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del diritto ................................................................................................... »
Michail Stolleis CoMPREndERE L’InCoMPREnSIBILE: L’oLoCAUSTo E LA SToRIA dEL dIRITTo*
I.
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Vorrei introdurre questo mio contributo relativo ad uno degli oggetti più scabrosi della storiograia con un’osservazione di tipo personale: in dal 1969 mi occupo, con grandi interruzioni e con sempre rinnovate riprese, del sistema giuridico e d’ingiustizia del nazionalsocialismo. Era un tema della mia generazione, arrivata all’università da studente intorno al 1960, che in questo ambito dovesse esser fatto qualcosa che i docenti accademici non potevano o non volevano fare. Quello che ci spronava era un impeto morale piuttosto che “di sinistra”.
Allo stesso tempo non doveva trattarsi di una storiograia moralizzante, che avrebbe potuto soltanto constatare il fallimento dei padri e una “rimozione” del problema da parte dei contemporanei. Atteggiamenti eticizzanti erano in questo campo un esercizio obbligatorio troppo facile per chi non aveva assistito in prima persona all’olocausto e non ne aveva saputo quasi niente ino all’età scolare. Doveva essere dunque una storiograia critica e distaccata, fondata metodologicamente: distacco soltanto ino ad un certo punto, giacché restava salva l’empatia con le vittime, e non era possibile altrimenti.
Saul Friedländer, che si è sentito in altro modo chiamato in causa da questo tema, ha parlato di “Primärgefühl der Fassungslosigkeit”, di sensazione primaria di sbigottimento1. Nel corso degli anni questo “Primärgefühl der Fassungslosigkeit” si è rafforzato ed è divenuto più intenso. Quanto più la conoscenza dei particolari si accresce, il tempo passa e noi stessi diveniamo vecchi, tanto più diventa incomprensibile ed “estraneo” l’accaduto.
* Ringrazio molto il mio collega Vincenzo Colli (Istituto Max Planck) per la traduzione. 1 S. Friedländer, Das Primärgefühl der Fassungslosigkeit bewahren, in Id, Den Holocaust beschreiben, Göttingen 2007, 96-120 (104).
Vediamo il reale inferno dei campi di concentramento, le montagne di cadaveri, le liste senza ine di nomi come sulle foto bianco-nero della nostra giovinezza. Le cifre dell’orrore sembrano divenire sempre meno leggibili. Tutti noi sappiamo che è stata realtà, ancor ininitamente peggiore che su queste immagini bianco-nero. Ma ci tocca anche accettare che le voci delle vittime si fanno più sommesse. Coloro che hanno assistito a tutto – e nei limiti delle loro possibilità ne “danno testimonianza per ogni tempo” – parlano talora con malinconia e timore di un futuro in cui più nessuno potrà raccontare i fatti in maniera “autentica”.
In fondo vi sono le “memorie contrapposte” delle vittime e dei responsabili (insieme ai loro discendenti), di chi è stato coinvolto e di chi non lo è stato, della vicinanza e della lontananza2 .
Non c’è contraddizione con ciò, se dico: l’impeto scientiico di “capire” inalmente perché si poté arrivare all’uccisione di massa di ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, asociali, nemici politici ed innocenti in cifre folli ad un tempo si rafforza. Non può essere possibile – così si pensa – occuparsi per interi decenni di questi avvenimenti e comunque non capirli. Ciò tocca l’autocoscienza delle scienze alle quali si spera di poter offrire un qualche benché minimo contributo. Tutti gli sforzi di “capire” inalmente con la lettura delle fonti e la rilessione cosa è stato l’olocausto, cosa, a partire dal consueto antisemitismo borghese degli anni Venti allora ancora apparentemente innocuo, lo ha spinto nella legislazione e nella prassi discriminante, inché alla ine fu incrementato ino alla follia e giunse ad un arresto soltanto col crollo dell’intero sistema, tutti questi sforzi devono forse essere stati vani?
II.
Come si può dunque “capire” l’olocausto? Innanzi tutto bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intenda con “olocausto” – per quanto ciò possa suonare superluo. Normalmente usiamo “olocausto” o “shoah” o (pars pro toto) “Auschwitz” come sigla generale di un movimento politico iniziato in Germania per l’allontanamento dalla vita sociale e politica, la privazione dei diritti e poi lo sterminio sistematico della minoranza ebraica, in primo luogo in Germania, poi nell’intera Europa, in dove si estese l’ambito di potere di Hitler. Ma dire così da vari punti di vista sarebbe piuttosto riduttivo.
Non erano soltanto gli ebrei, ma insieme con loro tutte le minoranze, che il regime perseguitava con odio: in cima ovviamente gli oppositori politici (socialisti, comunisti, cristiani, ma anche conservatori, che non si erano lasciati
2 D. Diner, Gegenläuige Gedächtnisse. Über Wirkung und Geltung des Holocaust, Göttingen 2007.
conquistare), zingari (sinti e rom), omosessuali, asociali, cosiddetti criminali di professione, portatori di handicap mentali o isici, quali “mangiapane a ufo”, seri cultori di studi biblici e obiettori di coscienza3 .
Si devono dunque, per comprendere il fenomeno nel suo complesso, lasciar da parte tutte le limitazioni delle identità di gruppo, tutte le loro rivalità per un posto adeguato nella storia della memoria. Ovviamente Hitler fu in dai tempi viennesi un antisemita invasato, altrettanto lo furono la maggior parte dei dirigenti in “stato” e “movimento”. “Lo sterminio degli ebrei europei” (R. Hilberg) al più tardi dalla Conferenza del Wannsee divenne certo lo scopo centrale. Questo delirio che si nutriva ad un tempo di politica e biologismo e si preiggeva una “pulitura del corpo del popolo” veniva a comprendere tutti i gruppi menzionati ed è questo il contesto da cui prendere le mosse.
Una seconda limitazione va a sua volta abbandonata. Gli antisemitismi latenti o dichiarati presenti in molte società dell’Europa occidentale e orientale furono risvegliati, incoraggiati e favoriti dal nazionalsocialismo e dalle azioni omicide che lo accompagnavano. Ciò arriva a comprendere dalla collaborazione di gruppi dell’Europa occidentale o di politici nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio ino agli omicidi di massa in Lituania, Ungheria e Galizia, ma racchiude appunto anche le leggi razziali e la prassi discriminatoria italiane, che sono l’argomento del nostro convegno4 .
Per comprendere il fenomeno nel suo complesso, bisogna prendere le mosse non soltanto da un concetto ampio di “olocausto”, devono essere inclusi anche i complici e i correi istigati dal potere nazista, ma bisogna anche restare aperti a tutte le ipotesi scientiiche dotate di serietà metodologica nel corso del chiarimento dell’intero complesso. Anche in questo caso le tipiche tendenze degli studiosi a porre al centro le proprie tesi, o addirittura a dichiararle come le uniche plausibili, devono essere contenute. Senza alcun primato tutti sono competenti per il loro rispettivo settore disciplinare: la psicoanalisi e la “psicologia delle masse”, se si tratta di fenomeni della identiicazione affettiva, ma anche della paura e della sottomissione. Inoltre: la storia della scienza biologica, in particolare delle teorie dell’evoluzione e delle dottrine della razza, dell’eugenica, anche la storia della scienza giuridica (in connessione all’eugenica), potranno mostrarci che la storia dei brillanti successi delle scienze della natura nel diciannovesimo secolo aveva anche i suoi risvolti mostruosi. Di eccezionale importanza è di certo anche la sociologia che indaga sia le istituzioni e le loro dinamiche interne, sia i fenomeni della frammentazione di responsabilità in molte quasi impercettibili particelle e i fenomeni dell’identi-
3 La letteratura è sconinata. Le principali opere di riferimento sono: R. Hilberg, Die Vernichtung der europäischen Juden, Frankfurt 1990; S. Friedländer, Das Dritte Reich und die Juden. Bd. I, Die Jahre der Verfolgung 1933-1939, 2. Aul., München 1998, Bd. II, Die Jahre der Vernichtung 1939-1945, München 2006. 4 G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007.
icazione con immagini guida, con “Führer” o con scopi vaghi comprensibili soltanto intuitivamente.
Forse in futuro persino gli studiosi dei meccanismi cerebrali faranno parte di questa équipe di ricercatori, se dovessero deinire come il “desiderio di morte” e la “sete di sangue” lascino le loro tracce nel cervello, e per gli anni dopo il 1945 potrebbero insegnarci come il ricordo venga deformato e piegato afinché resti per i singoli psicologicamente tollerabile. In fondo l’economia ha svolto un ruolo considerevole per la politica di espansione e per la conduzione della guerra nel complesso, sia nella presa di materie prime e inanze, sia come mezzo di “ricompensa” del fronte interno5. Per l’olocausto essa non è invece sostanziale, giacché coinvolgeva persone che dal punto di vista militare, economico o politico erano prive d’importanza. Impegnava considerevoli forze logistiche, favoriva la propaganda di guerra degli alleati e inoltre doveva essere tenuto nascosto alla propria popolazione.
1. Per comprendere l’incomprensibile, si dovrebbe cominciare con il tratto dominante: l’antisemitismo fondato biologicamente. Molti tedeschi di estrazione borghese credevano che, nel caso dei provvedimenti contro gli ebrei dopo il 1933, in primo luogo si trattasse di una riduzione moderata dell’ inlusso degli ebrei nella vita pubblica, culturale e scientiica. Vi era un ampio consenso in ambiente borghese sul fatto che in proporzione ai numeri assoluti vi fossero troppi ebrei scrittori, attori, artisti, ginecologi, avvocati, produttori, pubblici uficiali – si voleva “ridurre” ciò e possibilmente restando entro i binari del diritto.6 Al più tardi con le leggi razziali di Norimberga del 1935 divenne evidente però che questo era stato soltanto una messa in scena per i circoli borghesi i cui istinti d’invidia e le avversioni erano stati soddisfatti. Allora si fece strada l’argomentazione biologistica, quella del “sangue”. Nessuno capì esattamente cosa dovesse signiicare, nonostante che Hitler nel “Mein Kampf” lo avesse detto chiaramente. Allora si voleva non più soltanto “ridurre” una minoranza religiosa che aveva vissuto in Germania sin dal Medioevo, ma “eliminarla” in una qualche forma come elemento razziale. Un’idea folle, di certo, assurda
5 G. Aly, Hitlers Volksstaat. Raub, Rassenkrieg und nationaler Sozialismus, Frankfurt 2005, ha posto in rilievo con vigore che l’intero popolo tedesco traeva vantaggi dalla guerra. Per quanto ciò sia importante a chiarimento dello stato d’animo generale in Germania, non contribuisce minimamente alla spiegazione dell’olocausto. Un qualsiasi senso economico, militare, di tattica politica, non si riesce a coglierlo nell’accaduto. Fu svolto per così dire contro ogni intenzione utilitaristica. I “costi” di diritto internazionale e morali dell’olocausto, in aggiunta anche a quelli di carattere logistico e inanziario, superavano di gran lunga i guadagni materiali che potevano farsi incidentalmente e si può ritenere che di ciò fosse conscia anche la dirigenza nazionalsocialista. 6 Sugli atti di violenza antisemitica al di fuori del diritto vedi M. Wildt, Volksgemeinschaft als Selbstermächtigung. Gewalt gegen Juden in der deutschen Provinz 1919 bis 1939, Hamburg 2007.
soprattutto in un’area geograica in cui da più di mille anni i popoli si erano mischiati, appunto incrociati dal punto di vista biologico. Ma non appena si consolidano nel centro del potere, le idee assurde si trasformano in terribile realtà. Allora cominciò la ricerca della “nonna ebrea”, la pubblica costrizione di redigere elenchi di antenati; allora si diffuse la paura in famiglie borghesi, di alta borghesia e nobili di trovarsi dalla parte sbagliata. I nazisti radicali erano pseudo-biologi, per esprimersi con indulgenza. Credevano al “sangue” e disprezzavano tutti i tentativi di limitazione giuridica, appunto perché ponevano il “sangue” in maniera assoluta. Chi credeva al “sangue” doveva sterminare. Persino persone anziane, da cui non vi era più niente da temere dal punto di vista biologico, inirono travolte7. Giacché soltanto l’uccisione poteva portare la vera “salvezza”, si rigettarono subito anche altre idee folli meno radicali, come il trasferimento di tutti gli ebrei in Madagascar.
Questo mondo biologistico immaginario è nato nel secolo diciannovesimo.
È il prodotto del darwinismo sociale, delle dottrine dell’ereditarietà e delle teorie popolari della razza, che dal canto loro risalgono alle scienze della natura del diciottesimo secolo.
Le cognizioni intorno alle razze principali dell’umanità appartenevano ad un sapere standard; lo si poteva controllare in ogni “Konversationslexikon”. Si credeva – di certo in tutta Europa – alla connessione tra aspetto isico, forma del cranio e carattere. Il passo era breve ino all’idea assurda di riconoscere una congiura globale dell’ebraismo semitico per la distruzione dell’arianità e di doverla scoprire ora all’ultimo minuto.
Allo stesso modo dal secolo diciannovesimo deriva l’idea che il “corpo del popolo” biologico presenti elementi sani e malati. In conseguenza dei “problemi sociali” si facevano ricerche su alcolismo, criminalità, denutrizione e malattie ereditarie. A cerchie borghesi, ma anche socialiste, parve plausibile di intervenire regolamentando in questi angoli oscuri della società dominata dal “progresso”: non soltanto con aiuti positivi, ma anche agevolando l’aborto, per mezzo di sterilizzazione e in ine uccidendo “vita indegna di vivere”. Questa formula, resa popolare dal medico Hoche e dal giurista Binding, venne soltanto a riassumere quanto già si discuteva da tempo.
Il vaneggiante antisemitismo razzista del mondo ariano e gli autoeletti medici del corpo sociale della nazione erano concordi che fosse decisiva soltanto la “utilità” per il popolo, la nazione, la generalità. Con ciò furono infrante tutte le barriere della civiltà e della cultura, della morale e del diritto.
7 Quale esempio tra innumerevoli altri si ricordi lo scienziato, imprenditore e mecenate di Francoforte Arthur von Weinberg (1860-1943), che nel 1942 all’età di 82 anni fu deportato nel Konzentrationslager Theresienstadt, dove morí, mentre la IG-Farben, una impresa di livello mondiale che egli stesso aveva creato, gestiva insieme alle SS il KZ Buna-Monowitz incassando lauti proventi bellici. A questo proposito: J.R. White, IG Auschwitz: The Primacy of Racial Politics, Diss. Univ. of Nebraska Lincoln NE, 2000.
Il diritto come ostacolo non era più utile, da quando era stato diffamato come “semplice diritto legislativo” che poteva essere cambiato ogni momento. La morale era stata irrisa come strumento dei deboli da Nietzsche: i forti non avevano bisogno di attenervisi.
2. Un secondo motivo essenziale che portò ad una caccia alle minoranze dopo il 1933 fu la, per metà inconscia e per metà cinicamente conscia, mobilizzazione della “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare). L’esperienza decisiva per Hitler era stata la comunità dei soldati al fronte. Molti soldati proseguirono questa forma esistenziale nei corpi di volontari – essi erano quali “Landsknechte” (servitori della patria) spesso rovinati per un rientro nella società civile. Allora, dopo la prima guerra mondiale tutti parlavano di comunità.
La borghesia anelava ad un superamento delle lotte di classe in una “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare). Anche i socialisti sognavano una comunità che superasse le classi. La “Jugendbewegung” (il movimento della gioventù) sia borghese che socialista ad uno stesso tempo avevano intonato i loro canti e si erano sedute intorno ai fuochi da campo. Teorici dello stato quali Rudolf Smend speravano nel superamento della crisi permanente dello stato per mezzo di “integrazione”. Ma anche Carl Schmitt, Erich Kaufmann e Hermann Heller erano alla ricerca, ciascuno a suo modo, di una unità della collettività, ed era chiaro che il liberalismo borghese del diciannovesimo secolo non poteva più produrla.
Questi discorsi di unità, “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare), e integrazione, incessantemente ripetuti nel periodo della Repubblica di Weimar, dopo il 1933 furono fatti propri e radicalizzati dai nazionalsocialisti. Giacché Hitler disprezzava e voleva distruggere il prima possibile i partiti, aveva bisogno di una proiezione di scopo: l’unità della nazione ora deinita dal punto di vista razziale. Dopo le sue esperienze al fronte e in battaglia era soltanto possibile presentarsi come potente riunendo dietro di sé le masse. Come modello (Leitbild) e ad un tempo motivo conduttore servì a ciò la “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare) con i suoi rituali unitari. Si lusingava la classe operaia con il discredito delle professioni intellettuali, si umiliava la borghesia e ad un tempo si pretendeva che si inquadrasse, si deridevano le élites scientiiche, nobiliari, ecclesiastiche come “lebensfremd” (avulsi dalla realtà), “sclerotici”, “clericali”.
Su questa base non era dificile con un passo ulteriore giungere a deinire la “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale) come unità “razziale”. Da lì in poi vi fu soltanto una totalità omogenea degli ariani e una serie di gruppi, che non erano “integrabili”: gli odiati ebrei, i socialisti, gli incorreggibili liberali, i cristiani pieni di riserbo nei confronti della comunità e altri gruppi religiosi, i malati inguaribili e, ad essi equiparati, gli omosessuali.
Tutti loro erano per esclusione “estranei alla comunità” (gemeinschaftsfremd/stranieri della comunità). È caratteristico che il ministero della giustizia
sotto il nazionalsocialista radicale Thierack in piena guerra avesse programmato ancora una legge contro i “Gemeinschaftsfremde” (asociali). Chi si fosse posto contro la “comunità nazionale” doveva essere punito o eliminato8 .
In altre parole, la comunità dei combattenti della prima guerra mondiale e dell’attore politico Hitler divenne ora soltanto una comunità nazionale deinita razzialmente. Era realizzabile soltanto dando la caccia alle minoranze; giacché soltanto questa caccia produceva la sensazione di trovarsi dalla parte giusta nella collettività9. Questo aspetto psicologico spiega anche perché i colpevoli più radicali dell’olocausto fossero tipicamente di estrazione piccolo borghese o contadina. Essi potevano compensare con maggior forza le sensazioni di svantaggio sociale permanente ora con la possibilità di fare la loro comparsa come “uomini di potere”. Notoriamente una persona con complessi d’inferiorità può trasformarsi tragicamente se lo si dota di una uniforme, stivali da equitazione, frusta e soprattutto del potere di uccidere.
3. Una terza ragione dell’evoluzione dal 1933 ino alla ine dell’olocausto consiste a mio parere nel fatto che pare esserci un “decorso quasi regolare delle rivoluzioni”. Si è spesso osservato che fratture rivoluzionarie dispiegano una loro propria dinamica con il precedente ordinamento sociale e giuridico. Lo si nota in maniera esemplare nella rivoluzione maggiormente nota, quella francese del 1789. Essa inizia come rivolta interna al sistema, vengono concesse riforme, le richieste aumentano, i radicali si affermano, la temperatura sale, e già così tanto che il minimo sospetto o la più infondata calunnia hanno conseguenze mortali. Allora la rivoluzione divora i propri igli, l’onda s’infrange e passa in un nuovo ordine. Si chiama allora “reazione” o “restaurazione”.
Il passaggio di potere ai nazionalsocialisti non fu un colpo di stato o un putsch, ma in primo luogo una formazione del governo ancora legale. Nel giro di poche settimane si sviluppò in una rivoluzione – se non si riserva questo concetto soltanto per i rivolgimenti “moralmente buoni”, sostenuti dalla volontà popolare10. Questa rivoluzione nazionalsocialista cominciò in maniera legalitaria, facendo uso del idato strumento della legislazione e dei regolamenti. Una legge seguì all’altra. I giuristi commentarono queste leggi, i tribunali le applicarono. Si restò formalmente entro i conini consueti. Il regime costruì una facciata di legalità per assicurarsi la lealtà dei funzionari pubblici borghesi e dell’apparato giudiziario. Il ministro della giustizia Gürtner non era
8 P. Wagner, Das Gesetz über die Behandlung Gemeinschaftsfremder, in Feinderklärung und Prävention. Kriminalbiologie, Zigeunerforschung und Asozialenpolitik, Berlin 1988; W. Ayass, Gemeinschaftsfremde. Quellen zur Verfolgung von Asozialen (Materialien aus dem Bundesarchiv, 5), Koblenz 1998; M. Willing, Das Bewahrungsgesetz (1918 – 1967), Tübingen 2003, pp. 187 e ss. 9 Z. Baumann, Moderne und Ambivalenz. Das Ende der Eindeutigkeit, Hamburg 2005. 10 M. Stolleis, Revolution, in Handwörterbuch zur Deutschen Rechtsgeschichte, a cura di E.Kaufmann, vol. 4, Berlin 1990, pp. 961-965.
nazionalsocialista, poteva valere molto più come garante della tradizione11 . L’organizzazione dei primi campi di concentramento “selvaggi” fu contenuta, la rivoluzione fu dichiarata conclusa, i capi delle SA che si ostinavano a voler partecipare alla spartizione del bottino furono passati alle armi nel 1934. Ciò fu sicuramente illegale, ma tranquillizzò in ogni caso gli ambienti borghesi. Hitler non poteva ancora fare a meno del loro consenso. Non appena le cose non stavano più così, all’incirca dal 1935 e 1936, cominciò una radicalizzazione: una politica estera aggressiva, un riarmo forzato, una crescita dell’impero non uficiale delle SS e della Gestapo. La lotta per il potere tra stato e NSDAP, il partito, si accese a tutti i livelli. Ci si sbarazzò anche degli idioti utili al sistema, compreso il “Kronjurist” Carl Schmitt12 .
A questo ritmo si svilupparono anche la privazione dei diritti e l’emarginazione degli ebrei e delle altre minoranze oltre che la persecuzione degli oppositori. Ad una prima fase “selvaggia” fece seguito una fase della pacatezza e della legittimazione, soprattutto con le leggi razziali di Norimberga del 1935, che si accettarono anche in ambienti borghesi perché ora sembravano raggiunte chiarezza, delimitazione e sicurezza del diritto. La loro applicazione si svolse troppo lentamente per le forze radicali, cui sembrarono troppo moderate, troppo giuridiche. Si aspettava un’occasione, che arrivò nel novembre 1938 e portò al grande progrom, le cui conseguenze, come segnale della rottura degli argini morali, giuridici e politici, furono molto più penetranti di quelle materiali. Ora si usò qualsiasi occasione per il ricatto, richieste di “contribuzioni”, si fecero pagare i trasferimenti di bambini ebrei all’estero, si depredò il patrimonio ebraico in grande stile. Ma la dinamica interna continuò. L’occasione ancor più grande si offrì in guerra. Ora si poté “davvero” cominciare ad uccidere sul terreno antistante o sul retroterra delle azioni belliche, prima senza una programmazione, poi sempre più conseguentemente e con una eficienza che per i tedeschi è famosa e famigerata.
In altre parole: non ci fu un piano generale, perseguito in dall’inizio, dello sterminio degli ebrei, né presso Hitler né presso uno dei potenti della sua cerchia. Ma c’erano disposizioni sulla violenza, sul disprezzo di “scrupoli” borghesi e di limiti giuridici e morali. Queste disposizioni si trovavano a portata di mano, furono sempre nuovamente “ricaricate”, non in ultimo dallo stesso Hitler.
La disponibilità alla violazione del diritto, al ricatto e alla violenza, in ine all’omicidio, la si trovava in alto e in basso, nella stessa misura presso il personale dirigente e nelle truppe. La dirigenza di continuo si assicurava di essere senza scrupoli, di voler attaccare “senza pietà” e di non farsi legare le mani da ili giuridici. Non dovevano applicarsi critiche né morali né giuridiche.
11 Fondamentale L. Gruchmann, Justiz im Dritten Reich 1933 – 1940, München 1988. 12 A. Koenen, Der Fall Carl Schmitt. Sein Aufstieg zum Kronjuristen des Dritten Reiches, Darmstadt 1995.
Gli ex-soldati, i membri dei corpi di volontari e i picchiatori delle SA avevano fatto esperienza soltanto di violenza e avevano l’intenzione di continuarla. In questo clima della autoinfatuazione attraverso il linguaggio in un vocabolario della violenza, gli eventi un po’ alla volta precipitarono.
Ciò che, in primo luogo per rispetto verso l’ambiente borghese, si era svolto formalmente ancora sotto “forme giuridiche”, presto divenne aperta violenza che poi, quando il mondo intero issava il proprio sguardo sugli avvenimenti della guerra, non doveva più essere nascosta. L’olocausto è perciò un processo molto complesso, in un crescendo continuo, nel quale progressivamente i radicali si affermarono mentre oppositori e moderati ammutolivano. A questo ammutolimento contribuì notevolmente il fatto che il vero irrompere delle uccisioni di massa (eutanasia, gruppi d’azione, campi di lavoro e di sterminio) si veriicò all’ombra della guerra, in parte di nascosto, in parte a grande distanza dalla “patria”.
4. Che la progressione dalle parole a singole azioni da lì potesse “precipitare” in uno sterminio sistematico ha a che fare da un lato con la “modernità tecnica”, dall’altro con particolarità tedesche. Con la “technische moderne” si intende lo sviluppo della tecnica a partire dalla metà dell’Ottocento. Da un lato essa porta non soltanto a macchine sempre più complesse, ma meccanizza anche la guerra, con l’invenzione delle armi a ripetizione, dei carri armati, dei sottomarini, di bombe sempre più grandi13. Dall’altro attraverso quello sviluppo è caratterizzata da una ripartizione dei compiti che rende sempre più dificile agli individui di riconoscere le conseguenze concrete delle loro azioni. La produzione alla catena di montaggio (Fordismo, Taylorismo) consentiva anche di uccidere in maniera industriale alla catena di montaggio. Nei giganteschi macelli di Chicago per la prima volta nella storia venivano uccise giornalmente decine di migliaia di animali poi lavorate alla catena di montaggio14. Ogni operaio era responsabile soltanto per una singola manipolazione. La “colpa” dell’uccisione di massa si risolveva in singole operazioni. Questo era un funesto prodromo della uccisione di massa di esseri umani. Sono convinto che qui non vi siano connessioni causali, ma strutturali. Anche le SS sperimentavano quale tecnica di uccisione fosse la più eficiente, la mitragliatrice, il monossido di carbonio delle automobili, il gas velenoso o lo sterminio col lavoro15 .
13 S. Giedion, Mechanization Takes Command. A contribution to anonymous history, Oxford 1948 (New York 1969, pp. 240 ss: The Mechanization of Death). 14 U. Sinclair, The Jungle, New York 1906. Si veda anche: D. Pick, War Machine. The Rationalisation of Slaughter in the Modern Age, Yale Univ. Press 1993. 15 W. Gruner, Der Geschlossene Arbeitseinsatz deutscher Juden. Zur Zwangsarbeit als Element der Verfolgung 1938-1943, Berlin 1997; Id., Jewish Forced Labor Unter the Nazis Economic Needs and Racial Aims, 1938-1944, Cambridge 2006, pp. 3-137.
L’olocausto non fu soltanto un massacro razzista in guerra o in occasione di una guerra, ma anche prodotto di una gigantesca amministrazione e di una rafinata logistica. I colpevoli di grado superiore dirigevano i colpevoli di grado inferiore, ma dirigevano anche il personale delle ferrovie e della posta, del rifornimento di materiali e vettovaglie. La loro igura guida era il funzionarioNS e colpevole a tavolino Adolf Eichmann. Hannah Arendt colpì al centro, quando vide in lui l’incarnazione della “banalità del male”16. In questi apparati si perde la responsabilità personale. Essa viene ridotta talmente, che l’agente si accorge di volta in volta soltanto di un settore degli avvenimenti e in tal modo non ha più bisogno di rilettere su cosa stia succedendo nel complesso. Pertanto erano “uomini del tutto normali” che lì uccidevano – con tutte le ambivalenze insite in questa terribile espressione17 .
In Eichmann, Heydrich, Kaltenbrunner e Himmler, per nominare soltanto questi, si riconosce anche uno speciico tipo “tedesco”.18 È certo al limite di quanto possa esprimersi e provare scientiicamente, è anche pericolosamente vicino ai vecchi, da secoli tramandati clichées, ma io azzardo l’affermazione che il tipo del funzionario ubbidiente e oltremodo eficiente sia stato formato con particolare costanza nei grandi stati centralistici della Prussia e dell’Austria. Questo tipo non corrisponde al libero cittadino autoresponsabile che elabora i propri pensieri politici, morali e giuridici e sopporta egli stesso il rischio delle sue azioni. Prussia e Austria, nonostante tutte le differenze, non hanno puntato sulla borghesia liberale, ma sulla casta dei funzionari e dei militari e lì sviluppato determinate forme di comportamento. Detto diversamente: la borghesia non governava, veniva governata. Si tenne lontana dalla politica; proprio i suoi migliori rappresentanti erano ieri di mantenere le distanze dalla “sporca” politica.
Che il nazionalsocialismo potesse strumentalizzare senza grandi dificoltà per i propri crimini la quotidiana mediocrità di questo tipo di servitore dello stato è una faccia della medaglia. Che ad un tempo proprio da questo corpo di funzionari di maggior livello e di uficiali esplodesse la signiicativa e onorevole resistenza del 20 luglio 1944 dopo lunghe lotte intestine è l’altra. Entrambe le cose non si contraddicono, ma mostrano soltanto la tradizionale debolezza della società civile tedesca.
16 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. Ein Bericht von der Banalität des Bösen, 1964 (München Zürich 1995, p. 299). Sull’origine della famosa e discussa espressione, si veda: E. Vollrath, Vom radikal Bösen zur Banalität des Bösen. Überlegungen zu einem Gedankengang von Hannah Arendt, Rede zur Verleihung des Hannah Arendt-Preises für politisches Denken, 2001. 17 Cfr. R. Browning, Ordinary Men, 1992 (deutsch: Ganz normale Männer. Das ReservePolizeibataillon 101 und die Endlösung in Polen, Reinbek 1993); Id. Die Entfesselung der Endlösung. Nationalsozialistische Judenpolitik 1939 – 1942, Berlin 2006. 18 M. Wildt, Generation des Unbedingten. Das Führungscorps des Reichssicherheitshauptamtes, Hamburg 2003.
5. Il quadro che si è delineato non sarebbe completo senza dare uno sguardo al rapporto del regime nazionalsocialista col diritto. Per i principali attori del regime il diritto era nient’altro che un fattore negativo: scrupoli, dubbi, soistica giuridica, dificoltà. Il diritto era strumento di potere, di cui ci si serviva intanto volens nolens ci fosse bisogno di un apparato di burocrati e di tribunali. Anche nei paesi europei occidentali occupati ci si sforzava di ricorrere il più possibile alla positiva parvenza di procedure formalmente giuridiche, come presso a poco mostrano recenti indagini sul regime di Vichy. All’Est era diverso. Qui si credeva al diritto del più forte e lo si praticava senza scrupoli, soprattutto nei rapporti con ebrei o “esseri inferiori” slavi.
Per quanto riguarda le migliaia di giudici e avvocati19 non si potrebbero fare affermazioni di carattere generale sulle loro idee di diritto. Ci sono in tutti gli ambiti giuridici sentenze intrise dello spirito del nazionalsocialismo, ci sono egualmente sentenze innumerevoli nelle quali la “machinerie” dei tribunali aveva funzionato normalmente, come anche in precedenza, e ci sono sentenze in cui qua e là balena uno spirito di contraddizione al regime20 .
L’analisi di tali sentenze e del modo di funzionamento dell’amministrazione della giustizia (compresi il “Volksgerichtshof”, il tribunale del popolo, i tribunali speciali e la giurisdizione militare) è oggetto di intense ricerche. Il quadro complessivo oggi è divenuto molto più differenziato. Ma queste ricerche non appartengono al tema “olocausto” giacché quanto avvenne nei campi di concentramento, quanto fu perpetrato dai torturatori della Gestapo, quanto commise la SS in Maidanek o Auschwitz, era inaccessibile all’amministrazione della giustizia, in parte perché le azioni della Gestapo erano esonerate per legge dal controllo dei tribunali, in parte perché nell’ambito di potere delle SS comunque vigeva “anomia”, non soltanto dunque un “vuoto di diritto”, ma un’attitudine alla superbia di non doversi curare di alcuna prescrizione.
6. Questo ibrido del presunto “Herrenmensch” (uomo di razza superiore) ha molte radici, sia nella biograia personale rovinata, sia in certi ambienti (forse dei tedeschi all’estero), sia nella lettura di letteratura settaria o di autori come Houston Steward Chamberlain, del cosiddetto “tedesco di Rembrandt” o appunto dello “Zarathustra” di Nietzsche, che poteva avere effetti devastanti nelle teste a ciò predisposte.
Intorno al 1900 in Europa era tutto un brulicare di ilosoi e pseudoilosoi, di fondatori religiosi e ciarlatani, di politici e militari di scarsa cultura, che
19 Una registrazione complessiva del personale giudiziario durante il nazionalsocialismo è stata intrapresa da Hubert Rottleuthner (Freie Universität Berlin). La pubblicazione della banca dati si fa ancora attendere. 20 M. Stolleis, Furchtbare Juristen, in Deutsche Erinnerungsorte, a cura di E. François, H. Schulze, vol. II., München 2002, pp. 535-548.
erano concordi quantomeno sul fatto di disprezzare lo stato di diritto borghese e la democrazia parlamentare. Fintanto che questo atteggiamento trovava sfogo nei caffè e nei salotti, in “ordini” misteriosi e comuni agricoli, era espressione del senso di crisi della in du siècle, della ine del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo. Erano prodotti della disgregazione del mondo borghese. Sotto circostanze politiche più favorevoli sarebbero restati privi di effetti. Ma la guerra mondiale e la stoltezza di “Versailles” trasportarono questi elementi nelle centrali del potere, e a cominciare da lì poterono emergere particolari idee balzane sulla ideologia dello stato. Alla ine si dedusse dalla grandezza del delitto la grandezza del compito politico universale che era stato afidato ai tedeschi. Himmler, questa triste incarnazione di tutti questi caratteri, predicò alle sue SS l’eroismo degli incendiari e degli assassini, perché questo gli sembrava che fosse un indizio della loro missione universale. E lo stesso Hitler vide alla ine un Walhall incendiato dinanzi a sé, in cui egli aveva l’intenzione di trascinare il suo popolo, che non si era dimostrato degno di sé.
III.
L’abbozzo in qui proposto ha trattato l’oggetto olocausto forse in maniera un po’ troppo ridotta, non dal punto di vista morale, ma da quello scientiico. Ho tentato di integrare risultati della ricerca scientiica, come accennato all’inizio. Con questo nel complesso ne è derivata l’impressione che si sia trattato essenzialmente di un fenomeno “tedesco”. Dal punto di vista storico ciò è giusto. Il regime di Hitler, che ha rappresentato il Deutsches Reich in maniera effettiva per il diritto internazionale, ovvero dal 30 gennaio 1933 allo 8 maggio 1945, ha cominciato la guerra e perpetrato l’olocausto.
Retrospettivamente si vede anche quali fattori psichici collettivi, economici e politici dovessero congiungersi per produrre quel che ora si chiama olocausto. Per quanto intensamente la ricerca scientiica abbia indagato questi fattori, per chi è nato dopo resta quel “Primärgefühl der Fassungslosigkeit”/sensazione primaria di sbigottimento. In essa si trova non soltanto il sentimento dello sconcerto dinanzi al moralmente incomprensibile, ma anche la convinzione intuitiva che il fenomeno resterà in vasti ambiti inaccessibile alle scienze interessate. L’interazione degli eterogenei fattori personali, culturali e di cultura giuridica durante una dittatura e sotto le condizioni particolarmente estreme di una guerra è troppo complessa per poter essere decifrata completamente. Constatarlo signiica non rassegnazione della ricerca scientiica, ma anche una sorta di riguardo dinanzi alle voragini che si aprono accanto agli attori ma anche in noi stessi.
Il fatto che lo stato nazionalsocialista all’incirca dal 1935 abbia inluenzato e spronato anche altri popoli e stati ad associarsi alla sua politica razzista è oggetto del nostro convegno. “In Italia” disse Primo Levi “le cose si sono
svolte diversamente”21. Non c’è dubbio. Si sono svolte “in altro modo”, di certo, ma “le cose” si sono svolte comunque. Quando Carl Schmitt era rientrato nel 1936 da un viaggio a Roma, scrisse un breve articolo nella “Deutsche Juristen-Zeitung” da lui diretta dal titolo: “Scienza giuridica fascista e nazionalsocialista”22 .
In esso descrisse i paralleli fra la Germania e l’Italia in diritto civile, diritto del lavoro, diritto costituzionale e internazionale, per poi sottolineare le “grandi differenze dell’ideologia (Weltanschauung)”: “Il problema della razza in Italia viene ignorato. Nella teoria del diritto pubblico e amministrativo si ripercuote in senso tradizionalistico il fatto che per il fascismo resta fuori dubbio il primato dello stato davanti al partito. In questo sta anche la più profonda differenza dal punto di vista della scienza giuridica”.
Concluse l’articolo con una perifrasi del suo colloquio con Mussolini intorno ad Hegel e l’attuale dimora del suo spirito (Berlino? Roma? Mosca?) e mise in evidenza il comune allineamento contro il liberalismo del vecchio occidente e il “collettivismo di un oriente che vuol rivoluzionare il mondo”. Lo spirito di Hegel – così si inchinò Carl Schmitt dinanzi a Benito Mussolini – risiedeva ormai a Roma.
Il ilosofo Hegel forse non gradiva gli ebrei, ma certamente non era un razzista dello stampo di Hitler, Himmler, Heydrich o Eichmann. Ciò nonostante se ci si immagina che egli fosse stato visiting professor di ilosoia a Roma in quegli anni, dove avrebbe abitato dal 1938 al 1943? Sul Campidoglio? In subafitto da Benedetto Croce? Da Ranelletti, Costamagna, Ugo Spirito, Volpicelli o da altri giuspubblicisti italiani?23 Dagli specialisti del diritto di famiglia nel codice civile? Poteva vedere la cupola di San Pietro dalla inestra? Frequentava i tribunali? Conversava con avvocati? Fu l’olocausto davvero quel compito, “il quale si afida da adempiere al carattere nordico dei popoli germanici”, come aveva detto Hegel nella “apoteosi” della sua ilosoia del diritto?24
21 P. Levi, Ist das ein Mensch? Erinnerungen an Auschwitz, Frankfurt 1961; Id., Bericht über Auschwitz, hrsgg. v. Ph. Mesnard, Berlin 2006. Si veda inoltre …denn in Italien haben sich die Dinge anders abgespielt: Judentum und Antisemitismus im modernen Italien. a cura di G. Jäger, L. Novelli-Glaab, Berlin 2007; A. Mattioli, Das faschistische Italien – ein unbekanntes Apatheidregime, in Gesetzliches Unrecht. Rassistisches Recht im XX Jahrhundert, a cura di M. Brumlik, S. Meinl, W. Renz, Frankfurt-New York 2005; O. De Napoli, La Prova della Razza. Cultura giuridica e razzismo in Italia negli anni Trenta, Milano 2009. 22 C. Schmitt, Faschistische und nationalsozialistische Rechtswissenschaft, in Deutsche Juristen Zeitung, 1936, p. 619 e ss. 23 Schmitt, op, cit., p. 620. 24 G.W.F. Hegel, Lineamenti della ilosoia del diritto, Roma Bari 1979, § 358.