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Gli IMI (Internati Militari Italiani), 1943-1945
Capitolo Primo Gli IMI (Internati Militari Italiani), 1943-1945
Per comprendere le vicende che comportarono l’internamento di centinaia di migliaia di soldati italiani nei Lager tedeschi nel periodo 1943-1945, è necessario fare una breve premessa storica, a partire dallo stato dei rapporti intercorsi tra le due potenze dell’Asse fino a tutta l’estate del 1943. La scommessa più grande dell’alleanza militare fra Italia e Germania venne riposta nella speranza di sconfiggere l’Unione Sovietica. Nel giugno del 1941 Hitler aveva lanciato le sue divisioni contro l’Armata Rossa: in poco tempo esse travolsero tutte le linee difensive nemiche e giunsero poco prima di Natale alle porte di Leningrado e di Mosca. Ai tedeschi si era nel frattempo unito anche il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), poi diventato ARMIR (Armata italiana in Russia). Nella primavera del 1942 l’avanzata tedesca puntò tutte le sue energie verso il Caucaso e raggiunse, in agosto, il centro industriale di Stalingrado. La battaglia per la conquista della città, condotta dalla 6ª armata del generale Paulus, infuriò a partire dal mese di settembre. Le truppe dell’Asse non riuscirono mai a superare il fiume Volga: dopo un’impressionante tempesta di fuoco delle artiglierie sovietiche, durata per settimane, nel febbraio del 1943 i tedeschi e i loro alleati dovettero capitolare. Anche il fronte africano avrebbe serbato amare sorprese per Hitler e Mussolini: nel novembre del 1942 gli americani sbarcarono in Marocco e Algeria, mentre gli inglesi, dopo la vittoria di El Alamein, avevano conquistato tutto il territorio libico. Nel luglio del 1943 gli Alleati, con la 7ª armata americana di Patton e l’8ª armata britannica di Montgomery, sbarcarono in Sicilia, completando la conquista dell’isola entro il 17 agosto. Mentre le città italiane erano sempre più martellate dai bombardamenti anglo-americani, con danni impressionanti per le popolazioni civili, nel marzo del 1943 le fabbriche di Torino e Milano proclamarono uno sciopero generale che coinvolse non meno di 300.000 operai. Il regime fascista – piegato dalle allarmanti notizie che provenivano dai fronti di guerra ma anche dalla contrapposizione fra le diverse anime interne al Partito Nazionale Fascista (PNF) – fu costretto a rivedere il significato dell’alleanza con i tedeschi. Due importanti ministri come Dino Grandi e Galeazzo Ciano propendevano per un abbandono dell’alleanza con Hitler, per l’apertura di un tavolo di pace con gli anglo-americani e per una sostanziale riforma delle istituzioni dello Stato, per favorire il ritorno alle istituzioni rappresentative che la dittatura aveva cancellato. Questo piano comportava la
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resa dei conti con Mussolini, che era invece determinato a non interrompere l’alleanza con Hitler e a tenere fede alla parola data. Il 25 luglio 1943 Dino Grandi presentò al Gran Consiglio del fascismo un ordine del giorno che sfiduciava il capo del governo Mussolini: con 19 voti a favore, 7 contrari e 1 astenuto, i 27 componenti del Gran Consiglio decretarono la caduta del Duce. Alle ore 17 del giorno successivo Mussolini venne arrestato a Villa Savoia, nel quartiere Parioli a Roma, al termine di un colloquio con il re, e condotto a bordo di un’autoambulanza alla caserma Allievi Carabinieri di via Legnano, dove sarebbe stato trattenuto fino al 27 luglio: fu in seguito condotto alle isole di Ponza e della Maddalena e infine a Campo Imperatore, a circa 2.000 metri di quota, sul Gran Sasso. Al posto di Mussolini venne nominato capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio, incaricato di formare un nuovo esecutivo. Tale governo fu chiamato a rappresentare l’esercito e la monarchia; esso era fondato sull’alta burocrazia ministeriale ed era composto da ministri-funzionari chiamati a ratificare ordini e direttive del re. I fatti del 25 luglio 1943 sorpresero Hitler, anche se le massime autorità del Reich avevano intuito che in Italia la situazione politica stava cambiando. Il 19 luglio, una settimana prima della deposizione, giunse ad Hitler un messaggio segretissimo inviato dal Gauleiter della Carinzia, Friedrich Rainer, al comandante delle SS Himmler: un funzionario dell’Istituto archeologico tedesco di Roma aveva segnalato l’eventualità di crollo imminente di Mussolini e del regime fascista.2 Le continue dichiarazioni di fedeltà espresse dall’Italia al Terzo Reich venivano considerate dagli alti comandi della Wehrmacht sempre più come un «mezzo per guadagnare tempo». Il 6 agosto 1943 si svolse l’incontro diplomatico a Tarvisio nel quale l’Italia volle dare l’ennesima assicurazione di fedeltà all’alleato. A rappresentare l’Italia vi erano il ministro degli Esteri Guariglia e il generale Ambrosio, mentre per la Germania parteciparono Keitel e Ribbentropp. Quest’ultimo aveva richiesto l’incontro per discutere circa la mutata situazione italiana e chiarire i rapporti politici e militari tra i due paesi. Guariglia fece comprendere al ministro degli Esteri tedesco che il mutamento avvenuto sulla scena politica italiana era «d’ordine puramente interno», e che non avrebbe modificato i rapporti tra i due Stati. La conferenza di Tarvisio fu l’ultimo atto della cooperazione ufficiale, nel quadro dell’Asse Roma-Berlino, tra il Terzo Reich e il Regno d’Italia. Durante il mese di agosto i tedeschi fecero una serie di valutazioni circa i possibili scenari che avrebbero potuto venire a crearsi nella penisola; in un primo momento pensarono a un accordo con i comandi italiani, in grado di
2 Telex n. 2043 del 19 luglio 1943 del Gauleiter e governatore del Reich in Carinzia Rainer al comandante delle SS, in German Records Microfilmed at Alexandria, VA, National Archives, Washington, (Microcopy N.T-175, Roll N.53 frame 2567 178 f), cit. in Karl Stuhlpfarrer, Le zone di operazione delle Prealpi e Litorale Adriatico 1943-1945, Gorizia, 1979, p. 37.
favorire l’ingresso in Italia del gruppo d’armate B3. Visto però l’atteggiamento ostile degli italiani si passò alla progressiva elaborazione di un piano segreto, denominato Achse, con il quale era previsto il disarmo fulmineo dell’esercito italiano, l’occupazione di punti strategici e la difesa del territorio settentrionale, il tutto in collaborazione con le organizzazioni rimaste fedeli a Mussolini.
Il 3 settembre 1943, il generale Castellano firmò a Cassibile il trattato di armistizio con gli anglo-americani. Della svolta i tedeschi furono con ogni probabilità informati alle ore 14,50 dell’8 settembre 1943, poco prima che il generale Eisenhower emettesse il noto radio comunicato in cui annunciava la resa senza condizioni dell’Italia. Non molte ore prima l’ambasciatore tedesco a Roma, Rahn, che aveva appena incontrato Vittorio Emanuele III, dettò un telegramma urgente destinato a Ribbentrop: il re d’Italia aveva espresso la speranza che il governo del Reich si fosse convinto della buona volontà e fedeltà di Badoglio e del suo governo, certo che questa collaborazione avrebbe dato presto i suoi frutti militari. Lo stesso Rahn, poche ore dopo l’incontro con il sovrano, fu convocato dal ministro degli Affari Esteri del governo Badoglio, che gli comunicò la notizia dell’avvenuto armistizio. Alle ore 18,30 del 8 settembre il generale Eisenhower fece trasmettere da radio Algeri un comunicato, nel quale era data notizia che il governo italiano aveva chiesto la resa incondizionata dell’esercito italiano. Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano concesso l’armistizio che era stato accolto dai governanti italiani senza alcuna riserva. Poco più tardi, sempre attraverso le frequenze di Radio Algeri, il maresciallo Badoglio diede conferma ufficiale della capitolazione, che si era resa necessaria – per usare le stesse parole del maresciallo – una volta «riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione». Alle 20,30 il generale Rommel, comandante in capo del gruppo d’armate B, ordinò tramite la parola d’ordine convenzionale Achse che otto divisioni germaniche occupassero tutte le postazioni del Brennero e che agli italiani fosse comunicato di non opporre resistenza, in quanto la guerra era finita: se volevano – questo era quanto doveva essere detto loro – potevano combattere al fianco dei tedeschi o altrimenti tornarsene a casa. Dal Brennero in giù le linee dovevano essere sfondate quanto più possibile in profondità4 . In quelle ore centinaia di migliaia di soldati italiani vennero fatti prigionieri dall’esercito germanico sui vari fronti di guerra e trasportati in vari Lager
3 Il gruppo d’armate B (Heeresgruppe B) si riferisce ad un gruppo di armate inquadrate nella Wehrmacht durante il secondo conflitto mondiale. Nel periodo in oggetto (luglio 1943-luglio 1944) comandante del gruppo d’armate B era il Generalfeldmarschall Erwin Rommel. 4 Per una ricostruzione complessiva dell’episodio e per la relativa bibliografia si rimanda a Lorenzo Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Milano, 2005, pp. 128-139.
istituiti sul territorio del Terzo Reich. Con una puntigliosa analisi sotto il profilo militare e logistico, Gerhard Schreiber ha descritto una mappa europea delle operazioni di disarmo del Regio Esercito italiano alla data dell’armistizio. Alla seguente classificazione, per macro aree, ci rifacciamo nel presente lavoro: a) b) c) d) territorio italiano; Francia meridionale; Albania, Jugoslavia, Grecia e isole; Unione sovietica e Romania.
Per quanto riguarda il territorio italiano, presso la località di Garda – sull’omonimo lago – si era insediato il comando del Gruppo di Armate B il cui compito dopo l’8 settembre 1943 fu quello “di porre sotto il controllo tedesco le Tre Venezie (Venezia Euganea, Venezia Tridentina e Venezia Giulia), le Marche, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, la Lombardia, il Piemonte e di disarmare le truppe italiane ivi dislocate”.5 Le truppe italiane nell’Italia settentrionale erano costituite dalla 4ª, 5ª, 8ª Armata, oltre ad alcuni reparti di difesa territoriale. Per quanto riguarda l’8ª Armata, il comando delle regioni nord orientali era stato affidato al generale Italo Gariboldi: da esse dipendeva anche il XXXV Corpo d’Armata, con sede a Bolzano al comando del generale Gloria, e competente per le provincie di Bolzano, Trento, Verona e Mantova. A Udine il generale Zannini comandava il XXIV Corpo d’Armata. A Trieste, e fino alla città di Fiume, il generale Ferrero comandava il XXIII Corpo d’Armata. La 4ª Armata, agli ordini del generale Vercellino, venne sorpresa durante il trasferimento dalla Francia meridionale all’Italia. La 5ª Armata, alla guida del generale Mario Caracciolo, l’8 settembre 1943 aveva competenza sulla regione della Toscana, sulle provincie di La Spezia e Pescara, oltre alle isole di Corsica e Sardegna. Il generale Caracciolo aveva alle sue dipendenze due corpi d’Armata: il XVI - agli ordini del generale Rossi - dislocato a La Spezia, e il II Corpo d’Armata, agli ordini del generale Bitossi, con sede a Firenze e incaricato di difendere la Toscana.6 Nonostante i soldati italiani avessero tentato una disperata resistenza contro i soldati tedeschi, si calcola che già il 9 settembre fossero stati catturati nell’Italia settentrionale non meno di 100.000 militari italiani.7 Nella zona di Roma e in Italia meridionale le truppe tedesche dovettero affrontare alcune difficoltà in più rispetto ad altre zone del paese: esse erano infatti già impegnate nei combattimenti contro le truppe alleate, sbarcate nel frattempo in Calabria e a Salerno; dunque le operazioni di disarmo degli italiani si complicarono.
5 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, Roma, 1992, p.126. 6 Gherard Schreiber, op. cit., p. 129. 7 Gherard Schreiber, op. cit., p. 138
Per quanto riguarda la situazione della Francia meridionale si è già detto che le divisioni della 4ª Armata erano in fase di trasferimento verso l’Italia. Ben presto i tedeschi catturarono ed inviarono in Germania non meno di 60.000 soldati italiani. Nella zona balcanica (Albania, Jugoslavia, Grecia) lo Stato Maggiore dell’Esercito gestiva la 2ª Armata (generale Robotti) competente per le aree di Slovenia, Croazia, la zona di Fiume e la Dalmazia (fino all’altezza della punta meridionale dell’isola di Brač). I tre Corpi d’Armata dipendenti erano l’XI (generale Gambara) competente per la Slovenia e Karlovac, il V (generale Scuero), dislocato su altre parti della Croazia, il XVIII (guidato dal generale Spigo) dislocato su Zara, Sebenico, Spalato. In totale in queste zone erano presenti circa 200.000 uomini. Per quanto riguarda le altre zone non ancora elencate (comprese le isole dell’Egeo, l’Erzegovina, la Dalmazia meridionale, il Montenegro) la competenza era del Comandante del Gruppo di Armate Est, generale Ezio Rosi. Da lui dipendevano la 9ª Armata (generale Dalmazzo), con sede a Tirana e una forza pari a circa 110.000 uomini. A Durazzo era insediato il IV Corpo d’Armata (generale Spatocco); il VI Corpo d’Armata (generale Piazzoni) a Dubrovnik; il XIV Corpo d’Armata a Podgorica (generale Roncaglia). C’erano poi circa 60.000 uomini appartenenti alle Forze Armate italiane nell’Egeo (con sede a Rodi). Il prezzo pagato dai soldati italiani che vollero resistere agli attacchi tedeschi fu in alcune zone assai elevato: basti pensare al noto eccidio di Cefalonia, dove vennero passati per le armi tra i 4.095 (Mario Torsiello, 1975) e i 5.170 (Gerhard Schreiber, 1992) militari italiani. Ordini criminali, in questa fase, furono impartiti da Hitler e dai vertici del Terzo Reich: non si trattò di una reazione commisurata alla situazione, ma una vera e propria forma di vendetta: “Alcune di queste direttive sono assolutamente uniche nella storia del secondo conflitto mondiale. Perfino nel corso della guerra di sterminio in Russia non sono mai stati emanati simili ordini. Ai russi, infatti, i tedeschi concessero almeno il diritto di difendersi, mentre nei confronti degli italiani la difesa militare contro l’aggressione armata fu considerata come atto meritevole di morte”.8 Molti prigionieri italiani morirono durante il trasporto dalle isole dell’Egeo al continente greco perché le navi vennero affondate dall’aviazione anglo americana: l’affondamento di imbarcazioni come la “Donizetti”, l’“Ardena”, la “Mario Rosselli”, la “Sinfra”, l’“Alma”, la “Petrella”, l’“Oria” comportò un numero imprecisato di morti, compreso tra un minimo di 13.000 (dato della Wehrmacht) e i 20.000 indicati da Schreiber nel 1992.9 Va ricordato che il comportamento degli alti ufficiali italiani nell’Egeo non fu sempre eroico: esemplare il caso del generale Carta, comandante la Divisione di fanteria “Siena” a Creta, che abbandonò i suoi uomini subito dopo l’armistizio fuggendo in sommergibile dall’isola. Per quanto riguarda la Grecia la competenza era dell’11ª Armata, gui-
8 Gerhard Schreiber, p. 793. 9 Gerhard Schreiber, p. 365.
data dal generale Carlo Vecchiarelli, con sede ad Atene: essa era formata tre Corpi d’Armata italiani ai quali era stato aggregato un Corpo d’Armata tedesco10 . Nel territorio dell’Unione Sovietica non c’erano quasi più soldati italiani: molti erano già stati decimati negli anni precedenti e le divisioni con i sopravissuti erano rientrate da poco in Italia (in parte alloggiate anche in diverse caserme della provincia di Bolzano11). Complessivamente furono catturati 58.722 soldati in Francia, 321.000 in Italia, 430.000 nell’ area sud orientale, per un totale di oltre 800.000 soldati prigionieri. Di questi, circa 186.000 rimasero “fedeli all’alleanza”, decisero cioè di continuare a combattere per i tedeschi o per la nascente Repubblica Sociale Italiana.12 I soldati italiani – una volta trasportati in Germania con dei carri bestiame – vennero rinchiusi in Lager per prigionieri di guerra istituiti nelle 21 regioni militari del Reich e nel governatorato generale di Lublino. Gli ufficiali vennero tenuti separati dai sotto ufficiali e dalla truppa. Gli alloggi nei Lager erano costituiti da ambienti malsani, invasi da parassiti come cimici e pidocchi, mentre il giaciglio per la notte era costituito da un lurido pagliericcio. Quasi del tutto privi di sapone, di materiale per l’igiene personale, in molti casi gli internati dovettero indossare gli stessi indumenti per interi mesi senza avere possibilità di alcun cambio. Durante i frequenti attacchi di apparecchi alleati non era consentito loro di riparare nei rifugi antiaerei, destinati solo alla popolazione civile e ai soldati tedeschi13 . Considerati traditori della comune causa bellica, i soldati ed ufficiali italiani furono sottoposti ad angherie e sopraffazioni tra le più efferate che i tedeschi abbiano messo in atto contro i soldati fatti prigionieri dall’esercito del Terzo Reich durante tutto il secondo conflitto mondiale. Venne negata loro l’assistenza prevista dal diritto internazionale nei confronti dei prigionieri di guerra: una parte consistente degli aiuti non arrivò mai in Germania, perché veniva trafugata o perché qualcuno se ne appropriava indebitamente.14 Gli aiuti della Croce Rossa furono impediti, a differenza di quanto accadeva ai prigionieri alleati o francesi. Secondo la ricercatrice tedesca Gabriele Hammermann “in tal modo, sulle spalle dei militari italiani vennero scaricate tutte le contraddizioni di una politica di occupazione basata su un’alleanza di cartapesta. Con il progressivo prevalere di criteri economici razionali in merito all’impiego degli internati come forza lavoro, anche il loro status, inizialmen-
10 Circa una valutazione complessiva riguardo al comportamento degli ufficiali italiani è di particolare interesse quanto ampiamente trattato da Renzo de Felice in Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, op.cit. 11 Rimando a tal proposito a quanto già ricordato in Le Dolomiti del Terzo Reich, in particolare alle pp. 134-138. 12 Gerhard Schreiber, op.cit., p. 455. 13 Si vedano ad esempio le numerose testimonianze contenute in: Lorenzo Baratter, Gli Internati Militari Italiani 1943-1945 della Provincia di Trento, Università degli Studi di Venezia Cà Foscari, Venezia, 2006. 14 Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, Bologna, 2004, p. 50.
te definito in relazione alle esigenze della politica di alleanza con la RSI, si rivelò sempre più controproducente. Con il risultato che nell’autunno del 1944 esso subì un ulteriore cambiamento per effetto della trasformazione degli IMI in «lavoratori civili»”.15 A queste considerazioni si aggiungono i comportamenti apertamente razzisti che a partire dal settembre del 1943 furono messi in atto con sempre maggiore frequenza nei confronti dei prigionieri italiani. La cosa non sfuggì nemmeno alle autorità di Salò, consapevoli che gli ufficiali e sotto ufficiali tedeschi si comportavano con la presunzione di considerare gli italiani quali “esseri inferiori”.16 Sebbene non si trattasse di un razzismo finalizzato allo sterminio - come nel caso degli ebrei - questa forma di discriminazione fu basata su una sorta di “declassamento nazionale” degli italiani e comportò come conseguenza la morte di migliaia di IMI. Interessante è un documento conservato nel fondo IMI/CAR dell’Archivio di Stato di Bolzano, redatto da un sergente maggiore italiano, Giuseppe Roncolato, durante la prigionia. Egli aveva trascritto il testo di un manifesto appeso lungo le vie della città di Linz dalle autorità locali nel settembre 1943. Il testo, rivolto agli abitanti, spiega quale clima di ostilità e violenza era riservato agli IMI che in quei giorni venivano trasportati nel territorio del Terzo Reich: “Vi portiamo a conoscenza che nei giorni prossimi arriveranno in Linz dei prigionieri italiani. Questi devono essere trattati con le leggi di guerra; perché come alleati ci hanno tradito mettendosi dalla parte di Badoglio. Avvertiamo che per questa ragione è proibita qualsiasi relazione fra voi e questi prigionieri, inoltre non si devono avere conversazioni o pure fare dei regali. Chi mancherà a questo regolamento verrà severamente punito perché riconosciuto come sabotatore”. Marcello Vaccari, già commissario dei Fasci italiani all’estero, dal 1944 capo del Servizio Assistenza Internati (SAI) e Delegato generale della CRI in Germania, non trascurò di descrivere le reali condizioni di vita degli IMI. Egli, infatti, “constatò nel luglio 1944 che nei campi di prigionia stava vegetando una moltitudine di italiani, tutti provati dalla fame e da privazioni di ogni genere. Per non parlare degli ospedali, dov’erano ricoverati numerosi spettri umani che imploravano aiuto e lottavano contro la morte, invocando disperati la loro madre. Nei Lager si trovavano dei contadini italiani simili a scheletri, che dovevano lavorare per 14 ore al giorno e come bestie da soma nelle fabbriche o in altre aziende dell’industria degli armamenti tedesca. Vi soffrivano persone edematose per mancanza di sufficiente nutrizione, che si trascinavano seminude lasciando scoperte le loro orrende tumefazioni. E anche se riuscivano a sopravvivere, i danni subiti dalla loro salute erano ormai irreparabili. Persino tra i giovani internati dilagava la tubercolosi. Spesso i campi di concentramento erano luoghi dove i tedeschi facevano vivere i loro
15 Gabriele Hammermann, op.cit., p. 50. 16 Schreiber, p. 535.
Documento del sergente Giuseppe Roncolato, con la trascrizione di un manifesto apparso nelle vie di Linz dopo l’8 settembre 1943
ex compagni d’armi in condizioni così disumane, da costringerli a cercare tra i rifiuti bucce di patate tanto per mettere qualcosa sotto i denti. Si trattava in genere di luoghi dove regnavano sofferenze, lacrime, disperazione”.17 Fin dal principio molti internati vennero avviati al “lavoro”: attività spesso massacranti, prolungate per circa 10/12 ore al giorno, con un vitto costantemente al limite della sopravvivenza umana, senza alcuna protezione nei lavori pericolosi per la salute. Ogni giorno i prigionieri italiani venivano condotti con scorta armata dal Lager principale (o dai Lager “aziendali”, vicini alle fabbriche) al luogo di lavoro. La stessa assistenza medica, quando presente, fu pressoché nulla: come dei veri e propri “schiavi” gli internati italiani vennero sfruttati fino allo stremo delle loro forze. Spesso morivano proprio per collasso cardiaco, oltre che per fame. La Convenzione di Ginevra aveva previsto che la razione alimentare dei prigionieri di guerra non dovesse discostarsi, per quantità e qualità, rispetto a quella dei soldati di cui erano prigionieri: per gli IMI questo non avvenne. La fame rappresentò un vero e proprio trauma, che in molti casi segnò e debilitò per tutto il resto dell’esistenza gli internati militari italiani. La Federazione dell’Anei di Brescia ha svolto nella seconda metà degli anni Ottanta un’inchiesta, attraverso questionario sottoposto agli Internati Militari di quella provincia. Un dato interessante emerse nelle dichiarazioni degli ex IMI circa le razioni alimentari effettive ricevute nei Lager: nell’industria il prigioniero italiano doveva sopravvivere con c/a 250 g. di pane, un litro di zuppa (acqua vagamente insaporita con rape bollite) e 20 grammi di margarina. Con questo menù quotidiano l’internato doveva prestare il suo lavoro presso fabbriche di armamenti o nell’industria pesante e siderurgica.18 Le condizioni di lavoro, senza nessuna salvaguardia della salute e dell’incolumità dei prigionieri (che a causa di questo, in diversi casi, dovettero soccombere), comportarono sovente anche atti di violenza (omicidi compresi) contro coloro che erano ritenuti meno “produttivi”: “Perfino le malattie o la debolezza fisica potevano fornire il pretesto per punizioni spontanee. Le imprese e la Wehrmacht consideravano le richieste di esenzione dal lavoro per malattia per lo più come una forma di resistenza passiva da stroncare sul nascere non solo tramite un rigido controllo dei referti medici ma anche con maltrattamenti e angherie di ogni genere. Così quando un internato italiano impiegato presso il Dortmund-Hörder-Hüttnverein perse conoscenza, il suo caposquadra insinuò che il collasso era solo frutto di simulazione e quindi ordinò di appenderlo per punizione alla fune di una gru e di lasciarlo in quella posizione per dieci minuti. Quando la direzione del Lager protestò perché era stato commesso un abuso di funzioni, l’impresa si giustificò affermando di essersi limitata a usare un legittimo strumento educativo interno”19 .
17 Diario del Servizio Assitenza Internati del 27.7.1944, p. 126. Cit. in Schreiber, op. cit., p. 604. 18 Federazione Provinciale ANEI Brescia, Questionario “A futura memoria”, Brescia 1986. 19 Hammermann, op.cit., p. 187
“È significativo” - osserva ancora la Hammermann - “che gli IMI, che pure al confronto con gli altri gruppi di stranieri non dimostrarono alcuna particolare propensione alla resistenza passiva, abbiano subito più di tutti i soprusi e le violenze del personale di guardia della Wehrmacht e dei dipendenti delle varie aziende. Non c’é dubbio che in tal senso giocò un ruolo fondamentale la richiesta, diffusa a ogni livello istituzionale, di una rappresaglia per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Alla Volkswagen, per esempio, le angherie e le violenze nei confronti degli IMI aumentarono notevolmente dopo un appello rivolto dal direttore della fabbrica dottor Tyrolt, che aveva presentato gli italiani come dei «traditori»”.20 Da ricordare che la RSI si impegnò con i tedeschi per “promuovere” l’arruolamento nelle proprie fila degli ex internati, in particolare nel periodo compreso fra il settembre del ‘43 e l’agosto del 1944. Offerte che assai di rado sortirono il loro effetto, benché venissero spesso esplicitate con la violenza e la minaccia, oppure con effimere lusinghe giocate in sprezzo alla fame e alla disperazione degli internati. Questi ultimi, in particolare prima del passaggio al cosiddetto status di “lavoratori civili”, vennero minacciati della pena di morte se solo si fossero avvicinati a donne o ragazze tedesche senza autorizzazione. Schreiber ha intravisto in queste direttive una componente ormai apertamente “razziale”, resasi palese, ad esempio, nel divieto di contrarre matrimonio disposto da Bormann contro gli IMI per il pericolo che ne derivava alla “purezza del sangue tedesco”.21 In seguito all’accordo del 24 luglio 1944 tra Hitler e Mussolini, il Führer decise di cambiare strategia per poter sfruttare ancora di più gli “schiavi” italiani: l’illusione del passaggio allo “status civile” degli IMI fu solo uno strumento per piegare i prigionieri al servizio della “vittoria finale”. Agli IMI venne chiesto di sottoscrivere una dichiarazione di assenso al passaggio dallo stato di internati a quello di lavoratori civili, assicurando loro che questo non avrebbe mai comportato il ritorno sotto le armi per l’esercito germanico. Inoltre fu promesso un salario pari a quello dei lavoratori tedeschi, un vitto migliore, un assicurazione contro malattie ed infortuni. Molti IMI si rifiutarono di sottoscrivere una tale dichiarazione, che in diversi casi fu estorta con la forza22. In ogni caso per molti internati il cambio di status non portò un reale cambiamento nelle condizioni di vita o una limitazione nelle umiliazioni quotidianamente subite. La storiografia sul tema degli IMI, sul piano nazionale ed europeo, è ancora ad uno stato del tutto insufficiente se si considera l’ampiezza, la complessità e la gravità del fenomeno, dato l’elevatissimo numero di prigionieri coinvol-
20 Ibidem 21 Schreiber, op. cit., p. 534. 22 La vicenda del passaggio allo ‘status civile’ e gli episodi di estorsione sono ricorrenti in tutta la memorialistica.
ti. Un testo di riferimento per quanto riguarda la bibliografia in materia è il saggio di Giorgio Rochat inerente la Memorialistica e storiografia sull’internamento, pubblicato all’interno del già citato volume edito dall’ANEI nel 1986, in occasione del congresso di Firenze. Questo storico ha riportato più di 180 titoli (diari e memorie compresi) pubblicati nei primi quarant’anni del dopoguerra; è tuttavia evidente come, a più di vent’anni da quella rassegna sia necessario provvedere ad uno studio capace di aggiornare lo stato attuale della storiografia, benché al 31 dicembre 1996 lo storico ed ex internato Claudio Sommaruga avesse rilevato l’esistenza di circa 500 titoli sul tema degli IMI (260 memoriali di 300 autori, oltre 30 antologie, 25 audiovisivi e 160 tra saggi e monografie).23 Un elenco di alcune tra le principali opere in materia è disponibile in formato elettronico anche sul sito del Museo virtuale della deportazione dell’Istituto di Storia contemporanea “Pier Amato Perretta” di Como.24 Per una comprensione generale dell’ “universo concentrazionario” nel Novecento ho trovato di grande interesse il volume di Joël Kotek e Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Deportazione, concentramento e sterminio (Milano, 2001). Di notevole impatto anche l’opera di Bruno Mantelli e Federico Cereja La deportazione nei campi di sterminio nazisti (Milano, 1986). Lazzero Ricciotti, con Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale (Milano, 1996) ha sollevato il velo di omertà che per molti decenni ha coperto una verità agghiacciante: l’utilizzo degli internati italiani in situazioni di sfruttamento infernale (p. es. nel Lager di Mittelbau Dora) a cui spesso seguirono la condanna a morte degli sfortunati in veri e propri eccidi (con particolare precisione è segnalato in questo testo l’assassinio di decine di italiani ad Hildesheim, vicino a Kassel). Alessandro Natta (1918-2001) – già Internato Militare Italiano e segretario del Partito Comunista Italiano dal 1984 al 1988 – pubblicò nel 1996 un volume, intitolato L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania tramite il quale voleva porre le basi per un riconoscimento della “resistenza” dei militari italiani internati in Germania, con lo scopo di “riabilitare” un esercito “uscito moralmente sconfitto dalla guerra”.25 Il saggio è sicuramente di grande interesse, ma risente – a mio avviso – del desiderio forse strumentale di “ricomporre” la frattura tra internati e partigiani, venuta a crearsi nel dopoguerra. Ricondurre la particolare e complessa esperienza dell’internamento alle vicende della resistenza in senso “classico” significa annichilire
23 Claudio Sommaruga, Per non dimenticare. Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (1943-1945), ANEI, Sezione di Brescia, 2001. 24 Http://www.schiavidihitler.it/ 25 Alessandro Natta, sottotenente di artiglieria, nei giorni successivi all’armisitizio partecipò alla difesa dell’aereoporto di Gaddurrà, sull’isola di Rodi. Venne ferito e internato in un campo sull’isola medesima. Al principio del 1944 venne condotto nei lager in Germania.
la indubbia specificità dell’esperienza dell’internamento stesso e le relative premesse e conseguenze storiche. Gli internati, a differenza dei partigiani, furono pressoché emarginati dalla storiografia del dopoguerra e dalla memoria collettiva; furono in un certo senso ‘costretti’ a doversi sentire “partigiani” pur di essere ammessi ad un riconoscimento pubblico della loro esperienza, quasi dovessero essere sottoposti ad una sorta di “riabilitazione” della loro memoria. Questo stretto corridoio ideologico ha di fatto contribuito ad impedire un sereno e rigoroso sviluppo della ricerca storica sul tema degli IMI. La questione si ricollega alla vicenda piuttosto esemplare delle resistenze politiche che Natta trovò all’interno della dirigenza del PCI negli anni Cinquanta quando volle pubblicare le sue memorie; in conseguenza di ciò il suo libro dovette attendere quarant’anni prima di poter essere pubblicato. Di queste resistenze parlò lo stesso Natta al principio degli anni Novanta ricordando, appunto, di avere scritto nel 1954 una testimonianza sull’esperienza dell’internamento e di avere trovato il veto alla pubblicazione da parte del PCI (o meglio, da parte della casa editrice vicina a tale movimento politico, Editori Riuniti); un libro scritto “… per contrastare i rischi che la resistenza venisse offesa e tradita e che si producessero rotture e involuzioni nel tessuto democratico del nostro Paese”. “A me parve” – prosegue Natta – “che potesse essere utile anche una riflessione storico-politica sulla deportazione in Germania, dopo l’8 settembre, e sulla resistenza nei campi di concentramento dei soldati e degli ufficiali italiani. L’obiettivo che avevo era di mettere in luce il carattere peculiare dell’internamento di centinaia di migliaia di militari italiani…”.26 Fece menzione dell’episodio anche Enzo Collotti, nell’introduzione al volume di Natta, confessando tuttavia di non avere compreso le ragioni delle reticenze manifestate all’epoca dalla dirigenza comunista.27 È del tutto evidente – come si intravede anche in alcuni passaggi del testo di Natta – quanto nel primo dopoguerra fosse mal digerito all’intellighenzia comunista l’accostamento tra ‘partigiani’ in senso stretto e internati militari italiani, l’esperienza dei quali fu sovente assimilata ad un banale “fenomeno reducistico”o corporativo, quasi si trattasse di “rivendicazioni vittimistiche di merito”, per usare ancora le parole di Natta.28 La sensazione è che la dirigenza del PCI trovasse aspetti di antagonismo nella memoria degli IMI. Non dimentichiamo alcuni episodi forti riportati nel testo di Natta, non da ultimo il sodalizio stabilito nel lager di Sandbostel fra gli IMI e i superstiti dell’insurrezione di Varsavia. Tornando al versante della ricerca e allo stato dei lavori, è importante ricordare che solo al principio degli anni Ottanta29 si é tentato un approc-
26 Alessandro Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, 1996. 27 Ne fa menzione anche Enzo Collotti nell’Introduzione al volume. 28 Cfr. Alessandro Natta, Premessa dell’Autore, in L’altra Resistenza, op.cit. 29 P. es. AA.VV., Internamento militare e civile nei lager nazisti, Istituto storico della resistenza di Cuneo,
cio sistematico alla questione internati, con importanti raccolte curate tanto dall’ANEI, nelle sue delegazioni provinciali, quanto da alcuni istituti storici. Questo mutamento nell’atteggiamento della storiografia verso il tema degli IMI fu in parte dovuto al congresso organizzato nel 1985 a Firenze dall’ANEI in occasione del 40° anniversario della fine del conflitto. Gli atti del convegno contengono alcuni studi che hanno dato un contributo nuovo allo studio sistematico della materia: di particolare interesse le ricerche condotte dallo storico Luigi Cajani negli archivi italiani e tedeschi, in relazione alla mancata assistenza agli IMI da parte delle istituzioni tedesche e italiane, ivi compresa la Croce Rossa Italiana.30 Una rigorosa ricerca scientifica ricca di dati estremamente interessanti, specialmente per quanto riguarda gli aspetti militari della questione e lo studio delle fonti di parte tedesca, è stata condotta nel già citato volume di Gherard Schreiber, dal titolo I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. Un volume che a quindici anni dalla sua pubblicazione rimane tuttora come la fonte primaria di riferimento per la puntigliosa ricostruzione degli avvenimenti in oggetto. Di recente pubblicazione (2004) un lavoro di Gabriele Hammermann che si presenta come il più aggiornato circa l’atteggiamento delle autorità tedesche nei confronti degli IMI e le direttive per il loro sfruttamento come forza lavoro nell’industria bellica. Non mancano alcuni elementi assai dettagliati circa le condizioni materiali di vita e di lavoro a cui furono sottoposti questi prigionieri.
1980; ANEI, I militari romani nei lager nazisti, 1981; ANEI, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana 1943-1945 dalle testimonianze di militari toscani internati nei lager nazisti, 1984. 30 AA.VV., I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e 15 novembre 1985 dall’Associazione Nazionale Ex Internati nel 40° anniversario della liberazione. Relazioni, interventi, tavola rotonda, bibliografia, Firenze, 1986.