Una rappresentazione artistica di una falange oplitica greca del VI secolo a.C..
che ne limitava visuale e udito, mentre sul campo di battaglia il clangore delle armi, provocato dal cozzare di centinaia di scudi, lance e spade, la polvere, il caldo, le urla dei morenti orrendamente feriti, davano vita a una bolgia dantesca. La falange avanzava, con le fila posteriori che, non potendo partecipare che in questo modo alla battaglia, spingevano le prime linee, letteralmente su un tappeto di cadaveri - le perdite di una falange vittoriosa non erano mai inferiori al 5 per cento, su un fronte ristrettissimo - che poi erano i propri amici e parenti. Uomini conosciuti (e talvolta amati, nel caso della falange spartana o del battaglione sacro tebano) che ora, con orrende ferite al collo e all’inguine - le parti non corazzate - venivano forzatamente calpestati nell’atto dell’«othismos aspidon», il «cozzo degli scudi» che fu glorificato dai poeti epici, senza rifuggirne gli aspetti più terribili. Tirteo canterà il prode, che «perde la vita cadendo in prima fila ... tutto trafitto prima di morire il petto, lo scudo umblicato, la corazza», ma anche «lo sconcio che un vecchio cada in prima fila e resti sul terreno ... con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri l’animo suo gagliardo nella polvere, con le mani coprendo le pudenda insanguinate». La falange oplitica era insomma un’arma micidiale, e una trappola per i propri fanti, che spesso non ne sopportavano la fatica e l’orrore. Il commediografo Aristofane è impietoso ed esplicito, ricordando la difficoltà per tanti opliti, nell’urto decisivo, di trattenere i bisogni corporali: tutti, dal giovane pivello, sino al Capitano che magari fugge col «mantello scarlatto che cambia di colore». Nel V secolo, tuttavia, la falange oplitica si trasforma. Già a Maratona il Comandante ateniese Milziade (un ex tiranno del Chersoneso che aveva partecipato alle campagne di Dario contro Sciiti e Traci, e che ben conosceva l’arte bellica persiana)
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aveva ovviato alla mancanza di cavalleria, generalmente impiegata per coprire i fianchi della falange, rafforzando le ali della sua formazione e indebolendone il centro. Nel corso della battaglia, comunque combattuta (nel 490 a.C.) contro una fanteria non corazzata, il centro ateniese si era flesso senza cedere, e le ali avevano sfondato e aggirato l’Armata persiana, in una sorta di Canne ante litteram. Sarà però la lunga Guerra del Peloponneso, protrattasi dal 431 al 404 a.C., a segnare la svolta. In 27 anni le Coalizioni avversarie (Sparta, Atene e Tebe erano in grado, da sole, di mettere in campo 100 000 opliti, di valore non omogeneo) si affrontarono sul terreno in poche battaglie campali tradizionali, mentre si contarono 21 assedi, e più di un centinaio di scaramucce e azioni di guerriglia. Questa evoluzione, in aggiunta alla «globalizzazione» del conflitto, che si estese a potenze (Persia, Siracusa, Tessaglia, Macedonia) ricche di cavalleria e arcieri, portò a una maggiore articolazione delle Armate scese in campo. Accanto alla fanteria pesante trovarono, infatti, posto soldati armati alla leggera (come i peltasti), arcieri e frombolieri - spesso mercenari - e un più specializzato Corpo di cavalleria. Ma la stessa falange vide un’evoluzione nella tattica d’impiego, Un elmo corinzio.