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Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli IMI della provincia di Modena, di Giovanna Procacci
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Solo negli ultimi due decenni la storiografia ha colmato una sua colpevole lacuna, fornendo una serie di volumi di saggi e finalmente un’opera complessiva, cui va il merito di aver ricostruito — mediante un accurato lavoro di scavo negli archivi —, non solo le vicende degli internati, ma anche l’atteggiamento delle autorità germaniche.6 Recentemente la stessa stampa di grande informazione si è interessata ai casi dei militari italiani lasciati senza ordini e comandi dopo l’8 settembre, in particolare soffermandosi sull’eroico comportamento dei vari reparti dell’esercito che rifiutarono di arrendersi ai tedeschi, e riconoscendo in tali episodi il vero inizio della Resistenza al nazifascismo. Ma non vi è dubbio che anche il reiterato rifiuto di passare nelle fila della Wehrmacht o della nuova Repubblica di Salò, espresso dalla stragrande maggioranza dei militari italiani catturati dai tedeschi, costituì un atto di esplicito rifiuto del regime e del patto di alleanza nazifascista.7
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Crediamo quindi che all’interrogativo posto da un interlocutore a Giuntella quasi venticinque anni fa — “ha un senso un ulteriore studio sulla prigionia?”— debbasi oggi forse più che allora dare una risposta positiva. La valorizzazione di quella memoria assume oggi infatti un significato preciso, che comprende, e in una certa misura supera, quello del tardivo e doveroso recupero di
6 Il merito va ad un autore tedesco: il già cit. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Tra i volumi di saggi, oltre a quelli già cit. nella nota 2, si ricordano in particolare: A. Bendotti e altri (a cura di), Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Bergamo 1990; U. Dragoni, La scelta degli I.M.I. Militari italiani prigionieri in Germania (1943-1945), Firenze 1996. Per una bibliografia completa si rinvia, oltre a Schreiber, a G. Rochat-U. Dragoni, Bibliografia sull'internamento dei militari italiani in Germania (1943-1945), in U. Dragoni, La scelta degli I.M.I., cit., pp. 415-54. Per un'analisi acuta dell'esperienza degli IMI si rinvia a G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., pp. 314-55; Id., Memorialistica, cit., pp. 23-69; Id., La società dei lager, cit., pp. 128-138. 7 È stato soprattutto di Pirani il merito di aver ricordato le vicende della lotta eroica dei militari italiani contro i tedeschi sia nelle isole greche di Cefalonia, Lero e Corfù, sia negli altri luoghi di occupazione e della stessa penisola. Ed è stato sempre Pirani a richiamare alla memoria pubblica anche l'esperienza degli IMI, sottolineandone il carattere di tenuta morale e di fedeltà alla patria: a quella patria della quale invece la storiografia revisionista ha sostenuto che si fosse verificata, dopo l'8 settembre, la "morte". Ed è strano che quella storiografia abbia trascurato le vicende vissute dai militari dell'esercito italiano: forse, suggerisce Pirani, perché esse avevano scarsa rilevanza nella polemica sulle "colpe" del comunismo. Cfr. M. Pirani, Cefalonia. Una strage dimenticata da tutti, "La Repubblica", 15.9.1999; Id., Quando cominciò la Resistenza?, ibid., 27.9.1999; Id., La Resistenza. Storia da riscrivere, ibid., 11.10.1999; Id., Non tutti a casa quell'8 settembre, ibid., 25.10.1999. V. Cerami ha costruito un breve racconto sulle vicende della radio clandestina "Caterina", che alcuni prigionieri riuscirono a far funzionare segretamente nel campo di Sandbostel: V. Cerami, Radio Londra, ibid., 10.10.1999.
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drammatiche vicende storiche. Siamo infatti convinti che debba essere fortemente combattuta la tendenza a livellare le esperienze del passato — sostenuta da una parte della storiografia e accolta da ambienti politici diversi, ed esplicitata in frasi quali “i morti sono tutti uguali” —, alla quale ha fatto da specchio un crescente disinteresse dell’opinione pubblica e delle istituzioni verso le battaglie ideali, le resistenze e le rivolte morali.8
Di fronte, ad esempio, all’affermazione ormai ricorrente che il consenso al fascismo fosse quasi unanime, le vicende degli IMI costituiscono un caso emblematico di rifiuto del regime e della sua politica da parte di più di mezzo milione di militari, appartenenti a una generazione educata sotto il regime.9 Il reiterato rifiu-
8 Riferiamo due episodi significativi: a Firenze, due lapidi che ricordavano il sacrificio di alcuni partigiani, sono state tolte, probabilmente in occasione di lavori, e non più risistemate al loro posto; una di esse si trovava in Largo E. Fermi, sul muro delimitante la Facoltà di Fisica; l'altra, di fronte a una delle uscite dalla stazione, sull'angolo di Viale F. Strozzi, in quella che recentemente - ironia della storia - è stato battezzata Piazza Caduti nei Lager. 9 Sul rifiuto plebiscitario di una generazione che non aveva mai fino ad allora votato, v. le notazioni di V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Roma 1976, pp. 112 s., e Id., La resistenza dei militari italiani internati in Germania, in La resistenza dietro il filo spinato, "ANPI oggi", marzo 1996, p. 23. I rifiuti di aderire da parte dei soldati furono, secondo Rochat, circa il 90%; tra i 30.000 ufficiali, gli aderenti - in tutto il periodo della prigionia - furono circa il 30% (G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., p. 323; Id., Le diverse prigionie, cit., p. 21); v. anche G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 434-56, 471 ss., 486, 500-03. Secondo i calcoli di Sommaruga, le "opzioni" totali (ufficiali, sottoufficiali e soldati) per il Reich e per la RSI - escluse però quelle effettuate alla cattura - furono circa 42.000, ovvero il 6,5%: C. Sommaruga, Tempi e ragioni del no, cit., p. 18 ("Cifre dell'internamento"). I militari italiani furono oggetto di tre richieste, alle quali risposero in maggioranza negativamente: al momento della cattura e nei primi mesi, fu avanzata la proposta di collaborazione armata con il Reich; poi (soprattutto nell'inverno '43-44) fu la volta della richiesta di optare per la Repubblica di Salò; nel '44 quella della collaborazione civile, attraverso il lavoro volontario in Germania. Mentre agli ufficiali la richiesta di adesione fu reiteratamente rivolta fino al 1945, ai soldati - il cui lavoro coatto era essenziale per la produzione tedesca - nella maggioranza dei casi essa non fu più ripetuta. Cfr. C. Sommaruga, Inquadramento, in P. Desana, La via del lager, Alessandria 1994, p. 19; G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento, cit., pp. 320-29. Le proposte di adesione avanzate nel '44 ebbero maggiore successo rispetto a quelle effettuate al momento della cattura e all'arrivo nei campi, soprattutto per effetto delle privazioni, ma anche per una strategia di arruolamento basata su contatti diretti e sulla promessa di un ritorno a casa. Un'analisi svolta su 431 testimonianze ha suddiviso i motivi del "no" (all'inizio e successivamente) nelle seguenti categorie: "porre fine alla guerra, non combattere più" 34%, "motivazioni ideologiche" 30%, "giuramento" 28%, "non combattere contro altri italiani" 20%, "ostilità verso tedeschi" 19%, "dignità" 11%, "solidarietà di gruppo" 5%, "diffidenza verso promesse tedesche" 4%, e infine "stare alla sorte" 2% (la somma è maggiore di 100, perché alcuni intervistati avevano dato risposte molteplici): cfr. G. Caforio-M. Nuciari, No! I soldati italiani internati in Germania. Analisi di un rifiuto, Milano 1994; i dati sono stati successivamente rielaborati da Sommaruga, che li ha suddivisi in: "motivi militari" (non combattere contro gli italiani, stanchezza della guerra, abbreviare
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to degli ufficiali alla collaborazione — alla quale il neonato stato repubblicano fascista affidava un evidente ritorno di immagine e di propaganda sia all’estero che nel paese — rappresentò un luminoso esempio di fedeltà ai valori morali, nemmeno imposta da ineluttabili circostanze, poiché gli ufficiali avrebbero potuto decidere di aderire, e modificare di conseguenza la loro drammatica condizione, in qualsiasi momento.10 Ma le vicende della prigionia dei militari italiani suggeriscono anche altre riflessioni, che aprono un contraddittorio con quelle tesi storiografiche che tendono ad appiattire le esperienze della prigionia, e in particolare a collegare l’atroce meccanismo di annientamento messo in atto dai nazisti a quanto già avvenuto in Russia, con la creazione dei gulag.11 Senza voler certamente difendere l’operato sovietico, e minimizzarne gli spaventosi effetti eliminatori, ci sembra tuttavia opportuno ricordare che i primi esempi di campi di prigionia, con effetti devastanti per la sopravvivenza dei detenuti, si ebbero con la prima guerra mondiale. I campi di Mauthausen, Theresienstadt, Rastadt, Katzenau e tanti altri erano nel 1914-1918 organizzati per lo smistamento e l’invio al lavoro coatto dei soldati — gli ufficiali ne erano esclusi — presso miniere, fortificazioni, fabbriche ecc., esattamente come nella seconda guerra mondiale. Al modello della guerra 1914-1918 si rifece infatti l’organizzazione dei campi successivi, tanto che talora le strutture (baracche, servizi) furono le stesse.12 Riguardo alle con-
la guerra) 30%; "etici" (fedeltà, dignità, solidarietà di gruppo, responsabilità di ruolo) 26%; "ideologici" (antinazifascismo, cattolicesimo, liberalismo, marxismo) 24%; "diversi" (antigermanesimo, diffidenza delle promesse, fatalismo, varie) 20% (C. Sommaruga, Tempi e ragioni del "NO", cit.). Sulle motivazioni del rifiuto v. anche G. Rochat, La società dei lager, cit., pp. 141-43. 10 "Era una lotta che doveva essere affrontata ogni giorno, perché ogni giorno era possibile andare a deporre la propria adesione, senza essere visti, in un baracchino dove c'era la buca per le lettere": V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 112. Analoghe testimonianze infra: "È terribile una prigionia, ed è questo che nessuno ha mai messo in risalto, in cui esiste un botteghino aperto tutto il giorno dove tu potevi in qualunque momento andare ad apporre una firma per andare a lavorare. [...] Era una tentazione incredibile. Una prigionia volontaria, solo degli italiani matti potevano... Infatti il maggiore Cooley, scozzese, ci rese immediatamente l'onore delle armi, non credeva che fosse possibile" (O. Ascari); "[a Wietzendorf] i tedeschi avevano messo una cassettina come quella delle lettere dove chi voleva poteva mettere un biglietto con il proprio nome e richiedere così di andare a lavorare"(Giuliani). 11 Citiamo, fra tutti, il volume che tratta in modo più esteso il tema della prigionia, quello di A. J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Torino 1997, passim, e in particolare le pp. 97, 101-03, 119. 12 Questo aspetto viene confermato anche da alcune testimonianze infra.
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dizioni di vita nei campi, l’assenza di cibo — conseguente nel 1915-1918 all’embargo contro gli Imperi centrali effettuato dalle potenze dell’Intesa —, il freddo, le conseguenti malattie provocarono centinaia di migliaia di morti tra i prigionieri detenuti nei campi tedeschi ed austriaci. Fu il rapporto tra sforzo lavorativo e insufficienti calorie a produrre allora lo sfinimento e la morte dei prigionieri, come ugualmente avvenne, sempre in Germania, nei campi per militari internati nella seconda guerra mondiale (con la non trascurabile differenza però, rispetto al 1915-18, che, almeno fino al 1945, fino cioè alla ritirata, la Germania disponeva di ampie risorse alimentari, grazie anche alla depredazione sistematica dei territori occupati); e come avvenne nei campi sovietici (dove invece, a causa della guerra civile prima, e della carestia poi, i viveri erano scarsi per tutti).
Posto che il modello dei campi risale alla prima guerra mondiale, e che diverse erano le possibilità alimentari dei due periodi storici e dei due paesi — e diverse quindi le motivazioni dell’insufficiente nutrimento —, vi è un’evidente analogia tra le condizioni di vita sofferte nei campi di lavoro tedeschi e nei campi russi: in ambedue i casi le morti non furono volute volontariamente, anche se non evitate. Ma solo la Germania nazista programmò l’annientamento razziale e politico: fatto senza eguale in nessuna altra esperienza di prigionia, e senza alcun precedente.13
Se, pur disponendo di prodotti alimentari sufficienti, la Germania nazista ridusse le razioni alimentari dei militari italiani sotto i livelli di sopravvivenza — fu considerato che gli italiani ricevevano il 50% delle razioni dei lavoratori tedeschi, e spesso le calorie disponibili non superavano le 700-900 quotidiane, con un la-
13 Tale fondamentale ovvia differenza viene affermata anche da Kaminski (op. cit., pp. 100, 177, 183), che tuttavia sembra ignorare tutta l'articolata organizzazione dei campi — molti con gli stessi nomi della seconda guerra mondiale — attuata in Germania tra il 1914 e il 1918. Né l'A. fa cenno al fatto che la struttura del comunismo di guerra fu ampiamente ricalcata sull'organizzazione lavorativa della Germania durante il primo conflitto. Sul revisionismo storiografico che, sulla scia di Nolte, afferma la non eccezionalità dei lager, e paragona i massacri nazisti a quelli bolscevichi, v. E. Collotti, Primo Levi e il revisionismo storiografico, in A. Cavaglion (a cura di), Consiglio regionale del Piemonte-Aned. Primo Levi. Il presente del passato. Giornate internazionali di studio, Torino 1993, pp. 112 ss. Come è noto, i campi si distinguevano in Stammlager (Stalag), campi di concentramento generici, in Offizierlager (Oflag), campi per soli ufficiali. Il lavoro coatto veniva svolto attraverso gli Arbeitskommand. I campi di punizione erano gli Straflager, mentre i Conzentrations-lager (KZ) erano i campi di sterminio.
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voro che raggiungeva le 12 e anche le 17 ore14 — il motivo fu politico: per i tedeschi gli italiani avevano tradito, già una prima volta nel 1916, quando avevano dichiarato guerra all’antico alleato, membro della Triplice, e una seconda nel ‘43: erano dunque un popolo che meritava il più drastico trattamento.15
Mentre durante la prima guerra mondiale era mancata la volontà punitiva da parte delle autorità tedesche e austriache, che avevano al contrario cercato di mantenere il decoro degli ufficiali, e avevano premuto affinché l’Italia intervenisse in aiuto dei soldati prigionieri fornendo loro viveri, così come facevano gli altri paesi belligeranti,16 nel ‘43-’45 la situazione si pose dunque in termini opposti: la Germania stabilì il proprio diritto a infierire sui “traditori” — e in particolare sugli ufficiali —, al fine di incrinarne la volontà di resistenza alle richieste di passare nelle file militari tedesche o fasciste.17 Come scrive la Hammermann (nel saggio
14 Sulle razioni degli IMI cfr. in part. C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit. Vedi anche, tra le testimonianze che seguono infra, ad esempio le descrizioni di Meschiari, che lavorava in miniera (una fettina di pane di 100-120 grammi alle 11, una zuppa di verdura cotta alle 6, e poi si doveva lavorare tutta la notte fino alla mattina dopo alle 11); a Meppen in Olanda la razione consisteva in una zuppa di rape, un cubetto di margarina e 130 grammi di pane (Roseo). 15 "La prima guerra mondiale continuava ad ipotecare gravemente i rapporti tra le due nazioni": G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., p. 10. Come sottolinea questo autore, la vendetta tedesca fu espletata attraverso atti "che possono essere annoverati tra le più infami atrocità del secondo conflitto mondiale" (p. 13). Nei rapporti ufficiali si diceva che il popolo italiano "avendo tradito la causa tedesca, ossia 'la causa del genere umano', si era estromesso da solo dalla comunità umana. Meritava pertanto di 'essere accomunato agli ebrei'" (p. 459; v. anche pp. 531-32). Sul disprezzo dei tedeschi verso gli italiani (che le fonti definiscono talora, al pari degli ebrei, "feccia dell'umanità") e sul desiderio di vendetta, ritorna G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (19431945), cit., pp. 44-50; lo Schreiber si sofferma sui crimini compiuti dopo l'8 settembre anche in Crimini tedeschi in Italia, "Quaderni piacentini", 1997, n. 2, pp. 70-71. 16 Il reiterato diniego delle autorità militari e politiche italiane di inviare viveri aveva alla sua origine l'intento di punire quanti si erano fatti catturare (in questo caso, l'obiettivo di punire proveniva dunque dal paese di origine e non da quello nemico). Come abbiamo già accenato, le autorità militari italiane partivano dal presupposto che la mole dei prigionieri italiani in Austria e Germania, circa 600.000, di cui 300.000 solo dopo Caporetto, fosse determinata da atti di volontaria resa e diserzione: cfr. Giov. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale. Con una raccolta di lettere inedite, Roma 1993 (II ed., Torino 2000). La mortalità dei prigionieri nella prima guerra mondiale fu di circa il 16,6% (100.000); nella seconda, di circa il 7,4% (45.000). 17 Sembra che alcuni ufficiali, presumibilmente di complemento, avessero strappato le stellette, consapevoli della maggiore ostilità che i nazisti nutrivano nei loro confronti: cfr. le testimonianze di Fregni e Meschiari, infra. Molti degli intervistati narrano di aver assistito a volontarie umiliazioni degli ufficiali superiori: "Si vedeva l'uomo umiliato. Si vedevano colonnelli che grattavano la marmitta della minestra, oppure presi a calci da un tedesco durante un trasferimento. Ci vedevamo tutti luridi nelle nostre divise da straccioni. Non era bello" (Giuliani); altri
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compreso in questo volume), “soprattutto nei primi mesi di prigionia, sulle considerazioni di ordine pragmatico si imposero le intenzioni di rivalsa, basate sul giudizio morale cui erano soggetti gli internati militari italiani. [...] Fu la condanna esemplare per il ‘tradimento’ a costituire un motivo forte di discriminazione nei loro confronti” (p. 402).
Si tenga presente che, come nella prima guerra mondiale, anche nella seconda i militari non ricevettero nessun aiuto dal proprio stato: non dal Regno del Sud, non dalla Repubblica sociale di Mussolini, che ne rivendicava il compito, ma che non aveva possibilità (e volontà) di effettivo intervento.18 Al contrario, alle disperate condizioni in cui furono ridotti gli IMI contribuì in modo determinante la politica fascista: il provvedimento, concordato da Hitler con Mussolini, nei confronti di coloro che non vollero aderire — la trasformazione dei prigionieri in “internati militari” (marchio ben visibile sulle divise dei soldati) — portò come conseguenza che i prigionieri italiani non furono tutelati da accordi internazionali, e non poterono pertanto ricevere gli aiuti internazionali della Croce rossa.19 L’unica risorsa erano — come nella guerra precedente — i pacchi delle famiglie; che però non potevano pervenire dalle regioni del sud Italia, occupato dagli alleati (lo stesso era avvenuto, dopo Caporetto, per il Veneto occupato dagli austriaci); e spesso venivano persi o saccheggiati.20 Così, analogamente al 1915-1918, la condizione dei militari italiani fu la peg-
ricordano che anche agli ufficiali superiori vennero tolti gli attendenti, e che alcuni generali dovevano lavare da soli gavette e indumenti, mentre altri erano costretti dalla fame a cercare nei rifiuti: Bertini, Morsiani. Le rappresaglie, come è noto, furono particolarmente feroci nei confronti degli ufficiali superiori sospettati di resistenza. 18 Cfr. G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., p. 40; L. Cajani, Gli internati militari italiani nell'economia di guerra nazista, in Fra sterminio, cit., pp. 160-61. 19 La decisione di trasformare i prigionieri nell'ibrida figura di "internati militari" forse non rispondeva inizialmente a un progetto punitivo (G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 225-26). Ma, come scrive la Hammermann, "l'imposizione del nuovo nome si rivelò necessaria per superare la contraddizione di riconoscere il governo fascista di imminente formazione come unico stato italiano legittimo e, al contempo, di impiegare la manodopera dei soldati considerati come militari ostili all'alleanza" (saggio infra, p. 401). 20 Era permesso l'invio di due pacchi al mese, ma la percentuale di ricevimento dei pacchi fu bassissima: C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit., p. 251. Anche dalle testimonianze (infra) si ricava che ne giusero pochissimi a destinazione.
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giore tra quelle sofferte dai prigionieri degli altri paesi alleati, seconda solo a quella dei russi.21
L’atteggiamento punitivo nazista si espresse infine, come è noto, nella regola, applicata dal febbraio 1944, del nutrimento collegato al rendimento: regola che doveva servire a eliminare la “tradizionale pigrizia” degli italiani, e a colpirne la solidarietà interna, dal momento che il minore rendimento di uno portava alla diminuzione della razione alimentare di tutta la squadra.22
L’obiettivo di punire ed umiliare gli italiani era stato centrale fino dai primi momenti successivi all’8 settembre: come è noto, i militari, disarmati, erano stati volontariamente ingannati circa il loro futuro, essendo stato loro fatto credere che sarebbero tornati in Italia; alcuni erano stati trattenuti in campi recintati, senza preoccupazione per le condizioni alimentari; tutti i soldati (e la maggior parte degli ufficiali) erano stati trasportati in Germania o in Polonia stipati in carri bestiame, senza cibo, né acqua, né servizi igienici, per più giorni. L’impatto con il paese nemico non era stato meno traumatico: per strada erano stati accolti dagli insulti della popolazione locale, addestrata a tal uopo dalla propaganda e da ordini superiori (con gli epiteti, spesso in italiano, di “vermi”, “merda”, “badogliani traditori”, “maccaroni”)23 .
21 I tedeschi "dei russi e degli italiani possono fare quello che vogliono, senza nessun controllo e senza nessun limite al loro potere. Gli italiani sono alloggiati nei campi dove prima sono passati i russi, e che sono stati dichiarati inabitabili dal CICR"; inoltre, per rappresaglia, dopo ogni rifiuto di adesione la razione di cibo veniva diminuita, mentre gli aderenti ne ricevevano una doppia: V.E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., pp. 108, 111. 22 È facile individuare in queste misure la volontà di punire e di rompere ogni forma di sodalizio, analoga a quella attuata nei campi di sterminio. È noto che, su pressioni di alcune industrie e in seguito a inchieste governative, tale criterio fu in parte sospeso, al fine di rialzare i livelli di produttività: G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., pp. 53-55; Id., I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 652-68. 23 Le popolazioni avevano ricevuto precisi ordini circa i rapporti da tenere con gli italiani, in quanto considerati dei traditori (tra questi, la proibizione di avere rapporti sessuali, come con gli ebrei): G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, pp. 457 ss.; v. anche la testimonianza di E. Rossi). Per strada la persone "ci tiravano le palle di neve, sassate, sputi in faccia" (Galli). Vari intervistati sostengono che, tra i soldati di guardia, i peggiori erano gli altoatesini: a Bolzano, mentre i soldati nei vagoni blindati chiedevano acqua, la buttavano per terra (Nava). Altre testimonianze riferiscono invece di atteggiamenti di solidarietà da parte dei tedeschi (di tedeschi "c'erano quelli buoni e quelli cattivi": Vandelli; "Quando uno cadeva, c'era il soldato buono che ti dava una mano e ti rialzava e c'era quell'altro che ti picchiava": Dallari). Quasi nessuna solidarietà, secondo la maggior parte degli intervistati, provenne invece dagli operai tedeschi: "loro alle dieci mangiavano e noi niente" (Ferrari); "ci mangiavano in faccia" (Galli); "gli altri
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Giunti nei campi, spesso quelli peggiori, dove fino a poco prima erano stati internati i prigionieri russi, gli italiani avevano dovuto subire le perquisizioni, con la sottrazione, in vari casi, di tutti i beni; la disinfestazione di massa; l’alloggiamento in baracche senza riscaldamento, in giacigli a castello, senza materassi e coperte;24 il nutrimento assolutamente insufficiente;25 la durezza dei guardiani del campo nell’imporre la disciplina, e le terribili punizioni per chi la infrangeva;26 il ludibrio in piazza, al momento della
a guardare con la fame che avevano, guardare mangiare gli altri e lavorare sempre così" (W. Rossi). 24 Le interviste non fanno che confermare lo shock del primo impatto con il campo, le baracche e gli appelli: "Era freddo nel campo di concentramento [Meppen]; in ogni angolo vi erano fari e mitragliatrici sistemate sopra delle torrette con militari in servizio giorno e notte. L'intero recinto in filo spinato era alto circa 3 metri; nel recinto vi erano molte baracche di legno piene di pidocchi e altri insetti [...] ufficiali, sottoufficiali e truppa eravamo tutti assieme, poi un giorno prelevarono tutti gli ufficiali..." (Roseo); "[A Fallingbostel] consideri che erano baracche dove c'era uno spazio entrando con un tavolo e poi dei secchi per i bisogni notturni, o dei bidoni, poi le... chiamiamole cuccette, erano degli alveari, quattro piani più sopra un quinto piano [...] ogni mattino c'era la sveglia alle sei, dovevamo uscire, ci mettevano in un cortile, in fila lì ce n'era sempre per due ore, in piedi, contavano, ricontavano..." (Montanari); " [A Benjaminowo] i tedeschi si divertivano a farci star male dal freddo, chiamavamo la piazza dell'appello la 'piazza polmonite'. D'inverno stavamo in piedi in mezzo alla neve [...] anche due ore. Con dei ragazzi che mi sono caduti di fianco perché erano denutriti e avevano il fisico indebolito. E questo era il loro divertimento"(Morsiani); "A Wietzendorf è stata la crisi finale perché lì eravamo in baracche che risalivano alla prima guerra mondiale, baracconi scuri [...] erano propio orribili, insomma; freddi, gelati" (Lucchi). Le condizioni delle baracche degli ufficiali erano invece buone a Przemysl (Giovenzana). 25 La fame, ossessiva, era la causa principale della distruzione fisica e morale: "In campo di prigionia vendevano tutto per mangiare, rimanevano senza niente, poi morivano. [...] Ognuno di noi era abbandonato a se stesso. Si mangiava una volta al giorno e molto poco, chi mangiava tutto alla sera, doveva arrivare alla sera successiva per rimangiare. Eravamo imbambolati per la fame.[...] Se ti buttava la disperazione era finita" (Fognani); "I primi tre mesi, la prima cosa sono andati giù, proprio giù fisicamente sono stati quelli che non hanno mai lavorato, come studenti, barbieri, gente che non ha mai lavorato [...] dopo gli altri tre mesi un'altra selezione, sono stati la gente robusta..." (Meschiari); "Ne sono morti tanti [...] ci gonfiava le palpebre sopra e sotto che addirittura non ci vedevano dalla debolezza. Poi dopo incominciavan a gonfiare le gambe e poi la faccia e poi dopo sparivano" (Bazzani); "Siamo arrivati lì in 120 perché eravamo in due baracche, di italiani, per Natale eravamo in 80, tutti morti" (Amici); "Non credo di ricordare che ci sia stata una mattina che non ci sia stato un morto; [...] se ne accorgevano quando facevano l'appello. [...] Eravamo in 200-250, ma tutte le mattine... insomma, fatto sta che in due mesi siamo rimasti in 75. I più sono morti giù in miniera [dove gli italiani lavoravano senza che fosse loro fornito il casco]" (Miselli). Era pericoloso ammalarsi: "Uno si riguardava a dire che era malato, perché quando era malato venivano: 'Ti portiamo a curare’. Non si rivedeva più quello là [...]. Perché loro degli ammalati non se ne facevano niente" (Veronesi); "Una volta sono passato per portare una razione a un ricoverato. Ho aperto una stanza e c'era cinque o sei morti, erano scheletri, morti di debolezza. Medicine non se ne parlava"(Fognani). 26 Riguardo alla disciplina, a differenza di quanto avveniva nei campi sovietici, dove i prigionieri venivano in pratica dimenticati e abbandonati a se stessi, le re-
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scelta da parte dei contadini degli uomini adatti, secondo le qualità fisiche, a svolgere i lavori agricoli.27
Ebbe così inizio un lungo viaggio di degradazione, attraverso la fame, il freddo, la mancanza di indumenti idonei e decenti, l’invasione di pidocchi e cimici. I campi furono abitati da uomini ridotti a scheletri, vestiti di stracci, alla ricerca affannosa di rifiuti da poter ingerire, soggetti a un processo involutivo che li privava delle stesse capacità di reazione e ragionamento;28 mentre nelle miniere, nei lavori di sterro, e anche nelle fabbriche i soldati erano sottoposti a uno sfruttamento bestiale, che non conosceva
gole imposte nei lager nazisti erano ferree e dovevano essere fatte eseguire con assoluta precisione dagli esponenti della Wehrmacht adetti alla sorveglianza. Le testimonianze confermano che — salvo casi specifici — di norma non venivano compiute sevizie gratuite nei confronti degli italiani, mentre ne erano soggetti di frequente i russi, ma non era ammessa alcuna trasgressione delle regole (come sostiene Collotti, nei lager non era la sostanza che contava, ma la forma: tutto doveva avvenire secondo le regole e i regolamenti: E. Collotti, Ricerca storiografica e recupero di memoria storica: il caso di Dachau, in F. Cereja, B. Mantelli [a cura di], La deportazione nei campi di sterminio nazisti, Milano 1986, p. 229). Le rappresaglie erano feroci se gli internati attuavano una "resistenza passiva", ovvero mostravano "atteggiamento provocatorio" (cioè rifiuto di lavorare): Schreiber riporta vari casi di uccisioni (I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 652, 752) e altre vengono ricordate dalle testimonianze infra. Quasi tutti gli intervistati affermano però che i militari messi a guardia dei campi, tutti territoriali anziani, erano tolleranti e talora comprensivi; altrettanto alcuni (ma non tutti) quelli messi a guardia delle squadre di lavoro, purché non vi fossero superiori che osservavano; nel qual caso potevano diventare crudeli. C'erano tuttavia i seviziatori, che non mancavano occasione per punire con ferocia, e anche uccidere i prigionieri alla minima trasgressione: se ad esempio i prigionieri si avvicinavano inavvertitamente al filo spinato, se venivano trovati in possesso di una patata o di una rapa rubate, se commerciavano con i prigionieri degli altri campi, se rifiutavano di lavorare a causa della febbre o dello sfinimento ecc. (cfr. le testimonianze di Bazzani, Bertini, De Pietri, Galli, Giovenzana, Giuliani, Lucchi, Meschieri, Pradella, Roseo, Zeni, ecc.; in molti ricordano l'uccisione del tenente Romeo a Sandbostel). Tutti concordano poi sulla spietatezza delle SS e soprattutto sull'infamia dei giovani, i teppisti della Hitlerjugend ("L'unica paura erano le SS, perché quelli ci odiavano. Eravamo la terza categoria: ebrei, russi e italiani deportati": Morsiani; "I bambini della Hitlerjugend, questi erano maledetti": Testoni). 27 "A volte venivano dei contadini che avevano bisogno di manodopera e sceglievano i prigionieri guardando se erano robusti e se avevano buone dentature. Era come scegliere dei cavalli. Questo lo facevano con i soldati, li prelevavano e li portavano fuori" (Giuliani); "A Luckenwalde tutti i giorni ci guidavano fuori; in una piazza c'erano i borghesi che dicevano: "A me me ne vuole cinque! A me me ne vuole dieci! Ci trattavano come se fossimo al mercato del bestiame" (W. Rossi). 28 Riportiamo alcune espressioni delle interviste: "Una persona lì si trasforma, piano piano, si abitua, poi si trasforma" (Ballocchi); "Uno stato di miseria anche morale. Ad un certo punto si perdeva anche la dignità" (Giovenzana); "Noi non eravamo più uomini [...] non eravamo nemmeno degli animali [...] eravamo degli schiavi" (Montanari); "Se ci fosse stata una persona a guidarci, sarebbe stato diverso, nessuno che ci avesse insegnato il modo di ribellarci. Andavamo avanti noi di buona volontà" (Giberti).
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pietà o deroghe. “Era difficile vedere come esseri umani gli internati”, affermeranno i capi nazisti.29 Se un po’ di conforto venne ai giovani rinchiusi nei campi, questo fu quello fornito dai cosiddetti “ripetenti”, quei militari che avevano già vissuto l’esperienza della prima guerra mondiale, e avevano appreso alcune tattiche di sopravvivenza.
Un’ultima considerazione riguardo allo specifico trattamento attuato nei confronti dei militari italiani.30 La loro trasformazione in lavoratori civili nell’estate del ‘44, voluta fortemente da Mussolini (che riuscì a vincere l’iniziale rifiuto di Hitler), che non riusciva più a giustificare di fronte all’opinione pubblica la mancata adesione al regime di una massa di più di mezzo milione di militari, né a fornire alla Germania il quantitativo di lavoratori che pretendeva, produsse un cambiamento radicale nella condizione degli ufficiali, che furono costretti al lavoro, e dispersi nelle fabbriche: il provvedimento umiliò ulteriormente gli internati non aderenti, perché li privò definitivamente della dignità legata al grado militare, e spezzò la loro identità di gruppo.
L’atteggiamento deciso dai nazisti nei confronti degli italiani — cui si aggiungeva quello spavaldo e arrogante dei fascisti e degli ufficiali passati nelle loro fila, che venivano a richiedere l’adesione al regime — fu in larga parte alla radice dei motivi del rifiuto di collaborazione di una così impressionante massa di uomini, rinchiusi nei più lontani lager e pertanto tra loro neppure in
29 Cfr. V.E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 18; sulle condizioni di vita: G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, pp. 467-70, 60246; C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit., pp. 251-67; G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento, cit., pp. 327-36. 30 Come noto, la condizione dei francesi, degli inglesi e soprattutto degli americani, non ebbe nessun rapporto di paragone. Da costoro gli italiani furono fin dall'inizio tenuti separati, venendo rinchiusi nei campi peggiori. I campi degli inglesi e degli americani erano dotati di servizi, comprese aree per giuocare a football; i prigionieri abbondavano di viveri, grazie ai pacchi e alla Croce rossa, e alla possibilità di commerciare con gli stessi guardiani, scambiando sigarette e caffè (cfr. le interviste di De Pietri, Generali, Cottafavi e altri, infra). Queste circostanze vengono confermate dalle testimonianze raccolte da Bendotti e altri, I prigionieri, cit., pp. 183-96. Come ricorda Carocci, il campo degli americani era soprannominato "il campo dei signori"; gli americani erano "rasati in modo impeccabile, elegantissimi nelle divise che non mostravano né un buco né un rammendo, con le scarpe basse lucide [...] passeggiavano in su e in giù come dei villeggianti annoiati"; gli internati vengono in contatto con i francesi, che manovrano le docce della disinfestazione:"i francesi stavano infinitamente meglio di noi perché godevano della protezione della Croce Rossa": G. Carocci, Il campo degli ufficiali, Torino 1954, II ed. Firenze 1995, pp. 108-109. Secondo Rochat, il diverso trattamento dei prigionieri non era determinato tanto dalle convenzioni internazionali, quanto dai rapporti di forza della Germania con i paesi di origine: Rochat, Memorialistica, cit., p. 61.
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comunicazione, ma tutti unanimi nel ribadire il loro diniego. Come viene concordemente riconosciuto dai testimoni e dagli storici, se vi furono nei mesi successivi alla cattura degli aderenti, ciò che li spinse all’adesione fu la fame e il legittimo desiderio di sopravvivenza.31 Le terribili condizioni di vita indussero, comunque, non tanto ad aderire a Salò, quanto ad accettare di andare a lavorare.32 E in questo caso le adesioni, determinate anche da minacce, non furono poche.
31 Su questo aspetto, tutta la letteratura e le testimonianze sono unanimi. 32 Non esistono dati esatti sul numero delle adesioni al lavoro volontario; secondo Rochat si può pensare che aderisse circa un terzo degli internati (e un quarto degli ufficiali, di cui un primo quarto aveva già lasciato i lager per la RSI; gli ufficiali superiori furono esclusi dalle richieste): G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., pp. 350-51. Anche secondo Schreiber, i militari disposti a cambiare status furono circa il 30%. Gli altri furono costretti in seguito (I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 581-92). I dati che si traggono dalle rielaborazioni di Sommaruga (Dati quantitativi sull'internamento in Germania, cit.; Tempi e ragioni del no, cit.: "Cifre dell'internamento"), sono i seguenti, riguardo agli ufficiali: prima del 20.8.1944 (smilitarizzazione degli IMI) — esclusi gli optanti e i deceduti — gli ufficiali lavoratori volontari erano 2.300, gli ufficiali coatti (sotto scorta, come quelli dello Straflager di Colonia) 463; dopo il 20.8.1944, gli ufficiali lavoratori volontari (inclusi i precedenti 2.300) erano 5.400, gli ufficiali coatti sotto scorta della Wehrmacht (Straflager ecc.) 250, gli ufficiali coatti sotto scorta delle SS (KZ ecc.) 108: il totale degli ufficiali lavoratori risulta così di 8.058 unità. Gli ufficiali non lavoratori raggiunsero le 10.000 unità, ovvero: ufficiali dei campi di Wietzendorf e altri campi (8.000), generali, anziani, inabili ecc. (1.000), sanitari (770), cappellani militari (230). I dati sono molto più incerti per i soldati e i sottoufficiali. La smilitarizzazione dei soldati non fu spesso soggetta ad opzioni; nel caso che lo fosse, i non aderenti vennero costretti a firmare attraverso intimidazioni (cfr. le molte testimonianze in tal senso, infra). In alcuni campi sembra che fossero gli stessi guardiani tedeschi, territoriali anziani, a spingere a non fimare, temendo di esser inviati al fronte (Bartoli). L'ampiezza delle adesioni al lavoro viene confermata anche da varie testimonianze: cfr. O. Ascari, Cavicchioli, Morsiani e altri, infra. Vi furono tuttavia alcune migliaia di "irriducibili", che rifiutarono reiteratamente di firmare il passaggio allo stato civile ("Ho detto di 'no' fino alla fine. Sono uno dei pochi. L'adesione al lavoro non avvenne tutta in un colpo, avvenne gradualmente. Tant'è che alla fine eravamo in due campi soli, si parla di 35-40.000 ufficiali su 600.000 deportati. A dire di no alla fine siamo stati in 3-4-5.000 e non di più": O. Ascari; "Nei tre mesi che passiamo a Wietzendorf non è che ci chiedono di lavorare, ma ce lo impongono": Gozzi). Il rifiuto di lavorare era anche rifiuto di fornire aiuto materiale al nemico: "Ho rifiutato la Repubblica [di Salò] perché non mi andava il regime, diciamo; e poi perché ormai, insomma, non voglio muovere un dito per questi. Perché andare a lavorare per loro significava dare anche un piccolo aiuto" (Lucchi, uff.). Alcuni ufficiali, soprattutto quelli cui veniva imputata l'azione di propaganda per il "no", vennero inviati in campi di sterminio (KZ). Sui motivi per cui gli IMI vennero mandati nei campi delle SS, v. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 429-34; C. Sommaruga, L'"internamento": memoria e rimozione, cit. p. 85; Id., Cifre del lavoro degli IMI, in Schiavi allo sbaraglio, Cuneo 1990, pp. 132-34 e 121-150 passim; L. Cajani, Appunti per una storia degli internati militari in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d'archivio, in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l'8 settembre, cit., pp. 95-96.
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Le testimonianze di militari internati della provincia di Modena comprese nel volume sono 58.33 Di esse 43 sono di soldati, graduati e sottufficiali (i sottufficiali vennero equiparati, nel trattamento, ai soldati); 15 di ufficiali (13 di complemento, 2 effettivi). La maggior parte degli intervistati (33) si trovava, al momento della cattura, in Italia (ivi compresi 8 in Istria e Dalmazia), spesso in zone di frontiera; gli altri erano di stanza in Grecia e nelle Isole (14), in Albania (5), in Jugoslavia (5); uno si trovava in Francia. I loro anni di nascita sono compresi tra il 1912 (un intervistato) e il 1924 (11 intervistati). Gli anni di maggiore frequenza sono il 1921 (13 intervistati), il 1923 (10) e il 1924; le classi dal 1920 al 1924 costituiscono, da sole, il 76%:34 la maggioranza era dunque costituita da militari giovani e giovanissimi.35 Delle formazioni cui appartenevano gli intervistati, dieci attuarono resistenza, le altre furono costrette subito a cedere le armi.
33 Sono state effettuate da Alberto Aloisio le seguenti interviste: Gastone Amici, Remo Bazzani, Carlo Bertini, Guido G. Capitani, Ennio Cavicchioli, Lanfranco Cottafavi, Ivaldo Ferrari, Pierino Fregni, Urbano Galli, Enzo Gozzi, Ugo Gualdi, Guido Lucchi, Severino Miselli, Trento Montanini, Riccardo Nava, Lorenzo Rocchi, Walter Rossi, Aroldo Vaccari, Oronzo Vadacca, Otello Veronesi. Sono state effettuate da Stefano Betti le interviste a Gino Ballocchi, Modesto Fognani, Benito Giberti, Giuseppe Mammei, Tarcisio Venturelli. Sono state effettuate da Giuliano Caselli le interviste a Odoardo Ascari, Ivo Balugani, Bruno Bartoli, Natale Biagini, Bruno Cecchelli, Primo Costi, Gino Dallari, Mario Gariboldi, Bruno Generali, Albertino Ghirardelli, Orazio Giovenzana, Emilio Giuliano, Gianfranco Gozzi, Vittorino Lotti, Aldo Mazzoni, Giuseppe Meschiari, Fernando Morsiani, Luigi Puviani, Carlo Roseo, Enzo Tassi, Angelo Testoni, Pietro Vandelli, Bruno Vezzelli. Sono state effettuate da Monica Casini le interviste a Germano Ascari, E. B. Sono state effettuate da Bruno Ferrari le interviste a Serse Andreoli, Tommaso De Pietri, Enrico Pradella, E. Rossi, Lelio Zeni. È stata effettuata da Alessandra Righi l'intervista a Gaetano Montanari. Bruno Generali ha intervistato Ezio Bartolai. 34 In taluni casi il luogo di nascita non è quello della provincia di Modena; il trasferimento avviene però in seguito (talora per l'iscrizione all'Accademia), e si conferma nel dopoguerra. 35 Alcune di queste indicazioni, ristrette a un numero limitato di casi, corrispondono in linea di massima a quelle deducibili da 1.657 casi. È stato infatti compiuto lo spoglio di circa 10.000 schede di reduci iscritti all'Associazione nazionale combattenti e reduci di Modena e provincia, e sono stati esaminati i comuni di Modena, Carpi, Castelfranco Emilia, Campogalliano, individuando 1.657 internati in Germania (di essi, 880 provenivano dal comune di Modena, 372 da quello di Carpi, 309 da quello di Castelfranco E., 96 da quello di Campogalliano). Dei 1.657 IMI l'82% appartenevano all'esercito (nella misura del 63% di soldati, 17% di sottoufficiali, 2% di ufficiali), il 6% erano avieri, il 2% provenivano dalla Marina (10% appartenenza non individuata). Riguardo al fronte di cattura, il 28% era stato fatto prigioniero in Italia, il 25% in Albania, Montenegro, Croazia, Yugoslavia, Balcani, il 17% in Grecia; per il 4% provenivano dal fronte orientale e da quello occidentale (26% provenienza non individuata). Le classi di età assolutamente prevalenti erano quelle del 1922 e del 1923, seguite da quelle del 1920-21. Dalle schede non si traggono utili indicazioni circa la professione. (La ricerca è stata svolta da Andrea Bruni e da Monica Casini).
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Le testimonianze raccolte confermano in linea di massima quanto già conosciuto attraverso la diaristica e le precedenti interviste attuate in altre zone d’Italia.36 Il fatto tuttavia che la maggior parte delle domande siano state rivolte a soldati, voci meno conosciute — la memorialistica appartiene soprattutto agli ufficiali —, permette di acquisire nuove informazioni.37 Alcune testimonianze rivestono un interesse particolare: ad esempio, quelle di tre militari della Acqui che sopravvissero alla strage di Cefalonia (due dei quali passati per i campi russi, uno detenuto insieme ai tedeschi); quelle, oltre alle già citate, che descrivono l’esperienza del periodo passato con i russi; quelle nelle quali sono esposti i motivi del rifiuto di firmare per il lavoro volontario da parte degli ufficiali non aderenti (internati nei campi di Colonia, Wietzendorf); la vicenda di un ufficiale ebreo, che, consapevole del destino che lo avrebbe atteso se fosse stata scoperta la sua identità, aderì, con l’accordo del suo gruppo, alla RSI, per poi darsi alla macchia e tentare, insieme alla famiglia, la fuga, riuscita, in Svizzera. È questo l’unico caso di “optante” tra gli intervistati. Il primo aspetto che vorrei prendere in considerazione è quello della reazione all’8 settembre. Le testimonianze confermano quanto già noto: l’assoluta mancanza di informazioni, l’altrettanto totale mancanza di ordini superiori da Roma, la incertezza sul da farsi dei comandi territoriali, la scomparsa degli ufficiali superiori, la solidarietà con i soldati dei giovani tenenti, i tentativi di resistenza e di lotta armata, la fucilazione di alcuni ufficiali, in base all’aberrante piano ACSE.38
36 In particolare quelle di A. Bendotti e altri (a cura di), Prigionieri in Germania, cit. Stanno per essere pubblicate anche alcune interviste svolte in Toscana sul tema: Il ritorno. La voce degli ex-internati militari. Vedi a proposito il saggio di N. Labanca, infra. 37 I temi su cui hanno particolarmente insistito gli intervistatori del gruppo modenese sono stati la situazione e i comportamenti al momento del comunicato dell'8 settembre; il viaggio verso la Germania, la Polonia, o gli altri paesi occupati; i motivi del "no"; l'arrivo ai campi e le condizioni di vita e di disciplina; il lavoro coatto, cui furono subito soggetti i soldati; il passaggio di status; la fuga dei tedeschi e i giorni di abbandono a se stessi; l'incontro con le truppe sovietiche, inglesi o americane; il ritorno a casa e l'accoglienza. 38 Sui caratteri dell'operazione ACSE, che prevedeva l'immediata uccisione degli ufficiali responsabili della resistenza, in contrasto a tutte le convenzioni internazionali, cfr. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 147-49, 204; Id., Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., pp. 38-39: le direttive tedesche contro gli italiani non trovarono riscontro in nessun teatro di guerra "nemmeno nella guerra di sterminio condotta contro l'Unione sovietica", dal momento che agli italiani non veniva riconosciuto il diritto a difendersi; l'unica analogia che può essere rintracciata è, secondo l'A., quella con le diretti-
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Tutti sottolineano che era impossibile difendersi, sia per inferiorità di armamento (soprattutto da parte dei distaccati in Albania, Kossovo, Macedonia, la cui funzione era essenzialmente quella antipartigiana)39, sia, per assenza di direttive dei comandi centrali,40 e per la latitanza di quelli di zona.41
ve per il trattamento dei commissari politici russi nel giugno 1941 (sugli eccidi, cfr. anche le testimonianze infra di Mammei e Mazzoni). 39 Al Pireo "Noi eravamo lì pronti per la difesa e arrivava l'ordine di difendere, ma eravamo pochi, c'erano solo 60 soldati lì al comando" (Morsiani, uff.); a Zara l'ordine era di arrendersi "tanto più che non si poteva resistere perché eravamo con le munizioni e le armi limitatissime e le truppe tedesche erano forti, numerose" (Pradella, uff.); nel Kossovo "ci hanno catturato senza sparare un colpo, perché se avessimo sparato un colpo ci avrebbero massacrato. [...] Poco glorioso ma è stato così" (Lucchi, uff.); a Navarino "fu presa la decisione di non combattere perché col modello 91 non si combatte" (Gualdi). Molte sono le testimonianze dei tentativi di resistenza: "A Passo Piè di Colle, abbiamo combattuto contro i tedeschi. [...] Il nostro maggiore diceva di non cedere le armi, ma lui era già stato disarmato. Dopo ci hanno fatto prigionieri" (Venturelli); a Frascati "Il capitano ha detto: 'Andiamo all'attacco'. Io gli dissi: 'Ci conti signor capitano'. Lui a un tratto ci guardò, eravamo rimasti in 39, e poi disse: 'Se qualcuno mi vuole seguire tentiamo di andare a Roma’. [...] Noi lo abbiamo seguito, poi lo abbiamo visto cadere. [...] Uno che ha tentato di saltare in strada è stato ucciso lì subito sul posto" (Bartolai); a Nauplia "facemmo prigionieri tutti i tedeschi. Noi italiani avevamo dalla nostra la sorpresa e il fatto di avere l'artiglieria che dominava la città [...]. I tedeschi erano più di noi, ma la sera dell'8 settembre erano quasi tutti al cinema e così alle dieci erano tutti disarmati e prigionieri. [...] C'è però un fatto: a mezzanotte eravamo prigionieri noi" (Ghirardelli); a Cefalonia "ho visto cadere falciato il mio comandante di compagnia che ci incitava ad andare avanti, i miei portamunizioni e gli altri compagni tutti intorno. Saltellando mi sono allora riparato tra alcune rocce [...]. La mattina quando ci siamo svegliati ci siamo all'improvviso visti davanti i tedeschi" (Tassi). 40 Da Tirana un ufficiale tenta di mettersi in contatto con Roma, e si svolge questo singolare colloquio: "'Sono il colonnello G., comandante dei Bersaglieri, da Tirana, con chi parlo?'[...] 'Ma qui non c'è mica nessuno'. 'Ah non è il Ministero della Guerra?'. 'Sì, ma sono andati via tutti. Il re non c'è più'[...]. 'E noi come ci comportiamo?'[...] 'Ma io sono l'usciere. Sono venuto a chiudere le finestre perché il sole non entri, poi vado a casa. Non c'è più nessuno'"(E. Rossi); a Brignoles, l'ufficiale medico cerca di mettersi in contatto con i comandi, ma "non c'era più nessuno. Non c'erano ordini" (Giuliani, uff.); al Brennero il comando di reggimento, che era riuscito a prendere ordini da Roma, dà come indicazione: "cerca di tergiversare" (Gariboldi, uff.); di fronte alle Bocche di Cattaro "alle 4 abbiamo iniziato il fuoco, solo che gli italiani non avevano più comandi esatti, qualche ufficiale si vendeva ai fascisti, ed era tutto un guazzabuglio che non si capiva niente. I cannoni delle Bocche di Cattaro ci sparavano addosso a noi. Il mio capitano è morto a sette metri da me" (Mammei). Al Brennero "c'era un inferno di fuoco. Rispondemmo per qualche ora. Ordini precisi non ce n'era, c'era un subbuglio, quindi ci siamo lasciati prendere. Il mio capitano era in piedi, esterrefatto, di ordini superiori non ne aveva, era in piedi in mezzo alle fucilate. [...] Cercammo di comunicare con il comando, ma non siamo riusciti, allora ci siamo arresi" (Ballocchi). 41 Nella maggior parte delle testimonianze di soldati viene accusata l'assenza degli ufficiali superiori: "I nostri ufficiali i più grossi sono scappati in aereo di notte... ci sono rimasti solo i piccoli gradi [...]. Ci hanno fatto depositare le armi e poi la Milizia e i Carabinieri hanno collaborato subito con i tedeschi" (W. Rossi). Analogamente Amici, Bazzani, Bertini, Cecchelli, Galli, Giberti, Gozzi, ecc.
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Pochi dicono di aver pensato alla fuga, che pure sarebbe stata possibile fino a quando il trasporto avveniva, in vagoni aperti, nei territori greci, macedoni, albanesi e sloveni (cioè fino ai campi di raccolta alla frontiera): vi era infatti, da una parte, il timore di finire nelle mani degli ustascia o di doversi arruolare tra i partigiani, e dall’altra — in tutti — la convinzione che gli ex alleati avrebbero mantenuto le promesse e avrebbero rimandato i militari in Italia.
Molti tra gli intervistati, allora ragazzi di diciotto-diciannove anni, descrivono lo smarrimento provato quando capirono che non avrebbero fatto ritorno in Italia.42 Il senso di abbandono che li colse allora — nella grande maggioranza vennero subito divisi dagli ufficiali — non li lascerà più, e segnerà non solo la loro vicenda di prigionia, ma anche il loro ritorno in patria.
Il rifiuto di collaborazione con i tedeschi fu determinato soprattutto da reazioni elementari di sopravvivenza: la speranza che la guerra fosse alla fine, e che quindi la prigionia fosse di breve durata; il timore — comune a quasi tutti i soldati intervistati — che l’adesione potesse comportare la formazione di una divisione da inviare in Russia, con le drammatiche conseguenze di cui si era a conoscenza;43 la stanchezza per una guerra che era apparsa a molti — soprattutto ai più anziani, già combattenti su altri fronti — una
42 "Non si può chiamare sotto le armi dei ragazzi di 19 anni. [...] Non sapevo neanche andare a Bologna [...]. Là mi hanno abbandonato, e il re è scappato, è arrivato delle forze inferiori alla nostra, ma organizzate e abbiamo dovuto cedere le armi, perché mancavano degli ordini dall'alto" (E. Rossi); "Ero stato educato e formato per ubbidire ed eseguire gli ordini ed ora quali erano gli ordini? Dovevo decidere da solo" (Giuliani, uff.); "Io compivo i vent’anni nel '44... e allora eravamo là che eravamo ancora bambini, certe esperienze non si avevano" (Ferrari); "I nostri uomini, vedendo che gli ufficiali vanno via, che partono, chiedono consiglio: ‘Voi andate via, dove andate?’; ‘Ma non lo sappiamo’. [...] ‘Ma noi cosa dobbiamo fare?’"(Gozzi). 43 A questo motivo — richiamato in quasi tutte le testimonianze infra — non fa riferimento specifico l'inchiesta di Caforio-Nuciari. Viene invece esplicitamente richiamato da Schreiber, secondo il quale influirono anche la visione delle città distrutte, la convinzione della fine imminente della guerra, e l'odio crescente verso tedeschi e fascisti, considerati responsabili della loro miseria: G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, cit., pp. 506-9. Nelle testimonianze, la convinzione che la guerra fosse alla fine e il timore di essere inviati in Russia sono quasi sempre congiunti: "se aderiamo in massa, fanno una bella divisione e ci mandano sul fronte russo. Questo era il nostro convincimento" (Galli); "La nostra paura era di andare contro i russi. Se fossi stato sicuro di andare in Italia saremmo andati, avremmo tentato di scappare" (Giberti); cfr. anche le testimonianze di Meschiari, Miselli, Galli, Pradella, Venturelli, Ballocchi, E. Rossi e altri.
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guerra sbagliata, con insufficienti armamenti, e insufficiente preparazione.44
Altri si abbandonarono al destino. “Alcuni si sentirono immaturi per una decisione cosciente e si chiusero nel no come in una botte di ferro”45. I più giovani si affidarono, sia all’inizio che nel proseguo della prigionia, ai consigli e alle decisioni degli “anziani”46 .
Spingeva a rifiutare l’adesione anche, e forse soprattutto, la diffidenza verso i tedeschi, nutrita da tutti dopo l’8 settembre, ma maturata da tempo in quanti avevano già combattuto a loro fianco.47 Più che una valutazione politica, del comportamento degli
44 "Eravamo stanchi della guerra fascista, di come era stata condotta. Era stata condotta in modo orribile, non avevamo niente, usavamo ancora dei cannoni della prima guerra mondiale" (Morsiani, uff.); "Eravamo stanchi della guerra, volevamo tornare a casa. Per il resto, la gente della nostra zona non vedeva bene il rapporto che c'è stato nel periodo di alleanza, non vedevano bene il rapporto né con le camicie nere, né con i tedeschi" (Costi); "Noi della guerra eravamo stanchi, poi nell'andare con i fascisti ci si aggregava ad una setta che nel nostro corpo non aveva preso molto piede. Quando sono andato a militare io ho iniziato a soffrire la fame. [...] Tante volte non so se siano stati meglio i tedeschi o gli italiani" (Ballocchi); "Non accettiamo prima di tutto per motivo ideale, perché non ho mai condiviso quella impostazione della guerra e soprattutto l'impostazione fascista; e poi proprio per convenienza. I discorsi che facevamo spesso tra i colleghi erano: 'Adesso la nostra situazione è quella di un prigioniero militare. [...] Andare ad aderire vuol dire ancora andare a far parte di un esercito che è affiancato ai tedeschi e combatte contro gli inglesi e gli americani. Si rischia ancora la pelle'" (G. Gozzi, uff.); "Io non ci credevo. [..] contro chi dovevo combattere, contro i miei, allora?" (Cavicchioli); "Nessuno aderì [alla Repubblica sociale]. Andare in Italia significava andare a fare ancora la guerra. L'avevamo scampata e ora dovevamo offrirci per tornare in guerra per una cosa che non esisteva più?"(Ghirardelli). 45 Natta, op. cit., p. 32. "A vent'anni cosa vuoi che se ne intende...'Non firmiamo, non firmiamo, non firmiamo', e quindi la voce ha..., si è sparpagliata in modo tale, anch'io ho aderito a questa cosa di non firmare" (Zeni). "Io non voglio andare volontario. Anche andare contro la morte" (Fognani); "Andrò dove mi conduce il destino" (Ferrari). 46 "I risultati dell'adesione furono però molto limitati, soprattutto perché la parte degli ufficiali superiori frenava, aveva detto: 'No, noi restiamo fedeli alla nostra idea, voi giovani state attenti a non farvi abbagliare'". (Gariboldi); "Avevamo gli anziani, del 1910-1911, ci minacciavano che se ci andavamo ci uccidevano sul posto" (Venturelli); "Io non ho rifiutato per coraggio, ma perché ero incerto. Ho pensato che non sapevo dove mi avrebbero mandato, per cui era meglio rimaner lì. [...] Io ero insieme agli ufficiali più anziani, Guareschi e gli altri, e loro hanno deciso di non andare, quindi anche noi non abbiamo aderito" (Morsiani); "Sono tornati quattro o cinque volte per cercare di convincerci ad aderire... ma noi abbiamo sempre resistito e senza concordare fra noi, era una cosa istintiva ne avevamo abbastanza della vita militare che non volevamo che la guerra continuasse di più [...] noi più anziani, devo essere sincero, cercavamo di fare un po' di propaganda per i giovani perché i giovani cedevano soprattutto per la fame" (W. Rossi). 47 "Noi non volevamo saper né del duce né di Hitler, noi volevamo solo la pace" (E. Rossi); "Era subentrato un odio tremendo contro i tedeschi. L'odio l'avevamo già prima dell'8 settembre, anche. Perché in Jugoslavia arrivavamo nei paesini che avevamo conquistato noi, arrivavano loro... eran loro che avevano conquistato. Noi eravamo pezze da piedi, ci mettevan da parte" (Veronesi); "Per noi che veniva-
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ex alleati veniva dato un giudizio morale, determinato dalla brutalità e dall’atteggiamento sprezzante nei propri confronti, dalla crudeltà verso le popolazioni soggette (“son chi lì i nostri amis?”, chiede un caporal maggiore al proprio ufficiale alla vista di un ragazzo della Hitlerjugend che uccide una donna ebrea che raccoglieva delle gallette gettatele dai soldati italiani dal treno che attraversava la Polonia durante la campagna di Russia)48 . Anche l’opposizione a Salò era più dettata da reazioni emotive che basata su ragionamenti e convinzioni ideologiche (le quali traspaiono tuttavia in alcune interviste)49. Come ricorda Natta, del fascismo “vennero primariamente discussi e colpiti gli aspetti plateali e ridicoli, il tragicomico degli ‘otto milioni di baionette’, o dello ‘spezzeremo le reni alla Grecia’ [...] più che la sostanza politica del regime di conservazione sociale e di aggressività bellicista”50. Ma fu proprio in questo frangente — come è stato già rileva-
mo dal fronte russo, la Tridentina, c'erano i precedenti di quel fronte, quello che avevamo passato con i tedeschi, le azioni di prepotenza durante il ripiegamento [...] e soprattutto il loro tentativo, già manifesto, di dare la colpa di tutto lo sfascio del fronte russo a noi" (Gariboldi); "In primo luogo il fatto di non voler collaborare con i tedeschi, il fatto numero uno era questo, la situazione numero due poi variava" (Montanari); "Nessuno aveva voglia di andare coi tedeschi, perché dei tedeschi noi eravamo stanchi. Eravamo stanchi della loro disciplina" (Balugani); "La mia scelta è stata motivata dal fatto che primo non andavo d'accordo con i tedeschi e secondo non ho fatto la guerra per l'Italia: figurarsi se la facevo per loro; terzo io ero degli alpini che avevano come particolare diciamo così avversione al tedesco, perché si ricordavano quello che era successo in Russia..." (E.B.). 48 O. Ascari, infra: "Quando arrivammo in linea sul Don avevamo vergogna di essere alleati dei tedeschi" (Id.). 49 Cfr. la nota 44. Il disprezzo verso gli atteggiamenti arroganti e provocatori dei fascisti è comune a molte delle testimonianze infra: "Quando venivano nei nostri campi, i fascisti arrivavano con una divisa tutta pulita [...], facevano i gradassi, allora molte volte facevamo a botte. [...] Arruolarsi con quella gente lì [tedeschi] bisognava far delle robe che non eravamo disposti a sopportare" (Ballocchi); "Noi eravamo là per colpa del regime fascista!"(Ferrari); "Loro ci hanno sfilato davanti a noi con una bella pagnotta da un chilo sotto il braccio... e noi li abbiamo fischiati, li abbiamo detto dei traditori" (Meschiari); "Fuori dal reticolato c'erano là seduti tutti i fascisti con le gavette piene di pastasciutta, dicevano: 'Venite con noi, se volete mangiare... vedete qui come mangiamo bene!'. [...] E dopo in più vennero dei tenenti cappellani, vestiti da militari, con la croce da prete, a fare propaganda dentro al concentramento...che andassimo volontari" (Veronesi). È noto che di norma, dopo i rifiuti di aderire, le razioni venivano ridotte della metà. 50 Natta, op. cit., p. 32. Cfr. anche la testimonianza di G. Girardet, La mia prigionia 1943-45, "Bollettino della società di studi valdesi", 1998, n. 182, pp. 25-30 ("Parlando di quei 17 mesi, due inverni di Lager, si deve dire subito con chiarezza che la nostra coscienza politica, e addirittura la conoscenza delle cose politiche, era, vista con gli occhi di poi, così parziale e distorta da non poter neppure essere definita, strettamente parlando, come una consapevole scelta politica antifascista. Non fu certamente un caso che Giovanni Guareschi, che nel Lager [Sandbostel] era stato il simbolo di una resistenza antitedesca, piena di humour e di umanità, doveva poi schierarsi con i neofascisti": pp. 26-27). Come scrive Rochat (Le diverse prigionie,
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to — che una generazione nata ed educata sotto un regime autoritario, che non aveva alcuna conoscenza del fatto politico, iniziò a discutere.51
La non adesione fu accompagnata talora da un’esplicita volontà di manifestare la propria condanna nei confronti della monarchia e del fascismo: “[Gli aderenti] cantavano tutti i vari inni fascisti [...]. Noi per dimostrare ai tedeschi il nostro pensiero, dal fregio del nostro berretto avevamo tolto la corona reale”: così ricorda un ufficiale, che soggiunge che ciò che lo aveva spinto resistere era stato “l’amore della patria”; una patria che non era quindi morta, in seguito alla caduta del fascismo e al tradimento della monarchia, ma che sopravviveva come valore da difendere.52 Al rifiuto di collaborare o aderire contribuì il giuramento (si consideri che, soprattutto tra i soldati, alcuni erano all’oscuro della fuga del re)53, inteso però da molti come principio di coerenza personale.
Tra coloro che dicevano ‘no’, ve ne erano di due tipi. Gli ufficiali dei carabinieri e alcuni ufficiali effettivi dicevano ‘no’ perché dicevano: ‘Io ho giurato fedeltà al Re’. Questo era un giuramento che i tedeschi avversavano ma era l’unico che comprendevano perché era speculare al loro. [...] Poi c’erano quelli come Guareschi, ‘i figli di don Chisciotte’: ‘No, perché
cit., p. 24) si trattava di un "antifascismo 'esistenziale', che nasceva essenzialmente da una scelta morale dinanzi a circostanze estreme, e trovava alimento nella 'società dei lager'". Una conferma anche dalle testimonianze infra: "No, no la politica non entrava mai perché eravamo all'oscuro. Noi siamo cresciuti, almeno noi giovani, nel ventennio, nel fascismo, perciò non è che sapevamo" (Bertini); "Ad Hammerstein non si parlava di liberazione o di politica, si parlava soltanto di mangiare" (Generali). 51 "Si discusse molto fra noi nel campo, fra chi era deciso a un no assoluto e chi invece diceva: 'Una volta che sei andato là... insomma, io scappo e non mi faccio prendere' [...]. Ormai si erano formati diversi gruppetti..." (Gariboldi); "'Devono arrivare questi e questi [fascisti] per [farci] aderire'... allora facciamo delle riunioni..." (Galli); "Non è che ci fosse gran discussione di politica: era solo nel momento in cui venivano quelli là per cercare di far aderire il più possibile, che allora, magari, in quel momento lì si diceva chi ha ragione, chi non ha ragione" (Bertini). 52 E. Pradella. Queste parole, e in generale l'atteggiamento di molti degli intervistati, mettono in dubbio quanto affermato dai sostenitori della "morte della patria" dopo l'8 settembre; si rinvia a proposito alla nota 7. 53 "Prima di tutto io ci tenevo ad essere ufficiale del re. [...] Ero profondamente fedele al giuramento fatto al re. [...] Alla fedeltà al re forse si aggiungeva anche il sentimento di repulsione per tedeschi e fascisti" (Giovenzana, uff.); "Ognuno naturalmente aveva delle sue idee, ma direi che si doveva rispettare il giuramento che avevamo fatto, quello almeno per la parte ufficiali era alla base di tutto" (Gariboldi, uff.); "Io mi sentivo legato ad un giuramento, io ed anche gli altri, gli ufficiali più di noi erano... ma non tutti" (Montanari); "La spinta a rimanere sulle mie posizioni è stata il giuramento fatto alla Marina militare" (Gualdi, sottouff.).
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no, per dignità’. A me del giuramento fatto al Re non m’interessava niente, era soltanto per dignità. La risposta è no! Così eravamo noi.54
Era un giuramento generale, con la repubblica sociale non abbiamo mai avuto a che fare.55
Quando le richieste di adesione giunsero dopo il trasferimento nei campi, il rifiuto divenne simbolo di dignità personale, “un supremo tentativo — scrive Giuntella — di restare uomini in un contesto disumano”56. Questa sofferta scelta morale rese più coeso il gruppo e isolò chi ne usciva: gli “optanti”, che esibivano i privilegi alimentari guadagnati con la loro decisione, verso i quali veniva nutrito disprezzo (ma anche — come traspare da alcune testimonianze — una certa invidia, per essere riusciti a tornare in Italia); i capi campo, passati dalla parte dei tedeschi, e odiati più di questi ultimi; gli aderenti per fame, che ispiravano invece umana comprensione.57
Nel mantenere compatto il gruppo, nel convincere i più giovani a resistere alla fame e al degrado, contribuì in modo determinante l’azione degli anziani, e di alcune figure carismatiche:
Credevano che finché fossimo rimasti nel campo noi, gli ufficiali in servizio effettivo, la resistenza sarebbe stata forte, ma si sbagliavano perché non eravamo noi il vero nocciolo duro, la resistenza più solida era invece data da altra gente, soprattutto da intellettuali e non sempre da militari di carriera.
Il capitano Pinkel, che poi i russi hanno cotto vivo nella margarina, sapeva che la resistenza nel campo [Wietzendorf] faceva leva su tre, quattro personaggi. Nessuno di noi era per esempio di sinistra.58
Si venne a costituire così, nei campi degli ufficiali, quella “società dei lager” che permise ai detenuti di resistere fino alla fine,
54 O. Ascari (uff.). 55 A. Mazzoni (uff.); "[Il giuramento] direi che quello lì non c'entrava; non c'entrava, insomma non credo che fosse quello. Era entrato uno stato d'animo, posso dire. Il giuramento, vista la figura che han fatto i nostri governanti..." (Lucchi, uff.). 56 Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 18. 57 Le valutazioni date dagli intervistati sul numero delle adesioni risultano inferiori alla realtà (soprattutto quelle espresse dai soldati): 1%, 5%; o addiritura "1 per mille" (Andreoli),"solo il trombettiere" (Fregni); fatto indicativo dell'estraneità al fenomeno della gran parte dei combattenti IMI. I motivi che gli intervistati attribuiscono a coloro che decisero di optare non si differenziano da quelli già noti: all'inizio l'ideologia, e anche le possibilità di fuga, le minacce ai familiari; in seguito, la fame. 58 Testimonianze di Gariboldi e O. Ascari, infra. Tra le personalità citate nelle testimonianze (infra), spiccano i nomi di Guareschi, di Novello, di Gianrico Tedeschi.
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di reagire alla spersonalizzazione prodotta dalla vita reclusa, dalla mancanza di notizie, dalla fame e dal senso di abbandono.59
La presenza di un gruppo di sostegno, così fondamentale per la resistenza e la sopravvivenza morale e mentale degli internati, ebbe riscontro però solo nei campi degli ufficiali. I soldati si aggregavano in due, tre, per fornirsi l’aiuto e la difesa indispensabili per sopravvivere. Anche per le difficoltà stesse derivanti dal lavoro disperso, solo raramente si formava un gruppo (se ciò avvenne, fu dopo la smilitarizzazione, per l’acquisita libertà di movimento, e spesso per l’incontro con militari appartenenti allo stesso paese o alla stessa zona d’Italia). Come si evince dai racconti, la lotta per la sopravvivenza non lasciava spazio per la solidarietà,60 come non lasciava tempo per momenti di raccoglimento o di divago.61
Per quanti furono costretti al lavoro coatto, le condizioni peggiori erano quelle del lavoro dequalificato — lo sterro, il trasporto di materiali pesanti, il lavoro in miniera, quello nelle fonderie —, al quale furono soprattutto assegnati, oltre ai deportati politici e razziali, i prigionieri appartenenti alle popolazioni più disprezzate, gli italiani e i russi. Il lavoro in fabbrica era di norma più accettabile, anche perché talora gli operai potevano usufruire di razioni alimentari meno ridotte; ma, come contropartita, vi era l’incubo dei bombardamenti.62 Sicuramente migliore era il lavoro in cam-
59 La resistenza veniva alimentata, nei campi degli ufficiali, da iniziative culturali, corsi, e soprattutto da un'azione capillare quotidiana: V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 114. 60 "All'interno del campo non si poteva cercare di aiutare gli altri, spesso anzi si doveva stare attenti anche agli stessi prigionieri italiani [...] tra noi eravamo più capaci di bisticciare che di aiutarci, in quei casi lì ognuno pensa per sé" (Ballocchi); "Fra noi c'era anche chi rubava il mangiare a degli altri! In baracca si faceva compagnia però ognuno di noi doveva agire per se stesso. Non c'era chi aiutava" (Fognani); "Dopo ho iniziato a pensare solo a me a sopravvivere" (Cecchelli). Anche tra gli ufficiali "la solidarietà esisteva fra tutti e fra nessuno. Uno pensava per sé, c'era dell'egoismo. Infatti, arrivava un pacco, di solito ognuno se lo teneva per sé. Era un'autodifesa" (Mazzoni). Spesso la solidarietà non esistette nemmeno al momento delle razzie, successive alla liberazione: "'Questo è mio, lo tengo io!'. Questa era la psicosi che avevano prodotto tanti mesi di prigionia e privazioni. C'era gente che dormiva tenendo abbracciati pacchi e pacchi di sigarette" (Giuliani). 61 "Non si parlava di religione, non si parlava di niente. Non ce ne sarebbe stata nemmeno la voglia di parlare religione" (Fregni); "avevamo altro da pensare... c'era la resistenza in ballo" (Galli). 62 "La Rhur intera era bombardata e mitragliata in continuazione, pensate essere dentro una baracca di legno o in fabbrica, era un inferno, dieci-dodici bombardamenti per notte fra bombe e contraerea non si dormiva più, ci auguravamo tutti che in qualche modo finisse, o una bomba o qualcos'altro" (Roseo).
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pagna, per la possibilità di nutrirsi e di vivere in locali in qualche modo riscaldati: ma era quasi sempre un lavoro temporaneo.
Alcune interviste ci rivelano che qualcuno riusciva a trovare degli arrangiamenti che gli permettevano di non soffrire la fame, e talora di aiutare anche i compagni: lavorando alla mensa, in un mulino, in uno zuccherificio, alla distribuzione dei pacchi, facendo il sarto, in un ospedale per cavalli ecc. Coloro che non si abbandonavano alla disperazione e alla passività, e reagivano, riuscivano a crearsi delle condizioni di vita migliori; in posizione decisamente meno umiliante si ponevano quanti conoscevano il tedesco, e anche quanti mantenevano un minimo di decoro esterno: allora non erano considerati più degli schiavi, ma degli uomini.63
Decisamente buona fu la condizione di quegli ufficiali che, avendo accettato di andare a lavorare, erano stati inviati in centri di addestramento professionale, o a svolgere lavori consoni alla loro professione.64 Una prova ulteriore che le terribili condizioni di vita e di lavoro erano collegate alla volontà punitiva dei nazisti.
Il mutamento di status dell’estate del 1944 non modificò il trattamento dei soldati riguardo all’orario di lavoro e alle razioni alimentari. Ma, come si trae da alcune testimonianze, la maggiore libertà acquisita permise loro di procurarsi del cibo al di fuori dal campo, attraverso scambi, lavori presso privati la domenica, qualche furto di patate e di altri generi.65
63 "Avevo capito un'altra cosa dai tedeschi [...] che bisognava essere puliti, ben rasati, sempre lavati, mai... e neanche troppo melensi [...] essere meno straccioni possibile" (Galli)"; “Io mi lavavo e cercavo di lavare la roba, ma c'erano quelli che non si lavavano, erano disperati e prendevano il mondo come veniva, tutti stracciati [...]" (Fognani); "Chi sapeva parlare un po' di lingua tedesca, allora lui lo rispettavano anche" (Ballocchi). 64 "I tedeschi, molte volte chiedevano degli specialisti; per esempio geometri, ingegneri, più che lavoro manuale perché lì avevano i soldati per fare i lavori manuali" (Lucchi). Generali, su consiglio del proprio comandante di baracca, accetta di andare presso una scuola di apprendistato di meccanica vicino a Stettino: "Lì la fame è scomparsa, mangiavamo a tavola [...]. L'alloggio era pulito ed ordinato [...]. Ci permettevano di fare una doccia tutti giorni quando rientravamo dalla fabbrica e ci lavavano anche la biancheria [...]. Avevamo anche 4 ore alla settimana di lezioni di tedesco". Mazzoni viene inviato a seguire un corso di meccanica, dopo esser stato nei campi di Wietzendorf e Dusseldorf: "Ad Amburgo si mangiava bene". 65 "Ci sono stati cambiamenti significativi, essenziali. Andavamo a lavorare da soli e alla sera quando eri stanco ti mettevi a dormire; prima dovevi aspettare l'appello [...] è stata una liberazione! [...] andavamo al cinema, e poi c'erano i rapporti con i civili [...] ci davano dei marchi, la fabbrica ci pagava uno stipendio" (Vaccari). Vi sono anche pareri contrari: "Per noi non è poi che sia cambiato niente, abbiamo seguitato a lavorare in fabbrica, e non è poi che fossimo tanto liberi! Nel campo c'erano le sentinelle come prima [...] hanno continuato a darci da mangiare quel
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I giorni della liberazione furono giorni di caos: scomparse le autorità del campo e gli stessi abitanti, gran parte degli IMI fu abbandonata a se stessa, senza possibilità di rifornirsi di viveri se non attraverso furti e razzie. Poi l’arrivo (o l’incontro quasi casuale) con i russi — con i cui prigionieri gli italiani dichiarano indistintamente di aver sempre fraternizzato, e che, anche per questo, trattarono gli IMI con umanità66 —, con gli inglesi, cui viene invece rimproverata la freddezza venata di disprezzo, con gli americani, considerati i più generosi e cordiali.67 I russi, gli inglesi e gli americani permisero agli ex detenuti di compiere rappresaglie e saccheggi, per un periodo di tempo limitato (da alcune interviste si trarrebbe che gli americani cercassero di evitare le vendette fisiche). E alcune rappresaglie verso i guardiani tedeschi o verso gli italiani che avevano funto da intermediari e avevano vessato i connazionali, furono atroci:
Siamo stati liberati dagli inglesi — i topi del deserto, sa... quelli di Montgomery, quelli con la bandiera gialla con la morte nera sopra — riferisce un ufficiale —. Sono arrivati con i carri armati, ma non sono entrati
niente di prima" (Capitani). Alcuni riconoscono che anche per gli ufficiali vi fu un certo miglioramento materiale: chi aveva alla fine accettato il lavoro ("se uno minaccia di spararti, allora vai a lavorare"), aveva infatti da mangiare: "Almeno mangiavamo qualcosa, ci davano una sbobba a mezzogiorno abbastanza buona. Avevamo il vantaggio alla sera, quando uscivamo dal lavoro alle sette, prendevamo di corsa il tram che ci portava in una zona del centro dove c'erano dei ristorantini che accettavano i soldi che ci davano loro per il lavoro" (Morsiani). 66 In grande maggioranza le testimonianze sono favorevoli ai russi, anche se viene sottolineata la grande disorganizzazione che esisteva fra le loro fila: "Non erano troppo esigenti e ti trattavano come i loro. Anche se il grosso problema era un po' la confusione che c'era tra soldati russi" (Biagini); "I russi erano un esercito molto disorganizzato, un esercito arrivato così dalla fossa. Sono arrivati con tutta gente reclutata di tutti i tipi: bambini, ragazzetti, vecchi e anche donne. [...] Male non ci hanno trattati" (Balugani); "I russi sono molto disorganizzati, ognuno dice una cosa diversa e i soldati sembrano comandare più degli ufficiali, è il primo che arriva che dà ordini, non il più alto in grado" (Ghirardelli); "La disorganizzazione russa era tanta [...] lavorare non ci hanno fatto lavorare a parte una volta o due, ma ci davano da mangiare bene (Vaccari); "Ci hanno portato a Hemer il 18 settembre del '44. Un campo che era in mano ai russi... Dei quali noi abbiamo un ricordo stupendo, a parte che erano sporchi, sì l'igiene non era molto..., però come ci hanno accolto, come ci hanno offerto persino le loro baracche" (Pradella). Ma alcune voci sono discordi: "I russi ci hanno sempre trattato da maiali" (Costi). 67 Alcune testimonianze ricordano che, a parte i russi, tutti gli altri accolsero con poca simpatia gli italiani, che erano "quelli della pugnalata alla schiena" per i francesi, i fascisti per gli inglesi, gli invasori per gli slavi ("Noi eravamo odiati da tutti": W. Rossi). Gli intervistati concordano sulla freddezza degli inglesi: "Loro ci trattano un po' duramente. Anche lì c'è proprio il disprezzo nei nostri confronti" (G. Gozzi); "Perquisizioni a tappeto, mangiare pochissimo, libertà poca. Erano peggio dei tedeschi, gli inglesi" (Fregni); "Sotto gli inglesi stavamo peggio che sotto i tedeschi" (Pradella).
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dall’ingresso... no, sono passati sopra il filo spinato, lo hanno travolto. Noi siamo accorsi tutti a festeggiarli, i tedeschi sono usciti dalla loro baracca e hanno deposto le armi, lì ai loro piedi davanti ai carri. Gli inglesi allora ci hanno lanciato sigarette, centinaia di pacchetti, e noi ci siamo messi a raccoglierne più che potevamo, tutti tranne i russi. I russi rimasero in piedi a fissare il comandante inglese, fissavano lui e fissavano i tedeschi. A un certo punto l’inglese fa un cenno di assenso con la testa, allora i russi si impossessano delle baionette, dei fucili dei tedeschi e con queste li hanno fatti a pezzi tutti. Ma letteralmente fatti a pezzi, pensi che a me è arrivata una mano a mezzo metro. Non ci fece più di tanto impressione, sapevamo quello che i russi avevano subito, sapevamo che dovevano vendicare i loro compagni uccisi e lo sapevano anche gli inglesi perché non mossero un dito. Non fecero niente neanche quando questi russi presero il comandante del campo e lo affogarono nel camion degli escrementi.68
I capi campo li hanno ammazzati tutti [...] il capo campo nostro è scappato via, è andato in un altro campo [...] quando arrivano i suoi del campo, lo trovano lì e si vedeva una fiumana di gente...lo facevano fuori, sbranato. Una gamba da una parte, un braccio dall’altra, la testa dall’altra...niente, lo strappavano così. [...] Erano più cattivi, i capi campo, che i tedeschi.69
Non tutti gli IMI riescono — con mezzi di fortuna, e anche a piedi — a tornare presto in patria: a certuni la sorte ha riservato la detenzione in campi di concentramento russi, dove restano mesi, anche anni prima di rivedere le loro case; molti non torneranno mai (come ci testimonia la relazione al convegno di Claudio Sommaruga).
Gli intervistati che hanno vissuto nei campi russi danno versioni non sempre concordi: per alcuni i russi sono umani, non applicano una disciplina rigida, ma sono totalmente disinteressati della sorte dei prigionieri, che devono arrangiarsi per non morire di fame; per altri, e soprattutto per un internato restato nei campi russi insieme con i prigionieri tedeschi, non vi era differenza con i tedeschi.70
68 Intervista realizzata da E. Barbasso all'ufficiale D.T. (Torino 1916), detenuto nello Stalag XB: tesi di laurea, a.a. 1992-1993, Dipartimento di Economia politica, Facoltà di Economia, Università di Modena e Reggio. 69 P. Fregni, infra. 70 (Per le testimonianze sulla disorganizzazione dei russi, v. la nota 66)."Ho capito che non vi era differenza con i tedeschi, nessuno si è interessato di noi, chi eravamo, cosa facevamo, da dove venivamo. [...] Nei campi di prigionia russi sono sempre i tedeschi a comandare e ogni ingiuria che potevano farci la facevano. [...] I russi trattano i prigionieri uguali sia tedeschi che italiani. [...] Non riesco a scordare la prigionia in Russia, soprattutto perché ho sofferto molto il freddo, ho avuto la sensazione di morire diverse volte, cosa che con i tedeschi non mi è mai successo"
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Infine il ritorno e l’accoglienza. Secondo quanto risulta da alcune testimonianze, in molti era radicato un forte sentimento di amarezza già prima dell’arrivo in Italia, per l’abbandono di cui si erano sentiti vittime: “I figli di nessuno tornano a casa” scrissero gli IMI su di un treno che li riportava in Italia dalla Siberia.71
Giunti in Italia, i rimpatriati vennero accolti con diffidenza: lo stato, dopo averli sottoposti ad interrogatori in base ai quali molti rischiarono di essere considerati collaborazionisti per aver accettato di lavorare, dette loro un compenso irrisorio.72 La fondazione dell’ANEI venne vista con sospetto dalle istituzioni.73 Gli ex internati incontrarono ovunque un “ambiente di diffusa, inspiegabile incomprensione, spesso di indifferenza, quasi di ostilità”74 .
Come già era avvenuto nelle guerre precedenti, il prigioniero, “l’uomo disarmato”, non trovò nell’Italia del dopoguerra, che aveva combattuto per la propria liberazione, un clima e una cultura
(Vezzelli). Le testimonianze sul soggiorno nei campi, dopo la liberazione, sono discordi: "I russi sono stati molto ospitali. [...] Ci consideravano come degli alleati" (Tassi); "[Nel campo] ci davano da mangiare, ma poco. Bisogna però dire che non ne avevano neanche di più per loro" (Cottafavi); "Sotto i russi... stavo meglio con i tedeschi [...] pretendevano troppo dagli italiani" (Rocchi); "Ci facevano lavorare ma ci trattavano abbastanza bene. Si mangiava quello che si poteva. Eravamo andati a finire dentro una cittadina ed ognuno si arrangiava, eravamo liberi" (Giberti). 71 Testimonianza di Remo Bazzani, raccolta da Silvia Passini. "L'Italia non la ringrazio per niente. Ci hanno abbandonato tutti. Non ci hanno dato niente a noi. Eravamo in 17 nazioni lì dentro, a tutti ci arrivava della roba, solo noi italiani non eravamo assistiti da nessuno" (Lotti). 72 "Erano increduli; se non avessi presentato le cartoline prestampate che distribuivano ai prigionieri nei lager, non mi credevano" (Lucchi); "Non ho avuto mai nulla dall'esercito" (Capitani). Come precisa Rochat, "l'impatto con le strutture militari fu quasi sempre sconcertante: i reduci vennero interrogati sulle circostanze della resa e non sulle vicende della prigionia, e le loro magre spettanze furono decurtate da quote per il 'vitto e alloggio', di cui avevano fruito in terra nemica": G. Rochat, I prigionieri di guerra: un problema rimosso, in Una storia di tutti, cit., p. 1. Per la totale incomprensione del problema da parte di Parri (poi ricredutosi) e di De Gasperi v. V. E. Giuntella, L'Associazione Nazionale Ex Internati e la memoria storica dell'internamento, in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l'8 settembre, cit., p. 71; Sommaruga, Introduzione, in Dopo il Lager, cit., p. 33. 73 Quando nel '45 l'ANEI, appena nata a Torino, volle diventare nazionale, trovò resistenze nelle pubbliche autorità. Una circolare riservata del Ministero dell'Interno così si rivolgeva ai prefetti: "Si pregano le SSLL di impartire agli organi dipendenti riservate istruzioni perché, in linea generale, non vengano favorite iniziative simili a quella segnalata": A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998, p. 31. L'ANEI verrà poi istituita, e riconosciuta giuridicamente, il 2 aprile 1948 dal governo De Gasperi, alla vigilia della prova elettorale. 74 "L'Unità democratica", 4.9.45, cit. da C. Silingardi, op. cit., p. 13 (il giornale era l'organo del CLN modenese). A queste conclusioni giunge anche A. Righi, attraverso una ricerca sui principali giornali del Modenese; la stampa non affronta mai, se non nelle cronache locali, le vicende degli IMI: tesi di laurea, a.a. 1997-1998, Dipartimento di Economia politica, Facoltà di Economia, Università di Modena e Reggio.
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disposti a riconoscere la sofferta esperienza della prigionia, e l’eccezionale fermezza dimostrata dagli IMI. Ricorda un intervistato:
Qui da noi la Resistenza non ci ha mai riconosciuti, si è sempre parlato solo di Resistenza, per l’amor del cielo, io contro la Resistenza non ho niente [...] qui si parlava sempre e solo di Resistenza, di partigiani, in effetti molti hanno fatto il loro dovere, nessuno lo nasconde, io lo riconosco per primo... [ma gli internati sono stati] dimenticati, dimenticati...75
Spesso non trovavano lavoro, talora neppure il riconoscimento delle loro sofferenze da parte dei familiari:
Ti credono esagerato. Perché quello che abbiamo visto noi in Germania è una cosa talmente grossa che non possono credere.
Loro non credevano neanche. Poi i giovani dicono perché non facevate questo e quello...76
Ogni ex internato si ritrovò solo. All’identità collettiva — che, almeno nel caso degli ufficiali, aveva costituito il momento di forza e di sostegno durante la prigionia — fecero posto, come scrive Labanca, “sentimenti molteplici (volontà di dimenticare, coazione a ricordare, novità legate al reinserimento nella società civile e all’assunzione di altre identità: di lavoro, di vita, di collocazione ideologica)”77 .
Alcuni cancellarono l’esperienza dalla memoria per decenni.78 Altri si chiusero nel silenzio; che ruppero per la prima volta al momento dell’intervista.
75 G. Montanari, infra. 76 Testimonianza di Meschiari e di Biagini, infra. Dura anche l'esperienza di chi era passato per i campi russi: "Non potevo raccontare la mia esperienza in Russia perché altrimenti diventavo anticomunista e non venivo accettato, per cui ne parlavo solo in famiglia quando me lo chiedevano, ma loro non si rendevano conto che il comunismo non era quello che credevano. [...] Io non posso dire che in Russia stavano bene, non posso dire che l'economia andava bene in Russia, perché tutto veniva trascurato" (Vezzelli). C'è anche chi non riceve alcuna domanda: "Come arrivo a casa, mia madre mi dice: 'Hai dei soldi che vado a comprare qualcosa?'. E io le ho detto che non avevo niente. [...] Al pomeriggio sono andato dove lavoravo e mi hanno detto che potevo cominciare domani. Ho fatto mezza giornata di riposo" (Costi). 77 Cfr. il saggio infra; come nota Rochat, gli IMI respingevano la politicizzazione delle associazioni partigiane, ma non potevano accettare il reducismo apolitico delle associazioni combattentistiche tradizionali (G. Rochat, Memorialistica, cit., p. 25).
78 "C'è stato un periodo in cui la mia memoria era non dico zero ma quasi. Avevo una memoria visiva, ma non il ricordo dei fatti" (Dallari). Fu questo anche il caso di Sommaruga: "Rimossi dal mio io questa assurda e orrida storia rivivendola
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Ho cercato di dimenticare la mia esperienza, mi ci è voluto del tempo per capire che la vita continuava, non capivo chi si divertiva, chi andava a ballare, mi facevano rabbia. [...] Della mia esperienza dettagliata come ho fatto adesso non ne ho parlato con nessuno. L’ho fatto con lei, perché mi sembra interessato. Ho anche cercato qualcuno per scrivere un libro, ma a chi interessa la mia storia? A chi serve?79
G. PROCACCI
per trentacinque anni dal di fuori, come se non mi riguardasse e l'avessi solo vista al cinema": C. Sommaruga, "Meglio morti che schiavi". Anatomia di una resistenza nei lager nazisti, "Studi piacentini", 1988, n. 3, p. 222. Il mio incontro con il dott. Sommaruga — in un convegno sulle "diverse prigionie" —, la successiva intensa corrispondenza, attraverso la quale conobbi le vicende del suo internamento, sono stati lo stimolo principale per la ricerca sulla memoria degli internati e dei deportati del Modenese.
79 Testimonianza di Bruno Vezzelli, infra. Cfr. anche Bartoli: "Non ho raccontato niente della mia storia. Lo faccio adesso, ecco, ma non l'ho mai fatto prima perché non ne voglio sapere".
a cura di Giovanna Procacci
GASTONE AMICI - 1917 - Modena - Soldato
[…] E dopo, come è cominciato i primi momenti in cui si conosceva che cominciava a venir brutto, che si andava verso la guerra, allora mi hanno mandato vicino a Trento, a controllare i moschetti del reggimento perché con tutti i richiamati... C’erano 4.000 moschetti, ne ho fatto un mucchio, poi a un bel momento son venuto a casa; ne avevo trovati 200 su 2.000 buoni. Eran tutti quelli della del ‘14. Son andato a casa: “Guardi, così... e così”, “Va bene, va bene”... mai più detto niente. C’eran solo quelli lì, con tutti i richiamati, gli davan quelli lì. […] Sono stato 17 giorni in Grecia, poi ci han preso. […] Siamo stati catturati per la viltà, bisogna dire, degli ufficiali, perché addirittura ci hanno svegliato al mattino, non c’era più neanche un ufficiale. No, è stato una sera, non c’era più neanche un ufficiale, ci hanno inquadrati, ci hanno fatto fare il giro della cittadina che era Volo, in Grecia, e poi ci hanno portato in un cortile e al mattino sono arrivati i tedeschi. […] Spediti con promessa di mandarci in Italia. Ci hanno disarmato e poi ci hanno mandato sul treno, senza nessuna guardia, così. Per 17 giorni abbiamo viaggiato. Era più il tempo che stavamo fermi per dare passaggio alle truppe tedesche che andavano in Grecia... […] Nel viaggio abbiamo sempre pensato proprio che ci mandassero in Italia. […] Nessuno ci dava da mangiare, ma ne avevamo portato un po’ con noi. E poi andavamo nei paesi, quando si fermava il treno, fuori binario, a cercar da mangiare. […] Non ce n’erano di tedeschi. C’erano solo nelle stazioni, un sottufficiale. E quando siamo arrivati in Croazia, perché, c’era un treno, io ero in un vagone scoperto, ce n’erano alcuni di vagoni scoperti, sfondati, così, e gli altri eran vagoni coperti. Ritenevamo, dato il caldo, di essere stati fortunati; solo che in Croazia siamo stati assaliti dagli Ustascia. Ci hanno portato via tutto quello che avevamo nei vagoni scoperti. Poi è saltato fuori quel sergente maggiore che era di servizio lì, con una mitragliatrice, ha cominciato a sparare contro i vagoni e sono scappati. […] Siamo arrivati al campo di lavoro e purtroppo era una fabbrica di munizioni. […] Riesa, in Sassonia. […] Dopo un mese circa è arrivato un giornalino dall’Italia; si chiamava «Patria», e quello che scriveva era Giorgio Almirante, me lo ricordo... qua guardi non ce l’ho, mi spiace perché i giornali, non c’avevamo neanche
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carta, li usavamo per il gabinetto, ma se avessi saputo chi fosse, perché non sapevamo neanche chi era... e ci diceva di passare dalla parte dei tedeschi e venire in Italia a difendere la patria perché qua stanno massacrandosi qua e là... […] Dopo questo giornale, dopo quindici giorni, nella fabbrica ci hanno riuniti tutti; c’erano due ufficiali tedeschi, uno mi pare fosse anche un tenente italiano, con un interprete, che ci spiegava, chi voleva venire là, chi vuol venire sarà trattato bene, faccia un passo avanti. Eravamo in 80 lì, uno. Uno ha fatto il passo avanti; dopo due giorni ce l’han rimandato. Era un bergamasco; l’han mandato indietro, cosa se ne facevano? Sai, erano rimasti male i tedeschi, eh. C’avevano diminuito mezz’etto il pane. […] Dunque, estate o inverno, ci svegliavano alle sei del mattino, con dei ghiacci che non riuscivamo neanche a lavarci perché le fontane erano all’aperto. Alle 7 si partiva, ma anche prima, alle 6:30; perché dovevamo fare quattro chilometri a piedi per arrivare al posto di lavoro. Quando arrivavamo là, andavamo ai nostri reparti, ci venivano a prendere i capi e poi si lavorava fino a mezzogiorno. Ci davano mezz’ora, tre quarti d’ora, non mi ricordo. Probabilmente mezz’ora perché avevano bisogno di lavoro e poi si tornava a lavorare, e la sera lo sapevi poi quando eri a casa quando tornavi indietro. A caricare dei vagoni di munizioni in continuazione; il fronte ne richiedeva sempre di più ma bisognava fare quel che si poteva. […] C’erano dei russi e dei prigionieri civili. Avevano un vestito particolare: avevano un vestito nero con una striscia gialla, i civili. […] C’erano dei francesi, pochi; americani ed inglesi neanche uno, perché a loro ci arrivavano due pacchi al mese di cinque chili. […] I francesi erano trattati come gli inglesi e gli americani. A loro ci arrivavano i pacchi, a noi... perché noi non eravamo associati alla Croce rossa. […] Solo una volta ci ha mandato mezzo chilo di riso e mezzo chilo di zucchero, il Vaticano. […] E pacchi gliene hanno spediti? Spediti due, me n’è arrivato uno con due pezzi di salame, uno differente dall’altro... quando son venuto a casa gli ho detto: “Avevate solo dei pezzi di salame da spedire?”. E mi han detto: “No, noi li abbiamo mandati interi.” Il tedesco, quando ci hanno aperto il pacco davanti a noi, c’erano i timbri e i piombi di Modena, han detto se ti manca qualcosa noi... ed era vero. L’avevano rubato a Modena, quando han fatto la spedizione in Corso Vittorio. Son tornati indietro, glielo hanno aperto, ricucito, ripiombato e ne han tagliato via metà. […] Parliamo di alloggio? Dunque, era una baracca che c’eravamo dentro in 80. Se fosse stato un ospedale con pochi posti, al massimo 30. Erano così, si toccava il soffitto. C’erano tre posti letto. […] Siamo arrivati lì in 120 perché eravamo in due baracche, di italiani, per Natale eravamo in 80, eh, tutti morti. […] Si ricorda di perquisizioni o magari angherie da parte dei soldati? No. No, perché eran tutti vecchi, tutti territoriali, gente che aveva dei figli al fronte, magari morti. […] E con la popolazione civile tedesca avevate contatti? Eravamo a contatto con quelli che lavoravano. Ma era della brava gente, anche loro. Anche quelli erano tutti vecchi a parte le donne. […] Dovevamo essere liberati dai russi ma noi siamo arrivati sul ponte dell’Elba, lì a Torgau e ci han fatto passare di là gli americani.
G. PROCACCI (a cura di)