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Andrea Mariuzzo

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Andrea Mariuzzo

L’emergere dell’antibolscevismo nell’opinione pubblica italiana

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Introduzione

Messa in discussione diretta della classe dirigente e dei sistemi di governo d’un paese belligerante nella Grande Guerra, il ciclo rivoluzionario russo del 1917 non poteva non essere guardato attraverso le lenti interpretative che erano state imposte dalla natura del conflitto, anche secondo meccanismi che andavano al di là dell’ovvia preoccupazione immediata delle ripercussioni che il crollo del fronte retto dalla Russia poteva avere sulle operazioni militari. Nei paesi dell’Intesa, la sovrapposizione tra l’immagine del nemico di guerra e quella di coloro che di fatto ne sostenevano l’affermazione sul campo di battaglia destabilizzando l’alleato impegnato sul fronte orientale fu profonda, e comportò il trasferimento di immagini, vocaboli, descrizioni e allusioni alla minaccia incombente, all’assoluta alterità e fin quasi alla disumanità maturati per descrivere i soldati nemici al nuovo scenario. Allo stesso modo, la prosa usata per la condanna senza eccezioni dell’orrore della guerra, della sua violenza e delle sue devastazioni da parte dei gruppi culturali e religiosi che tenevano a marcare la propria estraneità trovò rinnovato vigore nella necessità di confrontarsi con la tragedia rivoluzionaria russa.

Fu quindi soprattutto attraverso giudizi e spunti mutuati dal tema più importante del discorso pubblico di quegli anni che prese corpo, nei termini di contrapposizione inconciliabile destinata a diventare una costante del confronto dialettico con l’universo comunista, la critica al nuovo regime rivoluzionario e collettivista che ne risultò. Così ebbe luogo il rinnovamento dell’arsenale polemico rispetto alle prese di posizione antisocialiste che avevano caratterizzato i decenni precedenti, quando il termine del confronto era una proposta programmatica essenzialmente teorica, piuttosto che un regime nella piena capacità operativa, alla guida di un paese sconfinato e ricco di risorse.

Si muove secondo linee interpretative simili il maggiore contributo allo studio delle origini del discorso anticomunista nell’area anglosassone, British and American Anticommunism before the Cold War di Markku Ruotsila1. Per l’autore, il consolidamento dell’Unione Sovietica come modello di paese socialista e il contesto di minaccia ai fondamenti stessi della vita associata in cui ciò avvenne sancirono il passaggio da un’idea di socialismo «understood most broadly as representing almost all collective action and almost all

1 Markku Ruotsila, British and American Anticommunism before the Cold War, Frank Cass, London-Portland (OR) 2001.

measures that were of a social kind»2 alla percezione d’una minaccia rivoluzionaria ben identificabile.

La capacità di resistenza del regime comunista sovietico portò poi anche la critica anticomunista a riorganizzarsi secondo temi e schemi più generali e più facilmente rimodulabili, sempre però muovendosi secondo gli atteggiamenti di rifiuto assoluto individuati fin da subito nel corso della “febbre” antirivoluzionaria del primo dopoguerra: difesa dei valori sociali, culturali e religiosi consolidati che il comunismo rivoluzionario minacciava; denuncia della violenza e dell’oppressione attraverso le quali il nuovo modo di vivere era imposto; timore per una nuova organizzazione della vita economica e produttiva che si rivelava fallimentare.

A fronte di questi tratti unitari, Ruotsila individuava la tendenza della polemica anticomunista a ricomprendere tendenze politiche e ideologiche diverse, concentrando nella comune pars destruens dell’opposizione al regime russo e ai suoi epigoni nazionali il tentativo di diverse voci contrapposte di trovare legittimazione nella «competition between conservatism and modern liberalism and socialism for the right to shape and order the direction of the twentieth century»3 .

Oltre ad aver attribuito maggiore spessore storico al problema dello sviluppo di un lessico e di atteggiamenti specificamente ostili all’esperienza comunista sul piano internazionale, sovvenendo al sostanziale appiattimento sull’anticomunismo di guerra fredda che in precedenza aveva caratterizzato l’interesse storiografico sul tema4, l’autore ha quindi proceduto a dare profondità alla semplice notazione della “varietà” delle tendenze di opposizione al fenomeno comunista individuando in tali differenze un carattere ricorrente d’un discorso per sua natura teso a riaffermare la propria appartenenza a un ordine sociale e a una civiltà attraverso la contrapposizione a chi per definizione intendeva minacciarla e sovvertirla, secondo un atteggiamento rimarcato anche da chi ha indagato il discorso anticomunista nell’assai diverso contesto francese5 .

2 Ibid., p. 4. 3 Ibid., p. XIII. 4 Dopo una prima rassegna in Peter H. Buckingham, America Sees Red. Anticommunism in America, 1870s to 1980s, Regina Press, Claremont 1987, il tema dell’anticomunismo nel discorso pubblico americano ha trovato sistemazione con M.J. Heale, American Anticommunism. Combating the enemy within (1830-1970), Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1990; Joel Kovel, Red Hunting in the Promised Land. Anticommunism and the Making of America, Basic Books, New York 1994; Richard G. Powers, Not without Honor. The History of American Anticommunism, The Free Press, New York 1995. In questi studi, però, l’indagine del discorso anticomunista appariva finalizzata alla comprensione del momento apicale in cui l’opposizione all’esperienza sovietica e all’universo di valori che era sorto attorno ad essa raggiunse il massimo dell’influenza politica, ovvero gli anni del maccartismo, tematizzati in termini di cultura politica diffusa da David Caute, The Great Fear. The Anti-Communist Purge under Truman and Eisenhower, Touchstone, New York 1979, e ripresi da M.J. Heale, McCarthy’s Americans. Red Scare Politics in State and Nation, 1935-1965, University of Georgia Press, Athens 1998. 5 Cfr. Jean Jacques Becker-Serge Berstein, Histoire de l’anticommunisme en France, 1917-1940, Orban, Paris 1987, p. 386: «À tous les moments, pour toutes le familles politiques, combattre le communisme, c’est en même temps, par opposition à lui, affirmer sa propre identité en la colorant de traits spécifiques que lui donne son rejet du parti-repoussoir».

Fino a che punto le linee generali che la storiografia internazionale ha individuato nel farsi dell’opposizione al bolscevismo – incubazione nel clima di guerra guerreggiata, contrapposizione assoluta e inconciliabile verso una minaccia alla civiltà, competizione tra i gruppi organizzati che reclamavano la guida o finanche il monopolio del contrasto al comune nemico – possono essere utili per costruire una griglia interpretativa del discorso antibolscevico circolante in Italia fra il 1917 e l’immediato primo dopoguerra?

L’esposizione alle reti di corrispondenza giornalistica e d’informazione internazionale attraverso la quale la stampa ebbe accesso per narrare le questioni russe, rodata da un triennio di guerra, rappresentò un elemento per la partecipazione dell’opinione pubblica nazionale alle tendenze di valutazione e di giudizio che si andavano sviluppando nel resto d’Europa. D’altro canto, nel tempo emersero alcuni tratti distintivi nella trattazione del tema del comunismo nel dibattito italiano, generati soprattutto dalla presenza attiva del mondo cattolico e delle sue realtà associative; dalla forza che il fascino dell’esperienza rivoluzionaria esercitò sul mondo socialista, in particolare su quello più popolare, e di conseguenza dalla necessità d’una reazione; in generale, dalle avvisaglie d’una crisi del sistema politico liberale e dall’apertura di nuovi spazi per occupare i quali poté rivelarsi decisiva la paura del sovvertimento rivoluzionario.

Il bolscevismo presentato agli italiani

La crisi che colpì all’inizio del 1917 un alleato nel conflitto mondiale come la Russia fu accolta in Italia, in fin dei conti, con favore, vista la diffidenza nutrita nei confronti di una potenza autocratica i cui orientamenti politico-militari erano difficilmente controllabili e la cui classe dirigente non si era mostrata preparata alla guerra. Il passaggio a un governo dagli accenti seppur confusamente liberali sembrava rendere il paese più in linea con gli atteggiamenti complessivi dell’Intesa. Emblematico il caso d’una testata quale il “Corriere della sera”, in prima fila, già nei mesi della mobilitazione interventista, su posizioni di simpatia per le motivazioni di intervento francese e britannico6 .

Fin dal 12 marzo il corrispondente estero più prestigioso del quotidiano milanese, Luigi Barzini7, profondo conoscitore dell’impero zarista, si sforzò di rassicurare i lettori sul «formidabile sentimento che fomentava la volontà del popolo russo […] verso la guerra» con

6 Per la informazioni sulla vita di redazione, cfr. Glauco Licata, Storia del “Corriere della sera”, Rizzoli, Milano 1976, pp. 167-227 e Lorenzo Benadusi, Il “Corriere della sera” di Luigi Albertini: nascita e sviluppo della prima industria culturale di massa, Aracne, Roma 2012. Per un’ampia valutazione d’insieme dell’atteggiamento della stampa d’informazione italiana – al di là del caso specifico e particolarmente significativo del “Corriere della sera” – di fronte agli eventi russi, cfr. il classico Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffrè, Milano 1976. 7 Attivo in varie zone della Russia tra l’inizio del secolo e il 1914, Barzini vi aveva tenuto corrispondenze per le sue imprese più memorabili di reporter, come la copertura della guerra russo-giapponese e quella del raid automobilistico Pechino-Parigi al fianco del principe Scipione Borghese. Faceva riferimento a tali esperienze il suo libro più popolare, Dall’impero del Mikado all’impero dello Zar, Libreria Editrice Nazionale, Milano 1904. Nel 1917 Barzini si divideva tra le corrispondenze dal fronte e l’attività di editorialista. Su questa figura cfr. Domenico Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Guerra, Perugia 1994 ed Enzo Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Pagliai, Firenze 2008.

«un sollevamento perenne di entusiasmi popolari», poiché come mostravano le sollevazioni popolari di quei giorni «dall’alleanza e la comunanza di intenti con le nazioni più civili e liberali di Europa, il popolo russo riceveva un impulso prodigioso verso una conquista di modernità», dal momento che «la fraternità di armi era [divenuta] fraternità di ideali»8 .

La comparsa sulla scena dei bolscevichi alla metà di aprile e la loro ascesa nei convulsi mesi successivi fu innanzi tutto un fattore di disturbo per l’impegno bellico russo. Lenin apparve nelle cronache da Pietrogrado nelle vesti di agitatore con «argomenti anarchici» e soprattutto disfattisti, sempre sul punto d’essere arrestato dalla polizia, lontano dai sentimenti della società a cui cercava di rivolgersi e da un popolo che, impegnato nella prosecuzione col miglior esito possibile del conflitto, non prestava alcuna attenzione al suo controproducente radicalismo. Questo quadro, frutto dei filtri pesanti della qualità delle informazioni disponibili in loco e della censura di guerra operante in tutta Europa, si trovò a cozzare, tra luglio e settembre, con l’emergere d’una realtà diversa, in cui il movimento bolscevico appariva uno degli attori decisivi, per capacità organizzativa, nel passaggio tra l’assunzione del potere da parte di Kerenskij e il fallito colpo di Stato di Kornilov. Fu allora che la stampa italiana individuò con maggiore decisione l’inquietante presenza dei «colpevoli di connivenza con la Germania» tra gli agitatori «leninisti», e a legare con tono sempre più insistente il ritorno in patria del leader dei «bolsceviki» e la capacità operativa del partito a «rapporti […] col nemico»9 .

Da questo punto di vista si erano rivelati precoci i fogli dell’interventismo radicale, come “Il Popolo d’Italia” di Benito Mussolini, per il quale il confronto coi fatti tanto del febbraio quanto dell’ottobre 1917 fu innanzi tutto l’opportunità di chiarire i termini d’un ormai irreversibile antisocialismo. Dopo aver «salutato con ammirazione devota e commossa», ancora ai primi di luglio del 1917, «le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l’insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all’assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate», simbolo dell’assenza di «soluzione di continuità tra le barricate e le trincee» e della profonda coscienza del «contadino russo, che aveva abbandonato le trincee […] per prendere possesso una volta per sempre della terra» comprendendo però «che la pace separata sarebbe stata un tradimento»10, l’energico polemista si trovò nel giro di poche settimane di fronte al possibile trionfo, a causa dell’abilità e della spregiudicatezza di Lenin nello strumentalizzarle, delle tendenze «pacifondaie»11 recuperate di peso dalle esperienze dell’antibellicismo socialista del 19141512. Quando, a settembre, le notizie da Pietrogrado confermarono una difficoltà ormai irreversibile della compagine statale a reggere l’urto dei conflitti interni, anche il “Popo-

8 Luigi Barzini, La verità sulla Russia, “Corriere della sera”, 12 marzo 1917.

9 L’energico atteggiamento del governo russo contro i colpevoli di connivenza con la Germania, ibid., 23 luglio 1917. 10 Benito Mussolini, Bandiere rosse, “Il Popolo d’Italia”, 5 luglio 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 9, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1952, pp. 26-27. 11 I primi ammonimenti sul pericolo dell’orientamento al rifiuto della guerra da parte del movimento leninista si trovavano sul “Popolo d’Italia” dal maggio 1917: cfr. gli scritti raccolti ibid., Vol. 8, pp. 277 sg. 12 Sul punto cfr. Benito Mussolini, Il tramonto di Zimmerwald, “Il Popolo d’Italia”, 7 luglio 1917, ora ibid., Vol. 9, pp. 29-32.

lo d’Italia” guardò con apprensione al «processo di disgregazione» che «la propaganda e l’azione dei leninisti» avevano accelerato di fronte ai «rivoluzionari troppo comizianti di Pietrogrado», capaci di rimettere in discussione nel momento peggiore un ordine statale senza saperne imporre un altro con adeguata decisione13 e quindi di privare l’Intesa tutta dell’argine agli Imperi centrali verso oriente. L’area cattolica, dal canto suo, giungeva in alcune delle sue voci più influenti a una condanna degli eventi russi non meno severa di quella circolante nel mainstream interventista, ma si rifaceva a un quadro concettuale diverso. Fin dallo scoppio delle ostilità le gerarchie ecclesiastiche avevano espresso un rifiuto della soluzione bellica ancorato alla tradizionale interpretazione intransigente della modernità politica e sociale come ineluttabile genealogia di errori causata dall’allontanamento degli uomini da Dio, in base alla quale la catastrofe della guerra era l’ineluttabile conclusione del progressivo diffondersi dell’“apostasia” nella società europea rappresentata dalla messa in discussione della tradizionale autorità delle gerarchie e dell’ordine sociale consolidato attraverso la promozione del liberalismo politico e dell’“esasperata” libertà di coscienza14 .

Gli eventi che avevano condotto alla caduta dello zar, autocrate non amato per la sua ostilità al cattolicesimo ma comunque considerato legittimo sovrano del proprio paese, non erano che la conferma del carattere distruttivo del «laicismo» politico che sostituiva a un ordine pur bisognoso di correttivi l’anarchia dettata dall’assenza di un affidabile punto di riferimento. Così si esprimeva, in particolare, un editoriale della redazione della “Civiltà cattolica”, il foglio della Compagnia di Gesù che era diventato uno dei centri di elaborazione del giudizio cattolico sulla guerra, tanto da finire spesso nelle mire della censura bellica del governo italiano per alcune prese di posizione considerate lesive dell’interesse del paese15:

Spodestato un potentissimo despota, il più temuto d’Europa, e fino a ieri riverito come legittimo imperante, anzi esaltato a cielo da quelli stessi che oggi lo conculcano; trascinato dal trono alla prigione […]; insediato un nuovo governo, o piuttosto data a sperare una forma nuova di democrazia e di repubblica, conforme ai gusti del popolo; ma il popolo stesso travagliato dalla fame, esasperato dagli stenti della lunga guerra, travolto alla parte [sic] di un’astuta, prepotente minoranza […]; infine soffocata l’opposizione e la lotta nel sangue […]. Pare un segno16 .

Il commento, redatto nell’aprile 1917, conteneva anche un riferimento destinato poi ad essere considerato quasi profetico, poiché prefigurava l’ineluttabile passaggio dal rifiuto rivoluzionario dell’ordine tradizionale in nome dei diritti individuali al rifiuto dei valori di pacifica cooperazione tra le classi e di rispetto della proprietà privata che caratterizzava l’atteggiamento socialista: «Così i ‘proletari di tutto il mondo’ tirano le conseguenze dei

13 Benito Mussolini, La lezione russa, “Il Popolo d’Italia”, 10 settembre 1917, ibid., p. 176. 14 Cfr., in generale, Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008; nonché i recenti Daniele Menozzi (a cura di), La Chiesa italiana nella Grande Guerra, Morcelliana, Brescia 2015 e Sante Lesti, Riti di guerra. Religione e politica nell’Europa della grande guerra, il Mulino, Bologna 2015. 15 Cfr. Eva Del Soldato, Le molte guerre di padre Enrico Rosa. Gli articoli censurati della “Civiltà cattolica” durante la grande guerra, “Storia e problemi contemporanei”, n. 42 2006, pp. 37-59. 16 Il trionfo della rivoluzione sulla guerra, “La Civiltà cattolica”, 13 aprile 1917, p. 130.

principii che il liberalismo, e specialmente il laicismo massonico, ha insegnato da oltre un secolo al mondo»17 .

In altri termini, sul piano pratico, la rivoluzione di Febbraio appariva agli occhi degli scriptores alla stregua d’una «congiura di palazzo», e quella d’Ottobre il colpo di mano d’una minoranza organizzata che traeva origine e trovava ispirazione nel blocco socio-culturale massonico-ebraico destinato ad avvantaggiarsi dal completamento del declino morale e istituzionale della cristianità18. Ma anche sul piano della dottrina l’esito della stagione rivoluzionaria di Mosca e Pietrogrado appariva prevedibile secondo schemi precostituiti, che le presunte “aperture” condotte nei decenni precedenti dai vertici ecclesiastici al mondo moderno non avevano rivisto. Il socialismo – condannato già da Pio IX come degenerazione dell’“odio contro Dio” propugnato dal laicismo massonico, che si ritorceva contro la borghesia miscredente liberando le forze delle classi oppresse dalla deferenza dovuta alle autorità civili e spirituali – era divenuto per il suo successore Leone XIII il pungolo per un rinnovato attivismo associativo in vista della soluzione della “questione operaia”, che comunque consisteva nella riaffermazione dell’autorità della Chiesa nella composizione dei conflitti sociali secondo i propri orientamenti di giustizia e cooperazione della comunità dei fedeli19. Nell’interpretazione che “La Civiltà cattolica” offriva al mondo confessionale alla luce del riduzionismo intransigente dominante nella dottrina ecclesiastica, gli eventi del 1917 si presentavano come il precipitare delle previsioni di apocalisse sociale a lungo preannunciate, e la vittoria bolscevica dell’Ottobre appariva la conseguenza del ripudio dei legittimi principii di autorità che avevano sprofondato l’Europa nella distruzione.

Il nemico in casa: il bolscevismo e l’Italia di Caporetto

Appena installati al potere, Lenin e Trotzki […] affermavano di voler costringere i tedeschi a badare ai casi loro e di voler liberare dalla tirannide borghese, per solo effetto della loro energia rivoluzionaria, non solo il proletariato germanico ma quello di tutta l’Intesa […]. Trotzki si presentò a Brest-Litowsk con aria di fiero antagonista e parlò forte. Il militarismo tedesco si affrettò a dargli sulla voce e gli fece perdere a poco a poco la petulanza iniziale. Le trattative finirono in una ritirata – un’altra ritirata – russa20 .

Con parole come queste il “Corriere della sera” commentava il cedimento del governo leninista alla pace separata fissando un nesso interpretativo fondamentale, quello tra astratta velleità rivoluzionaria e disfatta militare causata proprio dall’impegno in rivendicazioni sociali irrealistiche, secondo uno stilema destinato a riemergere ogni volta

17 Ibid., p. 129. 18 Per ulteriori spunti su questa tematizzazione cfr. Giorgio Petracchi, I gesuiti e il comunismo tra le due guerre, “Nuova storia contemporanea”, n. 1 2004, pp. 15-20. Per quanto riguarda l’“onda lunga” nel confessionalismo cattolico, cfr. ancora Ruggero Taradel-Barbara Raggi, La segregazione amichevole. “La Civiltà cattolica” e la questione ebraica, 1850-1945, Editori Riuniti, Roma 1990. 19 Per un primo orientamento su un tema così complesso rinvio a Piero Barucci-Antonio Magliulo, L’insegnamento economico e sociale della Chiesa, 1891-1991, Mondadori, Milano 1996 e a Giorgio Campanini, La dottrina sociale della Chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, EDB, Bologna 2007. 20 Umiltà bolscevica, “Corriere della sera”, 21 febbraio 1918.

che si rimarcava lo stridente contrasto tra le promesse di palingenesi rivoluzionaria e il destino sospeso del popolo russo tra una guerra non più combattuta e una pace di fatto irraggiungibile.

Con questo spunto si incontrava e si confondeva, quasi sottintendendola, l’accusa ben più diretta lanciata quasi contemporaneamente coi fatti dell’Ottobre da Mussolini: «Non v’è dubbio che il movimento massimalista a Pietrogrado è inspirato, sovvenzionato, armato dalla Germania. Non v’è dubbio che la Germania difenderà con tutti i mezzi il colpo di Stato di Lenin»21. L’idea che i bolscevichi russi fossero in primo luogo «i migliori amici dei nostri nemici»22 e quindi, in ultima analisi, combattessero sul fronte avversario della guerra, era del resto rafforzata dal fatto che il loro “tradimento” sul piano bellico, ovvero l’apice degli eventi rivoluzionari dell’Ottobre, si verificasse a pochi giorni di distanza da Caporetto.

Il dramma del momento contribuì da un lato a rendere la circolazione delle notizie dalla Russia ancora più frammentaria, visto che la presenza di priorità ben maggiori nell’agenda giornalistica fece passare in secondo piano l’ottobre bolscevico almeno fino ai primi mesi del 1918; dall’altro a leggere i fatti russi sempre più direttamente secondo il filtro del dibattito politico interno. Quando però la situazione si stabilizzò, da più parti si poterono tirare le somme degli spunti, prima confusi ed episodici, legati al côté nostrano della polemica sull’eversione bolscevica in Russia. Il tema della portata universale della sovversione rivoluzionaria di matrice socialista si saldava con quello della presenza di un movimento socialista italiano entusiasta per la lotta d’emancipazione del popolo russo, e si fondeva con una ormai consueta critica al pacifismo “disfattista” della cultura socialista italiana ulteriormente rimarcata e aggravata dal criminale “tradimento” dei loro omologhi russi.

Sul punto, ancora una volta, l’opinione pubblica interventista più decisa giocò un ruolo di recupero immediato di stilemi polemici espressi più cautamente sulla grande stampa. Già ad agosto, Mussolini aveva commentato la visita italiana dei rappresentanti dei soviet condannando duramente le reazioni entusiastiche del PSI, a suo dire scopertosi definitivamente, con l’inneggiare dei suoi militanti a Lenin, fiancheggiatore dei bolscevichi e del loro attentato all’integrità statale della Russia in guerra. L’unica solidarietà di cui la Russia aveva bisogno era «la salvatrice solidarietà dei cannoni», che poteva essere assicurata dai soldati sul Carso, non certo da un «Partito che», nelle sue manifestazioni italiana e russa, «unico e solo al mondo si era posto ‘contro’ la Nazione, cioè dalla parte del nemico, cioè dalla parte del Kaiser, cioè dalla parte degli aggressori, dei predoni, dei criminali»23. Su questa base, pochi mesi più tardi, il “Popolo d’Italia” individuò nel proprio idolo polemico interno, il neutralismo socialista, la riproposizione d’una precisa strategia d’indebolimento del fronte interno attraverso il miraggio della sovversione sociale. Di fronte alle prese di posizione del Presidente del Consiglio Orlando rispetto alla necessità per i socialisti di compiere una precisa scelta di campo nazionale in vista del pericolo supremo, il direttore del principale organo di stampa dell’interventismo più estremista rincarò la dose, rimar-

21 Benito Mussolini, Avanti, il Mikado!, “Il Popolo d’Italia”, 11 novembre 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 10, cit., p. 42. 22 Sidney Sonnino all’ambasciatore James Rennel Rodd, 31 dicembre 1917, in Sidney Sonnino, Carteggio 1916-1922, a cura di Pietro Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 357. 23 Benito Mussolini, Impudenza e mistificazione, “Il Popolo d’Italia”, 13 agosto 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 9, cit., pp. 109-112.

cando che «colpi obliqui e criminosi dei Lenin italiani» erano la principale causa di Caporetto, che non avrebbe avuto «un bis» soltanto se il governo avesse accettato fino alle ultime conseguenze il fatto che i «leninisti nostrani […] erano nemici, e nemici infinitamente peggiori di quelli che segnano il passo da oltre un mese fra Brenta e Piave»24 . In questo attacco diretto al “bolscevismo di casa” di fronte all’Ottobre e ai suoi effetti, l’opinione pubblica interventista seguiva per certi versi un solco che le gerarchie cattoliche, dal loro giudizio di partenza nettamente negativo per gli esiti più drammatici della guerra, avevano già individuato nella primavera del 1917. Gli scriptores della “Civiltà cattolica” condannarono infatti presto i «lirici encomiatori» della rivoluzione di Febbraio e delle sue conseguenze che subito apparivano in realtà atroci vista l’anarchia di fatto a cui l’abbandono dei principii di soggezione all’ordine naturale della società necessariamente aveva condotto. Nel plauso pressoché universale per la rivoluzione russa si trovava «la consacrazione del principio, una giustificazione cioè della rivoluzione medesima […], una invocazione anzi di altri simili rivolgimenti per altri paesi»; e se l’accoglienza positiva dei fatti di febbraio e marzo era «universale» e riguardava personale di ogni tendenza politica e finanche cattolici, chi poteva trarne il massimo vantaggio, e non a caso si faceva massimo cantore degli eventi russi in Italia, era la cultura socialista, rivoluzionaria per definizione e quindi destinata a trarre dalla nuova passione per la sovversione universale la propria definitiva legittimazione ad esistere e ad operare contro i fondamenti stessi dell’ordine civile. E così, se i «vecchi liberali» vagheggiavano un esito non dissimile dalla «vecchia ‘rivoluzione borghese’», ovvero dalla «repubblica massonica» che si celava dietro le fila dell’interventismo democratico, i socialisti italiani sembravano ben più pronti a cogliere gli effetti ineluttabili della china rivoluzionaria in «tutta una radicale trasformazione dell’ordinamento sociale, conforme all’intento del socialismo, del comunismo, dell’anarchismo internazionale»25. Così come l’ascesa bolscevica in Russia, nei mesi successivi del 1917 e nell’anno seguente l’immediato consenso riscontrato tra le masse socialiste e operaie italiane ed europee per tali eventi poté essere letto in sede cattolica come l’avveramento di prospettive consolidate, pur restando ancora la discriminante della tendenza ad accomunare condanna delle pulsioni rivoluzionarie e condanna della partecipazione all’evento bellico che, frutto della scossa all’ordine del mondo, le aveva provocate. All’avvicinarsi della chiusura delle ostilità simili distinzioni si dimostrarono sempre più labili.

Disagio interno e suggestioni dal mondo

Dal 1919, l’opinione pubblica italiana ostile all’esperimento portato avanti dal governo di Lenin dovette confrontarsi con tre spunti fondamentali: la permanenza di un regime di cui si era prevista la rapida implosione a seguito degli attacchi concentrici dell’intervento alleato su suolo russo e poi del prosieguo della guerra civile, e la sua capacità di esprimere un indirizzo politico e ideologico sempre più netto; il presentarsi in vari paesi dell’Europa centrale e centro-orientale di focolai rivoluzionari ispirati alle vicende dell’ex impero

24 Benito Mussolini, Ciò che abbiamo ottenuto, “Il Popolo d’Italia”, 25 dicembre 1917, ora ibid., Vol. 10, cit., pp. 167-168. 25 Il fatto della rivoluzione e la logica dei rivoluzionari, “La Civiltà cattolica”, 10 maggio 1917, pp. 358-371.

zarista, che rendevano ancora più pericolosa la minaccia di un’espansione dei modelli di governo bolscevichi al di fuori dei confini a cui la guerra li aveva limitati; il crescere, nell’Italia del “biennio rosso”, dell’entusiasmo per l’esperimento rivoluzionario bolscevico da parte delle masse socialiste, destinato ad esprimersi non solo e non tanto nei pur gravi – per quanto non coordinati se non a livello locale – episodi insurrezionali, quanto soprattutto alle elezioni politiche. Particolare interesse destava una verifica dell’effettiva capacità del governo bolscevico di procedere a una riorganizzazione concreta della vita produttiva secondo le basi collettiviste impostate sul piano teorico dal passaggio rivoluzionario della “dittatura del proletariato”, prevista nelle forme più rigide e massimaliste della “volgarizzazione” del pensiero politico e sociale marxista26. Nel gennaio 1919, poche settimane dopo il ritorno della pace nell’Europa occidentale, Luigi Einaudi proponeva un giudizio su I primi risultati dell’esperimento comunista russo27, riallacciandosi alle valutazioni che aveva già espresso giusto un anno prima sulla possibilità che il crollo dell’amministrazione statale seguita alla presa del potere dei bolscevichi provocasse un’interruzione dell’esazione fiscale ordinaria e un blocco delle attività produttive dovuta al timore di confische eccezionali, col risultato del rapido svuotamento delle casse pubbliche e di «sempre più spaventevoli […] disorganizzazione e […] carestia […] provocat[e] dall’insipienza di visionari improvvisatisi uomini di Stato»28. Dopo dodici mesi, le notizie che filtravano lasciavano pochi dubbi in primo luogo sul fatto che, al primo serio esperimento di applicazione alla vita produttiva contemporanea, il socialismo avesse dimostrato tutta l’ingenua carica utopica che l’opinione politico-economica liberale paventava29 .

Di fronte a un evidente scollamento dal controllo del governo centrale delle realtà agricole periferiche, nelle quali il vuoto di autorità causato dai continui mutamenti di fronte della guerra civile stava favorendo soprattutto il passaggio del possesso della terra signorile a individui e famiglie senza effettivi controlli, allo stallo della produzione manifatturiera dovuto all’opera di nazionalizzazione accelerata dalle esigenze militari del nuovo governo, e alla conseguente inflazione generata dal combinato disposto della cattiva circolazione dei prodotti in commercio e dal fatto che «la macchina per stampare biglietti continuava ad essere la principale fonte di entrata del governo comunista», lo studioso torinese non esitava a confermare i propri giudizi. In primo luogo, «il nuovo esperimento finora non ha scosso le conclusioni a cui la scienza economica era stata tratta dallo studio dei molti altri esperimenti di comunismo conosciuti nella storia; essere quel sistema uno strumento assai più imperfetto di produzione e di ripartizione della ricchezza dei sistemi rivali, a cui esso pretende di sostituirsi. Produce meno, funziona con maggiori attriti, distribuisce peggio la ricchezza». Di conseguenza, la difesa dei pur imperfetti assetti acquisiti dalle società evolute, e la loro lenta riforma dovevano essere promossi come valori condivisi di fronte al fallimentare modello russo: «Neppure il sistema economico vigente nell’Europa

26 Su questo percorso cfr. Franco Andreucci, Il marxismo collettivo. Socialismo, marxismo e circolazione delle idee dalla Seconda alla Terza Internazionale, Franco Angeli, Milano 1986. 27 “Corriere della sera”, 26 gennaio 1919. 28 Luigi Einaudi, L’esperimento russo, ibid., 12 gennaio 1918. 29 Per ulteriori spunti sul giudizio generale sull’economia collettivista maturato nei primi anni del Novecento da Einaudi, rinvio a Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, Introduzione di Paolo Spriano, Einaudi, Torino 1972.

occidentale è perfetto. […] Ma […] fa d’uopo non rompere il meccanismo, che fu costrutto con sforzi di secoli e la cui scomparsa ci piomberebbe di nuovo per secoli nella barbarie e nella miseria»30 .

L’editorialista continuò a seguire i fatti russi, giungendo non solo a confermare l’inefficienza – sul piano della soddisfazione del fabbisogno collettivo essenziale e della creazione e distribuzione delle risorse necessarie alla sopravvivenza – della «soppressione di un sistema» produttivo «funzionante e la sua sostituzione con un altro, non sperimentato, non cresciuto a poco a poco e dimostratosi vitale nei fatti e non nelle chiacchiere»31 , ma anche a trovare nella rigidità ideologica dell’esperimento leninista la radice dell’avveramento di altri timori.

Da un lato «leggendo le fredde, inesorabili, rettilinee dimostrazioni di Lenin della necessità della dittatura proletaria, dell’abolizione della libertà di stampa, della distruzione delle classi non proletarie, della eliminazione di chiunque non pensi e non viva così come pensano e vivono i puri apostoli della società comunista»32, si comprendeva come l’atteggiamento di violenta imposizione delle direttive dei vertici del nuovo governo, con lo smantellamento degli embrioni di direzione consiliare dal basso e la reazione violenta contro ogni forma d’insubordinazione, non rappresentassero semplicemente un adeguamento delle utopie emancipatrici del socialismo tradizionale alla dura realtà, ma fossero insite nella prassi rivoluzionaria. Dall’altro, l’approccio sanguinario con cui il regime bolscevico si era imposto e stava difendendo le sue posizioni – nell’ambito d’una tensione destinata a travalicare i propri confini a causa del coinvolgimento della Polonia in un conflitto armato e del manifestarsi di focolai rivoluzionari nella difficile transizione di alcuni paesi sconfitti, dalla Germania all’Ungheria – palesava agli occhi di Einaudi la preoccupante tendenza dottrinaria dei dirigenti comunisti a legittimare l’impegno militare e a ricorrervi incontrando meno ostacoli che in una società caratterizzata da un’impronta culturale individualistica. Il carattere di «fede» insito nella convinzione delle proprietà purificatrici dell’applicazione forzata delle teorie collettivistiche, e la natura centralizzatrice della direzione della vita produttiva che, una volta messa a punto, poteva facilmente essere orientata a imprese di guerra, rendevano il nuovo governo russo una forza aggressiva, che avrebbe guardato presto alla possibilità d’espandere l’influenza del proprio credo nel mondo33 .

Su queste basi, sul “Corriere della sera” l’economista di Carrù si impegnò di fronte alle elezioni del 1919 e poi del 1921 in una campagna di opposizione ai vertici del partito socialista e poi anche del partito comunista, ovvero di coloro che anch’egli definì presto «Lenin d’Italia», e che si illudevano di trovare nell’acritica ammirazione per le realizzazioni del collettivismo sovietico strumenti innovativi di gestione economica, limitandosi nel migliore dei casi a pretendere di dare valore permanente agli strumenti di controllo politico della scienza economica consolidatisi in tutti i paesi europei durante la guerra. E come il «grande commissariato dell’economia nazionale» attivo «nella Russia di Lenin […] aveva

30 I primi risultati dell’esperimento comunista russo, cit. 31 Le confessioni del commissario Rykow, “Corriere della sera”, 19 ottobre 1920. 32 La guerra tra i due ideali continua, ibid., 23 giugno 1920. 33 Cfr. La dottrina comunista e non quella liberale conduce alla guerra, ibid., 19 agosto 1920: «Garanzie assolute contro le guerre non esistono; ma è certamente tanto più difficile che una guerra scoppi quanto meno il governo domina la vita dei cittadini, quanto meno esso ha normalmente il diritto di regolarne le occupazioni».

ingoiato i miliardi a centinaia e li aveva restituiti ad unità»34, così tali ingerenze indebite nella libera impresa si erano rivelate da tempo strumenti di dominio del potere statale a scapito dell’efficienza sociale dai quali era necessario rifuggire35 .

Questo quadro interpretativo prodotto dalle punte più avanzate della pubblicistica, nutrito di una riflessione sulle dinamiche socio-economiche contemporanee, faceva da sfondo a cronache destinate a comporre un’immagine della situazione russa e dei suoi riflessi sulla politica interna meno criticamente argomentata ma decisamente più incisiva sul piano dell’immaginario collettivo. Le cronache di guerra avevano seguito fin dall’agosto 1918, per circa un anno, la spedizione dell’Intesa ad Arcangelsk e le manovre in Asia orientale, lasciando presumere che fossero prodromi d’un coinvolgimento in una reazione in grande stile al successo bolscevico, destinato poi a non aver luogo a causa dell’esaurimento di tale operazione di sostegno con la fine delle ostilità sui maggiori teatri europei36. L’apertura di simili canali informativi fu comunque decisiva per alimentare un orientamento di ostilità nella produzione delle notizie da Est destinato a perdurare negli anni successivi.

Il tema delle «origini tedesche del bolscevismo russo» riapparve ciclicamente durante le conferenze di pace, al punto che anche le agitazioni che infiammarono l’Europa – come la sollevazione spartachista, che ebbe luogo proprio in Germania – furono a più riprese etichettate come tentativi tedeschi di agitare le acque con lo spauracchio della rivoluzione sociale, in vista della contrattazione d’una pace più morbida che garantisse al governo la forza e la legittimità necessaria per rispondervi37 .

Ciononostante, sia le pagine di cronaca della grande stampa d’informazione sia quelle dei fogli cattolici a maggiore diffusione raccolsero le informazioni sulle disastrose conseguenze della guerra civile e sul “terrore rosso” conosciuto nei mesi di pressione dell’Armata Rossa in Polonia e nelle zone dell’Europa centro-orientale interessate da tentativi di sollevazione filobolscevica, rifacendosi innanzi tutto alle corrispondenze rilasciate per la stampa europea da profughi e fuorusciti “bianchi” della guerra civile e da testimoni interessati delle fallite insurrezioni rivoluzionarie filobolsceviche. Le immagini delle popolazioni urbane e rurali decimate dalle epidemie di vaiolo e di tifo, le scene delle carestie provocate dalle requisizioni coatte destinate ad alimentare uno sforzo bellico a cui le popolazioni contadine si sentivano del tutto estranee, i racconti di terrore dei reduci delle devastazioni delle campagne oltre il confine polacco comunque – e fortunatamente, nell’ottica di chi scriveva – prontamente rintuzzate, assimilavano per larghi tratti le cronache della stampa laica, come quelle preparate per il “Corriere della sera” dall’ex reporter di trincea Arnaldo Fraccaroli nel corso del suo viaggio nell’Ungheria che stava faticosamente uscen-

34 Il delirio del comando è la corsa alla rovina, ibid., 26 dicembre 1919. 35 Per una contestualizzazione della battaglia culturale di Einaudi sul valore politico eminentemente progressivo della libertà economica e sulla minaccia autoritaria rappresentata dall’eccessivo impegno pubblico nella gestione delle risorse economiche, il riferimento resta Roberto Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Un giudizio di Luigi Einaudi, saggio del 1981 ora disponibile in volume (Rubbettino, Soveria Mannelli 2011). 36 Sul punto resta valida la ricostruzione di Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche, 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, specie pp. 57-146. 37 Tra gli altri riferimenti, vedi L’origine tedesca del bolscevismo russo, “Corriere della sera”, 3 febbraio 1919.

do dalla sollevazione di Béla Kun tra la tarda primavera e l’estate del 191938, e la Cronaca contemporanea della “Civiltà cattolica”39 .

L’impasto di gallerie descrittive e di giudizi, pur non rinunciando a lasciar trasparire aspetti di tradizionale condanna pregiudiziale dei leader rivoluzionari come il recupero della comune origine ebraica di molti esponenti di spicco del bolscevismo europeo, da Trockij a Béla Kun, si concentrava soprattutto sul tentativo di muovere a commozione l’opinione pubblica attraverso quel patetismo frammisto a disumanizzazione dei comportamenti attribuiti al nemico, sfociato nel tempo, attraverso l’alimento del ricordo delle tragedie della fame e delle aberrazioni della guerra civile, nel luogo comune dei comunisti “mangiatori di bambini”40 .

L’incontro d’immagini e di giudizi in diversi settori dell’opinione pubblica si dovette anche al comune riferimento alle più attive agenzie di stampa per la raccolta dei materiali internazionali. In particolare, per quanto riguarda il caso italiano, gli uffici giornalistici animati da monsignor Umberto Benigni, l’Agenzia Internazionale Roma (AIR), poi Urbs, ebbe contatti con l’aristocrazia russa riparata in Occidente e coi pretendenti al trono dello zar41. Mettendo in circolazione notizie a chiaro orientamento ostile al governo bolscevico, il prelato cercò di portare avanti una duplice operazione. Da un lato egli cercò di riprendere le proprie posizioni dopo che l’ascesa al soglio di Pietro di Della Chiesa aveva parzialmente emarginato il sodalizio di attiva battaglia antimodernista che egli aveva contribuito a costituire, trovando nell’opposizione al comunismo un forte canale per la riaffermazione del primato assoluto del magistero ecclesiastico sull’errore del secolo, in una implicita contrapposizione all’impegno eminentemente umanitario promosso nell’immediato dalla Curia42, e finendo per orientare l’opinione di diversi organi di stampa confessionali. D’altro canto, la disponibilità di fonti internazionali di prima mano consentì all’operazione di Benigni di travalicare i confini dell’opinione pubblica cattolica, gettando almeno in parte le basi per quella condivisione della condanna del comunismo attraverso la quale gli am-

38 Cfr. in particolare i suoi La mascherata funebre del comunismo ungherese, ibid., 7 maggio 1919; Com’è brutto il paradiso! Nell’Ungheria dei bolscevichi, ibid., 30 maggio 1919 e Documenti di orrore del bolscevismo ungherese, ibid., 21 settembre 1919. 39 Tra l’altro, il quindicinale della Compagnia di Gesù ebbe la possibilità di offrire in esclusiva ai lettori tra il novembre e il dicembre 1920 una cronaca, suddivisa in tre fascicoli, dell’occupazione bolscevica della città di Winnitza, da poco liberata dalle truppe polacche: cfr. Cinque mesi sotto il giogo dei bolscevichi, “La Civiltà cattolica”, 13 novembre 1920, pp. 379-384; ibid., 27 novembre 1920, pp. 477-480; ibid., 12 dicembre 1920, pp. 564-568. 40 Il riferimento più completo è Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, il Mulino, Bologna 2013. 41 Nella letteratura sul ruolo di Benigni dalla battaglia antimodernista al primo dopoguerra, si veda ancora, per l’efficacia dell’analisi biografica di lungo periodo e per l’attenzione dedicata alla sua attività in ambito giornalistico, Émile Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme. Le mouvement catholique de Mgr Benigni de la naissance du socialisme à la victoire du fascisme, Casterman, Paris 1977. 42 Sulle missioni umanitarie nell’Ucraina e nelle aree della Russia europea più colpite da guerra e carestie, continuate per buona parte negli anni Venti fino all’espulsione da parte del governo sovietico, e destinate anche a rivitalizzare il culto cattolico e raccogliere informazioni, il riferimento migliore resta Antoine Wenger, Rome et Moscou. 1900-1950, Desclée De Brouwer, Paris 1987.

bienti vaticani cercarono di superare il pericolo dell’isolamento di fronte alla ricostituzione dell’ordine internazionale dopo la Grande Guerra43 .

L’emergere di un antibolscevismo “militante”

Lette attraverso il filtro di questo quadro interpretativo generale, le agitazioni popolari che si animavano attorno a un partito socialista sempre più affascinato dalla vittoria bolscevica – al punto da finire per emarginare le voci critiche dell’esilio russo in Italia con cui da tempo i suoi leader erano in contatto44 – si configuravano sempre più come attacchi da parte di agitatori organizzati con sostegno esterno nei confronti dell’ordine sociale e politico nazionale45. Sul piano del discorso e dei processi d’identificazione politica, simili impressioni si strutturarono attorno alle suggestioni per la chiamata alla difesa della patria che avevano caratterizzato la mobilitazione bellica, in un gioco di rimandi in cui ogni tratto dell’attentato bolscevico ai valori culturali e ai modi di produzione consolidati si riassumeva in un attentato alla comunità nazionale italiana ritrovatasi riunita e stretta attorno all’ideale della propria affermazione in occasione della Grande Guerra vittoriosa.

Sintomatiche, da questo punto di vista, sono le vicende dei tentativi di costituire nelle principali città italiane i nuclei di una Unione Popolare Antibolscevica. Sorta inizialmente a Milano tra il marzo e l’aprile 1919 con l’obiettivo di consolidare la propria presenza in tutte le province italiane, l’associazione rappresentò l’esperienza se non di maggior successo, quanto meno di più ampia diffusione e durata d’una galassia di “leghe” e “fasci” di borghesi e combattenti sorti tra l’anno successivo alla fine della Grande Guerra e il 1920 per rispondere alle crescenti agitazioni “rosse”46 . L’Unione si presentava come estranea a fini di parte: «Cittadino! Hai un partito? Non ti chiediamo quale sia. Sei un buon italiano? Ci basta», apriva i proclami uno dei primi volantini stampati dall’Unione47. Il fatto di essere «costituita fra quegli elementi del generoso popolo italiano […] al di sopra e all’infuori di qualsiasi partito od associazione» e con un afflato finanche riformatore, dal momento che sorgeva con l’obiettivo di «allontanare dall’Italia […] il pericolo di una rivoluzione, la quale ritardi e comprometta la pronta realiz-

43 Sul punto, cfr. Giuliana Chamedes, The Vatican and the Reshaping of the European International Order after the First World War, “The Historical Journal”, n. 4 2013, pp. 955-976. 44 È questa la tesi di Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979. 45 Per ulteriori specificazioni sul diffondersi – anche tra le autorità preposte alla pubblica sicurezza – del timore per agitazioni dirette da agenti stranieri, oltre a Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria… cit., pp. 160 sg., cfr. Valentine Lomellini, La “grande paura” rossa. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Franco Angeli, Milano 2015. 46 Per ulteriori specificazioni, cfr. la ricognizione documentaria di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma. Vol. I, il Mulino, Bologna 1991 (1967), pp. 359-366, e Marco Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 61-71. 47 Volantino dell’Unione Popolare Antibolscevica, Milano, s.d., ACS, MI, DGPS, Div. AA.GG.RR., 1920, b. 77, fasc. Unione popolare antibolscevica (ringrazio Giorgio Petracchi per la segnalazione dei documenti).

zazione delle giuste aspirazioni sociali»48, venne ribadito all’apertura delle principali sezioni locali dell’associazione. Tuttavia, una rapida ricognizione prosopografica dell’estrazione dei suoi dirigenti non lascia dubbi su una sua collocazione tra il combattentismo dei reduci e il nazionalismo orientato alla “difesa della vittoria” dai colpi di coda del “disfattismo” interno e internazionale. Se a Firenze, all’apertura della locale sezione dell’Unione nell’aprile 1919, l’oratore di turno «affermò la necessità che il Governo impedisca, ad ogni modo, la propalazione del bolscevismo» solo «dopo aver trattato la questione della Dalmazia, soffermandosi principalmente sull’italianità di Fiume»49, e se i termini di adesione all’istituzione giunti allora all’attenzione del Prefetto di Bologna non lasciavano dubbi sulla natura della mobilitazione – «Aderite: 1° ad opporvi come cittadino e soldato con tutta la vostra energia a qualsiasi moto rivoluzionario che in questo momento minaccerebbe le sorti della Patria? 2° a prendere netta posizione di combattimento al primo appello che vi sarà lanciato? 3° a trovarsi fusi in una forza, prescindendo da qualsiasi considerazione di partito, e a nominare, al momento opportuno, i capi che dovranno guidarvi nel momento?»50 – fu soprattutto verso la fine di quello stesso anno, in occasione della nascita della sezione romana, che si poterono chiarire alcune afferenze ideali dei componenti.

Nella capitale, l’associazione «era presieduta dall’Ing. Comm. Annibale Sprega, Consigliere Comunale» e guidata in consiglio direttivo da altri esponenti politici locali come Paolo Orlando, Ausonio Levi, Arcangelo Capuano ed Edoardo Pignalosa51, figure riconducibili da un lato alla direzione degli enti di pubblico servizio attivi nel Comune, dall’altro a quel mondo di rivendicazioni di combattenti e irredentisti insoddisfatti dagli esiti della pace sul confine orientale. L’azione dei volontari dell’associazione, non casualmente, si espresse soprattutto nella sostituzione degli addetti ai servizi postali e di trasporto pubblico in occasione degli scioperi promossi dai gruppi politici e sindacali d’ispirazione socialista52, nell’ambito d’un servizio alla collettività che veniva interpretato senza mezzi termini in continuità con l’opposizione «a tutte le correnti antisociali e antipatriottiche» e al tentativo di disinnescare il pericolo dei «partiti rivoluzionari, che incitavano le masse al sovvertimento dei valori nazionali»53, fino all’emergere di alcuni episodi di violenza

48 Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, ivi. 49 Prefetto di Firenze al Ministero dell’Interno, 21 aprile 1919, ivi. 50 Prefetto di Bologna al Ministero dell’Interno, 25 aprile 1919, ivi. 51 Prefetto di Roma al Ministero dell’Interno, 12 maggio 1920, relazione su Lega antibolscevica – Interrogazione on.le Monici, 11 maggio 1920, ivi. 52 Cfr. ivi: «Sia l’amministrazione ferroviaria che quella postale, si sono avvalse, in questi ultimi tempi, dell’opera volontaria dei soci, e volontari della Lega, che furono anche pubblicamente encomiati dai capi delle amministrazioni stesse e loro direttamente fornirono, d’intesa con le Autorità Militari, i mezzi (camionette e vetture automobili) per il disbrigo dei servizi affidati ai volontari postali». 53 Ivi. Cfr. inoltre il messaggio contenuto nel già citato volantino prodotto dall’Unione: «Il grido inconsulto, che già si osa lanciare per le strade, di Viva Lenin, Viva la Russia bolscevica, non deve rimanere senza pronta ed adeguata risposta. Esso, infatti, se suona atroce offesa ai nostri morti eroici, […] se conculca ed offusca le fulgide tradizioni del nostro paese e l’aureola di gloria delle antiche e recenti vittorie: infirma, del pari, il nostro prestigio nazionale ed individuale all’Estero; minaccia gravemente la pace domestica delle nostre famiglie, gli averi e il proficuo lavoro di tutti; compromette e ritarda infine le giuste rivendicazioni di ogni classe sociale».

e intimidazione nei confronti di personale politico e amministrativo vicino al partito socialista54 .

Le interrogazioni che gli esponenti del PSI in Parlamento – soprattutto il deputato ferrarese Giovanni Monici, uno dei bersagli delle azioni intimidatorie – inoltrarono nel corso del 1920 per conoscere meglio un fenomeno che iniziava a farsi preoccupante, trovarono risposte per lo più tranquillizzanti da parte dei funzionari di pubblica sicurezza, generalmente pronti a confermare la buona reputazione degli “antibolscevichi” e l’utilità delle loro attività di pubblico servizio55, e con tutta probabilità propensi a condividere i timori che avevano condotto al diffondersi di tali realtà associative per «arginare e contrastare ogni manifestazione rivoluzionaria, contrapponendo agitazione ad agitazione, mezzo a mezzo, azione ad azione» intervenendo «con ogni mezzo immediato consentito»56. Atteggiamenti come questi erano l’altra faccia della medaglia di un interessamento in qualche caso diretto di alti gradi militari ed esponenti delle forze armate per questi tentativi di «levata patriottica» delle «“forze sane” contro il pericolo rivoluzionario», visti di buon occhio soprattutto dopo l’esito, per molti sconvolgente, delle elezioni politiche del novembre 191957 .

Fu probabilmente per questa capacità di veicolare l’impegno all’attiva reazione antisocialista attraverso il riferimento alla difesa della nazione da un pericolo esterno diffusamente percepito, oltre che per l’apertura ad «integrare e rafforzare la compagine e l’opera di altri Enti, Comitati, Associazioni, Fasci etc. che mirino agli stessi scopi politici, economici e sociali»58, che questa esperienza di antibolscevismo “militante” poté anche influenzare, negli uomini e ancor più negli orientamenti, le espressioni antisocialiste d’un movimento sorto in un brodo di coltura simile, come quello dei Fasci di Combattimento. Come ha ricordato Emilio Gentile, fin dal 1919 «fu cura assidua e costante di Mussolini» accompagnare la sua operazione di recupero politico dello spirito interventista nella fondazione e nel consolidamento dei Fasci attraverso un antisocialismo che – in continuità con quanto aveva sostenuto come leader dell’opinione pubblica durante il conflitto mondiale – impiegava giudizi netti e decisi sul fallimento di «Lenin […] nella realizzazione d’una società socialista» e la presentazione «sul suo giornale [del]le voci provenienti dalla Russia che riportavano notizie sugli insuccessi, le contraddizioni, gli sbandamenti, gli orrori della politica interna sovietica», elaborando la sua nuova collocazione ideologica come un’alternativa di rivoluzione più politica che economica, capace d’innestarsi nell’alveo del capitalismo riformandolo a vantaggio di tutti i ceti produttivi e dinamici della nazione59 .

54 Per una prima ricostruzione del ruolo dell’Unione antibolscevica nei convulsi eventi della crisi del primo dopoguerra in città, cfr. Anthony Majanlahti-Amedeo Osti Guerrazzi, Roma divisa, 19191925: itinerari, storie, immagini, Il Saggiatore, Milano 2014. 55 Cfr. ancora Prefetto di Roma al Ministero dell’Interno, 12 maggio 1920, cit. 56 Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, cit. 57 Marco Mondini, La politica delle armi… cit., pp. 67-68. 58 Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, cit. 59 Cfr. Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925, il Mulino, Bologna 2011 (1975), p. 215.

Conclusioni

Anche per il caso italiano l’ostilità all’esperienza bolscevica e alla sua influenza internazionale è stata profondamente condizionata dal clima della Grande Guerra e dei suoi capisaldi discorsivi di carattere polemico e parenetico. Individuati a tutta prima, nel vario mondo dell’interventismo italiano, come strumenti consapevoli o inconsapevoli del nemico tedesco per la destabilizzazione del fronte interno delle potenze dell’Intesa, i comunisti russi furono gradualmente caratterizzati per i contenuti della loro proposta politica e per il loro comportamento nell’edificazione d’un modello rivoluzionario che, di fatto, li accomunava al movimento socialista attivo in Italia assai più della comune opzione neutralista. Soprattutto con la fine delle ostilità, e anche a fronte dei fatti sempre più tragici della guerra civile e delle conseguenze del comunismo di guerra, nell’opinione pubblica italiana emerse una vistosa condanna delle derive autoritarie, violente e inumane della direzione politica leninista e del fallimento dei tentativi di direzione collettivista e statalista della vita produttiva.

Su tali basi si poté impostare un primo incontro della pubblicistica laico-liberale con l’antibolscevismo cattolico, nutrito fin da subito dall’avversione per un conflitto armato che rappresentava la conseguenza dell’allontanamento dell’uomo da Dio, e di cui l’avverarsi delle più radicali proposte di sovversione dell’autorità e dell’ordine socio-economico “naturale” era semplicemente il risultato già annunciato dallo spirito profetico del magistero ecclesiastico. Sul piano della valutazione dell’esistente, infatti, anche da questi punti di partenza si giungeva a una netta presa di distanza dalla lotta di classe e dalla violenza rivoluzionaria, già espressa nella duratura polemica antisocialista ma ormai ancora più allarmata vista l’urgenza di opporsi a una minaccia reale e non solo teorica. Negli anni immediatamente successivi al conflitto, quindi, si dipanò rapidamente la panoplia degli argomenti di critica al comunismo che poi nei decenni successivi sarebbero stati impiegati dalle culture politiche del campo moderato e conservatore per marcare la propria assoluta alterità dal comune “nemico”60: la minaccia alla civiltà si manifestava nell’attacco ad alcuni capisaldi condivisi come la dignità, i diritti e doveri dell’individuo, il rispetto di valori morali e religiosi comuni, il sostegno alla libera iniziativa economica in vista del benessere collettivo, la difesa della nazione dall’aggressività straniera. Tuttavia, il confondersi dell’allarme bolscevico con l’impasto retorico nazional-patriottico – o

60 Oltre ad Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010 e a Franco Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia University Press, Bologna 2006, specie pp. 83-104, concentrati sul secondo dopoguerra, è disponibile una ricostruzione di più ampio respiro cronologico in Roberto Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960). Lineamenti di una storia, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di Loreto di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia, il Mulino, Bologna 2006, pp. 263-334. Intendeva presentare uno sguardo più completo su tutta la parabola storica del confronto col comunismo in Italia – pur risultando eccessivamente sintetico in alcuni passaggi – Aurelio Lepre, L’anticomunismo e l’antifascismo in Italia, il Mulino, Bologna 1997. Per ulteriori riferimenti, più generali, sul tema della delegittimazione incrociata nel dibattito pubblico italiano, cfr. infine Angelo Ventrone, Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2005 e Andrea Baravelli (a cura di), Propagande contro. Modelli di comunicazione politica nel XX secolo, Carocci, Roma 2005.

apertamente nazionalista – che accompagnò il pubblico italiano all’uscita dal primo conflitto mondiale, portò ad intrecciare strettamente le ammonizioni sul destino della società occidentale con l’allarme per l’indipendenza e la sopravvivenza della nazione italiana, e condusse l’emergente antibolscevismo “militante” ad assumere un carattere di “difesa nazionale”, destinato a diventare un’eredità di cui beneficò il primo fascismo.

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