, verrebbero forniti a cura del dormitorio di indumenti semplici per dormire, che alla mattina verrebbero riconsegnati, in cambio dei vestiti propri, e a loro volta disinfettati. 4) Il soggiorno nei dormitori non dovrebbe superare i 15 giorni. Durante tale periodo gli uomini verrebbero utilizzati ove possibile in colonie di lavoro che l’Ente potrebbe attrezzare, o dimessi ogni mattina per cercare lavoro. Le donne verrebbero utilizzate per la pulizia dei dormitori stessi oppure in appositi laboratori istituiti dall’Ente, e i bambini, separati coattivamente dalle famiglie e afidati i più piccoli nei nidi dell’ONMI e gli altri riuniti sotto la sorveglianza della GIL. 5) Presso ogni dormitorio dovrebbe trovarsi una squadra di polizia comandata da un graduato56 .

Più che a strutture pubbliche di accoglienza per bisognosi, i dormitori illustrati dai camerati Balzarini, Valeri, Passalacqua e Correnti somigliano a istituti coercitivi di rieducazione, assimilabili in qualche modo a dei luoghi concentrazionari, pur con tutti i distinguo del caso. Si trattava dell’estremo limite entro cui poteva aver corso l’assistenzialismo fascista, la cui intera impalcatura risulta dificilmente separabile dalla costruzione di un sistema di controllo sociale dalla presa stringente esteso all’intera popolazione, dai gradini più alti a quelli più bassi della piramide sociale. Nei confronti degli ultimi il ricatto dell’assistenza giocava un ruolo insostituibile: nell’assoluta impossibilità di decidere per se stessi, perché condizionati dal bisogno, le magre risorse messe loro a disposizione rappresentavano un’esca solitamente suficiente a blandirli dall’assumere qualsiasi atteggiamento dissenziente. D’altra parte, il controllo raggiunto mediante le Opere, le istituzioni sociali e assistenziali, senza dimenticare l’elemosina del duce, si trovava a convivere con un solido sistema repressivo che conigurava un vero e proprio stato di polizia. La punizione esemplare per una parola di troppo pronunciata in un’osteria o per il racconto di una barzelletta costituiva un monito dificilmente superabile per chiunque avesse avuto la voglia di uscire fuori dal coro.

56 Ibid.

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