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Conclusioni – La “grande paura rossa”. Da irrazionale panico da rivoluzione a razionale strumento di condizionamento politico »
curezza – un «agente bolscevico». La confusione sui ruoli degli esuli ed infiltrati sovietici era ai massimi livelli: le autorità, trovandosi di fronte a emissari realmente pericolosi, rappresentanti semi-ufficiali della Repubblica dei Soviet e spostati che si autocandidavano al ruolo di spia, come nel caso del Blume-Berger, non mostravano di saper discernere con sicurezza tra le varie casistiche1. La commistione tra ipotesi, falsità e realtà era evidentemente la caratteristica principale nell’ossessiva ricerca di propagandisti bolscevichi. Essa offuscava, inoltre, la rilevanza della presenza di singole personalità che costituivano un reale pericolo per il fragile equilibrio italiano dell’inizio degli anni Venti.
Questa incapacità di discernere tra le varie tipologie di propagandisti, e la tendenza a considerarli tutti – in un modo o nell’altro – dei malati di mente (altro moltiplicatore di cui parleremo a breve) indusse le autorità ad appiattire l’analisi ed a percepire un emergere incontrollato di focolai insurrezionali ad opera degli agenti stranieri. Solo nel 1921, trattando di una delle ennesime notizie relative alla presenza, in Italia, di un «comunista molto noto, residente in Svizzera», che riceveva «da Mosca 600.000 franchi svizzeri per opere di propaganda, da farsi in Francia, in Svizzera e in Italia», si mise in rilievo il fatto che non vi erano, in effetti, prove manifeste dell’intenzione dei bolscevichi di trascinare l’Italia nel vortice della rivoluzione. Ma al di là di questo frangente, ciò che emerge in modo dirompente è la cacofonia di queste voci, talvolta veritiere, talvolta immaginarie, e l’incapacità del governo di verificarle e di soppesarle. Le autorità non parevano in grado di stabilire una gerarchia di notizie: accogliendole tutte come potenzialmente vere, non era possibile fornire a ciascuna il giusto peso, e si amplificava esponenzialmente la sensazione di confusione e di potenziale sconvolgimento dell’assetto democratico del Paese in direzione comunista.
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Vi era poi un altro elemento da considerare: la fonte dalle quali le notizie provenivano. Se si tenta di generalizzare, per quanto possibile, confrontando le fonti del Ministero dell’interno, degli esteri, della guerra e
1 Un altro caso curioso fu quello di Carlo Tolomelli, anche conosciuto come il «bolscevico da Metaponto» ed arrestato per aver dichiarato ad un «ingegnere bolognese di aver preso parte al noto eccidio di Palazzo d’Accursio», e che riuscì ad eludere la sorveglianza del suo carceriere, scappando con la scusa di un malore. Cfr.: Prefettura di Bologna, riservata, Tolomelli Carlo, 15 maggio 1936-XIV, p-2; La fuga del bolscevico di Metaponto ritarda il compimento dell’istruttoria, ritaglio di giornale conservato in Archivio di Stato di Bologna (di seguito: AsB), Persone pericolose per la sicurezza dello Stato, 8476, Tolomelli Carlo, (1920 gen. 02 - 1956 mag. 02, con lacune dal 1943 al 1945).
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quelle dell’Esercito e dell’Arma dei Carabinieri, appare in modo chiaro che le notizie allarmanti (e talvolta allarmistiche) venivano nella stragrande maggioranza dei casi dal Ministero degli esteri e dalle emanazioni di questo su scala internazionale. Gli Esteri poi passavano le informazioni al Ministero dell’interno che, in genere, non operava alcuna verifica sull’esattezza delle notizie o sulla loro attendibilità, riversandole integralmente ai Prefetti e alle forze dell’ordine locali. Diversamente dai vertici, rispetto al tema delle infiltrazioni, le autorità locali (in particolare quelle dei Carabinieri) restituivano un’immagine totalmente diversa dalla fotografia scattata dalle autorità centrali. Esemplare fu il caso delle tradotte che, in seguito ad un ordine dall’alto, vennero sorvegliate giornalmente da militari travestiti da sovversivi per cogliere segnali di propaganda bolscevica. La relazione settimanale ad opera dei Carabinieri, in genere, era assolutamente tranquillizzante persino nelle zone politicamente più esposte alle insidie comuniste. Ciò nonostante, il servizio di sorveglianza sulle tradotte proseguì ininterrottamente fino alla soppressione di queste ultime. Mentre le autorità politiche (e i funzionari) agivano in modo irrazionale nel gestire le indiscrezioni, le Forze armate mostravano di avere il polso della situazione. Persino la qualità delle informazioni provenienti dalle missioni militari all’estero, come la Missione Caprini, era evidentemente migliore: le notizie erano più precise e dettagliate rispetto a quelle che circolavano a Roma e, attraverso gli Interni, in tutta l’Italia. Ma questo non parve avere nessun impatto sulle autorità politiche e amministrative, ripiegate ostinatamente sulle medesime, vaghe, indiscrezioni.
L’abitudine di non verificare le informazioni non era tuttavia tipica solo dei Ministeri romani. Le notizie provenienti dal territorio venivano riportate senza alcuna sorta di revisione da parte delle autorità di Pubblica sicurezza, anche quando esse parevano inverosimili. Fu questo il caso del riferimento di fatti assai pittoreschi, riferiti al Ministero degli interni e da questo messi in circolazione senza alcuna censura o revisione, che riportavano di una conversazione avvenuta su un treno in transito per Volterra, in Toscana, tra un socialista italiano non meglio precisato ed un «fanatico» proveniente dall’Ungheria «a scopo di propaganda bolscevica». Il racconto – tra l’altro una voce riferita, essendo stato riportato da un dipendente socialista al dirigente aziendale che poi l’aveva comunicato alle autorità – era colorito da constatazioni personali e valutazioni moralistiche sulla bella vita dei bolscevichi, che viaggiavano muniti di «biancheria» e «profumi». Ogni indiscrezione o informazione
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veniva trattata allo stesso modo: una volta accettata, veniva fatta circolare generando uno stato di confusione totale e, contestualmente, la sensazione di uno stato di perenne assedio da parte degli emissari bolscevichi e dei loro sostenitori interni.
La “grande paura rossa” dell’importazione della rivoluzione era quindi una questione di disorganizzazione interna ma anche di forma mentis. Due «moltiplicatori» di natura sociale ebbero un impatto decisamente importante nella genesi della “grande paura”. La considerazione del bolscevismo come una malattia infettiva, da un lato, e il pregiudizio morale, dall’altro. Come abbiamo avuto modo di sottolineare a più riprese nei capitoli, il bolscevismo era spesso descritto come un’infezione, un germe, dal quale era necessario ripulire la società. Nelle analisi del Ministero dell’interno come in quelle degli Esteri, un’ansia messianica per la necessità di salvare il mondo dal bolscevismo permeava le parole degli analisti, una volontà di redenzione dal pericolo comunista, dottrina che attirava – secondo la lettura qui proposta – in primo luogo delinquenti e poco di buono, e poi fanatici, pazzi ed estremisti. Vi era qui la totale negazione della legittimità dell’esistenza di un comunismo né italiano né straniero, considerato un elemento di ritrovo e di condivisione di elementi malsani e depravati. Alla luce di questo aspetto, emerge in modo più intellegibile la ragione per la quale i funzionari degli Interni furono predisposti ad accogliere con spasmodica attenzione le indicazioni provenienti dagli Esteri, una vera e propria pioggia di segnalazioni riprese, malamente copiate e talvolta alterate, che davano adito all’idea che una tempesta bolscevica si stesse per abbattere su Roma.
Questo aspetto si saldava strettamente con il «moltiplicatore» del pregiudizio nutrito nei confronti dei russi residenti in Italia, un pregiudizio condiviso trasversalmente dal corpo amministrativo ministeriale così come da una parte dell’opinione pubblica, soprattutto a partire dal 1919-’20. In un crescendo dal “biennio rosso” in poi, l’insofferenza nei confronti di presunti fiancheggiatori di bolscevichi emerse nella società italiana e anche tra le fila dei funzionari del Ministero dell’interno, che – sulla scorta del fiume di indiscrezioni circa le infiltrazioni bolsceviche nel Regno e la presunta centralità che il Nord Italia avrebbe assunto nelle intenzioni dei rivoluzionari – cominciarono ad osservare con sempre maggiore sospetto ogni suddito russo. Il caso di Michail Kobylinskij è, a questo proposito, emblematico: prima informatore del Ministero degli esteri, poi accusato di filobolscevismo nelle carte degli Interni e dell’Esercito, infine candida-
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to a divenire cavaliere grazie all’intercessione personale del conte Sforza. La parabola della sua vicenda è evidentemente segnata dall’incomunicabilità tra i vari organi dello Stato e simbolo del fatto che, spesso, in questa fase, la diplomazia si faceva con strumenti personali. Ma appare anche chiaro che il pregiudizio che colpiva il Kobylinskij era determinato dalla “grande paura”: la sua nazionalità e i contatti stabiliti con alcuni esponenti bolscevichi furono a tratti considerati la riprova della sua connivenza con i rivoluzionari. Poco importava agli altri organi dello Stato che, nell’accompagnare i sovietici in viaggio, fungesse da informatore per il Ministero degli affari esteri.
A partire dai primi anni Venti, questo pregiudizio basato sulla nazionalità fu ancora più efficace in quanto si radicò su un preconcetto morale e sociale: l’assenza di una stabile occupazione, una ricchezza improvvisa e inspiegabile, frequentazioni moralmente poco ortodosse erano tutti elementi che le autorità presentavano come “prove” di un sospetto coinvolgimento nelle trame bolsceviche. Nelle pagine precedenti sono numerosissimi i casi in cui il pregiudizio morale si sostituì pienamente all’esistenza di prove inconfutabili di simpatie rivoluzionarie, in modo del tutto naturale per le autorità, sino – questo, ad esempio il caso dei Wax – a decidere per una carcerazione a fronte di un quadro indiziario assai vago. Al di là del giudizio morale che si può facilmente dare a cent’anni da quegli avvenimenti, era chiaro come la convulsa ricerca di un colpevole interno, sulla base di vaghe indicazioni provenienti dall’estero, contribuiva ad accrescere quel caos nel quale versavano le autorità e, al contempo, ad amplificare la “grande paura”. Questa sorta di “allucinazione collettiva” fu principalmente dovuta alla stratificazione delle notizie delle infiltrazioni, creando un effetto psicologico di stato di allerta generalizzato e quotidiano che, in particolare nell’estate del 1919, fu rinforzato da alcuni fatti reali, di natura internazionale ed interna: dalla costruzione di un’immagine aggressiva del bolscevismo con la costituzione dell’Internazionale comunista, all’effettiva esistenza di minacce proveniente dalla sovversione bolscevica straniera.
Salvo qualche rara eccezione, questo sproporzionato stato di confusione nel quale versavano le autorità, fomentato anche dalla presenza di un humus rivoluzionario endogeno, iniziò a conoscere un ordine nei primi anni Venti: dopo lo sciopero dell’estate del 1920, iniziò ad apparire chiaramente, ma gradualmente, che i propositi eversivi d’importazione della rivoluzione non avevano trovato una concretizzazione in Italia. Le relazioni internazionali conoscevano poi un processo
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di distensione, con il riconoscimento – prima de facto, poi de jure – della realtà della Repubblica dei Soviet. L’ultimo episodio nel quale la politica interna (nella fattispecie: il timore di un’insurrezione ad opera di rivoluzionari interni sostenuti dagli emissari stranieri) condizionò fortemente il corso della politica estera fu proprio l’estate del 1920. Come emerge dalle comunicazioni di Tittoni, il timore di influire negativamente sull’«atteggiamento» del Partito socialista italiano aveva giocato un ruolo di primo piano nella decisione di non inviare truppe contro il regime di Béla Kun. A ciò si associava il pericolo di compromettere la special partnership con l’Ungheria e favorire così l’avvicinamento di quest’ultima alla Jugoslavia, con ripercussioni certamente negative sul ruolo di Roma nello scenario europeo danubiano-balcanico.
Ma dopo questa fase, i termini del panico rivoluzionario mutarono significativamente, sotto due punti di vista: la razionalizzazione del fenomeno e la sua strumentalizzazione. Rispetto alla razionalizzazione delle infiltrazioni, va sottolineato come, dopo il 1920-’21, le autorità di Pubblica sicurezza gestissero in modo meno caotico la questione della presenza di emissari. Anche in questo ambito, tuttavia, una distinzione tra autorità militari e politiche è necessaria, poiché le prime furono sempre più coerenti nell’affrontare il pericolo e più efficienti nel gestirlo. Mentre le forze interne dell’ordine tendevano ancora a dare credito ed enfasi ad ogni singola voce, la politica adottata dalle autorità militari fu quella di mantenere sotto controllo la situazione, consentendo a emissari noti di addentrarsi nel territorio nazionale, per evitare che essi potessero essere sostituiti con altri meno conosciuti e quindi più difficili da individuare, come ben ha dimostrato il caso di Aron Zimmermann.
Inoltre, mentre la sovrapposizione tra vari organi dello Stato determinava uno stato di caotica ignoranza sull’attività degli emissari bolscevichi di stanza in Italia da lungo tempo, va anche precisato come gli esuli russi di un certo spessore potessero vantare degli appoggi a un livello elevato delle autorità italiane, certamente per il tramite dei socialisti. Questo aspetto è emerso chiaramente nel balletto di ordini di allontanamento e revoche dei provvedimenti di espulsione che le autorità misero in scena tra il 1919 ed il 1921, in merito al caso di Aleksandr Erlich, già segnalato nel 1918 come uno tra i più attivi propagandisti del nuovo regime rivoluzionario.
Riguardo al secondo aspetto, quello della strumentalizzazione, va notato come proprio nella fase in cui la “grande paura” irrazionale, amplificata dai fattori che abbiamo citato, iniziò a scemare, il pericolo rosso
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dato dalla presenza di emissari bolscevichi cominciò ad essere utilizzato a fini personali e politici. Il più banale, ma anche diffuso, di questi fu appunto il tornaconto privato. Come ben dimostra la vicenda emersa sulle pagine de «Il Popolo d’Italia», talvolta la denuncia di sospetti bolscevichi era avanzata per insignificanti ragioni personali: antipatie, incomprensioni tra i vicini, sospetti correlati alle bizzarre attività artistiche degli esuli russi. Ma, al di là delle ragioni sottese alle denunce, la cosa più importante era che queste fornivano un concreto sostegno alla tesi della necessità di una mano forte dello Stato nei confronti del bolscevismo d’importazione (e autoctono).
Non fu un caso che il dibattito pubblico sulla presenza di bolscevichi in Italia emergesse strumentalmente solo nel 1921, dopo più di tre anni di infiltrazioni e quando ormai il fenomeno aveva preso una china discendente. Ambienti vicini al mondo del fascismo utilizzarono la questione della presenza degli emissari bolscevichi per denunciare strumentalmente l’incapacità dello Stato e delle autorità di Pubblica sicurezza di ergersi a garante dell’incolumità dei cittadini, per richiedere la presenza di un uomo forte, energico, che difendesse il popolo dalla barbarie comunista. Questo ragionamento, che credo si possa utilizzare, senza troppi distinguo per il “pericolo rosso” generalmente inteso (quindi anche quello di matrice interna), era una leva potentissima nella società italiana, anche rispetto alla questione dell’importazione della rivoluzione. E condusse dove ben sappiamo.
Ma la strumentalizzazione della “grande paura” dell’importazione della rivoluzione non si fermò al solo scenario interno. Il pericolo costituito dalla presenza di emissari fu utilizzato in varie situazioni e con scopi assai differenti. Cambiando prospettiva e punto di vista, si può senz’altro affermare che la questione della presenza di emissari bolscevichi in Italia fu impiegata dalle forze antibolsceviche ungheresi al fine di esercitare pressioni su Roma affinché intervenisse contro il regime di Béla Kun. Le continue denunce del carattere internazionale del bolscevismo magiaro e delle sue ambizioni ad una rivoluzione europea, ritenute ancor più forti di quelle di Lenin, furono reiterate nei confronti dei rappresentanti diplomatici italiani all’estero nel corso di tutto il 1919. Il timore che, senza una energica decisione dell’Intesa, non solo l’Ungheria, ma l’intera Europa sarebbe caduta sotto i colpi del bolscevismo, fu ripetuto fino allo sfinimento dagli ungheresi antibolscevichi con i quali gli italiani avevano mantenuto i contatti. Coerentemente a questa linea, quando il regime di Béla Kun fu rovesciato, nell’agosto 1919, il
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nuovo governo Horthy non mancò di denunciare con cadenza fissa i pericoli a cui l’Italia andava incontro a causa dei piani degli affiliati a Béla Kun, fornendo così una giustificazione formale alle persecuzioni antibolsceviche in Ungheria e, al contempo, un utile paravento dietro al quale nascondere l’esistenza del “terrore bianco” dei primi anni Venti.
Sempre in chiave internazionale, la denuncia della presenza degli emissari bolscevichi magiari in Italia fu poi molto utile allo stesso governo italiano. Non bisogna infatti dimenticare che il Regno, in quella fase, non godeva di una forte credibilità internazionale. Sappiamo, ovviamente, che la ragione principale di tale vulnus fu l’atteggiamento ondivago dell’Italia nel corso della Prima guerra mondiale. In aggiunta, una serie di piccoli scandali relativi al presunto filobolscevismo del governo Nitti contribuirono a rendere più delicata l’immagine del Regno. Per quanto concerne il tema di questo volume, i due episodi più significativi ci paiono la campagna stampa dell’agenzia Reuter, che diede per certa la deriva filobolscevica del Paese, in occasione delle prime elezioni del dopoguerra, nel 1919; e la questione della vendita illegale di armi a Budapest durante il regime di Béla Kun e della violazione del blocco economico imposto dagli Alleati all’Ungheria comunista. Se, rispetto al primo caso, la diplomazia italiana e la stessa Presidenza del Consiglio si impegnarono a promuovere un’immagine rassicurante di ordine e sicurezza politico-sociale all’estero, rispetto al secondo evento, le alte gerarchie dell’Esercito ed i rappresentanti diplomatici italiani nell’Europa centrale parvero in seria difficoltà. Agli occhi degli osservatori internazionali, il Regno era un alleato inaffidabile e tradiva la fiducia degli Alleati instaurando un dialogo con i nuovi nemici dell’Intesa, i bolscevichi. Le denunce di filobolscevismo nei confronti dell’Italia furono assai pesanti e potevano contribuire a minare la già labile credibilità internazionale del Paese. Così la presenza di emissari bolscevichi arrecanti una minaccia per la stabilità interna del Regno, da parte dell’Ungheria, era un modo per fronteggiare in modo convincente tali accuse. Se l’Italia fosse stata realmente vicina al regime di Béla Kun, come avrebbe potuto tollerare che quest’ultimo inviasse propagandisti con ampi mezzi per sovvertire l’ordine sociale nel Regno, proprio nel momento in cui la situazione politica interna era particolarmente difficile? Era evidentemente una giustificazione convincente anche nei confronti degli alleati più scettici, che osservavano con sconcerto e disappunto gli atteggiamenti italiani. Nel senso di contrastare questa convinzione andò la ferma posizione di condanna adottata dal Colonnello Romanelli, a capo della Mis-
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sione italiana a Budapest, quando intervenne in favore degli aristocratici che avevano tentato un colpo di Stato contro Kun nel luglio 1919, e che il governo bolscevico aveva prontamente condannato a morte.
Oltre a questo scopo, nella visione strategica del governo italiano, la denuncia della presenza di emissari ungheresi aveva un altro obiettivo sul piano internazionale. La questione della propaganda magiara sul regio suolo era utilizzata strumentalmente dalle autorità italiane come giustificazione dell’ingerenza negli affari ungheresi. Se Budapest non era in grado di intervenire per fermare il flusso di emissari verso Roma, il regio governo era in dovere di intervenire, influendo però – questo l’obiettivo finale – sul fragile equilibrio postbolscevico, e guadagnandosi un alleato fedele in uno scacchiere chiave per Roma.
Fu così che la “grande paura rossa”, da irrazionale panico da rivoluzione divenne un razionale strumento di condizionamento politico. Ciò fu vero senz’altro, come già detto, nel caso dell’utilizzo strumentale sia in chiave interna sia in chiave internazionale. La razionalizzazione della “grande paura” da parte della classe dirigente italiana avvenne tra la fine del 1920 ed il 1922, quando il moltiplicatore interno dato dal contesto insurrezionale del Regno era in fase discendente. Nel favorire la razionalizzazione di quella che era stata la “grande paura”, giocò un ruolo fondamentale la realpolitik e la necessità, condivisa trasversalmente dai governi dell’Intesa, di considerare la Repubblica come un interlocutore non solo possibile ma necessario, dato che l’esperimento dei Soviet, ritenuto inizialmente dagli osservatori un evento di breve respiro, avrebbe consolidato le proprie radici in Russia per lungo tempo. Certamente, la partecipazione russa alla Conferenza di San Remo segnò un punto di svolta nell’immagine internazionale. Ma il fatto che mi pare più centrale è la prevalenza della “ragione di Stato” nella questione delle relazioni con Mosca: la necessità di una realpolitik nel restaurare le relazioni con la Russia, come elemento di un più ampio processo di pacificazione internazionale, aveva la meglio sull’idea che fosse importante preservare il contesto politico interno dal «germe bolscevico». Questo ragionamento, che era stato proprio di Nitti, venne gradualmente acquisito dalla classe dirigente italiana, circostanza che diventò ancor più comprensibile alla luce del fatto che, nel 1922, il “grande pericolo rosso” stava ormai attraversando la propria fase discendente in Italia. Sia che si pensasse che la Repubblica rossa sarebbe durata anni, sia che la si ritenesse un esperimento transitorio, la considerazione finale era sempre la medesima: l’Italia doveva recuperare il proprio ruolo internazionale e il ristabi-
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limento delle relazioni con i bolscevichi era assolutamente centrale in questa logica. Nella fase successiva al 1920, quando la “grande paura” assunse, come noto, altri colori, la preminenza della necessità di recuperare le relazioni con la Russia sovietica ed il conseguente soprassedere alla questione delle infiltrazioni fu confermato anche dall’operato del Servizio di controllo sui cittadini russi. Le carte sulla Missione Caprini, istituita nei primi mesi del 1922 nella Costantinopoli occupata dagli Alleati, confermano questa interpretazione mostrando, da un lato, la volontà di non compromettere il ristabilimento delle relazioni italo-sovietiche, trascurando la potenziale pericolosità del transito di elementi sospetti o [di] propaganda verso l’Italia (che era la ragione per la quale il governo aveva creato il Servizio); e, dall’altro, la maggiore consapevolezza da parte delle autorità circa le circoscritte possibilità che la propaganda verso l’Italia, via Costantinopoli, potesse realmente mettere a rischio la sicurezza del Paese.
In definitiva, nei primi anni Venti, la realpolitik ebbe un effetto inverso a quello dei moltiplicatori, relegando in secondo piano la “grande paura” e le considerazioni morali sui bolscevichi. Come ben dimostra l’atteggiamento del rappresentante italiano a Tbilisi riguardo alle lamentele circa le perquisizioni ai danni dei sudditi russi avanzate da Koutznetsoff, il ridimensionamento della minaccia bolscevica d’importazione sul suolo italiano ed il contestuale consolidamento del potere bolscevico avevano mutato strutturalmente l’atteggiamento delle autorità del Regno per cui, se antichi timori e pregiudizi continuavano ad esistere, ciò che veniva considerato preminente, in quella fase, era la ripresa ed il rilancio delle relazioni.
Mentre la “grande paura rossa” scosse la classe dirigente liberale tra la fine del 1917 ed il 1919, amplificata da numerosi moltiplicatori contingenti e radicati nella coscienza sociale, a partire dal 1920 il timore dell’importazione della rivoluzione da emissari stranieri fu giocato su un piano di piena strumentalità sia da parte delle forze interne fasciste, sia da parte dello stesso governo al fine di raggiungere i propri scopi nello scenario internazionale. Un utilizzo che fu ampiamente efficace: l’effetto ultimo della “grande paura” dell’importazione della rivoluzione fu quello preparare il terreno al fascismo, rendendo quasi naturale l’arrivo messianico di un uomo solo al comando.
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Appendice documentaria
Documento I
Regia Prefettura di Treviso
Indirizzo: On. le Comando Divisione Reali CC. Treviso
11 ottobre 1919
Conta che alcuni giovani socialisti si siano recati presso un tipografo della città per aver stampato le accluse poesie sovversive a firma Spartacus.
Se ne informa la S. V. per le disposizioni di vigilanza necessaria per proibirne la affissione e distribuzione.
Il Prefetto
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I canti di Spartacus (da cantarsi sull’aria di Cara Piccina)
I Fuggite o schiavi la malinconia Perché incomincia la felicità Su lo sfacelo della borghesia Nasce l’aurora della libertà Sì La bandiera di Lenin S’inalzerà Nella terra e nel cielo La legge di Lenin trionferà
II L’imboscato guerrier nazionalista Innaffia i suoi tartufi col Bordò E il povero soldato trincerista Son tanti giorni che non si sfama Sì Grida il soldato sì Viva Lenin Che i vili parassiti Colpisce colla spada del destin
III La pallida figliuola della via Sui marciapiedi il corpo trascinò E la vile sensuale borghesia Per un tozzo di pane la comprò Sì Geme l’afflitta, sì Verrà Lenin Che mi darà il mio pane E punirà l’infamia del destin
IV Nei pressi della lurida galera Il figlio dell’ergastolano va E al soffio della rossa primavera Domanda che gli renda il suo papà Sì Grida il bambino, sì
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Viva Lenin Perché Lenin soltanto Ritorna l’innocente al suo piccin
V Venite libertari e socialisti Le turbe degli oppressi a liberar Il santo gonfalon dei comunisti Sventoli vittorioso in ogni mar Sì Grida la folla, sì, Lenin verrà Viva Lenin ch’è amore Ch’è farò di giustizia e libertà Sì La bandiera di Lenin S’inalzerà Nella terra e nel cielo La legge di Lenin trionferà SPARTACUS
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Inno bolscevico (Sull’aria della Leggenda del Piave)
I La Neva contemplava Della folle umile e oscura Il pianto silenzioso e la tortura La plebe sanguinava Come Cristo sulla Croce Svenata dalla borghesia feroce Che non paga di forche e di Siberia Volle ancor della guerra la miseria Ma sorse alfin un uomo di coraggio Che infranse le catene del servaggio E sterminò le piovre fino in fondo Quell’uomo fu Lenin Liberator del mondo
II La Neva trasportata Verso il mar di Pietrogrado Il motto di Lenin: “Chi è ricco è ladro” E il motto volando Per i mari e i continenti Destò dal sonno gli schiavi dormenti E valicò gli Urali ed il Kreml’no E giunse fino a Monaco e a Berlino Qui sventolando la bandiera Rossa Spartaco dié il segnal della riscossa E cadde ma alla notte sullo Spea Quale immenso falò la salma risplendea
III E la Neva commossa Alla Spea vaticinava Che non invano Spartaco spirava La fiera salma Rossa Ingigantì nella tormenta E “di denti di draghi fu sementa” Oh quanto fu fertile il terreno E non solo sullo Spea e sul Reno Ben dice il duce degli Apartachiani Malgrado tutto ciò sarà mio domani
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