
38 minute read
nelle riviste giuridiche italiane (1938-1943) ............................................ »
Silvia Falconieri TRA “SILEnzIo” E “MILITAnzA”. LA LEGISLAzIonE AnTIEBRAICA nELLE RIvISTE GIURIdIChE ITALIAnE (1938-1943)
1. Stampa giuridica periodica e fascismo. Alcune note preliminari.
Advertisement
Nell’ultimo decennio la storiograia e la storiograia giuridica italiana hanno iniziato ad interrogarsi sempre più a fondo sulle ripercussioni dei decreti antiebraici del ’38 in campo squisitamente giuridico e sulle ricadute che tale legislazione ebbe nel settore speciico della scienza giuridica italiana1. Soltanto di recente, tuttavia, si è iniziato a focalizzare l’attenzione sull’atteggiamento assunto dai giuristi di fronte al processo di costruzione della diversità giuridica dell’ebreo, sul loro eventuale contributo al consolidamento ed al funzionamento della dicotomia ebreo/ariano nell’ordinamento italiano di ine anni Trenta e sulle modalità attraverso le quali si andò costruendo un vero e proprio dibattito attorno alla nuova qualiicazione di “cittadino italiano di razza ebraica”.
In tale prospettiva, la rivista giuridica si rivela una lente estremamente eficace attraverso la quale guardare, da una differente angolazione, in quale maniera fu recepita dalla cultura giuridica l’introduzione della dicotomia ebreo/ ariano, in un periodo in cui era stata oramai raggiunta una completa integrazione degli ebrei nella vita culturale italiana e nomi di chiara origine ebraica iguravano tra quelli dei più insigni studiosi del diritto2. La rivista, infatti, offre il grande vantaggio di cogliere le singole fasi del processo attraverso il quale
1 Tale problematica si inserisce nel quadro più ampio dell’analisi del rapporto tra cultura giuridica italiana e regime fascista. Sulla possibilità di parlare di “cultura giuridica fascista”, A. Mazzacane, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, in Diritto, economia e istituzioni nell’Italia fascista a cura di Mazzacane, Baden-Baden 2000, pp. 1-19. 2 Sul processo di integrazione degli ebrei, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Firenze 1974; S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto della prima emancipazione all’età della Repubblica, in Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, Annali 11, a cura di C. Vivanti, Torino 1997, pp. 1765-1827; E. Capuzzo, Gli ebrei nella società italiana. Comunità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, Roma 1999.
quella coppia dicotomica si insinuò nel discorso giuridico e permette non solo di individuare in maniera più agevole le questioni maggiormente dibattute attorno alla concreta attuazione della legislazione antiebraica, ma anche di ricostruire in maniera più precisa la dimensione e i caratteri del dibattito sviluppatosi attorno ad essa3 .
Negli anni ’30 del Novecento, lo stato della stampa giuridica periodica era considerevolmente mutato rispetto alla seconda metà del secolo precedente, periodo in cui aveva conosciuto il suo apogeo4: da un lato, si era assistito ad un considerevole aumento del numero delle pubblicazioni periodiche che, seppur in atto già nel primo dopoguerra, era stato fortemente incentivato dalle intense riforme legislative avviate dal fascismo in ogni settore del diritto italiano5; dall’altro, erano considerevolmente mutati i margini di autonomia dei quali la stampa giuridica godeva rispetto ad un regime che, soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta, in concomitanza con la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, si mostrava sempre più desideroso di uscire da quell’“ibridismo culturale” che lo aveva caratterizzato durante il primo decennio, per disegnare in maniera più decisa i contorni sfuggenti della “cultura fascista”6 .
3 Nell’ambito della storiograia giuridica europea, si segnalano alcuni contributi che si sono preoccupati di analizzare il rapporto tra i periodici giudici ed i regimi nazionalsocialista e di Vichy: G.T. Heine, Juristische Zeitschriften zur NS-Zeit, in Recht und Unrecht im Nationalsozialismus, a cura di S. Peter, Münster 1985, pp. 272-293; G. Bigot, La revue de droit public dans l’oeil de Vichy e M. Fabre, La doctrine sous Vichy. Analyse systématique des revues de droit privé de juin 1940 à juin 1944, in Le droit sous Vichy, a cura di B. Durand, Frankfurt am Main 2006, pp. 375-401 e pp. 415-435. 4 Sulla centralità del ruolo assunto dalla rivista nella costruzione e diffusione della scienza giuridica italiana, nella seconda metà del XIX secolo, C. Vano, «Ediizio della scienza nazionale». La nascita dell’Enciclopedia giuridica italiana, in Enciclopedia e sapere scientiico. Il diritto e le scienze sociali nell’Enciclopedia giuridica italiana, a cura di A. Mazzacane e P. Schiera, Bologna, 1990, pp. 15-66. Paolo Grossi ha utilizzato la felice formulazione di “cultura delle riviste”, P. Grossi, Chiarimenti preliminari, in La “cultura” delle riviste giuridiche italiane, a cura di P. Grossi, “Per la storia del pensiero giuridico moderno”, 13, Milano 1984, pp. 13-19; Riviste giuridiche italiane (1865-1945), a cura di P. Grossi, “Per la storia del pensiero giuridico moderno”, 16, Milano 1987. Un esperimento analogo è stato realizzato per le riviste francesi, La culture des revues juridiques française, a cura di A.J. Arnaud, “Per la storia del pensiero giuridico moderno”, 29, Milano 1987. Con particolare riferimento all’esperienza tedesca, M. Stolleis, Juristische Zeitschriften. Die neuen Medien des 18.-20. Jahrhunderts, Frankfurt am Main 1999. Sulla centralità della rivista giuridica nell’organizzazione e diffusione di precisi indirizzi di scuola, C. Vano, “Il nostro autentico Gaio”. Strategie della Scuola storica alle origini della romanistica moderna, Napoli 2000. 5 M.S. Giannini, Introduzione ai lavori, in La “cultura” delle riviste, cit., pp. 21-38. Sul considerevole aumento dei periodici giuridici in Italia, nel periodo del secondo dopoguerra, A. Grisoli, (a cura di), La proliferazione delle riviste giuridiche in Italia dopo il 1945, Milano, 1966. 6 M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino 1979; R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna 2000; G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Roma Bari 2002.
In quasi completa assenza di studi speciici sull’argomento, alcune forti indicazioni possono essere ricercate nelle pagine delle stesse riviste e nella documentazione d’archivio. Gli episodi di controllo preventivo e censura, i cambiamenti in seno ai comitati direttivi – intensiicatisi soprattutto nel corso degli anni Trenta – lasciano semplicemente intuire la profondità del controllo che, attraverso l’Uficio per la stampa prima e il Minculpop poi, il regime esercitava anche sulla stampa giuridica7. Fu eclatante la vicenda nella quale incorse, nel 1925, la famosa effemeride di Luigi Lucchini, la Rivista penale8 che, sin dall’avvento del regime, non aveva mai fatto mistero della propria avversione nei confronti delle pesanti riforme avviate dal governo in materia di stampa. Fu in seguito alla pubblicazione di un articoletto del direttore, ritenuto offensivo della persona del duce, che la rivista si trovò coinvolta in un ennesimo episodio di sequestro, mentre un procedimento penale a carico dello stesso Lucchini e dell’allora vice-direttore Battaglini, veniva avviato davanti alla Corte di Giustizia9. Nel corso degli anni Trenta, in seguito a due cambiamenti in seno al suo comitato direttivo, avvenuti rispettivamente nel 1930 e nel 1938, la Rivista penale mutò completamente volto, mostrando un progressivo allineamento alla politica del regime ed una maggiore condivisione delle riforme legislative che questo aveva avviato nel settore del diritto penale. L’esperienza del periodico di Lucchini non si rivelò un caso isolato: cambiamenti radicali in seno ai comitati direttivi di quei periodici giuridici furono un tratto comune a diverse riviste giuridiche che avevano visto la luce in epoca anteriore al fascismo. Alcuni di essi, peraltro, andavano a coincidere esattamente con l’anno di promulgazione dei primi decreti antiebraici e venivano giustiicati con l’inadeguatezza o l’incompatibilità della tradizionale impostazione scientiica del periodico con le innovazioni che i tempi imponevano alla scienza giuridica. Si pensi, ad esempio, al caso della Rivista di diritto commerciale, diretta da Angelo Sraffa e Cesare Vivante ino al 1937, anno in cui, “per incarico della Casa editrice” Vallardi di Milano, i professori Asquini,
7 V. Castronovo, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età fascista, Roma Bari 1980; Id., La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Roma Bari 1991; R. Cassero, Le veline del duce: come il fascismo controllava la stampa, Milano 2004. 8 Sulla rivista di Lucchini durante il periodo liberale, sulla sua fondazione, il suo programma, i rapporti con la penalistica del tempo e sulla persona del suo fondatore, si veda M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La Rivista penale di Luigi Lucchini (1874-1900), in Riviste giuridiche italiane, cit., pp. 105-184; sul rapporto tra penalistica italiana e regime fascista, Id., Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli ani del fascismo, in Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 28, 1999, Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, a cura di P. Grossi, pp. 817-850. 9 Dell’episodio di censura nel quale era incorsa la rivista di Lucchini, nel 1925, a causa della pubblicazione di un articoletto, Segno dei tempi, del quale era autore lo stesso direttore, si rendeva conto in apertura dell’annata del ’26. La Rivista penale, Agli amici e lettori della Rivista, in Rivista penale, CIV (1926), pp. 5-12.
Valeri e Mossa ne ereditavano la direzione10. Alla morte dell’amico e collega Sraffa, Vivante prendeva congedo dalla direzione del periodico, sottolineando come le nuove problematiche poste dalle continue riforme avviate dal governo fascista nel settore del diritto commerciale italiano richiedessero l’attenzione di colleghi più giovani ed inaugurava, così, una “nuova fase della Rivista”11 .
Gli episodi di controllo preventivo e di censura, a carico dei periodici giuridici, si intensiicarono ancor più nella seconda metà degli anni Trenta, con l’istituzione del Ministero della cultura popolare12. Nel 1942, Alberto Luchini, capo dell’Uficio studi e propaganda sulla razza, scriveva al direttore de La Difesa della Razza Telesio Interlandi e gli intimava di impedire la pubblicazione di un articolo, irmato dal giurista Baccigalupi, sulla questione dei matrimoni misti, ritenendo le tesi ivi avanzate eccessive, intransigenti e scomode dal punto di vista politico13. Nella primavera del ’43, fu Il Foro Italiano a trovarsi nell’occhio del ciclone del Minculpop. Sul celebre periodico cadde il pesante sospetto che, a dispetto delle disposizioni di legge che imponevano l’allontanamento di tutti gli “appartenenti alla razza ebraica” dai comitati direttivi di riviste e quotidiani italiani, giuristi di origini israelitiche avessero continuato a prestare costantemente la propria collaborazione. In un trailetto pubblicato nelle pagine del Corriere Adriatico, il 13 marzo del ’43, si riferiva che un “assiduo lettore” aveva avuto modo di notare come Il Foro Italiano avesse pubblicato con costanza solo quelle decisioni e sentenze che fornivano un’interpretazione ed un’applicazione dei decreti del ’38 “in senso favorevole agli ebrei”14. Tale attitudine veniva spiegata come una diretta conseguenza della costante e perdurante presenza di collaboratori di origini ebraiche alla redazione del periodico:
(...) ma la spiegazione è facile, facilissima. Non era Il Foro Italiano sino al 1938-39 largo di ospitalità agli ebrei, giuristi e avvocati come ha documentato La Difesa della Razza? Non è forse redattore, o comunque addetto al Foro Italiano quell’avvocato Ottolenghi, ebreo già attivissimo e diligente consulente legale capo dell’Istituto Nazionale Fascista infortuni operai sul lavoro15?
10 A. Asquini, G. Valeri, L. Mossa, La nostra consegna, in Rivista di diritto commerciale, 1-2 (1938), pp. 3-5. 11 C. Vivante, Congedo, in Rivista di diritto commerciale, 1-2 (1938), pp. 1-2, qui p. 2. 12 Sull’istituzione e l’organizzazione del Ministero della cultura popolare (Minculpop), all’interno della collana diretta da Guido Melis, L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, si veda il volume di P. Ferrari, M. Giannetto, Il Ministero della Cultura popolare. Il Ministero delle poste e telegrai, Bologna 1982. P.V. Cannistraro, Burocrazia e politica culturale nello Stato fascista: il Ministero della cultura popolare, in Storia contemporanea, 1 (1970), pp. 273-297. 13 Acs, Minculpop, b. 139, Baccigalupi. 14 Acs, Minculpop, b. 142, fasc. 151, Il Foro Italiano. Ottolenghi Carlo. 15 Ibidem.
Fu sulla base di questa segnalazione che il Ministero della cultura popolare diede il via ad un’indagine volta ad accertare la fondatezza delle accuse mosse nei confronti della rivista ed avente ad oggetto, principalmente, le modalità di gestione della direzione del periodico e le persone degli allora direttori, l’avvocato Luigi Busatti ed il senatore Antonio Scialoja. Il problema di fondo veniva individuato nella costante e regolare presenza dell’avvocato Carlo Ottolenghi nei luoghi della direzione che, tuttavia, si provò non partecipare direttamente alla gestione del periodico. La vicenda non si concluse con il sequestro del periodico, ma la direzione della rivista veniva formalmente difidata dal riportare decisioni analoghe.
Se da un lato, però, si cercava di fuggire il controllo penetrante del regime, “facendo scivolare” le note più critiche nelle pagine delle riviste meno sospette16; dall’altro si registravano dei veri e propri tentativi di autosottomissione, messi in atto da chi riteneva che la stampa giuridica fosse coinvolta meno direttamente, rispetto a quella politica e quotidiana, nel processo di consolidazione delle istituzioni fasciste. Per tale ragione, ad esempio, Montefusco, in un suo intervento nelle pagine de La vita italiana, si era sforzato di delineare la “nuova funzione” della stampa giuridica, adattando ad essa le direttive che il duce aveva impartito alla stampa politica e quotidiana17. Al contempo, degli strenui tentativi di ottenere il consenso e la piena approvazione del regime, nonché inanziamenti ed agevolazioni, venivano messi in atto dai fondatori di alcuni giovani periodici: il professore Gastone Bolla scrisse ripetutamente al duce per ottenere consensi e sostegni per la sua Rivista di diritto agrario18. La stessa vicenda de Il diritto razzista – rivista sulla quale si avrà modo di tornare più avanti – è testimonianza di una simile diffusa tendenza19 .
2. Le “riviste del silenzio”. L’estraneità della legislazione antiebraica all’impianto civilistico italiano
Dallo spoglio di alcune tra le più note riviste giuridiche, effettuato per il periodo compreso tra il 1938 ed il 1943, si ha la forte sensazione che i giuristi abbiano manifestato una certa titubanza nell’abbandonarsi allo studio e all’approfondimento delle conseguenze giuridiche connesse alla nuova
16 A. Galante Garrone, Ricordi e rilessioni di un magistrato, in La Rassegna Mensile d’Israel, LIV.1-2 (1988) pp. 19-35. 17 V. Montefusco, Problemi del Diritto (Stampa e propaganda). Funzioni della stampa giuridica, in La vita italiana, CCCX (1939), pp. 471-475. 18 Acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, b. 1487, fasc. 515.561. 19 Acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, b. 1339, Cutelli Stefano Mario-Il diritto razzista.
qualiicazione razziale. Da un lato, si può osservare come sia estremamente raro reperire nelle pagine delle riviste contributi a carattere monograico relativi alla legislazione antiebraica: è il caso di alcuni tra i maggiori periodici italiani che – come la Rivista di diritto pubblico, la Rivista italiana di diritto penale, la Giustizia penale, Il Foro Italiano – furono fondati a cavallo tra il XIX ed il XX; i decreti del ’38 venivano espulsi dalle sezioni tradizionalmente consacrate ai contributi dottrinali, per venir relegati nelle rassegne giurisprudenziali, nei notiziari legislativi, nei bollettini bibliograici o, ancora, nelle sezioni di varietà, nelle quali si fornivano informazioni relative all’organizzazione di eventi di diversa natura. Da un altro lato, lo spoglio dei periodici mostra bene come non furono poche le riviste che tacquero – o meglio, forse, decisero di tacere – completamente, o quasi, a proposito della legislazione antiebraica; si pensi alla Rivista di diritto processuale civile, Rivista di diritto commerciale, Rivista italiana per le scienze giuridiche, Rivista di diritto privato e Rivista di diritto civile. Una prima forte sensazione che, dunque, avverte il lettore che si avventuri nelle pagine delle riviste giuridiche italiane, alla ricerca delle tracce dei decreti del ’38, è quella che tale legislazione, in Italia, non sia mai esistita e che i giuristi di ine anni Trenta abbiano continuato a svolgere il loro lavoro di sempre, prestando scarsissima attenzione ad una qualiicazione che, come quella di “appartenente alla razza ebraica”, coinvolgeva, e minacciava di sconvolgere, ogni singolo settore della scienza giuridica italiana.
Penetrare il signiicato più recondito di quei silenzi, totali o parziali, si rivela un’operazione quanto mai ardua che potrebbe rischiare facilmente di sfociare in uno sterile processo alle intenzioni. Alcuni studi realizzati per esperienze vicine a quella italiana hanno ben mostrato come sia impossibile far coincidere automaticamente il silenzio con una reazione di disapprovazione e disappunto nei confronti della legislazione razziale. Dominique Gros, ad esempio, ha prestato attenzione alla maniera nella quale la legislazione antiebraica di Vichy del 1940 e 1941 aveva trovato spazio nei manuali giuridici in uso presso le facoltà di giurisprudenza francesi del periodo, rilevando come, in molti casi, fossero proprio quei giuristi convinti sostenitori della politica del maresciallo Pétain a decidere di non affrontare le questioni giuridiche connesse alla promulgazione del nuovo Statut des juifs20. Ciò appare vero anche per l’esperienza italiana: si pensi alla Rivista italiana per le scienze giuridiche che, al momento della promulgazione della legislazione antiebraica, era diretta da Pietro De Francisci, notoriamente simpatizzante del regime e direttamente implicato nella costruzione del “nuovo ordine giuridico” fascista.
20 D. Gros, Le “statut des juifs” et les manuels en usages dans les facultés de droit (19401944): de la description à la légitimation (1940-1944), in Cultures & Conlits, 9-10 (1993), pp. 139-171.
Tuttavia, possono essere avanzate alcune ipotesi, partendo dal caso di due periodici, la Rivista di diritto civile e la Rivista di diritto privato21, che ruppero il silenzio sporadicamente e in occasione di determinati avvenimenti giudiziari. Seppur afferenti al medesimo settore disciplinare, si tratta di due riviste abbastanza distanti tra loro, tanto per quel che attiene al periodo della loro fondazione, quanto per quel che concerne il programma e le linee scientiiche seguite. Riguardo alla politica antiebraica e alle sue potenziali implicazioni nel settore civilistico, però, i due periodici sembrarono mettere a punto delle strategie piuttosto analoghe, adottando una reazione straordinariamente omogenea e decidendo di rompere il silenzio in occasione di un determinato avvenimento giudiziario. Si trattava di una sentenza, ampiamente nota, emessa dalla Corte d’Appello di Torino nel maggio 1939, le cui statuizioni e motivazioni, insieme con la profonda ed accurata analisi che il magistrato torinese Alessandro Galante Garrone aveva pubblicato nella Rivista del diritto matrimoniale italiano22 , divennero un riferimento quasi obbligato nel dibattito che iniziava ad aprirsi attorno alle modalità di applicazione delle disposizioni legislative contenute nei decreti del 1938.
La Corte torinese era stata chiamata ad affrontare delle questioni delicatissime che, come quella della determinazione della competenza ad emettere la declaratoria di appartenenza alla razza ebraica, rischiavano di rimettere in questione gli assetti consolidati dell’impianto civilistico italiano, ed aveva affermato la necessità di vincolare l’interpretazione delle disposizioni del ’38 ai principi tradizionali dell’ordinamento giuridico di matrice liberale23. La Rivista di diritto civile, attraverso una brevissima recensione del suo direttore Cicu alla nota di Galante Garrone, coglieva l’occasione per aderire a tale tipologia di lettura dei decreti del ’38 e per ribadire come quelle disposizioni non potessero in alcun modo derogare ai principi civilistici consolidati24 .
21 Sui due periodici, si vedano i saggi di G. Furgiuele, La «Rivista di diritto civile» dal 1909 al 1931. «Un organo speciale del movimento scientiico, legislativo e pratico del più importante ramo del diritto positivo» e di «indirizzo» dello stesso nell’Italia giolittiana e del terzo decennio del nuovo secolo, e U. Santarelli, «Un illustre e appartato foglio giuridico». La rivista di diritto privato, in Riviste giuridiche italiane, cit., pp. 519-630 e pp. 667-715. 22 A. Galante Garrone, Questioni sull’appartenenza alla razza ebraica – Competenza dell’autorità giudiziaria e amministrativa – I nati da matrimonio misto – I catecumeni, in Rivista del diritto matrimoniale italiano, VI (1939), pp. 409-418. Sul magistrato Galante Garrone e sulla sua attività durante gli anni del fascismo, P. Borgna, Un paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, Roma Bari 2006. 23 Sulle problematiche affrontate dalla Corte torinese, v. G. Speciale, Giudici e razza, cit., pp. 65 ss.; G. Fubini, La legislazione razziale nell’Italia fascista: normativa e giurisprudenza, in La legislazione razziale in Italia e in Europa, a cura della Camera dei Deputati, Roma, Camera dei Deputati, 1989, pp. 17-31; O. Camy, La doctrine italienne, in Le genre humain, 30-31 (1994), pp. 477-539. 24 A. Cicu, Recensione a Galante Garrone, Questioni sulla appartenenza alla razza ebraica – Competenza dell’autorità giudiziaria e amministrativa – I nati da matrimonio misto – I catecumeni, in Rivista di diritto civile, XXXII (1940), p. 169.
Anche il periodico di Rotondi, ricorrendo ad una strategia ancor più soisticata ed elegante, nell’annata del 1940, ruppe il silenzio, attraverso la pubblicazione di una nota a sentenza con la quale venivano raccordate due pronunce, quella della Corte d’Appello di Torino ed una sentenza emessa dal Tribunale di Roma, che avevano risolto in maniera diversa la questione della determinazione dell’appartenenza alla “razza ebraica”25. L’anonimo autore della nota non si limitava semplicemente a mostrare la propria adesione all’interpretazione fornita dalla Corte torinese, ma, attraverso un’operazione di confronto tra la legislazione del ’38 e le norme relative al riordino delle comunità israelitiche del 1930, operava una sorta di neutralizzazione della legislazione antiebraica: la sovrapposizione di criteri e norme legislative differenti rendeva quasi impossibile poter parlare di uno status di ebreo nell’ordinamento italiano26 .
A differenza di quanto accadde per la Rivista di diritto civile, nelle pagine della quale non si ritrovano ulteriori riferimenti alla nuova qualiicazione di “appartenente alla razza ebraica”, nella Rivista di diritto privato, la rubrica “razza” tornava ad essere impiegata nel 1943, sempre e soltanto nella sezione giurisprudenziale. Essa rinviava, a sua volta, alla voce “donazione”, quasi a voler convogliare l’attenzione del lettore sul fatto che l’oggetto principale dell’attenzione degli studiosi non concerneva tanto le legislazione antiebraica in sé, quanto piuttosto un istituto tradizionale del diritto civile italiano – quello della donazione, per l’appunto – che da essa rischiava di essere intaccato nelle sue fondamenta.
Il caso preso in considerazione aveva ad oggetto il divieto di donazioni tra coniugi, già sancito dal codice civile del 1865 e mantenuto in vigore dall’art. 781 del nuovo codice del 1942. La legislazione antiebraica rischiava di metterlo in discussione, in quanto l’articolo 6 del R.D.L. 126/’39, con il quale si erano dettate le disposizioni relative ai limiti di proprietà immobiliare per i cittadini di razza ebraica, prevedeva la possibilità che l’ebreo donasse i propri beni al coniuge o ai discendenti che non fossero di razza ebraica. Nelle pagine della rivista di Rotondi veniva ripercorso, nei suoi tre gradi di giudizio – di fronte al Tribunale di Genova, alla Corte d’Appello di Genova e alla Corte di Cassazione del Regno27 – il caso Polli/Guggenheim: tutti i
25 Nota alle sentenze della Corte d’appello di Torino, 5 maggio 1939, Rosso/Artom e del Tribunale di Roma, 19 giugno 1939, Pantani/Comunità israelitica di Roma, in Rivista di diritto privato, pp. 29-30. 26 Le strategie messe a punto dai due periodici, in occasione della pubblicazione della sentenza della Corte torinese e della nota di Galante Garrone sono state oggetto di più ampia analisi in un altro lavoro al quale mi permetto di rinviare, S. Falconieri, La scienza giuridica italiana tra ricordo e oblio della legislazione antiebraica, in Erinnern und Vergessen. Remembering and Forgetting, a cura di O. Brupbacher u.a., München 2007, pp. 135-156. 27 Tribunale di Genova, 24 luglio 1941, Polli/Guggenheim; Corte di Appello di Genova, 3 febbraio 1942, Guggenheim/Polli; Corte di Cassazione del Regno, 15 marzo 1943, Guggenheim/Polli, in Rivista di diritto privato, pp. 120-127; pp. 181-192.
giudici che avevano esaminato la questione si erano dimostrati concordi nel ritenere che la deroga consentita dall’art. 6 del R.D.L. 126/’39 fosse operativa soltanto in relazione alla normativa razziale e, quindi, esclusivamente nel caso in cui la donazione avesse avuto ad oggetto quella “quota eccedente” che il “cittadino italiano di razza ebraica” era obbligato a trasferire all’EGELI28 . Dal momento che, nel caso di specie, tale ipotesi non si veriicava, non era assolutamente ammissibile prevedere una violazione così profonda delle disposizioni codicistiche e si doveva, pertanto, concludere che la donazione del Guggenheim alla moglie “ariana” fosse colpita da nullità per violazione dell’art. 781 del codice civile.
La rivista di Rotondi non si limitava a riportare semplicemente le massime delle sentenze, ma vi pubblicava in margine una nota di Enrico Allorio, giovane studioso simpatizzante del regime, che aveva però già dato ampia dimostrazione di tenere enormemente al ruolo centrale assegnato alla legge in seno all’ordinamento giuridico italiano29. Allorio approvava incondizionatamente la posizione dei giudici genovesi: la normativa antiebraica non poteva in alcun modo introdurre una deroga così forte ad una disposizione codicistica, ma doveva necessariamente trattarsi di una deroga valida esclusivamente nel contesto della normativa razziale30 .
A ben vedere, le due pronunce alle quali la rivista di Rotondi aveva prestato attenzione, nel ’40 e nel ’43, seppur avessero ad oggetto problematiche estremamente distanti, sembravano essere accomunate da una sorta di disinteresse nei confronti del fatto che la decisione resa dai giudici fosse più o meno favorevole alla persona assoggettata alla normativa antiebraica. L’attenzione della rivista sembrava focalizzarsi, piuttosto, sull’esigenza di ribadire il rispetto delle regole e dei principi consacrati dalla tradizione civilistica italiana, di garantirne la loro assoluta inderogabilità, mentre la scelta di non pubblicare studi a carattere dottrinale sembra voler porre ancor più in risalto il carattere contingente e transitorio di quella legislazione, la sua completa inadeguatezza a costituire oggetto di discussione scientiica.
28 Il R.D.L. 9 febbraio 1939, n. 126, Norme di attuazione ed integrazione delle disposizioni di cui all’art. 10 del R. decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica, divideva il patrimonio dei cittadini di razza ebraica in due parti, la “quota eccedente” e la “quota consentita”, obbligandoli ad alienare la prima all’EGELI. I. Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (19381970), Firenze, 2004. 29 E. Allorio, Giustizia e processo nel momento presente, in Rivista di diritto processuale civile, I (1939), pp. 220-231. 30 E. Allorio, Legge razziale e donazione fra coniugi, in Rivista di diritto privato, II (1943), pp. 120-127.
3. Tra diritto e scienze biologiche: costruire il sostrato teorico del corpus normativo razziale
Una delle principali conseguenze di quei silenzi, totali o parziali, sembrerebbe esser stata quella di stimolare o, perlomeno, incentivare una sorta di delocalizzazione dello studio e dell’approfondimento della legislazione antiebraica all’interno di organi specializzati, appositamente creati per sostenere, legittimare e fondare da un punto di vista teorico lo sviluppo della politica razziale di regime. Una delle caratteristiche essenziali di questa tipologia di periodici era rappresentata, indubbiamente, dalla pluridisciplinarietà e dal tentativo di conciliare l’approccio giuridico al “problema della razza” con le scienze biologiche, gli studi antropologici, l’analisi della storia culturale dei diversi gruppi etnici. Di qui la presenza di collaboratori di differente estrazione disciplinare, la pubblicazione di articoli afferenti a diversi settori scientiici ed il tentativo di mettere in piedi un discorso giuridico unitario attorno al problema razziale che, sulla scia della dichiarata unitarietà della politica razziale coloniale e di quella antiebraica, si rivelasse funzionale al prosieguo ed al perfezionamento della legislazione razziale31. I giuristi che prendevano parte a tale iniziativa – nella maggior parte dei casi si trattava di nomi non troppo noti negli ambienti della scienza giuridica italiana – si mostravano perfettamente in linea con le scelte operate dal regime e, spesso, erano direttamente coinvolti nella politica di governo. Si è già avuto occasione di menzionare Baccigalupi i cui articoli sul rapporto tra razza e diritto comparivano con frequenza e costanza ne La difesa della razza, la più nota rivista divulgativa della dottrina razzista italiana32. Accanto ad essa igurava Razza e civiltà che, fondata nel 1940 e direttamente gestita dalla Direzione generale per la demograia e per la razza, consacrava un’intera sezione alla pubblicazioni di sentenze emesse in materia razziale, di frequente annotate da Giovanni Rosso.
In questo quadro, merita particolare attenzione il caso della rivista Il diritto razzista, che aveva visto la luce a Roma, il 9 maggio del 1939, ad opera di un avvocato, Stefano Mario Cutelli, già noto alle sfere uficiali per la sua devozione – quasi maniacale, oserei dire – alla causa fascista e alla stessa persona del duce33. Sin dagli esordi della proprio attività, Cutelli si era premurato di far
31 Sull’unitarietà tra politica razziale coloniale e politica antiebraica, E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma Bari 2006. Inoltre, mi permetto di rinviare a S. Falconieri, L’élaboration de la catégorie de «juif» dans l’Italie fasciste. Une hypothèse autour de la «fascination» italienne pour la doctrine coloniale française, in Actes des journées internationales de la Société d’Histoire du Droit, Leuven 2008, pp. 297-308. 32 Su La difesa della razza, F. Cassata, «La Difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino 2008; V. Pisanty, La difesa della razza: antologia 1938-1943, Milano 2007. 33 La devozione di Cutelli a Mussolini è testimoniata dalle ripetute richieste di attenzione del duce nei confronti del nuovo periodico, nonché dalle incessanti richieste di udienza. Acs,
conoscere i propri contributi e le proprie intransigenti proposte direttamente al capo del fascismo, inviandogli con costanza gli estratti dei propri articoli e le copie del periodico La nobiltà della stirpe del quale era stato fondatore e direttore sin dagli inizi degli anni Trenta. Il diritto razzista potrebbe essere assunto come l’estremo opposto rispetto alle riviste del silenzio, come il simbolo del più completo engagement dei giuristi nella causa fascista e nella politica di difesa della razza italiana.
Sembra rilevante il fatto che l’avvocato Cutelli decise di perseguire i propri obiettivi attraverso la fondazione di una nuova rivista che egli deiniva come squisitamente giuridica. A Cutelli non erano certamente mancate le occasioni di far conoscere le proprie intransigenti posizioni in materia razziale, tanto attraverso le pagine de La nobiltà della stirpe, quanto attraverso altri contributi pubblicati nelle pagine de La Vita Italiana di Preziosi. Sembrerebbe, quindi, che proprio attraverso la creazione di una rivista specializzata si andasse ad attuare un vero e proprio tentativo di scientiicizzazione del “diritto razzista”, inalizzato ad attribuire legittimità scientiica a quella che Cutelli deiniva chiaramente e decisamente come una nuova “branca del diritto” italiano. Questo disperato tentativo doveva passare attraverso il più tradizionale strumento di comunicazione scientiica, la rivista giuridica, per l’appunto. Non è un caso che, inaugurando il primo numero, Cutelli denunciasse come “strano” il fatto che in Italia, ino a quel momento, non si fosse provveduto alla creazione di un periodico di “diritto razzista” e riconducesse tale assenza al forte disinteresse manifestato dai più insigni studiosi italiani, totalmente incapaci di avvicinarsi allo studio di una disciplina che esulasse dalla tradizione giuridica italiana:
Fra tante riviste giuridiche (di diritto privato, di diritto pubblico, diritto civile, diritto commerciale, marittimo, aereonautico, matrimoniale, corporativo, agrario, degli appalti, della responsabilità civile, ecc. ecc) era strano che non sorgesse ancora, malgrado la profonda rivoluzione legislativa razziale voluta da Benito Mussolini, una rivista di diritto razzista: strano, abbiamo detto; tanto più strano perché l’utilità scientiica e divulgatrice di una rivista giuridica razzista sfuggiva a quel mondo tanto sensibile di studiosi che aveva sentito l’urgente bisogno di creare cento riviste per commentare e…goniare anche le più modeste leggine (…)34 .
Intransigenza ed estremismo costituivano i tratti salienti tanto del programma della rivista, quanto dell’atteggiamento del direttore che non perdeva
Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 1339, Cutelli Stefano Mario - Il diritto razzista. Sulla rivista, si veda I. Pavan, Prime note su diritto e razzismo. L’esperienza della rivista “Il diritto razzista”(1939-1943), in Culture e libertà. Studi in onore di Roberto Vivarelli, a cura di D. Menozzi, R. Pertici, M. Moretti, Pisa 2006, pp. 371-418. 34 S. M. Cutelli, Ai Lettori. Come e perché nasce “Il diritto razzista” e come è accolto…, in Il diritto razzista, 1-2 (1939), pp. 1-7, qui p. 1.
occasione per utilizzare ogni intervento giurisprudenziale e dottrinale in materia razziale ad affermazione e sostegno delle proprie posizioni, come ben dimostrato, ad esempio, dall’uso e dalla manipolazione che fu fatta della nota di Galante Garrone proprio nelle pagine della rivista di Cutelli: il testo originale venne qui limato e rivisitato, soprattutto nella parte in cui il magistrato aveva mosso un’aspra critica al sistema giudiziario nazionalsocialista, dal direttore che lo utilizzò in maniera funzionale all’affermazione delle proprie posizioni e soluzioni: il problema dell’attribuzione della competenza, poteva esser facilmente risolto con l’introduzione di una “Magistratura per la razza” che avrebbe seguito “all’ottima Magistratura del Lavoro”35 .
Una delle prime preoccupazioni di Cutelli e dei suoi collaboratori fu quella di delineare il sostrato teorico sul quale il legislatore avrebbe dovuto continuare a lavorare nel progressivo perfezionamento della legislazione razziale. Un ruolo centrale veniva assegnato al concetto di “stirpe”, segnale della profonda continuità ideologica che univa il nuovo periodico alla precedente rivista, La nobiltà della stirpe, della quale, peraltro, era nato come supplemento: il razzismo fascista veniva indissolubilmente legato alla politica di tutela delle famiglie nobiliari italiane e deinito come “la generalizzazione ed il massimo sviluppo del principio aristocratico gentilizio”36. La politica razziale coloniale e la legislazione antiebraica si ponevano come il logico completamento di “quel principio genealogico del «sangue»” che, inizialmente applicato in via esclusiva alle case regnanti, aveva trovato la sua estensione “a tutte le classi sociali”37 .
Dal punto di vista giuridico, ne derivava l’automatica applicabilità dei metodi e dei principi alla base delle leggi nobiliari anche nell’ambito della legislazione razziale. Nel 1941, Pier Antonio Romano, elogiato da Cutelli per aver brillantemente discusso una tesi di laurea attorno alla nuova qualiicazione giuridica di ebreo, pubblicava nelle pagine de Il diritto razzista i risultati del proprio studio38. Tra le diverse problematiche approcciate, l’autore si interrogava sui limiti temporali connessi all’applicazione dell’art. 8 del R.D.L. 1728/’38, con il quale si era fornita la deinizione di “appartenente alla razza ebraica”. Sarebbe stato legittimo coinvolgere nell’applicazione dell’art. 8 anche gli antenati del soggetto del quale occorreva determinare l’appartenenza razziale, nel caso in cui questi fossero deceduti? Per Romano, si trattava, evidentemente, di un problema di irretroattività della legge stessa: non essendo
35 Nota alla sentenza della Corte d’Appello di Torino, 5 maggio 1939, Rosso/Artom, in Il diritto razzista, 2-3-4 (1940), pp. 139-158. 36 P. Fedele, La nobiltà del sangue, in Il diritto razzista, 1-2 (1939), pp. 10-12, qui p. 10. 37 Ibidem. 38 Pier Antonio Romano aveva conseguito la laurea con lode in giurisprudenza, presso la Regia università di Roma, sotto la direzione del prof. Giuseppe Messina, discutendo la tesi davanti ad una commissione presieduta dal prof. Pier Silverio Leicht, peraltro membro del comitato scientiico de Il diritto razzista. P. A. Romano, I criteri legislativi per la qualiicazione razziale, in Il diritto razzista, 1-4 (1941), pp. 44-77.
pensabile che essa spiegasse i propri effetti così a ritroso nel tempo, si sarebbe dovuti arrivare a prendere in considerazione la persona di famiglia più anziana ancora in vita; per la determinazione dell’appartenenza razziale degli antenati defunti, invece, si sarebbe dovuto far ricorso al diritto ebraico.
Proprio su questo aspetto interveniva con un richiamo in nota il direttore del periodico che non nascondeva le proprie riserve in merito alla soluzione prospettata dal giovane Romano: nel diritto ebraico, infatti, il fattore “razza” risultava spesso nascosto da quello religioso e, pertanto, un’applicazione del diritto ebraico non avrebbe condotto a dei “risultati razzialmente veridici”. Trattandosi di una problematica afferente alla “materia genealogica”, ritornava piuttosto utile il ricorso al concetto di “eredità biologica”, e quindi un impiego dei sistemi di ricerca genealogica adottati propriamente negli ordini nobiliari e nel diritto nazionalsocialista39 .
Nelle pagine del neonato periodico, così, iniziarono ad essere pubblicati i primi contributi monograici sulla nuova “condizione razziale”. Alla “disuguaglianza razziale d’origine” veniva assegnata la funzione di principio generale al quale l’ordinamento giuridico italiano si sarebbe necessariamente dovuto informare; per tale ragione, Cutelli si premurava di ricordare l’impellente necessità di provvedere all’inserimento della nozione di “razza” nel testo della Carta del Lavoro40 .
Una grande attenzione fu tributata alla deinizione dello status razziale. Tale formulazione era quanto mai ricorrente negli interventi dei giuristi allineati, dei giuspubblicisti ed esperti di diritto coloniale, in modo particolare, che la utilizzavano in maniera funzionale al progressivo perfezionamento della legislazione razziale italiana e alla costruzione di una cittadinanza fondata sull’appartenenza etnica41. All’indomani dell’entrata in vigore del I libro del codice civile, il riferimento allo status razziale era divenuto una sorta di postulato per i civilisti maggiormente implicati nella politica del regime42 .
Il concetto di status razziale, la deinizione dei suoi contenuti e delle sue implicazioni rappresentarono uno dei punti focali attorno ai quali si concentrò l’attenzione dei collaboratori di Cutelli. Tra gli studi in materia, vi
39 Ivi, p. 70. 40 S. M.Cutelli, Verso la dichiarazione dei principi del diritto fascista. Per l’inserimento delle nozioni di “razza” e “partito” nella Carta del “Lavoro”, in Il diritto razzista, 5-6 (1940), pp. 161-164; Id., Contro Giuda e il vitello d’oro. Per l’inserimento delle nozioni di “razza” e “partito” nella Carta del “Lavoro”, in Il diritto razzista, 1-4 (1941), pp. 3-14. 41 In particolare, R. Sertoli Salis, Le leggi razziali italiane (legislazione e documentazione), Roma, Quaderni della Scuola di Mistica Fascista 1939, pp. 31-32. Sul rapporto tra razza e cittadinanza, P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. 4, L’età dei totalitarismi e delle democrazie, Roma Bari, 2001. 42 Sul punto, si veda, in particolare, F. Treggiari, Questione di stato. Codice civile e discriminazione razziale in una pagina di Francesco Santoro-Passarelli, in Per Saturam. Studi per Severino Caprioli, a cura di G. Diurni, P. Mari, F. Treggiari, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 821-868.
era quello di Alfredo Ciofi che il direttore del periodico aveva salutato con maggior entusiasmo, deinendolo come pionieristico. L’autore si era mostrato fortemente convinto della possibilità di asserire l’esistenza di uno status razziale nell’ordinamento giuridico italiano e si era interrogato circa l’interesse dell’impiego di simile nozione, chiedendosi, in particolare, quali fossero le conseguenze che ne derivavano sul piano processuale. A questo proposito, l’autore ritornava su uno dei più delicati problemi relativi all’applicazione della legislazione antiebraica: quello della natura della competenza, giurisdizionale o amministrativa, ad intervenire nella soluzione delle controversie relative all’applicazione della legislazione antiebraica e razziale. Ciofi non negava che la dichiarazione di appartenenza alla razza ebraica rientrasse tra le competenze del Ministero dell’interno ma rilevava un’inadeguatezza legislativa riguardo alla tutela giurisdizionale: considerare la condizione razziale come un nuovo stato della persona richiedeva di pensare a speciiche e corrispondenti forme di tutela giurisdizionale43. A chiusa dell’intervento, il direttore del periodico invitava “gli studiosi fascisti a portare il loro contributo all’esame e al perfezionamento” di quella legislazione che egli deiniva come una “nuovissima conquista della Rivoluzione”, ma soprattutto indicava nuovamente quale, a suo avviso, sarebbe stata la via da seguire per risolvere il problema dell’attribuzione della competenza: l’istituzione di una magistratura specializzata in materia razziale che avrebbe potuto dichiarare d’uficio l’appartenenza alla razza ebraica44 .
4. dialoghi con “Il diritto razzista”: sviluppi del dibattito giuridico attorno alla legislazione antiebraica
Tra il tentativo di rimozione messo in atto da periodici come la Rivista di diritto civile e quello di costruzione del “diritto razzista” operato dai collaboratori di Cutelli, lo spoglio dei periodici rivela una reazione composita ed eterogenea quanto alle attitudini manifestate dai giuristi italiani nei confronti dei decreti del ’38. In via generale, sembra possibile asserire che si rivelarono maggiormente votati al commento e allo studio della legislazione razziale quelle riviste giovani, in particolare, quelle dirette da pratici del diritto, o quei periodici che avevano conosciuto dei cambiamenti radicali in seno ai propri comitati direttivi in epoca fascista. Nell’eterogeneità di tali posizioni, si andò delineando, seppur in maniera timida e atipica, un dibattito attorno alla nuova condizione razziale introdotta in Italia.
43 Su questo punto, lo stesso autore si esprimeva ampiamente in Lo stato razziale e le sue guarentigie nel diritto italiano, Empoli 1942. 44 Ivi, p. 199.
La nuova creatura di Cutelli, pur non avendo ottenuto i consensi e le attenzioni sperate da parte delle più alte sfere politiche, se non attorno al 194145, e pur non avendo assunto un ruolo di guida nella costruzione di una vera e propria dottrina giuridica del razzismo italiano, contribuì, in qualche modo, ad alimentare il dibattito attorno alle modalità applicative della legislazione antiebraica e razziale, insinuandosi tanto nelle pagine di quei periodici che mostravano di condividere delle posizioni più radicali in tema di attuazione della normativa antiebraica, quanto di quelli che, seppur velatamente, mostravano delle remore nell’aderire alle posizioni di Cutelli. Due riviste, in particolare, intrattennero dei rapporti abbastanza intensi con Il diritto razzista: la Rivista penale, all’epoca diretta dall’avvocato Filippo Ungaro e dal procuratore Antonio Albertini e la Rivista del diritto matrimoniale italiano, nelle pagine della quale era stata pubblicata la tanto discussa nota di Galante Garrone. In entrambi i periodici, le rubriche “razza” e “razza ebraica” comparivano con costanza negli indici generali delle annate.
Nel primo caso era la concomitante partecipazione a entrambi i periodici di alcuni giuristi notoriamente ingaggiati nella politica di difesa della razza, come Mario Manfredini e Domenico Rende, a tradire una forte condivisione di idee e scambi tra la Rivista penale ed Il diritto razzista. Manfredini era autore di numerosi contributi aventi ad oggetto principalmente le problematiche giuridiche connesse alla politica di tutela della razza in territorio coloniale. Il giurista era apprezzato da Cutelli ed è frequente ritrovare delle sue pubblicazioni nelle pagine de Il diritto razzista. Peraltro, Cutelli e Manfredini ebbero occasione di confrontarsi a proposito delle lacune legislative presentate dal testo di legge 1004/’39, relativo alla tutela del “prestigio della razza italiana” nel territorio dell’AOI, mostrando di condividere una certa intesa sull’adozione di posizioni estreme ed intransigenti nel prosieguo della politica razziale46 .
Il secondo, Rende, aveva da subito aderito al comitato scientiico di Cutelli, deinendo la pubblicazione del nuovo periodico come “indispensabile per lo studio e l’approfondimento dei problemi giuridici nascenti dalla legislazione razziale” che costituiva, a suo dire, “una delle basi giuridiche dello stato fascista”47. Autore di qualche pubblicazione comparsa nel periodico di Cutelli48 ,
45 A partire dal 1942, Cutelli sembra maggiormente coinvolto nell’organizzazione della propaganda razziale. Il suo nome, peraltro, igura tra quello di alcuni esperti incaricati dall’Uficio studi e propaganda sulla razza di una serie di conferenze radiofoniche sulla questione ebraica in Italia. Acs, Minculpop, Gabinetto, b. 138, fasc. 181, Propaganda razziale. 46 Tra le pubblicazioni di Manfredini: Il diritto imperiale d’Italia, in Rivista penale, I (1938), pp. 792-804; La difesa della razza in A.O., la nozione del delitto di madamato e il concorso dell’indigena nel reato, in Rivista penale, I (1938), pp. 1294-1297; Ancora alcune questioni in tema di madamato, in Rivista penale, I (1939), pp. 611-613; In tema di preteso abuso di correzione, in Il diritto razzista, 2-3-4 (1940), pp. 137-139; Gerarchia di razza o reciprocità egualitaria penale?, in Il diritto razzista, 1 (1940), pp. 5-12. 47 Cutelli, Ai lettori,.cit., p. 5. 48 D. Rende, La famiglia e la razza nel nuovo codice civile italiano, in Il diritto razzista, 1-2 (1939), pp. 24-31; Id., Per la razza ario-romana-fascista, in Il diritto razzista, 2-3-4 (1942), pp. 73-87.
nella Rivista penale si era di frequente occupato della problematica giuridica connessa alla qualiicazione del reato permanente, tornata alla ribalta nella rilessione penalistica di ine anni Trenta, in concomitanza con la pubblicazione di un decreto di amnistia riguardante, tra le altre, anche le fattispecie previste nel R.D.L. 1728/’3849 .
Nelle pagine della Rivista del diritto matrimoniale italiano, invece, l’attenzione nei confronti delle tesi di Cutelli si manifestò con maggiore costanza nella sezione consacrata allo “Spoglio delle riviste”, nella quale la nascita de Il diritto razzista era stata peraltro prontamente segnalata nel 193950. La scelta di dedicare la sezione in questione dell’annata del ’42 proprio alla recensione di alcuni tra i più importanti studi pubblicati nelle pagine del periodico di Cutelli non sembra completamente casuale; a ben guardare, infatti, la quasi totalità delle recensioni, non irmate, aveva ad oggetto articoli pubblicati nelle pagine de Il diritto razzista, raccordati da un comune ilo tematico51: le problematiche poste dalla nuova qualiicazione di ebreo, tanto per quel che atteneva al proilo sostanziale, quanto per le implicazioni che ne derivavano dal punto di vista strettamente processuale. Occasione che offre al periodico la possibilità di ribadire la propria posizione in materia, ancora una volta attraverso il rinvio alla nota di Galante Garrone e di criticare l’uso sconsiderato che della nota del magistrato torinese era stata fatta tanto dal giovane Pier Antonio Romano quanto dalla rivista stessa.
L’anonimo autore delle recensioni dimostrava di voler prendere le distanze dall’impiego della nozione di status razziale. Osservando come quell’argomento avesse assunto rinnovata importanza in Italia soltanto da un tempo relativamente recente, criticava le argomentazioni del Ciofi, che aveva portato “nella discussione il profondo senso giuridico e la cultura di cui è dotato”52. Soprattutto, però, si trattava di una nuova occasione per ribadire la posizione del periodico riguardo alle questioni di ripartizione della competenza. L’esplicito rinvio alla nota di Galante Garrone, che era stata deinita in precedenza come la linea alla quale la rivista si uniformava, stava a sottolineare, indirettamente, la natura futile della discussione attorno alla natura giurisdizionale o amministrativa della competenza del Ministro: le questioni afferenti alla capacità giuridica dovevano essere attribuite in via esclusiva all’autorità giurisdizionale ordinaria. Non solo, sottolineando come Romano avesse provveduto a citare ripetutamente lo studio del magistrato torinese, l’autore della recensione faceva garbatamente rilevare come quella nota fosse stata utilizzata in maniera scorretta tanto dallo stesso Romano, che pur ci-
49 R.D. 24 febbraio 1940, n. 56, Concessione di amnistia e di indulto, in Gazzetta Uficiale del Regno d’Italia, 47 (1940), pp. 825-828. 50 Sezione “Le riviste”, in Rivista del Diritto Matrimoniale italiano, 1939, pp. 331-332. 51 Si vedano le recensioni nella sezione “Le riviste”, in Rivista del diritto matrimoniale italiano, 1942, pp. 126-127. 52 Ivi, p. 127.
tandola diverse volte non aveva mai rinviato alla sua versione integrale, quanto dalla rivista Il diritto razzista dove il testo era stato riprodotto.
Il “silenzio” da un lato e la “militanza” dall’altro costituiscono i due estremi all’interno dei quali oscillò la reazione dei giuristi italiani nei confronti della legislazione antiebraica e dell’impiego della nozione di “razza” nel campo giuridico. Tali reazioni costituiscono i poli all’interno dei quali prese lentamente corpo un dibattito attorno alla nuova qualiicazione di “cittadino italiano di razza ebraica”. Si trattava di un dibattito timido e atipico che, intensiicatosi fortemente tra il ’40 ed il ’42, si alimentò principalmente di note a sentenza, citazioni di contributi comparsi nelle riviste specializzate, brevi resoconti legislativi o recensioni, mentre in luoghi specializzati, come la rivista di Cutelli, si andava costruendo il “diritto razzista” italiano: qui i decreti antiebraici venivano spogliati della loro dimensione di “specialità” per divenire un nuovo specialismo disciplinare, una nuova branca del diritto italiano.