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Introduzione

Il titolo di questo libro riprende un’espressione usata recentemente dall’amico Claudio Sommaruga della Federazione ANEI di Milano. La storia degli Internati Militari Italiani è una vicenda largamente affossata nel corso degli oltre sessant’anni che ci separano dalla fine del secondo conflitto mondiale. Si tratta di una storia dolorosa: l’eco delle ferite fisiche e morali sopportate da oltre 600.000 persone giunge a noi come un monito ben preciso. Ora che le sezioni dell’Associazione Nazionale Ex Internati (ANEI) si stanno sciogliendo e stanno scomparendo gli ultimi testimoni di quell’esperienza, è più che mai nostro dovere rendere giustizia a questa vicenda. In questi anni ho cercato di promuovere nuove ricerche, sensibilizzare il mondo degli storici e l’opinione pubblica per cercare di dare una svolta allo stallo della ricerca in materia. Credo che il mio impegno in questo senso non si esaurirà certamente con questo libro, che peraltro è già un traguardo importante. Ho avuto l’occasione di conoscere personalmente decine e decine di testimoni. Fin da bambino, quando ascoltavo sulle ginocchia di mio nonno la sua storia di ex internato. E poi nel corso degli studi, preparando la mia tesi di laurea ma anche in numerose altre occasioni. Ho avuto l’onore di parlare davanti ai delegati del congresso nazionale dell’ANEI tenutosi nel corso del 2007 a Trento: è stata un’esperienza emozionante che non potrò mai scordare. Il regalo più bello che oggi possiamo fare agli Internati non sta tanto nelle celebrazioni pubbliche o nella produzione ed elargizione di medaglie celebrative ma investendo nella ricerca affinché la documentazione giunta a noi venga incanalata in un processo di studio ampio e ben strutturato che deve trovare nuovi stimoli e il contributo di diversi ricercatori in tutto il Paese. Solo così potremo tentare di impedire che un oblio definitivo cali su tutta la vicenda. In un recente articolo, pubblicato il 23 novembre 2007 sul quotidiano trentino “L’Adige”, ho voluto ricordare che esistono delle pesanti e precise responsabilità storiche e morali a fondamento della condizione in cui si trovarono i soldati italiani dopo la dichiarazione di armistizio del settembre 1943. Pur senza prescindere dalla responsabilità diretta della Germania nazista, che trattò i soldati italiani alla stregua di schiavi moderni, ho voluto ricordare che l’8 settembre 1943 il re e il maresciallo Badoglio – dopo avere lanciato un messaggio equivoco ai propri comandi militari in cui veniva comunicato l’armistizio e di fatto interrotta l’alleanza con Hitler – fuggirono al sicuro e

abbandonarono al proprio destino 800.000 soldati italiani, che non ebbero nemmeno il tempo di organizzare una difesa. Fu “la morte della patria”, come ha ricordato Renzo de Felice; la fine di una nazione intesa “come vincolo di appartenenza ad una realtà etico-politica consapevole della propria ‘ragione storica’”1. L’esercito si dissolse come neve al sole. Hitler, come è noto, decise di far pagare il prezzo del “voltafaccia italiano” proprio a questi soldati italiani che vennero portati nei lager tedeschi come “traditori” e bollati con la sigla IMI (Internati Militari Italiani). Essi dovettero subire la violenza, il lavoro duro, e le privazioni. Per scelta di Hitler gli internati italiani non furono nemmeno contemplati quali prigionieri di guerra e dunque vennero esclusi da ogni forma di tutela (non ricevettero, per esempio, l’aiuto della Croce Rossa). Questi uomini non poterono dunque essere tutelati dalle Convenzioni sui diritti dell’uomo. Circa 50.000 di loro persero la vita nei lager tedeschi, dove vennero segregati in condizioni talvolta al limite della sopravvivenza. Molti dei documenti che vengono qui presentati, rinvenuti presso l’Archivo di Stato di Bolzano, testimoniano del carico enorme di morte e sofferenze prodotto ai soldati italiani prigionieri nei lager germanici. Ma testimoniano anche la vicenda davvero esemplare del CAR, un centro di accoglienza che venne istituito a Bolzano nel maggio 1945 per dare un primo conforto a coloro che rientravano dal Brennero. Di particolare significato è stata la scoperta nella documentazione del seguente fatto: a Bolzano già dal febbraio 1945 era attivo un movimento clandestino che dava aiuto a coloro che in qualche modo iniziavano a rientrare in Italia dalla Germania, pur in condizioni difficilissime. Questa “scoperta” non fa che confermare lo spirito di solidarietà e carità che certamente animava molti bolzanini, pur a proprio rischio e pericolo. Voglio peraltro sottolineare come fra i primi dirigenti della nuova struttura di assistenza vi fossero due reduci del Durchgangslager di Bolzano: Bartolomeo Bertoli e Luigi Pirelli, che subito dopo la conclusione della guerra decisero di rinviare il loro ritorno alle rispettive famiglie per dedicarsi anima e corpo alle migliaia di rimpatriati che ogni giorno affluivano a Bolzano. Non è stato facile preparare questo libro, rendere cioè un servizio utile ad un numero ampio di persone e non solo al gruppo ristretto degli addetti ai lavori. Ho dovuto vedere e rivedere più volte l’impostazione del volume per far si che il testo potesse in qualche modo essere utile e accattivante anche per i giovani, per gli insegnanti, le scuole. Questa era la sfida più grande: trasmettere con semplicità e rigore una storia tanto difficile, tormentata e complessa, che ci auguriamo possa un giorno diventare un elemento fondante della nostra memoria collettiva. Per quanto riguarda le interviste ai sopravissuti qui pubblicate, credo che esse possano chiarire molto bene, anche sotto il profilo umano, lo spessore più profondo della vicenda.

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1 Renzo de Felice, Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Milano, 1997, p. 87.

Concludo ringraziando il Circolo Culturale ANPI di Bolzano, in particolare Lionello Bertoldi e Giorgio Mezzalira. La loro decisione di sostenere il mio progetto di ricerca dimostra la volontà di recuperare una storia che è andata sommersa anche perché per oltre sessant’anni è stata privilegiata una sola parte di memoria, quella resistenziale in senso ‘classico’. Quello degli IMI fu certamente un grandissimo sacrificio dal quale uscirono provate nel fisico e nella mente centinaia di migliaia di persone. Voglio però anche ricordare che la mancata adesione alla Repubblica Sociale Italiana di oltre 600.000 soldati italiani diede una svolta ben precisa agli eventi bellici e cambiò senza alcun dubbio le sorti del conflitto. Grazie di cuore anche alle istituzioni dell’Alto Adige/Südtirol che hanno dato il loro contributo affinché la ricerca potesse svolgersi: in particolare va la mia personale gratitudine all’Assessorato alla Cultura del Comune di Bolzano, all’Assessorato alla Cultura della Provincia di Bolzano, alla locale Fondazione Cassa di Risparmio e naturalmente alla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol. Un grazie speciale va a tutti gli amici dell’ANEI di Bolzano per la squisita collaborazione e per il profondo senso di amicizia dimostrato nei miei confronti. Non posso non essere riconoscente al Dr. Hubert Gasser e alla dottoressa Armida Zaccaria dell’Archivio di Stato di Bolzano per la disponibilità e professionalità con cui si sono sempre resi disponibili ad aiutarmi. Infine grazie ad un giovane storico trentino, Nicola Spagnolli, che ha impreziosito questo volume con un saggio molto interessante sulla vicenda di Cefalonia, pubblicato in Appendice.

Bolzano, dicembre 2007

Lorenzo Baratter

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