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CONCLUSIONE

La storiografia che si occupa del colonialismo italiano in Africa è oggi, sulle orme di Angelo Del Boca e Nicola Labanca, impegnata molto spesso a combattere una battaglia contro l’immagine degli italiani “brava gente” cercando in tutti i modi di mettere in evidenza tutte le nefandezze compiute dai nostri connazionali nelle colonie africane, i massacri compiuti in Libia durante la “pacificazione” del paese o quelli in Etiopia dopo l’attentato a Graziani. Quello che ho cercato di fare in questo lavoro è stato di calarmi nella mentalità esistente all’epoca, per evitare di un metro di giudizio attuale ad episodi accaduti in tempi remoti. La prima domanda alla quale cercherò di dare una risposta è questa: il colonialismo italiano è da ritenersi simile se non uguale a quello delle maggiori potenze europee? In realtà il sentiero seguito dal pensiero coloniale italiano non è stato lineare e si è modificato nel tempo anche a causa di avvenimenti successi al di fuori del continente africano.

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Nel primo capitolo di questo studio cerco di mostrare come l’atteggiamento paternalistico e l’idea di incivilimento, oltre al tentativo continuo di evitare scontri con i nativi, rimase al primo posto almeno fino alla battaglia di Adua. Le ragioni che spinsero la giovane nazione italiana a guardare oltremare furono in un primo tempo legate a questioni economiche e di ordine pubblico (il rapido sviluppo del brigantaggio nel meridione indusse a progetti di istituzione di colonie penali in luoghi lontani dall’Italia). I primi esploratori e viaggiatori italiani, personaggi come Carlo Piaggia, Giovanni Miani e Romolo Gessi, furono tutti, a loro modo, molto rispettosi dei costumi indigeni. Questo rispetto, a dire il vero, si rivela inversamente proporzionale al livello culturale dei viaggiatori (sfatando in questo modo il pensiero comune dei giorni nostri dove si ritiene che le persone più colte siano più disponibili ad accettare gli usi ed i costumi di chi non segue le usanze occidentali). In questo primo periodo assistiamo ad una vivace discussione sull’impostazione delle future colonie, cioè se dovessero essere essenzialmente dei punti di riferimento puramente commerciali (lasciando quindi ad altri l’amministrazione del territorio circostante) o se invece fosse fondamentale l’acquisizione completa dei territorio in modo da creare delle colonie di popolamento. Anche per quanto riguarda le colonie penali in un primo momento si pensò di usufruire di piccole concessioni in territori altrui. Anche se l’idea di potenza ed il desiderio di poter sedere al tavolo dei più alti consessi europei sarebbero affiorati abbastanza rapidamente tra i governanti italiani, restava comunque il timore che dei movimenti troppo spinti nella ricerca di territori in aree dominate da altre potenze coloniali avrebbero potuto infastidirle e spinte a mettere i bastoni fra le ruote ai sogni italiani. A causa di queste preoccupazioni, il governo di Sua Maestà decise di muoversi con i piedi di piombo ed al momento dell’acquisto del primo possedimento italiano in Africa, la piccola baia di Assab, fece figurare come proprietario la compagnia privata Rubattino e non lo Stato italiano. Peraltro, dopo circa due mesi dall’acquisto e dopo la partenza degli italiani dalla baia, gli egiziani avrebbero rioccupato Assab e sarebbero passati altri dieci anni prima che l’Italia potesse rientrare in possesso di quel lembo di terra sempre attraverso la compagnia Rubattino.

Il decennio che seguì la prima effimera occupazione della baia di Assab da parte italiana si fece notare per l’assoluto disinteresse per le questioni africane sia da parte dei

governi che si succedettero sia da parte dell’opinione pubblica. Nel 1871 venne istituita una speciale commissione al fine di esaminare le eventuali possibilità di creare delle colonie italiane ai fini di popolamento, commercio e deportazione, passando dall’Africa fino all’Estremo oriente, ma dopo circa 18 mesi di sterili discussioni venne sciolta alla fine del 1872. In riferimento alla baia di Assab, si scontrarono due filoni di pensiero, il primo vedeva l’assoluta inutilità di avventure africane visto che considerava la piccola baia di scarsissimo valore e con limitate se non nulle possibilità di sfruttamento, mentre l’altro era più ottimista sull’eventuale utilizzo di quel limitato lembo di terra sul Mar Rosso, soprattutto dal punto di vista commerciale. La partecipazione dei partiti politici alla discussione fu inizialmente nullo e così rimase fino alle prime sconfitte militari (Dogali, Amba Alagi ed in seguito Adua); la Sinistra storica ritenne che per attirare consensi vi fossero decisamente più argomenti di politica interna rispetto alla sterile polemica coloniale, mentre dalla Destra storica venne un’opposizione dovuta a motivazioni economiche, poiché non vedeva nella baia africana alcuna possibilità di ritorni che fossero andati a compensare lo sforzo fatto dalle casse statali che avevano come al solito un non roseo bilancio. Da parte governativa vi era ancora il dubbio se il piccolo possedimento, ed eventuali altri, dovessero essere utilizzati come semplici avamposti commerciali o se effettivamente sfruttarli come colonie di popolamento e cercare così di risolvere, almeno in parte, il problema dell’emigrazione dalla madrepatria. Le stesse opinioni dei vari viaggiatori ed esploratori che visitarono la zona di Assab furono estremamente differenti e questi contrasti così profondi furono spesso il frutto dell’ignoranza geografica delle regioni abissine o di feroci rivalità personali. Inoltre il fatto che la natura della penetrazione italiana in Eritrea fosse politica e laica e non morale e religiosa, tolse ad essa anche il sostegno della destra cattolica, sempre legata al non-expedit di Pio IX.

Chi invece riuscì a vedere nella baia ed in un’eventuale penetrazione più profonda in Abissinia motivo di forti interessi commerciali furono alcuni grandi industriali milanesi come Carlo Erba, Francesco Gondrand e Giovan Battista Pirelli, i quali arrivarono a preparare, a loro spese, una spedizione in Africa atta a confermare le idee positive su Assab per poter ottenere il massimo sostegno da parte delle autorità italiane. I risultati di tale spedizione, considerati positivi, convinsero il governo Cairoli a procedere con il definitivo acquisto della baia di Assab sempre servendosi del prestanome Rubattino. Dal 30 dicembre 1879 al 5 novembre 1880 vennero firmate diverse convenzioni per l’acquisto di ulteriori zone limitrofe che portarono il territorio ora italiano ad assumere uno sviluppo costiero di circa 60 km. ed una superficie di 700 km2, decisamente più ampio del precedente.

Nel maggio del 1881, con il Trattato del Bardo, il governo francese ottenne il controllo della Tunisia e questo fu un vero colpo di mano che prese completamente alla sprovvista il governo italiano, che da sempre sperava di far passare un suo protettorato sul paese nordafricano, grazie anche al notevole numero di cittadini italiani presenti nel territorio. Lo scacco diplomatico causò lo scoppio di feroci polemiche nel paese che costrinsero il governo Cairoli alle dimissioni (la caduta di un governo per questioni di politica estera è un caso rarissimo nella storia d’Italia, compresa l’attuale epoca repubblicana). Ciò che contribuì maggiormente alla caduta del governo fu una campagna di stampa che accusò Cairoli di essere stato inerme di fronte al fatto compiuto. La stampa era un soggetto nuovo sulla scena politica che si andava notevolmente sviluppando proprio in quegli anni, con la creazione degli inviati speciali che informavano il lettore sugli eventi direttamente dal posto. Tutto ciò

convinse il nuovo governo a dare un colpo di acceleratore sulla questione nel Corno d’Africa ed il 10 marzo 1882 la Compagnia Rubattino cedette allo Stato italiano la proprietà della baia di Assab che diventò quindi la prima colonia definita “non geograficamente italiana ma politicamente italiana” con condizioni amministrative, legislative e giudiziarie speciali; infatti la colonia sarebbe dipesa direttamente dal governo e diretta attraverso decreti reali e ministeriali. La nascita ufficiale della prima colonia fu il 5 luglio 1882 quando venne approvata la prima legge di Assab.

Con la scusa di un tragico episodio che vide una spedizione italiana massacrata nel nord dell’Eritrea, e dopo essersi accordato con la Gran Bretagna, il governo decise di inviare un corpo militare ad occupare il porto di Massaua il 5 febbraio 1885 e nei mesi successivi tutta la zona costiera verso sud fino al congiungersi con il territorio di Assab, costituendo così il primo ampliamento ufficiale della colonia. L’idea di espandersi ulteriormente nell’entroterra abissino avrebbe però creato forti attriti con l’imperatore d’Etiopia Johannes IV il quale, dopo alcune vittorie militari contro le forze egiziane, già considerava tutta l’Eritrea come il naturale sbocco dell’Etiopia al mare. A complicare le cose (o a facilitarle a seconda dei punti di vista) vi era anche la tensione crescente tra il re dello Scioà, Menelik, e l’imperatore, con la chiara intenzione di Menelik di detronizzare quest’ultimo e di prenderne il posto. La diplomazia italiana considerò la questione come un’opportunità e si accordò con il re scioano per una modesta espansione del territorio intorno a Massaua in cambio di aiuti militari in armi e mezzi. Ma non tutte le cose andarono per il meglio: quando cominciò la prima lenta espansione verso l’interno vi furono immediate le proteste di ras Alula, governatore della zona di Asmara che portarono in seguito ad alcuni scontri armati fino al 1887 quando sopravvenne il disastro di Dogali. Nel 1888 il Negus intavolò delle trattative di pace che culminarono con il termine del breve periodo di guerra ma il 9 marzo 1889 lo stesso Negus morì in battaglia contro i Mahdisti sudanesi, acerrimi rivali degli etiopi, e Menelik lo sostituì al vertice dell’impero. Il 2 maggio 1889 Menelik stipulò con l’Italia un trattato di amicizia e commercio (trattato di Uccialli) concedendo anche delle piccole revisioni territoriali come compenso per l’aiuto; di questo trattato il Negus sezionò e riscrisse ogni articolo ma lasciò invariato l’art. n. 17 che riguardava la possibilità di ricorrere al re d’Italia in caso di trattative con paesi europei (la versione aramaica lasciava appunto la possibilità di servirsi del governo italiano mentre la versione italiana ne faceva obbligo). In realtà Menelik avrebbe voluto togliere completamente l’articolo dato che non vedeva a chi altri avesse potuto chiedere aiuto se non all’Italia, ma su consiglio del conte Antonelli decise di lasciarlo. La versione italiana del trattato che come abbiamo visto faceva obbligo al Negus di passare dall’Italia per trattare le sue questioni internazionali e di fatto faceva dell’Etiopia un protettorato italiano, sarà la causa della successiva guerra tra i due paesi che terminerà con la disfatta italiana di Adua.

Comunque il giorno 1° gennaio 1890 con il R.D. 6592 fu ufficialmente istituita la Colonia Eritrea che raggruppava tutti i possedimenti italiani sul mar Rosso per una superficie totale di 110.000 km2 e circa 200.000 abitanti.

La colonizzazione della Somalia avvenne nello stesso modo? In questo lavoro mostro che già a partire dalla metà degli anni ’50 del XIX secolo il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, venne pressato da alcuni missionari piemontesi (citiamo per tutti G.

Massaja e L. des Avanchères) ad interessarsi della parte meridionale del Corno d’Africa ma le problematiche legate alla costruzione dell’unità italiana, quelle successive a proposito della stabilità sociale oltre alla scarsezza di informazioni relative al Paese dei somali, convinsero lo statista piemontese a rimandare qualsiasi proposito di colonizzazione. Alla metà degli anni ’80 erano rimaste in Africa poche briciole di territorio lasciate libere dalle grandi potenze europee e generalmente prive d’importanza (perché desertiche o difficilmente accessibili, come il Paese dei somali) ma, ciononostante, nel 1884 una spedizione italiana, guidata da Antonio Cecchi, venne inviata alle foci del fiume Giuba per ottenere informazioni e per capire se fosse possibile stabilirvi perlomeno un protettorato. A fine maggio del 1885 Cecchi sottoscrisse un accordo commerciale con il sultano di Zanzibar dal quale il Paese dei somali dipendeva. A questo punto torniamo alla domanda precedente: anche in Somalia la diplomazia italiana si mosse con i piedi di piombo? La risposta che ho ricavato dal mio studio è positiva anche se per motivi leggermente diversi: in quel periodo, in un’area che trovava i suoi confini proprio nella zona del fiume Giuba, si scontrarono gli interessi coloniali di Gran Bretagna e Germania le quali nel 1886 misero fine ai loro attriti ridefinendo le zone d’influenza nei vari settori in discussione. Per evitare di rimanere schiacciato dalle due superpotenze europee, il sultano di Zanzibar offrì al console italiano Filonardi la cessione della baia di Chisimaio e della regione costiera del fiume Giuba. Poiché i confini delle varie colonie in questa zona non erano ancora stati completamente chiariti e per evitare di infastidire la Germania, con la quale nel 1887 sarebbe stata rinnovata la Triplice Alleanza, il Ministero degli esteri italiano rifiutò l’offerta. Una volta però risolte tutte le questioni diplomatiche europee, il Governo italiano, con il nuovo Primo Ministro Francesco Crispi, si rifece vivo cercando di ottenere quanto le fosse stato offerto precedentemente e dopo lunghe trattative, intraprese anche con i governi inglese e tedesco, riuscì nel 1893 ad ottenere diritti sui quattro porti più importanti della zona del Benadir, compreso quello di Mogadiscio, mentre il porto di Chisimaio restò di pertinenza britannica. Il resto della costa somala era governata da altri due sultani, di Obbia e di Migiurtinia, i quali però già nel 1889 accettarono il protettorato italiano. Nel 1895 dopo otto anni di intense trattative con i vari capi tribù, con un tutto sommato scarso tributo di sangue e con una spesa decisamente inferiore a quella impiegata in Eritrea, l’Italia poté dichiarare il proprio controllo sul Paese dei somali anche se, specialmente nell’entroterra, il suddetto controllo restò solo nominale. Per quanto riguarda la forma di governo nel nuovo possedimento, lo Stato italiano pensò di adottare nel Benadir un sistema differente da quello vigente in Eritrea, affidando la gestione della colonia ad una compagnia privata, la Compagnia Filonardi, capitanata dal console a Zanzibar. Ciò che sembrò in un primo tempo una mossa intelligente, sgravando le già boccheggianti finanze nazionali da ulteriori pesanti uscite, si rivelò essere al contrario un grave errore poiché la Compagnia non aveva né i capitali, né l’esperienza e neppure l’organizzazione per amministrare una colonia. Tutto ciò si tradusse in un continuo esborso statale, in un’incapacità cronica dell’amministrazione Filonardi nell’autofinanziamento e nel costituire una rete di infrastrutture che avrebbero giovato all’economia coloniale. Nel 1896 la Compagnia Filonardi venne sostituita dalla Società Anonima Commerciale per il Benadir, costituita da quegli industriali lombardi che abbiamo già nominato a proposito dell’Eritrea, che però entrò in funzione ufficialmente solo dal 1900 a causa di ritardi nell’approvazione della concessione. L’amministrazione da parte della società lombarda fu però di breve durata perché a seguito di una campagna di stampa che l’accusò di una politica speculativa piuttosto che imprenditoriale, oltre che alle malversazioni ed alle frequenti repressioni violente di

proteste indigene seguite da eccessi di ogni tipo, nel 1903 il governo Giolitti denunciò la convenzione e la colonia passò ad una gestione diretta dello Stato. Nel 1908 la legge n. 161 fece assumere alla colonia la nuova denominazione di “Somalia italiana” comprendente il Benadir e tutti i protettorati della Somalia settentrionale anche se i problemi economici e quelli di ordine pubblico furono tutt’altro che risolti. Una delle problematiche più importanti che si cercò di estirpare senza riuscirci fu quella della schiavitù, molto praticata soprattutto nei piccoli villaggi dell’entroterra e radicata negli usi della popolazione locale; lo sforzo dei missionari cattolici e dello stato per eliminarla finirono spesso per alienare le simpatie degli indigeni che vedevano così minata la loro organizzazione. Anche dal punto di vista religioso, il forte sentimento musulmano della popolazione, non consentì quella conversione di massa al cattolicesimo che si era sperato.

In Eritrea, dopo la firma del trattato di Uccialli, sembrò che le cose si fossero finalmente messe a marciare nella direzione voluta dal punto di vista italiano, ma cosa spinse il governo italiano, oltre alle polemiche sul già citato art. 17 del trattato, a forzare militarmente la mano per costringere Menelik a cedere ulteriori territori? Come dimostra la documentazione raccolta, una prima spinta arrivò dalla chiesa cattolica, la quale dopo aver sperato di ottenere un facile accesso in Etiopia grazie ai missionari, si rese conto che l’ortodossia etiope (copta) e la forte religiosità indigena si rivelarono ostili. A questo punto tutta la gerarchia cattolica si arroccò sulla certezza della superiorità bianca ed europea, formando nell’immaginario nazionale un’idea negativa dell’Africa e degli africani. Rispetto all’iniziale idea di colonizzazione, prese ora piede un pensiero coloniale più classico, cioè quello dello sfruttamento massimo del territorio e del totale disinteresse per le problematiche indigene. Il modello di amministrazione italiana si poté definire “diretto” all’interno del quale però si combinarono elementi diversi agendo sempre in funzione di emergenze e mai di una seria programmazione. Venne attuato un programma di colonizzazione agricola che fallì dopo pochi anni per cause che sono a tutt’oggi molto dibattute fra gli storici sia italiani che africani. Una sola cosa era sicura: l’unico strumento che il colonialismo italiano possedeva in Eritrea per cercare di arrivare a qualsivoglia obiettivo era l’esercito; anche in seguito furono sempre molto scarsi, per non dire assenti, quegli interessi privati che avrebbero potuto favorire lo sviluppo della colonia senza il continuo intervento dello Stato. L’amministrazione militare pensò quindi di risolvere i problemi di ordine pubblico semplicemente eliminando una dozzina di capi tribù oltre ad ottocento sodali. Tutto questo, oltre alla dissennata politica di distribuzione delle terre, portò alla rivolta di Bahta Hagos, fiero capo eritreo, che nel dicembre del 1894 venne sconfitto ed ucciso in battaglia. In quel periodo l’Italia viveva una gravissima crisi economica e sociale che portò, anche se non inevitabilmente, a lasciare la politica coloniale totalmente nelle mani dei militari. In seguito alla rivolta di Bahta Hagos, la risposta delle autorità militari fu quella di riprendere una politica espansionistica verso l’Etiopia che prevedeva l’entrata delle truppe italiane nella regione del Tigré e l’annessione di Adua, pensando in questo modo di spaventare Menelik. Nonostante alcuni piccoli scacchi militari, oltre allo scontro che diventò famoso anche in letteratura, l’assedio di Macallé, avessero fatto dubitare il governatore, generale Baratieri, sull’opportunità di un attacco in grande stile contro l’esercito abissino, anche perché era ormai chiaro che le forze messe in campo dal Negus fossero tutt’altro che scarse, le pressioni provenienti dall’Italia oltre ad una mentalità militare dell’epoca molto diversa da quella odierna, costrinsero Baratieri a dare battaglia nella piana di Adua in condizioni che potevano portare solamente alla sconfitta e così fu. A fine ottobre del

1896 il governo italiano fu obbligato a firmare un’umiliante pace ad Addis Abeba, ma Adua rappresentò anche la prima sconfitta di un esercito europeo contro uno africano, sconfitta che portò tutto il continente nero a realizzare che in definitiva i colonizzatori non fossero invincibili ed a cominciare una sotterranea lotta al colonialismo che sarebbe esplosa alla fine della seconda guerra mondiale. In Eritrea venne inviato un governatore civile, F. Martini, il quale circondandosi di collaboratori capaci e molto meno ignoranti della realtà africana, cercò di salvare il salvabile mantenendo la presenza italiana nel paese, evitando ulteriori conflitti con l’Etiopia e mantenendo più o meno inalterati i confini di prima della guerra. Prima di passare al periodo del regime fascista, vorrei rispondere ad una domanda che stranamente pochi si pongono: perché, al contrario di tutte le altre potenze coloniali, l’Italia non mobilitò truppe africane durante il primo conflitto mondiale? Nella mia ricerca sottolineo come nonostante lo stesso comandante in capo, generale Cadorna, vedesse positivamente l’impiego di truppe coloniali sui vari fronti, il ministro della guerra, generale Zuppelli, si oppose fermamente sostenendo che il conflitto, impostato ideologicamente come guerra di liberazione dallo straniero, dovesse essere combattuto solo da truppe metropolitane; inoltre l’utilizzo di divisioni coloniali avrebbe potuto essere interpretato dal nemico come un’incapacità operativa di quelle nazionali e tutto questo chiuse ermeticamente le porte a qualsiasi ulteriore proposta di utilizzo di truppe africane.

Con l’avvento del regime fascista, cambiò la visione coloniale italiana? La mia ricerca dimostra che in realtà i primi anni del fascismo non cambiarono la politica coloniale, anche perché né Mussolini né i più importanti gerarchi fascisti elaborarono un programma da attuare nelle colonie una volta giunti al potere. L’unico avvenimento di un certo peso che portò all’ordine del giorno la questione coloniale fu l’accordo con la Gran Bretagna per la cessione del territorio ad ovest del fiume Giuba, del quale gli inglesi volevano disfarsene a causa dei problemi creati dagli abitanti della zona, di etnia diversa (somala) rispetto al resto del Kenya. Da parte sua l’Italia vedeva con favore l’annessione di questo lembo di terra per ragioni di prestigio e per espandere il proprio dominio coloniale. Il 15 luglio 1924 l’Oltre Giuba passò formalmente all’Italia dapprima amministrato dal ministero delle Colonie ed in seguito annesso alla Somalia italiana. Come abbiamo già evidenziato il fascismo non si scostò inizialmente dalla politica coloniale precedente salvo nell’utilizzare l’idea di civilizzazione come mezzo per portare a compimento il processo di formazione di un’unità nazionale ancora molto fragile in patria. Anche per quanto riguarda la questione razzismo il fascismo non dovette di certo inventarsi nulla, dato che all’epoca vi erano addirittura studi pseudoscientifici che decretarono l’assoluta superiorità della razza bianca su tutte le altre. Già una legge del 1914 vietava agli ufficiali coloniali di sposare donne indigene ma quest’ostacolo venne superato grazie alla figura delle “madame” cioè donne di colore che diventavano concubine degli italiani. Le donne indigene erano pronte ad accettare il madamato anche perché il loro diritto consuetudinario consentiva che la madre potesse attribuire la paternità ai figli, diritto che la legislazione italiana non prevedeva, e tale ignoranza portò molte di loro ad essere abbandonate non appena avessero avuto figli. Proprio riguardo ai figli tra donne autoctone e cittadini italiani, chiamati meticci, si sviluppò una feroce polemica tra chi li riteneva non bianchi e quindi inferiori e dediti alla malavita, e chi pensava invece (come Pollera e Ravizza) che i problemi dei meticci fossero di origine sociale. Nel 1933, quando ancora la questione razziale non era in testa ai pensieri del regime ma anzi Mussolini irrise in un discorso la politica razzista della Germania, venne emanato un ordinamento che

regolamentò la questione meticciato: i meticci riconosciuti di padre italiano diventarono cittadini italiani, gli orfani di genitori bianchi diventarono automaticamente cittadini italiani mentre tutti gli altri furono valutati da un giudice ed dovettero avere determinate caratteristiche per ottenere la cittadinanza italiana. Le cose cambiarono radicalmente dopo la conquista dell’Etiopia del 1936 arrivando al loro culmine con le leggi razziali del 1938.

Uno dei grossi problemi di Eritrea e Somalia fu quello di non attirare investimenti privati il quale, unito alle scarse risorse inviate dallo Stato ed alla mancanza di infrastrutture, non permise uno sviluppo agricolo e commerciale delle colonie degno di questo nome. Tutto ciò, insieme alla nutrita emigrazione di contadini dalla madrepatria, che non si verificò, mandò all’aria il progetto di rendere autosufficienti le colonie. Con la conquista dell’Etiopia l’atteggiamento del regime verso i territori d’oltremare cambiò; il fascismo cercò di creare in Abissinia quella colonia di popolamento che non si era stabilita in Eritrea ed in Somalia, ed in parte vi riuscì poiché furono in molti a scegliere l’Etiopia come obiettivo di emigrazione ed istituendo una vera e propria politica di apartheid. Per quanto riguarda la politica coloniale in Etiopia, peraltro colonia fuori tempo massimo dato che le altre potenze stavano cominciando a rivedere i loro rapporti con i loro territori d’oltremare, tralasciando le questioni militari, dobbiamo evidenziare alcune caratteristiche che furono estranee a Somalia ed Eritrea. Nella terra abissina arrivarono molti emigranti e fra di essi anche molte donne (tante in percentuale rispetto al periodo di occupazione), inizialmente assenti altrove, che si concentrarono nelle città, in particolar modo Addis Abeba, nonostante gli sforzi della propaganda che incitava a formare insediamenti agricoli. I vari coloni provenivano da tutte le parti d’Italia ma principalmente dal settentrione (il 50% contro il 25% del centro ed il 25% del meridione) al contrario dell’emigrazione d’oltreoceano (il 70% dal meridione). La creazione dell’impero fece si che le colonie dovessero ora diventare una replica del meglio della civiltà della madrepatria (per questo gli investimenti statali raggiunsero in Etiopia punte mai viste nelle altre zone del Corno) e quindi vi fu un forte controllo burocratico sulle domande di partenza. L’intervento massiccio dello Stato generò un’iniziale euforia tra banche e imprese private che si riversarono nel paese africano con l’idea di ottenere facili guadagni. Ma il rimpatrio di diversi soldati e di molti operai, sostituiti da manovalanza autoctona, minò subito quella parvenza di età dell’oro danneggiando il commercio basato essenzialmente sul vettovagliamento e sulle forniture e creando una condizione economica non particolarmente brillante che peggiorò con il passare del tempo. Inoltre per chi volesse aprire un’attività in proprio, la pesante burocrazia si rivelò più asfissiante che in patria, bloccando sul nascere molte iniziative imprenditoriali. Dal punto di vista dell’ordine pubblico, dopo l’attentato al viceré Graziani del 1937, vennero compiute alcune efferatezze come il masssacro di Debra Lebanòs dove vennero trucidate più di 2500 persone, massacri che, oltre a portare nell’immediato sentimenti di rivalsa nella popolazione indigena, non trovarono al termine dell’avventura coloniale nessun colpevole, dato che per questioni politiche venne messa una pietra sopra da parte delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, nonostante le continue richieste del governo etiopico. Nonostante i divieti la separazione razziale non fu mai così netta come in altre società coloniali e spesso e volentieri le autorità dovettero intervenire per evitare situazioni lesive della presunta superiorità bianca. Per questioni economiche e logistiche spesso i coloni vivevano fianco a fianco con gli autoctoni, frequentavano gli stessi locali, utilizzavano gli stessi mezzi di trasporto e capitava che degli

italiani particolarmente in crisi chiedessero prestiti agli indigeni più benestanti causando le ire dell’amministrazione coloniale.

Quando scoppiò il secondo conflitto mondiale lo stato maggiore italiano non considerò mai la posizione strategica in Africa orientale come una base avanzata per creare problemi alle forze nemiche ma adottò semplicemente una tattica difensivistica, creando diversi punti di resistenza e diradando quindi le già poco numerose forze presenti, nel tentativo di distogliere il maggor numero possibile di unità britanniche dal fronte libico attraverso una resistenza ad oltranza delle varie ridotte. Una tattica che si sarebbe rivelata fallimentare e che avrebbe portato nel giro di meno di un anno a perdere l’intero Corno d’Africa per mano britannica quando anche l’ultima sacca di resistenza italiana dovette capitolare a Gondar il 27 novembre 1941.

Il quinto ed ultimo capitolo, che si concentra sulla situazione politica internazionale e sul destino delle ex colonie italiane al termine del secondo conflitto mondiale, è anche quello dove si sono particolarmente concentrate le mie ricerche d’archivio. Al termine della guerra l’Italia perse immediatamente i suoi possedimenti europei (Dodecaneso, Albania, parte della Yugoslavia) e dovette subire delle amputazioni del territorio metropolitano (Briga e Tenda, Istria e Dalmazia), mentre per quanto riguarda le colonie africane il discorso fu un po’ più complesso. Il pensiero anticoloniale di Stati Uniti ed Unione Sovietica (per motivi diversi) non trovò naturalmente d’accordo la Francia e la Gran Bretagna ed inoltre i britannici ebbero un atteggiamento decisamente più punitivo nei confronti dell’Italia e furono inizialmente contrari ad un ritorno delle colonie in mano italiana. La loro idea iniziale fu quella di restituire all’Italia la sola Tripolitania, territorio improduttivo e quindi poco appetibile, smembrare l’Eritrea per dividerla tra Etiopia e Sudan, accorpare la Somalia britannica a quella italiana ed imporre il loro protettorato sulla regione. Tutto ciò era dovuto anche al fatto che un’eventuale pretesa sovietica sulle colonie italiane avrebbe cambiato i rapporti di forze in un settore da sempre dominato dalla Gran Bretagna. Gli Stati Uniti proposero allora che la gestione delle ex colonie italiane venisse affidata congiuntamente alle quattro potenze vincitrici sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il governo italiano tentò fin da subito di rientrare in possesso dei teritori africani contando sull’iniziale benevolenza americana che però mutò nel tempo a causa del sopravvenire della guerra fredda con i sovietici, avvenimento che in pochi in Italia compresero nella sua reale importanza. Quando il 10 febbraio 1947 venne emanato il trattato di pace, la questione coloniale venne rimandata a data da destinarsi e l’unico elemento chiaro in proposito fu che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare ad ogni diritto sulle ex colonie.

C’è da notare come le motivazioni con le quali il governo italiano perseguì l’obiettivo di riottenere perlomeno alcuni dei suoi ex-territori d’oltremare fossero ormai obsolete ed addirittura irritanti agli occhi dei vincitori. Si continuò a citare la questione dell’emigrazione italiana (quando era sotto gli occhi di tutti come il numero di italiani presenti nelle colonie fosse alquanto limitato) e fece la sua ricomparsa anche la missione civilizzatrice, di ottocentesca memoria e di chiaro stampo coloniale, tutto ciò senza la presenza di autocritica riguardo ai periodi precedenti ma anzi vantando il colonialismo attuato. Per quanto concerne i coloni, c’è da sottolineare che già nel 1941 un accordo tra Italia e Gran Bretagna permise alle cosiddette “navi bianche” di riportare, in seguito a diversi viaggi, parecchi connazionali in patria e quindi il numero degli italiani in Africa fu ulteriormente diminuito.

Quando dopo la seconda guerra mondiale si discusse alle Nazioni Unite del destino delle sue ex colonie, l’Italia cercò in tutti i modi di fare pressione sugli alleati per ottenere l’amministrazione fiduciaria dell’Eritrea anche sulla spinta delle aziende italiane presenti nel paese le quali lamentarono che gli inglesi stessero facendo di tutto per spingere l’ex colonia nel sistema economico britannico. Anche dal punto di vista fiscale le imprese italiane vennero tartassate in ogni modo ed anche l’agricoltura, un tempo decisamente più fiorente, fu ridotta ai minimi termini. Dato che i quattro grandi non riuscirono a mettersi d’accordo sul destino del piccolo paese africano, la palla passò, come prevedeva il trattato di pace, all’Assemblea Generale dell’ONU. Nel 1949 il ministro degli Esteri Sforza arrivò ad un compromesso segreto con il suo pari grado inglese Bevin sulle ex colonie italiane e riguardo all’Eritrea si accordarono in questo modo: le province occidentali sarebbero state incorporate nel Sudan, il resto del paese ceduto all’Etiopia con uno speciale statuto per le città di Asmara e Massaua mediante un trattato con le Nazioni Unite. Quest’accordo avrebbe consentito all’Italia di ottenere l’amministrazione fiduciaria della Somalia e della Tripolitania. Quando l’accordo venne reso pubblico però, l’assemblea generale delle Nazioni Unite bocciò diverse sue parti ed in seguito lo respinse totalmente. A questo punto la politica italiana verso le colonie cambiò sponsorizzando una immediata indipendenza del paese ed attirandosi le simpatie dei paesi arabi e di tutti i partiti eritrei contrari all’unificazione con l’Etiopia. Nel 1950 vennero presentate all’assemblea generale dell’ONU tre ipotesi: annessione pura e semplice all’Etiopia, una federazione tra Etiopia ed Eritrea o l’indipendenza del paese. A questo punto il Negus aveva però già giocato il suo jolly: con lo scoppio della guerra di Corea l’Etiopia inviò alcune truppe a sostegno degli Stati Uniti accendendo un credito che gli fu presto rimborsato. Gli americani caldeggiarono alle Nazioni Unite la soluzione federativa e nel dicembre 1950 con la risoluzione 390 si stabilì la federazione tra i due paesi. Naturalmente all’epoca si era ben lontani dal pensare che quella decisione sarebbe stata fonte di immani tragedie e di una trentennale guerra di liberazione che avrebbe portato l’Eritrea all’indipendenza solo nel 1993.

In Somalia la situazione politica si presentò nel dopoguerra diversa da quella eritrea. Gli inglesi effettuarono diversi cambiamenti sia in campo economico che sociale principalmente nel sistema educativo e fu senz’altro quest’ultimo che rafforzò l’idea di nazione ed il successivo nazionalismo somalo. Nel 1943 venne fondato il Somali Youth Club che più tardi divenne la Lega dei giovani Somali (LGS) (Somali Youth League) destinata a diventare il più importante partito politico che resse le sorti del paese dal primo giorno dell’indipendenza fino al colpo di stato di Siyad Barre nel 1969. La Lega godette fin da subito dell’appoggio britannico in quanto progressista ed anti-italiana ma naturalmente la liberalizzazione voluta dagli inglesi permise la nascita di altri partiti più vicini alle posizioni italiane come l’Unione patriottica di beneficenza fondata nel 1944. Sul finire del 1947 tutti i partiti legati all’Italia si riunirono nella Conferenza di Somalia che si opponeva al programma dei giovani somali e si rifaceva ai valori della tradizione. Quando all’inizio del 1948 venne inviata in Somalia una Commissione quadripartita d’inchiesta per studiare la situazione, le varie forze contendenti cercarono di sfruttare al massimo l’occasione per dimostrare quale fosse la scelta più idonea per l’amministrazione del paese. L’amministrazione militare britannica (AMB), che aveva un occhio di riguardo per la LGS, interferì non poco nella scelta delle persone destinate ad incontrare la Commissione e questo provocò malumori e violenze tra le varie fazioni. Il modo migliore per impressionare i commissari fu ritenuto quello della

manifestazione di massa e l’11 gennaio vennero organizzati due diversi cortei ma simultanei, uno della LGS ed uno della Conferenza. Nonostante i tardivi tentativi dell’AMB di evitare lo svolgimento di entrambi i cortei non è difficile immaginare come andò a finire quella triste giornata: anche a causa della colpevole assenza dell’AMB (quando alcuni dei suoi elementi non si unirono direttamente ai dimostranti della LGS), le due manifestazioni entrarono in contatto scontrandosi; nel proseguo della giornata gli scontri si trasformarono in una caccia all’italiano con il pazzesco risultato che alla fine di quella follia si contarono 52 morti tra gli italiani e 14 tra i somali. Le vere motivazioni ed i veri colpevoli crediamo non verranno mai alla luce poiché il Foreign Office britannico, dopo avere incaricato una commissione d’inchiesta sui fatti accaduti non pubblicò mai i risultati perché, così sostenne, non avrebbero migliorato i rapporti tra Italia e Gran Bretagna. Ciononostante nel novembre 1949 la risoluzione n. 289 dell’ONU affidò ufficialmente all’Italia l’amministrazione fiduciaria del paese; codesta amministrazione sarebbe durata dieci anni ed avrebbe dovuto condurre la Somalia alla piena indipendenza. Naturalmente un Consiglio di Tutela delle Nazioni Unite sarebbe stato presente a vigilare che gli obiettivi richiesti all’amministrazione italiana fossero raggiunti, entrando anche a volte in conflitto con l’AFIS. La nuova avventura italiana in Africa non scatenò particolari entusiasmi da parte delle sinistre che anzi, nelle varie discussioni parlamentari, si dimostrarono contrarie al nuovo impegno in Somalia. Venne criticato anche il fatto (anche da parte dei somali) che molti funzionari che andarono in Somalia appartenessero al Ministero dell’Africa italiana e di come l’assetto dell’amministrazione fosse identico a quello fascista. Il periodo dell’AFIS viene commentato in modo diametralmente opposto a seconda dell’appartenenza politica ma dal punto di vista delle Nazioni Unite, l’opera italiana in Somalia fu positiva. Dal punto di vista politico si può imputare all’AFIS la crezione di un sistema istituzionale e burocratico forse troppo complesso per quel paese, ma dal punto di vista economico, le stesse missioni inviate dall’ONU ammisero che la scarsità di risorse presenti e le lunghe tempistiche necessarie per uno sviluppo moderno della Somalia avrebbero obbligato l’Italia a sostenere il paese africano anche dopo il termine del mandato. Lo studio si conclude con il racconto dello scandalo forse più clamoroso esploso durante la permanenza italiana in Somalia e cioè quello dell’Azienda Monopolio Banane nel quale fu coinvolto il Sottosegretario alle colonie Giuseppe Brusasca, personaggio dal cui archivio personale ho ricavato parecchia documentazione, scandalo che portò allo scioglimento dell’azienda nel 1964.

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