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2.2.2. Barone Ferdinando Bianchi (Mogliano Veneto
nonostante gli sforzi del Lollini di «richiamare in famiglia tutti i coloni che avevano prestato servizio nell’esercito, [anticipare] ai coloni una parte dei danni di guerra [e liquidare] le spese sostenute dai mezzadri nella costruzione dei ripari»80, dopo pochi mesi, venendo a mancare i fondi per la ricostruzione, i coloni furono abbandonati a loro stessi e la tenuta precipitò nel più completo abbandono. I coloni, i quali non avevano né la possibilità di lavorare, né aiuti in denaro da parte dello Stato, decisero di ribellarsi unendosi – tra il 1919 e il 1920 – in Lega Agricola, prima, e in Cooperativa Agricola, poi, per tentare di gestire autonomamente l’azienda. Successivamente, la Cooperativa, di impronta socialista, nel 1920 chiese la requisizione dell’azienda e la consegna della medesima alla Cooperativa stessa perché potesse autogestirsi.
Intanto, l’erede del Conte Manfredo Collalto, suo figlio Rimbaldo, sia nel 1920 che nel 1921, fece più volte ricorso per la restituzione dei beni di famiglia. La richiesta non venne però accettata in tempi brevi e quindi fu la stessa Cooperativa Agricola a chiedere e ottenere il risarcimento per i danni di guerra, che sarebbero spettati al proprietario se fosse stato italiano. Infine, attraverso una relazione stilata nel maggio del 1924 si viene a sapere che tutta la vicenda si era conclusa in quell’anno con il ritorno delle proprietà intere ai Conti di Collalto.
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2.2.2. Barone Ferdinando Bianchi (Mogliano Veneto)
Un’altra importante famiglia di nobili e austriache origini, la quale si vide, come era accaduto ai Collalto, prima porre sotto sindacato e poi sequestrare le proprie aziende, fu quella del Barone Ferdinando Bianchi. Quest’ultimo possedeva anche una tenuta comprendente una villa – che si trova tuttora lungo la strada che da Mogliano Veneto porta a Treviso, il Terraglio – acquistata dai Bianchi nel 1821. Essa,
80 Paolo Gaspari, Grande guerra e ribellione contadina. Chiesa e Stato, possidenti e contadini in Veneto e Friuli (1866-1921), Vol. II, cit., p. 174.
dopo la partenza del suo proprietario per l’Austria, nel corso della guerra ospitò, inizialmente, le classi scolastiche del Collegio Salesiano Astori e in seguito venne adibita a ospedale su richiesta del Prefetto. L’edificio, nell’estate del 1916, era stato infatti requisito dal Comando della III Armata.
Anche in questo caso, il Barone Bianchi e i suoi familiari, con lo scoppio delle ostilità, già da luglio 1914 si trasferirono a Vienna lasciando in Italia alcune industrie di carattere commerciale le quali, dall’ottobre del 1916, furono poste sotto sindacato governativo in quanto di proprietà di un suddito di nazionalità nemica. L’anno successivo, tuttavia, il Prefetto Bordesono ritenne opportuno decretare che «l’azienda austriaca Bianchi in Mogliano Veneto [fosse] sottoposta a sequestro»81, affidandone la gestione allo stesso sindaco, il Sig. Cav. Luigi Pece, Ragioniere Capo dell’Intendenza di Finanza. Nel gennaio del 1918, oltre alla parte commerciale e industriale dell’azienda – latteria, caseificio, cantina e distilleria – venne poi aggiunta al sequestro anche la parte agricola dell’azienda.
Venne inoltre sorvegliata attentamente l’attività dei negozi siti a Venezia, anch’essi di proprietà del Barone Bianchi, i quali erano regolarmente riforniti dei prodotti delle suddette aziende e ne provvedevano alla loro vendita. In totale, si premurò di accertarsi il sindaco, «nei detti negozi [quattro in totale, N.d.A.] sono addetti 12 impiegati, fra commessi e personale di servizio»82 .
Chiaramente, il timore delle autorità era che i guadagni di tutte queste lavorazioni potessero pervenire in qualche modo al suo proprietario, il quale, essendo austriaco e al momento residente a Vienna, avrebbe potuto facilmente utilizzarli per contribuire allo sforzo bellico del suo paese d’origine. Non a caso, una volta assunto il sindacato dell’azienda, il Pece per prima cosa fece assumere
81 ASTv, Gabinetto di Prefettura, b. 111. 82 «Sindacato sulle Aziende Industriali e Commerciali annesse e dipendenti dall’Amministrazione del Barone Bianchi Ferdinando di Mogliano Veneto», ASTv, Gabinetto di Prefettura, b. 111.
«informazioni sul conto degli altri impiegati [addetti all’amministrazione della ditta]»83, i quali risultarono «essere tutti di nazionalità italiana»84 .
Nel corso del 1918 venne poi avviata un’indagine anche sulla moglie del barone Ferdinando Bianchi, Greaves-Bianchi Bianca, e i suoi beni risultarono essere incorporati, per la loro totalità, all’interno di quelli appartenenti al marito.
Fu nel dopoguerra, tuttavia, che iniziarono a porsi al Barone Ferdinando concreti problemi: una volta rientrato in Italia, infatti, egli chiese la restituzione delle proprietà sequestrate dallo Stato Italiano, ma ancora al settembre 1919, non vi era per le autorità nessuna circostanza a favore del dissequestro. Si venne però in seguito a sapere che il Barone era proprietario solo a metà dei possedimenti, divisi col fratello Felice, e negli atti redatti dai legali della famiglia con lo scopo di ottenere la restituzione dei beni, si legge che Ferdinando Bianchi
nato a Praga di Boemia, appena terminato il servizio militare, acquistava il domicilio del padre a Mogliano Veneto e colà dimorava ininterrottamente fino al Luglio 1914: era quindi applicabile per lui l’art. 14 del trattato di pace del 1866 ed “iure incolatus” egli diventava cittadino italiano. [Tuttavia] nel 1873 chiese ed ottenne la cittadinanza austriaca, ma avendo continuato a risiedere ininterrottamente a Mogliano Veneto, egli riacquistava la cittadinanza italiana85 .
Tuttavia, una volta finita la guerra, «mentre il barone Felice Bianchi veniva definito suddito czeco-slovacco ed otteneva la
restituzione gratuita di tutti i suoi beni, il barone Ferdinando Bianchi domandava identico provvedimento sostenendo d’essere, come infatti era, cittadino italiano»86. Il Barone Ferdinando si vide invece rifiutare più volte il ricorso da lui avanzato perché si revocasse il sequestro
83 Ibidem. 84 Ibidem. 85 «Atto di diffida», 7 agosto 1925, ASTv, Gabinetto di Prefettura, b. 111. 86 Ibidem.